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AGGIORNAMENTO AL 30.06.2018 (ore 23,59) |
ã |
Installazione di un chiosco su proprietà
pubblica e necessità del titolo edilizio. |
L'avevamo già
evidenziato
con l'AGGIORNAMENTO
AL 05.03.2012 ma, evidentemente, i sordi
di comprendonio sono ancora molti: ecco un
recentissimo arresto del TAR meneghino che censura
(addirittura) l'operato della metropoli lombarda. |
EDILIZIA PRIVATA:
Installazione di un chiosco su proprietà pubblica e
necessità del titolo edilizio.
Per l'esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica non
è sufficiente il provvedimento di concessione per
l'occupazione occorrendo, altresì, l'ulteriore e autonomo
titolo edilizio, operante su di un piano diverso, e
rispondente a diversi presupposti, sia rispetto all'atto che
accorda l'utilizzo a fini privati di una determinata
porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri atti
autorizzativi eventualmente necessari, quali
l'autorizzazione commerciale per la vendita di determinati
prodotti (fattispecie relativa alla installazione di un
chiosco che, in base a quanto disposto nel regolamento
comunale per la disciplina del commercio sulle aree
pubbliche, dà luogo ad un manufatto chiuso, di dimensioni
contenute, generalmente prefabbricato, e strutturalmente
durevole, posato su suolo pubblico, o su aree private
soggette a servitù di uso pubblico, non rimuovibile al
termine della giornata lavorativa).
---------------
La legittimazione a contestare un provvedimento
di assegnazione in concessione di uno spazio di area
pubblica per l'installazione del chiosco è riconosciuta in
base al criterio cosiddetto della “vicinitas”, ovvero in caso di
stabile collegamento materiale tra l'immobile del ricorrente
e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi
comportino contra legem un’alterazione del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio, non essendo pertanto
necessario dimostrare il pregiudizio della situazione
soggettiva protetta, essendo il relativo danno ritenuto
sussistente in re ipsa, in considerazione della violazione
della normativa edilizia, incidendo ogni edificazione non
conforme alla normativa ed agli strumenti urbanistici
sull'equilibrio urbanistico del contesto, e sull'armonico ed
ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario
riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o
situati comunque in prossimità a quelli interessati.
La vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento
giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo
autorizzato, è infatti, sufficiente a radicare la
legittimazione ad causam, non essendo necessario accertare
in concreto se i lavori comportino o meno un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione,
dovendo ritenersi pregiudizievole in re ipsa la
realizzazione di interventi suscettibili di incidere sulla
qualità panoramica, ambientale, paesaggistica.
---------------
Il chiosco di che trattasi si troverà sul medesimo
marciapiede su cui si affacciano gli immobili dei
ricorrenti, rientrando pertanto nella visione di insieme dei
palazzi d’epoca prospicienti la zona ... che si incontra con
... peraltro pressoché adiacente al Castello Sforzesco di
Milano, e caratterizzata da un indubbio rilievo storico ed
architettonico.
L’installazione del chiosco di che trattasi, potendo
effettivamente introdurre un elemento di discontinuità
nell’area in questione, come detto connotata da immobili di
particolare pregio, è pertanto soggetta ad incidere
negativamente sul loro valore, radicando così l’interesse
dei ricorrenti alla sua contestazione.
Malgrado pertanto gli immobili dei ricorrenti non siano
confinanti al chiosco oggetto del presente giudizio, alla
luce delle peculiarità dell’area, sussistono ugualmente le
condizioni dell’azione, essendo posti ad una distanza tale
da non escludere l’interesse alla tutela giurisdizionale.
--------------
Per giurisprudenza pacifica, la prova della conoscenza
dell'atto, ai fini della decorrenza del termine ex art. 41,
c. 2, c.p.a. per proporre l'impugnativa giurisdizionale,
deve essere fornita dalla parte che la eccepisce,
trattandosi di un fatto impeditivo, ex art. 2697, c. 2 c.c.,
all’accoglimento della pretesa azionata in giudizio, dovendo
la stessa essere fornita in modo rigoroso, affinché non sia
vanificato in modo irragionevole il diritto di azione nei
confronti dei provvedimenti dell'amministrazione,
riconosciuto dal combinato disposto degli artt. 24 e 113
Cost..
--------------
Per giurisprudenza costante, ricade sul privato interessato
l'onere della prova della data di ultimazione delle opere,
essendo per il medesimo agevole fornire gli inconfutabili
atti e documenti, come, a titolo esemplificativo, fatture,
ricevute, bolle di consegna relative all'esecuzione dei
lavori o all'acquisto dei materiali, od altri elementi
probatori, capaci di radicare una ragionevole certezza circa
l'epoca di realizzazione del manufatto.
--------------
E' illegittima l'autorizzazione comunale di installazione di
un chiosco su suolo pubblico senza preventivamente
rilasciare il permesso di costruire.
Invero, in base a quanto disposto dall’art. 3, c. 1, lett.
e.5), del D.P.R. n. 380/2001, come modificato dalla L. n.
221 del 28.12.2015, tra gli "interventi di nuova
costruzione", per i quali è necessario il permesso di
costruire, rientrano anche quelli relativi l'installazione
di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere, che siano utilizzati quali ambienti di
lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad
eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze
meramente temporanee, o siano ricompresi in strutture
ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei
turisti.
Per giurisprudenza pacifica, rientrano infatti nella nozione
giuridica di costruzione, per la quale occorre il permesso
di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non
necessariamente infissi nel suolo, e pur semplicemente
aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e meramente occasionale, essendo
pertanto necessario munirsi di permesso di costruire anche
per l'installazione di un chiosco.
Malgrado la precarietà strutturale del manufatto, la sua
rimovibilità, e l’assenza di opere murarie, il chiosco non è
infatti deputato ad un suo uso per fini contingenti, quanto
invece ad un utilizzo reiterato nel tempo, come tale idoneo
ad alterare lo stato dei luoghi, con conseguente incremento
del carico urbanistico.
--------------
Non ha pregio
nella fattispecie la tesi per cui dovrebbe tuttavia trovare
applicazione unicamente la disciplina del commercio su aree
pubbliche, di cui alla
L.R. n. 6/2010, oltre a quella
regolamentare, che escluderebbero espressamente, per
l’installazione delle opere di che trattasi, il permesso di
costruire.
Ciò detto essendo la normativa in materia di commercio e
quella edilizia preordinate alla tutela di beni giuridici
differenti, dovendo pertanto essere applicate
congiuntamente, come pacificamente ritenuto in
giurisprudenza, secondo cui, malgrado le attività
commerciali siano attualmente liberamente insediabili con
riguardo al loro numero, non esistendo contingenti massimi
autorizzabili, le stesse rimangono tuttavia soggette ai
limiti fissati dalla normativa edilizia, oltreché a quella
posta a tutela dei beni culturali, ed alla pianificazione
urbanistica e paesaggistica.
L’art. 16, c. 3, della L.R. n. 6/2010 conferma peraltro espressamente la coesistenza tra
la normativa dettata in materia di commercio e quella
edilizia, prevedendo infatti che “devono comunque essere
garantite la conformità urbanistica delle aree utilizzate,
nonché, qualora necessaria ai sensi della normativa vigente,
la conformità edilizia degli edifici”.
Per l'esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica,
non è infatti sufficiente il provvedimento di concessione
per l'occupazione, occorrendo altresì l'ulteriore ed
autonomo titolo edilizio, operante su di un piano diverso, e
rispondente a diversi presupposti, sia rispetto all'atto che
accorda l'utilizzo a fini privati di una determinata
porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri atti
autorizzativi eventualmente necessari, quali
l'autorizzazione commerciale per la vendita di determinati
prodotti.
--------------
... per l'annullamento del provvedimento del 26.09.2016, con
il quale il Comune di Milano - Settore Commercio, SUAP e
Attività Produttive, ha autorizzato l'installazione di un
chiosco per la somministrazione di alimenti in -OMISSIS-
angolo -OMISSIS-, dell'autorizzazione paesaggistica n. 328
del 04.08.2016, con cui il Comune di Milano – Ufficio
Tutela del Paesaggio, sulla scorta del parere espresso dalla
Commissione per il Paesaggio, ha rilasciato l'assenso, per i
profili di sua competenza, all'installazione del chiosco,
della Deliberazione della Giunta Comunale – Settore
Commercio, SUAP e Attività Produttive, n. 2858 del 30.12.2014, con la quale sono state dettate le linee di
indirizzo per la predisposizione del bando, approvato con
Determina Dirigenziale n. 1 del 08.01.2015, anch'essa
qui gravata, per l'assegnazione di n. 82 posteggi c.d.
“extra-mercato”, tra cui figura anche il posteggio ubicato
nella posizione “-OMISSIS- -OMISSIS-”, e di ogni altro atto
ad essi preordinato, presupposto, conseguenziale e/o
comunque connesso.
...
Con delibera n. 2858 del 30.12.2014 la Giunta del Comune di
Milano ha approvato le linee guida di indirizzo per
l’assegnazione di n. 83 posteggi extra-mercato, al fine di
implementare il numero delle postazioni distribuite in tutta
la città che utilizzano strutture di vendita tipo banco,
chiosco, trespolo, e autonegozio, individuando altresì le
ubicazioni destinate alla loro installazione, e con
determina n. 1 del 08.01.2015, è stato approvato il relativo
bando pubblico.
Con il presente ricorso, gli istanti impugnano
il provvedimento di autorizzazione all’installazione
di un chiosco in
-OMISSIS- angolo -OMISSIS-, in favore del Sig. Va., in esito
alla procedura prevista dalla citata delibera n. 2858/2014,
parimenti gravata, unitamente alla relativa autorizzazione
paesaggistica, deducendo che
ciò
avrebbe dovuto essere preceduto dal rilascio di un permesso
di costruire (primo motivo), la mancanza di una puntuale
istruttoria in ordine alla sua compatibilità con le
caratteristiche dell’area (secondo motivo), che ne
pregiudicherebbe la viabilità (terzo motivo) ed il decoro
architettonico (quarto motivo), oltreché la ritardata
conclusione dei lavori (quinto motivo).
...
I) In via preliminare, il Collegio deve scrutinare le
eccezioni di inammissibilità del ricorso, che sono tuttavia
infondate.
I.1.1) Con una prima eccezione, la difesa comunale deduce la
carenza di interesse ed il difetto di legittimazione attiva
in capo ai ricorrenti, evidenziando che, mentre nell’atto
introduttivo del giudizio, essi si dichiarano residenti
nella zona di -OMISSIS-, nella procura alle liti, solo una
parte di essi (17 su 26), deduce di essere residente nelle
vicinanze dell’area di cui in oggetto. In ogni caso, gli
istanti non dimostrerebbero “quali interessi specifici”
sarebbero effettivamente lesi dai provvedimenti impugnati,
limitandosi ad evidenziare potenziali pregiudizi alla
viabilità, ed all’utilizzazione di taluni servizi.
Analogamente, secondo il controinteressato, premesso che “il
criterio della vicinitas non sarebbe stato sufficiente a
fornire le condizioni dell’azione”, in ogni caso, “i
ricorrenti avrebbero dovuto provare di essere residenti”,
laddove invece, alcuni di loro, avrebbero ammesso di esserlo
in zone diverse da quelle interessate dai provvedimenti
impugnati.
Con la citata ordinanza n. 211/2018, rilevato che i
ricorrenti si erano limitati a dichiarare la loro residenza,
nell’atto di procura alle liti, e che effettivamente, per
alcuni di loro, la stessa non si trova nelle vicinanze del
chiosco oggetto dei provvedimenti impugnati, ai fini dello
scrutinio dell’eccezione, il Collegio ha ordinato di
depositare in giudizio documentazione comprovante il loro
collegamento con l'area interessata dall'intervento, ciò a
cui hanno provveduto in data 19.03.2018.
I.1.2) In linea generale, osserva il Collegio che la
legittimazione a contestare un provvedimento di assegnazione
in concessione di uno spazio di area pubblica per
l'installazione del chiosco è riconosciuta in base al
criterio cosiddetto della “vicinitas”, ovvero in caso di
stabile collegamento materiale tra l'immobile del ricorrente
e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi
comportino contra legem un’alterazione del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio, non essendo pertanto
necessario dimostrare il pregiudizio della situazione
soggettiva protetta, essendo il relativo danno ritenuto
sussistente in re ipsa, in considerazione della violazione
della normativa edilizia, incidendo ogni edificazione non
conforme alla normativa ed agli strumenti urbanistici
sull'equilibrio urbanistico del contesto, e sull'armonico ed
ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario
riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o
situati comunque in prossimità a quelli interessati (TAR
Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 23.02.2017, n. 109).
La vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento
giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo
autorizzato, è infatti sufficiente a radicare la
legittimazione ad causam, non essendo necessario accertare
in concreto se i lavori comportino o meno un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione,
dovendo ritenersi pregiudizievole in re ipsa la
realizzazione di interventi suscettibili di incidere sulla
qualità panoramica, ambientale, paesaggistica (C.S. Sez. IV,
09.09.2014, n. 4547).
I.1.3) Con riferimento al caso di specie, in esito alla
citata ordinanza istruttoria, i ricorrenti hanno dimostrato
la loro vicinitas con il chiosco oggetto del presente
giudizio, dovendosi pertanto respingere l’eccezione.
In particolare, gli istanti hanno infatti depositato i
certificati di residenza di n. 9 ricorrenti, relativi al
civico n. 63 di -OMISSIS-, posto a circa 20 m. dal chiosco,
e di n. 8 ricorrenti, residenti al civico n. 67, posto a
circa 70 metri dal chiosco, dimostrando pertanto la
sussistenza del loro stabile collegamento con l’area oggetto
del presente giudizio.
Come desumibile dall’esame del materiale fotografico e dalle
planimetrie depositate in giudizio, ed ulteriormente
illustrate dalle parti nel corso dell’udienza pubblica, il
chiosco di che trattasi si troverà sul medesimo marciapiede
su cui si affacciano gli immobili dei ricorrenti, rientrando
pertanto nella visione di insieme dei palazzi d’epoca
prospicienti la zona di -OMISSIS- che si incontra
con -OMISSIS-, peraltro pressoché adiacente al Castello
Sforzesco di Milano, e caratterizzata da un indubbio rilievo
storico ed architettonico.
L’installazione del chiosco di che trattasi, potendo
effettivamente introdurre un elemento di discontinuità
nell’area in questione, come detto connotata da immobili di
particolare pregio, è pertanto soggetta ad incidere
negativamente sul loro valore, radicando così l’interesse
dei ricorrenti alla sua contestazione (C.S., Sez. IV,
08.01.2016, n. 35).
Malgrado pertanto gli immobili dei ricorrenti non siano
confinanti al chiosco oggetto del presente giudizio, alla
luce delle peculiarità dell’area, sussistono ugualmente le
condizioni dell’azione, essendo posti ad una distanza tale
da non escludere l’interesse alla tutela giurisdizionale
(C.S., Sez. VI, 05.01.2015, n. 11).
I.1.4) Quanto infine a 3 ricorrenti, che hanno comprovato il
loro diritto di proprietà su talune unità immobiliari poste
al civico 63, senza tuttavia esservi residenti, ed altri 6,
che hanno invece documentato lo svolgimento di attività
commerciale e di amministratore di condominio nello stesso,
evidenzia il Collegio che, in primo luogo, la giurisprudenza
considera provata la vicinitas, in relazione ad una
situazione di stabile collegamento, anche a fronte di un
titolo di frequentazione della zona interessata (TAR
Puglia, Lecce, Sez. III, 30.01.2018, n. 126, TAR
Lombardia, Milano, Sez. III, 08.03.2013, n. 627), e che
comunque, anche ritenendo gli stessi privi di interesse ad
agire, ciò non pregiudicherebbe l’ammissibilità del ricorso,
con riferimento alle restanti posizioni.
Per giurisprudenza pacifica, il ricorso collettivo si
risolve infatti in una pluralità di azioni contestualmente
proposte mediante un unico atto, non comunicandosi agli
altri le posizioni soggettive di ciascuno dei ricorrenti,
tanto che un’eventuale pronuncia di inammissibilità
dell’azione per uno dei ricorrenti, non preclude comunque
una pronuncia di merito per l’altro (TAR Lombardia,
Milano, Sez. III, 17.12.2012, n. 3056).
I.2.1) Con una seconda eccezione, il controinteressato
deduce l’inammissibilità del ricorso per mancata notifica ai
controinteressati.
Avendo infatti gli istanti impugnato anche i provvedimenti
che hanno assegnato agli operatori economici selezionati la
gestione di altri chioschi, l’accoglimento del presente
ricorso, a loro dire, pregiudicherebbe anche la loro
posizione, rivestendo pertanto gli stessi la qualifica di
controinteressati necessari.
In particolare, poiché in caso di annullamento dei
provvedimenti oggetto del presente giudizio deriverebbe “la
chiusura di tutti i chioschi presenti sul territorio
comunale in forza del bando impugnato”, dovrebbe ritenersi
che gli istanti abbiano presentato “tante autonome domande
di annullamento rivolte nei confronti di tutti i concorrenti
che sono stati selezionati per l’ottenimento dei posteggi”.
I.2.2) Osserva in contrario il Collegio che, malgrado i
ricorrenti abbiano effettivamente impugnato, oltre
all’autorizzazione all’installazione del chiosco da
collocarsi in -OMISSIS-, e la relativa autorizzazione
paesaggistica, anche la citata delibera n. 2858/2014, in
materia di linee di indirizzo per la predisposizione del
bando per l’assegnazione dei posteggi “extra mercato”,
tuttavia, ciò ha avuto luogo, coerentemente al loro
interesse, nella parte in cui “figura anche il posteggio
ubicato nella posizione -OMISSIS- -OMISSIS-”.
Come sopra evidenziato, i ricorrenti non sono infatti
operatori economici, interessati a contestare l’illegittima
modalità di svolgimento della procedura di assegnazione
delle postazioni commerciali, quanto invece residenti, o
comunque titolari di posizioni qualificate, strettamente
correlate all’area in cui verrà posizionato il chiosco del
controinteressato.
Per giurisprudenza pacifica, l’esercizio dei poteri di
interpretazione della domanda attribuiti al giudice devono
infatti muovere dall’individuazione del bene giuridico cui
l’interessato aspira, e che l'attività amministrativa gli ha
negato, dovendo a tal fine considerarsi, al di là delle
espressioni formali utilizzate dalle parti, la concreta
situazione dedotta in causa, e le effettive finalità che la
parte intende perseguire (C.S. Sez. V, 23.02.2018, n. 1147,
che conferma TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 2933/2014).
Conseguentemente, l’eventuale pronuncia di annullamento dei
provvedimenti in questa sede impugnati, non produrrebbe
alcun effetto nei confronti degli ulteriori assegnatari, che
non sono pertanto controinteressati nel presente giudizio,
ferma restando ovviamente la facoltà, in capo al Comune, di
adottare ulteriori provvedimenti nei loro confronti,
suscettibili di essere autonomamente contestati.
Peraltro, osserva incidentalmente il Collegio come la citata
delibera n. 2858/2014 non abbia espressamente prescritto che
le installazioni oggetto dei posteggi “extra mercato”
debbano essere prive del permesso di costruire, avendo
infatti principalmente ad oggetto la “selezione degli
operatori per il commercio su area pubblica con le modalità
previste dalla L.R. 02.02.2010 n. 6 Testo Unico delle leggi
regionali in materia di commercio e fiere, e dal Regolamento
per la Disciplina del Commercio su aree pubbliche adottato
con Delibera di Consiglio Comunale n. 9/2013”, non incidendo
pertanto sulla disciplina urbanistica ed edilizia
applicabile, i cui contenuti non possono che essere desunti
dalle relative disposizioni speciali in materia.
I.3.1) Con un’ulteriore eccezione, il controinteressato
deduce l’inammissibilità del ricorso per tardiva
impugnazione dei provvedimenti gravati, essendo gli stessi
stati pubblicati all’Albo Pretorio del Comune.
L’eccezione va respinta, non avendo l’istante in realtà
fornito la prova di detta pubblicazione, che è stata
espressamente contestata dai ricorrenti.
Per giurisprudenza pacifica, la prova della conoscenza
dell'atto, ai fini della decorrenza del termine ex art. 41,
c. 2, c.p.a. per proporre l'impugnativa giurisdizionale,
deve essere fornita dalla parte che la eccepisce,
trattandosi di un fatto impeditivo, ex art. 2697, c. 2 c.c.,
all’accoglimento della pretesa azionata in giudizio, dovendo
la stessa essere fornita in modo rigoroso, affinché non sia
vanificato in modo irragionevole il diritto di azione nei
confronti dei provvedimenti dell'amministrazione,
riconosciuto dal combinato disposto degli artt. 24 e 113
Cost. (C.S., Sez. V, 03.02.2016 n. 424).
I.3.2) Sotto altro aspetto, evidenzia il controinteressato
che, a prescindere dalla pubblicazione dei provvedimenti
impugnati all’Albo Pretorio, i ricorrenti erano comunque al
corrente dell’installazione del chiosco in una data
antecedente al termine di sessanta giorni dalla proposizione
del ricorso, e precisamente, in relazione ai lavori occorsi
per la sua installazione, documentando le date di loro
effettuazione.
In via preliminare, osserva il Collegio che, per
giurisprudenza costante, ricade sul privato interessato
l'onere della prova della data di ultimazione delle opere,
essendo per il medesimo agevole fornire gli inconfutabili
atti e documenti, come, a titolo esemplificativo, fatture,
ricevute, bolle di consegna relative all'esecuzione dei
lavori o all'acquisto dei materiali, od altri elementi
probatori, capaci di radicare una ragionevole certezza circa
l'epoca di realizzazione del manufatto (TAR
Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 27.09.2017, n. 638), ciò
che non ha tuttavia avuto luogo nel caso di specie.
La documentazione che secondo l’interessato comproverebbero
l’esecuzione dei lavori, menziona infatti un sopralluogo
effettuato in data 02.02.2016, tuttavia antecedente al
posizionamento del chiosco, richiedendosi il relativo nulla
osta (doc. n. 15), oltreché l’esecuzione dei lavori
necessari agli allacciamenti delle utenze (docc.ti 16-19),
senza invece minimamente comprovare la sua vera e propria
installazione, dovendosi pertanto respingere l’eccezione.
I.3.3) Un’ulteriore prova dell’avvenuta cognizione degli
interventi oggetto del presente giudizio, sarebbe inoltre
fornita da una lettera indirizzata dai ricorrenti al Sindaco
di Milano, pubblicata in data 30.04.2017 su un quotidiano
locale, in cui gli stessi si lamentano della costruzione del
chiosco di che trattasi.
Anche detti rilievi sono infondati, essendo il ricorso stato
notificato in data 16.06.2017, e pertanto prima di sessanta
giorni decorrenti dalla pubblicazione della citata lettera,
senza che il controinteressata abbia dimostrato l’esistenza
di altre comunicazioni dei ricorrenti antecedenti.
I.4) Ulteriormente, il controinteressato deduce
l’inammissibilità del ricorso, per mancata impugnazione di
atti presupposti, ed in particolare, della delibera n.
1036/2012, che avrebbe dettato i criteri per il rilascio
delle concessioni per l’installazione dei chioschi, e della
graduatoria definitiva pubblicata in data 08.05.2015, oltreché
del Regolamento per la disciplina del Commercio sulle Aree
Pubbliche, del Regolamento Cosap, del Regolamento Edilizio,
del Regolamento per la Disciplina del diritto ad occupare il
Suolo, del Regolamento sul sistema dei controlli interni,
del parere favorevole condizionato del 15.09.2015 del Settore
Pianificazione e Programmazione, dell’Ufficio Programmazione
Mobilità, dell’Ufficio Programmazione Arredo Urbano, quello
del Settore Tecnico Infrastrutture e Arredo Urbano del
24.08.2015, dell’Autorizzazione Paesaggistica della
Commissione del paesaggio del 04.08.2016, e della Relazione
del Settore Tecnico Infrastrutture e Arredo Urbano del 04.03.2016.
Anche tale eccezione è infondata, non avendo il
controinteressato comprovato che gli atti di cui lamenta la
mancata impugnazione prevedessero la possibilità di
autorizzare i chioschi con le modalità contestate nel
ricorso, ed in primis, in assenza del permesso di costruire.
...
II.1) Quanto al merito, con il primo motivo, l’istante
deduce l’illegittimità dell’autorizzazione all’installazione
del chiosco per cui è causa, rilasciata dal Comune di Milano
al controinteressato, in considerazione del mancato rilascio
di un permesso di costruire avente ad oggetto tale
struttura, ciò che sarebbe invece stato necessario,
trattandosi di un’opera permanente e non rimuovibile.
II.1.1) Osserva il Collegio che, in base a quanto disposto
nell’art. 25, punto 3, del Regolamento per la disciplina del
commercio sulle aree pubbliche del Comune di Milano, la
struttura di tipo “chiosco”, dà luogo ad un manufatto
chiuso, di dimensioni contenute, generalmente prefabbricato,
e strutturalmente durevole, posato su suolo pubblico, o su
aree private soggette a servitù di uso pubblico, non
rimuovibile al termine della giornata lavorativa.
In base a quanto disposto dall’art. 3, c. 1, lett. e.5), del
D.P.R. n. 380/2001, come modificato dalla L. n. 221 del
28.12.2015, tra gli "interventi di nuova costruzione", per i
quali è necessario il permesso di costruire, rientrano anche
quelli relativi l'installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, che siano
utilizzati quali ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti
a soddisfare esigenze meramente temporanee, o siano
ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e
il soggiorno dei turisti.
In relazione a quanto sopra, il motivo va pertanto accolto,
avendo il Comune di Milano illegittimamente autorizzato
l’installazione del chiosco in -OMISSIS- angolo -OMISSIS-,
senza preventivamente rilasciare il permesso di costruire.
Per giurisprudenza pacifica, rientrano infatti nella nozione
giuridica di costruzione, per la quale occorre il permesso
di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non
necessariamente infissi nel suolo, e pur semplicemente
aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e meramente occasionale, essendo
pertanto necessario munirsi di permesso di costruire anche
per l'installazione di un chiosco (TAR Campania, Napoli,
Sez. VIII, 05.05.2016, n. 2282).
Malgrado la precarietà strutturale del manufatto, la sua
rimovibilità, e l’assenza di opere murarie, il chiosco non è
infatti deputato ad un suo uso per fini contingenti, quanto
invece ad un utilizzo reiterato nel tempo (TAR Calabria,
Catanzaro, Sez. I, 13.03.2017, n. 409), come tale idoneo ad
alterare lo stato dei luoghi, con conseguente incremento del
carico urbanistico (C.S., Sez. VI, 03.06.2014 n. 2842).
II.1.2) Secondo la difesa comunale e della controinteressata,
nella fattispecie per cui è causa, dovrebbe tuttavia trovare
applicazione unicamente la disciplina del commercio su aree
pubbliche, di cui alla
L.R. n. 6/2010, oltre a quella
regolamentare, che escluderebbero espressamente, per
l’installazione delle opere di che trattasi, il permesso di
costruire.
Detti argomenti non hanno tuttavia pregio, essendo la
normativa in materia di commercio e quella edilizia
preordinate alla tutela di beni giuridici differenti,
dovendo pertanto essere applicate congiuntamente, come
pacificamente ritenuto in giurisprudenza, secondo cui,
malgrado le attività commerciali siano attualmente
liberamente insediabili con riguardo al loro numero, non
esistendo contingenti massimi autorizzabili, le stesse
rimangono tuttavia soggette ai limiti fissati dalla
normativa edilizia, oltreché a quella posta a tutela dei
beni culturali, ed alla pianificazione urbanistica e
paesaggistica (TAR Marche, Sez. I, 16.04.2014, n. 434).
L’art. 16, c. 3, della L.R. n. 6/2010, invocato dalla difesa
comunale, conferma peraltro espressamente la coesistenza tra
la normativa dettata in materia di commercio e quella
edilizia, prevedendo infatti che “devono comunque essere
garantite la conformità urbanistica delle aree utilizzate,
nonché, qualora necessaria ai sensi della normativa vigente,
la conformità edilizia degli edifici”.
Per l'esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica,
non è infatti sufficiente il provvedimento di concessione
per l'occupazione, occorrendo altresì l'ulteriore ed
autonomo titolo edilizio, operante su di un piano diverso, e
rispondente a diversi presupposti, sia rispetto all'atto che
accorda l'utilizzo a fini privati di una determinata
porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri atti
autorizzativi eventualmente necessari, quali
l'autorizzazione commerciale per la vendita di determinati
prodotti (C.S. Sez. VI, 27.02.2012 n. 1106).
II.1.3) Parimenti, anche la giurisprudenza citata dalla
difesa resistente (C.S., Sez. V, 05.11.2012, n. 5589, TAR
Sicilia, Catania, Sez. I, 19.09.2013, n. 2248), conferma in
realtà la fondatezza del motivo, in quanto riferita ad una
fattispecie in cui era il Comune a realizzare le opere in
assenza del permesso di costruire, essendo a tal fine
equipollente la delibera del consiglio o della giunta
comunale accompagnata da un progetto riscontrato conforme
alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, laddove il
chiosco oggetto del presente giudizio è in proprietà
esclusiva del controinteressato, non rientrando inoltre nel
concetto di “opera pubblica”, come invece aveva luogo nelle
citate decisioni.
Analogamente, anche i precedenti di questo Tribunale (Sez.
I, 22.12.2014 n. 3123, 19.12.2013, n. 2889) non risultano
pertinenti, in quanto aventi ad oggetto fattispecie
antecedenti all’entrata in vigore della citata L. n.
221/2015, disciplinate da una differente versione del
Regolamento Edilizio Comunale, ed in ogni caso, riferite ad
“un manufatto in uso precario e amovibile”, la cui
installazione era prevista per un periodo inferiore a dodici
mesi (n. 3123/2014 cit.), diversamente da quello per cui è
causa.
Neppure infine è pertinente alla fattispecie oggetto del
presente giudizio C.S., Sez. VI, 21.11.2017 n. 5394, sia in
quanto dettata in materia di impianti pubblicitari, sia
soprattutto poiché, in tale pronuncia, il giudice d’appello
non ha ravvisato la necessità di richiedere il titolo
edilizio per la loro installazione, ritenendo che i vincoli
previsti dall’art. 3 D.Lgs. n. 507/1993, tuttavia estraneo
alla fattispecie per cui è causa, di per sé, tutelassero
adeguatamente il corretto assetto del territorio.
II.1.4) Da ultimo, anche il richiamo all’art. 116, c. 4, del
Regolamento Edilizio Comunale, secondo cui i chioschi, se
realizzati su suolo pubblico, “non costituiscono oggetto di
titolo abilitativo edilizio, ma sono installati secondo le
modalità previste dai provvedimenti che autorizzano l’uso
del suolo”, risulta irrilevante nel presente giudizio.
Come infatti correttamente osservato dai ricorrenti, detta
norma si riferisce ai “manufatti provvisori”, la cui
“permanenza non può superare i ventiquattro mesi”, laddove
invece quello per cui è causa sarà installato per una durata
di dodici anni.
Ad abundantiam, osserva il Collegio che anche ove
l’art. 116 cit. potesse essere letto nei termini suggeriti
dal controinteressato, ciò risulterebbe tuttavia
incompatibile con l’art. 3, c. 1, lett. e), del D.P.R. n.
380/2001 citato, come modificato dalla L. n. 221/2015,
trovando in tal caso applicazione il c. 2 dello stesso art.
3, secondo cui “le definizioni di cui al comma 1 prevalgono
sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e
dei regolamenti edilizi”, dovendo in tal caso il Collegio
disporre in parte qua la disapplicazione del Regolamento
Edilizio Comunale, in quanto contrastante, in termini di
palese contrapposizione, con il disposto legislativo
primario (C.S., Sez. V, 28.09.2016 n. 4009).
...
In conclusione, il ricorso va pertanto accolto, quanto al
primo motivo, e respinto per il resto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.06.2018 n. 1485 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I manufatti non precari, ma funzionali a
soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come
idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro
incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la
precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della
struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il
manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è
deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato
ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in
quanto stagionale.
Si è condivisibilmente osservato al riguardo che la
precarietà dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso
del permesso di costruire, postula un uso specifico e
temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità,
la quale non esclude la destinazione del manufatto al
soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti,
ma permanenti nel tempo.
Sotto tale aspetto, il Collegio ritiene che per le sue
caratteristiche tipologiche e funzionali, nonché in
considerazione del regime temporale della relativa
utilizzazione il manufatto per cui è causa (ndr: chiosco di
circa 110 mq.) sia riconducibile alle previsioni di cui alla
lettera e.5) del comma 1 dell’articolo 3 d.P.R. n. 380 del
2001, a tenore del quale sono comunque da considerarsi nuove
costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano
usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee”.
Al riguardo, giova qui richiamare il condiviso orientamento
secondo cui non possono comunque essere considerati
manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente
temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante
nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può
essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità
dell’installazione del manufatto per cui è causa (destinato
ad occupare circa 110 mq.) conferisca al manufatto nel suo
complesso il carattere di “temporaneità”, atteso il
carattere ontologicamente “non temporaneo” di una struttura
destinata all’esercizio di un’attività commerciale e di
somministrazione.
---------------
7. Il ricorso principale è infondato e deve essere
rigettato.
Riguardo ai caratteri del gazebo in questione, esteso circa
110 mq, il Collegio ritiene di richiamare l’orientamento –da
quale non si rinvengono elementi per discostarsi– secondo
cui i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare
esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad
alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del
carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà
strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e
l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non
precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo
uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo
destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto
stagionale.
Si è condivisibilmente osservato al riguardo che la
precarietà dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso
del permesso di costruire, postula un uso specifico e
temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità,
la quale non esclude la destinazione del manufatto al
soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti,
ma permanenti nel tempo (in tal senso: Cons. Stato, VI,
03.06.2014, n. 2842; Cons. Stato, IV, 22.12.2007, n. 6615).
Sotto tale aspetto, il Collegio ritiene che per le sue
caratteristiche tipologiche e funzionali, nonché in
considerazione del regime temporale della relativa
utilizzazione il manufatto per cui è causa sia riconducibile
alle previsioni di cui alla lettera e.5) del comma 1
dell’articolo 3 d.P.R. n. 380 del 2001, a tenore del quale
sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le
installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e
di strutture di qualsiasi genere che siano usati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee”.
Al riguardo, giova qui richiamare il condiviso orientamento
secondo cui non possono comunque essere considerati
manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente
temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante
nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può
essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (Cons.
Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842; id, VI, 12.02.2011, n. 986;
id., V, 12.12.2009, n. 7789;. id., V, 24.02.2003, n. 986;
id., V, 24.02.1996, n. 226).
Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità
dell’installazione del manufatto per cui è causa (destinato
ad occupare circa 110 mq.) conferisca al manufatto nel suo
complesso il carattere di “temporaneità”, atteso il
carattere ontologicamente “non temporaneo” di una
struttura destinata all’esercizio di un’attività commerciale
e di somministrazione (in tal senso: Cons. Stato, VI,
03.06.2014, n. 2842; Cons. Stato, IV, 23.07.2009, n. 4673).
Tanto premesso, deve ritenersi legittimo l’operato
dell’Amministrazione intimata che ha correttamente
configurato come costruzione il manufatto in oggetto e ha,
pertanto, negato il titolo abilitativo in quanto l’opera non
era conforme al Programma di fabbricazione del Comune per il
mancato rispetto delle distanze dei confini e delle strade.
Alla legittimità del diniego dell’autorizzazione consegue la
legittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata in
quanto l’opera è stata eseguita in assenza della prescritta
concessione edilizia (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 13.03.2017 n. 409
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per
l'installazione di un chiosco è necessario munirsi di
permesso di costruire; si deve, infatti, valutare l'opera
alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione
naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione
giuridica di “costruzione”, per la quale occorre il permesso
di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non
necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente
aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo
stabile, non irrilevante e meramente occasionale.
I manufatti non precari, in quanto funzionali a soddisfare
esigenze permanenti, devono ritenersi idonei ad alterare lo
stato dei luoghi, con conseguente incremento del carico
urbanistico, a nulla rilevando la loro eventuale precarietà
strutturale, la rimovibilità della struttura e l'assenza di
opere murarie (come, ad esempio, per gazebo o chioschi); in
tal senso, la “precarietà” dell'opera, che esonera
dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula
un uso specifico e temporalmente limitato del bene, mentre
la precarietà dei materiali utilizzati non esclude la
destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze
non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo, tali
per cui lo stesso è riconducibile nell'ipotesi prevista alla
lett. e.5) del comma 1 dell'art. 3 del D.P.R. n. 380 del
2001 - che include tra le nuove costruzioni le installazioni
di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti
di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che
non siano diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee”.
---------------
Devono, infatti,
ritenersi infondati i tre motivi di ricorso, che si ritiene
di poter valutare congiuntamente.
Al riguardo il Collegio, condividendo la giurisprudenza
amministrativa prevalente, dalla quale non ha motivo di
discostarsi, ritiene che per l'installazione di un chiosco è
necessario munirsi di permesso di costruire; si deve,
infatti, valutare l'opera alla luce della sua obiettiva ed
intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza che
rientrano nella nozione giuridica di “costruzione”,
per la quale occorre il permesso di costruire, tutti quei
manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel
suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo
stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e
meramente occasionale (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, sez. II,
05.03.2015, n. 478).
I manufatti non precari, in quanto funzionali a soddisfare
esigenze permanenti, devono ritenersi idonei ad alterare lo
stato dei luoghi, con conseguente incremento del carico
urbanistico, a nulla rilevando la loro eventuale precarietà
strutturale, la rimovibilità della struttura e l'assenza di
opere murarie (come, ad esempio, per gazebo o chioschi); in
tal senso, la “precarietà” dell'opera, che esonera
dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula
un uso specifico e temporalmente limitato del bene, mentre
la precarietà dei materiali utilizzati non esclude la
destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze
non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo, tali
per cui lo stesso è riconducibile nell'ipotesi prevista alla
lett. e.5) del comma 1 dell'art. 3 del D.P.R. n. 380 del
2001 - che include tra le nuove costruzioni le installazioni
di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti
di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e
che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI,
03.06.2014, n. 2842).
Passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame,
l’ordinanza di demolizione impugnata è stata adottata ai
sensi dell’articolo 31 del d.p.r. n. 380 del 2001, in
riferimento alla scia presentata in data 27.01.2012 per
l’istallazione di un chiosco per la somministrazione di
alimenti e bevande, da installare in un area di pertinenza
del Comando Provinciale Vigili del Fuoco, antistante
l’ingresso principale, alla via G. Falcone, a seguito di
quanto emerso dalla comunicazione prot. n. 12637 del
17.02.2012, relativa all’esito del sopralluogo effettuato
dalla Polizia Municipale il 15.02.2012, sulla base della
seguente motivazione: “in quanto trattasi di opere
eseguite in assenza di Permesso di Costruire”.
Alla luce della richiamata giurisprudenza, la suddetta
ordinanza di demolizione deve ritenersi legittimamente
adottata nei confronti del ricorrente per la risolutiva
circostanza della necessarietà del permesso di costruire,
posta a fondamento dell’ordinanza di demolizione stessa
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 05.05.2016 n. 2282
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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Ancora in materia di
debiti fuori bilancio... |
ATTI
AMMINISTRATIVI - APPALTI: La
Sezione Autonomie chiude al pagamento del debito fuori bilancio prima del
consiglio.
Diversamente dall’ultime indicazioni dei giudici contabili (si veda il
Quotidiano degli enti locali e della Pa del 31 gennaio) sulla possibilità
del pagamento dei debiti fuori bilancio originati da sentenze esecutive
prima del loro formale riconoscimento in consiglio comunale, la Sezione
delle Autonomie, con la
deliberazione 28.03.2018 n. 4,
chiude la porta a questa ipotesi stabilendo che il riconoscimento e la
copertura finanziaria del debito fuori bilancio spetti, in via esclusiva e
non delegabile, alla sola massima assise comunale (si veda il Quotidiano
degli enti locali e della Pa del 20 aprile).
La posizione delle Sezioni regionali
Un primo parere, sulla possibilità di procedere al pagamento del debito
fuori bilancio, limitatamente alle sentenze esecutive, prima del suo formale
riconoscimento in Consiglio comunale, è della Sezione Campania
(parere 10.01.2018 n. 2) essendo i pagamenti certi sia nell'an che nel
quantum. Tale possibilità è stata successivamente confermata dalla Sezione
Liguria (parere 22.03.2018 n. 73) che ha indicato, inoltre, il seguente
iter:
a) mediante pagamento disposto dal dirigente della spesa su capitoli
esistenti;
b) mediante variazioni di competenza della giunta comunale;
c) e, in ultima istanza, mediante variazioni di urgenza da parte dell'organo
esecutivo, secondo gli articoli 42, comma 4, e 175, comma 4, del Tuel. Le
motivazioni di entrambi gli orientamenti discendono dall'evitare ulteriori
spese a carico dell'ente locale in caso di inerzia del consiglio.
Le indicazioni della Sezione delle Autonomie
Tra i contenuti dell'analisi della situazione finanziaria degli enti locali,
nel primo anno di applicazione della contabilità armonizzata sui dati del
consuntivo 2016, la Sezione delle Autonomie si sofferma in modo particolare
sul fenomeno dei debiti fuori bilancio e delle evidenti criticità che da
questi debiti discendono.
Prima di analizzare le conseguenze di un ritardo
del loro riconoscimento da parte del consiglio comunale, i giudici contabili
precisano che «la procedura da seguire per ricondurre nella contabilità
dell'Ente i debiti fuori bilancio consiste nel riconoscimento, in via
esclusiva e non delegabile, da parte dell'organo consiliare di quest'ultimo
che, con apposita delibera, accerta o autorizza la riconducibilità del
debito ad una delle fattispecie previste dal legislatore, le cause della sua
formazione e le eventuali responsabilità, individuando, quindi, le risorse
necessarie per provvedere al relativo pagamento».
Precisando, inoltre che
«la copertura del debito avvenga con il riconoscimento di legittimità, in
qualsiasi momento questo si determini». È evidente, quindi, come anche per
le sentenze esecutive l'unico organo competente, prima della disposizione
del pagamento, resti solo il consiglio non potendo essere accettate altre
modalità di liquidazione indicate dalle Sezioni regionali.
Il ritardo nel riconoscimento del debito
Una volta chiarita in via definitiva la competenza, la Corte indica anche le
conseguenze di un possibile ritardo del riconoscimento del debito e, in
particolare:
• con l'introduzione del Dlgs 118/2011 il relativo principio applicato n.
4/2 ha statuito i criteri per una corretta contabilizzazione dei debiti
fuori bilancio riconosciuti, stabilendo che essi vanno sempre imputati
all'esercizio di scadenza, anche se riconosciuti successivamente alla
chiusura dell'esercizio e rilevati in sede di rendiconto, mediante correlata
riduzione del risultato di amministrazione;
• si sarebbe in presenza di una violazione del principio di veridicità dei
documenti e delle risultanze contabili e, nel contempo, verrebbero alterate
le risultanze rilevanti ai fini del rispetto dei vincoli di finanza pubblica
(si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 10 aprile) e degli
equilibri di bilancio.
La Corte, infine, fa presente che agli enti locali che presentino,
nell'ultimo rendiconto deliberato, un disavanzo di amministrazione, ovvero
debiti fuori bilancio, ancorché da riconoscere, nelle more della variazione
di bilancio che dispone la copertura del disavanzo e del riconoscimento e
finanziamento del debito fuori bilancio, è fatto divieto di assumere impegni
e pagare spese per servizi non espressamente previsti per legge (articolo
188, comma 1-quater, del Tuel)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.04.2018).
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7 DEBITI FUORI BILANCIO
7.1 I criteri armonizzati d’imputazione
La riforma dei sistemi contabili si fonda su importanti principi generali
dal cui rispetto dipende
la sana gestione degli Enti. Il filo conduttore che rende omogeneo un intero
ciclo di bilancio è
quello che lega gli obblighi della programmazione, osservando un’attendibile
previsione di entrate
e spese, sia in termini di competenza sia in termini di cassa, a quelli
della corretta contabilizzazione
ed imputazione delle stesse e ad una loro attenta rendicontazione, il tutto
funzionale ad una
gestione rispettosa della regola costituzionale dell’obbligo del pareggio di
bilancio. Le patologie
delle gestioni, sia che attengano a puntuali irregolarità
amministrativo-contabili, sia che
raggiungano i livelli strutturali della costruzione del bilancio deliberato
in pareggio finanziario,
producono effetto sugli equilibri.
L’alterazione degli equilibri di bilancio può essere, infatti,
imputabile,
tra le varie cause, alla
presenza dei debiti fuori bilancio214,
cioè ad obbligazioni che, non essendo registrate da subito nelle
scritture contabili dell’Ente, restano fuori dalla programmazione
finanziaria. La disciplina
legislativa che declina i principi di gestione di cui al capo IV del Titolo
III della parte II del Tuel,
in quanto finalizzata alla migliore applicazione dei principi di veridicità,
trasparenza ed equilibrio
di bilancio, obbliga i singoli Enti, al ricorrere dei presupposti, ad
adottare con tempestività i
provvedimenti di riconoscimento dei debiti fuori bilancio, onde evitare la
formazione di oneri
aggiuntivi a carico dell’Ente, come eventuali interessi o spese di
giustizia.
Rafforza tale obbligo anche la previsione contenuta nell’art. 188-quater,
Tuel, secondo il quale
nelle more del finanziamento e riconoscimento dei predetti debiti, non è
possibile assumere
impegni e pagare spese non previsti dalla legge.
Peraltro il corretto sviluppo della programmazione finanziaria è presidiato
da rilevanti momenti
di verifica come quello di cui all’art. 193, co. 2, lett. b), Tuel, che
obbliga il Consiglio a deliberare,
almeno una volta l’anno, il permanere degli equilibri, assumendo, ove
necessario, i relativi
provvedimenti di ripiano così come previsti dal legislatore all’art. 194,
Tuel.
Naturalmente anche la riconduzione in bilancio di spese non programmate ne
impone la copertura
e, per lo più inevitabilmente, l’adozione di misure di ripiano che siano
coerenti con gli equilibri di
bilancio, misure che il consiglio comunale assume, contestualmente, alla
rilevazione dei debiti, così come, più in generale, degli squilibri per il
ripristino del pareggio, e ciò con facoltà di utilizzare
anche l’avanzo libero come mezzo di copertura nel caso di insufficienza
delle altre risorse, che in
via principale devono essere utilizzate secondo le previsioni dell’art. 193, co. 3.
Il rigore dei provvedimenti di riequilibrio è dimostrato dal fatto che il
mancato ripiano è
equiparato alla mancata approvazione del bilancio di previsione (art. 193,
co. 4) con la
conseguente applicazione della procedura di scioglimento del consiglio
comunale di cui al co. 2,
art. 141, Tuel.
Occorre considerare che le misure di risanamento ex art. 193 Tuel segnano il
confine con le
eventuali diverse misure che si rendono necessarie in caso di squilibrio
strutturale che integra una
condizione di precarietà finanziaria più estesa. In tale prospettiva si pone
il ricorso alla procedura
di riequilibrio finanziario pluriennale prevista dall'art. 243-bis, Tuel,
che richiede la preliminare
ricognizione complessiva di tutta la massa debitoria, compresa quella
cosiddetta sommersa, che
si riconosce grazie all’applicazione dell’art. 194, Tuel. In caso contrario,
oltre a violare lo specifico
disposto di cui all’art. 243-bis, Tuel, si altererebbe l’attendibilità
complessiva del Piano di
riequilibrio, la cui disciplina è stata di recente modificata dall’art. 1,
co. 888, della legge di bilancio
per il 2018. Esso è anche indispensabile per accedere ad un Fondo di
rotazione per assicurare la
stabilità finanziaria degli Enti locali, presso il Ministero dell’Interno.
Sempre in un’ottica di sana gestione, risulta opportuno che l’Ente, in sede
di programmazione,
per garantire il mantenimento dell’equilibrio del bilancio nel tempo,
preveda appositi
accantonamenti, per affrontare gli eventuali oneri connessi ai rischi di
possibili situazioni
debitorie.
Tra gli accantonamenti di maggior rilievo si colloca l’obbligo di
accantonare al Fondo
rischio spese legali le risorse atte a coprire le maggiori spese derivanti
da contenzioso.
Con l’introduzione del d.lgs. n. 118/2011, sull’armonizzazione dei sistemi
contabili, il relativo
principio applicato n. 4/2 ha statuito i criteri per una corretta
contabilizzazione dei DFB
riconosciuti, stabilendo che essi vanno sempre imputati all’esercizio di
scadenza, anche se
riconosciuti successivamente alla chiusura dell’esercizio e rilevati in sede
di rendiconto.
Se, viceversa, i debiti riconosciuti non sono ancora scaduti devono essere
registrati nell’esercizio
di riconoscimento ed imputati secondo esigibilità.
Il legislatore ha cercato di porre limiti a questa disfunzione gestionale
con la disciplina
sanzionatoria contenuta nelle norme del Tuel, con le limitazioni al ricorso
all’indebitamento e con
l’obbligo dell’invio alle Procure regionali della Corte dei conti delle
relative delibere. I debiti fuori
bilancio, infatti, non solo alterano la stabilità degli equilibri, ma
possono anche preludere a
situazioni più gravi, come il dissesto.
In tale contesto, assume rilievo la previsione normativa del parere del
revisore nel caso di
riconoscimento del debito fuori bilancio e della eventuale transazione che
lo riguarda.
L’indagine
svolta dalla Sezione sull’esercizio 2016 si è proposta di verificare
l’andamento del fenomeno nelle
Amministrazioni provinciali e comunali, comprensive delle Città
metropolitane, estesa, talora,
anche agli anni 2014-2015, analizzando i riconoscimenti deliberati sotto i
vari profili di interesse
ed in particolare rilevando:
a) il dato dei ripiani con impegno sul bilancio
di esercizio e sui due
successivi;
b) le tipologie delle risorse utilizzate per la copertura dei
debiti;
c) l’importo dei debiti
fuori bilancio non ancora riconosciuti al 31.12.2015;
d) il numero
degli stessi Enti che hanno
riconosciuto debiti fuori bilancio nell’ultimo biennio;
e) gli Enti con
debiti fuori bilancio che hanno
usufruito degli strumenti finanziari previsti dal d.l. n. 35/2013 e, infine
f) gli Enti che hanno
deliberato il ripiano dei debiti riconosciuti nell’ambito della procedura di
riequilibrio finanziario
pluriennale.
Tra gli Enti che hanno un debito riconosciuto si è dato particolare risalto
alla categoria peculiare
di quelli per i quali pur avendo provveduto al riconoscimento
antecedentemente all’esercizio di
riferimento, non risultavano ancora finanziati per il relativo importo: tale
categoria, che si colloca
tra debiti riconosciuti e non riconosciuti, non interessa, in realtà, molti
casi (61 Comuni, una Città
metropolitana e una Provincia), anche se, sotto il profilo della gravità del
fenomeno, è talora
accomunata a quella dei debiti non riconosciuti.
Si è dato ancora particolare rilievo ai DFB ancora da riconoscere al 31.12.2016 che inficiano
l’attendibilità delle scritture contabili. L’indagine è stata condotta
utilizzando i dati riferiti dagli
Enti interessati, attraverso la compilazione di un questionario.
Per entrambi gli esercizi considerati (2015-2016) sono risultati adempienti
alla rilevazione,
tramite il citato questionario, la quasi totalità degli Enti di area vasta;
mentre per i Comuni si è
registrata nel 2016, rispetto al precedente esercizio, una rilevazione più
ridotta avendo inviato i
questionari 7.299 Enti su 8.047.
...
7.4 Conclusioni
Tra le varie cause dell’alterazione degli equilibri di bilancio c’è
l’impatto che possono avere con
essi i debiti fuori bilancio, ovvero le obbligazioni che, non essendo
registrate all’origine nelle
scritture contabili dell’Ente, restano al di fuori della programmazione
finanziaria. Sono questi
fenomeni gestori in grado di porre a rischio l’attendibilità del risultato
di amministrazione
conseguito in sede di rendiconto, e che occorre considerare, se si vuole
rappresentare
correttamente la situazione finanziaria.
Va, infatti, tenuto presente che
non sempre i DFB
riconosciuti sono contestualmente finanziati, là dove, invece, le norme
contabili impongono che
la copertura del debito avvenga con il riconoscimento di legittimità, in
qualsiasi momento questo
si determini. La procedura per ricondurre i DFB nella contabilità dell’Ente
consiste nella sua
identificazione, in via esclusiva e non delegabile, da parte di una delibera
dell’organo consiliare,
che autorizzi o accerti la riconducibilità del debito ad una delle
fattispecie previste dal legislatore,
le cause della sua formazione e le eventuali responsabilità, individuando,
infine, le risorse
necessarie per provvedere al relativo pagamento.
Il principio applicato n. 4/2 par. 9.1, sull’armonizzazione dei sistemi
contabili, di cui al d.lgs. n.
118/2011, ha disposto i criteri per una corretta contabilizzazione dei DFB
riconosciuti (e scaduti),
stabilendo che essi vanno sempre imputati all’esercizio di scadenza, anche
se rilevati, come spesso
accade, in sede di rendiconto. Se, viceversa, i debiti riconosciuti non sono
ancora scaduti, vanno
registrati nell’esercizio di riconoscimento ed imputati nel momento in cui
diventano esigibili.
In seno ai 105 Enti censiti di area vasta, il riscontro si è avuto da 63
Province e 9 Città
metropolitane con debiti fuori bilancio riconosciuti nell’esercizio 2016,
per un totale di poco più
di 64 milioni di euro, di cui circa 45 milioni imputati alle Province e
circa 19 milioni alle Città
metropolitane, con un insignificante incremento complessivo rispetto
all’esercizio 2015.
Non si è,
dunque, confermata la tendenza ad una flessione di tutti i debiti fuori
bilancio riconosciuti,
comprensivi delle Province e delle Città metropolitane, il cui incremento
non solo è, come si è
visto, trascurabile, ma anche in sostanza riconducibile alle Città
metropolitane. In effetti, dai dati
del raffronto con l’esercizio 2015 risulta che, nelle Province, il numero
dei debiti riconosciuti si è
ridotto assai poco, dai 45.572.444 euro del 2015 ai menzionati 45.025.528
euro del 2016, a fronte
di un marginale incremento del 2% nelle Città metropolitane (da 18.090.637 a
18.476.170 euro).
Presso i Comuni, nell’esercizio 2016 il fenomeno della contrazione di debiti
fuori bilancio rimane
tendenzialmente stabile per numero di Enti coinvolti, pari a 1.669 (nel 2015
erano stati 1.676), mentre diminuisce in valore assoluto e percentuale
l’ammontare dei debiti riconosciuti, che scende
complessivamente a circa 559 milioni di euro, rispetto ai circa 623 milioni
dell’anno 2015 (-10%).
Nelle 63 Province che, nel 2016, registrano DFB riconosciuti per circa 45
milioni, le coperture con
avanzo libero si sono ridotte, passando dal 50% circa del 2015 (in cui vi
era una Provincia in più)
a circa il 44% del 2016. Nel 2016 nelle 9 Città metropolitane, che hanno
riconosciuto circa 19
milioni di debiti, l’avanzo libero è stato lo strumento di copertura in
circa il 60% dei casi
(11.395.044 euro).
I DFB non riconosciuti sono quelli che non compaiono affatto nelle scritture
contabili,
inficiandole, perché alla data di riferimento non era stata ancora emanata
alcuna relativa
delibera. Sfuggono, infatti, a ogni corretta rilevazione contabile, violando
in modo palese il
principio del rispetto della veridicità e attendibilità dei documenti
contabili.
I debiti non
riconosciuti al 31.12.2016, e da riconoscere nello stesso anno, riguardano 3
Città metropolitane e
22 Province, per un totale di 27.809.758 euro. Nel raffronto con l’esercizio
2015 si rileva che allora
le Città metropolitane con questo tipo di debiti erano 5 e i loro debiti
ammontavano a circa
3.271.942 euro, mentre le 23 Province avevano debiti pari a 31.957.588 euro,
per un totale di DFB
da riconoscere di 35.229.530 euro. Si registra, pertanto, una considerevole
diminuzione di questi
pari a 7.419.772 euro (circa il 21%). Presso i Comuni, invece, i DFB che al
31.12.2016 erano ancora
da riconoscere ammontavano a circa 752 milioni di euro, con una crescita
netta rispetto al 2015
in cui si erano registrati debiti per circa 684 milioni di euro (+10%
circa).
Infine, i debiti fuori bilancio riconosciuti ma non ripianati nell’esercizio
stesso, sono di importo
limitato e poco significativo. Per le Province e Città metropolitane
trattasi di un fenomeno quasi
in via di estinzione. Per i Comuni, la stessa tipologia di debiti,
riconosciuti ma da finanziare
riguarda, nel 2016, 61 Comuni (erano 76 nel 2015) e un importo di circa 176
milioni di euro,
ripianati tra l’anno stesso e i due successivi. Il ripiano riferito al
biennio 2017/2018 investe una
quota di debito pari a 5.104.887 euro (3% circa).
---------------
214 Il quadro normativo dell’istituto è stato ampiamente trattato
dalla Relazione di questa Sezione sulla gestione finanziaria degli Enti
locali del 2015. Cfr. deliberazione n. 4/SEZAUT/2017/FRG (pagg. 354-358). |
ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: In coerenza con i principi di
efficienza ed economicità dell’azione amministrativa e con
l’interesse pubblico volto ad evitare inutili sprechi di
danaro pubblico, è possibile per i competenti organi
dell’ente locale, nelle ipotesi e con le modalità precisate
nel presente pronunciamento, procedere al pagamento
dell’obbligazione derivante da un provvedimento
giurisdizionale esecutivo anche prima della deliberazione
consiliare di riconoscimento.
Resta comunque salvo l’obbligo della pronta attivazione e
celere definizione del procedimento di cui all’art. 194 TUEL,
nonché l’obbligo di includere la determinazione relativa al
pagamento anticipato nella documentazione da trasmettere
alla competente Procura della Corte dei conti ai sensi
dell’art. 23 della legge n. 289 del 2002.
---------------
In tema di debiti fuori bilancio, ovvero
delle obbligazioni pecuniarie maturate senza la previa
adozione dei dovuti adempimenti per la necessaria regolare
assunzione dell’impegno contabile, la disciplina normativa
si rinviene negli articoli 191, 193 e 194 del TUEL.
In particolare, è quest’ultima disposizione che prevede la
possibilità per gli enti locali di riconoscere la
legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da
determinate fattispecie tassativamente elencate nel primo
comma, tra cui è compreso alla lett. a) il caso delle
“sentenze esecutive”.
Dell’estesa elaborazione giurisprudenziale (oltre che
dottrinaria) della materia, interessa qui ricordare in
particolare due approdi interpretativi che risultano ormai
assolutamente consolidati.
Un primo punto considerato certo attiene alla competenza del
Consiglio comunale in ordine al riconoscimento dei debiti
fuori bilancio, che è ritenuta esclusiva, non derogabile e
non assumibile da altri organi, essenzialmente in ragione
delle funzioni generali di indirizzo e controllo
politico-amministrativo e di garante dell’equilibrio e della
regolarità del sistema di bilancio, proprie dell’organo
elettivo.
L’altro dato pacificamente acquisito è quello per cui, al di
là del rilievo letterale, la riconoscibilità dei debiti
derivanti da sentenze esecutive ammessa dall’art. 194, comma
1, lett. a), TUEL, è da intendersi riferita a tutti i
provvedimenti giudiziari idonei a costituire un titolo
esecutivo e ad instaurare un processo di esecuzione, ivi
compreso, pertanto, il decreto ingiuntivo dichiarato
esecutivo.
…
Per gli amministratori e i funzionari che vengono a
conoscenza dell’avvenuta notificazione di un decreto
ingiuntivo, rimane obbligo prioritario quello di attivare e
svolgere prontamente, ciascuno per la propria competenza, il
procedimento che conduce alla tempestiva convocazione del
Consiglio comunale deputato all’assunzione delle
determinazioni inerenti il riconoscimento del debito fuori
bilancio, in modo che l’adozione della deliberazione
consiliare possa giungere in tempo utile per effettuare il
pagamento nei termini stabiliti ed impedire la formazione di
oneri aggiuntivi a carico dell’ente, come quelli connessi
alla maturazione di interessi e rivalutazione monetaria o
alle ulteriori spese legali conseguenti ad eventuali azioni
esecutive.
La procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio ha
la finalità generale di ricondurre entro il sistema di
bilancio dell’ente determinate tipologie di spese generate
al di fuori delle autorizzazioni già concesse.
Coerente allo scopo è la complessità della funzione assolta
della delibera consiliare di riconoscimento.
In tale fase il Consiglio comunale ha, in primo luogo, il
compito di riscontrare e dimostrare che la spesa rientri in
una delle casistiche tipizzate dall’art. 194 TUEL. Tale
accertamento si svolge secondo canoni e livelli di analisi
alquanto diversi a seconda della tipologia di riferimento
del debito, talora risultando sostanzialmente doveroso (come
di seguito si vedrà, è questo il caso proprio dei
provvedimenti giudiziari esecutivi), talaltra lasciando
all’organo un certo margine di discrezionalità, come in
particolare avviene con riguardo all’ipotesi di cui alla
lett. e) della disposizione in parola, relativa alle
obbligazioni sorte da acquisizioni di beni e servizi in
violazione delle procedure di spesa.
Una volta valutata positivamente la riconoscibilità del
debito, la delibera consiliare è diretta a garantire la
salvaguardia degli equilibri generali di bilancio, in quanto
deve contestualmente indicare le risorse per far fronte alla
conseguente assunzione del nuovo impegno contabile e al
relativo pagamento, individuandole tra le fonti di
finanziamento consentite dall’ordinamento (cfr. in
particolare, art. 193, comma 3 e art. 194, commi 2 e 3, TUEL).
La pronuncia del Consiglio comunale è altresì chiamata ad
indagare su modalità e cause della irregolare formazione
della posizione debitoria e ad accertare le eventuali
responsabilità.
Dovrebbe cioè procedersi ad esaminare le procedure e
operazioni amministrative eseguite, sia al fine di rilevare
le anomalie da correggere per il futuro, sia per verificare
se vi siano state mancanze ascrivili ad amministratori o
funzionari dell’Ente, in grado di dar luogo in particolare a
danni erariali.
Tale funzione di accertamento risulta rafforzata dalla
previsione legislativa dell’obbligo di invio delle delibere
di riconoscimento di debiti agli organi di controllo ed alla
Procura regionale della Corte dei conti (articolo 23, comma
5, legge 27.12.2002, n. 289).
…
Come sopra accennato, sotto tale profilo la giurisprudenza
della Corte dei conti ha ripetutamente osservato come, la
fattispecie del riconoscimento di debiti derivanti da
provvedimenti giudiziari esecutivi, presenti elementi di
specificità che la distinguono dalle altre tipologie
considerate dall’art. 194 TUEL.
Ciò per il fatto che, in questo caso, l’obbligazione
debitoria si impone all’ente “ex se”, in virtù della forza
imperativa dell’atto proveniente dal giudice che vincola
chiunque, e quindi tanto un soggetto privato quanto
un’Amministrazione pubblica, ad osservarlo ed eseguirlo
(articolo 2909 del codice civile).
L’ente, cioè, è tenuto a saldare detti debiti effettuandone
il pagamento, indipendentemente da qualsivoglia
manifestazione di giudizio in ordine alla loro legittimità,
che è già implicita nella fonte da cui promanano, tenuto
conto che, in caso contrario, il creditore può ricorrere a
misure esecutive per soddisfare la propria pretesa, con un
pregiudizio ancora maggiore per l’ente.
Si afferma anche che cambia la natura dei poteri
esercitabili dall’organo consiliare, posto che ad esso non
residua alcun margine di discrezionalità in ordine all’an e
al quantum del debito da riconoscere, che sono esplicitati
nella statuizione del giudice.
Sotto questo specifico aspetto la deliberazione di
riconoscimento assume una valenza meramente ricognitiva, di
presa d’atto, mentre restano salve le altre funzioni di
riconduzione della spesa nel sistema di bilancio nel
rispetto degli equilibri finanziari e di analisi delle cause
e delle eventuali responsabilità.
In ogni caso, il tempestivo svolgimento dell’iter ordinario
stabilito per il riconoscimento del debito deve risultare
idoneo, tanto più nel caso di provvedimenti giudiziari
esecutivi, a condurre al pagamento in termini utili e a
scongiurare il rischio di maggiori pregiudizi economici per
l’ente.
Ciò specialmente quando, come nel caso del Comune istante,
l’ente trovi un’intesa con il creditore sulle modalità di
adempimento dell’obbligazione derivante dal provvedimento,
ad esempio per una dilazione di pagamento (ipotizzata anche
dall’art. 194, comma 2, TUEL) o per la rinuncia o riduzione
degli interessi.
E ciò anche ove si ritenga applicabile agli enti locali
(come incidentalmente adombrato in diversi pareri di sezioni
regionali di controllo tra cui quello già citato della
sezione pugliese) il lasso temporale di centoventi giorni
tra notificazione del titolo esecutivo e possibilità di
attivare il procedimento di esecuzione forzata, previsto
dall’articolo 14 del decreto-legge 31.12.1996, n. 669,
convertito nella legge 28.02.1997, n. 30.
----------------
Il Sindaco del Comune di Imperia formula una richiesta di
parere in tema di debiti fuori bilancio derivanti da
provvedimenti giudiziari esecutivi.
A tale scopo, il Sindaco ricostruisce in maniera alquanto
circostanziata e con allegazione di documenti, una vicenda
amministrativa riguardante l’intervenuta revisione dei
prezzi del servizio di gestione dei rifiuti solidi urbani,
la quale, tuttavia, ai fini del presente esame merita di
essere esposta con riferimento soltanto ad alcuni aspetti
essenziali e alle fasi più recenti.
Risulta quindi che, su richiesta della società affidataria
del predetto servizio, il Tribunale Amministrativo Regionale
per la Liguria ha emesso un decreto ingiuntivo, notificato
in data 28.12.2017, con cui si ordina al Comune di Imperia
il pagamento di una somma di danaro corrispondente ad un
credito certo, liquido ed esigibile vantato dalla parte
ricorrente, oltre all’IVA, agli interessi dalla domanda al
saldo e alle spese del relativo procedimento.
In presenza di atti dirigenziali, comunicati alla società
creditrice, che già in precedenza riconoscevano la debenza
della somma richiesta in pagamento, e non ravvisando ora la
sussistenza di elementi per proporre opposizione al decreto
ingiuntivo, la Giunta Municipale, in base all’articolo 194,
comma 1, lett. a), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
(TUEL), con deliberazione del 30.01.2018 ha quindi formulato
al Consiglio comunale una proposta di riconoscimento del
debito fuori bilancio scaturente dal summenzionato decreto
ingiuntivo, con l’indicazione delle relative modalità di
ripiano.
Pressoché in parallelo, la società creditrice ha aderito,
con note formali del 24.01.2018 e del 05.02.2018, alla
richiesta dell’Ente di rinunciare agli interessi
riconosciuti dal decreto ingiuntivo, a condizione che il
pagamento avvenga entro la data del 31.03.2018.
Sennonché, allo stato il Consiglio comunale non è ancora
giunto ad approvare la prevista deliberazione di
riconoscimento del debito, in quanto nella seduta convocata
nel giorno del 12.02.2018 è venuto a mancare il numero
legale prima della votazione finale.
Ciò posto, il Sindaco intende sapere se, dinanzi alla
possibilità di evitare al Comune il maggior esborso degli
interessi dovuti in base al decreto ingiuntivo, e ritenuta
sussistente la copertura finanziaria nel bilancio dell’Ente,
sia legittimo procedere al pagamento di cui al decreto
ingiuntivo in questione con apposita determinazione del
dirigente competente, prima dell’adozione da parte del
Consiglio comunale della deliberazione di riconoscimento del
debito fuori bilancio prevista dalla disposizione sopra
citata.
Nel rivolgere la richiesta, il Sindaco assume altresì un
duplice impegno, volto ad assicurare sia il nuovo
inserimento della proposta di riconoscimento del debito tra
gli argomenti dell’ordine del giorno della prossima seduta
del Consiglio comunale, sia la trasmissione della suddetta
eventuale determinazione dirigenziale autorizzativa del
pagamento alla competente Procura regionale della Corte dei
conti, in attuazione dell’articolo 23, comma 5, della legge
27.12.2002, n. 289.
...
3. Sulla scorta delle suesposte osservazioni, dunque, la
questione di merito sulla quale questo Collegio è chiamato a
pronunciarsi può essere individuata nei seguenti precisi
termini: “può un Comune, in quanto
destinatario di un decreto ingiuntivo divenuto
definitivamente esecutivo per la mancata proposizione di
opposizione, procedere mediante determinazione dirigenziale
al pagamento della somma ordinata dal giudice, prima che
intervenga la deliberazione del Consiglio comunale di
riconoscimento del debito fuori bilancio, nell’ipotesi in
cui questa sia comunque necessaria per l’assenza di un
corrispondente previo impegno di spesa, quando ciò
consentirebbe di evitare l’aggravio di oneri conseguente
alla maturazione di interessi legali da corrispondere al
creditore o alle spese giudiziarie connesse all’eventuale
attivazione delle procedure esecutive?”.
Il tema generale chiamato in causa, dunque, è quello dei
debiti fuori bilancio, ovvero delle obbligazioni pecuniarie
maturate senza la previa adozione dei dovuti adempimenti per
la necessaria regolare assunzione dell’impegno contabile, la
cui essenziale disciplina normativa si rinviene negli
articoli 191, 193 e 194 del TUEL. In particolare, è
quest’ultima disposizione che prevede la possibilità per gli
enti locali di riconoscere la legittimità dei debiti fuori
bilancio derivanti da determinate fattispecie tassativamente
elencate nel primo comma, tra cui è compreso alla lett. a)
il caso delle “sentenze esecutive”.
Dell’estesa elaborazione giurisprudenziale (oltre che
dottrinaria) della materia, interessa qui ricordare in
particolare due approdi interpretativi che risultano ormai
assolutamente consolidati.
Un primo punto considerato certo attiene alla competenza del
Consiglio comunale in ordine al riconoscimento dei debiti
fuori bilancio, che è ritenuta esclusiva, non derogabile e
non assumibile da altri organi, essenzialmente in ragione
delle funzioni generali di indirizzo e controllo
politico-amministrativo e di garante dell’equilibrio e della
regolarità del sistema di bilancio, proprie dell’organo
elettivo.
L’altro dato pacificamente acquisito è quello per cui, al di
là del rilievo letterale, la riconoscibilità dei debiti
derivanti da sentenze esecutive ammessa dall’art. 194, comma
1, lett. a), TUEL, è da intendersi riferita a tutti i
provvedimenti giudiziari idonei a costituire un titolo
esecutivo e ad instaurare un processo di esecuzione, ivi
compreso, pertanto, il decreto ingiuntivo dichiarato
esecutivo.
Ciò detto, la sopra operata puntuale delimitazione
dell’oggetto della questione da risolvere consente di
escludere dal presente campo di osservazione altri profili
problematici che sorgerebbero in relazione a situazioni che
presentino varianti rispetto a quella prospettata.
Così vale, ad esempio, per i casi, rispettivamente, di
decreto ingiuntivo non ancora esecutivo (non essendo
trascorso il periodo indicato dal codice di procedura
civile), o di decreto ingiuntivo la cui esecutività è stata
sospesa nell’ambito del giudizio di opposizione. Rispetto al
rapporto tra tali ipotesi e la materia dei debiti fuori
bilancio, infatti, sorgono una serie di ulteriori questioni
il cui esame, però, non assume rilievo in relazione alla
situazione qui considerata in cui, appunto, il decreto
ingiuntivo ha acquistato esecutività in via definitiva.
Allo stesso modo, in quanto non direttamente rilevanti ai
presenti fini, si omettono le varie e complesse
considerazioni che andrebbero svolte con riguardo
all’ipotesi in cui l’obbligazione sottesa al decreto
ingiuntivo fosse inquadrabile in origine nella tipologia di
debiti fuori bilancio di cui art. 194, comma 1, lett. e),
del TUEL, relativa all’acquisizione di beni e servizi in
violazione delle procedure di spesa.
Per ragioni analoghe, non si considera l’ipotesi in cui, per
la somma richiesta in pagamento col decreto ingiuntivo, sia
stato in precedenza già assunto regolare impegno di spesa,
visto che in tal caso si verserebbe al di fuori della
disciplina dei debiti fuori bilancio e residuerebbe soltanto
il problema del trattamento contabile da riservare ai
maggiori oneri derivanti dalle spese giudiziarie, se non
preventivati nel bilancio dell’Ente.
A tale situazione è assimilabile e, pertanto, esula
anch’essa dall’esame della Sezione, quella in cui il
precedente impegno di spesa sussista ma per importo
inferiore a quello determinato nel decreto ingiuntivo, nel
qual caso le problematiche si intrecciano con il tema del
possibile inquadramento della fattispecie nell’area delle
cd. “passività pregresse”, le quali non
richiederebbero l’attivazione del procedimento di
riconoscimento di debito, quanto invece la mera integrazione
dell’impegno originario nonché, al verificarsi dei relativi
presupposti, l’applicazione dei punti n. 5.2, lett. h) e n.
9.1 del principio contabile applicato della contabilità
finanziaria di cui all’allegato 4/2 del decreto legislativo
23.06.2011, n. 118.
Con riferimento alla fattispecie concreta portata a
conoscenza della Sezione dall’Ente istante, è bene
sottolineare, incidentalmente, che la valutazione circa la
sussistenza degli elementi di questa diversa ipotesi avrebbe
dovuto essere svolta dagli organi competenti, non appena
avuto cognizione della passività insorta e, quindi, prima
ancora che questa diventasse oggetto del decreto ingiuntivo.
4. Muovendo da tali premesse, occorre anzitutto chiarire
che, per gli amministratori e i funzionari che vengono a
conoscenza dell’avvenuta notificazione di un decreto
ingiuntivo, rimane obbligo prioritario quello di attivare e
svolgere prontamente, ciascuno per la propria competenza, il
procedimento che conduce alla tempestiva convocazione del
Consiglio comunale deputato all’assunzione delle
determinazioni inerenti il riconoscimento del debito fuori
bilancio, in modo che l’adozione della deliberazione
consiliare possa giungere in tempo utile per effettuare il
pagamento nei termini stabiliti ed impedire la formazione di
oneri aggiuntivi a carico dell’ente, come quelli connessi
alla maturazione di interessi e rivalutazione monetaria o
alle ulteriori spese legali conseguenti ad eventuali azioni
esecutive.
In tal senso già si esprimeva, nella vigenza
dell’ordinamento contabile precedente al d.lgs. n. 118 del
2011, il principio contabile n. 2 dell’Osservatorio per la
finanza e la contabilità degli Enti locali nel testo
approvato il 12.03.2008, sia con generale riferimento
all’insorgenza di passività idonee a determinare debiti
fuori bilancio di qualsiasi tipologia (punti 93, 94, 95),
sia con specifico riguardo al caso dell’obbligazione
derivante da sentenza esecutiva (punto 103). Non sembra
potersi dubitare, infatti, che in assenza di contenuti
simili nei nuovi principi contabili armonizzati, quelle
indicazioni costituiscano tuttora validi criteri di azione
per gli enti locali.
5. La procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio
ha la finalità generale di ricondurre entro il sistema di
bilancio dell’ente determinate tipologie di spese generate
al di fuori delle autorizzazioni già concesse.
Coerente allo scopo è la complessità della funzione assolta
della delibera consiliare di riconoscimento.
In tale fase il Consiglio comunale ha, in primo luogo, il
compito di riscontrare e dimostrare che la spesa rientri in
una delle casistiche tipizzate dall’art. 194 TUEL. Tale
accertamento si svolge secondo canoni e livelli di analisi
alquanto diversi a seconda della tipologia di riferimento
del debito, talora risultando sostanzialmente doveroso (come
di seguito si vedrà, è questo il caso proprio dei
provvedimenti giudiziari esecutivi), talaltra lasciando
all’organo un certo margine di discrezionalità, come in
particolare avviene con riguardo all’ipotesi di cui alla
lett. e) della disposizione in parola, relativa alle
obbligazioni sorte da acquisizioni di beni e servizi in
violazione delle procedure di spesa.
Una volta valutata positivamente la riconoscibilità del
debito, la delibera consiliare è diretta a garantire la
salvaguardia degli equilibri generali di bilancio, in quanto
deve contestualmente indicare le risorse per far fronte alla
conseguente assunzione del nuovo impegno contabile e al
relativo pagamento, individuandole tra le fonti di
finanziamento consentite dall’ordinamento (cfr. in
particolare, art. 193, comma 3 e art. 194, commi 2 e 3, TUEL).
La pronuncia del Consiglio comunale è altresì chiamata ad
indagare su modalità e cause della irregolare formazione
della posizione debitoria e ad accertare le eventuali
responsabilità. Dovrebbe cioè procedersi ad esaminare le
procedure e operazioni amministrative eseguite, sia al fine
di rilevare le anomalie da correggere per il futuro, sia per
verificare se vi siano state mancanze ascrivili ad
amministratori o funzionari dell’Ente, in grado di dar luogo
in particolare a danni erariali. Tale funzione di
accertamento risulta rafforzata dalla previsione legislativa
dell’obbligo di invio delle delibere di riconoscimento di
debiti agli organi di controllo ed alla Procura regionale
della Corte dei conti (articolo 23, comma 5, legge
27.12.2002, n. 289).
Come sopra accennato, sotto tale profilo la giurisprudenza
della Corte dei conti ha ripetutamente osservato come, la
fattispecie del riconoscimento di debiti derivanti da
provvedimenti giudiziari esecutivi, presenti elementi di
specificità che la distinguono dalle altre tipologie
considerate dall’art. 194 TUEL.
Ciò per il fatto che, in questo caso, l’obbligazione
debitoria si impone all’ente “ex se”, in virtù della
forza imperativa dell’atto proveniente dal giudice che
vincola chiunque, e quindi tanto un soggetto privato quanto
un’Amministrazione pubblica, ad osservarlo ed eseguirlo
(articolo 2909 del codice civile). L’ente, cioè, è tenuto a
saldare detti debiti effettuandone il pagamento,
indipendentemente da qualsivoglia manifestazione di giudizio
in ordine alla loro legittimità, che è già implicita nella
fonte da cui promanano, tenuto conto che, in caso contrario,
il creditore può ricorrere a misure esecutive per soddisfare
la propria pretesa, con un pregiudizio ancora maggiore per
l’ente.
Si afferma anche che cambia la natura dei poteri
esercitabili dall’organo consiliare, posto che ad esso non
residua alcun margine di discrezionalità in ordine all’an
e al quantum del debito da riconoscere, che sono
esplicitati nella statuizione del giudice. Sotto questo
specifico aspetto la deliberazione di riconoscimento assume
una valenza meramente ricognitiva, di presa d’atto, mentre
restano salve le altre funzioni di riconduzione della spesa
nel sistema di bilancio nel rispetto degli equilibri
finanziari e di analisi delle cause e delle eventuali
responsabilità (l’orientamento è da tempo consolidato: cfr.
da ultimo,
parere 22.02.2018 n. 29 della Sezione regionale di
controllo per la Puglia e
parere 10.01.2018 n. 2 della
Sezione regionale di controllo per la Campania).
6. In ogni caso, il tempestivo svolgimento dell’iter
ordinario stabilito per il riconoscimento del debito deve
risultare idoneo, tanto più nel caso di provvedimenti
giudiziari esecutivi, a condurre al pagamento in termini
utili e a scongiurare il rischio di maggiori pregiudizi
economici per l’ente. Ciò specialmente quando, come nel caso
del Comune istante, l’ente trovi un’intesa con il creditore
sulle modalità di adempimento dell’obbligazione derivante
dal provvedimento, ad esempio per una dilazione di pagamento
(ipotizzata anche dall’art. 194, comma 2, TUEL) o per la
rinuncia o riduzione degli interessi. E ciò anche ove si
ritenga applicabile agli enti locali (come incidentalmente
adombrato in diversi pareri di sezioni regionali di
controllo tra cui quello già citato della sezione pugliese)
il lasso temporale di centoventi giorni tra notificazione
del titolo esecutivo e possibilità di attivare il
procedimento di esecuzione forzata, previsto dall’articolo
14 del decreto-legge 31.12.1996, n. 669, convertito
nella legge 28.02.1997, n. 30.
Il problema si pone per i casi in cui, per qualsivoglia
ragione, il corso del procedimento relativo al
riconoscimento del debito incontri ostacoli che impediscono
l’adozione di una deliberazione consiliare che sia utile
allo scopo. Ciò è quello che è avvenuto nel Comune istante
per le riferite circostanze eccezionali, ma lo stesso
potrebbe verificarsi anche in relazione a fattori più
probabili, come ad esempio la tempistica non immediata per
la convocazione e l’istruttoria delle deliberazioni del
Consiglio comunale, oppure i limiti normativi alla gestione
del bilancio e alle relative variazioni in caso di esercizio
provvisorio o gestione provvisoria.
Occorre allora porsi la domanda, che è insita nel quesito
posto dal Comune, se quelle stesse esigenze di evitare
all’ente i danni patrimoniali rinvenibili dal mancato o
tardivo adempimento dell’obbligo di pagamento derivante dal
provvedimento giurisdizionale esecutivo, le quali hanno
ispirato e ispirano i sopra evidenziati canoni di azione
amministrativa, anche di origine giurisprudenziale, volti
alla rapida adozione della deliberazione consiliare di
riconoscimento e al suo tempestivo pagamento, possano
condurre, sempre e comunque attraverso l’interpretazione
delle norme esistenti, all’individuazione della possibilità
per amministratori e funzionari dell’ente stesso di
effettuare detto pagamento prima dell’intervento del
Consiglio comunale.
7. A tale questione, la Sezione ritiene di fornire soluzione
affermativa, nei termini di seguito precisati.
7.1 Si rappresenta anzitutto l’ipotesi in cui, in
considerazione dell’oggetto della spesa cui si riferisce
l’obbligazione perfezionata con il provvedimento del
giudice, sussista un pertinente e capiente stanziamento nel
bilancio in corso di gestione.
In tale evenienza non si ravvedono ragioni per precludere
all’organo competente alla gestione della spesa la
possibilità di procedere all’assunzione del nuovo impegno
contabile, propedeutico alle successive fasi della spesa e
quindi anche al pagamento.
Ed invero, premesso che le obbligazioni giuridiche derivanti
da provvedimenti giudiziari esecutivi si presentano come
obbligazioni che si perfezionano senza il concorso della
volontà dell’amministrazione, occorre notare che in
fattispecie di questo genere non si è in presenza di alcuna
situazione patologica né nel sistema di bilancio esistente,
visto che già di per sé reca la copertura finanziaria per la
nuova spesa, né nell’impegno contabile.
Sotto questo secondo profilo si osserva, infatti, che, come
è stato tradotto in diritto positivo nel nuovo ordinamento
contabile, la registrazione di un impegno di spesa può
avvenire soltanto dal momento in cui l’obbligazione a carico
dell’ente è giuridicamente perfezionata (cfr. punto 5.1 del
già menzionato principio applicato della contabilità
finanziaria di cui all’allegato 4/2). Perciò non può
rilevarsi un’anomalia nell’assunzione dell’impegno a seguito
dell’obbligazione giuridica che sorge e si perfeziona per
effetto del provvedimento del giudice. Prima di tale momento
ciò non sarebbe neppure stato possibile, come è confermato
dal punto 5.2, lett. h), del medesimo principio contabile
proprio con riferimento alle obbligazioni passive, solo
potenziali, in attesa degli esiti di un giudizio.
L’esposta conclusione non significa che la situazione qui
considerata fuoriesca dal campo di applicazione dell’art.
194 del TUEL. Anzi, anche in tali circostanze, il
procedimento che culmina con la deliberazione consiliare di
riconoscimento del debito continua a rappresentare la via
ordinaria da seguire, che il legislatore ha evidentemente
scelto di prescrivere con il richiamo anche alle sentenze
esecutive, in considerazione della possibile, anche se non
necessaria, presenza di elementi di irregolarità o di
anomalie negli atti o fatti sottesi alla controversia
giudiziale.
Ove, però, tale strada si riveli non tempestivamente e
utilmente praticabile, gli amministratori o funzionari
competenti potranno comunque, al verificarsi delle
condizioni descritte, ugualmente attivarsi per il pagamento
del debito, salvo l’obbligo per i medesimi di adoperarsi
contemporaneamente per la definizione della deliberazione
consiliare di riconoscimento.
Negare tale possibilità, nei casi in cui costituisce l’unico
rimedio per evitare maggiori aggravi di spesa per l’ente,
condurrebbe questa Sezione a privilegiare un formalismo
giuridico che si appalesa all’evidenza non giustificato.
Come sarà evidenziato meglio in seguito, infatti, la
sottoposizione della fattispecie di spesa da provvedimento
giurisdizionale esecutivo all’esame del Consiglio comunale
in un momento successivo al pagamento del debito, lascia
inalterati i poteri e i margini di valutazione che competono
all’organo nell’ambito della deliberazione di riconoscimento
e che potrà esercitare con uguali modalità e, soprattutto,
con pari efficacia e rilevanza.
7.2 Può accadere, invece, che nel bilancio in corso di
gestione non sussista uno stanziamento con oggetto
corrispondente al tipo di spesa derivante dal provvedimento
del giudice, oppure che tale stanziamento non offra più la
necessaria capienza. In tale evenienza, si ha di fronte
effettivamente una situazione patologica del bilancio, che
non è in grado di recepire il nuovo fenomeno di rilevanza
finanziaria. Ed è in relazione a questa situazione, e ad
altre simili, che si svolge una delle ricordate funzioni
proprie della deliberazione di riconoscimento del debito,
ovvero quella della sua riconduzione al sistema di bilancio
attraverso l’individuazione delle modalità di copertura.
Ciò nonostante, si ritiene che, sempre sul presupposto della
non avvenuta tempestiva convocazione dell’organo consiliare,
le apposite disponibilità di bilancio, necessarie per
procedere al pagamento del debito ed evitare aggravi di
spesa, possano essere ugualmente individuate attraverso
l’esercizio dei poteri di variazione del bilancio spettanti
in via ordinaria agli altri organi dell’ente.
Tale soluzione, d’altronde, si rivela pienamente in linea
con l’attuale conformazione degli schemi contabili
armonizzati degli enti locali, in cui si può distinguere,
anche concettualmente, un bilancio cd. “decisionale”,
corrispondente al bilancio di previsione per missioni e
programmi sottoposto all’approvazione del Consiglio comunale
(l’unità di voto è il programma), e un bilancio cd. “gestionale”,
ovvero il Piano esecutivo di gestione (PEG) elaborato dalla
Giunta, nel quale le previsioni del primo documento vengono
ulteriormente articolate.
Il nuovo sistema di classificazione del bilancio si
riverbera anche sulla distribuzione delle competenze nella
materia delle variazioni di bilancio, le quali, come noto,
rappresentano un importante strumento con cui viene
garantita la necessaria flessibilità della gestione
finanziaria.
Rinviando all’analitica disciplina contenuta principalmente
nell’articolo 175 del TUEL, peraltro da coordinarsi con le
norme e i limiti relativi all’esercizio provvisorio e alla
gestione provvisoria (in specie l’art. 163 TUEL e il punto 8
del principio applicato di cui all’allegato 4/2), si osserva
che, anche nel mutato quadro, la regola generale individua
nel Consiglio l’organo deputato ad adottare le variazioni
del bilancio di previsione, salve specifiche eccezioni. Alla
Giunta, di contro, è invece formalmente riconosciuta, oltre
alla competenza per alcune variazioni del bilancio di
previsioni non aventi natura discrezionale, la pressoché
esclusiva titolarità delle variazioni del Piano esecutivo di
gestione, fatte solo salve alcune competenze rimesse ad
organi dell’apparato amministrativo. Nella nuova disciplina,
infatti, degli spazi per variazioni sia al bilancio di
previsione che al Piano esecutivo di gestione sono
attribuiti anche al responsabile finanziario dell’ente o ai
singoli responsabili della spesa.
A fronte di questa precisa definizione dei diversi livelli
di competenza e di responsabilità, appare dunque
indubitabile che l’esercizio dei poteri di variazione
spettanti alla Giunta e ai responsabili finanziari o della
spesa non sia impedito dinanzi all’obbligo di adeguarsi al
provvedimento del giudice, ove non si sia riusciti a
provvedere in tempo con la deliberazione consiliare. Ciò,
ovviamente, non determina un’esautorazione di poteri del
Consiglio comunale, posto che, anche in tale circostanza,
occorre ugualmente portare a compimento il procedimento di
riconoscimento del debito previsto dall’art. 194 TUEL. In
tale sede, l’organo consiliare potrà verificare e ratificare
l’operato degli organi precedentemente intervenuti, ma potrà
anche scegliere di adottare, attraverso variazioni di
bilancio di propria pertinenza, una diversa soluzione in
ordine alle modalità di finanziamento del nuovo debito.
7.3 Quest’ultima osservazione permette altresì di
considerare praticabile, al fine di adeguare il sistema di
bilancio alla necessità di adempiere all’obbligo di
pagamento discendente dal provvedimento esecutivo del
giudice, anche l’adozione in via d'urgenza da parte della
Giunta di una variazione di bilancio di competenza del
Consiglio, ai sensi degli articoli 42, comma 4 e 175, comma
4, del TUEL. Si ritiene infatti che l’esigenza di evitare
maggiori oneri a carico dell’ente possa essere sufficiente
ai fini della richiesta motivazione da sottoporre all’esame
dell’organo consiliare.
Si osserva, anzi, che tale opportunità consente di poter
accedere fin da subito, per il ripiano del nuovo debito,
allo strumento finanziario più idoneo allo scopo, ovvero
alle risorse eventualmente accantonate nel bilancio di
previsione a titolo di fondo rischi derivanti da
contenzioso, il cui utilizzo in via ordinaria richiede,
appunto, in base all’attuale sistema di classificazione
delle spese e alle regole fissate dall’art. 175 TUEL, una
variazione di bilancio di competenza del Consiglio.
Anche in questo caso, la successiva verifica da parte
dell’organo consiliare resta senz’altro garantita, non solo
con la previsione della ratifica a pena di decadenza delle
variazioni d’urgenza entro i sessanta giorni seguenti, ma
anche perché non viene meno la necessità di pervenire
comunque alla deliberazione di riconoscimento del debito, in
occasione della quale il Consiglio potrà disporre dei suoi
poteri con immutata efficacia.
8. Risulta dunque chiaramente assodato che, in tutte le
esposte ipotesi in cui si ritiene ammissibile il pagamento
del debito derivante da decreto ingiuntivo prima della
delibera consiliare di riconoscimento, la necessità di
pervenire comunque all’adozione di tale provvedimento rimane
confermata, perché in tal senso è espressa la volontà del
legislatore nell’art. 194 TUEL.
Si è anche fatto cenno all’osservazione per cui il
Consiglio, sebbene giunto a deliberare soltanto dopo il
pagamento, può nondimeno svolgere in tale successivo momento
le funzioni tipiche del procedimento, con gli stessi margini
di valutazione e la stessa efficacia di cui avrebbe disposto
ove il procedimento medesimo avesse avuto corso regolare.
Si tratta ora di precisare meglio tale asserzione.
In effetti, il punto che, prima facie, può generare
qualche problematicità è soltanto quello che si ricollega al
rilievo per cui, con l’anticipato pagamento del debito,
viene a determinarsi l’ingresso nella gestione finanziaria
dell’ente di un fenomeno di spesa manifestatosi in modo
anomalo e prima non rilevato, quando invece tale prerogativa
viene tradizionalmente riservata al Consiglio comunale in
sede di deliberazione di riconoscimento.
A questo riguardo, occorre tuttavia rifarsi a quanto innanzi
già riferito in ordine alla peculiarità del riconoscimento
di debito da provvedimenti giudiziari esecutivi. Si è visto,
infatti, che nel caso all’attenzione l’organo consiliare non
dispone di uno spazio valutativo in ordine alla legittimità
del debito e alla necessità di riportarlo all’interno del
bilancio, trattandosi di adempimento assolutamente doveroso
e vincolato in virtù della forza imperativa della
statuizione del giudice.
Ne consegue che, sotto siffatto specifico profilo, il
diverso organo che, ordinando il pagamento del debito,
anticipa gli effetti del riconoscimento, non provoca una
compressione, e con essa un vulnus, dei poteri
consiliari. Si può anzi affermare che esso soggiaccia, come
il Consiglio, all’obbligo derivante dal provvedimento
esecutivo e abbia quindi agito, nell’ambito delle proprie
competenze, per assicurarne l’esecuzione.
Per quanto concerne, invece, l’integra conservazione dei
poteri del Consiglio sulle modalità di copertura del debito
fuori bilancio già pagato, sono sufficienti le notazioni in
precedenza già svolte con riferimento a tutte le ipotesi
considerate.
Infine, anche con riferimento alla funzione di accertamento
delle cause e delle responsabilità delle fattispecie di
debito, non vi è dubbio che in sede di deliberazione di
riconoscimento successiva al pagamento, essa possa svolgersi
con le stesse modalità ed efficacia e potrà ovviamente
riguardare anche l’operato degli organi che hanno disposto
il previo pagamento.
9. In conclusione, questa Sezione ritiene
che, in coerenza con i principi di efficienza ed economicità
dell’azione amministrativa e con l’interesse pubblico volto
ad evitare inutili sprechi di danaro pubblico, sia possibile
per i competenti organi dell’ente locale, nelle ipotesi e
con le modalità precisate nel presente pronunciamento,
procedere al pagamento dell’obbligazione derivante da un
provvedimento giurisdizionale esecutivo anche prima della
deliberazione consiliare di riconoscimento.
Restano comunque salvi l’obbligo della
pronta attivazione e celere definizione del procedimento di
cui all’art. 194 TUEL, nonché quello di includere la
determinazione relativa al pagamento anticipato nella
documentazione da trasmettere alla competente Procura della
Corte dei conti ai sensi dell’art. 23 della legge n. 289 del
2002.
Nei precisati termini la Sezione si esprime in ordine alla
questione giuridica astratta individuata sulla base della
richiesta di parere pervenuta, senza che le considerazioni
ed indicazioni riportate nella presente pronuncia possano
precludere o limitare in alcun modo altre possibili future
valutazioni, nella pertinente sede del controllo, sui vari
profili della fattispecie concreta descritta dall’Ente
istante qui non presi direttamente in esame
(cfr. Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 22.03.2018 n. 73). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Nel caso di debiti a carico
dell'Ente locale derivanti da sentenza esecutiva, l'Ente può procedere
al pagamento ancor prima della deliberazione consiliare di
riconoscimento, atteso che, in ogni caso, "non potrebbe in
alcun modo impedire l'avvio della procedura esecutiva per
l'adempimento coattivo del debito"; anzi, la prassi seguita
dagli enti locali di attendere per il pagamento di quanto
dovuto il preventivo riconoscimento della legittimità del
debito da parte del consiglio comunale comporta il lievitare
degli oneri patrimoniali per interessi legali ed eventuale
rivalutazione monetaria, cui vanno aggiunte le spese
giudiziali derivanti dalle procedure esecutive, nel caso in
cui la predetta delibera non intervenga in tempi
ragionevoli.
La giurisprudenza della Corte dei conti ha ripetutamente
evidenziato la sostanziale diversità esistente tra la
fattispecie di debito derivante da sentenze esecutive e le
altre previste dall’art. 194 TUEL, osservando come, mentre
nel caso di sentenza esecutive di condanna il Consiglio
comunale non ha alcun margine di discrezionalità nel
valutare l’an e il quantum del debito, poiché l’entità del
pagamento rimane stabilita nella misura indicata dal
provvedimento dell’autorità giudiziaria, negli altri casi
descritti dall’art. 194 TUEL l’organo consiliare esercita un
ampio apprezzamento discrezionale.
A fronte dell’imperatività del provvedimento giudiziale
esecutivo, il valore della delibera consiliare non è quello
di riconoscere la legittimità del debito che già è stata
verificata in sede giudiziale, bensì di ricondurre al
sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che
è maturato all’esterno di esso.
Sicché, l'Ente richiedente deve
attenersi ai suindicati principi in relazione alle
statuizioni di condanna all'erogazione dei contributi ex
legge 219/1981 contenute nelle pronunce dell'A.G.O. indicate
nella citata richiesta, a nulla rilevando, al fine di
elidere l'obbligo di pagamento così sancito, la disposizione
contenuta nell'art. 19, co. 7, d.lgs. n. 76/1990 1990 e
dovendosi fare in ogni caso ricorso, nel caso di mancanza di
disponibilità finanziaria sul fondo in cui confluiscono i
predetti contributi, ai rimedi suggeriti dallo stesso art.
194 TUEL.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del Comune
di Paternopoli (AV) ha rivolto alla Sezione, ai sensi
dell'art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003, una
richiesta di parere sui seguenti quesiti:
1) Se il Comune, Ente autonomo distinto dallo Stato, sia
obbligato a riconoscere un debito, ai sensi dell'art. 194,
comma 1°, lett. A) del vigente TUEL, per sentenze di
accertamento del diritto al contributo e di condanna
all'erogazione del contributo di cui alle L. n. 219/1981 e
L. 32/1991, in assenza delle relative disponibilità
finanziarie di cui alla stessa L. n. 219/1981;
2) Se il Comune debba procedere comunque al riconoscimento del
debito, ai sensi dell'art. 194, comma 1°, lett. A), del TUEL,
per sentenze di condanna all'erogazione del contributo ex
legge n. 219/1981, in assenza delle disponibilità a valere
sui fondi della L. n. 219/1981, e quindi con risorse proprie
del bilancio dell'Ente;
3) Se, nell'ipotesi in cui non si debba procedere al
riconoscimento del debito in assenza di disponibilità
finanziarie in bilancia ex L. n. 219/1981, le 'spese di
lite', derivanti dalla soccombenza dell'Ente nel
giudizio, seguano la stessa disciplina oppure esse vadano
comunque riconosciute con copertura finanziaria a valere sul
bilancio dell'Ente.
Ai fini dell'inquadramento storico-giuridico della
problematica proposta, il Comune richiedente ha
rappresentato di avere un numero di abitanti inferiore a
3.000, di appartenere alla fascia IV e di essere
beneficiario dei contributi di cui alle L. n. 219/1981 e L.
n. 32/1991 per la ricostruzione post-terremoto del 1980,
come disciplinati con D.Lgs. n. 76/1990.
L'Ente ha altresì esposto di aver ricevuto condanna -con
sentenza n. 200/2016 del Tribunale di Avellino (ex Sezione
Distaccata di Ariano Irpino) notificata il 29.09.2016 e con
sentenza n. 124/2017 del Tribunale di Benevento (ex Sezione
Distaccata di Ariano Irpino) notificata il 21.09.2017- a
provvedere all'erogazione in favore dei richiedenti del
contributo, ex L. 219/1981, ponendo a carico dell'ente (con
la seconda delle indicate decisioni) le spese di lite.
Il Comune di Paternopoli, quindi, rappresentando
l'indisponibilità di fondi sulla contabilità attinente alla
L. n. 219/1981 e richiamando la disposizione contenuta
nell'art. 19, comma 7°, del D.lgs. n. 76/1990, ha formulato
l'ipotesi che l'Ente non debba procedere all'uopo al
riconoscimento di debito fuori bilancio, "trattandosi di
obbligazione a cui il Comune, quale Ente territoriale, è del
tutto estraneo, derivante da 'contabilità speciale', ex T.U.
n. 76/1990, i cui debiti devono essere soddisfatti
unicamente con i 'fondi statali' accreditati sul richiamato
Fondo Speciale. Ciò in quanto, per espressa previsione
normativa, il Comune agisce nella veste di 'mandatario'
dello Stato Centrale, unico ed esclusivo debitore per detti
crediti"; ha rilevato, altresì -ritenendo di esser
confortato da quanto osservato dalla Corte d'Appello di
Napoli nella sentenza che n. 2599 del 06.06.2012- che "una
diversa soluzione, volta a ipotizzare di porre a carico del
Comune l'obbligo di provvedere comunque al pagamento con
'propri fondi' (in caso di incapienza di fondi messi a
disposizione della Regione), si pone in palese contrasto con
l'art. 119 Cost., laddove riconosce l'autonomia finanziaria
del Comune ed, inoltre, sconvolge gli equilibri finanziari
dell'Ente nella realizzazione del programma
economico-politico dell'Amministrazione comunale".
...
C. In primo luogo, riguardo le disposizioni legislative
sulla cui applicabilità alla fattispecie descritta nel
parere il Comune si interroga -e chiede lumi a questa
Sezione regionale di controllo- vanno, in primo luogo,
riportate quelle contenute nell'art. 194 TUEL ("Riconoscimento
di legittimità di debiti fuori bilancio"):
1. Con deliberazione consiliare di cui
all'articolo 193, comma 2, o con diversa periodicità
stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti locali
riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio
derivanti da:
a) sentenze esecutive;
b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende
speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi
derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi, purché
sia stato rispettato l'obbligo di pareggio del bilancio di
cui all' articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di
gestione;
c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme
previste dal codice civile o da norme speciali, di società
di capitali costituite per l'esercizio di servizi pubblici
locali;
d) procedure espropriative o di occupazione
d'urgenza per opere di pubblica utilità;
e) acquisizione di beni e servizi, in violazione
degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191,
nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed
arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di
pubbliche funzioni e servizi di competenza.
2. Per il pagamento l'ente può provvedere anche mediante un piano
di rateizzazione, della durata di tre anni finanziari
compreso quello in corso, convenuto con i creditori.
3. Per il finanziamento delle spese suddette, ove non possa
documentalmente provvedersi a norma dell'articolo 193, comma
3, l'ente locale può far ricorso a mutui ai sensi degli
articoli 202 e seguenti. Nella relativa deliberazione
consiliare viene dettagliatamente motivata l'impossibilità
di utilizzare altre risorse.
Ai fini di un brevissimo inquadramento storico, il Collegio
ricorda che
la dicitura 'debito fuori bilancio' è
comparsa, per la prima volta, nell'art. 1-bis, comma 3, del
d.l. n. 318/1986, convertito con legge 488/1986; in tale
contesto il legislatore -in una logica di 'sanatoria'-
ha voluto rendere visibili i debiti fuori bilancio, intesi
dalla Corte dei Conti (Sezione Enti Locali - deliberazione
n. 30 del 24.11.1986) quali residui occulti o 'di fatto'
la cui diffusione risultava essere idonea a celare la
veridicità delle risultanze contabili della gestione,
articolandone la disciplina in un'ottica di riequilibrio di
gestione.
Il quadro normativo è stato rivisitato dal d.lgs. n.
77/1995, che ha introdotto una serie di regole e di vincoli
finalizzati al mantenimento degli equilibri gestionali, i
cui artt. 35 e 37 sono stati riprodotti fedelmente, in
attuazione dell'art. 31 della legge n. 285/1999, nell'art.
194, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000; norma quest'ultima,
che traccia un'eccezione ai principi sanciti dall'art. 191,
stesso T.U. degli Enti Locali, in tema di impegno di spesa,
per cinque categorie espressamente delineate dal comma 1
dell'art. 194 qui in rilievo, da finanziare con la procedura
di cui all'art. 193.
Al di là della diversa natura delle fattispecie debitorie
ivi tassativamente contemplate, l'elemento che le unifica è
rinvenibile nel fatto che il debito viene ad esistenza al di
fuori e indipendentemente dalle ordinarie procedure che
regolamentano la formazione della volontà dell'ente.
Riguardo le caratteristiche proprie delle singole ipotesi di
debito, invece, quelli di cui alla lett. a) -che vengono in
rilievo nella fattispecie proposta nell'epigrafata richiesta
di parere-
si distinguono dagli altri per il fatto che il
debito si impone all'ente in virtù del provvedimento
dell'autorità giudiziaria.
La fattispecie del riconoscimento del debito fuori bilancio
per sentenza è presa in considerazione, come detto,
dall'art. 194, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 267/2000,
ove si fa riferimento alle sole sentenze esecutive,
ritenendo dunque, perfezionato l'obbligo di pagare in
conseguenza dell'esecutività delle stesse, a differenza di
quanto previsto in precedenza dal d.lgs. n. 77/1995, che
comprendeva tanto le sentenze passate in giudicato quanto
quelle immediatamente esecutive.
Certamente, la necessità di
pagare immediatamente somme cospicue, a seguito di sentenza
non ancora passata in giudicato, pone almeno due ordini di
difficoltà: reperire il finanziamento senza pregiudicare gli
equilibri di bilancio; ripetere le somme in caso di vittoria
in un successivo grado di giudizio.
Si presentano, così, apparentemente confliggenti l'obbligo
di ottemperare all'ordine del giudice e quello, non meno
rilevante, di tutelare, nell'interesse pubblico, gli
equilibri di bilancio; conflitto che va risolto
auspicabilmente ricercando soluzioni -posto che occorre
pagare i debiti con la massima sollecitudine al fine di
evitare ulteriori oneri a carico dell'ente- intese ad
accordi con le controparti per attuare ipotesi transattive
tendenti alla falcidia, se non altro, dell'ammontare della
rivalutazione monetaria e degli interessi moratori dovuti.
Valga, altresì osservare, in argomento, che nel caso di
debiti derivanti da sentenza esecutiva, la valenza della
delibera consiliare richiesta dall'art. 193, comma 2, TUEL
ai fini del riconoscimento dei debiti fuori bilancio -da
approvare entro il 30 settembre di ogni anno, o con diversa
periodicità stabilita dal regolamento di contabilità- non
può essere quella di riconoscere la legittimità del debito,
che di per sé già esiste in virtù della statuizione del
giudice, che non lascia alcun margine di valutazione
all'organo consiliare dell'Ente.
Nell'ipotesi de qua, invero,
è ragionevole ritenere che
l'atto deliberativo consiliare costituisce lo strumento
attraverso cui il debito da sentenza viene ricondotto al
'sistema bilancio', nel senso che l'attivazione della
procedura consiliare permane, ma con la sola funzione di
salvaguardare gli equilibri di bilancio; sul quale il debito
avrà un diverso peso a seconda che esso trovi o meno
copertura finanziaria in un impegno di spesa assunto
precedentemente nelle previsioni della sua insorgenza.
Spetta, cioè, alla diligente, tempestiva e puntuale
valutazione dell'Ente l'opportunità di effettuare un
preventivo accantonamento al fine di evitare un forte
impatto della passività sugli equilibri del bilancio.
E' per le ragioni suesposte, che
è stato correttamente
affermato
(cfr. Corte dei conti - SS.RR. per la Regione
Sicilia,
parere 11.03.2005 n. 2)
che nel caso di
debiti derivanti a carico dell'Ente locale da sentenza
esecutiva, l'Ente medesimo può procedere al pagamento ancor
prima della deliberazione consiliare di riconoscimento,
atteso che, in ogni caso, "non potrebbe in alcun modo
impedire l'avvio della procedura esecutiva per l'adempimento
coattivo del debito" e che, anzi, la prassi seguita dagli
enti locali di attendere per il pagamento di quanto dovuto
il preventivo riconoscimento della legittimità del debito da
parte del consiglio comunale comporta il lievitare degli
oneri patrimoniali per interessi legali ed eventuale
rivalutazione monetaria, cui vanno aggiunte le spese
giudiziali derivanti dalle procedure esecutive, nel caso in
cui la predetta detta deliberazione non intervenga in tempi
ragionevoli.
I principi sin qui illustrati sono correttamente e
condivisibilmente compendiati nel
parere 15.09.2016 n. 152
della Sezione regionale di controllo della Puglia, al cui
vaglio consultivo veniva ivi sottoposta una questione
coinvolgente l’istituto giuridico del riconoscimento dei
debiti fuori bilancio derivanti da sentenza esecutiva
previsto dall’art. 194, comma 1, lett. a), del TUEL:
●
"La giurisprudenza della Corte dei conti (cfr. ex multis,
SSRR
sentenza 27.12.2007 n. 12/2007/QM) ha ripetutamente evidenziato la
sostanziale diversità esistente tra la fattispecie di debito
derivante da sentenze esecutive e le altre previste
dall’art. 194 TUEL, osservando come, mentre nel caso di
sentenza esecutive di condanna il Consiglio comunale non ha
alcun margine di discrezionalità nel valutare l’an e il
quantum del debito, poiché l’entità del pagamento rimane
stabilita nella misura indicata dal provvedimento
dell’autorità giudiziaria, negli altri casi descritti
dall’art. 194 TUEL l’organo consiliare esercita un ampio
apprezzamento discrezionale.
In mancanza di una disposizione che preveda una disciplina
specifica e diversa per le 'sentenze esecutive', tuttavia,
non è consentito discostarsi dalla stretta interpretazione
dell’art. 193, comma 2, lett. b), del TUEL (nella
formulazione vigente), ai sensi del quale: “... i
provvedimenti per il ripiano di eventuali debiti di cui
all’art. 194 ...' sono assunti dall’organo consiliare
contestualmente all’accertamento negativo del permanere
degli equilibri di bilancio (cfr. art. 193, comma 2 cit.).
Infatti, a fronte dell’imperatività del provvedimento
giudiziale esecutivo, il valore della delibera del Consiglio
non è quello di riconoscere la legittimità del debito che
già è stata verificata in sede giudiziale, bensì di
ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza
finanziaria che è maturato all’esterno di esso.
In tale prospettiva l’art. 194, primo comma, TUEL
rappresenta un’eccezione ai principi riguardanti la
necessità del preventivo impegno formale e della copertura
finanziaria; onde per riportare le ipotesi previste
nell’ambito del principio di copertura finanziaria è,
dunque, richiesta la delibera consiliare con la quale viene
ripristinata la fisiologia della fase della spesa e i debiti
de quibus vengono ricondotti a sistema (cfr. ex multis Corte
dei Conti, sez. contr. Friuli Venezia Giulia, 6/1c/2005,)
mediante l’adozione dei necessari provvedimenti di
riequilibrio finanziario.
Ulteriore funzione svolta dalla delibera consiliare è
l’accertamento delle cause che hanno originato l’obbligo,
con le consequenziali ed eventuali responsabilità; infatti,
questa funzione di accertamento è rafforzata dalla
previsione dell’invio alla Procura regionale della Corte dei
conti (art. 23, comma 5, L. 289/2002) delle delibere di
riconoscimento di debito fuori bilancio.
Nella delineata prospettiva interpretativa, la delibera
consiliare svolge una duplice funzione, per un verso,
tipicamente giuscontabilistica, finalizzata ad assicurare la
salvaguardia degli equilibri di bilancio; per l’altro,
garantista, ai fini dell’accertamento dell’eventuale
responsabilità amministrativo-contabile (cfr. ex multis:
Corte dei conti, Sezione Regionale per la Puglia
deliberazione 23.10.2014 n. 180).
Sulla base delle esposte considerazioni, nel caso di
sentenze esecutive e di pignoramenti, sussiste, l’obbligo di
procedere con tempestività alla convocazione del Consiglio
comunale per il riconoscimento del debito, in modo da
impedire il maturare di interessi, rivalutazione monetaria
ed ulteriori spese legali (cfr. ex multis Corte dei conti,
Sezione Regionale per la Puglia n.
deliberazione 03.06.2016 n. 122).
Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è consentito
all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali
degli artt. 193 e 194 TUEL che garantiscono una maggiore
efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa per
salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale.
Inoltre, il tempestivo riconoscimento e finanziamento del
debito fuori bilancio, nonché il conseguente pagamento, non
esporrebbero l’ente al rischio di azioni esecutive,
considerato che il decorso di 120 giorni dalla notifica del
titolo esecutivo (previsti dall’art. 14, del Decreto Legge
31.12.1996, n. 669 convertito in legge 28.02.1997, n. 30
come modificato dall’art. 147 della Legge 23.12.2000, n.
288), comporterebbe l’avvio delle procedure esecutive nei
confronti della P.A.".
Ebbene,
è ai suindicati principi che l'Ente richiedente il
parere deve attenersi in relazione alle statuizioni di
condanna all'erogazione dei contributi ex legge 219/1981
contenute nelle pronunce dell'A.G.O. indicate nella medesima
richiesta di parere, a nulla rilevando, al fine di elidere
l'obbligo di pagamento così sancito, la disposizione
contenuta nell'art. 19, comma 7, d.lgs. n. 76/1990
richiamata dal Comune di Paternopoli.
Tale disposizione, invero, prevede, nell'ambito della "Disciplina
delle commissioni comunali e del procedimento di
assegnazione del contributo" cui è dedicato il predetto
art. 19, che "In mancanza di disponibilità finanziarie,
il sindaco indica il contributo, riservandosi, ad avvenuta
integrazione dei fondi, la formale determinazione e
assegnazione aggiornata del contributo stesso in attuazione
degli articoli 10, 11 e 12"; attenendo, di conseguenza,
all'ipotesi in cui, esitata positivamente l'istanza di
assegnazione del contributo ex legge 219/1981 ricorrendone
tutti i necessari presupposti, vada tuttavia attivata la
procedura d'integrazione del fondo all'uopo costituito
mancando in esso la necessaria disponibilità finanziaria.
In altri termini: in tema di contributi per la ricostruzione
o riparazione di immobili colpiti dagli eventi sismici del
novembre 1980 e del febbraio 1981, il decreto sindacale di "indicazione"
del contributo "in mancanza di disponibilità finanziarie",
di cui all'art. 19, comma 7, del T.U. approvato con il
d.lgs. 30.03.1990, n. 76, integra, in presenza del parere
positivo dell'apposita commissione, una fattispecie di "riconoscimento"
del contributo medesimo, con riserva di successiva e
concreta erogazione-liquidazione dello stesso (Cass. SS.UU.
Civ., sent. n. 3849/2012).
La mancanza di disponibilità finanziaria non potrà, per
contro, essere invocata al fine di rinviare ad un momento
successivo alla reintegrazione del predetto fondo speciale,
il pagamento dei debiti scaturenti dalle sentenze esecutive
indicate nell'epigrafata richiesta di parere, di cui si è
detto in precedenza.
E ciò, non soltanto in relazione alla necessità prevista
ex lege, di onorare con la massima tempestività le
situazioni debitorie indicate alla lettera a) del primo
comma dell'art. 194 TUEL, ma anche perché i fondi per la
ricostruzione assegnati ai Comuni ai sensi della legge n.
219/1981 e successive modificazioni sono direttamente
gestiti dai predetti enti locali attraverso i propri organi
individuali e collegiali, competendo ad essi l'istruzione
delle pratiche di ricostruzione, lo svolgimento dei
controlli stabiliti dalla legge, la determinazione e
l'assegnazione, tramite il sindaco, dei contributi previsti
dalla normativa citata; ne consegue che unico legittimato
passivo nei giudizi instaurati per ottenere il
riconoscimento e la corresponsione dei contributi in
questione è il Comune (C. Cass., Sez. I Civ., sent. n.
10806/2006).
Infatti, com’è noto, l’accertamento di fondi rivenienti
dalla ridetta contabilità speciale, non genera, per gli enti
territoriali interessati, una gestione ”in conto terzi”,
ma una gestione vincolata con impatto sul risultato di
amministrazione (art. 187 TUEL) e sulla cassa (artt. 195 e
222 TUEL).
Riguardo la prospettata mancanza di disponibilità
finanziaria necessaria per far fronte ai debiti derivati
dalle pronunce di condanna indicate nella richiesta di
parere oggetto della presente delibera, va ricordato che è
la legge stessa che disciplina le modalità di pagamento ed
il reperimento dei mezzi finanziari a copertura dei debiti
fuori bilancio, completando, in questo modo, il procedimento
che ha per fine quello di far rientrare nella corretta
gestione di bilancio quelle spese che ne erano del tutto
fuori.
In particolare,
l'art. 194 TUEL stabilisce, al 2° e al 3°
comma, che per il pagamento dei debiti fuori bilancio
-quindi, ovviamente, anche di quelli derivanti da sentenze
esecutive- "l'ente può provvedere anche mediante un piano
di rateizzazione, della durata di tre anni finanziari
compreso quello in corso, convenuto con i creditori" e
che comunque, per il finanziamento delle spese de quibus,
"ove non possa documentalmente provvedersi a norma
dell'articolo 193, comma 3, l'ente locale può far ricorso a
mutui ai sensi degli articoli 202 e seguenti",
provvedendo altresì a motivare dettagliatamente nella
relativa deliberazione consiliare l'impossibilità di
utilizzare altre risorse.
E' di tutta evidenza, comunque, come il ricorso
all'indebitamento non possa avvenire se non entro i limiti
legislativamente imposti a tal fine.
Il Collegio non ritiene, tuttavia, di addentrarsi
ulteriormente in considerazioni analitiche su tali ultimi
aspetti, in quanto ciò determinerebbe un coinvolgimento in
termini di cogestione o coamministrazione in scelte che
spettano esclusivamente agli amministratori ed ai dirigenti
degli enti locali.
Inoltre, ulteriori valutazioni in questa
sede delle prospettive interpretative proposte dal Comune di Paternopoli, implicherebbero soluzioni suscettibili di
interferire con eventuali profili giudiziari di
responsabilità, ovvero di condizionare il regolare
svolgimento dell’attività di controllo di questa Sezione
regionale.
Ritiene, quindi, il Collegio che l’analisi debba essere
circoscritta agli aspetti generali ed astratti della
questione, dianzi illustrati, essendo preclusa nella
presente sede -come già in precedenza rappresentato, in
punto di esame dell'ammissibilità oggettiva dei quesiti
proposti dal Comune richiedente parere- qualunque
valutazione inerente ai risvolti applicativi della
fattispecie esaminata (Corte dei Conti, Sez. controllo
Campania,
parere 10.01.2018 n. 2). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Non si
rinvengono, nell’ordinamento, disposizioni che precludano
all’Ente Locale, creditore di somma di danaro, di convenire
con il debitore un piano di rateizzazione dei pagamenti.
---------------
Con la nota in epigrafe il Sindaco del Comune di Nova Siri (MT)
chiede:
a) se sia possibile applicare la rateizzazione prevista
dall’art. 194, comma 2, del Tuel, per il caso di debiti
fuori bilancio derivanti da sentenze, anche ai crediti
vantati dal Comune oggetto di accordo transattivo con il
debitore e con tutte le garanzia dei legge a tutela del
pagamento;
b) nel caso di risposta affermativa, ove sia stato approvato
un piano di riequilibro pluriennale in corso di attuazione,
se sia possibile la rateizzazione per tutta la durata del
piano.
...
4. Il principale interrogativo che pone il Comune è se
l’Ente Locale, che sia creditore di somma di danaro
derivante da sentenza, possa concordare con il debitore, con
atto successivo alla decisione che ha accertato il credito,
la rateizzazione dei pagamenti, ferme tutte le garanzie di
legge per la tutela del credito. In via subordinata e nel
caso di risposta affermativa, chiede se sia possibile che la
durata della rateizzazione possa estendersi alla durata del
piano di riequilibrio già approvato e in corso di
esecuzione.
Propone, al riguardo, una analogia con la situazione
inversa, nella quale cioè è l’ente comunale a essere
debitore di somma a seguito di sentenza da riconoscere ai
sensi dell’art. 194, comma 2, del TUEL, che espressamente
prevede la rateizzazione del debito nel termine di tre anni.
5.1 Sulla prima questione rileva la Sezione che
non si
rinvengono, nell’ordinamento, disposizioni che precludano
all’Ente Locale, creditore di somma di danaro, di convenire
con il debitore un piano di rateizzazione dei pagamenti.
La convenzione in questione, ovviamente,
non potrà ridurre
l’importo del credito, non essendo consentito all’Ente
rimettere, neppure in parte, un debito, se non per motivate
utilità dell’Ente medesimo, né fondare la “causa debendi” in
un titolo diverso da quello portato in sentenza, ma, nella
parte dispositiva, si limiterà a modulare nel tempo i
pagamenti, definendo data, modalità di riscossione e importo
di ciascuno.
La concessione del beneficio del termine per adempiere
dovrà, necessariamente, essere assistita da idonee garanzie
a tutela della realizzazione del credito.
Particolare attenzione dovrà essere riposta nelle garanzie
di adempimento che dovranno necessariamente essere presenti
nella convenzione. Ritiene il Collegio che garanzia adeguata
sia la fideiussione bancaria, rilasciata da istituto di
credito sottoposto alla vigilanza della Banca d’Italia.
Ammesse nei confronti degli Enti pubblici sono anche le
garanzie emesse da compagnie di assicurazione.
Tuttavia, in questo caso, si raccomanda particolare cautela
nella scelta, eventualmente, della compagnia garante, non
essendo sufficiente la iscrizione in determinati registri,
dovendosi, invece, per ragioni di pronta realizzazione del
credito, operare opportuna selezione, orientata anche alla
accessibilità alla tutela giudiziaria apprestata
dall’ordinamento italiano.
5.2 Nel caso l’ente si trovasse a gestire un piano di
riequilibrio pluriennale, non si intravedono particolari
problemi di natura contabile che possano interferire nella modulabilità del termine di riscossione del credito.
Qualora
il credito fosse già stato inserito nel piano, e dunque già
accertata l’entrata, si tratterà di verificare se i termini
previsti per la sua realizzazione (riscossione) coincidono
con quelli della rateizzazione concordata. Qualora così non
fosse, ritiene la Sezione che, senza dover apportare
modifiche al piano, sia possibile imputare le riscossioni
agli esercizi convenuti in sede di elaborazione dei bilanci
pluriennali. Nel caso in cui il credito non fosse stato
considerato nel piano, se ne dovrà accertare l’importo e
imputare le riscossioni agli esercizi di scadenza delle
singole rate, secondo i criteri di contabilità vigenti.
In ogni caso, l’arco temporale di rateizzazione del credito,
soprattutto laddove è in esecuzione un piano di riequilibrio
pluriennale, dovrà tener conto del bilanciamento delle
esigenze del debitore con le ragioni del più celere
raggiungimento dell’obiettivo di risanamento, che è
l’interesse primario della collettività amministrata
(Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata,
parere 02.03.2016 n. 6). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - PATRIMONIO:
Sul potere di
autotutela del demanio e del patrimonio indisponibile del
Comune.
L'ordinanza sindacale, volta al recupero
di uno spazio a parcheggio pubblico, si configura come
provvedimento autoritativo d'esercizio di autotutela
possessoria "iuris publici" perché diretta al ripristino
nell'interesse della collettività di uno stato di fatto
reputato preesistente, conseguendone la sussistenza della
giurisdizione amministrativa trattandosi di azione relativa
alla verifica della legittimità o meno del potere azionato.
Non è decisiva la circostanza che il Comune non abbia
fornito la prova della esistenza di un titolo legittimante
l'uso pubblico del terreno oggetto della presente
controversia (in particolare, la titolarità di una servitù
prediale o di una servitù di uso pubblico).
L'autotutela possessoria di diritto pubblico non presuppone
la titolarità di un diritto reale di uso pubblico o
l'esistenza di una pubblica via vicinale, sicché sussiste il
potere dell'Amministrazione comunale di rimuovere gli
ostacoli al libero transito (e quindi di ripristinare lo
stato dei luoghi), quando è configurabile una situazione di
fatto di oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio, senza
che vi sia necessità di titolarità del diritto di proprietà
o di altro diritto reale.
Ancora più nello specifico, occorre rammentare che il potere
amministrativo esercitato dal Sindaco con l'ordinanza ex
art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 non è contrario al più
generale potere di autotutela possessoria di diritto
pubblico -potere riconosciuto dall'art. 378, l. n. 2248 del
1865, All. F a tutela dell'uso pubblico delle strade, sia
demaniali che vicinali, anche ai Sindaci- il quale non
presuppone la titolarità di un diritto reale di uso
pubblico, ma si fonda sull'esigenza di rimuovere ostacoli e
impedimenti al libero transito esercitato anche in via di
fatto dalla collettività.
Va ancora ricordato che sussiste il potere
dell'amministrazione comunale di rimuovere gli ostacoli al
libero transito (con le modalità esistenti anteriormente, e
quindi di ripristinare lo stato dei luoghi), quando sussista
una situazione di fatto di oggettivo pregiudizio del
pubblico passaggio, senza che vi sia necessità di ulteriore
motivazione.
Tale conclusione esegetica è conforme al principio di teoria
generale elaborato dalla giurisprudenza, secondo cui l'uso
pubblico di un bene non implica necessariamente la coeva
titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto
reale.
I poteri di autotutela iuris publici che discendono
dall'articolo 378 della legge 20.03.1865, n. 2248, allegato
F), e mediatamente dall'articolo 823 del codice civile, non
presentano la medesima identità di ratio delle azioni di cui
dispone il privato e possono essere esercitati anche dopo
che sia decorso un anno dalla alterazione o dalla turbativa;
l’autotutela esecutiva è espressione di un potere
autoritativo con cui, data la modifica di un situazione di
fatto, l’amministrazione, doverosamente, ripristina la
situazione di disponibilità del bene in favore della
collettività.
---------------
Quanto alla questione della competenza
ad adottare il provvedimento, va ricordato che per
giurisprudenza costante, il generale potere di autotutela
del demanio e del patrimonio indisponibile del Comune, di
cui all'art. 378 l. n. 2248 del 1865, all. F, spetta al
sindaco e non può ritenersi trasferito al dirigente con
l'entrata in vigore d.lgs. n. 267 del 2000.
Ciò sia in ragione della persistente vigenza della norma,
sia della riconducibilità del potere di tutela ivi previsto
alla funzione di ufficiale di governo del sindaco, le cui
competenze sono espressamente fatte salve dall'art. 107,
comma 5, del suddetto d.lgs. n. 267 del 2000.
---------------
In ordine alla dedotta contraddittorietà tra più atti è
sufficiente rammentare che la contraddittorietà tra gli atti
del procedimento, figura sintomatica dell'eccesso di potere,
si può rinvenire solo allorquando sussista tra più atti
successivi un contrasto inconciliabile tale da far sorgere
dubbi su quale sia l'effettiva volontà dell'amministrazione,
mentre non sussiste quando si tratti di provvedimenti che,
pur riguardanti lo stesso oggetto, siano adottati all'esito
di procedimenti indipendenti o, comunque, qualora si tratti
di due diversi atti che, ancorché inerenti al medesimo
oggetto, provengano da uffici diversi e non entrambi
competenti a provvedere o siano espressione di poteri
differenti o —ancora— allorquando il nuovo provvedimento
dell'Amministrazione, diverso da quello pregresso, sia stata
adottata alla stregua di presupposti in parte differenti
concretatisi medio tempore.
---------------
Sono inconferenti e comunque infondate le censure che
partono dal presupposto che il provvedimento impugnato sia
un’ordinanza contingibile e urgente.
Al di là dei richiami normativi che si rinvengono nell’atto,
trattasi pacificamente di un provvedimento di autotutela e,
come è noto, il nomen iuris attribuito dall'Amministrazione
a un proprio atto o provvedimento non vincola il giudice
adito, che può riqualificarlo, occorrendo invero avere
riguardo alla struttura stessa dell'atto impugnato.
In altre parole, l'esatta qualificazione di un provvedimento
amministrativo va individuata tenendo conto del suo
effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a
prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito
dall'Amministrazione, tenendo presente che l'apparenza
derivante da una terminologia, eventualmente imprecisa o
impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell'atto
stesso non è vincolante né può prevalere sulla sostanza.
---------------
Nel merito il ricorso è infondato per i motivi che di
seguito si espongono.
Intanto, è pacifica la giurisdizione del giudice
amministrativo, venendo in rilievo, in via principale, non
l'accertamento del diritto di proprietà o di altro diritto
reale, ma la legittimità di un provvedimento autoritativo
incidente su posizioni di interesse legittimo.
Va precisato che l'ordinanza sindacale, volta al recupero di
uno spazio a parcheggio pubblico, si configura come
provvedimento autoritativo d'esercizio di autotutela
possessoria "iuris publici" perché diretta al
ripristino nell'interesse della collettività di uno stato di
fatto reputato preesistente, conseguendone la sussistenza
della giurisdizione amministrativa trattandosi di azione
relativa alla verifica della legittimità o meno del potere
azionato (cfr. Tar Campania, Salerno sez. II, 05.03.2013, n.
517).
Non è decisiva la circostanza che il Comune non abbia
fornito la prova della esistenza di un titolo legittimante
l'uso pubblico del terreno oggetto della presente
controversia (in particolare, la titolarità di una servitù
prediale o di una servitù di uso pubblico).
L'autotutela possessoria di diritto pubblico non presuppone
la titolarità di un diritto reale di uso pubblico o
l'esistenza di una pubblica via vicinale, sicché sussiste il
potere dell'Amministrazione comunale di rimuovere gli
ostacoli al libero transito (e quindi di ripristinare lo
stato dei luoghi), quando è configurabile una situazione di
fatto di oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio, senza
che vi sia necessità di titolarità del diritto di proprietà
o di altro diritto reale (Tar Sicilia, Catania sez. I,
04.11.2015, n. 2552).
Ancora più nello specifico, occorre rammentare che il potere
amministrativo esercitato dal Sindaco con l'ordinanza ex
art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 non è contrario al più
generale potere di autotutela possessoria di diritto
pubblico -potere riconosciuto dall'art. 378, l. n. 2248 del
1865, All. F a tutela dell'uso pubblico delle strade, sia
demaniali che vicinali, anche ai Sindaci- il quale non
presuppone la titolarità di un diritto reale di uso
pubblico, ma si fonda sull'esigenza di rimuovere ostacoli e
impedimenti al libero transito esercitato anche in via di
fatto dalla collettività (Tar Lazio, Roma, sez. II,
17.10.2016, n. 10344).
Va ancora ricordato che sussiste il potere
dell'amministrazione comunale di rimuovere gli ostacoli al
libero transito (con le modalità esistenti anteriormente, e
quindi di ripristinare lo stato dei luoghi), quando sussista
una situazione di fatto di oggettivo pregiudizio del
pubblico passaggio, senza che vi sia necessità di ulteriore
motivazione (Consiglio di Stato, sez. V, 14.07.2015, n.
3531).
Tale conclusione esegetica è conforme al principio di teoria
generale elaborato dalla giurisprudenza, secondo cui l'uso
pubblico di un bene non implica necessariamente la coeva
titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale
(cfr., sul principio generale, Cons. Stato, Sez. V, n. 6283
del 2013, Consiglio di Stato, sez. V, 14.07.2015, n. 3531).
I poteri di autotutela iuris publici che discendono
dall'articolo 378 della legge 20.03.1865, n. 2248, allegato
F), e mediatamente dall'articolo 823 del codice civile, non
presentano la medesima identità di ratio delle azioni
di cui dispone il privato e possono essere esercitati anche
dopo che sia decorso un anno dalla alterazione o dalla
turbativa; l’autotutela esecutiva è espressione di un potere
autoritativo con cui, data la modifica di un situazione di
fatto, l’amministrazione, doverosamente, ripristina la
situazione di disponibilità del bene in favore della
collettività (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 30.04.2015,
n. 2196).
Nel caso qui all’attenzione del Collegio, dall'esame della
documentazione versata in atti, emerge che prima della
collocazione delle transenne nel terreno in questione,
sussisteva l'uso pubblico dello stesso, dovendosi ritenere
sufficienti, per l'emanazione del provvedimento di
autotutela, le evidenze documentali (tra le altre si vedano
documenti nn. 9, 9-bis e 10 produzioni
dell’amministrazione), suffragate dall'accertamento dello
stato dei luoghi da parte di organi comunali.
In particolare, tutte le fotografie depositate
dall’amministrazione attestano che il terreno era
pacificamente già oggetto di transito veicolare e di
utilizzo pubblico.
Quanto alla questione della competenza ad adottare il
provvedimento, va ricordato che per giurisprudenza costante,
il generale potere di autotutela del demanio e del
patrimonio indisponibile del Comune, di cui all'art. 378 l.
n. 2248 del 1865, all. F, spetta al sindaco e non può
ritenersi trasferito al dirigente con l'entrata in vigore
d.lgs. n. 267 del 2000; ciò sia in ragione della persistente
vigenza della norma, sia della riconducibilità del potere di
tutela ivi previsto alla funzione di ufficiale di governo
del sindaco, le cui competenze sono espressamente fatte
salve dall'art. 107, comma 5, del suddetto d.lgs. n. 267 del
2000 (Consiglio di Stato, sez. IV, 08.06.2011, n. 3509).
In ordine alla dedotta contraddittorietà tra più atti è
sufficiente rammentare che la contraddittorietà tra gli atti
del procedimento, figura sintomatica dell'eccesso di potere,
si può rinvenire solo allorquando sussista tra più atti
successivi un contrasto inconciliabile tale da far sorgere
dubbi su quale sia l'effettiva volontà dell'amministrazione,
mentre non sussiste quando si tratti di provvedimenti che,
pur riguardanti lo stesso oggetto, siano adottati all'esito
di procedimenti indipendenti o, comunque, qualora si tratti
di due diversi atti che, ancorché inerenti al medesimo
oggetto, provengano da uffici diversi e non entrambi
competenti a provvedere o siano espressione di poteri
differenti o —ancora— allorquando il nuovo provvedimento
dell'Amministrazione, diverso da quello pregresso, sia stata
adottata alla stregua di presupposti in parte differenti
concretatisi medio tempore (ex multis, Consiglio di
Stato, sez. II, 14.08.2015, n. 5261).
Va ancora precisato che sono inconferenti e comunque
infondate le censure che partono dal presupposto che il
provvedimento impugnato sia un’ordinanza contingibile e
urgente.
Al di là dei richiami normativi che si rinvengono nell’atto,
trattasi pacificamente di un provvedimento di autotutela e,
come è noto, il nomen iuris attribuito
dall'Amministrazione a un proprio atto o provvedimento non
vincola il giudice adito, che può riqualificarlo, occorrendo
invero avere riguardo alla struttura stessa dell'atto
impugnato (ex multis, TAR Lazio, Roma, sez. III,
23.02.2016, n. 2525).
In altre parole, l'esatta qualificazione di un provvedimento
amministrativo va individuata tenendo conto del suo
effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a
prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito
dall'Amministrazione, tenendo presente che l'apparenza
derivante da una terminologia, eventualmente imprecisa o
impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell'atto
stesso non è vincolante né può prevalere sulla sostanza (in
questo senso, Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd.,
03.09.2015, n. 581 e Cons. giust. amm. Sicilia, 14.05.2014
n. 282).
Il ricorso è in definitiva infondato e deve essere rigettato
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 03.11.2017 n. 679 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
In presenza di un
intervento di ristrutturazione edilizia attuato mediante
sostituzione dell’opera preesistente lo stesso soggiace, ai
sensi dell'art.
44 della l.r. Lombardia n. 12/2005, alla
corresponsione per intero degli oneri di urbanizzazione.
I commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della
l.r. 11.03.2005, n. 12 hanno previsto speciali criteri di
calcolo degli oneri di urbanizzazione solo con riferimento
alle ristrutturazioni edilizie “non
comportanti demolizione e ricostruzione”. Ne deriva, a
contrario, che gli interventi di ricostruzione preceduti da
demolizione totale o parziale siano assoggettati al
contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni.
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo
comma 10-bis dell’articolo 44 della legge regionale n. 12
del 2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della legge
regionale 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “i
comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione
e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione
edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al
cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri
di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione –introdotta successivamente alle d.i.a.
oggetto del presente giudizio, e dunque non applicabile in
ogni caso in questa sede– si fonda infatti sull’evidente
presupposto che gli interventi in questione siano, in linea
di principio, soggetti all’integrale assolvimento della
quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di
urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per
i Comuni di ridurre la misura della relativa quota di
contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli
interventi di ricostruzione previa demolizione
dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella,
all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione.
In senso contrario non può assumersi come legittimo un
calcolo degli oneri di urbanizzazione limitato al solo
incremento di superficie traslata dai piani inferiori tenuto
conto dell’avvenuta integrale demolizione dei piani
interessati (quinto, sesto e settimo) e della loro
ricostruzione con altra forma.
Ne è quindi derivata la realizzazione di un organismo
edilizio, per quella parte, del tutto nuovo, avente non solo
un diverso aspetto esteriore, ma anche caratteristiche
completamente diverse di fruibilità interna, derivanti dalla
nuove modalità costruttive e dalla superficie aggiunta.
L’opera, per quella parte, va quindi considerata
unitariamente, e non può invece ritenersi qualificabile come
un mero incremento di superficie attraverso un sistema di
traslazione di s.l.p..
---------------
1. Il ricorso introduttivo non è meritevole di accoglimento.
2. La società ricorrente contesta la rideterminazione degli
oneri di urbanizzazione effettuata dal Comune di Milano
attraverso la nota P.G. n. 580848/2015 del 29.10.2015, in
quanto a suo giudizio l’intervento di traslazione di
superficie dai piani inferiori a quelli superiori (quinto,
sesto e settimo piano), dando luogo ad una parziale
ristrutturazione con demolizione e successiva ricostruzione,
avrebbe potuto determinare l’applicazione della correlata
tariffa soltanto alla parte di superficie che si è aggiunta
a quella originaria e non anche alla superficie
preesistente, da assoggettare alla tariffa prevista per gli
interventi di sola ristrutturazione.
Di conseguenza, la somma individuata dagli Uffici comunali a
titolo di conguaglio non sarebbe dovuta nella sua
integralità, ma soltanto in parte (nella misura di €
127.273,45 piuttosto che di € 281.814,96).
2.1. La prospettazione fornita dalla parte ricorrente non
può essere condivisa.
In punto di fatto va evidenziato che dalla documentazione
versata in giudizio emerge come l’intervento edilizio
relativo ai piani quinto, sesto e settimo dell’immobile
abbia avuto quale presupposto la demolizione (della
preesistente struttura) fino al terzo piano e la
realizzazione dei solai dal quarto piano e oltre in
struttura metallica (cfr. Relazione struttura ultimata
edificio, in parte ripresa dal Certificato di collaudo
statico: all. 10 e 11 del Comune): quindi può convenirsi con
la difesa comunale laddove assume che la parte ricorrente
abbia eseguito una ristrutturazione di tipo pesante tramite
demolizione e (non fedele) ricostruzione dei piani quinto,
sesto e settimo.
Di conseguenza, il predetto intervento deve essere
assoggettato all’integrale corresponsione degli oneri di
urbanizzazione, come già sostenuto da questa Sezione in una
fattispecie similare.
Infatti, i commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della legge
regionale 11.03.2005, n. 12 hanno previsto speciali criteri
di calcolo degli oneri di urbanizzazione solo con
riferimento alle ristrutturazioni edilizie “non
comportanti demolizione e ricostruzione”. Ne deriva, a
contrario, che gli interventi di ricostruzione preceduti da
demolizione totale o parziale siano assoggettati al
contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni
(cfr.
Consiglio di Stato, IV, 22.05.2012, n. 2969,
che conferma la
sentenza 18.05.2010, n. 1566 di questa Sezione).
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo
comma 10-bis dell’articolo 44 della legge regionale n. 12
del 2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della legge
regionale 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “i
comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione
e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione
edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al
cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri
di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione –introdotta successivamente alle d.i.a.
oggetto del presente giudizio, e dunque non applicabile in
ogni caso in questa sede– si fonda infatti sull’evidente
presupposto che gli interventi in questione siano, in linea
di principio, soggetti all’integrale assolvimento della
quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di
urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per
i Comuni di ridurre la misura della relativa quota di
contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli
interventi di ricostruzione previa demolizione
dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella,
all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione.
In senso contrario non può assumersi come legittimo un
calcolo degli oneri di urbanizzazione limitato al solo
incremento di superficie traslata dai piani inferiori tenuto
conto dell’avvenuta integrale demolizione dei piani
interessati (quinto, sesto e settimo) e della loro
ricostruzione con altra forma.
Ne è quindi derivata la realizzazione di un organismo
edilizio, per quella parte, del tutto nuovo, avente non solo
un diverso aspetto esteriore, ma anche caratteristiche
completamente diverse di fruibilità interna, derivanti dalla
nuove modalità costruttive e dalla superficie aggiunta.
L’opera, per quella parte, va quindi considerata
unitariamente, e non può invece ritenersi qualificabile come
un mero incremento di superficie attraverso un sistema di
traslazione di s.l.p..
Deve perciò concludersi nel senso che, nel caso di specie,
si sia in presenza di un intervento di ristrutturazione
edilizia attuato mediante sostituzione dell’opera
preesistente, con conseguente soggezione, ai sensi del
richiamato articolo 44 della legge regionale n. 12 del 2005,
alla corresponsione per intero degli oneri di urbanizzazione
(cfr., in tal senso, TAR Lombardia, Milano, II, 23.03.2015,
n. 780) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.05.2017 n. 1218 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La fattispecie in esame, attinente alla sola
qualificazione del contributo, deve essere invece riguardata
alla luce del’art.
44 della citata l.r. n. 12 del 2005
che, stabilite le modalità di calcolo degli oneri di
urbanizzazione “per gli interventi di ristrutturazione
non comportanti demolizione e ricostruzione”, prevede la
disciplina per gli interventi di ristrutturazione,
disponendo che “gli oneri di urbanizzazione, se dovuti, sono
quelli riguardanti gli interventi di nuova costruzione,
ridotti della metà.”
Deve quindi condividersi l’interpretazione data dal giudice
di prime cure che ha notato come ciò comporti che gli
interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale
o parziale siano assoggettati al contributo concessorio
previsto per le nuove costruzioni.
---------------
... per la riforma della
sentenza 18.05.2010 n. 1566 del TAR
Lombardia-Milano, Sez. II;
...
4. - Con il terzo motivo di ricorso, viene infine
censurata la ritenuta correttezza della qualificazione
dell’intervento, come operata dall’amministrazione e
condivisa dal TAR, con la quale le opere sono state ritenute
di nuova costruzione e non di mera modificazione
dell’esistente, tramite ristrutturazione edilizia.
Al contrario, l’appellante, ricostruita la serie di
interventi realizzati, a decorrere da quelli autorizzati con
DIA n. 72 del 03.12.2003 fino a raggiungere quelli indicati
nella settima denuncia, rubricata al n. 68 del 21.12.2007,
rimarca la natura di ristrutturazione edilizia del complesso
edilizio, come emergente anche solo dalla descrizione delle
opere contenute nei detti atti e dagli allegati grafici.
4.1. - La censura non può essere condivisa.
Occorre in via preliminare evidenziare come il TAR abbia
incidentalmente, ma espressamente, sottolineato la natura
particolarmente favorevole della disciplina contenuta nella
legislazione regionale dove si dispone, da un lato,
che “Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione
edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella
demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto
della volumetria preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa
antisismica” (art. 27, comma 1, legge regionale
11.03.2005 n. 12) e, dall’altro, che “la
ricostruzione dell’edificio è da intendersi senza vincolo di
sagoma” (art. 22 legge regionale 05.02.2010 n. 7).
Tuttavia, correttamente il giudice di prime cure ha
riscontrato come tale profilo disciplinare attenga ad un
fatto distinto, ossia l’ammissibilità degli interventi
edilizi in relazione alla loro classificazione (vicenda che,
qualora fosse stata sottoposta alla Sezione, avrebbe dovuto
essere esaminata alla luce della sentenza della Corte
costituzionale 23.11.2011 n. 309, che ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale dell'art. 27, comma 1,
lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione
Lombardia 11.03.2005, n. 12, nella parte in cui esclude
l'applicabilità del limite della sagoma alle
ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e
ricostruzione; dell'art. 103 della legge della Regione
Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui disapplica
l'art. 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380; e dell'art. 22 della
legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7).
La fattispecie in esame, attinente alla sola qualificazione
del contributo, deve essere invece riguardata alla luce del’art.
44 della citata legge regionale n. 12 del 2005
che, stabilite le modalità di calcolo degli oneri di
urbanizzazione “per gli interventi di ristrutturazione
non comportanti demolizione e ricostruzione”, prevede la
disciplina per gli interventi di ristrutturazione,
disponendo che “gli oneri di urbanizzazione, se dovuti,
sono quelli riguardanti gli interventi di nuova costruzione,
ridotti della metà.”
Deve quindi condividersi l’interpretazione data dal giudice
di prime cure che ha notato come ciò comporti che gli
interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale
o parziale siano assoggettati al contributo concessorio
previsto per le nuove costruzioni.
Poiché gli interventi in esame, e principalmente quelli
indicati nelle due DIA rubricate rispettivamente al n.
41/2004 ed al n. 17/2005, sono effettivamente riconducibili
all’ambito disciplinare indicato, in quanto si trattava,
rispettivamente, della parziale demolizione del fabbricato
esistente con costruzione di palazzine uffici in aderenza e
nella parziale demolizione e innalzamento del fabbricato
esistente (d.i.a. 17/2005), appare del tutto legittima la
pretesa del Comune, che ha assoggettato l’intervento al
contributo previsto per le nuove costruzioni.
Peraltro, dopo l’intervento della citata sentenza della
Corte costituzionale, applicabile alla vicenda in questione
nei limiti del non intervenuto esaurimento della lite, non
appare più attuale neppure il distinguo operato dal TAR, in
relazione ai diversi momenti di presentazione delle denunce
di inizio di attività, rendendo così ancora più marcata la
legittimità dell’operato del Comune.
5. - L’appello appare, quindi in conclusione, del tutto
infondato, facendo così venir meno la fondatezza della
pretesa risarcitoria avanzata, stante la legittimità
dell’azione amministrativa e quindi il venir meno di un
evento lesivo contrario al diritto.
6. - L’appello va quindi respinto. Sussistono peraltro
motivi per compensare integralmente tra le parti le spese
processuali, determinati dalla parziale novità della
questione decisa
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.05.2012 n. 2969 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli
interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale
o parziale scontano il contributo concessorio previsto per le nuove
costruzioni.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento 26/27.10.2007, prot.
n. 17310, emesso dal responsabile dell’Area Tecnica, con cui
il Comune ha rideterminato il contributo di costruzione per
gli interventi edilizi eseguiti sull’area del complesso
produttivo “ex Mellin” ed ha ingiunto alla ricorrente
il pagamento di € 615.883,31 quale maggior somma dovuta a
tale titolo; con la condanna del Comune al risarcimento del
danno.
...
16. Qui si tratta solo di vedere se la pretesa creditoria
del Comune, fondata sulla diversa qualificazione
dell’intervento (nuova costruzione, anziché
ristrutturazione), senza alcuna contestazione che investa il
computo aritmetico consequenziale, sia o no sia fondata; e
d’altro canto, in questo come in ogni altro caso analogo, è
innegabile, essendo in re ipsa -stante il danno
erariale cui pur accenna l’atto impugnato- l’interesse
pubblico alla riscossione delle somme dovute ex lege
a titolo tributario o paratributario.
17. La tesi secondo cui la “rivisitazione” del
contributo sarebbe preclusa dall’accordo sostitutivo non è
condivisibile.
In primo luogo, perché gli accordi
sostitutivi possono intervenire, ai sensi dell’art. 11
(primo comma) della legge n. 241 del 1990, “al fine di
determinare il contenuto discrezionale del provvedimento”,
e quindi non possono avere ad oggetto la liquidazione di un
contributo che va determinato, in via del tutto vincolata,
sulla base di presupposti di fatto e qualificazioni di
diritto predeterminati da fonti normative, di rango
legislativo o regolamentare.
18. In secondo luogo, perché l’accordo sostitutivo in
questione non ha ad oggetto il contributo di concessione
relativo alle d.i.a. presentate dalla Società per la
realizzazione di interventi di ristrutturazione.
19. Vero è che nelle premesse dell’accordo si dà atto che
l’amministrazione comunale, a seguito di una “verifica in
autotutela circa la corretta quantificazione dei contributi
concessori alla luce dell’effettiva qualificazione giuridica
degli interventi oggetto di DIA” ... “ha accertato che il
maggior [importo] dovuto da parte del soggetto attuatore a
titolo di conguaglio del contributo concessorio dal medesimo
autoliquidato è pari ad € 184.762,68 (cioè per un totale
complessivo di € 225.015.62)”.
20. Tale premessa non è tuttavia idonea a rendere
intangibile l’accertamento del dovuto: sia perché la
qualificazione dell’intervento e la determinazione del
contributo non possono essere oggetto di contrattazione; sia
perché l’accordo, nel suo contenuto dispositivo, si propone
di regolare tutt’altra cosa, vale a dire la realizzazione, a
cura della Società (soggetto attuatore), della viabilità
destinata a servire l’area di trasformazione edilizia e
delle opere di manutenzione dell’edificio scolastico a
scomputo del contributo concessorio.
21. Per quanto riguarda la qualificazione dell’intervento,
reputa il Collegio che la pretesa creditoria del Comune,
fondata sull’art. 44 della legge regionale 11.03.2005 n. 12
(legge per il governo del territorio), sia fondata.
22. Qui non è in questione la legittimità delle d.i.a. e
dell’intervento edilizio, ma la qualificazione
dell’intervento ai fini del contributo concessorio.
23. Ora, è vero che, in sede di definizione degli interventi
edilizi, la legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge per
il governo del territorio) dispone [art. 27, comma 1, lett.
d)] che “Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione
edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella
demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto
della volumetria preesistente fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa
antisismica”.
24. Ed è altrettanto vero che, in sede di interpretazione
autentica di questa disposizione, il legislatore regionale,
in dissonanza da quanto stabilito dal testo unico in materia
edilizia [art. 3, primo comma, lett. d): “Nell'ambito
degli interventi di ristrutturazione edilizia sono
ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello
preesistente”] ha stabilito (art. 22 legge regionale
05.02.2010 n. 7) che “la ricostruzione dell’edificio è da
intendersi senza vincolo di sagoma”.
25. Ma tutto ciò attiene all’ammissibilità -secondo gli
strumenti urbanistici- degli interventi edilizi
classificati in base ad una tipologia standard.
Ai fini del
contributo, vale invece l’art. 44 della stessa legge
regionale n. 12 del 2005; il quale, dopo avere stabilito
(commi 8 e 9) le modalità di calcolo degli oneri di
urbanizzazione “per gli interventi di ristrutturazione non
comportanti demolizione e ricostruzione”, dispone (comma 10)
che “per gli interventi di ristrutturazione di cui al comma
8 gli oneri di urbanizzazione, se dovuti, sono quelli
riguardanti gli interventi di nuova costruzione, ridotti
della metà.”
Il che significa che gli interventi di
ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale
scontano il contributo concessorio previsto per le nuove
costruzioni.
26. Nel caso in esame, come si evince dalle d.i.a. n.
41/2004 (in data 01.07.2004) e n. 17/2005 (in data
12.05.2005), gli interventi edilizi sono consistiti,
rispettivamente, nella parziale demolizione del fabbricato
esistente con costruzione di palazzine uffici in aderenza al
corpo di fabbrica esistente sui fronti nord e sud (vedasi la
relazione tecnica alla d.i.a. 41/2004, che parla di “nuove
palazzine in progetto”) e nella parziale demolizione e
innalzamento del fabbricato esistente (d.i.a. 17/2005).
27. Poiché si versa dunque in quella ipotesi di demolizione
e ricostruzione che la legge regionale assoggetta al
contributo previsto per le nuove costruzioni, la pretesa
creditoria del Comune appare fondata.
E ciò non soltanto per
la d.i.a. n. 17/2005 (presentata nel vigore della legge
regionale n. 12/2005), ma anche per la d.i.a. 41/2004,
presentata nel vigore del t.u. statale (d.p.r. n. 380/2001),
che esclude dalla nozione di ristrutturazione gli interventi
di demolizione e ricostruzione che non rispettino il vincolo
della volumetria e della sagoma (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.05.2010 n. 1566 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
PATRIMONIO:
Il giudice amministrativo ha reiteratamente
chiarito che anche in caso di procedura per l’alienazione di
immobili, prima della stipula del contratto, la posizione
del privato ha natura di interesse legittimo e che,
pertanto, sussiste la giurisdizione del giudice
amministrativo.
---------------
La delibera del Consiglio Comunale con la
quale è stata disposta la sdemanializzazione del tratto di
strada
e la vendita diretta
è illegittima per violazione dell’art. 37 del r.d.
827/1924 (contenente il Regolamento di Contabilità di
Stato), senz’altro applicabile ratione temporis ed in forza
del rinvio contenuto nell’art. 87 del r.d. 383/1934, il
quale prevede che “Tutti i contratti dai quali derivi
entrata o spesa dello Stato debbono essere preceduti da
pubblici incanti, eccetto i casi indicati da leggi speciali
e quelli previsti nei successivi articoli”, e dell’art. 41
ove elenca i casi in cui si può ricorrere alla trattativa
privata e specifica che la ragione per la quale si ricorre
alla trattativa privata, deve essere indicata nel decreto di
approvazione del contratto
.
A nulla rileva l'invocata disposizione di cui all’art. 12,
comma 2, della c.d. Bassanini-bis (L. 15.05.1997, n.
127) che ha espressamente facoltizzato i comuni a “procedere
alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in
deroga alle norme di cui alla legge 24.12.1908, n.
783, e successive modificazioni, ed al regolamento approvato
con regio decreto 17.06.1909, n. 454, e successive
modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale
degli enti locali, fermi restando i principi generali
dell’ordinamento giuridico-contabile”, atteso che detta
previsione si conclude statuendo che “A tal fine sono
assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di
acquisto, da definire con regolamento dell’ente” (art. 12,
comma 2).
Ne consegue che la più recente normativa non ha affrancato
l’Ente pubblico dall’adottare criteri e modalità trasparenti
che assicurino la valutazione di concorrenti proposte da
prevedere nel regolamento dell’ente.
In mancanza di norma regolamentare la vendita del bene
pubblico non può derogare a “criteri di trasparenza e
adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare
concorrenti proposte di acquisto”.
---------------
... per l'annullamento:
- della determinazione del Responsabile del Settore Area
Tecnica del Comune di Solignano 05/06/2017, n. 79, reg. gen.
147, recante "Alienazione ex relitto stradale in località
Case Bertacca – esatta individuazione dell'estensione
dell'area oggetto di alienazione";
- di ogni altro atto presupposto, connesso e/o conseguente,
ivi compresa la nota del Responsabile del Settore Area
Tecnica del Comune di Solignano 19/07/2017, prot. n. 3857 e
la comunicazione e-mail 12/06/2017 a firma dello stesso
Responsabile;
...
Il ricorso è fondato.
Devono, tuttavia, preliminarmente, esaminarsi le eccezioni
proposte dalla controinteressata e dal Comune.
Con riguardo all’eccepita inammissibilità per difetto di
giurisdizione, si rileva che la sig.ra Le. non ha
attivato alcuna posizione di diritto soggettivo, ma ha
impugnato una delibera del Consiglio Comunale e una
determina dirigenziale, lamentando la lesione del proprio
interesse legittimo a partecipare alla mancata procedura di
evidenza pubblica per l’acquisto del relitto stradale, come
confermato anche nella diffida pervenuta il 14.06.2017
al Comune di Solignano e come reso evidente dalle censure
contenute in ricorso.
Gli atti impugnati sono provvedimenti amministrativi con i
quali l’amministrazione discrezionalmente dispone la
sdemanializzazione e la vendita dell’area sdemanializzata
alla sig.ra Bu., in relazione ai quali sono configurabili
solo posizioni di interesse legittimo rientranti, ai sensi
dell’art. 7 c.p.a., nella giurisdizione di questo giudice.
Il giudice amministrativo ha, peraltro, reiteratamente
chiarito che anche in caso di procedura per l’alienazione di
immobili, prima della stipula del contratto, la posizione
del privato ha natura di interesse legittimo e che,
pertanto, sussiste la giurisdizione del giudice
amministrativo (tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, n.
1781/2014).
L’eccezione va quindi respinta.
La difesa della controinteressata eccepisce poi la carenza
di interesse in capo alla ricorrente in quanto assume che la
stessa non sarebbe più in termini per impugnare una delibera
del 1992.
Anche tale eccezione è infondata.
La ricorrente utilizza, in quanto proprietaria di terreni
contigui all’area, il tratto stradale di cui si tratta, e
sebbene non possa contestarsi che la sua proprietà confina
con il relitto stradale, il Comune di Solignano non ha mai
comunicato alla medesima né ai suoi danti causa l’intenzione
di sdemanializzare la strada né tanto meno l’intenzione di
cederla alla vicina sig.ra Bu..
La presenza di possibili altri soggetti interessati
all’acquisto si evince dal Verbale della deliberazione del
Consiglio Comunale ove si legge che la vendita è
condizionata al mantenimento del diritto di passaggio per
gli aventi causa.
Eppure non vi è traccia nel testo del provvedimento della
tempestiva notificazione a nessuno dei soggetti
potenzialmente interessati al diritto di passaggio.
La necessità di notifiche o comunicazioni ai proprietari
vicini si ricava dalla disciplina di cui agli artt. 41 di
cui al RD 827/1924, come anche dall’art. 12, comma 2, della
legge 127/1997, ove si prevede che i Comuni e le Province
possono procedere alle alienazioni del proprio patrimonio
immobiliare anche in deroga alle norme sulla contabilità
generale degli enti locali, fermi restando i principi
generali dell'ordinamento giuridico-contabile e sempre che
siano assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di
acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato.
La sig.ra Le., in quanto proprietaria di terreni
contigui all’area per la quale vi è controversia, come si
evince dalle planimetrie prodotte in giudizio, aveva
senz’altro titolo ad essere avvisata adeguatamente della
sdemanializzazione e della intenzione di alienare il bene,
con conseguente irrilevanza della pubblicazione della
delibera sul B.U.R.E.R. ai fini della decorrenza del termine
per l’impugnazione, atteso che detta forma di pubblicità non
appare adeguata per chi è facilmente identificabile come
soggetto interessato e senza considerare che l’atto a suo
tempo pubblicato non identificava la particella oggetto di
sdemanializzazione e cessione.
Pertanto, la ricorrente, avendo avuto piena conoscenza del
provvedimento lesivo solo a seguito dell’accesso, lo ha
tempestivamente impugnato.
Anche questa eccezione va quindi respinta, poiché infondata.
Nel merito il ricorso è fondato.
Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione delle
norme in materia di amministrazione del patrimonio e di
contabilità dello Stato e degli enti pubblici ove prevedono
che la cessione di beni immobili di pubblica proprietà siano
preceduti da procedure di evidenza pubblica idoneamente
pubblicizzate che nel caso di specie non sono state
esperite, né l’Amministrazione ha motivato sulle ragioni per
le quali avrebbe derogato, ricorrendo all’affidamento
diretto alla sig.ra Bu. senza prima verificare l’esistenza
di controinteressati.
Il motivo è fondato.
La delibera n. 2 del 1992 del Consiglio Comunale con la
quale è stata disposta la sdemanializzazione del tratto di
strada in località Casa Bertacca
e la vendita alla sig.ra Bu.
è illegittima per violazione dell’art. 37 del r.d.
827/1924 (contenente il Regolamento di Contabilità di
Stato), senz’altro applicabile ratione temporis ed in forza
del rinvio contenuto nell’art. 87 del r.d. 383/1934, il
quale prevede che “Tutti i contratti dai quali derivi
entrata o spesa dello Stato debbono essere preceduti da
pubblici incanti, eccetto i casi indicati da leggi speciali
e quelli previsti nei successivi articoli”, e dell’art. 41
ove elenca i casi in cui si può ricorrere alla trattativa
privata e specifica che la ragione per la quale si ricorre
alla trattativa privata, deve essere indicata nel decreto di
approvazione del contratto (cfr. Tar Liguria n. 380/2008, ma
vedi anche Tar Napoli VII 5456/2015).
Atteso che nel caso di specie non ricorre alcuna delle
ipotesi che consentono la trattativa privata, il Comune
avrebbe dovuto far precedere la deliberazione del 1992
dall’esperimento di una procedura di evidenza pubblica.
Ciò non è avvenuto.
A nulla rileva l'invocata disposizione di cui all’art. 12,
comma 2, della c.d. Bassanini-bis (L. 15.05.1997, n.
127) che ha espressamente facoltizzato i comuni a “procedere
alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in
deroga alle norme di cui alla legge 24.12.1908, n.
783, e successive modificazioni, ed al regolamento approvato
con regio decreto 17.06.1909, n. 454, e successive
modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale
degli enti locali, fermi restando i principi generali
dell’ordinamento giuridico-contabile”, atteso che detta
previsione si conclude statuendo che “A tal fine sono
assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di
pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di
acquisto, da definire con regolamento dell’ente” (art. 12,
comma 2).
Ne consegue che la più recente normativa non ha affrancato
l’Ente pubblico dall’adottare criteri e modalità trasparenti
che assicurino la valutazione di concorrenti proposte da
prevedere nel regolamento dell’ente.
In mancanza di norma regolamentare la vendita del bene
pubblico non può derogare a “criteri di trasparenza e
adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare
concorrenti proposte di acquisto” che nel caso di specie
risultano totalmente omessi, con evidente compromissione
anche dell’interesse pubblico ad una maggiore entrata, ove
si fosse consentito a più di un soggetto di presentare una
offerta in una situazione nella quale la presenza di altri
confinanti era anche facilmente rilevabile, considerata la
modesta dimensione del reliquato stradale.
L’atto è poi affetto anche da difetto di istruttoria
laddove, pur nella consapevolezza di soggetti interessati al
diritto di passaggio, l’Amministrazione Comunale ha omesso
una verifica della situazione del reliquato stradale
mancando di identificare ed interpellare i proprietari
confinanti con il bene oggetto di sdemanializzazione, e poi
di alienazione, che potevano essere interessati
all’acquisto.
L’accoglimento della scrutinata censura contenuta nel primo
motivo di ricorso comporta l’annullamento della
Deliberazione del Consiglio Comunale del 07.02.1992 e
travolge anche la determina n. 79 del 05/06/2017, atto
meramente esecutivo che ha il suo indefettibile presupposto
nella deliberazione consiliare.
Ne consegue l’assorbimento delle altre censure a fronte
della necessità per il Comune di rinnovare tutti gli atti
qui impugnati per effetto dell’annullamento del
provvedimento presupposto del 1992.
In conclusione il ricorso va accolto e per l’effetto
annullata la deliberazione del 1992, con conseguente
caducazione della determina n. 79 del 2017, fatti salvi gli
ulteriori provvedimenti dell’amministrazione comunale (TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 21.03.2018 n. 83 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 28.06.2018 n. 148 "Regolamento recante
l’individuazione, ai sensi dell’articolo 7, commi 1 e 2, del
decreto del Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 70,
delle scuole di specializzazione che rilasciano i diplomi di
specializzazione che consentono la partecipazione ai
concorsi per l’accesso alla qualifica di dirigente della
seconda fascia" (D.P.C.M.
27.04.2018 n. 80). |
PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 27.06.2018 n. 147 "Regolamento che stabilisce i
titoli valutabili nell’ambito del concorso per l’accesso
alla qualifica di dirigente e il valore massimo assegnabile,
ad ognuno di essi, ai sensi dell’articolo 3, comma 2 -bis ,
del decreto del Presidente della Repubblica 24.09.2004, n.
272" (D.P.C.M. 16.04.2018 n.
78). |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
25.06.2018 n. 145 "Regolamento recante modalità di
svolgimento, tipologie e soglie dimensionali delle opere
sottoposte a dibattito pubblico" (D.P.C.M.
10.05.2018 n. 76). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 21.06.2018 "Approvazione
degli indirizzi per la programmazione e la progettazione
degli interventi di manutenzione delle opere di difesa del
suolo, dei corsi d’acqua, della gestione della vegetazione
negli alvei dei fiumi e della manutenzione diffusa del
territorio" (deliberazione
G.R. 18.06.2018 n. 238). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 20.06.2018 "Quarto
aggiornamento 2018 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (deliberazione
G.R. 14.06.2018 n. 8759). |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 20.06.2018 "Registro
delle Unioni di Comuni Lombarde. 3° aggiornamento 2018 (in
attuazione della d.g.r. 27.03.2015, n. 3304)" (decreto
D.S. 12.06.2018 n. 8590). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E.
19.06.2018 n. L 156 "DIRETTIVA
(UE) 2018/844 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del
30.05.2018 che modifica la direttiva 2010/31/UE sulla
prestazione energetica nell’edilizia e la direttiva
2012/27/UE sull’efficienza energetica". |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 18.06.2018 n. 139 "Regolamento recante disciplina
della cessazione della qualifica di rifiuto di conglomerato
bituminoso ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2 del
decreto legislativo 03.04.2006, n. 152" (Ministero
dell'Ambiente ed ella Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 28.03.2018 n. 69). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
16.06.2018 n. 138 "Accordo, ai sensi dell’articolo 9,
comma 2, lettera c) del decreto legislativo 28.08.1997, n.
281, tra il Governo, le Regioni e gli Enti locali
concernente l’adozione dell’allegato tecnico alla
modulistica per le attività commerciali e assimilate ed
edilizie ad integrazione degli Accordi del 4 maggio e del
06.07.2017 concernenti l’adozione di moduli unificati e
standardizzati per la presentazione delle segnalazioni,
comunicazioni e istanze. (Repertorio atti 19/CU)" (P.C.M.,
Conferenza Unificata,
accordo 22.02.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
15.06.2018 n. 137 "Accordo, ai sensi dell’articolo 9,
comma 2, lettera c) del decreto legislativo 28.08.1997, n.
281, tra il Governo, le regioni e gli enti locali
concernente l’adozione di moduli unificati e standardizzati
per la presentazione delle segnalazioni, comunicazioni e
istanze. (Repertorio Atti n. 18/CU)" (P.C.M.,
Conferenza Unificata,
accordo 22.02.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 15.06.2018 n. 137 "Campagna estiva antincendio
boschivo 2018. Individuazione dei tempi di svolgimento e
raccomandazioni per un più efficace contrasto agli incendi
boschivi, e di interfaccia, nonché ai rischi conseguenti" (P.C.M.,
nota 15.06.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
G.U.U.E. 14.06.2018 n. L 150 "DIRETTIVA
(UE) 2018/851 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del
30.05.2018 che modifica la direttiva 2008/98/CE relativa ai
rifiuti". |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: "MISURE DI SEMPLIFICAZIONE E INCENTIVAZIONE PER
IL RECUPERO DEL PATRIMONIO EDILIZIO (ART. 4, COMMA 2, L.R.
31/2014)" (Regione Lombardia,
deliberazione G.R. 11.06.2018 n. 207).
---------------
Al riguardo:
- si legga la
circolare 14.06.2018 n.
182/2018 di ANCI Lombardia;
- si veda anche l'apposita pagina web della Regione Lombardia: "La
Legge regionale per la riduzione del consumo di suolo e per
la riqualificazione del suolo degradato". |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 24.05.2018 "Ulteriore
sospensione, fino al 30.11.2018, della decorrenza del
periodo transitorio di dodici mesi, previsto dall’art. 13,
comma 2, secondo periodo, della l.r. 33/2015 e avviato, a
far data dal 04.05.2016, dal decreto n. 3809/2016, fino alla
scadenza del quale e’ consentito il deposito della
documentazione di cui all’art. 6 della medesima l.r. 33/2015
in formato sia elettronico che cartaceo" (decreto
D.U.O. 21.05.2018 n. 7262). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Pubblicata la nuova direttiva europea
sull’efficienza energetica (ANCE di Bergamo,
circolare
29.06.2018 n. 161). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Rivalutazione delle ammende e delle sanzioni
amministrative pecuniarie previste dal D.Lgs. 81/2008 (ANCE di Bergamo,
circolare
29.06.2018 n. 160). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Regolamento recante la disciplina della
cessazione della qualifica di rifiuto del conglomerato
bituminoso (fresato d’asfalto) (ANCE di Bergamo,
circolare 22.06.2018 n. 154). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Regola tecnica per contenitori distributori
mobili, ad uso privato, per l’erogazione di carburante
liquido: disposizioni transitorie (ANCE di Bergamo,
circolare 15.06.2018 n. 151). |
APPALTI: Oggetto:
Applicazione da parte delle amministrazioni pubbliche della
direttiva sui servizi di pagamento 2015/2366/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 25.11.2015 (PSD2),
recepita con il decreto legislativo 15.12.2017, n. 218
(MEF-RGS,
circolare 15.06.2018 n. 22). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Impianti di evacuazione fumi (camini)
(Ministero dell'Interno, Comando provinciale VV.F. Bergamo,
nota 12.06.2018 n. 11346 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ENTI LOCALI - VARI:
G. P. Cirillo,
Il diritto di accesso
al mare
(28.06.2018 - tratto da link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
E. Pacia,
Abuso d’ufficio e titoli edilizi in contrasto con lo
strumento urbanistico (17.06.2018 - link a
www.dirittopa.it) |
APPALTI:
M. Terrei,
BANDO DI GARA E DIVIETO DI
DISAPPLICAZIONE DELLA LEX SPECIALIS DA PARTE DELLA STAZIONE
APPALTANTE (16.06.2018 - tratto da
www.dirittoambiente.it).
---------------
SOMMARIO: 1) Premessa; 2) La vicenda giudiziaria;
3) Esito della vicenda; 4) Sulla natura giuridica del bando
di gara e sugli obblighi conseguenti. |
EDILIZIA PRIVATA:
G. Guzzo,
Il silenzio-assenso nell’accertamento di compatibilità
paesaggistica e nel procedimento di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica ordinaria: questione
chiusa dopo la legge n. 124/2015? (08.06.2016
- link a www.academia.edu). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il personale degli Enti Locali - LE ASSUNZIONI -
Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica
(ANCI,
quaderno n. 13 del giugno 2018). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
E. D'Archivio,
Appalti: la giurisprudenza della Corte dei Conti sugli
incentivi tecnici (24.05.2018 - link a
www.altalex.com).
---------------
Sommario: L’incentivo per le funzioni tecniche:
dalla legge Merloni al D.Lgs. 50 del 2016 - La decisione
delle Sezioni delle Autonomie della Corte dei Conti n. 6 del
2018 - Qualche risposta alle domande di sempre. |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - LAVORI PUBBLICI:
E. D'Archivio,
Appalti, modifiche al contratto e varianti in corso d’opera:
una visione d’insieme (02.05.2018 - link a
www.altalex.com).
---------------
Premessa: Le modifiche contrattuali – l’art. 106
del d.lgs. 50/2016 - Principi comuni a tutte le modifiche -
Le modifiche previste nei documenti di gara - Le modifiche
non previste nei documenti di gara - Le varianti in corso
d'opera tradizionali - Le varianti-modifiche non sostanziali
- Le modifiche per importi sottosoglia - Il cosiddetto
quinto d'obbligo - Obblighi di comunicazione e trasmissione
- Incentivazione delle modifiche contrattuali e varianti. |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Pinto,
Di nuovo sul concetto di lottizzazione (abusiva)
(fascicolo 3-4/2018 - tratto da
www.amministrativamente.com).
---------------
Sommario: 1. – Cambiare prospettiva. – 2. Le
origini. – 3. Lo strumento esecutivo e la sua necessità. –
4. Le zone urbanizzate. – 5. L’inesistenza della figura in
astratto e la necessità dell’accertamento in fatto. – 6. La
“rilettura” della giurisprudenza. – 7. La logica
sostanzialistica
---------------
Abstract
Il contributo ha ad oggetto l'istituto della cd.
lottizzazione abusiva, ed in particolare il collegamento tra
l'istituto nel diritto urbanistico e gli strumenti di
pianificazione esecutiva. Nell'evoluzione della disciplina,
la lottizzazione si qualificava come un processo positivo di
raccordo tra il precedente tessuto urbano e il nuovo, che
solo la rete, che avrebbe dovuto crearsi attraverso
l’edificazione di strade e servizi, quali quello fognario ed
elettrico, avrebbero consentito e che, anzi, si presentava
come assolutamente indispensabile per volontà del
legislatore. Di qui l’esigenza di una pianificazione di
secondo livello – rispetto a quella generale e di primo
livello disegnata dal Piano Regolatore – che veniva prevista
dall’art. 13 della legge urbanistica del 1942, volta a
disciplinare il presupposto dell’edificazione, comunemente
riassunta nel termine di piano particolareggiato o, più in
generale, di strumento esecutivo. La considerazione del
livello di pianificazione e realizzazione della rete
infrastrutturale in concreto diventa criterio distintivo per
la qualificazione delle fattispecie della lottizzazione
abusiva. |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
M. Asprone,
Le criticità relative all’accesso agli atti nell’impiego
pubblico di natura privata nella giurisprudenza (fascicolo
3-4/2018 - tratto da www.amministrativamente.com).
---------------
Abstract
Nel 2016 il Supremo Consesso di giustizia amministrativa è
stato chiamato a decidere sull’appello proposto dalla
società Poste Italiane s.p.a. avverso la sentenza dei
giudici di prime cure che, accogliendo il ricorso in primo
grado, avevano annullato la procedura selettiva indetta
dalla suddetta società per un posto di “Capo Squadra” presso
il CMP di Bologna.
Tra le doglianze manifestate dal ricorrente, dipendente di
livello “D” in servizio presso la stessa filiale vi era il
diniego dell’ostensione da parte di Poste Italiane s.p.a.
degli atti concernenti detta procedura selettiva; in
particolare il ricorrente aveva preliminarmente richiesto
alla società di esibire gli elaborati relativi alle prove
scritte di selezione, con riferimento a quelli depositati da
lui stesso e dagli altri candidati, risultati vincitori o
idonei, dei documenti contenenti i criteri valutativi
adottati e dei verbali della commissione esaminatrice. |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Acquasaliente,
Sportello Unico edilizia e sportello unico attività
produttive (20.04.2018 - tratto da
www.amministrativistiveneti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: M.
Spataro,
Mobbing fra colleghi: datore può rivalersi sul dipendente
indisciplinato - Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza
22/03/2018 n. 7097
(19.04.2018 - link a www.altalex.com). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Manuale sulle buone pratiche di
utilizzo dei sistemi di drenaggio urbano sostenibile
(Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze
Agrarie e Ambientali, aprile 2018 -
tratto da
www.gruppocap.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. Amodio,
Il principio di trasparenza e il procedimento
amministrativo: dal diritto di accesso documentale al
diritto di accesso civico
(fascicolo 1-2/2018 - tratto da
www.amministrativamente.com).
---------------
Sommario: 1. Il principio di trasparenza
nell’evoluzione normativa. 2. La trasparenza come “need to
know”: il diritto di accesso documentale. 3. La trasparenza
come “right to know”: il diritto di accesso civico. 4.
L’accesso civico “semplice” e l’accesso civico
“generalizzato”: alcune considerazioni nel confronto tra le
due forme di disclosure. 5. Conclusioni: la pubblica
amministrazione da “palazzo” a “casa di cristallo”?
---------------
Abstract
Il principio di trasparenza, con riguardo all’accessibilità
di documenti, dati e informazioni in possesso della pubblica
amministrazione, ha conosciuto nel nostro ordinamento
un’evoluzione del tutto peculiare, passando dal “need to
know” dell’accesso documentale di cui alla legge n.
241/1990, al “right to know” dell’accesso civico di cui al
decreto legislativo n. 33/2013.
In circa un quarto di secolo, si è cioè assistito a un
progressivo ampliamento della sua funzione: dalla
sostanziale esclusiva tutela di situazioni giuridiche
soggettive, alle più ampie finalità di favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche,
nonché di tutelare i diritti dei cittadini e promuovere la
partecipazione democratica degli stessi all’attività
amministrativa e al dibattito pubblico.
In particolare, il contributo ha una finalità ricognitiva
dello stato dell'arte della normativa vigente e delle
principali posizioni emerse in materia con riguardo agli
istituti dell’accesso documentale e dell’accesso civico
“semplice” e “generalizzato”, nonché i riflessi che tale
disciplina della trasparenza proietta sulla gestione e
organizzazione della pubblica amministrazione, chiamata in
breve tempo a trasformarsi (forse e finalmente) da “palazzo”
a “casa di cristallo”. |
APPALTI:
G. Durano,
La prevenzione dei fenomeni corruttivi e la disciplina del
subappalto nel d.lgs. n. 50/2016
(fascicolo 1-2/2018 - tratto da
www.amministrativamente.com).
---------------
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il Nuovo Codice dei
Contratti Pubblici: il d.lgs. n. 50/2016 – 3. Il codice dei
contratti pubblici a la disciplina del subappalto. – 4.
Cenni conclusivi.
---------------
Abstract
Le discipline normative in ottica di anticorruzione
(mediante l’istituzione di strumenti di prevenzione della
corruzione) pervadono molteplici settori delle attività
economiche, che devono essere ispirate ai principi
concorrenziali e di parità di trattamento di derivazione
comunitaria. Così, anche nel Codice dei Contratti pubblici,
recepito nel nostro ordinamento con il D.lgs. n. 50/2016,
hanno trovato ampio spazio strumenti e normative aventi una
funzione anticorruzione, considerato che anche tale
disciplina è stata nel tempo negativamente influenzata dal
diffondersi di fenomeni corruttivi.
La presa di coscienza di una “nuova” multiforme fisionomia
del concetto di corruzione, riconducibile nell’alveo degli
aspetti più patologici e occulti della maladministration, ha
imposto al Legislatore moderno di approntare opportuni
strumenti preventivi, consapevole che gli strumenti
giuridici possono avere una loro utilità se vengono emanate
quelle che Beccaria avrebbe definito leggi non paurose ma
“prevenitrici dei delitti. |
APPALTI:
F. Pinto,
L’utilizzo delle piattaforme informatiche da parte della
pubblica amministrazione: tra falsi miti e veri rischi
(fascicolo 1-2/2018 - tratto da
www.amministrativamente.com).
---------------
Sommario: 1. La gratuità dell’utilizzo delle
piattaforme informatiche nelle gare telematiche: la
posizione dell’ANAC. – 2. Sulla presunta gratuità delle
piattaforme informatiche in applicazione del cosiddetto
riuso. – 3. Un esempio del costo (nascosto) del riuso: il
caso del comune di Roma e (di nuovo) della piattaforma
Consip. – 4. La posizione del cedente la piattaforma
informatica tra opacità e interessi reali. – 5. L’indagine
dell’ANAC in tema di contratti informatici. – 6. Enormi
banche dati senza controllo? – 7. Piattaforme informatiche e
piccoli comuni. – 8. Sulle centrali di committenza. – 9. I
costi generali di contratto: una soluzione al problema?
---------------
Abstract
Il contributo ha ad oggetto l' utilizzo delle piattaforme
informatiche nelle gare telematiche da parte delle pubbliche
amministrazioni e l'eventuale addebito dei costi a carico
dei concorrenti.
Il legislatore ha provveduto in sede di decreto correttivo
(d.lgs. n. 56 del 2017) ad aggiungere all’originaria
formulazione dell’art. 41 del d.lgs. n. 50 del 2016 (codice
degli appalti) il comma 2-bis in base al quale “è fatto
divieto di porre a carico dei concorrenti nonché
dell’aggiudicatario eventuali costi connessi alla gestione
delle piattaforme di cui l’art. 58”.
La materia è sta oggetto di numerosi interventi da parte
dell'ANAC e della magistratura amministrativa, che hanno
evidenziato la necessità di distinguere per le stazioni
appaltanti i costi palesi di acquisto e di implementazione
delle piattaforme ma anche quelli nascosti nel riuso e nella
manutenzione dei sistemi. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
F. Perrone,
Il procedimento amministrativo dopo la Legge n. 124/2015
(c.d. Riforma Madia)
(fascicolo 11-12/2017 - tratto da
www.amministrativamente.com).
---------------
Sommario: Premessa. 1. Il procedimento
amministrativo prima della legge n. 241/1990. - 2. La Legge
sul procedi-mento amministrativo (legge 07.08.1990 n. 241).
- 3. Gli effetti della Riforma Madia sul procedimento
amministrativo. - 3.1. Interventi di immediata attuazione
sulla Legge n. 241/1990. - 3.1.1. Art. 3 legge n. 1224/2015. - Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e tra
amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi
pubblici. - 3.1.2. Art. 6 legge n. 124/2015 - Autotutela
amministrativa. - 3.2. Le novelle alla Legge n. 241/1990
attuate mediante lo strumento della delega legislativa. -
3.2.1. Conferenza di servizi (art. 2). - 3.2.1.1. Regolamento:
Norme per il riordino della disciplina in materia di
Conferenza di servizi - Art. 2 Legge n. 124/2015. - 3.2.1.2.
Considerazioni conclusive sulla Disciplina generale della
conferenza di servizi come modificata dal d.lgs. n. 127 del
30.06.2016. - 3.2.2. La segnalazione certificata di inizio
attività - Scia (art. 5 legge n. 124/2015). - 4. Le
innovazioni di principio alla Legge n. 241/1990. - 4.1. Carta
della cittadinanza digitale (art. 1 legge n. 124/2015). -
4.2. Revisione e semplificazione delle disposizioni in
materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e
trasparenza (art. 7 legge n. 124/2015). - 5. Conclusioni.
|
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Regione Lombardia, INVARIANZA IDRAULICA - Sul drenaggio
urbano per una gestione sostenibile delle acque meteoriche
(materiale convegnistico
tratto da www.gruppocap.it).)
● R. Cotignola,
Regolamento Regionale
23.11.2017, n. 7: Criteri e metodi per il rispetto del
principio di invarianza idraulica e idrologica
(Regione Lombardia, DG Territorio, Urbanistica, Difesa del
suolo e Città Metropolitana, 28.11.2017);
● M. Clerici,
Esperienze di partenariato territoriale ed istituzionale per
la gestione sostenibile del drenaggio urbano: i contratti di
Fiume (Regione Lombardia, DG Ambiente, Energia,
Sviluppo Sostenibile, 28.11.2017);
● M. Callerio,
Invarianza idraulica e piani di drenaggio sostenibile urbano
- Invarianza idraulica, quali conseguenze? (28.11.2017). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Limitazioni soggettive progressioni orizzontali.
Domanda
È possibile, in tema di progressioni economiche orizzontali,
introdurre regole per far partecipare solo determinate
categorie di dipendenti?
Risposta
Sull’introduzione, in sede di contrattazione decentrata, di
limitazioni o interferenze rispetto alla platea dei
destinatari della progressione, contraria in ogni caso ai
pareri resi dall’Aran in tema [1],
e sul ruolo della dirigenza in materia di valutazione dei
lavoratori, si segnala la sentenza n. 61/2005 del Tribunale
di Ragusa ed in particolare i seguenti passaggi:
“Il contratto collettivo decentrato integrativo del
14.11.2003, sottoscritto dal Comune in virtù della delibera
867 del 2003, è illegittimo nella parte in cui prevede “in
applicazione della dichiarazione congiunta n. 11 allegata al
CCNL del 05.10.2001”, di attuare una progressione economica
orizzontale dall’01.01.2002 per i dipendenti “inquadrati
alla data dell’01.04.1999 in cat. D2 ed in atto inquadrati
in cat. D3”.
La limitazione della platea dei partecipanti alla
progressione economica orizzontale si pone in contrasto con
gli artt. 5 e 13 del CCNL 31.03.1999, nella parte in cui
dispongono che la selezione debba avvenire sulla base di
criteri meritocratici e con riferimento a tutto il personale
inquadrato nella categoria immediatamente precedente a
quella da conseguire.
La contrattazione decentrata può completare ed integrare i
criteri per la progressione economica all’interno della
categoria di cui all’art. 5, comma 2, del CCNL 31.03.1999,
secondo quanto prevede l’art. 16, comma 1, dello stesso
CCNL; non può introdurre surrettiziamente requisiti di
ammissione alle valutazioni dei dirigenti ai fini della
progressione economica, per di più non in via generale, ma
ex post, in sede di attuazione di istituti contrattuali.
È irrilevante il fatto che i dipendenti ammessi alla
valutazione non avevano beneficiato di due progressioni,
come invece i ricorrenti, poiché la disciplina di cui
all’art. 5 del CCNL 31.03.1999 presuppone una selezione
basata solo su indicatori meritocratici, sicché è
indifferente il numero delle selezioni attuate nei confronti
dei dipendenti.”
Si ritiene che tale interpretazione possa considerarsi
valida anche dopo la sottoscrizione del contratto del 2018.
Inoltre, come interpretato dalla giurisprudenza, “In tal
contesto, i poteri discrezionali o valutativi che sono
riconosciuti al datore di lavoro pubblico (anche in tema di
procedure di avanzamento in carriera) si collocano sempre,
come nel lavoro privato, sul piano del regime di diritto
comune, e costituiscono espressione di “potere privato”, e
non anche di discrezionalità amministrativa, risultando
censurabili in conformità alle disposizioni di legge e di
contratto, e comunque sulla base delle regole di correttezza
e buona fede (in quanto espressive dei principi di
imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost. cfr.
SU n. 9332/2002; Cass. n. 9814/2008; Cass. n. 28274/2008) ed
in conformità a criteri di adeguatezza e ragionevolezza.”
[2]
Il principio costituzionale di imparzialità e buon andamento
deve escludere qualsiasi favoritismo o “aggiustamento”
delle regole allo scopo di procurare ad un soggetto un
particolare vantaggio, a detrimento degli altri lavoratori.
Oltre a ciò si ricorda la sentenza del Tribunale di Catania
n. 3773 del 22.09.2015, assolutamente condivisibile, che ha
stabilito che la contrattazione collettiva decentrata
integrativa non può prevedere che si formino due distinte
graduatorie nell’ambito della categoria D, una per i
titolari di posizione organizzativa ed una per gli altri
dipendenti della medesima categoria.
[1] Il principio “si ritiene che tutti i dipendenti
debbano essere comunque presi in considerazione e valutati
in relazione alle attività effettivamente svolte ed ai
risultati concretamente conseguiti, con riferimento alle
mansioni del profilo di appartenenza e nell’ambito dei
compiti di ufficio,…” è stato inserito dall’Aran in
numerosi pareri: vedasi RAL_280/2011, RAL_282/2011,
RAL_1008/2012, RAL_1014/2012, RAL_1155/2012, ecc.
[2] Sentenza disponibile
cliccando qui (27.06.2018 - tratto da e
link a www.publika.it). |
APPALTI:
Criteri nomina commissione di gara.
Domanda
Come RUP, su incarico del dirigente, devo predisporre l’atto
di nomina della commissione di gara (l’appalto riguarda i
servizi di assistenza domiciliare per un importo
abbondantemente sotto la soglia comunitaria) mi chiedevo se
devo necessariamente proporre una commissione di gara
rispettando l’articolo 77 del codice o posso eventualmente
prescinderne visto che –anche secondo quanto affermato da
recente giurisprudenza– nel sotto soglia comunitario non si
applicano tutte le norme codicistiche.
Risposta
Effettivamente, anche in tempi recentissimi (in particolare,
il Tar Lazio, Latina, sez. I, con la sentenza n. 339/2018)
si è sostenuto che, nell’ambito degli importi sotto soglia
(art. 35 del codice) gran parte del codice dei contratti non
trova applicazione.
Nel caso di specie, della sentenza citata, questo giudice ha
sostenuto –davanti alle censure di illegittima composizione
della commissione di gara– che le norme del codice (in
particolare l’art. 77) non troverebbero applicazione
nell’aggiudicazione di appalti di importo sotto la soglia
comunitaria.
A parere di chi scrive, tale affermazione non appare
condivisibile ed anzi appare addirittura “pericolosa”.
E’ bene infatti che la commissione di gara venga sempre
costituita secondo regole di competenza, imparzialità e
trasparenza.
I commissari devono essere esperti del settore (il collegio
deve assicurare una competenza complessiva non specifica in
ogni commissario) e, soprattutto, devono essere verificate
eventuali incompatibilità (ai sensi dell’articolo 77).
Sarebbe bene se la stazione appaltante si desse un proprio
regolamento interno o almeno un indirizzo di carattere
generale (a sommesso avviso è sufficiente anche una delibera
di giunta) in cui si precisano le modalità da seguire nella
nomina dei commissari soprattutto se esterni.
Sulla questione della partecipazione in commissione del RUP
o del responsabile del servizio è bene che chi abbia
effettivamente predisposto “le regole della gara” non
prenda parte ai lavori della commissione.
Perché, pur vero che la giurisprudenza appare, sul punto,
abbastanza ondivaga e contraddittoria è bene inserire in
commissione soggetti totalmente estranei alla redazione
degli atti di gara in modo da assicurare la massima
trasparenza e prevenire ogni tipo di rilievo.
Da rammentare che la determina di nomina della commissione
deve essere pubblicata ai sensi dell’art. 29 del codice dei
contratti così come debbono essere pubblicati i curricula
dei commissari (27.06.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Privacy e dichiarazione inconferibilità incarico.
Domanda
Un nostro dirigente si rifiuta di consegnare al servizio
personale la dichiarazione in materia di inconferibilità e
incompatibilità, prevista dal d.lgs. 39/2013, evidenziando “questioni
di privacy”. Cosa possiamo dirgli per convincerlo?
Risposta
Il decreto legislativo 08.04.2013, n. 39, emanato dal
Governo sulla base di una delega del Parlamento, prevista
nell’articolo 1, comma 49, della legge 06.11.2012, n. 190
(legge Severino sull’anticorruzione), contiene “Disposizioni
in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi
presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti
privati in controllo pubblico”.
L’articolo 2, del citato provvedimento, definisce l’ambito
applicativo della disposizione nel comma 1 e, per gli enti
locali, precisa, testualmente, al comma 2: "2. Ai fini
del presente decreto al conferimento negli enti locali di
incarichi dirigenziali è assimilato quello di funzioni
dirigenziali a personale non dirigenziale, nonché di tali
incarichi a soggetti con contratto a tempo determinato, ai
sensi dell’art. 110, comma 2, del testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, di cui al d.lgs.
18.08.2000, n. 267".
L’obbligo di sottoscrivere una dichiarazione e consegnarla
alla competente struttura amministrativa, che provvederà,
poi, alla sua pubblicazione nel sito web dell’ente, è,
invece, prevista dall’art. 20 del citato d.lgs.
[1] ed è
un obbligo a cui nessun dirigente (e segretario comunale)
può sottrarsi anche perché –come ben specificato nel comma
4, dell’art. 20– la pubblicazione della dichiarazione è
condizione per l’acquisizione dell’efficacia dell’incarico.
La dichiarazione circa l’assenza di cause di inconferibilità
deve essere presentata all’atto di conferimento
dell’incarico, mentre la dichiarazione sull’assenza delle
cause di incompatibilità deve essere presentata annualmente.
Trattandosi di un obbligo, previsto da una specifica
disposizione legislativa, non è possibile invocare alcuna “questione
di tutela della privacy”, né alla luce del d.lgs.
196/2003, né del nuovo Regolamento Europeo n. 2016/679,
pienamente operativo dal 25.05.2018.
Per l’ente che riceve (e pubblica) le dichiarazioni dei
dirigenti –e delle posizioni organizzative negli enti senza
dirigenza– resta il problema di compiere gli opportuni
controlli sulla veridicità delle dichiarazioni rese. In tal
senso, l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) ha emanato
alcune indicazioni che sono contenute nel Paragrafo 7.3, del
Piano Nazionale Anticorruzione, approvato con la
deliberazione n. 831 del 03.08.2016 e, più in dettaglio,
nella deliberazione n. 833, datata anch’essa 03.08.2016,
recante “Linee guida in materia di accertamento delle
inconferibilità e delle incompatibilità degli incarichi
amministrativi da parte del responsabile della prevenzione
della corruzione. Attività di vigilanza e poteri di
accertamento dell’A.N.AC. in caso di incarichi inconferibili
e incompatibili”.
In entrambi i documenti, viene previsto che le modalità
operative per esercitare le opportune verifiche ed i
necessari controlli, debbono essere previsti nel Piano di
Prevenzione della Corruzione, approvato nell’ente. Misure a
cui è necessario dare attuazione nel corso dell’anno di
validità del Piano. Tale indispensabile attività di
verifica, risulta viepiù importante alla luce del contenuto
del comma 5, del citato articolo 20, che prevede –ferme le
altre gravi responsabilità– un divieto quinquennale di
conferimento di incarico, qualora la dichiarazione resa dai
dirigenti risulti mendace.
Al dirigente recalcitrante, pertanto, sarà sufficiente
ricordargli che, senza la dichiarazione, l’incarico non
acquisisce efficacia, con tutte le conseguenze previste
dalle norme di legge.
Non è un caso, infatti, che tra le verifiche compiute dagli
Ispettori del Ministero Economia e Finanze presso i comuni,
da qualche tempo, ci sia anche l’accertamento della
pubblicazione delle dichiarazioni dei dirigenti (ex art. 20,
comma 3, d.lgs. 39/2013) ai quali –senza dichiarazioni– tra
le altre cose, non è possibile liquidare la retribuzione di
risultato.
---------------
[1] Art. 20 Dichiarazione sulla insussistenza di cause di
inconferibilità o incompatibilità
1. All’atto del conferimento dell’incarico l’interessato presenta
una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di
inconferibilità di cui al presente decreto.
2. Nel corso dell’incarico l’interessato presenta annualmente una
dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di
incompatibilità di cui al presente decreto.
3. Le dichiarazioni di cui ai commi 1 e 2 sono pubblicate nel sito
della pubblica amministrazione, ente pubblico o ente di
diritto privato in controllo pubblico che ha conferito
l’incarico.
4. La dichiarazione di cui al comma 1 è condizione per
l’acquisizione dell’efficacia dell’incarico.
5. Ferma restando ogni altra responsabilità, la dichiarazione
mendace, accertata dalla stessa amministrazione, nel
rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio
dell’interessato, comporta la inconferibilità di
qualsivoglia incarico di cui al presente decreto per un
periodo di 5 anni (26.06.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
APPALTI:
Clausola sociale e soccorso istruttorio.
Domanda
In fase di verifica delle dichiarazioni, il seggio di gara
–presieduto dal RUP– ha riscontrato che alcuni operatori non
hanno espresso adesione alla richiesta di impegnarsi ad
assorbire il personale impiegato nella precedente gestione
del servizio. Mentre, nel bando di gara era abbastanza
chiaro che la stazione appaltante intende usufruire –pur in
un appalto sotto soglia– delle prerogative connesse alla
clausola sociale ai fini del mantenimento dei livelli
occupazionali.
Come dovremmo procedere ora? Dobbiamo escludere le imprese
che non hanno manifestato adesione all’applicazione della
clausola sociale o dobbiamo necessariamente “invitare”
tali imprese al soccorso istruttorio integrativo?
Risposta
Il quesito riveste un’importanza pratica significativa anche
alla luce del recente schema di linee guida ANAC sulla
corretta applicazione della clausola sociale.
Senza dilungarsi, è abbastanza noto che la clausola in
argomento ha l’obiettivo di mantenere inalterato il livello
occupazionale – soprattutto per un certo tipo di “manodopera”
– nella successione dei contratti.
In sostanza, grava –e si dirà in che misura/intensità–
sull’aggiudicatario un onere (potenziale) di assorbire il
personale già utilizzato, soprattutto, se non
esclusivamente, nella gestione precedente di un servizio.
Una delle questioni fraintese –e sarebbe stato interessante
avere la clausola del capitolato/legge di gara– riguarda la
corretta definizione delle prerogative della stazione
appaltante che abbia inserito la clausola sociale nelle
disposizioni di gara.
Da notare che l’inserimento della clausola, nei contratti ad
alta intensità di manodopera (ai sensi dell’articolo 50 del
codice dei contratti) risulta obbligatoria nei contratti
sopra soglia ma facoltativa nei contratti sotto la soglia
comunitaria (ai sensi dell’articolo 35 del codice dei
contratti).
Sulla questione dei rapporti tra clausola e soccorso, è bene
rammentare –come si è evidenziato in altra circostanza (e
come ora emerge chiaramente sia dalla giurisprudenza sia
dallo schema di linee guida sopra citate)- che
l’aggiudicatario, in realtà, non ha alcun obbligo di
riassumere il personale precedentemente utilizzato.
Pertanto, l’eventuale clausola sociale qualora disponesse o
venisse interpretata come diretta ad imporre un obbligo
assunzionale deve ritenersi sicuramente illegittima.
La previsione deve essere interpretata come vincolo
potenziale dell’aggiudicatario condizionato dalla propria
situazione organizzativa: se l’aggiudicatario ha necessità
di personale per svolgere il servizio prioritariamente dovrà
riassumere il personale precedentemente occupato.
Questa previsione sembra pertanto, in teoria, in contrasto
con l’esigenza di attivare un soccorso istruttorio per
esprimere l’adesione ad una clausola “potenzialmente”
illegittima.
Naturalmente così non è nel senso che potrebbe essere
illegittima l’interpretazione ma non una clausola che
venisse interpretata in senso “costituzionale”.
Alla luce di quanto, si è indotti a ritenere che il RUP (o
il soggetto individuato dalla stazione appaltante) debba
invitare gli operatori che non abbiano espresso adesione ad
integrare la propria dichiarazione (nel termine perentorio
di 10 giorni ai sensi dell’articolo 83, comma 9 del codice
dei contratti).
Sul punto si può riportare la riflessione dell’ANAC espressa
proprio nello schema più volte citato in cui si legge che “qualora
pertanto la stazione appaltante accerti in gara, se del caso
attraverso il meccanismo del soccorso istruttorio, che
l’impresa concorrente rifiuta, senza giustificato motivo, di
accettare la clausola, si impone l’esclusione dalla gara,
laddove l’accertamento compiuto consenta di ritenere che
l’operatore economico intenda rifiutare sic et simpliciter
l’applicazione della clausola, legittimamente prevista.
L’esclusione, viceversa, non appare fondata nell’ipotesi in
cui, stante la pur legittima previsione della clausola,
l’operatore economico manifesti il proposito di applicarla
nei limiti di compatibilità con la propria organizzazione
d’impresa, (si veda la sentenza del Consiglio di Stato n.
272 del 17.01.2018)” (20.06.2018 - tratto da e
link a www.publika.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Pubblicazione modulistica accesso civico.
Domanda
Il nostro Ente deve ancora organizzare la sotto sezione di
Amministrazione Trasparente riguardante l’accesso agli atti,
a seguito dell’introduzione dell’accesso civico
generalizzato.
Potreste darci indicazioni su come operare e su quale
modulistica pubblicare?
Risposta
Su iniziativa del Dipartimento della Funzione Pubblica è
stato recentemente pubblicato online il portale
www.foia.gov.it, al
quale le pubbliche amministrazioni possono fare riferimento
per ottenere informazioni e chiarimenti sull’applicazione
pratica dell’accesso civico generalizzato, introdotto nella
nostra normativa con l’approvazione del cosiddetto
Freedom Of Information Act (FOIA) – 25.05.2016, n. 97,
articolo 5 e successivi.
Il Centro nazionale di competenza FOIA –istituito presso il
Dipartimento della Funzione Pubblica– offre un valido
supporto nell’applicazione del nuovo istituto del diritto di
accesso civico generalizzato dei cittadini.
In particolare, per gli enti, le P.A. e le società pubbliche
che ancora non ha organizzato la sotto sezione di
Amministrazione Trasparente dedicata > ALTRI CONTENUTI >
ACCESSO CIVICO, sul portale
www.foia.gov.it, è possibile trovare:
• la modulistica utilizzabile da privati e pubbliche
amministrazioni nelle diverse fasi del procedimento di
accesso civico generalizzato;
• i riferimenti normativi che, a più livelli, disciplinano
l’istituto dell’accesso generalizzato e ne regolano
l’attuazione;
• le indicazioni operative per la creazione del Registro degli
Accessi;
• FAQ e strumenti a supporto della gestione del procedimento FOIA;
• i risultati dell’attività di monitoraggio dell’attuazione della
norma;
• una raccolta dei pareri del Garante per la protezione dei dati
personali e della giurisprudenza in materia.
Per assolvere correttamente agli obblighi di pubblicazione
riferibili a questa specifica sotto sezione di
Amministrazione Trasparente, si potrebbe quindi utilmente
creare un collegamento con il portale web www.foia.gov.it,
integrando le informazioni già presenti con la pubblicazione
della modulistica riguardante l’accesso civico semplice
(art. 5, comma 1, d.lgs. 33/2013) e l’accesso agli atti di
tipo tradizionale, ancora oggi disciplinato dalla legge
07.08.1990, n. 241, Titolo V, capitoli da 22 a 28, non
modificato, né interessato dalle nuove disposizioni (19.06.2018
- tratto da e link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Nuova CILA - Decreto Legislativo n. 222/2016 (Regione Lombardia, risposta e-mail del 12.01.2017-24.02.2017). |
URBANISTICA:
Oggetto: Interpretazione disposto di cui all'art. 5, comma 6, L.R. 31/2014 -
presentazione istanza di approvazione Piani Attuativi (Regione
Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica, Difesa del Suolo e
Città Metropolitana,
risposta e-mail del
29.12.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Oneri aggiuntivi ex art. 16, comma 4, lett.
d-ter), DPR n. 380/2001 (Regione Lombardia, Direzione
Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo,
risposta e-mail del 14.04.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Interventi di rigenerazione urbana ex art. 4 L.R. n. 31/2014 (Regione Lombardia - Direzione Generale Ambiente, Energia e Sviluppo Sostenibile,
risposta e-mail del 24.03.2016-08.04.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Interpretazione art. 34 DPR n. 380/2001 (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo,
risposta e-mail del 23.03.2016). |
URBANISTICA: OGGETTO: Interpretazione disposto di cui all'art. 5, comma 8, L.R. 31/2014 - rateizzazione monetizzazione aree a standard (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo,
risposta e-mail del 05.02.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Intervento edilizio gratuito in zona agricola da parte dello I.A.P. (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo,
risposta e-mail del 27.01.2016). |
URBANISTICA: OGGETTO: Piani attuativi in variante al vigente P.G.T. (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo,
risposta e-mail del 15.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Tipi di sanatoria edilizia ordinaria ex DPR n. 380/2001 (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo,
risposta e-mail del 15.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Interpretazione art. 44, comma 12, L.R. n. 12/2005 (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo,
risposta e-mail del 15.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Cambio destinazione d'uso SENZA OPERE EDILIZIE - verifica accessibilità (o meno) dell'unità immobiliare da RESIDENZIALE a DIREZIONALE (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo,
risposta e-mail del 15.01.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: OGGETTO: Istanza al SUAP in variante al vigente PGT (Regione Lombardia - Area Affari Istituzionali - Presidenza,
risposta e-mail del 14.12.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Determinazione incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria. Art. 16, comma 4, lett. d-ter), DPR n. 380/2001 [lettera aggiunta dall'art. 17, comma 1, lett. g), legge 11.11.2014 n. 164 di conversione, con modificazioni, del d.l. 11.09.2014 n. 133] (Regione Lombardia - Area Affari Istituzionali - Presidenza,
risposta e-mail del 23.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Modifica destinazione d’uso piazzale esterno quale spazio espositivo delle autovetture in vendita, legate all’attività commerciale esistente (Regione Lombardia - Area Affari Istituzionali - Presidenza,
risposta e-mail dell'08.09.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Opere edilizie realizzabili con comunicazione ex art. 6 DPR 380/2001 (Regione Lombardia - DC Legale, Controlli, Istituzionale, Prevenzione, Corruzione - Presidenza,
risposta e-mail del 20.07.2015). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Ristrutturazione edilizia fabbricato artigianale/industriale: modalità di calcolo oneri di urbanizzazione (Regione Lombardia - DC Legale, Controlli, Istituzionale, Prevenzione, Corruzione - Presidenza,
risposta e-mail del 15.07.2015). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Per
gli incentivi tecnici serve sempre la gara.
Gli incentivi per le funzioni tecniche possono essere
riconosciuti solo per le attività riferibili a lavori,
servizi o forniture affidati con gara. Le procedure
eccezionali e non competitive sono sottratte
all’incentivazione.
Presupposto
necessario e ineludibile per procedere all’accantonamento di
risorse finanziarie nell’apposito fondo da destinare agli
incentivi per le funzioni tecniche, previa adozione di
apposito regolamento, è la presenza di una “gara”.
Invero:
●
in mancanza di una gara l’art. 113, comma 2, del decreto
legislativo n. 50 del 2016 e successive modificazioni non
prevede l’accantonamento delle risorse e, conseguentemente,
la relativa distribuzione;
● gli
incentivi per funzioni tecniche possono essere riconosciuti
esclusivamente per le attività riferibili a contratti di
lavori, servizi o forniture che, secondo la legge (comprese
le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il regolamento
dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una
procedura comparativa. La stessa disciplina si applica agli
appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è
nominato il direttore dell’esecuzione;
●
si deve escludere, pertanto, dagli incentivi per
funzioni tecniche qualsiasi fattispecie non espressamente
indicata dall’articolo 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 e
successive modificazioni. Solo in presenza di una procedura
di gara o in generale di una procedura competitiva si può
accantonare il fondo che viene successivamente ripartito
sulla base di un regolamento adottato dall’amministrazione.
Le procedure eccezionali e non competitive sono sottratte
all’incentivazione.
---------------
L’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016
consente, previa adozione di un
regolamento interno e della stipula di un accordo di
contrattazione decentrata, di erogare emolumenti economici
accessori a favore del personale interno alle Pubbliche
amministrazioni per attività, tecniche e amministrative,
nelle procedure di programmazione, aggiudicazione,
esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli
appalti di lavori, servizi o forniture.
In particolare, il comma 2 dell’art.
113 in esame consente alle amministrazioni aggiudicatrici di
destinare, a valere sugli stanziamenti di cui al precedente
comma 1, “ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura
non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei
lavori, servizi e forniture, posti a base di gara”.
Si tratta nel complesso di compensi volti a
remunerare prestazioni tipiche di soggetti individuati e
individuabili, direttamente correlati all’adempimento dello
specifico compito affidato ai potenziali beneficiari
dell’incentivo.
La norma contiene un sistema di vincoli
compiuto per l’erogazione degli incentivi che, infatti, sono
soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono
l’incontrollata espansione: uno di carattere generale (il
tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e
l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del
trattamento economico complessivo per gli incentivi
spettante al singolo dipendente).
Per l’erogazione degli incentivi l’ente
deve munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la
condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli
aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo e la sede
idonea per circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle
quali gli incentivi possono essere erogati.
---------------
In data 14.05.2018 è pervenuta, per il tramite del Consiglio
delle Autonomie Locali della Regione Marche, una
richiesta di parere formulata dalla Presidente della
Provincia di Fermo, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della
legge n. 131/2003.
L’Amministrazione istante formula la seguente richiesta di
parere.
“La Provincia di Fermo sta predisponendo il Regolamento
sugli incentivi delle funzioni tecniche ai sensi dell'art.
113 D.Lgs. 50/2016 e ss.mm.ii..
Nella redazione della bozza di Regolamento sono stati
esclusi gli incentivi delle funzioni tecniche svolte per
lavori, servizi e forniture affidati ai sensi dell'art. 36,
comma 2°, lett. a) del Codice dei contratti ovvero gli
affidamenti diretti di importo inferiore a € 40.000.
È emerso un orientamento per il quale anche per le funzioni
tecniche svolte dal personale coinvolto per lavori, servizi
e forniture affidati ai sensi dell'art. 36, comma 2°, lett.
a) del Codice dei contratti ovvero gli affidamenti diretti
di importo inferiore a 40.000 dovrebbero essere riconosciuti
e liquidati gli incentivi.”.
Ai fini dell'ammissibilità la richiedente ha dichiarato in
particolare che:
- le disposizioni di legge di cui si chiede l'interpretazione
sono: art. 36, comma 2° lett. a) ed art. 113, 2° comma,
D.Lgs. 18/04/2016 n. 50 e ss.mm.ii.;
- la propria tesi interpretativa in merito alla disposizione di
legge citata è nel senso che dovrebbero essere esclusi gli
incentivi delle funzioni tecniche svolte per lavori, servizi
e forniture affidati ai sensi dell'art. 36, comma 2°, lett.
a), del Codice dei contratti ovvero gli affidamenti diretti
di importo inferiore a € 40.000;
- sulla materia risultano i seguenti pareri unanimi di altre
Sezioni di controllo della Corte dei Conti: Lombardia
parere 09.06.2017 n. 185, Lombardia
parere 09.06.2017 n. 190, Corte dei Conti Toscana
parere 14.12.2017 n. 186.
...
Passando quindi al merito della istanza, si rileva che la
materia degli incentivi per funzioni tecniche, oggetto della
richiesta di parere, è disciplinata dall’articolo 113 del
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 e successive
modificazioni recante il Codice dei contratti pubblici.
Si riporta testualmente, per quel che qui interessa, il
comma 2 della disciplina normativa sopra citata: “2. A
valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le
amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito
fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per
cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture,
posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai
dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di
programmazione della spesa per investimenti, di valutazione
preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo
delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti
pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da
parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali
sono in essere contratti o convenzioni che prevedono
modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche
svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o
si avvalgono di una centrale di committenza possono
destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale
centrale. La disposizione di cui al presente comma si
applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso
in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”.
Dalla lettura della disposizione normativa sopra richiamata
emerge chiaramente che presupposto
necessario e ineludibile per procedere all’accantonamento di
risorse finanziarie nell’apposito fondo da destinare agli
incentivi per le funzioni tecniche, previa adozione di
apposito regolamento, sia la presenza di una “gara”.
In ordine alle modalità di applicazione del sistema
normativo sopra richiamato e alla tassatività e esclusività
dei precetti dallo stesso delineati, si riportano i principi
derivanti dal consolidato orientamento giurisprudenziale
formatosi in materia, che questa Sezione condivide.
In mancanza di una gara l’art. 113, comma
2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 e successive
modificazioni non prevede l’accantonamento delle risorse e,
conseguentemente, la relativa distribuzione
(cfr.
parere 09.06.2017 n. 185
della Sezione regionale di controllo per la Lombardia).
Gli incentivi per funzioni tecniche possono
essere riconosciuti esclusivamente per le attività
riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che,
secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa
richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati
previo espletamento di una procedura comparativa. La stessa
disciplina si applica agli appalti relativi a servizi o
forniture nel caso in cui è nominato il direttore
dell’esecuzione
(cfr.
parere 09.06.2017 n. 190
della Sezione regionale di controllo per la Lombardia).
Si deve escludere, pertanto, dagli
incentivi per funzioni tecniche qualsiasi fattispecie non
espressamente indicata dall’articolo 113, comma 2, del
d.lgs. n. 50/2016 e successive modificazioni. Solo in
presenza di una procedura di gara o in generale di una
procedura competitiva si può accantonare il fondo che viene
successivamente ripartito sulla base di un regolamento
adottato dall’amministrazione. Le procedure eccezionali e
non competitive sono sottratte all’incentivazione
(cfr.
parere 14.12.2017 n. 186
della Sezione regionale di controllo per la Toscana).
Sul punto si evidenzia, inoltre, quanto affermato dalla
Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 26.04.2018 n. 6.
L’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016
(Codice dei contratti pubblici), rubricato “incentivi per
funzioni tecniche”, consente, previa
adozione di un regolamento interno e della stipula di un
accordo di contrattazione decentrata, di erogare emolumenti
economici accessori a favore del personale interno alle
Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche e
amministrative, nelle procedure di programmazione,
aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di
conformità) degli appalti di lavori, servizi o
forniture.
In particolare, il comma 2 dell’art. 113 in
esame consente alle amministrazioni aggiudicatrici di
destinare, a valere sugli stanziamenti di cui al precedente
comma 1, “ad un apposito fondo risorse finanziarie in
misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo
dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara”.
Si tratta nel complesso di compensi volti a
remunerare prestazioni tipiche di soggetti individuati e
individuabili, direttamente correlati all’adempimento dello
specifico compito affidato ai potenziali beneficiari
dell’incentivo.
Sulla questione è anche rilevante considerare che
la norma contiene un sistema di vincoli compiuto per
l’erogazione degli incentivi che, infatti, sono soggetti a
due limiti finanziari che ne impediscono
l’incontrollata espansione: uno di carattere generale (il
tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e
l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del
trattamento economico complessivo per gli incentivi
spettante al singolo dipendente).
La Sezione delle Autonomie, infine, ribadisce che
per l’erogazione degli incentivi l’ente deve munirsi
di un apposito regolamento, essendo questa la condizione
essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi
diritto delle risorse accantonate sul fondo e la sede idonea
per circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali
gli incentivi possono essere erogati
(Corte dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere 08.06.2018 n. 28). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Le
regole per gli incarichi ai pensionati.
Quali sono gli incarichi vietati ai dipendenti in pensione? Quali, invece,
si possono affidare ai sensi dell'articolo 5, comma 9, del Dl 95/2012?
Con
parere 06.06.2018 n. 180 la Corte dei
conti della Lombardia illustra che gli incarichi configurabili tra quelli di
studio e consulenza, soggetti al divieto contenuto nella norma, sono quelli
indicati dalle sezioni riunite in sede di controllo, che ne hanno definito
con precisione i contorni nelle linee di indirizzo approvate con
deliberazione 15.02.2005 n. 6.
In particolare, nella deliberazione si afferma che: «- “gli incarichi di
studio possono essere individuati con riferimento ai parametri indicati dal
D.P.R. n. 338/1994 che, all'articolo 5, determina il contenuto
dell'incarico nello svolgimento di un'attività di studio, nell'interesse
dell'amministrazione. Requisito essenziale, per il corretto svolgimento di
questo tipo d'incarichi, è la consegna di una relazione scritta finale,
nella quale saranno illustrati i risultati dello studio e le soluzioni
proposte”; - “le consulenze … riguardano le richieste di pareri ad
esperti”.»
Peraltro, prosegue il Collegio, «nella medesima deliberazione è fornita
anche l'esemplificazione delle prestazioni che rientrano nella previsione
normativa:
- “studio e soluzione di questioni inerenti all'attività
dell'amministrazione committente”;
- “prestazioni professionali finalizzate alla resa di pareri, valutazioni,
espressione di giudizi”;
- “consulenze legali, al di fuori della rappresentanza processuale e del
patrocinio dell'amministrazione”;
- “studi per l'elaborazione di schemi di atti amministrativi o normativi”.»
Quanto, poi, agli elementi da considerare in merito alla indistinzione, nei
soggetti in quiescenza, tra lavoratori dipendenti e autonomi, la Corte
osserva che la norma non pone alcuna discriminazione circa le condizioni
soggettive del soggetto e la tipologia di pensionamento (pensione di
vecchiaia, anzianità, anticipata, ecc.) per cui non è possibile alcuna
differenziazione sulla base di criteri ricavabili dal testo normativo
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.06.2018).
---------------
MASSIMA
Il Presidente della regione Lombardia ha richiesto con la richiamata
nota il parere della sezione sulla “qualificazione della
condizione di quiescenza ai sensi dell’articolo 5, comma 9, del decreto-legge
95 del 2012”.
In particolare, si chiede se “l’avvocato titolare di pensione di
vecchiaia ex-articolo 2 della legge 576 del 1980 ed iscritto all’albo sia da
considerare lavoratore in quiescenza” ai sensi della richiamata norma
del 2012, “con la conseguenza che il conferimento allo stesso di
incarichi di studi e consulenza da parte di soggetti pubblici”, sia
consentito esclusivamente a titolo gratuito.
L’incarico in questione è quello di cui all’articolo 8, comma 1, lettera b)
della legge regionale 20 del 2008, in base al quale è stato istituito, con
delibera di Giunta, il Comitato Tecnico Scientifico Legislativo, “quale
organismo a carattere consultivo a supporto delle strutture della Giunta
regionale”.
Il Comitato svolge “l’esame e gli approfondimenti di carattere giuridico
e normativo degli argomenti posti in trattazione sia in forma collegiale che
con apporti dei singoli componenti”, che sono tenuti a presentare
contributi scritti sui temi all’ordine del giorno e, senza compensi
suppletivi, “a fornire per iscritto i pareri e/o gli ulteriori
approfondimenti richiesti dagli Uffici”.
Tra i requisiti richiesti per il Comitato figura, in alternativa rispetto al
titolo di professore universitario, l’iscrizione all’albo degli avvocati con
abilitazione al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori.
...
2. Merito. La questione è stata già trattata da questa Sezione nel
parere 24.05.2017 n. 148, che ha inquadrato i
termini della questione.
2.1. La richiesta di parere in esame verte sull’ambito di operatività del
divieto di incarico retribuito di cui all’art. 5, comma 9, del decreto legge
06.07.2012 n. 95.
La norma testualmente dispone, con riferimento al quesito posto, che “è
fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2,
del decreto legislativo n. 165 del 2011, nonché alle pubbliche
amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica
amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica
(ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196
nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per
le società e la borsa (Consob) di attribuire incarichi di studio e di
consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in
quiescenza (….)”. “Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni di cui ai
periodi precedenti sono comunque consentiti a titolo gratuito”.
(…).
2.2 L’incarico indicato nella richiesta di parere e sopra richiamato è
configurabile tra quelli di studio e consulenza, di cui le sezioni Riunite
in sede di controllo, hanno definito con precisione i contorni (Linee di
indirizzo approvate con
deliberazione
15.02.2005 n. 6).
In particolare, nella richiamata deliberazione della Sezione, si afferma
che:
- “gli incarichi di studio possono
essere individuati con riferimento ai parametri indicati dal D.P.R. n.
338/1994 che, all’articolo 5, determina il contenuto dell’incarico nello
svolgimento di un’attività di studio, nell’interesse dell’amministrazione.
Requisito essenziale, per il corretto svolgimento di questo tipo
d’incarichi, è la consegna di una relazione scritta finale, nella quale
saranno illustrati i risultati dello studio e le soluzioni proposte”;
- “le consulenze … riguardano le
richieste di pareri ad esperti”.
Nella medesima deliberazione è fornita anche la seguente esemplificazione
delle prestazioni che rientrano nella previsione normativa:
- “studio e soluzione di
questioni inerenti all’attività dell’amministrazione committente”;
- “prestazioni professionali finalizzate alla
resa di pareri, valutazioni, espressione di giudizi”;
- “consulenze legali, al di fuori della
rappresentanza processuale e del patrocinio dell’amministrazione”;
- “studi per l’elaborazione di schemi di
atti amministrativi o normativi”.
2.3 le funzioni affidate al Comitato Tecnico Scientifico Legislativo sono
riconducili alle fattispecie indicate dalle Sezioni Riunte in sede di
controllo, quindi riconducibili alla tipologia “studio e consulenza”.
Di conseguenza, come recita testualmente la richiamata disposizione
legislativa i soggetti “già lavoratori privati o pubblici collocati in
quiescenza” possono svolgerli “a titolo gratuito”.
2.4 Nella richiesta di parere si chiede di conoscere “gli elementi alla base
dell’interpretazione resa” al punto 3.3 della richiamata deliberazione di
questa Sezione, in merito alla indistinzione, nei soggetti in quiescenza,
tra lavoratori dipendenti e autonomi, posto che nelle circolari del
Ministero per la semplificazione e la Pubblica Amministrazione n. 6/2014 e
4/2015 si afferma che per “lavoratori privati o pubblici collocati in
quiescenza” devono intendersi “esclusivamente i lavoratori dipendenti e non
quelli autonomi”.
Gli elementi si possono riscontrare direttamente nel punto richiamato,
quando si afferma che “non si rinvengono argomentazioni a carattere
sistematico che consentano di differenziare la posizione dei componenti dei
predetti Comitati fruitori di trattamento di pensione da lavoro autonomo,
essendo la norma in esame finalizzata a limitare il conferimento di
determinati incarichi a soggetti che già godono di un trattamento di
quiescenza” (Sezione Puglia
parere 06.11.2014 n. 193 e CDS sentenza n. 4718/2016).
In particolare nella sentenza del Consiglio di Stato (come pure nelle
richiamate circolari governative) si evidenzia come la ratio della
disposizione in esame “è evidentemente di favorire l’occupazione
giovanile”, vietando, dunque, “alle amministrazioni pubbliche di
attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori
privati o pubblici collocati in quiescenza … tali incarichi sono consentiti
solamente a titolo gratuito, e per un periodo non superiore ad un anno”.
Si ricorda inoltre che, sull’ampiezza del divieto in parola, è intervenuta
ripetutamente la Corte dei Conti - Sezione Centrale di controllo di
legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato,
precisando che la norma introduce nel sistema un divieto generalizzato al
conferimento di incarichi a soggetti in quiescenza.
In particolare la deliberazione SCCLEG 35/2014/PREV osserva che la norma non
pone alcuna discriminazione circa le condizioni soggettive del soggetto e la
tipologia di pensionamento (pensione di vecchiaia, anzianità, anticipata,
ecc.) per cui non è possibile alcuna differenziazione sulla base di criteri
ricavabili dal testo normativo.
In tal senso anche sempre la Sezione Centrale del controllo di legittimità
sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato che, nella
deliberazione SCCLEG 6/2015/PREV afferma: “Come già
osservato nelle precedenti deliberazioni di questa Sezione n. 27/2014,
28/2014, 29/2014, 30/2014, 35/2014 e 1/2015, non può peraltro sfuggire a
questo Collegio la natura palesemente selettiva del divieto introdotto dalla
norma, la quale introduce nel sistema –in modo diretto e senza deroghe o
eccezioni, se non per il caso della gratuità e per la durata massima di un
anno– un impedimento generalizzato al conferimento di incarichi a soggetti
in quiescenza. Tale impedimento appare fondato su un elemento oggettivo che
non lascia spazio a diverse opzioni interpretative”. |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
È da escludere che rientri tra i beneficiari
dell'incentivo il responsabile del
procedimento ex art. 6 del D.P.R. n. 327/2001, perché di
materia espropriativa si tratta nel caso di specie, atteso
che “gli espropriatori” non sono espressamente inclusi dalla
norma nel novero degli aventi diritto.
---------------
La giurisprudenza contabile ha
fornito una lettura restrittiva della nozione di
collaboratore, escludendo che la stessa possa essere estesa
per incentivare il personale tecnico e amministrativo:
a)
addetto ai procedimenti di esproprio;
b) addetto alle
attività relative agli accatastamenti e ai frazionamenti;
c)
responsabile o addetto alla procedura di gara.
---------------
“La
nozione di “collaboratori” di cui al comma 7-ter dell’art.
93 del d.lgs. n. 163/2006 fa riferimento alle
professionalità –di norma tecniche- all’uopo individuate in
sede di costituzione dell’apposito staff, le quali devono
porsi in stretta correlazione funzionale e teleologica
rispetto alle attività da compiere per la realizzazione
dell’opera a regola d’arte e nei termini preventivati.”
“Gli incentivi previsti e disciplinati
dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. n. 163 del
12.04.2006 possono essere riconosciuti ed erogati in favore
delle figure professionali interne esplicitamente
individuate dalla norma che svolgano le attività tecniche
ivi previste, anche in presenza di progettazione affidata
non integralmente a soggetti estranei ai ruoli della
stazione appaltante e dagli stessi realizzata".
---------------
Il Sindaco del Comune di Corleto Perticara (PZ) ha
inoltrato, in data 30.01.2018, a questa Sezione una
richiesta di parere avente ad oggetto il pagamento
dell’incentivo ex art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 e dell’art.
4 del Regolamento comunale approvato con delibera di G.C. n.
87 del 04.08.2008 al dirigente dell’Ufficio Espropri del
medesimo Comune, nominato responsabile del procedimento ex
art. 6 del D.P.R. n. 327/2001 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità) per l’attivazione delle
procedure previste dal Testo unico in parola.
Al fine di inquadrare la vicenda all’interno della quale si
colloca la richiesta di parere il Sindaco svolge una
dettagliata premessa relativa al piano di insediamenti
produttivi in località Tempa Rossa, in agro di Corleto
Perticara, per lavori di realizzazione del centro oli per la
coltivazione di idrocarburi, così come previsto dalla
concessione “Gorgoglione”, di cui al decreto del
Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato
del 19.11.1999, nonché al procedimento di determinazione
definitiva dell’indennità di esproprio a seguito della
nomina della commissione ex art. 21 del D.P.R. n. 327/2001 e
al conseguente pagamento dei compensi spettanti ai tecnici
nominati –spese di fatto sostenute dall’Ente promotore
dell’esproprio (Total E&P Italia S.p.A.) ai sensi dell’art.
10 della convenzione rep. 59861, sottoscritta in data
29.01.2008 tra il Comune di Corleto Perticara e la Total–
nonché all’ulteriore richiesta di liquidazione di un “incentivo
alla progettazione”, secondo la normativa all’epoca
vigente, il cui importo risulta essere stato accreditato dal
soggetto richiedente l’espropriazione.
...
2.3 Appare evidente che la formulazione della richiesta di
parere all’esame della Sezione non prospetta alcun quesito
interpretativo o dubbio applicativo afferente la norma
richiamata (art. 92 D.Lgs. n. 163/2006) o qualsiasi altra
(art. 4 del Regolamento comunale approvato con D.G.C. n. 87
del 04.08.2006), limitandosi di fatto a cercare di
ottenere una sorta di autorizzazione alla liquidazione di
importi, peraltro accreditati dall’ente promotore
dell’espropriazione, così violando anche la necessità che la
richiesta di parere abbia riguardo, come detto, a quesiti
interpretativi di carattere generale che non comportino
un’ingerenza della Corte in singole e specifiche attività
gestionali e vicende amministrative in itinere né
valutazione di concreti comportamenti amministrativi (cfr.
deliberazione della Sezione Autonomie n. 5/2006).
Inoltre la richiesta in parola involge valutazioni
suscettibili di sfociare in un contenzioso (cfr.
deliberazione SRC Sardegna n. 6/2013/PAR, deliberazione SRC
Lombardia n. 161/2013/PAR, deliberazione SRC Toscana n.
52/2015/PAR e deliberazione SRC Veneto n. 632/2015/PAR).
Infatti, in base ad un costante orientamento
giurisprudenziale (cfr., ex multis, Sezione delle
Autonomie deliberazione n. 5/AUT/2006) non possono ritenersi
procedibili, al fine di scongiurare possibili interferenze e
condizionamenti, i quesiti suscettibili di formare oggetto
di esame in sede giurisdizionale da parte di altri Organi a
ciò deputati per legge (cfr. anche deliberazione SRC
Piemonte n. 20/2012).
Alla luce delle considerazioni esposte, la Sezione ritiene
che la richiesta di parere formulata dal Sindaco di Corleto
Perticara difetti dei requisiti oggettivi necessari ad una
disamina nel merito in quanto:
a) sprovvisto dei requisiti della generalità e dell’
astrattezza;
b) si pone in una possibile posizione di pregiudizialità
rispetto ad eventuali forme di responsabilità
amministrativo-contabile;
c) si presenta potenzialmente idoneo ad interferire con le
competenze di altri organi giurisdizionali, in particolare
con la magistratura ordinaria (giudice del lavoro).
3. In via incidentale, tuttavia, la Sezione rileva che la
questione prospettata sembrerebbe riguardare la disciplina,
ratione temporis applicabile, degli incentivi alla
progettazione di cui agli articoli 92 e 93 del D.Lgs. n.
163/2006 –abrogati dal nuovo codice dei contratti pubblici (D.Lgs.
n. 50/2016), che all’art. 113 detta la nuova disciplina
degli incentivi per funzioni tecniche– su cui si è andata
formando nel tempo una copiosa giurisprudenza della Corte
dei conti in funzione consultiva.
Da ultimo è intervenuta la Sezione delle Autonomie (deliberazione
26.04.2018 n. 6) la quale, chiamata ad
esprimersi dalla Sezione regionale di controllo della
Lombardia e dalla Sezione regionale di controllo della
Puglia su questioni di massima relative agli incentivi per
funzioni tecniche, ha affermato, incidenter tantum, che
“tali compensi non sono rivolti indiscriminatamente al
personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono
particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici
procedimenti e ai loro collaboratori. Si tratta, quindi, di
una platea ben circoscritta di possibili destinatari,
accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di
funzioni rilevanti nell’ambito di attività espressamente e
tassativamente previste dalla legge”.
Il c.d. “incentivo alla progettazione” (la cui denominazione
risale all’art. 18 dell’abrogata legge n. 109/1994 e la cui
funzione era stata qualificata come misura rivolta a
contenere l’insorgenza di fenomeni di corruttela),
costituiva, infatti, uno di quei casi nei quali il
Legislatore, derogando al principio per cui il trattamento
economico è fissato dai contratti collettivi, attribuiva e
continua a riconoscere un compenso ulteriore e speciale
erogabile ai dipendenti, rinviando i criteri e le modalità
di ripartizione ai regolamenti dell’amministrazione
aggiudicatrice ed alla contrattazione decentrata.
La legge individuava, dunque, alcune regole generali per la
ripartizione dell’incentivo in discorso, rimettendone la
disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un atto
regolamentare interno alla singola amministrazione assunto
previa contrattazione decentrata e ritenuto “necessario
presupposto l’erogazione degli emolumenti in questione” e
“passaggio fondamentale per la regolazione interna della
materia, nel rispetto dei principi e canoni stabiliti dalla
legge” (Sezione delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18).
In linea con l’obiettivo di voler perseguire la più ampia
efficienza possibile, quindi, il Legislatore nazionale
mostrava un favor per l’affidamento a professionalità
interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi
consistenti in prestazioni d’opera professionale,
consentendo il riconoscimento agli Uffici tecnici delle
medesime amministrazioni di un compenso speciale, in deroga
ai due principi cardine posti a base della disciplina delle
retribuzioni del pubblico impiego: quello di
onnicomprensività della retribuzione e quello di definizione
contrattuale delle componenti economiche, sanciti,
rispettivamente, dall’art. 24, comma 3, e dal successivo
art. 45, comma 1, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 (cfr.
Sezione delle Autonomie,
deliberazione 15.04.2014 n. 7).
Tenere fermi tali aspetti risulta, peraltro, fondamentale
per la esatta determinazione del perimetro di applicazione
della disciplina in parola: la natura di eccezione in senso
stretto dell’incentivo alla progettazione rende, infatti,
palese l’ indisponibilità di qualsivoglia spazio per
interpretazioni analogiche, estensive dell’ambito di
operatività soggettivo ed oggettivo dell’istituto (art. 12
delle diposizioni preliminari al codice civile, cfr. altresì
SRC Campania,
parere 07.05.2008 n. 7).
L’incentivo in parola può essere corrisposto al solo
personale dell’ente che abbia preso parte a determinate
attività e ciò in funzione incentivante e premiale per
l’espletamento al meglio di attività orientate a ridurre le
fasi antieconomiche presenti in qualsiasi processo che abbia
ad oggetto la realizzazione di un’opera pubblica.
La norma indica espressamente quali beneficiari degli
incentivi –da corrispondere “previo accertamento positivo
delle specifiche attività svolte”– il responsabile del
procedimento, gli incaricati della redazione delle varie
fasi progettuali, del piano della sicurezza, della direzione
dei lavori, del collaudo, nonché i loro collaboratori.
È da escludere, pertanto,
che rientri tra i beneficiari
degli incentivi di che trattasi il responsabile del
procedimento ex art. 6 del D.P.R. n. 327/2001, perché di
materia espropriativa si tratta nel caso di specie, atteso
che “gli espropriatori” non sono espressamente inclusi dalla
norma nel novero degli aventi diritto.
Per mero tuziorismo,
inoltre, è opportuno ricordare che il D.P.R. n. 327/2001
(Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia di espropriazione per pubblica utilità), che è la
disciplina richiamata, ratione materiae, per la nomina del
R.U.P. da parte del Comune di Corleto Perticara, prevede,
all’art. 21, comma 6, l’erogazione di compensi solo per
remunerare i compiti propri dei componenti della commissione
che procede alla determinazione definitiva dell’indennità di
espropriazione, mentre nulla dice relativamente al
responsabile del procedimento in questione.
Solo nell’ambito ben definito dei lavori pubblici la
giurisprudenza contabile è tornata ripetutamente ad
esprimersi sia sulla figura dei collaboratori (cfr. Sezione
Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18), sia su
quella del responsabile del procedimento.
In particolare su quest’ultimo vi è assoluta concordanza nel
ritenere che il destinatario degli incentivi alla
progettazione non possa che essere il RUP individuato ai
sensi dell’art. 10 del D.Lgs. n. 163/2006 e degli articoli 9
e 10 del D.P.R. n. 207/2010 (Regolamento di attuazione del
codice dei contratti pubblici) (cfr. Sezione Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18).
Inoltre, facendo applicazione del principio di tassatività,
la stessa giurisprudenza ha chiarito che il fondo previsto
dall’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 può essere destinato
esclusivamente alle figure professionali ivi individuate,
nonché ai loro collaboratori. “Non trova alcun fondamento
normativo una diversa interpretazione della norma tendente
ad ampliare il novero dei soggetti beneficiari. Pertanto, i
dipendenti –tecnici ed amministrativi- diversi dal RUP, dal
progettista, dal direttore dei lavori, dall’incaricato del
piano della sicurezza, dal collaudatore e dai relativi
collaboratori, benché svolgano attività comunque connesse
alla realizzazione di opere pubbliche possono essere
incentivati utilizzando soltanto gli ordinari istituti
contrattuali e le relative risorse finanziarie stanziate in
base alle norme dei vigenti Contratti Collettivi Nazionali
di Lavoro” (SRC Marche
parere 17.12.2014 n. 141 e, in
senso conforme, SRC Abruzzo
parere 01.06.2016 n. 131).
In definitiva la richiamata giurisprudenza contabile ha
fornito una lettura restrittiva della nozione di
collaboratore, escludendo che la stessa possa essere estesa
per incentivare il personale tecnico e amministrativo:
a)
addetto ai procedimenti di esproprio;
b) addetto alle
attività relative agli accatastamenti e ai frazionamenti;
c)
responsabile o addetto alla procedura di gara.
Infine è opportuno ricordare in tema che, nell’esercizio
della funzione nomofilattica, la Sezione delle Autonomie,
investita di una questione di massimo interesse generale,
con la
deliberazione 13.05.2016 n. 18, ha, tra
l’altro, enucleato i seguenti principi di diritto:
“La nozione di “collaboratori” di cui al
comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 fa
riferimento alle professionalità –di norma tecniche-
all’uopo individuate in sede di costituzione dell’apposito
staff, le quali devono porsi in stretta correlazione
funzionale e teleologica rispetto alle attività da compiere
per la realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei
termini preventivati.”
“Gli incentivi previsti e disciplinati
dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. n. 163 del
12.04.2006 possono essere riconosciuti ed erogati in favore
delle figure professionali interne esplicitamente
individuate dalla norma che svolgano le attività tecniche
ivi previste, anche in presenza di progettazione affidata
non integralmente a soggetti estranei ai ruoli della
stazione appaltante e dagli stessi realizzata" (Corte dei Conti,
Sez. controllo Basilicata,
parere
04.05.2018 n. 21). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Casi in cui è possibile il superamento del termine di
diciotto mesi per annullare il provvedimento amministrativo
illegittimo.
---------------
Annullamento d’ufficio e revoca - Annullamento d’ufficio
– Termine – Art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241 del 1990 –
Diciotto mesi – Deroga – Presupposti.
L’art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n.
241 si interpreta nel senso che il superamento del rigido
termine di diciotto mesi – entro il quale il provvedimento
amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, è
consentito:
a) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerenti i
presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo,
abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione
penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano
state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive): nel qual
caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede
penale;
b) sia nel caso in cui l’(acclarata) erroneità dei ridetti
presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a
titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed
imputabile, per contro, esclusivamente al dolo
(equiparabile, per solito, alla colpa grave e
corrispondente, nella specie, alla mala fede oggettiva)
della parte: nel qual caso –non essendo parimenti
ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il
rispetto di una stringente tempistica nella gestione della
iniziativa rimotiva– si dovrà esclusivamente far capo al
canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la
confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco
(1).
---------------
(1) Giova premettere che il comma 2-bis dell’art. 21-nonies, l.
07.08.1990, n. 241, dispone che “I provvedimenti
amministrativi conseguiti sulla base di false
rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di
certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per
effetto di condotte costituenti reato, accertate con
sentenza passata in giudicato, possono essere annullati
dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di
diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione
delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal
capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 28.12.2000, n. 445”.
Ha chiarito la Sezione che l’art. 14, comma 1, l. n. 15 del
2005 ha modificato la previsione dell’art. 21-nonies, comma
1, l. 07.08.1990, n. 241 innovando, sul punto, la
tradizionale regola che rimetteva alla discrezionalità
amministrativa, nel rispetto del (sindacabile) canone di “ragionevolezza”,
la concreta gestione del limite temporale nella attivazione
dei procedimenti di secondo grado in funzione di riesame,
facendone con ciò elemento del complessivo e motivato
apprezzamento comparativo degli interessi in gioco,
variamente ancorati al conflitto tra la ripristinanda
legalità dell’azione amministrativa e la concretezza dei
maturati affidamenti dei destinatari del provvedimento
assunto contra legem.
Ha, quindi, scolpito (peraltro, limitatamente alle
determinazioni di matrice lato sensu autorizzatoria e
a quelle attributive di “vantaggi economici”, per le
quali è, con ogni evidenza, maggiormente sentita la
necessità di salvaguardare l’affidamento dei privati
beneficiari e più consistente il consolidamento dei
riconosciuti e/o conseguiti diritti) l’astratto e generale
termine ne ultra quem di diciotto mesi.
L’opzione normativa appare, con ogni chiarezza, ispirata
alla logica di una astratta e generale prevalutazione ex
lege degli interessi in conflitto: onde –le quante volte
il privato abbia visto rimuovere, anche per silentium,
un limite all’esercizio di facoltà giuridiche già incluse,
nonostante la verifica di compatibilità con l’interesse
pubblico, nel proprio patrimonio di libertà od abbia,
alternativamente, conseguito vantaggi o ausili finanziari in
grado di impegnare pro futuro la programmazione della
propria attività economica– alla Amministrazione è concessa
bensì la facoltà di rivedere il proprio operato, le quante
volte risultasse assunto in violazione del relativo
paradigma normativo di riferimento, ma con il limite
temporale preclusivo, superato il quale il ripristino della
legalità violata è, con insuperabile presunzione, ritenuto
suvvalente a fronte delle legittime aspettative private.
Ad avviso della Sezione appare evidente che le aspettative
in grado di paralizzare, sotto il profilo in questione,
l’azione rimotiva dell’Amministrazione devono palesarsi
legittime (giusta, ad un di presso, la logica revisionale
delle cc.dd. legimitate expectations, ispirata ad
analoghe ragioni di giustizia sostanziale): ciò che non
accade nel caso in cui la mancata sussistenza dei
presupposti per l’adozione del provvedimento ampliativo
della sfera privata prefiguri (non semplicemente un errore,
di per sé solo in grado di autorizzare, violata la legge,
l’attivazione dell’autotutela, sibbene) un errore imputabile
alla parte (e non alla Amministrazione decidente).
Appare del tutto logico, in siffatta situazione –in cui
l’Amministrazione sia stata propriamente indotta della
misrepresentation dei presupposti necessari al
conseguimento del riconosciuto vantaggio– che la parte non
possa beneficiare, contra factum proprium, della
rigidità del termine imposto all’esercizio dell’autotutela:
e ciò in quanto, per l’appunto:
a) per un verso, l’affidamento vantato non avrebbe i
connotati della meritevolezza di tutela;
b) per altro verso, l’immutazione dei dati di realtà sottesi
all’azione amministrativa non potrebbe plausibilmente
comprimere –di là dal generale e generico limite di
complessiva ragionevolezza– i tempi per l’accertamento della
verità.
Quanto, poi, all’interpretazione dell’inciso “per effetto
di condotte costituenti reato, accertate con sentenza
passata in giudicato”, contenuto nel comma 2-bis
dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, il dubbio nasce,
evidentemente, dal successivo inciso “per effetto di
condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata
in giudicato”.
La questione è se debba sintatticamente agganciarsi
esclusivamente al mendacio nelle dichiarazioni sostitutive o
se debba essere, comprensivamente, riferito anche alle “false
rappresentazioni dei fatti” (le quali, allora –ad optare
per siffatta esegesi, strenuamente argomentata e difesa da
parte appellante– rileverebbero solo in quanto conseguenti
alla commissione di reati, oltretutto definitivamente
accertati in forza di giudicato penale).
La Sezione aderisce alla prima linea interpretativa.
Militano in tal senso i seguenti rilievi:
a) sul piano testuale (e, prima ancora, rigorosamente grammaticale
e sintattico), il sintagma “per effetto di condotte”,
che introduce una causa efficiente e postula, sul piano
logico, una predicazione nominale, appare riferibile
esclusivamente al predicato (appunto, nominale) “false e
mendaci” (con più lungo discorso, reso verisimilmente
necessario dalla sottigliezza dell’argomento: il doppio
aggettivo, che esprime, per giunta, una endiadi, sottintende
di necessità –in quanto seguito da complemento di causa
efficiente– un verbo copulativo: come a dire: dichiarazioni
[che siano, o risultino o appaiano, et similia] “false
e mendaci”, per effetto di determinate condotte
causali);
b) se così è (alla luce della postulata correttezza grammaticale
dell’enunciato), il predicato è riferibile esclusivamente
alle “dichiarazioni sostitutive” (di certificazione o
di atto di notorietà), non alle “rappresentazioni”
del precedente inciso (che la norma, appunto, postula già “false”,
indipendentemente dalla evocata causa di tale falsità): ché
–a diversamente opinare– la formula linguistica andrebbe
insomma, con scarsa plausibilità ricostruita con riferimento
a “false dichiarazioni […] false” (o mendaci);
c) che nella medesima direzione conduce la distinta, per quanto
sottile, semantica della “rappresentazione”, a fronte
di quella della “dichiarazione”: la prima, come già
soggiunto, nominalizza, a differenza della seconda, l’esito
di azione propriamente agentiva, che postula un soggetto nel
dominio della propria condotta finalizzata: con il che
–mentre della “dichiarazione” si rende plausibile e
pertinente il riferimento esplicito alle “condotte”
causali (qui, qualificate nei sensi della loro concorrente
rilevanza de jure poenali)– la “rappresentazione”
ingloba, nel suo significato, l’azione consapevole del
determinatore;
d) in ogni caso –sul (decisivo ed assorbente) piano teleologico– è
del tutto evidente (alla luce delle considerazioni esposte
supra, che non vale richiamare) che il legislatore
abbia inteso negare legittimità (e meritevolezza di tutela)
agli affidamenti frutto di condotte dolose della parte,
risultando a tal fine irrilevante la ricorrenza di fatti di
reato (il cui richiamo si giustifica in relazione a quelle
condotte di falsificazione che –per il mezzo della loro
introduzione all’interno del procedimento– sono tipicamente
suscettibili di violare disposizioni penali: come dimostrato
dalla esplicita salvezza in explicit delle “sanzioni
penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo
unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica
28.12.2000, n. 445”);
e) che tale sia la corretta interpretazione della norma, discende
–del resto– dal rilievo che, a sposare l’alternativa
proposta esegetica, la erronea rappresentazione dei
presupposti per l’adozione del provvedimento risulterebbe
fonte di implausibile e valorizzato affidamento anche quanto
fosse intenzionale o dolosa: ciò che fa palese l’anfibologia
del riferimento alla falsità: la quale allora:
e1) in quanto caratterizzi le (dolose)
rappresentazioni di parte, evoca la mera “non verità”
(o non corrispondenza alla realtà effettuale);
e2) in quanto, per contro, si riferisca alle
(qualificate) dichiarazioni –non a caso assunte sotto la
responsabilizzante egida della sanzione, penale o
amministrativa che sia– evoca propriamente il mendacio (che,
non a caso, viene utilizzato nella formula legislativa, con
il chiarito riferimento alle dichiarazioni sostitutive) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 27.06.2018 n. 3940 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Adempimento dell’ordine di demolizione del debitore
dell’immobile sottoposto a pignoramento trascritto.
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●
Processo amministrativo – Legittimazione attiva - Bene
immobile abusivo – Acquisizione al patrimonio comunale -
Creditore pignorante – E’ legittimato.
●
Edilizia – Abusi – Demolizione - Pignoramento immobiliare
trascritto – Debitore – Deve demolire.
●
Il creditore di un bene immobile abusivo è legittimato a
proporre ricorso avverso il provvedimento di acquisizione
dello stesso al patrimonio comunale in seguito a mancata
ottemperanza all’ordine di demolizione (1).
●
La sussistenza di un pignoramento immobiliare
trascritto non osta a che il debitore, di norma anche
custode ex lege, si attivi per adempiere ad un ordine di
demolizione, non essendo tale attività annoverabile tra gli
“atti di disposizione” quanto, piuttosto, una attività
dovuta ascrivibile alla diligente custodia (2).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar il soggetto creditore procedente
nell’ambito di una procedura esecutiva che ha comportato il
pignoramento di un immobile abusivo oggetto di un
provvedimento di acquisizione vanta un interesse alla
conservazione della garanzia patrimoniale che il bene
rappresenta, garanzia che, rispetto alla mera garanzia
patrimoniale generica offerta da tutto il patrimonio del
debitore e prevista dall’art. 2740 c.c., si è attualizzata e
specificata in relazione al bene in contestazione proprio
con il pignoramento.
(2) Ha ricordato il Tar che la disciplina eccezionale che rende
suscettibile di vendita in sede di esecuzione forzata i beni
abusivi (ex lege ordinariamente incommerciabili) ha
la finalità di evitare che eventuali procedure esecutive
restino paralizzate dalla (non rara) inerzia
dell’amministrazione che, ad esempio, ometta o ritardi nel
pronunciarsi su una istanza di sanatoria ovvero che, pur a
fronte dell’inottemperanza ad ordini di demolizione, non ne
tragga le doverose conseguenze di legge; in mancanza della
disciplina speciale la mera inerzia dell’amministrazione
potrebbe, in tesi, paralizzare sine die una eventuale
procedura esecutiva.
Ciò non di meno la disciplina del procedimento esecutivo non
muta la natura sostanzialmente abusiva dell’immobile, né
modifica i presupposti di una sua eventuale sanatoria; le
previsioni di cui agli artt. 40, comma 6, l. n. 47 del 1985
e 31, comma 5, d.P.R. n. 380 del 2001 consentono a colui che
abbia acquistato dalla procedura esecutiva un immobile
abusivo di essere rimesso in termini per proporre una
istanza di sanatoria, senza, come detto, modificare la
disciplina sostanziale dell’abuso.
Ne consegue che, se la struttura non è sanabile, tale resta
anche per l’acquirente in sede esecutiva, finendo per
rappresentare, rispetto al prezzo di vendita, un onere e non
un valore (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 27.06.2018 n. 791 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Nel merito il ricorso è infondato.
Il bene pignorato è pacificamente interamente abusivo e non
sanabile; la proprietà si è già vista respingere due diverse
istanze di sanatoria. Nell’ambito dello stesso procedimento
esecutivo, il perito del Tribunale ha qualificato il bene
abusivo ed insanabile, attribuendogli un valore commerciale
inesistente (come si evince dall’ordinanza del G.E.
dell’11.07.2017, in atti sub doc. b) di parte ricorrente,
allegata all’istanza di prelievo).
La disciplina eccezionale che rende suscettibile di vendita
in sede di esecuzione forzata i beni abusivi (ex lege
ordinariamente incommerciabili) ha la finalità di evitare
che eventuali procedure esecutive restino paralizzate dalla
(non rara) inerzia dell’amministrazione che, ad esempio,
ometta o ritardi nel pronunciarsi su una istanza di
sanatoria ovvero che, pur a fronte dell’inottemperanza ad
ordini di demolizione, non ne tragga le doverose conseguenze
di legge; in mancanza della disciplina speciale la mera
inerzia dell’amministrazione potrebbe, in tesi, paralizzare
sine die una eventuale procedura esecutiva.
Ciò non di meno la disciplina del procedimento esecutivo non
muta la natura sostanzialmente abusiva dell’immobile, né
modifica i presupposti di una sua eventuale sanatoria; le
previsioni di cui agli artt. 40, co. 6, della l. n. 47/1985
e 31, co. 5, del d.p.r. n. 380/2001 consentono a colui che
abbia acquistato dalla procedura esecutiva un immobile
abusivo di essere rimesso in termini per proporre una
istanza di sanatoria, senza, come detto, modificare la
disciplina sostanziale dell’abuso. Ne consegue che, se la
struttura non è sanabile, tale resta anche per l’acquirente
in sede esecutiva, finendo per rappresentare, rispetto al
prezzo di vendita, un onere e non un valore.
D’altro canto, come l’inerzia dell’amministrazione non può
di per sé paralizzare un’azione esecutiva, in un
contemperato bilanciamento di interessi, la pendenza di una
azione esecutiva su iniziativa privata non può a sua volta
essere di ostacolo alla doverosa e vincolata azione di
repressione dell’abusivismo edilizio, che risponde ad un
superiore interesse pubblico e si intesta alla pubblica
amministrazione; diversamente opinando il titolare di un
bene abusivo ben potrebbe strumentalmente porsi nella
condizione di pignorato, con ciò solo sottraendosi al
procedimento di repressione dell’abusivismo edilizio.
Né risulta dirimente che, nel caso di specie, il
pignoramento sia stato trascritto antecedentemente alla
definizione dell’istanza di sanatoria (che conteneva rinnovo
dell’ordine di demolizione, cfr. doc. 14 di parte
resistente) e prima dell’adozione del provvedimento di
acquisizione qui impugnato.
Quanto alla definizione dell’istanza di sanatoria è evidente
come l’amministrazione sia tenuta a concludere il
procedimento in corso, il quale ha finalità del tutto
autonome rispetto all’esecuzione forzata; d’altro canto, non
potendosi a priori escludere un accoglimento dell’istanza di
sanatoria che finirebbe per giovare alla procedura esecutiva
apprezzando il valore del bene pignorato, non è certo
sostenibile che la procedura abbia interesse ad ostacolare
una chiara (ed in ipotesi potenzialmente favorevole)
definizione dell’inquadramento giuridico del bene da parte
dell’amministrazione. Tanto meno potrebbe immaginarsi che
sia possibile per l’amministrazione, pendente il
pignoramento, concludere il procedimento solo qualora lo
stesso sia favorevole al debitore.
L’amministrazione non è qualificabile “creditore” del
debitore pignorato ma, come detto, persegue vincolanti
finalità del tutto avulse dall’esecuzione le quali, fatta
salva la già evidenziata eccezionale commerciabilità del
bene, restano opponibili anche all’eventuale acquirente
dalla procedura esecutiva.
Ove poi, come nel caso di specie, l’esito dalla domanda di
sanatoria sia negativo e comporti, ex lege e senza
alcuna discrezionalità, l’applicazione delle sanzioni
previste, tra cui l’ordine di demolizione (per la natura
vincolata e necessaria dell’intero procedimento di
repressione degli abusi edilizi si veda, per tutte, Cons.
St. ad. plen. n. 9/2017), non si condivide l’assunto secondo
cui il debitore pignorato sarebbe per ciò solo “impossibilitato”
ad eseguire l’ordine di demolizione.
A differenza di quanto avviene in caso di fallimento (in cui
il fallito è interamente spossessato del suo patrimonio,
perdendone in ogni caso la gestione) o in caso di sequestri
disposti dal giudice penale che perseguono esigenze
pubblicistiche (talvolta esplicitamente conservative e
talvolta non dissimili dal procedimento sanzionatorio
amministrativo), il pignoramento è disposto nell’interesse
privato del/dei creditori procedenti/intervenienti ed ha
l’unico effetto di far prevalere costoro rispetto ad
eventuali ulteriori creditori o aventi causa (tra i quali
non si colloca in nessun caso l’amministrazione) inducendo,
in favore dei creditori procedenti, l’inefficacia relativa
di successivi atti di disposizione.
Gli atti di disposizione restano certamente inibiti al
debitore.
Pare tuttavia al collegio che la doverosa esecuzione di un
ordine di demolizione (che non ha alcunché di volontario,
trattandosi di adempimento ad un ordine esecutivo
dell’autorità) non sia annoverabile tra gli atti di
disposizione (che, per definizione, implicano una più o meno
remota origine volontaria della disposizione).
D’altro canto, che l’inottemperanza all’ordine di
demolizione non subisca i limiti di “opponibilità”
indotti dal pignoramento è coerente con il meccanismo di
acquisto che a tale inottemperanza consegue (acquisto a
titolo originario, art. 31 d.p.r. n. 380/2001), per
definizione estraneo ai criteri di opponibilità dettati
dalla trascrizione, che caratterizzano invece tanto il
pignoramento che gli acquisti a titolo derivativo ai quali
il primo deve restare insensibile.
Ancora, a differenza di quanto accade nel fallimento, il
debitore pignorato, nel pignoramento immobiliare, è
costituito ex lege di norma custode (art. 559 c.p.c,
che fa salva esplicita diversa disposizione del giudice
dell’esecuzione, non verificatasi nel caso di specie
quantomeno sino al momento di adozione dell’atto qui
impugnato) e per tale ragione assume anche la qualità di
ausiliario del giudice, mantenendo il possesso del bene a
diverso titolo, con dovere e responsabilità di
amministrazione secondo criteri propri del buon padre di
famiglia (art. 65 c.p.c.); nel corso del pignoramento
immobiliare possono fisiologicamente verificarsi, in capo al
custode, esigenze di gestione (quale l’acquisizione dei
frutti civili, cui si estende il pignoramento) e persino di
conservazione del bene immobile.
Escluso dunque che l’ottemperanza ad un ordine di
demolizione sia annoverabile tra gli atti di disposizione,
essa risulta piuttosto ascrivibile agli atti di diligente
conservazione del bene.
Il debitore custode ha l’onere, da un lato, previe eventuali
necessarie autorizzazioni, di coltivare ipotesi plausibili
di sanatoria (condotta che, come già evidenziato, avrebbe in
astratto potuto recare beneficio alla procedura ma che resta
esclusa nel caso di specie, alla luce delle plurime
valutazioni effettuate dall’amministrazione e della coerente
valutazione del perito nominato nell’ambito della procedura
esecutiva) e, in subordine, di ottemperare all’eventuale
ordine di demolizione che “libera” la procedura di un
bene definitivamente privo di valore economico, ancorché
suscettibile di esecuzione forzata, ed evita l’evidente
pregiudizio derivante dalle conseguenze di legge di
acquisizione del bene e del terreno al patrimonio comunale.
L’irrilevanza nel procedimento pubblicistico sanzionatorio
dell’abuso edilizio dei vincoli derivanti da, anche
pregresse, iscrizioni ipotecarie o pignoramenti è stata
sancita dal giudice di legittimità nell’ordinanza Cass. sez.
III n. 23453/17 in cui si legge: “va ribadito quanto già
osservato da questa Corte: l'ordinanza di acquisizione
gratuita al patrimonio indisponibile del Comune della
costruzione eseguita in totale difformità o assenza della
concessione, che si connota per la duplice funzione di
sanzionare comportamenti illeciti e di prevenire perduranti
effetti dannosi di essi, dà luogo ad acquisto a titolo
originario, con la conseguenza che l'ipoteca e gli altri
eventuali pesi e vincoli preesistenti vengono caducati
unitamente al precedente diritto dominicale, senza che
rilevi l'eventuale anteriorità della relativa trascrizione
e/o iscrizione. La fattispecie è assimilabile al perimento
del bene, ipotesi nella quale si estingue l'ipoteca, giacché
l'immobile abusivo è destinato al "perimento giuridico",
normalmente conseguente alla demolizione, salva
l’eccezionale acquisizione al patrimonio comunale, che lo
trasforma irreversibilmente in res extra commercium sotto il
profilo dei diritti del debitore e dei terzi che vantino
diritti reali limitati sul bene (Cass. sez. 3, sentenza n.
1693 del 26/01/2006)”.
Non può quindi accedersi alla tesi di parte ricorrente,
secondo cui il provvedimento doverosamente adottato
dall’amministrazione troverebbe ostacolo nella presunta
impossibilità del debitore di ottemperarvi.
Neppure è fondato l’assunto secondo cui il diniego di
accertamento di conformità non sarebbe sufficiente a far
decorrere i termini per la demolizione e, conseguentemente,
a cristallizzare l’inadempimento che fonda l’ordine di
acquisizione.
La maggioritaria e più recente
giurisprudenza del giudice d’appello, per evitare reiterate
e strumentali istanze di sanatoria volte unicamente a
paralizzare l’azione pubblica, è orientata a ritenere che il
rigetto delle rinnovate istanze di sanatoria comporta
l’immediata e nuova efficacia dei precedenti ordini di
demolizione, nelle more paralizzati dalla presentazione
delle nuove istanze di sanatoria
(in tal senso Cons. St. sez. VI, n. 2979/2018; Cons. St.
sez. VI, n. 1171/2018; Cons. St. sez. VI, n. 1565/2017); in
ogni caso l’effetto di “inefficacia” dell’ordine di
demolizione invocato in ricorso è stato, con dovizia di
argomenti, limitato alle sole istanze di condono, escludendo
i casi di accertamento di conformità, quale è quello per cui
è causa (Cons. St., sez. VI, n. 466/2015).
Tanto premesso si osserva ulteriormente che, nel caso di
specie, il provvedimento di rigetto della domanda di
accertamento di conformità richiama l’intero e complesso
iter procedimentale precedente ed in specifico l’ordinanza
di demolizione n. 139/2015, con ciò esplicitamente
rinnovando la volontà dell’amministrazione in tal senso.
Il primo motivo di ricorso deve quindi essere integralmente
respinto.
Con il secondo motivo di ricorso si contesta che la
ricorrente avrebbe dovuto essere destinataria di una
comunicazione di avvio del procedimento di acquisizione;
premesso che l’atto di acquisizione non
integra un autonomo procedimento ma la fase finale del
complesso procedimento che ha avuto inizio con
l’accertamento dell’abuso,
come eccepito da parte resistente la
repressione dell’abusivismo edilizio è attività vincolata
per legge e priva di discrezionalità, rispetto alla quale,
l’azione dell’amministrazione (che ha consentito ampi
margini di partecipazione procedimentale al proprietario)
non avrebbe potuto adottare una soluzione differente.
Anche il secondo motivo di ricorso deve quindi essere
respinto.
Risulta altresì infondata la domanda risarcitoria, non
sussistendo nel caso di specie alcuna condotta illegittima
dell’amministrazione ma, al più, una non diligente custodia
del bene da parte del debitore pignorato, fermo restando che
resta incomprensibile anche la quantificazione proposta
nella domanda risarcitoria a fronte della perdita di un bene
stimato privo di valore commerciale.
Il ricorso deve essere integralmente respinto. |
APPALTI:
Utile minimo di impresa e anomalia dell’offerta.
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●
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale –
Costo del lavoro – Individuazione C.c.n.l. da applicare al
personale – Libera scelta dell’imprenditore – Limiti.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale –
Utile di impresa esiguo. Indice sintomatico della anomalia
dell’offerta ma non determinante.
●
In sede di gara pubblica, ai fini della valutazione della
anomalia dell’offerta e del costo del lavoro la scelta del
contratto collettivo rientra nelle prerogative
dell’imprenditore, fatto salvo il limite della coerenza del
contratto collettivo scelto rispetto all’oggetto
dell’appalto (1).
●
In sede di gara pubblica, ai fini della valutazione della
anomalia un utile esiguo di per sé solo non equivale a
determinare tale anomalia, sebbene costituisca un indice
sintomatico e debba quindi indurre l’amministrazione
procedente ad una verifica accurata dell’equilibrio
complessivo dell’offerta (2)
---------------
(1)
Nella specie il C.g.a. ha ritenuto non pertinente, in
relazione all’appalto avente ad oggetto i servizi
cimiteriali e quello di autista del trasporto pubblico
locale, l’applicazione del CCNL Multiservizi al personale in
essi impegnato.
Sul punto v. anche
Cons. St., sez. III, 12.03.2018, n. 1574.
(2)
Cons. St., sez. V, 17.07.2014, n. 3805
(CGARS,
sentenza 25.06.2018 n. 368
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Verbalizzazione della valutazione delle offerte e del
punteggio attribuito dai commissari.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Valutazione – Verbalizzazione della Commissione –
verbalizzazione singoli punteggi – Esclusione.
In assenza di un espresso obbligo di
specifica verbalizzazione imposto dal disciplinare di gara,
non vi è ragione per derogare dal principio generale secondo
il quale gli apprezzamenti dei commissari sono destinati ad
essere assorbiti nella decisione collegiale finale,
costituente momento di sintesi della comparazione e
composizione dei giudizi individuali (1).
---------------
(1)
Cons. St., sez. III, 13.10.2017, n. 4772; id.,
sez. III, 08.09.2015, n. 4209; id.,
sez. IV, 16.02.2012, n. 810.
Ha chiarito la Sezione che la separata enunciazione dei
punteggi attribuiti dai singoli Commissari assume valore di
formalità interna relativa ai lavori della Commissione
esaminatrice - i cui giudizi, ai fini della verbalizzazione
e della pubblicità esterna, sono sufficientemente
documentati con la sola attribuzione del voto complessivo
finale (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 25.06.2018 n. 934
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO DEL SUOLO - Imbrattamento o
deturpamento del suolo pubblico in modo tale da renderlo
sudicio - Rovistamento nelle buste dei rifiuti conferiti in
regime di raccolta differenziata - Natura episodica della
condotta - Ininfluenza - Dolo generico - Art. 639, c. 2,
cod. pen..
Integra il delitto di cui all'art. 639, comma 2, cod. pen.,
la condotta di chi, dopo aver rovistato nelle buste dei
rifiuti conferiti in regime di raccolta differenziata, al
fine di asportare quanto di suo interesse, rompa le buste
che li contengono ed asporti quanto a lui utile,
abbandonando il resto sulla pubblica via, in ragione del
pregiudizio dell'estetica e della pulizia conseguente,
risultando imbrattato il suolo pubblico in modo tale da
renderlo sudicio, con senso di disgusto e di ripugnanza nei
cittadini (sulla particolare natura della condotta del reato
di cui all'art. 639 cod. pen. Cass. Sez. 2, n. 5828 del
24/10/2012, dep. 06/02/2013 e sulla differenza con il
danneggiamento Sez. 2, n. 2768 del 02/12/2008, dep.
21/01/2009).
Trattandosi di dolo generico è indifferente per l'esistenza
del reato il fine per cui il soggetto agisce, occorrendo
soltanto che questi si sia rappresentato l'evento dannoso ed
abbia agito di conseguenza. Né, può escludersi il dolo in
ragione della natura episodica della condotta, tenuto conto
che la fattispecie non richiede affatto una ripetizione dei
comportamenti (verificandosi il momento consumativo del
reato proprio con il prodursi dell'effetto di imbrattamento
o di deturpamento) e che l'abbandono ormai diffuso e
sistematico dei rifiuti che non formano oggetto di diretto "interesse"
da parte di chi rovista nei cassonetti, ha conferito
all'incriminazione quella "dannosità sociale"
sufficiente ad attribuirle legittimazione sostanziale e,
dunque, in assenza di elementi negativi del fatto o cause di
esclusione della pena, a rendere ragionevole l'applicazione
di una sanzione penale (Corte di Cassazione, Sez. II penale,
sentenza 22.06.2018 n. 29018 -
link a
www.ambientediritto.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazione
mafiosa.
---------------
●
Enti locali – Comuni – Consiglio comunale - Scioglimento per
infiltrazione mafiosa – Dopo scioglimento per dimissioni –
Possibilità.
●
Enti locali – Comuni – Consiglio comunale - Scioglimento per
infiltrazione mafiosa – Sindacabilità – Limiti.
●
E’ legittimo lo scioglimento del Consiglio comunale, ex art.
143, d.lgs. 18.03.2000, n. 267, per infiltrazione mafiosa
anche dopo l’avvenuto scioglimento per dimissioni (1).
●
In sede di impugnazione del provvedimento
prefettizio di scioglimento del Consiglio comunale per
infiltrazione mafiosa la valutazione del giudice adito delle
acquisizioni probatorie non può arrestarsi ad una atomistica
e riduttiva analisi dei singoli elementi, senza tener conto
dell’imprescindibile contesto locale e dei suoi rapporti con
l’amministrazione del territorio, ma deve fondarsi sulla
permeabilità degli organi elettivi a logiche e
condizionamenti mafiosi sulla base di un loro complessivo,
unitario e ragionevole vaglio, costituente bilanciata
sintesi e non mera somma dei singoli elementi stessi (2).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che, diversamente opinando, le
dimissioni costituirebbero un facile escamotage per
paralizzare l’indagine prefettizia e consentire nella nuova
tornata elettorale agli stessi candidati, sospettati di
vicinanza agli ambienti malavitosi, di ripresentarsi, forti
della disinformazione della cittadinanza locale.
(2) V.
Cons. St., sez. III, 14.07.2015, n. 3520; id.
02.07.2014, n. 3340; id.
14.02.2014, n. 727.
La Sezione ha preliminarmente ricordato che sulla questione
è intervenuta la Corte costituzionale 19.03.1993, n. 103,
secondo cui il potere di scioglimento in questione deve
essere esercitato in presenza di situazioni di fatto che
compromettono la libera determinazione degli organi
elettivi, suffragate da risultanze obiettive e con il
supporto di adeguata motivazione; tuttavia, la presenza di
risultanze obiettive esplicitate nella motivazione, anche
ob relationem, del provvedimento di scioglimento non
deve coincidere con la rilevanza penale dei fatti, né deve
essere influenzata dall'esito degli eventuali procedimenti
penali.
Lo scioglimento dell’organo elettivo si connota quale misura
di carattere straordinario per fronteggiare un’emergenza
straordinaria; di conseguenza sono giustificati margini ampi
nella potestà di apprezzamento dell’Amministrazione nel
valutare gli elementi su collegamenti diretti o indiretti,
non traducibili in singoli addebiti personali, ma tali da
rendere plausibile il condizionamento degli amministratori,
anche quando il valore indiziario dei dati non è sufficiente
per l’avvio dell’azione penale, essendo assi portanti della
valutazione di scioglimento, da un lato, l’accertata o
notoria diffusione sul territorio della criminalità
organizzata e, dall’altro, le precarie condizioni di
funzionalità dell’ente in conseguenza del condizionamento
criminale.
Rispetto alla pur riscontrata commissione di atti
illegittimi da parte dell’Amministrazione, è necessario un
quid pluris, consistente in una condotta, attiva od
omissiva, condizionata dalla criminalità anche in quanto
subita, riscontrata dall’Amministrazione competente con
discrezionalità ampia, ma non disancorata da situazioni di
fatto suffragate da obiettive risultanze che diano
attendibilità alle ipotesi di collusione, così da rendere
pregiudizievole, per i legittimi interessi della comunità
locale, il permanere alla sua guida degli organi elettivi.
Ciò in quanto l’art. 143 t.u.e.l. precisa le caratteristiche
di obiettività delle risultanze da identificare, richiedendo
che esse siano concrete, e perciò fattuali, univoche, ovvero
non di ambivalente interpretazione, rilevanti, in quanto
significative di forme di condizionamento.
L’operazione in cui consiste l’apprezzamento giudiziale
delle collusioni e dei condizionamenti non può essere
effettuata mediante l’estrapolazione di singoli fatti ed
episodi, al fine di contestare l'esistenza di taluni di essi
ovvero di sminuire il rilievo di altri in sede di verifica
del giudizio conclusivo sull'operato consiliare; ciò in
quanto, in presenza di un fenomeno di criminalità
organizzata diffuso nel territorio interessato dalla misura
di cui si discute, gli elementi posti a conferma di
collusioni, collegamenti e condizionamenti vanno considerati
nel loro insieme, poiché solo dal loro esame complessivo può
ricavarsi la ragionevolezza della ricostruzione di una
situazione identificabile come presupposto per l’adozione
della misura stessa (Cons.
St., sez. III, 10.01.2018, n. 96; id.
07.12.2017, n. 5782) (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 22.06.2018 n. 3828
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tutela giurisdizionale sull'istanza di revisione prezzi.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Revisione
prezzi – Diniego – Tutela giurisdizionale – Individuazione.
La domanda giudiziale avente ad
oggetto la revisione prezzi di un contratto di appalto deve
essere definita, sul piano processuale, secondo un'indagine
di tipo bifasico, volta dapprima all'accertamento dei
presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale -
aspetto per il quale è consentito il giudizio impugnatorio
riferito all'atto autoritativo della P.A. e al suo surrogato
costituito dal silenzio rifiuto; e solo in un momento
successivo alla verifica del quantum debeatur, secondo
meccanismi propri della tutela delle posizioni di diritto
soggettivo; ne consegue che qualunque provvedimento espresso
o tacito che, collocandosi nella prima fase, espressamente
neghi la revisione o non dia seguito all’istanza
dell’appaltatore, involge posizioni di interesse legittimo e
come tale va impugnato nei termini di rito,
indipendentemente dalle ragioni sulla cui base la posizione
di diniego venga assunta (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che l’istituto della revisione prezzi
si atteggia secondo un modello procedimentale volto al
compimento di un'attività di preventiva verifica dei
presupposti necessari per il riconoscimento del compenso
revisionale, al quale è sotteso l'esercizio di un potere
autoritativo tecnico-discrezionale nei confronti del privato
contraente. Di conseguenza, la posizione di quest’ultimo si
articola nella titolarità di un interesse legittimo con
riferimento all'an della pretesa ed eventualmente in
una situazione di diritto soggettivo solo con riguardo a
questioni involgenti l'entità della pretesa, una volta
risolto in senso positivo il riconoscimento della spettanza
del compenso revisionale (Cons.
St., sez. IV, 06.08.2014, n. 4207; id.,
sez. V, 24.01.2013, n. 465; id.
03.08.2012, n. 4444; Cass. civ., SS.UU.,
30.10.2014, n. 23067; id. 15.03.2011, n. 6016; id.
12.01.2011, n. 511; id. 12.07.2010, n. 16285).
Il descritto schema procedimentale comporta altresì che il
privato contraente, in relazione all’esercizio di tale
potere, potrà avvalersi unicamente dei rimedi e delle forme
tipiche di tutela dell'interesse legittimo, e quindi con
strumenti di carattere impugnatorio esperibili nei
tradizionali termini decadenziali (Cons.
St., sez. III, 18.12.2015, n. 5779; id.
09.01.2017, n. 25).
La consistenza di interesse legittimo della situazione
soggettiva tutelata non muta per la previsione di un’ipotesi
di giurisdizione esclusiva per le questioni relative “alla
clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento
applicativo” nonché “ai provvedimenti applicativi
dell’adeguamento prezzi ai sensi dell’art. 133, commi 3 e 4”,
d.lgs. n. 163 del 2006. E’ chiaro, infatti, che la
cognizione esclusiva del giudice amministrativo presuppone
necessariamente il concorso per determinate materie di
situazioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo
agli effetti della tutela giurisdizionale, che il
legislatore risolve con l’individuazione del giudice
competente, senza che ciò incida sui mezzi di tutela,
scriminabili a seconda della natura della posizione
soggettiva che si assume lesa.
Nel diverso caso in cui il contratto rechi un’apposita
clausola che preveda il puntuale obbligo
dell’Amministrazione di dar luogo alla revisione dei prezzi:
in tale ipotesi, la richiesta sottoposta all'esame del
giudice, risolvendosi in una mera pretesa di adempimento
contrattuale, non può che intendersi come volta
all’accertamento dell'esistenza di un diritto soggettivo,
come tale rimesso alla cognizione del giudice ordinario
(Cass. civ., SS.UU., 13.07.2015, n. 14559; id. 20.04.2017,
n. 9965). Nel caso, al contrario, di denuncia della nullità
delle clausole limitative contenute nel bando e nel
capitolato speciale, che è strumentale all'esclusione
dell'operatività delle previsioni contrattuali, si determina
per conseguenza l'accesso ad un'area contrassegnata
dall'esercizio di poteri pubblicistici.
D’altra parte, la nullità delle clausole contrattuali che
escludono la revisione del canone -se può originare l’eterointegrazione
della disciplina di gara con le norme imperative violate, ai
sensi degli artt. 1339 e 1419 cc.- non manifesta, invece,
alcun riflesso sulla caratterizzazione in termini
provvedimentali dell’attività che l’amministrazione
compulsata da una istanza di revisione è chiamata a svolgere
nella fase di verifica dei relativi presupposti; né può
confondersi il piano della invalidità delle determinazioni
in tal senso assunte, con quello della insussistenza del
potere ad assumerle. In altri termini, l’amministrazione è
pienamente investita, in astratto e in concreto, del potere
di verificare i presupposti della revisione, sicché gli atti
dalla stessa adottati, in disparte ogni loro eventuale
illegittimità, non possono ritenersi offesi da alcun limite
di nullità.
La qualificazione in termini autoritativi del potere di
verifica dei presupposti per il riconoscimento della
revisione prezzi comporta - in ipotesi di condotta inerte
dell’amministrazione compulsata - la necessità di avvalersi
dei rimedi previsti a tutela dell'interesse legittimo nella
forma del silenzio-rifiuto conseguente ad istanza formale (Cons.
St., sez. V, 24.01.2013, n. 465).
Tale conclusione è figlia della considerazione che il
diritto soggettivo alla revisione dei prezzi non discende
direttamente dalla legge, ma deve trovare riconoscimento in
un procedimento amministrativo, come del resto palesato
dalla circostanza che l’art. 115 del Codice dei contratti
innanzi richiamato rinvia ad un’istruttoria condotta dai
dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi
e, pertanto, ad un’attività procedimentalizzata, avviabile
ad impulso della parte
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 22.06.2018 n. 3827
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
2. La tardività della impugnazione non fa dubitare della
irricevibilità dell’azione di primo grado, dovendosi in tal
senso considerare, in dissenso dalla tesi avanzata
dalla parte appellante, che:
- l'istituto della revisione prezzi si atteggia secondo un modello
procedimentale volto al compimento di un'attività di
preventiva verifica dei presupposti necessari per il
riconoscimento del compenso revisionale, al quale è sotteso
l'esercizio di un potere autoritativo tecnico-discrezionale
nei confronti del privato contraente;
- di conseguenza, la posizione di quest’ultimo si articola nella
titolarità di un interesse legittimo con riferimento all'an
della pretesa ed eventualmente in una situazione di diritto
soggettivo solo con riguardo a questioni involgenti l'entità
della pretesa, una volta risolto in senso positivo il
riconoscimento della spettanza del compenso revisionale (ex
multis Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2014, n. 4207; sez.
V, 24.01.2013, n. 465; sez. V, 03.08.2012, n. 4444; Corte di
Cassazione, SS.UU., 30.10.2014, n. 23067; 15.03.2011, n.
6016; 12.01.2011, n. 511; 12.07.2010, n. 16285);
- il descritto schema procedimentale comporta altresì che il
privato contraente, in relazione all’esercizio di tale
potere, potrà avvalersi unicamente dei rimedi e delle forme
tipiche di tutela dell'interesse legittimo, e quindi con
strumenti di carattere impugnatorio esperibili nei
tradizionali termini decadenziali (Cons. Stato, sez. III,
18.12.2015, n. 5779; Id., sez. III, 09.01.2017, n. 25);
- la domanda giudiziale avente ad oggetto la revisione dei prezzi
deve quindi essere definita, sul piano processuale, secondo
un'indagine di tipo bifasico, volta dapprima
all'accertamento dei presupposti per il riconoscimento del
compenso revisionale - aspetto per il quale è consentito il
giudizio impugnatorio riferito all'atto autoritativo della
P.A. e al suo surrogato costituito dal silenzio rifiuto; e
solo in un momento successivo alla verifica del quantum
debeatur, secondo meccanismi propri della tutela delle
posizioni di diritto soggettivo;
- ne viene che qualunque provvedimento espresso o tacito che,
collocandosi nella prima fase, espressamente neghi la
revisione o non dia seguito all’istanza dell’appaltatore,
involge posizioni di interesse legittimo e come tale va
impugnato nei termini di rito, indipendentemente dalle
ragioni sulla cui base la posizione di diniego venga
assunta;
- la consistenza di interesse legittimo della situazione soggettiva
tutelata non muta per la previsione di un’ipotesi di
giurisdizione esclusiva per le questioni relative “alla
clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento
applicativo” nonché “ai provvedimenti applicativi
dell’adeguamento prezzi ai sensi dell’art. 133, commi 3 e 4”
del d.lgs. n. 163 del 2006. E’ chiaro, infatti, che la
cognizione esclusiva del giudice amministrativo presuppone
necessariamente il concorso per determinate materie di
situazioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo
agli effetti della tutela giurisdizionale, che il
legislatore risolve con l’individuazione del giudice
competente, senza che ciò incida sui mezzi di tutela,
scriminabili a seconda della natura della posizione
soggettiva che si assume lesa.
2.1. Alla luce dei richiamati principi, va respinta
l’argomentazione (svolta dalla parte appellante nella
memoria del 24.05.2018) secondo la quale rivestirebbe natura
provvedimentale unicamente l’atto con il quale
l’amministrazione, dopo l’espletamento dell’istruttoria
prevista ex lege, si pronunci in ordine alla
sussistenza dei presupposti (e quindi all’an) della
revisione dei prezzi; mentre analoga natura non potrebbe
riconoscersi all’atto che, disattendendo l’istruttoria,
neghi l’avvio del relativo procedimento in violazione
dell’imperativo di legge in tal senso sancito dall’art. 115
d.lgs. 163/2006.
In realtà, la verifica dei presupposti della revisione può
arrestarsi anche ad una fase preliminare all’avvio del
procedimento, potendo l’amministrazione valutare la stessa
sussistenza delle condizioni necessarie all’espletamento
dell’approfondimento istruttorio. Non vi è ragione alcuna
per disarticolare tale attività propedeutica in segmenti
differenziati per oggetto e natura delle questioni oggetto
di verifica; né sussistono plausibili ragioni per ritenere
che tale vaglio preliminare sia sottratto al potere
discrezionale e autoritativo dell’amministrazione, ovvero
per potersi negare la qualificazione di interesse legittimo
alla posizione vantata dall'appaltatore in questa fase di
riscontro delle condizioni e delle modalità della revisione,
stante la predominante discrezionalità dell'Amministrazione
che caratterizza tutta la fase di determinazioni sull'an
debeatur (Cons. Stato, sez. V, 27.11.2015 n. 5375; Id.,
sez. III, 25.01.2016, n. 255).
2.2. Ad identiche conclusioni questa sezione è pervenuta
scrutinando una fattispecie speculare a quella qui in esame
in cui il rapporto negoziale fra le parti –quanto al
riconoscimento di compensi revisionali– recava una clausola
di chiaro contenuto negativo, come quella di cui qui si
controverte, tale da indurre il Collegio giudicante a
ritenere che la pretesa azionata in alcun modo potesse
essere ricondotta ad una posizione di diritto soggettivo
(Cons. Stato, sez. III, 18.12.2015, n. 5779).
2.3. Trattasi di soluzione, a ben vedere, simmetrica a
quella predicabile nel diverso caso in cui il contratto
rechi un’apposita clausola che preveda il puntuale obbligo
dell’Amministrazione di dar luogo alla revisione dei prezzi:
in tale ipotesi, la richiesta sottoposta all'esame del
giudice (a prescindere dalla sua fondatezza nel merito),
risolvendosi in una mera pretesa di adempimento
contrattuale, non può che intendersi come volta
all’accertamento dell'esistenza di un diritto soggettivo,
come tale rimesso alla cognizione del giudice ordinario
(cfr. Corte di Cassazione, SS.UU. 13.07.2015, n. 14559; Id.,
20.04.2017, n. 9965).
2.4. Nel caso in esame, al contrario, la denuncia della
nullità delle clausole limitative contenute nel bando e nel
capitolato speciale è strumentale all'esclusione
dell'operatività delle previsioni contrattuali, al fine di
ottenere la revisione del corrispettivo di là da quanto
stabilito dal contratto, in relazione all'intera durata del
rapporto e senza limiti di carattere oggettivo. La
prospettata inapplicabilità della regola contrattuale
determina per conseguenza l'accesso ad un'area
contrassegnata dall'esercizio di poteri pubblicistici.
2.5. Da quanto sin qui esposto consegue che l’eventuale
erroneità delle conclusioni assunte dall’amministrazione nel
descritto contesto di esercizio del potere valutativo (anche
sotto il profilo della violazione del citato art. 115), può
legittimare la parte a dolersene, ma pur sempre nel quadro
dei rimedi e dei termini propri del giudizio impugnatorio.
2.6. D’altra parte, la nullità delle clausole contrattuali
che escludono la revisione del canone -se può originare l’eterointegrazione
della disciplina di gara con le norme imperative violate, ai
sensi degli artt. 1339 e 1419 cc.- non manifesta, invece,
alcun riflesso sulla caratterizzazione in termini
provvedimentali dell’attività che l’amministrazione
compulsata da una istanza di revisione è chiamata a svolgere
nella fase di verifica dei relativi presupposti; né può
confondersi il piano della invalidità delle determinazioni
in tal senso assunte, con quello della insussistenza del
potere ad assumerle. In altri termini, l’amministrazione è
pienamente investita, in astratto e in concreto, del potere
di verificare i presupposti della revisione, sicché gli atti
dalla stessa adottati, in disparte ogni loro eventuale
illegittimità, non possono ritenersi offesi da alcun limite
di nullità.
3. Merita inoltre ribadire che la qualificazione in termini
autoritativi del potere di verifica dei presupposti per il
riconoscimento della revisione prezzi comporta -in ipotesi
di condotta inerte dell’amministrazione compulsata- la
necessità di avvalersi dei rimedi previsti a tutela
dell'interesse legittimo nella forma del silenzio-rifiuto
conseguente ad istanza formale (cfr. Cons. Stato, sez. V,
24.01.2013, n. 465).
3.1. Tale conclusione è figlia della considerazione che il
diritto soggettivo alla revisione dei prezzi non discende
direttamente dalla legge, ma deve trovare riconoscimento in
un procedimento amministrativo, come del resto palesato
dalla circostanza che l’art. 115 del Codice dei contratti
innanzi richiamato rinvia ad un’istruttoria condotta dai
dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi
e, pertanto, ad un’attività procedimentalizzata, avviabile
ad impulso della parte.
3.2. A fronte di ciò, appare del tutto implausibile una
ricostruzione intesa ad ammettere l’attivazione del rimedio
impugnatorio a fronte del silenzio dell’amministrazione e a
negarla a fronte di un suo diniego espresso, pur
nell’invarianza sia della potestà discrezionale che nell’uno
e nell’altro caso viene in considerazione, sia,
conseguentemente, della posizione giuridica soggettiva che
rispetto ad essa può profilarsi in capo al richiedente.
3.3. Vero è, invece, che detta qualificazione giuridica
caratterizza la posizione soggettiva del richiedente in
tutta la “fase” antecedente al riconoscimento
dell’adeguamento monetario, così come sono espressive di
potere amministrativo tutte le posizioni assunte dalla
stazione appaltante nel descritto tratto di azione
amministrativa.
3.4. Nel caso di specie, infine, la verifica dei vari limiti
applicativi della revisione prezzi, di tipo oggettivo e
temporale, asseritamente previsti dall’art. 7 del capitolato
speciale -richiamati nella nota di diniego e poi investiti
dalle censure dell’appellante- avvalora ulteriormente la
tesi secondo cui la disamina dei presupposti per attivare o
meno il procedimento di revisione fosse destinata a rifluire
nello scrutinio valutativo della stazione appaltante, con
esercizio di un potere implicante, quanto all’an
della verifica revisionale, posizioni di interesse legittimo
dell’impresa affidataria.
4. Per tutto quanto esposto, l’appello va respinto e, in
accoglimento dell’eccezione di tardività sollevata dalla
parte appellata, la sentenza impugnata va riformata mediante
declaratoria di irricevibilità del ricorso di primo grado. |
EDILIZIA PRIVATA:
Va esclusa l'ammissibilità di una «sanatoria parziale»,
dovendo l'atto abilitativo postumo contemplare gli
interventi eseguiti nella loro integrità.
Va inoltre osservato che, parimenti, va esclusa ogni
efficacia estintiva delle violazioni della disciplina
antisismica quale conseguenza del rilascio di autorizzazioni
postume a sanatoria.
---------------
Il provvedimento adottato dall'autorità amministrativa a
norma dell'art. 34, comma 2, DPR 380/2001 trova applicazione
solo per le difformità parziali e, in ogni caso, non
equivale ad una sanatoria, atteso che non integra una
regolarizzazione dell'illecito ed, in particolare, non
autorizza il completamento delle opere, considerato che le
stesse vengono tollerate, nello stato in cui si trovano,
solo in funzione della conservazione di quelle realizzate
legittimamente.
---------------
La disciplina prevista dall'art. 34, comma secondo, del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, cosiddetta procedura di
fiscalizzazione dell'illecito edilizio, trova applicazione,
in via esclusiva, per gli interventi eseguiti in parziale
difformità dal permesso di costruire, e non equivale ad una
"sanatoria" dell'abuso edilizio, in quanto non integra una
regolarizzazione dell'illecito e non autorizza il
completamento delle opere realizzate.
---------------
L'assunto è corretto.
4. La sanatoria disciplinata dagli articoli 36 e 45 d.P.R.
n. 380/2001 (e, in precedenza, dagli artt. 13 e 22 legge n. 47
del 1985) è destinata, in via generale, al recupero degli
interventi abusivi previo accertamento della conformità
degli stessi agli strumenti urbanistici generali e di
attuazione, nonché alla verifica della sussistenza di altri
requisiti di legge, specificamente individuati.
In base al menzionato articolo 36, la sanatoria può essere
ottenuta quando l'opera eseguita in assenza del permesso sia
conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione
approvati o non in contrasto con quelli adottati, tanto al
momento della realizzazione dell'opera, quanto al momento
della presentazione della domanda, che può avvenire fino
alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3,
33, comma 1, 34, comma 1, e, comunque, fino all'irrogazione
delle sanzioni amministrative.
Sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile
del competente ufficio comunale deve pronunciarsi -con
adeguata motivazione- entro sessanta giorni, trascorsi
inutilmente i quali la domanda si intende respinta.
L'istanza è subordinata, inoltre, al pagamento di una somma
a titolo di oblazione, secondo le modalità descritte nello
stesso articolo.
In base a quanto espressamente disposto dall'articolo 45, il
rilascio della sanatoria «estingue i reati
contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti»,
con esclusione, quindi, di altri reati eventualmente
concorrenti. Inoltre, il rilascio del provvedimento di
sanatoria consegue ad un'attività vincolata della PA.,
consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di
previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione
compiuta e non elastica, che non lasciano
all'Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine
discrezionale.
Va altresì ricordato che questa Corte ha pure escluso
l'ammissibilità di una «sanatoria parziale», dovendo
l'atto abilitativo postumo contemplare gli interventi
eseguiti nella loro integrità (cfr.. Sez. III n. 19587,
18.05.2011; n. 45241, 05.12.2007, non massimata; Sez. 3, n.
291 del 26/11/2003 (dep.2004), P.M. in proc. Fammiano, Rv.
226871).
Diversamente, l'art. 34 d.P.R. 380/2001 si riferisce agli
interventi ed alle opere realizzati in parziale difformità
dal permesso di costruire, che sono rimossi o demoliti a
cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine
congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del
responsabile dell'ufficio e, decorso tale termine, sono
rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi
responsabili dell'abuso.
Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio
della parte eseguita in conformità, il dirigente o il
responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge
27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in
difformità dal permesso di costruire, se ad uso
residenziale, e pari al doppio del valore venale,
determinato a cura della agenzia del territorio, per le
opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.
Le disposizioni dell'articolo si applicano anche agli
interventi edilizi di cui all'articolo 23, comma 1, eseguiti
in parziale difformità dalla segnalazione certificata di
inizio attività.
Come è stato già chiaramente affermato da questa Corte, il
provvedimento adottato dall'autorità amministrativa a norma
dell'art. 34, comma 2 citato trova applicazione solo per le
difformità parziali e, in ogni caso, non equivale ad una
sanatoria, atteso che non integra una regolarizzazione
dell'illecito ed, in particolare, non autorizza il
completamento delle opere, considerato che le stesse vengono
tollerate, nello stato in cui si trovano, solo in funzione
della conservazione di quelle realizzate legittimamente
(così, Sez. 3, n. 19538 del 22/04/2010, Alborino, Rv.
247187. Conf. Sez. 3, n. 24661 del 15/4/2009, Ostuni, Rv.
244021; Sez. 3, n. 13978 del 25/02/2004, Tessitore, Rv.
228451).
5. Tali principi sono pienamente condivisi dal Collegio
dovendosi pertanto ribadire che la disciplina prevista
dall'art. 34, comma secondo, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
cosiddetta procedura di fiscalizzazione dell'illecito
edilizio, trova applicazione, in via esclusiva, per gli
interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di
costruire, e non equivale ad una "sanatoria"
dell'abuso edilizio, in quanto non integra una
regolarizzazione dell'illecito e non autorizza il
completamento delle opere realizzate.
6. Va inoltre osservato che, parimenti, va esclusa ogni
efficacia estintiva delle violazioni della disciplina
antisismica quale conseguenza del rilascio di autorizzazioni
postume a sanatoria.
Sul punto la giurisprudenza di questa Corte è uniforme (v.,
ex pl., Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010; Braccolino, Rv.
246462; Sez. 3, n. 19256 del 13/04/2005, Cupelli, Rv.
231850; Sez. 3, n. 1658 del 01/12/1997 (dep.1998), Agnesse,
Rv. 209571) e le esclusioni individuate dalla condivisibile
lettura della disciplina in esame hanno superato anche il
vaglio della Corte Costituzionale (Corte Cost. sent. 149 del
30.04.1999) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.06.2018 n. 28747). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Deliberazione di approvazione del rendiconto: è legittima
l’impugnazione dei consiglieri comunali per violazione del
termine per il deposito della relazione dell’organo di
revisione.
Allontanarsi dall'aula non preclude la legittimazione
dei consiglieri comunali ad impugnare le delibere.
La legittimazione degli originari ricorrenti trova nel caso
di specie il proprio fondamento nella circostanza che essi
fanno valere una violazione incidente specificamente sulle
prerogative di consigliere comunale, in quanto lamentano di
aver subito una preclusione all’esercizio delle funzioni
relative all’incarico rivestito a causa dell’inosservanza
del termine per il deposito della documentazione necessaria
per poter liberamente e consapevolmente deliberare.
Si dolgono, infatti, che la relazione dell’organo contabile
non è stata depositata nei termini di legge, precludendo
così una consapevole deliberazione in merito
all’approvazione del rendiconto della gestione finanziaria
del Comune.
Non rileva, in senso contrario, la circostanza che i
consiglieri comunali ricorrenti, preso atto del mancato
deposito nel termine di legge della relazione dell’organo di
revisione, abbiano deciso di allontanarsi della seduta
(senza manifestare il proprio dissenso o chiedere il
differimento della seduta). La scelta di allontanarsi, in
quanto determinata proprio dalla violazione contestata, non
può, infatti, incidere in senso negativo sulla sussistenza
della legittimazione al ricorso, né può determinare una
forma di acquiescenza al provvedimento.
Sul punto, infatti, la giurisprudenza amministrativa ha
chiarito che il componente dell'organo collegiale decade
dalla possibilità di impugnazione solo se partecipa
attivamente alla seduta e alla votazione favorevole senza
manifestare e far verbalizzare il proprio dissenso alla
delibera. Ciò in quanto la partecipazione attiva alla seduta
e la votazione favorevole alla approvazione della delibera,
comporta la imputabilità del deliberato anche al componente
presente non dissenziente, con conseguente acquiescenza al
provvedimento.
---------------
Non vi è dubbio che il significativo ritardo con cui è stata
messa a disposizione dei consiglieri la relazione
dell’organo di revisione (solo due giorni prima della seduta
consiliare invece dei venti previsti) ha arrecato un vulnus
alle prerogative consigliari, impedendo una deliberazione
consapevole.
Ciò a maggior ragione in considerazione del ruolo anche
sostanziale che l’art. 39 dello Statuto assegna alla
relazione dell’organo di revisione, che contiene, fra
l’altro, “rilievi proposte per migliorare l’efficienza e
l’economicità della gestione”.
Deve escludersi, quindi, che si tratti di una violazione
meramente procedimentale ovvero di una forma di irregolarità
inidonea a determinare l’invalidità della delibera di
approvazione. La violazione è, al contrario, sostanziale e
determina l’illegittimità della delibera consiliare.
---------------
1. Viene in decisione l’appello proposto dal Comune di
Francavilla Marittima per ottenere la riforma della
sentenza, di estremi indicati in epigrafe, con la quale il
Tar per la Calabria, sede di Catanzaro, in accoglimento del
ricorso proposto da alcuni consiglieri comunali, ha
annullato la delibera di approvazione del rendiconto
dell’anno 2016 e la deliberazione con cui è stato adottato
lo schema del rendiconto della gestione finanziaria 2016.
2. Il Tar, in particolare, ha riscontrato la violazione
dell’art. 227, comma 2, T.U.E.L., in quanto la relazione
dell’organo di revisione non è stata messa a disposizione
dei componenti dell’organo consiliare nel rispetto del
prescritto termine non inferiore a venti giorni prima della
seduta consiliare in cui viene esaminato il rendiconto.
3. Si sono costituiti in giudizio per resistere all’appello
i consiglieri comunali ricorrenti in primo grado.
...
5. L’appello non merita accoglimento.
6. Vanno esaminate le pregiudiziali eccezioni di
inammissibilità del ricorso di primo grado, riproposte in
appello mediante specifici motivi di gravame dal Comune di
Francavilla Marittima.
7. Le eccezioni non hanno pregio.
La legittimazione degli originari ricorrenti trova nel caso
di specie il proprio fondamento nella circostanza che essi
fanno valere una violazione incidente specificamente sulle
prerogative di consigliere comunale, in quanto lamentano di
aver subito una preclusione all’esercizio delle funzioni
relative all’incarico rivestito a causa dell’inosservanza
del termine per il deposito della documentazione necessaria
per poter liberamente e consapevolmente deliberare. Si
dolgono, infatti, che la relazione dell’organo contabile non
è stata depositata nei termini di legge, precludendo così
una consapevole deliberazione in merito all’approvazione del
rendiconto della gestione finanziaria del Comune.
8. Non rileva, in senso contrario, la circostanza che i
consiglieri comunali ricorrenti, preso atto del mancato
deposito nel termine di legge della relazione dell’organo di
revisione, abbiano deciso di allontanarsi della seduta
(senza manifestare il proprio dissenso o chiedere il
differimento della seduta). La scelta di allontanarsi, in
quanto determinata proprio dalla violazione contestata, non
può, infatti, incidere in senso negativo sulla sussistenza
della legittimazione al ricorso, né può determinare una
forma di acquiescenza al provvedimento.
Sul punto, infatti, la giurisprudenza amministrativa ha
chiarito che il componente dell'organo collegiale decade
dalla possibilità di impugnazione solo se partecipa
attivamente alla seduta e alla votazione favorevole senza
manifestare e far verbalizzare il proprio dissenso alla
delibera. Ciò in quanto la partecipazione attiva alla seduta
e la votazione favorevole alla approvazione della delibera,
comporta la imputabilità del deliberato anche al componente
presente non dissenziente, con conseguente acquiescenza al
provvedimento (cfr. Cons. Stato, sez. V, 07.11.2007, n.
5759).
Nel caso di specie, tuttavia, non vi è stata partecipazione
attiva alla seduta e alla votazione favorevole, in quanto i
consiglieri comunali ricorrenti si sono allontanati dalla
seduta, e non hanno preso, quindi, parte alla votazione
favorevole. Tanto è sufficiente ad escludere ogni forma di
acquiescenza.
9. L’appello è infondato anche nel merito.
La violazione del termine per il deposito della relazione
dell’organo di revisione contabile è pacifica. La relazione
dell’organo contabile è stata resa disponibile ai
consiglieri comunali solo in data 05.06.2017, soltanto due
giorni prima della seduta consiliare del 07.06.2017 che ha
approvato il rendiconto dell’esercizio finanziario 2016.
Ne consegue la violazione dell’art. 227, comma 2, T.U.E.L.,
dell’art. 39 dello Statuto comunale e dell’art. 61, comma 4,
del regolamento comunale di contabilità.
Ai sensi dell’art. 227, comma 2, T.U.E.L., infatti, “il
rendiconto è deliberato dall'organo consiliare dell'ente
entro il 30 aprile dell'anno successivo, tenuto
motivatamente conto della relazione dell'organo di
revisione. La proposta è messa a disposizione dei componenti
dell'organo consiliare prima dell'inizio della sessione
consiliare in cui viene esaminato il rendiconto entro un
termine, non inferiore a venti giorni, stabilito dal
regolamento”.
L’art. 39 dello Statuto comunale specifica che il revisore “collabora
con il Consiglio nella sua funzione d’indirizzo e controllo,
esercita la vigilanza sulla regolarità contabile della
gestione e redige apposita relazione che accompagna la
proposta di deliberazione di rendiconto del bilancio, nella
quale esprime rilievi proposte per migliorare l’efficienza e
l’economicità della gestione”.
L’art. 61, comma 4, del regolamento comunale di contabilità
ribadisce ulteriormente che almeno venti giorni prima della
seduta consiliare in cui viene esaminato il rendiconto, sono
posti a disposizione dei consiglieri, con deposito presso la
segreteria dell’ente:
- la proposta di deliberazione;
- lo schema di rendiconto;
- la relazione al rendiconto di cui all’art. 231 del T.U.E.L.
approvata dalla Giunta;
- la relazione dell’organo di revisione.
10. Non vi è dubbio, pertanto, che il significativo ritardo
con cui è stata messa a disposizione dei consiglieri la
relazione dell’organo di revisione (solo due giorni prima
della seduta consiliare invece dei venti previsti) ha
arrecato un vulnus alle prerogative consigliari,
impedendo una deliberazione consapevole.
Ciò a maggior ragione in considerazione del ruolo anche
sostanziale che l’art. 39 dello Statuto assegna alla
relazione dell’organo di revisione, che contiene, fra
l’altro, “rilievi proposte per migliorare l’efficienza e
l’economicità della gestione”.
Deve escludersi, quindi, che si tratti di una violazione
meramente procedimentale ovvero di una forma di irregolarità
inidonea a determinare l’invalidità della delibera di
approvazione. La violazione è, al contrario, sostanziale e
determina l’illegittimità della delibera consiliare.
11. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello
deve, pertanto, essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.06.2018 n. 3814 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla definizione di "volume tecnico".
Partendo dalla definizione dei volumi tecnici, la loro
definizione si rinviene nella circolare dell’allora
ministero dei Lavori pubblici n. 2474 del 1973, secondo cui
si tratta dei volumi «strettamente necessari a contenere ed
a consentire l’accesso di quelle parti degli impianti
tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di
parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non possono per
esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi,
trovare luogo entro il corpo dell’edificio realizzabile nei
limiti imposti dalle norme urbanistiche».
La circolare precisa che la definizione «può trovare
applicazione soltanto nei casi in cui i volumi tecnici non
siano diversamente definiti o disciplinati dalle norme urbanistico-edilizie vigenti nel Comune» e che, in ogni
caso, la loro sistemazione «non deve costituire
pregiudizio per la validità estetica dell’insieme
architettonico».
Secondo costante orientamento giurisprudenziale, da quale
non vi è motivo per discostarsi , per l’identificazione
dei volumi tecnici va fatto riferimento a tre ordini di
parametri.
Il primo ha carattere positivo ed è di tipo funzionale,
dovendo sussistere un rapporto di strumentalità necessaria
del volume tecnico con l’utilizzo della costruzione. Il secondo e il
terzo hanno carattere negativo e sono
collegati: all’impossibilità di elaborare soluzioni
progettuali diverse all'interno della parte abitativa, per
cui tali volumi devono essere ubicati solo all’esterno; ad
un rapporto di necessaria proporzionalità fra le esigenze
edilizie ed i volumi, che devono limitarsi a contenere gli
impianti serventi della costruzione principale e devono
essere completamente privi di una propria autonomia
funzionale, anche solo potenziale.
Inoltre, è stato escluso che possa considerarsi volume
tecnico un locale con requisiti di abitabilità, reso non
abitabile con una semplice operazione di tamponamento delle
finestre, essendo questa «una operazione in sé talmente
semplice, reversibile e surrettizia da non privare
l’ambiente della sua intrinseca qualità abitativa».
Come pure è stato ritenuto che la realizzazione di un locale
sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano
sottostante mediante una scala interna, costituisse «indice
rilevatore dell’intento di rendere abitabile detto locale,
non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso
ricavati».
Analogamente sono stati esclusi dal novero dei volumi
tecnici anche i vani scala, le verande, se di dimensioni
superiori ad ospitare un impianto tecnologico come una
caldaia ed i piani interrati, se utilizzati come locali
complementari all’abitazione.
---------------
Gli assunti non sono condivisibili.
Partendo dalla definizione dei volumi tecnici, la loro
definizione si rinviene nella circolare dell’allora
ministero dei Lavori pubblici n. 2474 del 1973, secondo cui
si tratta dei volumi «strettamente necessari a contenere ed
a consentire l’accesso di quelle parti degli impianti
tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di
parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non possono per
esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi,
trovare luogo entro il corpo dell’edificio realizzabile nei
limiti imposti dalle norme urbanistiche».
La circolare precisa che la definizione «può trovare
applicazione soltanto nei casi in cui i volumi tecnici non
siano diversamente definiti o disciplinati dalle norme urbanistico-edilizie vigenti nel Comune» e che, in ogni
caso, la loro sistemazione «non deve costituire
pregiudizio per la validità estetica dell’insieme
architettonico».
Secondo costante orientamento giurisprudenziale, da quale
non vi è motivo per discostarsi (TAR Napoli n. 3490/2015 e
n. 4132/2013; Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza n.
175/2015 e n. 1512/2014; Consiglio di giustizia
amministrativa, sentenza n. 207/2014), per l’identificazione
dei volumi tecnici va fatto riferimento a tre ordini di
parametri.
Il primo ha carattere positivo ed è di tipo funzionale,
dovendo sussistere un rapporto di strumentalità necessaria
del volume tecnico con l’utilizzo della costruzione. Il secondo e il
terzo hanno carattere negativo e sono
collegati: all’impossibilità di elaborare soluzioni
progettuali diverse all'interno della parte abitativa, per
cui tali volumi devono essere ubicati solo all’esterno; ad
un rapporto di necessaria proporzionalità fra le esigenze
edilizie ed i volumi, che devono limitarsi a contenere gli
impianti serventi della costruzione principale e devono
essere completamente privi di una propria autonomia
funzionale, anche solo potenziale.
Inoltre, è stato escluso che possa considerarsi volume
tecnico un locale con requisiti di abitabilità, reso non
abitabile con una semplice operazione di tamponamento delle
finestre, essendo questa «una operazione in sé talmente
semplice, reversibile e surrettizia da non privare
l’ambiente della sua intrinseca qualità abitativa»
(Consiglio di Stato, sezione VI, n. 2825/2014).
Come pure è stato ritenuto che la realizzazione di un locale
sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano
sottostante mediante una scala interna, costituisse «indice
rilevatore dell’intento di rendere abitabile detto locale,
non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso
ricavati» (Consiglio di giustizia amministrativa siciliana,
sentenza n. 207/2014; Consiglio di stato, sezione IV,
sentenza n. 3666/2013; Tar Puglia-Lecce, sezione III, n.
2170/2011).
Analogamente sono stati esclusi dal novero dei volumi
tecnici anche i vani scala (Consiglio di Stato, sezione IV,
sentenza n. 2565/2010), le verande, se di dimensioni
superiori ad ospitare un impianto tecnologico come una
caldaia (Consiglio di stato, sezione VI, n. 2226/2015; Tar
Campania-Napoli sezione VIII, sentenza n. 4132/2013) ed i
piani interrati, se utilizzati come locali complementari
all’abitazione (Tar Marche, sentenza n. 21/2003).
Nella specie, trattasi di diversi locali apparentemente
realizzati per civile abitazione, comprensivi di servizi
igienici stante la mancata dimostrazione del rapporto di
strumentalità necessaria con l’utilizzo di una costruzione,
nel senso della loro unica finalità e stretta necessità di
contenere impianti tecnici serventi una costruzione
principale che non possano per esigenze tecniche essere
inglobati entro il corpo della costruzione.
Nella corretta ottica unitaria peraltro le opere realizzate
costituiscono sicuramente interventi che realizzano
superfici utili, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico
ai sensi del d.lgs. 42/2004, i quali sono esclusi dalla
possibilità di essere assentiti in sanatoria ex art. 36 DPR
380/2001.
Tale circostanza, sufficiente a reggere la legittimità del
provvedimento impugnato, comporta la reiezione del ricorso
per motivi aggiunti (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 21.06.2018 n. 1042 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La proposizione di un’istanza di sanatoria, pur
non comportando la radicale e definitiva inefficacia
dell’ordine di demolizione, fa conseguire al provvedimento
impugnato un mero stato di temporanea inefficacia nelle more
di una decisione, espressa o tacita, da parte
dell’Amministrazione.
---------------
Deve essere respinto anche il ricorso proposto avverso
l’ordine di demolizione.
Invero, quanto alla dedotta illegittimità sopravvenuta per
effetto della presentazione dell’istanza di sanatoria, la
Sezione condivide l’orientamento secondo il quale la
proposizione di un’istanza di sanatoria, pur non comportando
la radicale e definitiva inefficacia dell’ordine di
demolizione, fa conseguire al provvedimento impugnato un
mero stato di temporanea inefficacia nelle more di una
decisione, espressa o tacita, da parte dell’Amministrazione.
Sennonché, nel caso di specie, a fronte della citata istanza
di sanatoria, il Comune ha adottato il provvedimento
conclusivo suindicato, sicché essendo venuto meno lo stato
di temporanea quiescenza dell’atto, quest’ultimo ha
riacquistato nuovamente la sua primigenia efficacia (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 21.06.2018 n. 1042 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte di giustizia UE se la violazione della disciplina
antiutrust rientra negli errori gravi commessi
nell’esercizio dell’attività professionale.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara - Errore grave commesso da un operatore economico
“nell’esercizio della propria attività professionale” -
Comportamenti integranti violazione delle norme sulla
concorrenza – Non rientrano nell’”errore grave” –
Conseguente impossibilità di escludere facoltativamente –
Conformità alla disciplina comunitaria - Rimessione alla
Corte di giustizia UE.
Deve essere rimessa alla Corte di
Giustizia dell’Unione Europea la questione se il combinato
disposto da una parte degli artt. 53, paragrafo 3, e 54,
paragrafo 4, della Direttiva 2004/17/CE, e dell’art. 45,
paragrafo 2, lett. d), della Direttiva 2004/18/CE osti ad
una previsione, come l’art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs.
12.04.2006, n. 163, come interpretato dalla giurisprudenza
nazionale, che esclude dalla sfera di operatività del c.d.
“errore grave” commesso da un operatore economico
“nell’esercizio della propria attività professionale”, i
comportamenti integranti violazione delle norme sulla
concorrenza accertati e sanzionati dalla Autorità nazionale
antitrust con provvedimento confermato in sede
giurisdizionale, in tal modo precludendo a priori alle
amministrazioni aggiudicatrici di valutare autonomamente
siffatte violazioni ai fini della eventuale, ma non
obbligatoria, esclusione di tale operatore economico da una
gara indetta per l’affidamento di un appalto pubblico (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che la Corte di giustizia UE, nella
causa C-465/11 del 13.12.2012:
a) conferma che la nozione di “errore grave” rilevante ai
fini dell’art. 45, paragrafo 2, lett. d), della Direttiva
2004/18/CE comprende anche comportamenti diversi dai meri
inadempimenti contrattuali -potendosi estendere a qualsiasi
violazione, persino di norme deontologiche, idonea ad
evidenziare la propensione di un operatore economico a non
rispettare regole-;
b) richiama l’attenzione sul fatto che gli Stati membri con
riferimento alle cause di esclusione “facoltative”
debbono tenere conto della nozione di “errore grave”
rilevante ai fini del diritto della Unione, potendo tali
cause essere “precisate ed esplicitate nel diritto
nazionale, nel rispetto, tuttavia, del diritto dell’Unione”.
La Sezione ha quindi concluso che tale pronuncia conferma
che nel recepire le cause di esclusione gli Stati membri,
già nel vigore delle Direttive 2004/17 e 2004/18/CE, non
potevano mutarne il contenuto, come non potevano trasformare
le cause di esclusione facoltative in cause di esclusione
automatica.
Ha quindi ritenuto che relativamente alle cause di
esclusione c.d. “facoltative” la giurisprudenza della
Corte formatasi nel vigore delle Direttive 92/50/CEE e
2004/18/CE non risulta di univoca interpretazione. Alcune
pronunce sembrerebbero riconoscere agli Stati membri il
potere di non attribuire rilevanza giuridica a tutte o a
talune di tali cause di esclusione ovvero di ridimensionare
la portata applicativa di ciascuna di esse, in particolare
prevedendo che non debbano essere applicate in alcune
situazioni che invece sono rilevanti per il diritto della
Unione. Altra giurisprudenza, come quella di cui alla
pronuncia resa nella causa C-465/11, sembrerebbe invece
suggerire che gli Stati membri potevano solo chiarire il
significato, senza mutare la nozione rilevante ai fini del
diritto europeo, o specificandone i criteri applicativi.
Il Tar ritiene, quindi, necessario l’intervento
chiarificatore della Corte di giustizia, tanto più per il
fatto che anche la Direttiva 2014/24/UE, con previsioni alle
quali la stessa Corte di giustizia parrebbe aver attribuito
(con la sentenza C-470/13) natura ricognitiva, sembra aver
assegnato agli Stati membri solo il potere di obbligare le
amministrazioni aggiudicatrici a tenere in considerazione le
cause di esclusione “facoltative” indicate all’art.
57, comma 4 –tra cui anche le condotte che si siano
estrinsecate nella conclusione di accordi limitativi della
concorrenza-, e non certo anche il potere di privare le
amministrazione aggiudicatrici del potere di valutare
autonomamente le medesime cause di esclusione
(TAR Piemonte, Sez. I,
ordinanza 21.06.2018 n. 770
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Titolo abilitativo in sanatoria e revoca del
sequestro preventivo di un manufatto abusivo - Requisito
della c.d. "doppia conformità" - Artt. 31 e 44 d.P.R. n.
380/2001 - Art. 321 cod. proc. pen. - Giurisprudenza.
Il titolo abilitativo in sanatoria, rilasciato ai sensi
degli artt. 36 e 44 d.P.R. n. 380/2001 (nella specie, in
relazione all'art. 321 cod. proc. pen.), deve contenere la
verifica del requisito della c.d. "doppia conformità",
richiedendo in modo specifico che la conformità agli
strumenti urbanistici debba sussistere sia al momento della
realizzazione dell'opera che al momento della presentazione
della domanda in sanatoria (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 20.06.2018 n. 28532 - link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Obbligo -o meno- di bonifica in capo al curatore
fallimentare.
Sulla base di condiviso orientamento
giurisprudenziale:
a) “in sede di applicazione dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del
2006, in assenza dell'individuazione di una univoca,
autonoma e chiara responsabilità del curatore stesso
sull'abbandono dei rifiuti, nessun ordine di ripristino può
essere imposto dal Comune alla curatela fallimentare quale
mera responsabilità di posizione. Il curatore non
sostituisce, infatti, il fallito, atteso che la procedura
fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già
amministrativo o continuativo dell'impresa fallita”;
b) invero, “il curatore fallimentare non è correttamente
individuato come soggetto passivo dei sopra indicati
obblighi di facere dal momento che a tale organo della
procedura fallimentare sono solo attribuiti poteri di
disporre dei beni fallimentari in vista delle finalità
proprie della procedura concorsuale, senza che ciò comporti
l'attribuzione allo stesso del dovere di adottare
comportamenti attivi come richiesti dall'ordinanza
impugnata, poiché il curatore fallimentare non subentra
negli obblighi più strettamente correlati alla
responsabilità dell'imprenditore fallito, salvo quanto può
essere più specificamente connesso all'eventuale esercizio
provvisorio dell'impresa”;
c) nello specifico, “la curatela fallimentare non può essere
destinataria di ordinanze dirette alla bonifica di siti, per
effetto del precedente comportamento (omissivo o commissivo)
dell'impresa fallita, posto che, tra l’altro, il curatore,
nell’espletamento del munus publicum, pur potendo
sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito
(cfr. l'art. 72 R.D. n. 267 del 1942), in via generale «non
è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo
subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per
l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge» (...), avendo il
fallimento finalità meramente liquidatorie".
Ed invero, occorre puntualizzare che: per un verso, "la
soluzione opposta «determinerebbe un sovvertimento del
principio "chi inquina paga" scaricando i costi sui
creditori che non presentano alcun collegamento con
l'inquinamento» (...). Correlativamente, il fallimento non
acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un
amministratore con facoltà di disposizione, laddove
quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi
diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul
munus publicum rivestito dagli organi della procedura (...).
Su di lui non incombono né gli obblighi dal fallito
inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo
stesso non sia stato in grado di adempiere a causa
dell'inizio della procedura concorsuale. La curatela
fallimentare, pertanto, non subentra «negli obblighi più
strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore
fallito a meno che non vi sia una prosecuzione
dell'attività, con conseguente esclusione del curatore
fallimentare dalla legittimazione passiva dell'ordine di
bonifica»";
d) in definitiva, il curatore “non rappresenta né il soggetto
fallito né la massa dei creditori: come organo pubblico
agisce per la realizzazione dei fini che sono propri del
fallimento e non può proiettarsi al di fuori di tale scopo
fondamentale della procedura fallimentare. (...) E’
applicabile, nella specie il principio di derivazione
romanistica “res transit cum onere suo”. Alla stregua di
detto principio quindi la individuazione della
responsabilità connessa all’obbligo di rimozione dei rifiuti
può e deve intendersi avvenuta soltanto dopo la chiusura
della procedura fallimentare e dopo l’avvenuto espletamento
della la fase di liquidazione. Prima dell’esaurimento di
detta fase il responsabile è originariamente indeterminato,
deve ritenersi determinato a posteriori. Al creditore al
quale sarà assegnato il bene a cui ineriscono, in senso
causativo, i rifiuti incomberà la responsabilità della
rimozione dei rifiuti medesimi”.
---------------
- Premesso che la curatela ricorrente impugna l’ordinanza
sindacale con la quale le viene ingiunto ai sensi dell’art.
192 del d.lgs. n. 152/2006, “di provvedere alla messa in
sicurezza, rimozione di tutti i rifiuti presenti, combusti e
non, con la consequenziale totale bonifica, garantendo tutte
le misure necessarie per la salvaguardia ambientale a tutela
della pubblica incolumità e igiene, nel lasso di tempo di
giorni 45, decorrenti dalla data di notifica della presente
ordinanza”;
- Valutato che in relazione alla manifesta fondatezza del
ricorso, ricorrono, a giudizio del Collegio, le condizioni
ai fini dell’immediata definizione del ricorso in esame,
sussistendo, altresì, gli altri presupposti per l’adozione
della decisione in forma semplificata;
- Rese edotte le parti costituite di tale eventualità alla
camera di consiglio del 04.06.2018, nel corso della quale,
preso atto dell’opposizione al rinvio interposta da parte
ricorrente avverso l’istanza della controinteressata Ec.
S.r.l., la causa è stata introitata per la decisione con
sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a.;
- Ritenuto, nella specie, fondato ed assorbente l’unico
motivo di ricorso con il quale è dedotta la carenza di
legittimazione passiva, posto che, sulla base di condiviso
orientamento giurisprudenziale:
a) “in sede di applicazione dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del
2006, in assenza dell'individuazione di una univoca,
autonoma e chiara responsabilità del curatore stesso
sull'abbandono dei rifiuti, nessun ordine di ripristino può
essere imposto dal Comune alla curatela fallimentare quale
mera responsabilità di posizione. Il curatore non
sostituisce, infatti, il fallito, atteso che la procedura
fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già
amministrativo o continuativo dell'impresa fallita” (TAR
Lazio, Roma, sez. II-bis, 08.02.2016 n. 1804; TRGA
Trentino-Alto Adige, Trento, Sez. Unica, 24.11.2017, n.
309);
b) invero, “il curatore fallimentare non è correttamente
individuato come soggetto passivo dei sopra indicati
obblighi di facere dal momento che a tale organo della
procedura fallimentare sono solo attribuiti poteri di
disporre dei beni fallimentari in vista delle finalità
proprie della procedura concorsuale, senza che ciò comporti
l'attribuzione allo stesso del dovere di adottare
comportamenti attivi come richiesti dall'ordinanza
impugnata, poiché il curatore fallimentare non subentra
negli obblighi più strettamente correlati alla
responsabilità dell'imprenditore fallito, salvo quanto può
essere più specificamente connesso all'eventuale esercizio
provvisorio dell'impresa” (TAR Toscana, Firenze, sez.
III, 27.10.2015 n. 1457; TAR Lombardia, Milano, sez. III,
05.01.2016, n. 1);
c) nello specifico, “la curatela fallimentare non può essere
destinataria di ordinanze dirette alla bonifica di siti, per
effetto del precedente comportamento (omissivo o commissivo)
dell'impresa fallita, posto che, tra l’altro, il curatore,
nell’espletamento del munus publicum, pur potendo
sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito
(cfr. l'art. 72 R.D. n. 267 del 1942), in via generale «non
è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo
subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per
l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge (Cassazione
civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926)» (...), avendo il
fallimento finalità meramente liquidatorie".
Ed invero, occorre puntualizzare che: per un verso, "la
soluzione opposta «determinerebbe un sovvertimento del
principio "chi inquina paga" scaricando i costi sui
creditori che non presentano alcun collegamento con
l'inquinamento» (...). Correlativamente, il fallimento non
acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un
amministratore con facoltà di disposizione, laddove
quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi
diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul
munus publicum rivestito dagli organi della procedura (...).
Su di lui non incombono né gli obblighi dal fallito
inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo
stesso non sia stato in grado di adempiere a causa
dell'inizio della procedura concorsuale. La curatela
fallimentare, pertanto, non subentra «negli obblighi più
strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore
fallito a meno che non vi sia una prosecuzione
dell'attività, con conseguente esclusione del curatore
fallimentare dalla legittimazione passiva dell'ordine di
bonifica»" (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 11.05.2017 n.
746);
d) in definitiva, il curatore “non rappresenta né il soggetto
fallito né la massa dei creditori: come organo pubblico
agisce per la realizzazione dei fini che sono propri del
fallimento e non può proiettarsi al di fuori di tale scopo
fondamentale della procedura fallimentare. (...) E’
applicabile, nella specie il principio di derivazione
romanistica “res transit cum onere suo”. Alla stregua di
detto principio quindi la individuazione della
responsabilità connessa all’obbligo di rimozione dei rifiuti
può e deve intendersi avvenuta soltanto dopo la chiusura
della procedura fallimentare e dopo l’avvenuto espletamento
della la fase di liquidazione. Prima dell’esaurimento di
detta fase il responsabile è originariamente indeterminato,
deve ritenersi determinato a posteriori. Al creditore al
quale sarà assegnato il bene a cui ineriscono, in senso
causativo, i rifiuti incomberà la responsabilità della
rimozione dei rifiuti medesimi” (TAR Campania, Napoli,
sez. V, 26.11.2015 n. 5461, 03.07.2017 n. 3544 e 08.02.2018
n. 829);
- Preso, altresì, atto che, nel caso di specie, non
ricorrono neppure le fattispecie residuali di eccezionale
applicabilità dell’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152/2006 nei
confronti del curatore fallimentare, ravvisate:
1. nell’accertamento della diretta imputabilità delle condotte di
abbandono dei rifiuti e inquinamento (nell’ordinanza
gravata, invero, sembrerebbe accertato che i fatti ivi
indicati si sarebbero verificati in epoca antecedente
all’apertura della procedura fallimentare: cfr. ordinanza n.
4 del 29.07.2017) (TAR Basilicata Potenza, sez. I,
04.04.2017 n. 293; TAR Lombardia, Milano, sez. III,
03.03.2017 n. 520);
2. nell’autorizzazione da parte del competente Tribunale
fallimentare all’esercizio provvisorio, ai sensi dell'art.
90 l. fall., atteso che solo in tale ipotesi la curatela non
avrebbe esclusivamente finalità liquidatorie della massa
fallimentare (non risulta, nel caso all’esame, che la
curatela fallimentare sia stata autorizzata alla
prosecuzione dell'attività) (TAR Puglia, Lecce, I,
19.02.2014 n. 504; TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
09.01.2017 n. 38);
- Considerato, pertanto, che il ricorso sia meritevole di
accoglimento con compensazione integrale delle spese di
giudizio attesa la peculiarità della questione giuridica
sottesa (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 20.06.2018 n. 4078 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sulla questione del riconoscimento dello
svolgimento di mansioni superiori (e del conseguente diritto
alla corresponsione delle relative differenze retributive)
può considerarsi jus
receptum la individuazione di specifiche e definite
condizioni alle quali il Legislatore ha inteso subordinare
il riconoscimento del solo- diritto alle differenze
retributive in ragione delle mansioni espletate.
---------------
In
particolare, per il personale amministrativo del comparto
sanità, l’art. 29, comma
secondo, del d.P.R. 20.12.1979, n. 761, consente una
variazione stipendiale, in ragione dello svolgimento di
mansioni superiori per più di 60 giorni, esclusivamente in
presenza di un posto vacante e sulla base di atto formale di
incarico, valido ed efficace, proveniente ex ante
dall’organo competente (per le A.S.L., prima il Comitato di
gestione, quindi l’Amministratore straordinario).
La necessità che l’incarico sia stato attribuito dall’organo
gestorio competente con una formale deliberazione, dalla
quale emerga l’avvenuta verifica dei presupposti ricordati,
nonché l’assunzione di tutte le relative responsabilità,
definisce il quadro, così come la circostanza che su tale
posto non sia stato bandito alcun concorso.
Per completezza, il Collegio ricorda come l’art. 29 del d.P.R. n. 761 costituisse una norma di favore nell’ambito del
pubblico impiego, stante che a livello generale l’art. 56
del D.Lgs. n. 29 del 1993, nella stesura antecedente la
novella attuata con l’art. 15 del D.Lgs. n. 387 del 1998,
non consentiva alcun tipo di remunerazione differenziale
(sul punto si veda Cons. Stato, Ad. Plen., 23.03.2006, n.
3, ove, proprio sulla base di tale disposizione, si è
definitivamente chiarito che «l’esercizio di fatto di
mansioni superiori, da parte del dipendente di pubblica
amministrazione, non determina l’insorgenza di alcun
diritto, salvo quello alle differenze retributive per il
periodo successivo all’entrata in vigore dell’art. 15 del
d.lgs. n. 387 del 1998», con ciò negandolo per il periodo
precedente).
---------------
A nulla rileva poi, la
presunta violazione degli artt. 36 Cost. e 2126 c.c. Quanto
all’art. 36 Cost., esso “non può trovare incondizionata
applicazione nel rapporto di pubblico impiego concorrendo,
in detto ambito, altri principi di pari rilevanza
costituzionale (artt. 97 e 98 Cost.)”.
Come del resto ben
chiarito dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato “nell’ambito del pubblico impiego è
la qualifica e non le mansioni il parametro al quale la
retribuzione è inderogabilmente riferita, considerando anche
l’assetto rigido della Pubblica amministrazione sotto il
profilo organizzatorio, collegato anch’esso, secondo il
paradigma dell’art. 97, ad esigenze primarie di controllo e
contenimento della spesa pubblica”.
In assenza, dunque, di
una norma speciale che consenta la maggiorazione
retributiva, essa non può essere corrisposta.
E laddove la
norma speciale sussista, come, per quanto qui di interesse,
l’art. 29 del d.P.R. n. 761/1979, occorrerà, ovviamente,
verificarne in concreto tutti i presupposti di operatività,
anche allo scopo di fornirne costantemente una lettura
costituzionalmente orientata, nel senso poc’anzi descritto.
---------------
Quanto all’art. 2126 c.c, esso consente di ritenere
spettante la remunerazione per le prestazioni di lavoro,
ancorché poste in essere con violazione di legge, e prevede
che la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non
producano effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto
esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità
dell’oggetto o della causa.
L’art.
2126 c.c. ha espressamente esteso anche alle controversie
tra privati l'applicazione dei principi di equità che ab
antiquo il Consiglio di Stato ha ritenuto applicabili per i
casi in cui un’Amministrazione pubblica si sia avvalsa
dell'attività lavorativa di un soggetto, sulla base di un
titolo (un contratto o un atto di nomina) poi annullato
(anche in sede di autotutela), ovvero che non doveva essere
annullato proprio perché oramai l'attività lavorativa era
già stata integralmente prestata.
L’art. 2126 c.c. contiene
principi applicabili anche quando si tratti di rapporti di
lavoro, a suo tempo sottoposti ratione temporis, al regime
di diritto pubblico. Nel caso di specie non è questione di
invalidazione di un atto di inquadramento erroneo e dunque
il richiamo alla norma appare del tutto inconferente.
---------------
7.2. Sulla questione del riconoscimento dello svolgimento di mansioni
superiori (e del conseguente diritto alla corresponsione
delle relative differenze retributive) può considerarsi jus
receptum la individuazione di specifiche e definite
condizioni alle quali il Legislatore ha inteso subordinare
il riconoscimento del solo- diritto alle differenze
retributive in ragione delle mansioni espletate.
In
particolare, per il personale amministrativo del comparto
sanità, cui si riferisce il caso di specie, l’art. 29, comma
secondo, del d.P.R. 20.12.1979, n. 761, consente una
variazione stipendiale, in ragione dello svolgimento di
mansioni superiori per più di 60 giorni, esclusivamente in
presenza di un posto vacante e sulla base di atto formale di
incarico, valido ed efficace, proveniente ex ante
dall’organo competente (per le A.S.L., prima il Comitato di
gestione, quindi l’Amministratore straordinario).
La necessità che l’incarico sia stato attribuito dall’organo
gestorio competente con una formale deliberazione, dalla
quale emerga l’avvenuta verifica dei presupposti ricordati,
nonché l’assunzione di tutte le relative responsabilità,
definisce il quadro, così come la circostanza che su tale
posto non sia stato bandito alcun concorso (cfr. per tutte
Cons. Stato, sez. III, 04.12.2014, n. 5892; id. 14.03.2014, n. 1277, con numerosi richiami giurisprudenziali
ulteriori).
Per completezza, il Collegio ricorda come l’art. 29 del d.P.R. n. 761 costituisse una norma di favore nell’ambito del
pubblico impiego, stante che a livello generale l’art. 56
del D.Lgs. n. 29 del 1993, nella stesura antecedente la
novella attuata con l’art. 15 del D.Lgs. n. 387 del 1998,
non consentiva alcun tipo di remunerazione differenziale
(sul punto si veda Cons. Stato, Ad. Plen., 23.03.2006, n.
3, ove, proprio sulla base di tale disposizione, si è
definitivamente chiarito che «l’esercizio di fatto di
mansioni superiori, da parte del dipendente di pubblica
amministrazione, non determina l’insorgenza di alcun
diritto, salvo quello alle differenze retributive per il
periodo successivo all’entrata in vigore dell’art. 15 del
d.lgs. n. 387 del 1998», con ciò negandolo per il periodo
precedente).
7.3. A nulla rileva poi, secondo costante giurisprudenza, la
presunta violazione degli artt. 36 Cost. e 2126 c.c. Quanto
all’art. 36 Cost., esso “non può trovare incondizionata
applicazione nel rapporto di pubblico impiego concorrendo,
in detto ambito, altri principi di pari rilevanza
costituzionale (artt. 97 e 98 Cost.)”.
Come del resto ben
chiarito dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato
nella decisione n. 22/99 “nell’ambito del pubblico impiego è
la qualifica e non le mansioni il parametro al quale la
retribuzione è inderogabilmente riferita, considerando anche
l’assetto rigido della Pubblica amministrazione sotto il
profilo organizzatorio, collegato anch’esso, secondo il
paradigma dell’art. 97, ad esigenze primarie di controllo e
contenimento della spesa pubblica”.
In assenza, dunque, di
una norma speciale che consenta la maggiorazione
retributiva, essa non può essere corrisposta. E laddove la
norma speciale sussista, come, per quanto qui di interesse,
l’art. 29 del d.P.R. n. 761/1979, occorrerà, ovviamente,
verificarne in concreto tutti i presupposti di operatività,
anche allo scopo di fornirne costantemente una lettura
costituzionalmente orientata, nel senso poc’anzi descritto.
7.4. Quanto all’art. 2126 c.c, esso consente di ritenere
spettante la remunerazione per le prestazioni di lavoro,
ancorché poste in essere con violazione di legge, e prevede
che la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non
producano effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto
esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità
dell’oggetto o della causa.
Come è stato evidenziato da questo Consiglio sin da epoca
risalente (Sez. V, 21.10.1995, n. 1462; di recente, si
veda anche Sez. III, 27.12.20917, n. 6118), l’art.
2126 c.c. ha espressamente esteso anche alle controversie
tra privati l'applicazione dei principi di equità che ab
antiquo il Consiglio di Stato ha ritenuto applicabili per i
casi in cui un’Amministrazione pubblica si sia avvalsa
dell'attività lavorativa di un soggetto, sulla base di un
titolo (un contratto o un atto di nomina) poi annullato
(anche in sede di autotutela), ovvero che non doveva essere
annullato proprio perché oramai l'attività lavorativa era
già stata integralmente prestata.
L’art. 2126 c.c. contiene
principi applicabili anche quando si tratti di rapporti di
lavoro, a suo tempo sottoposti ratione temporis, al regime
di diritto pubblico. Nel caso di specie non è questione di
invalidazione di un atto di inquadramento erroneo e dunque
il richiamo alla norma appare del tutto inconferente
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 20.06.2018 n. 3801 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Va ricordato che l'art. 30, co. 2, c.p.a. ha
introdotto nell'ordinamento l'azione di condanna al
risarcimento del danno ingiusto da illegittimo esercizio
dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di
quella obbligatoria, individuando il presupposto alla base
dell'azione risarcitoria per danni da attività
provvedimentale, nella illegittimità dell'atto e nel mancato
esercizio di quella obbligatoria; il successivo comma 3 fa
esplicito riferimento all'elemento soggettivo dell'illecito,
quale dolo o colpa, per la quantificazione del danno.
Tale previsione era stata acquisita già in via
interpretativa nella giurisprudenza anteriore all'entrata in
vigore del c.p.a., laddove era evidenziato che la sola
illegittimità di un atto della amministrazione, pur non
fornendo elementi inconfutabili nel senso della sussistenza
di una condotta colposa da parte dell'amministrazione,
nondimeno fornisce rilevanti elementi nel senso di una
presunzione relativa di colpa per i danni conseguenti ad un
atto illegittimo o, comunque, ad una violazione delle regole
dell'agere amministrativo ad essa imposte.
La colpa della pubblica amministrazione viene individuata,
dunque, nella violazione dei canoni di imparzialità,
correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza,
omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non
scusabili, in ragione dell'interesse giuridicamente protetto
di colui che instaura un rapporto con l'amministrazione.
Viceversa, la responsabilità deve essere negata quando
l'indagine conduce al riconoscimento dell'errore scusabile
per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza
del quadro normativo di riferimento o per la complessità
della situazione di fatto.
Per la configurabilità della colpa dell'Amministrazione, in
altri termini, occorre avere riguardo al carattere della
regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca,
cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell'elemento
psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone
della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco
o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'Autorità
amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa
potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è
stato esercitato in palese spregio delle regole di
correttezza e di proporzionalità.
E, infatti, a fronte di regole di condotta inidonee a
costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e
vincolante, la responsabilità dell'Amministrazione potrà
essere affermata nei soli casi in cui l'azione
amministrativa ha disatteso, in maniera macroscopica ed
evidente, i criteri della buona fede e dell'imparzialità,
restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro
dell'errore scusabile.
---------------
2.4. - Quanto all’ulteriore profilo di appello, concernente
il momento a decorrere dal quale si può ritenere la
sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della
fattispecie risarcitoria, la sentenza appellata
correttamente esclude l’elemento soggettivo nel
comportamento regionale, quantomeno fino alla sentenza
d’appello del gennaio 2009, perché, come afferma la sentenza
di questo Consiglio di Stato, Sez. V, n. 241 del 20.01.2009
(punto 4.1.3) a conclusione della vicenda concernente la
legittimità della D.G.R. n. 580/2006 che recepisce l’Accordo
integrativo regionale, la norma di cui all’art. 12.2 sul
‘rapporto ottimale “medico/assistiti” era sicuramente
di “disagevole lettura”.
L’illegittimità dell’atto, che ha condotto all’annullamento,
non fa emergere, dunque, quel profilo di colpevolezza nel
comportamento dell’Amministrazione che necessita ai fini
della configurazione di responsabilità risarcitoria.
2.4.1. - Per inciso, va ricordato che l'art. 30, co. 2,
c.p.a. ha introdotto nell'ordinamento l'azione di condanna
al risarcimento del danno ingiusto da illegittimo esercizio
dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di
quella obbligatoria, individuando il presupposto alla base
dell'azione risarcitoria per danni da attività
provvedimentale, nella illegittimità dell'atto e nel mancato
esercizio di quella obbligatoria; il successivo comma 3 fa
esplicito riferimento all'elemento soggettivo dell'illecito,
quale dolo o colpa, per la quantificazione del danno.
Tale previsione era stata acquisita già in via
interpretativa nella giurisprudenza anteriore all'entrata in
vigore del c.p.a., laddove era evidenziato che la sola
illegittimità di un atto della amministrazione, pur non
fornendo elementi inconfutabili nel senso della sussistenza
di una condotta colposa da parte dell'amministrazione,
nondimeno fornisce rilevanti elementi nel senso di una
presunzione relativa di colpa per i danni conseguenti ad un
atto illegittimo o, comunque, ad una violazione delle regole
dell'agere amministrativo ad essa imposte.
La colpa della pubblica amministrazione viene individuata,
dunque, nella violazione dei canoni di imparzialità,
correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza,
omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non
scusabili, in ragione dell'interesse giuridicamente protetto
di colui che instaura un rapporto con l'amministrazione
(cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 30/07/2013, n. 4020).
Viceversa, la responsabilità deve essere negata quando
l'indagine conduce al riconoscimento dell'errore scusabile
per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza
del quadro normativo di riferimento o per la complessità
della situazione di fatto (Cons. Stato, Sez. IV, 07.01.2013,
n. 23; Sez. V, 31.07.2012, n. 4337).
Per la configurabilità della colpa dell'Amministrazione, in
altri termini, occorre avere riguardo al carattere della
regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca,
cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell'elemento
psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone
della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco
o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'Autorità
amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa
potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è
stato esercitato in palese spregio delle regole di
correttezza e di proporzionalità. E, infatti, a fronte di
regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un
canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità
dell'Amministrazione potrà essere affermata nei soli casi in
cui l'azione amministrativa ha disatteso, in maniera
macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e
dell'imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita
nel perimetro dell'errore scusabile (cfr. ex multis
Cons. St., sez. IV, 31.03.2015, n. 1683; 28/07/2015, n.
3707) (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 20.06.2018 n. 3798 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Nell’ambito del pubblico impiego il legislatore
ha individuato specifiche e definite condizioni alle quali
ha inteso subordinare il riconoscimento del diritto alle
differenze retributive in ragione delle mansioni espletate.
In particolare, ha consentito
una variazione stipendiale in ragione dello svolgimento di
mansioni superiori per più di 60 giorni, esclusivamente al
ricorrere di tre condizioni, giuridiche e di fatto, operanti
in modo concomitante:
a) le mansioni devono essere svolte su
un posto di ruolo, esistente nella pianta organica, e di
fatto vacante;
b) su tale posto non deve essere stato
bandito alcun concorso;
c) l'organo gestorio deve aver
attribuito la supplenza con una formale deliberazione,
proveniente ex ante dall’organo competente, dopo aver
verificato i presupposti indicati in precedenza,
assumendosene tutte le responsabilità, anche in ordine ai
profili di copertura finanziaria.
---------------
Ai medesimi fini qui considerati non assumono rilevanza, al
contrario, i meri ordini di servizio o lo svolgimento di
mansioni fondato su una mera scelta organizzativa
dell'amministrazione che intenda utilizzare i dipendenti per
compiti diversi da quelli propri della qualifica rivestita.
In mancanza dei suddetti presupposti, non è invocabile
l'art. 36 Cost., il quale esprime un principio che non trova
applicazione diretta nel pubblico impiego, concorrendo in
quest'ambito altri e diversi principi di pari rilevanza
(artt. 98 e, soprattutto, 97 Cost.) riguardanti
l'organizzazione degli uffici pubblici.
Neppure rileva ai fini del caso in esame l’art. 2126 c.c.,
il quale -pur contenendo principi applicabili anche a
rapporti di lavoro a suo tempo sottoposti ratione temporis
al regime di diritto pubblico– presuppone una condizione di
invalidazione di un atto di inquadramento erroneo che non
ricorre nel caso di specie.
---------------
1. Come anche di recente ribadito da questa sezione,
nell’ambito del pubblico impiego il legislatore ha
individuato specifiche e definite condizioni alle quali ha
inteso subordinare il riconoscimento del diritto alle
differenze retributive in ragione delle mansioni espletate.
In particolare, per il personale amministrativo del comparto
sanità, cui si riferisce il caso di specie, l’art. 29, comma
secondo, del d.P.R. 20.12.1979, n. 761, ha consentito
una variazione stipendiale in ragione dello svolgimento di
mansioni superiori per più di 60 giorni, esclusivamente al
ricorrere di tre condizioni, giuridiche e di fatto, operanti
in modo concomitante:
a) le mansioni devono essere svolte su
un posto di ruolo, esistente nella pianta organica, e di
fatto vacante;
b) su tale posto non deve essere stato
bandito alcun concorso;
c) l'organo gestorio deve aver
attribuito la supplenza con una formale deliberazione,
proveniente ex ante dall’organo competente (per le A.S.L.,
prima il Comitato di gestione, quindi l’Amministratore
straordinario), dopo aver verificato i presupposti indicati
in precedenza, assumendosene tutte le responsabilità, anche
in ordine ai profili di copertura finanziaria (Cons. Stato.
sez. III, 20.02.2018, n. 1089; Id., sez. III, 04.12.2014, n. 5892; id. 14.03.2014, n. 1277, con
numerosi richiami giurisprudenziali ulteriori).
Ai medesimi fini qui considerati non assumono rilevanza, al
contrario, i meri ordini di servizio (cfr., Cons. Stato,
sez. V, 18.11.2002, n. 6374) o lo svolgimento di
mansioni fondato su una mera scelta organizzativa
dell'amministrazione che intenda utilizzare i dipendenti per
compiti diversi da quelli propri della qualifica rivestita
(Cons. Stato, sez. V, 13.05.2002 n. 2588; 29.05.2000
n. 3085; 14.09.1999, n. 1056).
2. In mancanza dei suddetti presupposti, non è invocabile
l'art. 36 Cost., il quale esprime un principio che non trova
applicazione diretta nel pubblico impiego, concorrendo in
quest'ambito altri e diversi principi di pari rilevanza
(artt. 98 e, soprattutto, 97 Cost.) riguardanti
l'organizzazione degli uffici pubblici (Cons. Stato, sez.
III, 14.03.2014, n. 1277).
Neppure rileva ai fini del caso in esame l’art. 2126 c.c.,
il quale -pur contenendo principi applicabili anche a
rapporti di lavoro a suo tempo sottoposti ratione temporis
al regime di diritto pubblico– presuppone una condizione di
invalidazione di un atto di inquadramento erroneo che non
ricorre nel caso di specie (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 20.06.2018 n. 3706 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla Corte costituzionale l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.
che onera l’impresa partecipante alla gara ad impugnare
immediatamente le ammissioni delle altre imprese
partecipanti alla stessa gara.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione –
Impugnazione immediata – Art. 120, comma 2-bis, c.p.a. –
Violazione artt. 3, comma 1, 24, commi 1 e 2, 103, comma 1,
111, commi 1 e 2, 113, commi 1 e 2 e 117, comma 1, Cost. e 6
e 13 – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente
infondata la questione di costituzionalità dell’art. 120,
comma 2 bis, primo e secondo periodo, c.p.a., limitatamente
all’onere di immediata impugnazione dei provvedimenti di
ammissione, nella parte in cui onera l’impresa partecipante
alla gara ad impugnare immediatamente le ammissioni delle
altre imprese partecipanti alla stessa gara, pena altrimenti
l’incorrere nella preclusione di cui al secondo periodo
della disposizione, per contrasto con gli artt. 3, comma 1,
24, commi 1 e 2, 103, comma 1, 111, commi 1 e 2, 113, commi
1 e 2 e 117, comma 1, Cost. e 6 e 13 Cedu, recepita con l.
04.08.1955, n. 848 (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che la norma pone in capo al partecipante un
onere inutile, economicamente gravoso ed irragionevole -alla
stregua del principio di effettività della tutela
giurisdizionale desumibile dal combinato disposto degli
artt. 24, commi 1 e 2, 103, comma 1 e 113, commi 1 e 2 Cost.
e del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, comma 1
Cost.- rispetto all’interesse realmente perseguito (i.e.
conseguimento dell’aggiudicazione dell’appalto).
Ha ricordato che in precedenza la stessa
sez. III del Tar Bari, con sentenza dell’08.11.2016, n. 1262
non aveva mancato di evidenziare che “… la novella
legislativa di cui all’art. 120, comma 2-bis, d.lgs. n. 50
del 2016 confligge con il quadro giurisprudenziale,
storicamente consolidatosi, atteso che veicola
nell’ordinamento l’onere di immediata impugnazione
dell’ammissione di tutti gli operatori economici - quale
condizione di ammissibilità della futura impugnazione del
provvedimento di aggiudicazione - anche in carenza di
un’effettiva lesione od utilità concreta. …”.
Anche il
Tar Napoli, sez. IV, 20.12.2016, n. 5852 aveva
rilevato che “… La peculiarità del nuovo rito risiede,
oltre che nel circoscritto ambito di applicazione -volto a
cristallizzare la definitività di una peculiare sub fase
delle gare d’appalto creando una struttura bifasica della
tutela in subiecta materia- nell’utilizzo dello strumento
processuale come veicolo per creare una correlazione del
tutto inusuale tra interesse ad agire in giudizio e pretesa
sostanziale, sicché, come rilevato anche dai primi commenti
alla disciplina in questione, il legislatore avrebbe
introdotto una sorta di presunzione legale di lesione, non
direttamente correlata alla lesione effettiva e concreta di
un bene della vita secondo la dimensione sostanzialistica
dell’interesse legittimo ormai invalsa nel nostro
ordinamento. …”.
I dubbi in precedenza esposti sono stati di recente
evidenziati dall’ordinanza del
Tar Piemonte, sez. I n. 88 del 17.01.2018, che ha
sollevato la corrispondente questione pregiudiziale dinanzi
alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea al fine di
verificare la compatibilità euro-unitaria della norma
processuale interna (art. 120, comma 2-bis c.p.a., nella
parte in cui contempla l’onere di immediata impugnazione
delle ammissioni) con la disciplina europea in materia di
diritto di difesa, di giusto processo e di effettività
sostanziale della tutela giurisdizionale (i.e. artt.
6 e 13 della CEDU, art. 47 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea e art. 1 direttiva n.
89/665/CEE).
In detta occasione, sia pure sotto la lente di ingrandimento
del confronto della norma processuale nazionale con la
disciplina europea, è stato condivisibilmente rimarcato come
il disancoramento dell’interesse ad agire rispetto ad una
utilità personale, concreta ed attuale dell’impresa
partecipante alla gara (costretta a contestare le ammissioni
in forza della censurata disposizione), dà vita ad una sorta
di tutela giurisdizionale amministrativa/giudizio di diritto
“oggettivo” (cfr. punto D della motivazione della
citata ordinanza del
Tar Piemonte n. 88 del 2018), dove un operatore è
obbligato ad impugnare immediatamente le ammissioni di tutti
gli altri concorrenti, senza sapere ancora chi potrà essere
l’aggiudicatario e, parimenti, senza sapere se lui stesso si
collocherà in graduatoria in posizione utile per ottenere
e/o contestare l’aggiudicazione dell’appalto.
Si introduce, pertanto, una sorta di giudizio di “diritto
oggettivo” che è contrario non solo ai principi europei
invocati dal Tar Piemonte, nella citata ordinanza, ma anche
ai principi costituzionali di cui agli artt. 24, commi 1 e
2, 103, comma 1 e 113, commi 1 e 2 Cost. (in tema di
effettività della tutela giurisdizionale), i quali plasmano
il diritto di azione a mo’ di diritto azionabile unicamente
dal titolare di un interesse personale, attuale e concreto e
che nelle gare d’appalto non può non consistere nel
conseguimento della aggiudicazione ovvero al più, quale
modalità strumentale al perseguimento del medesimo fine,
nella chance derivante dalla rinnovazione della gara.
Ha aggiunto il Tar bari che la necessità, alla stregua della
previsione dell’art. 120, comma 2-bis, primo e secondo
periodo, c.p.a., di proporre plurimi ricorsi avverso le
singole ammissioni si pone in contrasto con il principio di
ragionevolezza desumibile dall’art. 3, comma 1 Cost., con il
principio di effettività della tutela giurisdizionale (ex
artt. 24, commi 1 e 2, 103, comma 1, 111, commi 1 e 2 e 113,
commi 1 e 2 Cost.), con il principio del giusto processo (ex
art. 111, comma 1 Cost.) e con il principio della
ragionevole durata del processo (ex art. 111, comma 2
Cost.), poiché il meccanismo processuale delineato dal
legislatore del 2016 determina inevitabilmente il
proliferare di azioni giurisdizionali avverso plurime
ammissioni relativamente alla stessa procedura di gara in
violazione dei principi di economia processuale e
concentrazione (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
ordinanza 20.06.2018 n. 903 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il fatto che sia trascorso molto tempo dall’abuso
non obbliga l’Amministrazione a una motivazione “rinforzata”
della ingiunzione di demolizione, e ciò sia perché vengono
in questione atti vincolati, i quali non richiedono una
valutazione specifica di ragioni di interesse pubblico, e
sia perché i manufatti de quibus si trovano entro un’area
sottoposta a vincolo e sono privi di autorizzazione
paesaggistica.
Il trascorrere del tempo non può incidere cioè
sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l'illecito edilizio attraverso l'adozione della misura
repressiva prescritta, dovendo escludersi che l'ordinanza di
demolizione, sebbene adottata dopo un periodo di tempo assai
considerevole dalla realizzazione dell’abuso, debba essere
motivata anche sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale al ripristino della legalità.
Nel caso di tardiva emanazione del provvedimento di
demolizione di un abuso edilizio, la mera inerzia da parte
dell’Amministrazione nell’esercizio del relativo
potere/dovere non è idonea a far divenire legittimo ciò che
è sin dall’origine illegittimo: tale inerzia –di cui non si
può certo dolere l’interessato che continua ad utilizzare un
bene che non doveva essere realizzato e che deve essere
rimosso- non può certamente radicare un affidamento di
carattere legittimo in capo al proprietario dell’abuso.
E’ dunque condivisibile l’osservazione del TAR, per la quale
non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può di per sé legittimare.
---------------
2.2.7. Con la settima censura, l'appellante deduce
l'erroneità della sentenza per avere ritenuto irrilevante e
comunque priva di fondamento la doglianza inerente
all’affermata insufficienza della motivazione dell'ordine di
demolizione, in ragione del considerevole lasso di tempo
intercorso dall'abuso; l’ordine di demolizione è stato
emesso dal Comune dopo che era stata rilasciata
l’autorizzazione allo scarico per quei servizi igienici di
cui ora viene chiesta la demolizione.
Il motivo è infondato, dato che il fatto che sia trascorso
molto tempo dall’abuso non obbliga l’Amministrazione a una
motivazione “rinforzata” della ingiunzione di
demolizione, e ciò sia perché vengono in questione atti
vincolati, i quali non richiedono una valutazione specifica
di ragioni di interesse pubblico, e sia perché i manufatti
de quibus si trovano entro un’area sottoposta a
vincolo e sono privi di autorizzazione paesaggistica (cfr.,
amplius, Cons. Stato, Ad. plen. n. 9 del 2017).
Il trascorrere del tempo non può incidere cioè
sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l'illecito edilizio attraverso l'adozione della misura
repressiva prescritta, dovendo escludersi che l'ordinanza di
demolizione, sebbene adottata dopo un periodo di tempo assai
considerevole dalla realizzazione dell’abuso, debba essere
motivata anche sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale al ripristino della legalità.
Nel caso di tardiva emanazione del provvedimento di
demolizione di un abuso edilizio, la mera inerzia da parte
dell’Amministrazione nell’esercizio del relativo
potere/dovere non è idonea a far divenire legittimo ciò che
è sin dall’origine illegittimo: tale inerzia –di cui non si
può certo dolere l’interessato che continua ad utilizzare un
bene che non doveva essere realizzato e che deve essere
rimosso- non può certamente radicare un affidamento di
carattere legittimo in capo al proprietario dell’abuso (Sez.
VI, 02.05.2018, n. 2612; Sez. VI, 26.03.2018, n. 1887).
E’ dunque condivisibile l’osservazione del TAR, per la quale
non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può di per sé legittimare.
D’altra parte, nella specie il Comune si è attivato sotto
l’aspetto repressivo sin dal 1986, con l’ordinanza n.
8/9/281/109 del 1° agosto (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.06.2018 n. 3773 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Già prima dell’introduzione dell’art. 2-bis della
legge n. 241 del 1990 operata con l’art. 7, comma 1, lett.
c), della legge 18.06.2009 n. 69, la giurisprudenza
amministrativa ammetteva la risarcibilità del danno
cagionato dalla violazione dei termini procedimentali (c.d.
danno da ritardo) in presenza dell’accertamento
dell’illegittimità del silenzio-inadempimento, della
conclusione del procedimento con provvedimento favorevole
all’interessato, della titolarità in capo a quest’ultimo di
interesse pretensivo al conseguimento di un “bene della
vita”.
---------------
Elementi strutturali della responsabilità della pubblica
amministrazione per i danni derivati al privato dalla
ritardata emanazione di un provvedimento favorevole –anche a
seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2-bis, comma 1,
della legge n. 241 del 1990- sono quelli dettati dal
paradigma generale dell’illecito aquiliano di cui all’art.
2043 cod. civ..
Occorre allora verificare la sussistenza dei presupposti di
carattere oggettivo (ingiustizia del danno, nesso
causale, prova del pregiudizio subito), nonché quelli di
carattere soggettivo (dolo o colpa della p.a.), con la
precisazione che la valutazione di questi ultimi non può
essere fondata soltanto sul dato oggettivo del
procrastinarsi del procedimento amministrativo (pur potendo
questo costituire un indice significativo), necessitando
della dimostrazione che la p.a. sia incorsa in un
comportamento negligente, in contrasto con i canoni di
imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa
ovvero, secondo altra concorrente linea interpretativa,
necessitando della dimostrazione dell’insussistenza di un
errore scusabile dell’amministrazione che faccia venir meno
la presunzione di responsabilità dovuta all’indebito
protrarsi del procedimento amministrativo (cfr., tra le
altre Cons. Stato, 14.11.2014, n. 5600, che richiama la
giurisprudenza formatasi sull’esimente dell’errore scusabile
dovuto a contrasti giurisprudenziali, a formulazioni
normative incerte, a complessità del fatto, alla
sopravvenienza di dichiarazioni di incostituzionalità).
--------------
Va premesso che il giudizio ha ad oggetto la domanda
risarcitoria connessa a danno da ritardo, cioè alla mancata
tempestiva attribuzione da parte del Comune di provvedimenti
di autorizzazione favorevoli per la società, esercente
attività di vendita a terzi degli spazi pubblicitari oggetto
delle autorizzazioni richieste.
Già prima dell’introduzione dell’art. 2-bis della legge n.
241 del 1990 operata con l’art. 7, comma 1, lett. c), della
legge 18.06.2009 n. 69 (sopravvenuta alla notificazione
della citazione da parte della società Pu.Fo. nel giudizio
civile, riassunto a seguito della declinatoria della
giurisdizione), la giurisprudenza amministrativa ammetteva
la risarcibilità del danno cagionato dalla violazione dei
termini procedimentali (c.d. danno da ritardo) in presenza
dell’accertamento dell’illegittimità del
silenzio-inadempimento, della conclusione del procedimento
con provvedimento favorevole all’interessato, della
titolarità in capo a quest’ultimo di interesse pretensivo al
conseguimento di un “bene della vita” (cfr. Cons.
Stato, Ad. Plen., 15.09.2005, n. 7).
4.1. Nel presente giudizio –contrariamente a quanto
presuppone il Comune appellante- non di mero danno c.d. da
ritardo si tratta, cioè di danno per il solo inutile decorso
dei termini procedimentali, bensì del danno prodotto dal
ritardato rilascio di provvedimenti di autorizzazione ai
quali la società legittimamente aspirava sin dal momento
della presentazione delle relative istanze.
Il rilascio dei provvedimenti favorevoli all’istante, a
seguito della conclusione dell’istruttoria da parte del
commissario ad acta, ha infatti dimostrato che la
società aveva titolo per conseguire le autorizzazioni fin
dall’inizio, fatte salve le integrazioni documentali, come
si dirà comunque tempestivamente fornite dopo la richiesta
dell’Amministrazione.
Ne consegue che non è pertinente la giurisprudenza
richiamata dalla difesa del Comune appellante a proposito
dell’irrisarcibilità del danno da ritardo c.d. puro, la
quale concerne la diversa fattispecie in cui l’interessato
deduce il danno prodotto dal mero decorso del tempo. Questa
prescinde dalla positiva finalizzazione del procedimento da
cui scaturisce (cui è appunto riferita la corrispondente
affermazione del precedente n. 1162/2009, citato nell’atto
di appello) ed è oggi indennizzabile ai sensi del secondo
comma dell’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990 (inserito
nel soltanto a far data dall’entrata in vigore dell’art. 28
del d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
nella legge 09.08.2013, n. 98).
Per la definizione del gravame è sufficiente richiamare i
ripetuti arresti giurisprudenziali con i quali si è chiarito
che elementi strutturali della responsabilità della pubblica
amministrazione per i danni derivati al privato dalla
ritardata emanazione di un provvedimento favorevole –anche a
seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2-bis, comma 1,
della legge n. 241 del 1990- sono quelli dettati dal
paradigma generale dell’illecito aquiliano di cui all’art.
2043 cod. civ..
Occorre allora verificare la sussistenza dei presupposti di
carattere oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale,
prova del pregiudizio subito), nonché quelli di carattere
soggettivo (dolo o colpa della p.a.), con la precisazione
che la valutazione di questi ultimi non può essere fondata
soltanto sul dato oggettivo del procrastinarsi del
procedimento amministrativo (pur potendo questo costituire
un indice significativo: cfr., tra le altre, Cons. Stato, VI,
10.06.2014, n. 2964, ma anche Cons. Stato, IV, 07.03.2013,
n. 1406 citata dall’appellante), necessitando della
dimostrazione che la p.a. sia incorsa in un comportamento
negligente, in contrasto con i canoni di imparzialità e buon
andamento dell’azione amministrativa (cfr., tra le altre,
Cons. Stato, IV, 04.09.2013, n. 4452; nonché Cons. Stato, V,
09.10.2013, n. 4968, pure citata dall’appellante) ovvero,
secondo altra concorrente linea interpretativa, necessitando
della dimostrazione dell’insussistenza di un errore
scusabile dell’amministrazione che faccia venir meno la
presunzione di responsabilità dovuta all’indebito protrarsi
del procedimento amministrativo (cfr., tra le altre Cons.
Stato, 14.11.2014, n. 5600, che richiama la giurisprudenza
formatasi sull’esimente dell’errore scusabile dovuto a
contrasti giurisprudenziali, a formulazioni normative
incerte, a complessità del fatto, alla sopravvenienza di
dichiarazioni di incostituzionalità) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 18.06.2018 n. 3730 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza in materia ha avuto modo in più
occasioni di affermare che, in relazione alle sanzioni
pecuniarie previste in materia edilizia, sussiste una
presunzione di corresponsabilità a carico del
“proprietario”, desumibile dal disposto dell’art. 3 della
legge n. 689 del 1981, ma ha, comunque, ragionevolmente
riconosciuto che il proprietario debba essere lasciato
indenne ove risultino accertate sia l’estraneità dello
stesso all’esecuzione delle opere prive di titolo
abilitativo, sia la sua pronta attivazione con i mezzi
previsti dall’ordinamento per agevolarne la rimozione, nel
rispetto dei doveri di diligenza, correttezza e vigilanza
nella gestione dei beni immobiliari, di cui ha la
titolarità.
---------------
2. Il secondo motivo di ricorso è fondato.
La giurisprudenza in materia ha avuto modo in più occasioni
di affermare che, in relazione alle sanzioni pecuniarie
previste in materia edilizia, sussiste una presunzione di
corresponsabilità a carico del “proprietario”,
desumibile dal disposto dell’art. 3 della legge n. 689 del
1981, ma ha, comunque, ragionevolmente riconosciuto che il
proprietario debba essere lasciato indenne ove risultino
accertate sia l’estraneità dello stesso all’esecuzione delle
opere prive di titolo abilitativo, sia la sua pronta
attivazione con i mezzi previsti dall’ordinamento per
agevolarne la rimozione, nel rispetto dei doveri di
diligenza, correttezza e vigilanza nella gestione dei beni
immobiliari, di cui ha la titolarità (cfr., ex multis,
C.d.S., sez. VI, 10/07/2017, n. 3391; Sez. VI, 30.03.2015,
n. 1650; Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 10/01/2017, n. 378;
30/01/2017, n. 1440).
Ciò detto, non può che prendersi atto che, nel caso in
trattazione, sussistono entrambe le su indicate condizioni,
così come riconosciuto dal Comune resistente, atteso che la
sanzione risulta irrogata nei confronti della ricorrente in
qualità di comproprietaria non responsabile e che la stessa
ha prodotto documentazione idonea e sufficiente a dimostrare
il suo pronto intervento –nei limiti consentiti
dall’ordinamento– per indurre o agevolare la rimessa in
pristino dello stato dei luoghi.
Per tale ragione, assorbite le altre censure dedotte, il
ricorso va accolto e, per l’effetto, annullato l’atto
impugnato limitatamente alla parte in cui è destinato alla
ricorrente (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 18.06.2018 n. 1381- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se l’intervento abusivo avviato o ultimato
rientra nelle ipotesi di edilizia libera assoggettate alla
Comunicazione Inizio Lavori (cd. CIL) o alla Comunicazione
Inizio Lavori Asseverata (CILA) esso può essere sanato
presentando la suddetta comunicazione unitamente alla
ricevuta di pagamento della sanzione, salva naturalmente la
regolarizzazione rispetto alle altre normative vincolistiche
di settore, quali quella paesaggistica, sismica,
idrogeologica, etc.
Tra l’altro l’attuale normativa non prescrive o dispone
alcunché in termini temporali, e non pone il rispetto della
condizione della doppia conformità come invece è previsto
dal T.U.E. agli articoli 36 e 37 per gli abusi e le
difformità edilizie che esulano dalle fattispecie
dell’edilizia libera.
---------------
1. Con ricorso ritualmente notificato il 17/01/2017 e
depositato il 02/02/2017, il sig. Se.Ma. ha impugnato
l’ordinanza n. 23 del 18.11.2016, notificatagli in pari
data, con la quale il Comune di Altofonte gli ha intimato la
demolizione dell’opera edilizia consistente nella “rimozione
e sostituzione della saracinesca esterna, demolizione degli
stipiti dell’ingresso alla futura autorimessa e
realizzazione di n. 2 pilastri (sezione cm. 30x cm. 50)
sormontati da una trave (sezione cm. 45 x cm. 50), tutti
realizzati in conglomerato cementizio armato, con
conseguente variazione delle dimensioni dell’apertura:
larghezza m. 2,70 (preesistente m. 2,30), altezza m. 2,90,
sito in Via ... nn. 15, 17, 23, al N.C.E.U. del Comune di
Altofonte al foglio 500, particella 920, sub 3” ed il
ripristino dello stato dei luoghi,poiché tale intervento è
stato effettuato in difformità dalla autorizzazione n. 05
del 23.03.2016, nel centro storico, zona “A” del P.R.G.,
soggetta dal 2004 a vincolo paesaggistico e sismico.
Ne ha chiesto l’annullamento previa sospensione cautelare,
deducendone l’illegittimità per i motivi di “Violazione e
falsa applicazione in ordine alla L.R. 16 del 10.08.2016;
Eccesso di potere, omissione e/o contraddittorietà della
motivazione nonché travisamento dei fatti” poiché il
Comune intimato, pur riconoscendo che l’intervento edile è
riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 3, comma 1,
lett. b), del D.P.R. 380/2001 e come tale soggetto a
C.I.L.A. (comunicazione inizio lavori asseverata) così come
previsto dall’art. 6 del D.P.R. cit., recepito dall’art. 3
della L.R. n. 16 del 10.08.2016, avrebbe applicato
immotivatamente la sanzione dell’ingiunzione a demolire e
del ripristino dello stato dei luoghi in luogo di quella
prevista dal comma 5 dell’art. 3 della L.R. n. 16/2016 cit.
che, nell’ipotesi di mancata comunicazione asseverata
dell'inizio dei lavori, qual è quella di specie, non prevede
la sanzione della demolizione ma commina sola una sanzione
pecuniaria di € 1.000,00.
Precisa, inoltre, di avere già provveduto a:
- depositare, in data 14.12.2016, la richiesta di "CIL in
sanatoria" o "Cil per lavori già eseguiti" al
fine di sanare l’irregolarità edilizia, pagando la sanzione
di 1.000 euro;
- richiedere, con istanza prot. 3026/P del 12.12.2016, il parere di
“Compatibilità Paesaggistica” alla Soprintendenza ai
BB.CC.AA. competente;
- presentare, in data 09.01.2017, all’Ufficio del Genio Civile di
Palermo, l’istanza prot. 3123/UO volta a ottenere il N.O. ai
sensi dell’art. 21 L. n. 64/1974.
Il Comune di Altofonte, seppure ritualmente intimato, non si
è costituito in giudizio.
Con ordinanza collegiale n. 327/2017 è stata accolta la
domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento
impugnato.
Nelle more del giudizio:
- la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Palermo, con atto prot.
5084/S15.4 del 24.08.2017, ha accertato la regolarità
urbanistica dell’edificio e, posto che l’intervento
realizzato non ha comportato un aumento della volumetria e
delle superfici utili, ha rilasciato il parere favorevole di
compatibilità paesaggistica;
- il Genio Civile di Palermo, con provvedimento prot. 226342 del
18.11.2017, ha rilasciato il parere di sussistenza ai sensi
della L. 02.02.1974, n. 64.
...
2. Il ricorso, quanto alla domanda di annullamento, è
fondato.
L’art. 3 della L.R. n. 16 del 10.08.2016, rubricato “Recepimento
con modifiche dell'articolo 6 <Attività edilizia libera> del
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380”,
al comma 5, invero, stabilisce che “La mancata
comunicazione dell'inizio dei lavori di cui al comma 2,
ovvero la mancata comunicazione asseverata dell'inizio dei
lavori di cui al comma 3, comportano la sanzione pecuniaria
pari a 1.000 euro. Tale sanzione è ridotta di due terzi se
la comunicazione è effettuata spontaneamente quando
l'intervento è in corso di esecuzione”.
E’ dunque evidente che se l’intervento abusivo avviato o
ultimato, rientra nelle ipotesi di edilizia libera
assoggettate alla Comunicazione Inizio Lavori (cd. CIL) o
alla Comunicazione Inizio Lavori Asseverata (CILA) esso può
essere sanato presentando la suddetta comunicazione
unitamente alla ricevuta di pagamento della sanzione, salva
naturalmente la regolarizzazione rispetto alle altre
normative vincolistiche di settore, quali quella
paesaggistica, sismica, idrogeologica, etc.
Tra l’altro l’attuale normativa non prescrive o dispone
alcunché in termini temporali, e non pone il rispetto della
condizione della doppia conformità come invece è previsto
dal T.U.E. agli articoli 36 e 37 per gli abusi e le
difformità edilizie che esulano dalle fattispecie
dell’edilizia libera.
Poiché l’intervento di che trattasi ha ottenuto i pareri
favorevoli delle autorità amministrative poste
rispettivamente a tutela del vincolo paesaggistico e di
quello sismico ed è stato ricondotto dallo stesso Comune di
Altofonte nell’alveo degli interventi di edilizia libera, a
fronte dell’avvenuto pagamento della sanzione pecuniaria
prevista dall’art. 3, comma 5 cit. unitamente alla
presentazione tardiva della CILA, non poteva esserne
disposta la demolizione e il conseguente ripristino dello
stato dei luoghi.
Non può essere accolta invece la domanda di risarcimento del
danno perché, prescindendo dalla sua inammissibilità perché
genericamente formulata, in ogni caso, a seguito della
sospensione dell’esecuzione dell’ordine di demolizione in
via cautelare, alcun danno può essersi verificato.
Il ricorso pertanto va accolto limitatamente alla domanda
impugnatoria e, per l’effetto, va annullato il provvedimento
impugnato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 18.06.2018 n. 1380 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nonostante non siano configurabili parentesi
procedimentali produttive di sospensione del termine stesso,
il termine di trenta giorni previsto per l’esercizio del
potere preventivo di verifica non può che decorrere dalla
completezza della documentazione.
O, per meglio dire, può ben essere qualificato come
esercizio di potere inibitorio anche la contestazione della
mancata allegazione alla denuncia di tutta la documentazione
richiesta dalla legge, con la conseguenza che, a seguito
dell’integrazione documentale, deve ritenersi implicitamente
presentata una nuova denuncia, la quale dovrà essere
valutata dall’Amministrazione nel termine di trenta giorni.
In altre parole, la contestazione, da parte del Comune,
dell’incompletezza della documentazione depositata non può
che determinare l’inibitoria dell’esercizio dell’attività di
cui alla denuncia.
Dunque, è sempre ammissibile un intervento in autotutela sul
titolo abilitativo formatosi a seguito della presentazione
della denuncia di inizio attività, fondato, in tal caso,
sulla non conformità delle opere previste rispetto agli
strumenti urbanistici (in tale senso, tra le tante TAR
Lazio, II-bis, n. 2785/2018 e TAR Lazio, II-bis, 25.05.2017,
n. 6262, in cui si legge che “sebbene la D.I.A. e la
s.c.i.a. non abbiano natura di provvedimenti amministrativi
taciti, gli effetti di esse possono essere legittimamente
rimossi, tardivamente, mediante un potere che condivide con
quello di annullamento d’ufficio i termini e le condizioni
di esercizio”).
---------------
Il Collegio ritiene di poter condividere l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui alla denuncia di inizio
attività non può trovare applicazione il regime delle misure
di salvaguardia rispetto all’adozione di nuove prescrizioni
urbanistiche previste per il rilascio del permesso di
costruire.
La DIA, infatti, può essere presentata solo nel caso in cui
l’intervento sia conforme allo strumento urbanistico,
condizione che non può ritenersi integrata nel caso in cui
esso risulti precluso da una previsione anche solo adottata
e non ancora approvata, come nella fattispecie in esame.
Come chiarito dal CdS, infatti, l’intervento oggetto della
DIA deve essere conforme agli strumenti urbanistici
approvati, non in contrasto con gli strumenti adottati e
conforme ai regolamenti edilizi vigenti.
---------------
La prima censura, connessa alla pretesa tardività del provvedimento
inibitorio adottato, deve essere respinta.
In primo luogo va al proposito ricordato che, nonostante non
siano configurabili parentesi procedimentali produttive di
sospensione del termine stesso (cfr. Consiglio di Stato n.
4828 del 2007), come affermato dal TAR Lazio, Roma, nella
sentenza 3506/2013, il termine di trenta giorni previsto per
l’esercizio del potere preventivo di verifica non può che
decorrere dalla completezza della documentazione. O, per
meglio dire, può ben essere qualificato come esercizio di
potere inibitorio anche la contestazione della mancata
allegazione alla denuncia di tutta la documentazione
richiesta dalla legge (cfr. la sentenza del TAR Marche, 30.03.2007, n. 448), con la conseguenza che, a seguito
dell’integrazione documentale, deve ritenersi implicitamente
presentata una nuova denuncia, la quale dovrà essere
valutata dall’Amministrazione nel termine di trenta giorni.
In altre parole, la contestazione, da parte del Comune,
dell’incompletezza della documentazione depositata non può
che determinare l’inibitoria dell’esercizio dell’attività di
cui alla denuncia.
Dunque, fermo restando che è sempre ammissibile un
intervento in autotutela sul titolo abilitativo formatosi a
seguito della presentazione della denuncia di inizio
attività, fondato, in tal caso, sulla non conformità delle
opere previste rispetto agli strumenti urbanistici (in tale
senso, tra le tante TAR Lazio, II-bis, n. 2785/2018 e TAR
Lazio, II-bis, 25.05.2017, n. 6262, in cui si legge che
“sebbene la D.I.A. e la s.c.i.a. non abbiano natura di
provvedimenti amministrativi taciti, gli effetti di esse
possono essere legittimamente rimossi, tardivamente,
mediante un potere che condivide con quello di annullamento
d’ufficio i termini e le condizioni di esercizio”), nella
fattispecie deve ritenersi che il Comune abbia correttamente
e tempestivamente contestato al ricorrente la non conformità
della DIA, una prima volta per incompletezza della
documentazione allegata e poi, a seguito dell’integrazione,
inibendo l’esecuzione dei lavori dalla stessa previsti prima
del loro inizio.
Il rigetto della prima censura, di natura formale e
procedimentale, implica la necessità dell’esame delle
ulteriori, prescindendo dall’esame dall’eccezione di
inammissibilità dei motivi da 2 a 5 del ricorso, attesa la
loro infondatezza.
In primo luogo, il Collegio ritiene di poter condividere
l’orientamento giurisprudenziale secondo cui alla denuncia
di inizio attività non può trovare applicazione il regime
delle misure di salvaguardia rispetto all’adozione di nuove
prescrizioni urbanistiche previste per il rilascio del
permesso di costruire. La DIA, infatti, può essere
presentata solo nel caso in cui l’intervento sia conforme
allo strumento urbanistico, condizione che non può ritenersi
integrata nel caso in cui esso risulti precluso da una
previsione anche solo adottata e non ancora approvata, come
nella fattispecie in esame.
Come chiarito nella sentenza del Consiglio di Stato, IV, n.
257/2014, infatti, l’intervento oggetto della DIA deve
essere conforme agli strumenti urbanistici approvati, non in
contrasto con gli strumenti adottati e conforme ai
regolamenti edilizi vigenti (TAR Lomabrdia-Brescia, Sez. II,
sentenza 18.06.2018 n. 587 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza della Sezione è ormai
stabilmente orientata nel ritenere che i parcheggi privati
degli edifici di nuova costruzione sono realizzabili in
regime di gratuità limitatamente però alla superficie
obbligatoria di essi.
In tal senso è stato chiarito: “Sul punto deve ribadirsi,
infatti che la legge n. 122/1989 nell'innovare la disciplina
dei parcheggi (anche ex art. 2, comma 2, incrementando la
misura minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei
nuovi edifici -il rapporto di 1mq/20mc stabilito
inizialmente dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge
1150/1942 nel testo aggiunto dall'art. 18 della legge
06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1mq/10mc- e nello
stabilire all'art. 9, comma 1, il principio secondo cui i
parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in
deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi
vigenti) all'art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi
pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche per quanto
riguarda la gratuità del titolo edilizio.
I parcheggi pertinenziali sono stati quindi complessivamente
qualificati come opere di urbanizzazione e quindi a tutti (e
non già soltanto a quelli previsti per la fruizione
collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico: se può
concordarsi in proposito con la tesi per cui la gratuità non
va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la
misura minima di legge, atteso che, in carenza di una
espressa disposizione di legge in tal senso (e pur nella
opinabilità della questione) la interpretazione teleologica
consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi
pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma
1, della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i
confini tracciati dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge
1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il "tetto"
di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di
cui al d.C. più volte citato)".
In conclusione, deve affermarsi che ai sensi del coordinato
disposto delle norme di cui alla l. n. 1150/1977, delle
disposizioni di modifica di cui alla l. n. 122/1989 e della
l. n. 10/1977 (ora art. 17, comma 3, lett. c), TU n. 380 del
2001), i parcheggi obbligatori ad uso privato sono
espressamente individuati quali opere di urbanizzazione e
sono esenti, come tali, dall'onere di pagamento del
contributo di costruzione.
Ne consegue che la pretesa del comune al pagamento di detto
contributo può ritenersi legittima solo per quanto riguarda
la superficie dei parcheggi effettivamente realizzati
eccedente quella minima obbligatoria di legge.
---------------
Per quanto riguarda la questione principale, la
giurisprudenza della Sezione è ormai stabilmente orientata
nel ritenere che i parcheggi privati degli edifici di nuova
costruzione sono realizzabili in regime di gratuità
limitatamente però alla superficie obbligatoria di essi.
In tal senso è stato chiarito: “Sul punto deve ribadirsi,
infatti che la legge n. 122/1989 nell'innovare la disciplina
dei parcheggi (anche ex art. 2, comma 2, incrementando la
misura minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei
nuovi edifici -il rapporto di 1mq/20mc stabilito
inizialmente dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge
1150/1942 nel testo aggiunto dall'art. 18 della legge
06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1mq/10mc- e nello
stabilire all'art. 9, comma 1, il principio secondo cui i
parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in
deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi
vigenti) all'art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi
pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche per quanto
riguarda la gratuità del titolo edilizio.
I parcheggi pertinenziali sono stati quindi complessivamente
qualificati come opere di urbanizzazione e quindi a tutti (e
non già soltanto a quelli previsti per la fruizione
collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico: se può
concordarsi in proposito con la tesi per cui la gratuità non
va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la
misura minima di legge, atteso che, in carenza di una
espressa disposizione di legge in tal senso (e pur nella
opinabilità della questione) la interpretazione teleologica
consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi
pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma
1, della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i
confini tracciati dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge
1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il "tetto"
di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di
cui al d.C. più volte citato)" (cfr. per tutte IV Sez.
n. 6033 del 2012).
In conclusione, deve affermarsi che ai sensi del coordinato
disposto delle norme di cui alla l. n. 1150/1977, delle
disposizioni di modifica di cui alla l. n. 122/1989 e della
l. n. 10/1977 (ora art. 17, comma 3, lett. c), TU n. 380 del
2001), i parcheggi obbligatori ad uso privato sono
espressamente individuati quali opere di urbanizzazione e
sono esenti, come tali, dall'onere di pagamento del
contributo di costruzione.
Ne consegue che la pretesa del comune al pagamento di detto
contributo da parte della società può ritenersi legittima
solo per quanto riguarda la superficie dei parcheggi
effettivamente realizzati eccedente quella minima
obbligatoria di legge.
In questi limitati sensi l’appello del comune va accolto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.06.2018 n. 3702 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le conseguenze della
scadenza dell’efficacia del piano di zona si esauriscono
nell’ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo
invece incidere sulla validità ed efficacia delle
obbligazioni assunte dai soggetti attuatori
.
Tale indirizzo è coerente con quello che distingue -all’interno
delle previsioni urbanistiche e successivamente alla
scadenza del piano di lottizzazione o in generale attuativo–
fra i diversi tipi di prescrizioni, nel senso che
<<…sopravvivono, esclusivamente, la destinazione di zona, la
destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli
allineamenti, le prescrizioni di ordine generale e
quant’altro attenga all’armonico assetto del territorio,
trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino
all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la
stessa condizionata all’eventuale scadenza di vincoli
espropriativi o di altra natura ma tutti caratterizzati
dall’avere contenuto specifico e puntuale>>.
---------------
15.2. Pure il secondo ordine di censure (il quinto motivo
dell’appello del Consorzio e il quarto e il settimo
dell’appello del Condominio) non incontra migliore favore.
Il Collegio condivide l’impostazione esegetica che il primo
giudice ha reso sul fondamentale arresto cui è pervenuto il
Consiglio di Stato (Ad. Plen. 20.07.2012, n. 28), a mente
del quale “Le
conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano di zona
si esauriscono pertanto nell’ambito della sola disciplina
urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed
efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori
…”.
Tale indirizzo è coerente con quello che distingue -all’interno
delle previsioni urbanistiche e successivamente alla
scadenza del piano di lottizzazione o in generale attuativo–
fra i diversi tipi di prescrizioni, nel senso che <<…sopravvivono,
esclusivamente, la destinazione di zona, la destinazione ad
uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le
prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga
all’armonico assetto del territorio, trattandosi di misure
che devono rimanere inalterate fino all’intervento di una
nuova pianificazione, non essendo la stessa condizionata
all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra
natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto
specifico e puntuale>> (da ultimo Cons. Stato, sez. IV,
n. 3002 del 2018; n. 4036 del 2017; sez. V, n. 6283 del
2013; sez. IV, n. 5199 del 2006) (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 14.06.2018 n. 3672 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Lesione di interessi pretensivi e risarcimento danni.
---------------
Risarcimento danni – Presupposti – Interessi pretensivi -
Verifica della sostanziale spettanza del bene della vita –
Giudizio prognostico – Necessità.
Per gli interessi pretensivi
l’obbligazione risarcitoria affonda le sue radici nella
verifica della sostanziale spettanza del bene della vita ed
implica un giudizio prognostico in relazione al se, a
seguito del corretto agire dell’amministrazione, il bene
della vita sarebbe effettivamente o probabilmente (cioè
secondo il canone del “più probabile che non”) spettato al
titolare dell’interesse; di talché, ove il giudizio si
concluda con la valutazione della sua spettanza, certa o
probabile, il danno, in presenza degli altri elementi
costitutivi dell’illecito, può essere risarcito,
rispettivamente, per intero o sotto forma di perdita di
chance (1).
---------------
(1)
Ha ricordato la Sezione che la pretesa al risarcimento del
danno ingiusto derivante dalla lesione dell’interesse
legittimo, insomma, si fonda su una lettura dell’art. 2043
c.c. che riferisce il carattere dell’ingiustizia al danno e
non alla condotta, di modo che presupposto essenziale della
responsabilità non è tanto la condotta colposa, ma l’evento
dannoso che ingiustamente lede una situazione soggettiva
protetta dall’ordinamento ed affinché la lesione possa
considerarsi ingiusta è necessario verificare attraverso un
giudizio prognostico se, a seguito del corretto agire
dell’amministrazione, il bene della vita sarebbe
effettivamente spettato al titolare dell’interesse.
In particolare, per gli interessi pretensivi, occorre
stabilire se il pretendente sia titolare di una situazione
suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la
conclusione positiva del procedimento, e cioè di una
situazione che, secondo la disciplina applicabile era
destinata, in base a un criterio di normalità, ad un esito
favorevole (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.06.2018 n. 3657 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nelle controversie relative al rispetto delle
distanze legali tra costruzioni, la giurisdizione del
giudice ordinario presuppone che la lite si svolga tra
privati, l’uno dei quali pretenda la reintegrazione del suo
diritto di proprietà, che assume leso dalla costruzione
eseguita dall’altro in violazione delle norme legislative o
regolamentari in materia edilizia.
In tal caso, il giudice ordinario, cui spetta la
giurisdizione, vertendosi in tema di assunta violazione di
un diritto soggettivo, può incidentalmente accertare
l’eventuale illegittimità della concessione edilizia, al
fine di disapplicarla.
Qualora, però, la controversia sia insorta tra il privato e
la pubblica amministrazione, per avere il primo impugnato
detta concessione al fine di ottenerne l’annullamento nei
confronti della seconda, la giurisdizione spetta al giudice
amministrativo.
---------------
1. Il ricorso ha ad oggetto la concessione edilizia
rilasciata dal Comune di Realmonte ai controinteressati per
la ricostruzione di un immobile preesistente, nella parte in
cui consente la realizzazione di quattro balconi, che si
affacciano direttamente sulla terrazza del fabbricato del
ricorrente, precludendone la sopraelevazione.
Preliminarmente va esaminata l’eccezione di difetto di
giurisdizione sollevata dai controinteressati, che è
infondata.
Invero, le Sezioni Unite della Cassazione affermano,
costantemente, che nelle controversie relative al rispetto
delle distanze legali tra costruzioni, la giurisdizione del
giudice ordinario presuppone che la lite si svolga tra
privati, l’uno dei quali pretenda la reintegrazione del suo
diritto di proprietà, che assume leso dalla costruzione
eseguita dall’altro in violazione delle norme legislative o
regolamentari in materia edilizia. In tal caso, il giudice
ordinario, cui spetta la giurisdizione, vertendosi in tema
di assunta violazione di un diritto soggettivo, può
incidentalmente accertare l’eventuale illegittimità della
concessione edilizia, al fine di disapplicarla. Qualora,
però, la controversia sia insorta tra il privato e la
pubblica amministrazione, per avere il primo impugnato detta
concessione al fine di ottenerne l’annullamento nei
confronti della seconda, la giurisdizione spetta al giudice
amministrativo (tra le tante la sentenza n. 18571 del
22.09.2016 con richiami a quelle n. 8688 del 04.10.1996, n.
9555 del 01.07.2002 e n. 13673 del 16.06.2014) (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 13.06.2018 n. 1350 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come noto, l’art. 905, comma 2, c.c. prescrive
che non si possono costruire balconi che permettono di
affacciarsi sul fondo del vicino, se non vi è la distanza di
un metro e mezzo tra questo fondo e la linea esteriore di
dette opere.
L’art. 952, comma 1, dispone, a sua volta, che il
proprietario può costituire il diritto di fare e mantenere
al disopra del suolo una costruzione a favore di altri, che
ne acquista la proprietà.
Nella specie, il Comune ha consentito ai controinteressati
di realizzare balconi sulla colonna d’aria soprastante la
proprietà e il fabbricato dotato di terrazza del ricorrente
in violazione delle distanze minime e in assenza della
costituzione del diritto di servitù.
Sicché, il Comune non avrebbe potuto consentire l’apertura
dei balconi in contestazione e che, per tale parte, la
concessione edilizia rilasciata è illegittima e va
annullata.
---------------
1. Il ricorso ha ad oggetto la concessione edilizia
rilasciata dal Comune di Realmonte ai controinteressati per
la ricostruzione di un immobile preesistente, nella parte in
cui consente la realizzazione di quattro balconi, che si
affacciano direttamente sulla terrazza del fabbricato del
ricorrente, precludendone la sopraelevazione.
...
3. Ciò posto, nel merito, il ricorso è fondato.
Come noto, l’art. 905, comma 2, c.c. prescrive che non si
possono costruire balconi che permettono di affacciarsi sul
fondo del vicino, se non vi è la distanza di un metro e
mezzo tra questo fondo e la linea esteriore di dette opere.
L’art. 952, comma 1, dispone, a sua volta, che il
proprietario può costituire il diritto di fare e mantenere
al disopra del suolo una costruzione a favore di altri, che
ne acquista la proprietà.
Nella specie, il Comune di Realmonte ha consentito ai
controinteressati di realizzare balconi sulla colonna d’aria
soprastante la proprietà e il fabbricato dotato di terrazza
del ricorrente in violazione delle distanze minime e in
assenza della costituzione del diritto di servitù.
Come condivisibilmente rilevato nella sentenza della seconda
sezione civile della Corte d’appello di Palermo n. 717 del
12.04.2017, che ha confermato sul punto la sentenza della
sezione civile del Tribunale di Agrigento n. 1173 del
24.11.2011, anche ad ammettere l’avvenuta costituzione di
una servitù di apertura dei balconi da parte del dante causa
del ricorrente in favore dei controinteressati, questa si è
prescritta.
Pur sposando -in via di ipotesi- la tesi più vantaggiosa per
questi ultimi, ovverosia quella della costituzione di tale
diritto alla data dell’acquisto dell’immobile, ovverosia il
27.08.1986, erano, infatti, decorsi più di 10 anni al
momento del rilascio della concessione, in quanto avvenuto
nel 2006.
Ne deriva che il Comune di Realmonte non avrebbe potuto
consentire l’apertura dei balconi in contestazione e che,
per tale parte, la concessione edilizia n. 17 del 2006 è
illegittima e va annullata (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 13.06.2018 n. 1350 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Mobilità nel pubblico impiego.
La convocazione al colloquio senza il giusto preavviso rende
illegittima la procedura.
Un dirigente
pubblico partecipava ad una procedura di mobilità indetta da
un Comune emiliano che si concludeva senza che il candidato
avesse potuto prendere parte al colloquio orale. In realtà
il Comune aveva convocato l’interessato per un determinato
giorno ma il dirigente aveva richiesto il differimento del
colloquio a cagione della brevità del termine concessogli:
istanza che non era stata accolta. Alla conclusione della
procedura il candidato in questione proponeva allora ricorso
al TAR.
Il collegio emiliano, sezione di Parma, con
sentenza 13.06.2018 n. 160
ha accolto il gravame sussistendo il rilevato vizio di
violazione di legge inerente alla omessa convocazione del
candidato per il sostenimento della prova orale almeno venti
giorni prima della prova stessa.
In particolare, il TAR ha rilevato che la norma che
garantisce al candidato un tempo minimo di venti giorni per
la “preparazione” del colloquio nelle selezioni
pubbliche, vale a dire l’art. 6, comma 3, del D.P.R. n. 487
del 1994 –oltre ad essere direttamente applicabile alla
fattispecie in esame, per il rinvio della disciplina di tale
fattispecie alle norme sovraordinate, tra cui, appunto, il
regolamento dei servizi e degli uffici del Comune che aveva
bandito la procedura di mobilità– afferisce ad una garanzia
procedimentale che è direttamente funzionale all’interesse
del partecipante al corretto e trasparente svolgimento della
procedura stessa.
Né è possibile che tale garanzia venga limitata o
addirittura cancellata dalle generiche esigenze di celerità
provenienti dalla formulazione del bando –o peggio ancora
dall’interpretazione dello stesso che ne faccia la
Commissione esaminatrice– in quanto i principi di
economicità e di trasparenza delle procedure ad evidenza
pubblica trovano contemperazione, nei casi dubbi, dalle
scelte espressamente effettuate dal legislatore.
Nel caso in esame, pertanto, esistendo la norma generale
–così come recepita anche dal regolamento interno del
Comune– che, come detto, impone all’Amministrazione di far
decorrere almeno venti giorni tra la comunicazione della
data del colloquio ed il giorno di svolgimento del colloquio
stesso, e in presenza di una formale e giustificata (ma la
Sezione si è affrettata a sottolineare che non sarebbe stata
in realtà nemmeno necessaria la giustificazione) richiesta
di rinvio della prova orale, la Commissione non aveva altra
scelta che quella di rispettare il termine regolamentare, da
ritenersi prevalente, in quanto espressione di un principio
garantito esplicitamente dal legislatore, su ogni diversa
disposizione del bando in ordine alla “finestra”
temporale di svolgimento della procedura selettiva.
D’altra parte, la data di svolgimento del colloquio orale
non era stata specificata nel bando e soltanto la
presentazione senza formulazione di riserve del candidato
alla data prestabilita per il colloquio stesso avrebbe
potuto sanare la ravvisata illegittimità procedurale.
Da tale ragionamento è scaturito allora l’annullamento del
provvedimento conclusivo della procedura di mobilità
(commento tratto da e link a www.ilquotidianodellapa.it).
---------------
MASSIMA
Con ricorso depositato in data 18.12.2017, Cl.Ma. ha
chiesto l'annullamento degli atti con cui il Comune di
Fidenza ha concluso negativamente la procedura selettiva di
cui in epigrafe, senza consentirgli di presentarsi, per il
colloquio orale, in un giorno diverso e successivo, rispetto
a quello stabilito all'atto della convocazione.
In particolare, il ricorrente ha dedotto l'illegittimità
degli atti impugnati per violazione della disposizione
-contenuta sia nel d.P.R. n. 487 del 1994 che nel
regolamento degli uffici e dei servizi del Comune di
Fidenza- secondo cui deve intercorrere un intervallo
temporale di almeno venti giorni tra data di convocazione e
data di svolgimento della prova orale.
Si è costituito il Comune convenuto, che ha chiesto il
rigetto del ricorso, e la Sezione ha accolto la proposta
domanda cautelare. La causa è stata infine discussa e
trattenuta in decisione alla pubblica udienza del
23.05.2018.
Preliminarmente, occorre esaminare l’eccezione di
inammissibilità sollevata dall’amministrazione per mancata
notificazione del ricorso ad un controinteressato.
Il Comune convenuto sostiene infatti che dagli atti
impugnati sarebbe stata evincibile la presenza di un
soggetto che aveva interesse diretto e contrario
all’annullamento dell’atto con cui la procedura pubblica era
stata dichiarata deserta.
Tale soggetto era identificabile, secondo l’amministrazione,
in un altro candidato che era stato in precedenza escluso
dalla procedura medesima, per avere proposto domanda oltre i
termini.
L’eccezione è infondata.
Una volta maturata l’esclusione, il
presunto controinteressato era da considerarsi alla stregua
di un “quisque de populo”, rispetto alla specifica
procedura pubblica. Permaneva, pertanto, soltanto un
interesse di fatto a che la procedura stessa potesse andare
deserta, al fine di potere poi ripresentare domanda.
Tuttavia, poiché il vizio di legittimità è maturato
all’interno della procedura stessa, soltanto i soggetti che
ancora potevano trarre dal percorso procedimentale un
vantaggio effettivo possedevano un titolo giuridicamente
tutelato per eventualmente contrastare l’iniziativa
giurisdizionale del ricorrente.
Al momento della conclusione della procedura, peraltro,
nessuno, a parte l’unico soggetto ammesso alla stessa,
poteva fondatamente contrastarne gli esiti. D’altra parte,
anche da un punto di vista formale, l’atto che ha
concretizzato la lesione del Ma., rendendola attuale, ovvero
l’approvazione dell’esito della procedura selettiva, non
conteneva alcuna menzione del presunto controinteressato.
Nel merito, il ricorso è manifestamente fondato, secondo
quanto già evidenziato dalla Sezione in fase cautelare.
Sussiste infatti il rilevato vizio di
violazione di legge inerente alla omessa convocazione del
candidato per il sostenimento della prova orale almeno venti
giorni prima della prova stessa. Ne consegue che tutti gli
atti successivi –in presenza di una espressa e motivata
domanda di rinvio del colloquio orale da parte del Ma.– sono
da ritenersi affetti da illegittimità derivata, ivi compreso
il nuovo bando per l’assegnazione del posto da dirigente.
In particolare, il Collegio rileva che la
norma che garantisce al candidato un tempo minimo di venti
giorni per la “preparazione” del colloquio nelle
selezioni pubbliche –oltre ad essere direttamente
applicabile alla fattispecie in esame, per il rinvio della
disciplina di tale fattispecie alle norme sovraordinate, tra
cui, appunto, il regolamento dei servizi e degli uffici del
Comune di Fidenza e il d.P.R. n. 487/1994– afferisce ad una
garanzia procedimentale che è direttamente funzionale
all’interesse del partecipante al corretto e trasparente
svolgimento della procedura stessa.
Né è possibile che tale garanzia venga
limitata o addirittura cancellata dalle generiche esigenze
di celerità provenienti dalla formulazione del bando –o
peggio ancora dall’interpretazione dello stesso che ne
faccia la Commissione esaminatrice– in quanto i principi di
economicità e di trasparenza delle procedure ad evidenza
pubblica trovano contemperazione, nei casi dubbi, dalle
scelte espressamente effettuate dal legislatore.
Nel caso in esame, pertanto, esistendo la
norma generale
–così come recepita anche dal regolamento interno del
Comune–, che, come detto, impone
all’amministrazione di far decorrere almeno venti giorni tra
comunicazione della data del colloquio e giorno di
svolgimento del colloquio stesso, e in presenza di una
formale e giustificata (ma non sarebbe stata in realtà
nemmeno necessaria la giustificazione, per i motivi appena
chiariti) richiesta di rinvio della prova orale, la
Commissione non aveva altra scelta che quella di rispettare
il termine regolamentare, da ritenersi prevalente, in quanto
espressione di un principio garantito esplicitamente dal
legislatore, su ogni diversa disposizione del bando in
ordine alla “finestra” temporale di svolgimento della
procedura selettiva.
D’altra parte, la data di svolgimento del
colloquio orale non era stata specificata nel bando e
soltanto la presentazione senza formulazione di riserve del
candidato alla data prestabilita per il colloquio stesso
avrebbe potuto sanare, secondo giurisprudenza costante, la
ravvisata illegittimità procedurale.
Il provvedimento conclusivo della prima procedura selettiva
e l’atto con cui ne è stata indetta un’altra avente lo
stesso oggetto devono dunque essere annullati, con
conseguente obbligo della Commissione esaminatrice di
riconvocare il ricorrente per il sostenimento della prova
orale, nel rispetto delle norme procedurali e sostanziali
applicabili al caso di specie (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 13.06.2018 n. 160 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Termine di deposito del ricorso avverso il silenzio della
P.A. con contestuale azione risarcitoria.
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Processo amministrativo – Silenzio della P.A. – Deposito
– Termine – 15 giorni – Contestuale proposizione azione
risarcitoria – Irrilevanza ex se.
Il ricorso avverso il silenzio
serbato dalla pubblica amministrazione deve essere
depositato, a pena di irricevibilità, nel termine dimidiato
di 15 giorni ai sensi dell’art. 87 comma 3 c.p.a., ancorché
all'azione principale proposta ai sensi degli artt. 31 e 117
c.p.a. acceda la domanda di risarcimento dei danni provocati
dal silenzio (1).
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(1)
Il Tar ha escluso che il contestuale esperimento della
domanda avverso il silenzio e di quella risarcitoria
conseguente al contegno inerte della p.a. avrebbe
determinato, ex art. 32 c.p.a., la conversione del rito, da
speciale ex art. 117 c.p.a. in ordinario, con conseguente
inoperatività della dimidiazione dei termini processuali,
prevista dall’art. 87, comma 3, c.p.a..
Innanzitutto, in linea generale, la previsione di cui
all’art. 32 c.p.a., secondo cui, in presenza di più domande
connesse soggette a riti diversi si applica quello
ordinario, presuppone comunque che le azioni, ancorché in
maniera simultanea, siano state validamente introdotte nel
rispetto dei termini decadenziali previsti, per ciascuna di
esse, dal codice di rito.
In ogni caso, il meccanismo generale di automatica
conversione di cui all’art. 32 c.p.a. non è operativo nel
caso di cumulo tra la domanda di cui all’art. 117 c.p.a. e
quella risarcitoria.
Ed invero, a differenza di quanto disposto dall’art. 32
c.p.a. citato, il comma 6 dell’art. 117 c.p.a. prevede
espressamente che “Se l'azione di risarcimento del danno
ai sensi dell'articolo 30, comma 4, è proposta
congiuntamente a quella di cui al presente articolo, il
giudice può definire con il rito camerale l'azione avverso
il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda
risarcitoria”.
Tale disposizione attribuisce, quindi, al giudicante la
facoltà di decidere separatamente le due azioni, ciascuna
con il proprio rito, ovvero disporre che l'intero giudizio
venga trattato in udienza pubblica o in camera di consiglio.
La possibilità di una definizione autonoma, piuttosto che
cumulativa, della domanda di cui all’art. 117 c.p.a.
rispetto a quella risarcitoria, comprova, semmai ve ne fosse
bisogno, la piena operatività, in ordine alla prima, della
dimidiazione dei termini di cui all’art. 87, comma 3, c.p.a.,
a prescindere dall’opzione in concreto esercitata dal
Tribunale (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 12.06.2018 n. 1177 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Partecipazione a gara pubblica con modello organizzativo
articolato in una struttura centrale e in una struttura
periferica.
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Contratti della pubblica amministrazione - Gara -
Partecipazione di concorrente che si avvale di un modello
organizzativo articolato in una struttura centrale e in una
struttura periferica - Legittimità.
E’ legittima la partecipazione alla
gara di un concorrente che si avvale di un modello
organizzativo articolato in una struttura centrale, a sua
volta suddivisa in “direzione generale” e “centrale
operativa”, e in una struttura periferica; mentre la
struttura centrale fa direttamente capo alla concorrente, la
struttura periferica viene affidata a società e imprese
esterne, dislocate sul territorio di riferimento e deputate
alla materiale esecuzione degli interventi su segnalazione
della centrale operativa; i rapporti fra la struttura
centrale e le strutture periferiche (definite Centri
Logistico Operativi –CLO, ovvero Strutture Operative
radiomobili– SOR) sono regolati da un contratto atipico di
governance, in forza del quale i CLO si obbligano dietro
corrispettivo a eseguire le prestazioni oggetto del servizio
affidato dal Comune (1).
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(1)
V.
Cons. St., sez. V, 23.02.2015, n. 878; id.
25.02.2015, n. 936.
Ha chiarito il Tar che a fronte di modelli organizzativi del
tutto analoghi, in forza del contratto atipico di
governance i titolari dei Centri Logistici Operativi (CLO)
divengono espressione della stessa organizzazione d’impresa
che fa capo all’affiliante. Ne risulta una compagine
operativa unitaria, non riconducibile al paradigma del
subappalto nella misura in cui il terzo esecutore del
servizio manca di ogni autonomia e presta la propria
attività in modo che questa si innesti nel più ampio
contesto dell’organizzazione imprenditoriale
dell’affiliante.
Ha aggiunto il Tar che a carico dei titolari dei Centri
Logistici Operativi non si registra alcun trasferimento del
rischio d’impresa, ovvero degli obblighi nascenti dal
contratto stipulato dall’affiliante con la stazione
appaltante. Il CLO sono obbligati nei confronti (non del
Comune, ma) dell’affiliante a eseguire le prestazioni che
formano oggetto (non del servizio affidato in concessione,
ma) del contratto di governance, vale a dire i
singoli interventi cui siano di volta in volta chiamati
nella zona territoriale di competenza; e non perdono il
diritto al compenso nelle circostanze in cui questo
all’affiliante non dovesse competere, in virtù del contratto
di affidamento stipulato con il Comune.
La circostanza che la struttura organizzativa della
concorrente si fondi sul ricorso a rapporti contrattuali
atipici, piuttosto che a rapporti di lavoro subordinato, è
di per sé irrilevante, una volta che il Comune ha potuto
valutare e apprezzare l’idoneità del contratto di
governance ad assicurare in capo all’impresa concorrente
la direzione e il controllo degli operatori addetti alla
materiale esecuzione del servizio.
Questi ultimi, inseriti nell’organizzazione d’impresa della
concorrente, rinunciano a ogni autonomia e nei rapporti con
il Comune non possono considerarsi terzi rispetto
all’affiliante, che resta l’unica responsabile
dell’esecuzione del servizio. Per questa ragione deve
escludersi un onere di previa indicazione nominativa dei CLO,
così come in termini generali non è richiesta la previa
conoscenza nominativa dei dipendenti dell’appaltatore o del
concessionario, e dei suoi collaboratori (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 12.06.2018 n. 840
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
E' nullo il contratto del Comune che subordina la spesa
all'accertamento dell'entrata.
Qualsiasi spesa degli enti comunali deve essere
assistita da un conforme provvedimento dell'organo munito di
potere deliberativo e da uno specifico impegno contabile
registrato nel competente bilancio di previsione,
costituendosi, in mancanza, il rapporto obbligatorio
direttamente con l'amministratore o funzionario che abbia
assunto l'impegno.
La giurisprudenza di questa Corte è
costante nel ribadire tale principio, che non subisce
deroghe neppure nel caso in cui in un contratto d'opera
professionale si stabilisca che il pagamento del compenso al
professionista incaricato della progettazione di un'opera
pubblica venga subordinato alla concessione di un
finanziamento.
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1.2 Col secondo motivo si denunzia violazione e falsa
applicazione degli
artt. 35 D.Lgs. n. 77/1995 e
191 del vigente D.Lgs. n. 267/2000 (T.U. Enti
locali), nonché motivazione apparente e/o insufficiente
circa un punto decisivo della controversia: secondo il
Comune di Lizzano l'interpretazione del contratto nel senso
indicato dai giudici di merito (previsione di un compenso
ancorato al semplice accertamento e non anche alla
riscossione del tributo) comporterebbe la inefficacia nei
confronti dell'ente essendo la delibera autorizzativa del
contratto priva di impegno di spesa e copertura finanziaria.
Richiama la normativa di riferimento e la giurisprudenza di
legittimità.
1.3 Col terzo motivo il Comune denunzia violazione e
falsa applicazione dell'art. 345 cpc: riagganciandosi alla
censura sollevata nel precedente motivo, rileva il
ricorrente che la deduzione dell'esistenza di un contratto
autorizzato con deliberazione priva di impegno di spesa e
attestazione di copertura finanziaria costituiva un motivo
di impugnazione contenente una eccezione rilevabile anche di
ufficio e in appello, essendo finalizzata al rilievo della
nullità del contratto, perché la validità del contratto si
pone come elemento costitutivo della domanda, che il giudice
è tenuto a verificare.
...
2. Ritiene il Collegio che per evidenti ragioni di priorità
logica l'esame debba partire dal secondo e terzo
motivo di ricorso, che pongono il problema della
validità del conferimento di incarico professionale in caso
di mancata indicazione della spesa e dei mezzi economici per
farvi fronte.
Queste due censure, che ben si prestano a trattazione
unitaria, sono fondate.
L'art.
23, terzo comma, del d.l. 03.03.1989, n. 66 (convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.04.1989, n. 144),
dispone che qualsiasi spesa degli enti comunali deve essere
assistita da un conforme provvedimento dell'organo munito di
potere deliberativo e da uno specifico impegno contabile
registrato nel competente bilancio di previsione,
costituendosi, in mancanza, il rapporto obbligatorio
direttamente con l'amministratore o funzionario che abbia
assunto l'impegno.
La giurisprudenza di questa Corte è
costante nel ribadire tale principio, che non subisce
deroghe neppure nel caso in cui in un contratto d'opera
professionale si stabilisca che il pagamento del compenso al
professionista incaricato della progettazione di un'opera
pubblica venga subordinato alla concessione di un
finanziamento (v. tra le varie, Sez. U, Sentenza n. 26657
del 18/12/2014 Rv. 634114).
Nel caso in esame, la Corte territoriale ha applicato il
principio del divieto dei nova in appello di cui
all'art. 345 cpc, senza dapprima porsi il problema del
rilievo ufficioso della violazione di norme imperative
rappresentata dalla conclusione di un contratto fondato su
una delibera nulla per mancanza di un impegno di spesa da
parte dell'ente (sulla nullità delle delibere di
conferimento di incarichi in assegna di copertura
finanziaria, v. tra le tante, Sez. 3, Ordinanza n. 17056 del
11/07/2017 Rv. 644963; Sez. 1, Sentenza n. 17469 del
17/07/2013 Rv. 627394; Sez. 1, Sentenza n. 18144 del
02/07/2008 Rv. 604249; e sulla rilevabilità di ufficio,
anche in appello, delle nullità derivanti dalla violazione
di norme imperative, v. Sez. 2, Sentenza n. 10609 del
28/04/2017 Rv. 643890; Sez. U Sentenza n. 7294 del
22/03/2017 Rv. 643337): l'errore di diritto in cui è incorsa
la Corte d'Appello è evidente, e determina inevitabilmente
la cassazione della sentenza con conseguente assorbimento
dei restanti motivi.
Il giudice di rinvio, che si individua in altra sezione
della Corte d'Appello di Lecce, si atterrà ai citati
principi e valuterà l'eccezione di nullità del contratto,
provvedendo all'esito anche sulle spese del presente
giudizio (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 11.06.2018 n. 15050). |
APPALTI:
Alla Corte di giustizia UE le previsioni del d.lgs. n. 163
del 2006 su quota subappaltabile e ribasso su prezzi del
subappaltatore.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato rimette alla Corte
di giustizia UE la questione della compatibilità europea
della disciplina del d.lgs. n. 163 del 2006 che fissa il
limite del trenta per cento dell’importo complessivo del
contratto per il ricorso al subappalto e stabilisce il
ribasso del prezzo non superiore al venti per cento per le
prestazioni affidate in subappalto.
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Contratti pubblici – Subappalto – Limiti alla quota
subappaltabile e alla riduzione di prezzo praticabile al
subappaltatore – Disciplina nazionale – Rinvio pregiudiziale
alla Corte di Giustizia UE
Va rimessa alla Corte di giustizia
dell’Unione Europea la questione pregiudiziale se i principi
di libertà di stabilimento e di libera prestazione di
servizi, di cui agli articoli 49 e 56 del Trattato sul
Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), gli artt. 25 della
Direttiva 2004/18 del Parlamento Europeo e del Consiglio del
31.03.2004 e 71 della Direttiva 2014/24 del Parlamento
Europeo e del Consiglio del 26.02.2014, che non contemplano
limitazioni per quanto concerne la quota subappaltatrice ed
il ribasso da applicare ai subappaltatori, nonché il
principio eurounitario di proporzionalità, ostino
all’applicazione di una normativa nazionale in materia di
appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’art.
118, commi 2 e 4, del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163,
secondo la quale il subappalto non può superare la quota del
trenta per cento dell’importo complessivo del contratto e
l’affidatario deve praticare, per le prestazioni affidate in
subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti
dall’aggiudicazione, con un ribasso non superiore al venti
per cento (1).
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(1)
I. – Con l’ordinanza in epigrafe, la Sesta Sezione del
Consiglio di Stato -chiamata a giudicare la legittimità
della verifica di anomalia di una offerta nella quale il
forte ribasso operato dall’impresa aggiudicataria risultava
correlato al massiccio ricorso al subappalto (oltre il 30
per cento dell'importo contrattuale) e al riconoscimento
alle imprese subappaltatrici di compenso significativamente
più basso rispetto a quello di aggiudicazione (oltre il 20
per cento)- ha rimesso alla Corte di giustizia del
Lussemburgo il giudizio sulla conformità ai parametri
europei della disciplina nazionale applicabile ratione
temporis alla controversia (art. 118 del d.lgs. n. 163
del 2006), nella parte in cui pone limiti alla quota di
contratto subappaltabile e alla riduzione dei prezzi
praticabile nei confronti del subappaltatore.
La Sesta Sezione pone subito in evidenza come analoga
questione pregiudiziale sia stata sollevata dal Tar per la
Lombardia–Milano, sezione I, con ordinanza 19.01.2018, n.
148 (oggetto della News US in data 06.02.2018, cui si rinvia
per ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza), rispetto
alla quale l’ordinanza in rassegna presenta due profili
differenziali:
– il primo, di carattere formale (attesa l’identità del contenuto
delle due norme) attiene alla disposizione interna rimessa
al vaglio della Corte di Lussemburgo (nel senso che il Tar
per la Lombardia ha sollevato una questione pregiudiziale
relativamente alla vigente disciplina di cui all’art. 105
del d.lgs. n. 50 del 2016, mentre la Sesta Sezione del
Consiglio di Stato ha proceduto relativamente alla
disposizione previgente applicabile ratione temporis);
– il secondo profilo differenziale concerne l’ambito oggettivo
della questione sollevata, giacché l’ordinanza in rassegna,
oltre alla questione della quota di prestazione
subappaltabile, rimette anche la questione dell’ulteriore
limite al ribasso di prezzo praticabile nei confronti del
subappaltatore (disposizione presente oltre che nel d.lgs.
n. 163 del 2006 anche nel d.lgs. n. 50 del 2016, ma non
tenuta in considerazione dal Tar per la Lombardia).
II. – La questione è sorta nell’ambito di un contenzioso che può
essere sintetizzato nei termini che seguono:
– l’Università degli Studi di Roma “La
Sapienza” ha indetto una procedura aperta per “l’affidamento
del servizio di pulizia da espletarsi nei locali in uso
dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza presso la
città Universitaria e le sedi esterne”, da aggiudicarsi
con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
per la durata di 5 anni e per un valore presunto posto a
base di gara di Euro 46.300.968,40, al netto dell’IVA;
– espletata la procedura di gara e disposta
l’aggiudicazione definitiva, il costituendo RTI secondo
graduato ha impugnato l’esito della procedura stessa
censurando, tra l’altro, la circostanza che in virtù di
quanto rappresentato nei giustificativi forniti per la
verifica dell’anomalia, l’offerta aggiudicataria è risultata
essere incentrata sull’affidamento dei servizi di pulizia
oggetto dell’appalto a cooperative sociali di tipo B
(estranee al RTI), per una quota superiore al 30%
dell’importo complessivo della commessa, con un ribasso
sulle prestazioni affidate superiore al 20%, ciò in
violazione dell’art. 118, comma 2 e comma 4, del d.lgs. 163
del 2006, circostanza che oltre a rappresentare una
violazione di norma imperativa, rende non credibile ed
irrealizzabile l’offerta presentata;
– il Tar per il Lazio–Roma, sez. III, con
sentenza n. 12511 del 2017, ha accolto il ricorso della
seconda classificata in primo luogo per l’assenza di una
attendibile disamina in concreto relativa alle
caratteristiche che avrebbe avuto il massiccio ricorso,
mediante subappalto, alle cooperative sociali di tipo B, il
quale costituisce elemento imprescindibile dell’offerta
aggiudicataria che le ha permesso di giustificare l’elevato
ribasso che è riuscita ad offrire; in secondo luogo per la
riconosciuta violazione dell’art. 118, quarto comma, del
d.lgs. n. 163/2006, in quanto le prestazioni lavorative
affidate in subappalto vengono retribuite con corrispettivi
ribassati di oltre il venti per cento (29,9%) rispetto a
quelli praticati dal medesimo RTI nei confronti dei propri
dipendenti diretti;
– la sentenza del Tar per il Lazio è stata
impugnata, con appello principale, da parte
dell’aggiudicataria, che ne ha contestato le conclusioni, e
con appello incidentale dal raggruppamento secondo
classificato, che ha riproposto le censure non accolte in
primo grado nonché la dedotta violazione del secondo comma
dell’art. 118 d.lgs. n. 163 del 2006, a fronte della
rilevata inaffidabilità ed irrealizzabilità dell’offerta
aggiudicataria perché fondata sull’affidamento in subappalto
a cooperative sociali di tipo B ben oltre la quota del 30%
del valore dell’appalto.
Nel decidere sui richiamati appelli la Sesta Sezione del
Consiglio di Stato evidenzia come “a fronte della
statuizione di cui alla sentenza impugnata nonché dei
conseguenti motivi di appello, la norma di cui all’art. 118
d.lgs. 163/2006 diventa rilevante e decisiva ai fini della
risoluzione della controversia in esame, sia con riferimento
al limite del trenta per cento dettato dal comma secondo,
sia relativamente al limite del venti per cento di cui al
comma quarto. Infatti, oggetto della controversia è
l’ammissibilità e sostenibilità dell’offerta, risultata
aggiudicataria, il cui forte ribasso –che ha consentito
l’aggiudicazione– è stato ottenuto attraverso un meccanismo
che ha comportato la previsione di affidamento in subappalto
di una parte delle attività da svolgere superiore al limite
del 30 %, con riconoscimento in favore delle imprese
subappaltatrici di un compenso inferiore di oltre il 20%
rispetto a quanto praticato in favore dei propri dipendenti
in base all’offerta”.
Con l’ordinanza in rassegna, premesso il puntuale esame
della normativa nazionale applicabile e del diritto
dell’Unione europea, la Sezione giunge alla conclusione che
“a fronte del non coincidente tenore delle disposizioni
nazionali in materia di subappalto e il diritto dell’Unione
europea, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte
di Giustizia, impone al Collegio, quale giudice di ultima
istanza, di disporre il rinvio pregiudiziale dell’art. 118,
commi 2 e 4, del previgente codice dei contratti pubblici,
rispetto ai principi e alle regole ricavabili dagli articoli
49 e 56 TFUE nonché dalla direttiva 2004/18”.
III. – Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione
europea è fondato sul seguente percorso argomentativo:
a) le disposizioni nazionali rilevanti nel caso
di specie sono contenute nell’art. 118 del d.lgs. n. 163 del
2006, che al comma secondo prevede che la quota
subappaltabile non può essere superiore al 30 per cento
dell’importo complessivo del contratto, mentre al comma
quarto stabilisce che l'affidatario deve praticare, per le
prestazioni affidate in subappalto, gli stessi prezzi
unitari risultanti dall'aggiudicazione, con ribasso non
superiore al venti per cento;
b) le suddette limitazioni quantitative al
subappalto sono state introdotte per la prima volta
nell’ordinamento dall’art. 18 della legge 19.03.1990, n. 55
e sono poi confluite nelle varie leggi che si sono succedute
in materia di appalti pubblici (art. 34 legge n. 109 del
1994, art. 118 d.lgs. n. 163 del 2005 e art. 105 d.lgs. n.
50 del 2016); si tratta di disciplina di particolare rigore
che trova origine nella consapevolezza che il subappalto,
soprattutto laddove resti confinato alla fase esecutiva
dell’appalto e sfugga a ogni controllo amministrativo, può
ben prestarsi ad essere utilizzato fraudolentemente, per
eludere le regole di gara e acquisire commesse pubbliche
indebitamente, nell’ambito di contesti criminali;
c) nel diritto dell’Unione Europea le previsioni
espresse in materia di subappalto sono contenute nell’art.
71 della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 26.02.2014 sugli appalti pubblici, che non
contempla alcun limite quantitativo al subappalto, e nella
previgente analoga disciplina dell’art. 25 della direttiva
2004/18; ma risultano rilevanti, in termini più generali,
anche gli artt. 49 e 56 del TFUE sulla libertà di
stabilimento e la libera prestazione dei servizi all’interno
dell’Unione europea;
d) in materia di limiti al subappalto la Corte di
Giustizia dell’Unione Europea si è già pronunciata, con
riferimento alle previgenti direttive 2004/17 e 2004/18, sia
con la sentenza del 05.04.2017 della Quinta sezione, causa
C-298/15, Borta UAB –secondo la quale gli articoli 49 e 56
TFUE devono essere interpretati nel senso che ostano a una
disposizione di una normativa nazionale che prevede che, in
caso di ricorso a subappaltatori per l’esecuzione di un
appalto di lavori, l’aggiudicatario è tenuto a realizzare
esso stesso l’opera principale, definita come tale dall’ente
aggiudicatore– sia con la sentenza del 14.07.2016 della
Terza sezione, C-406/14, Wroclaw, ove la Corte di Giustizia
ha dichiarato che la direttiva 2004/18/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, deve essere
interpretata nel senso che un’amministrazione aggiudicatrice
non è autorizzata ad imporre, mediante una clausola del
capitolato d’oneri di un appalto pubblico di lavori, che il
futuro aggiudicatario esegua una determinata percentuale dei
lavori oggetto di detto appalto avvalendosi di risorse
proprie;
e) il non coincidente tenore delle disposizioni
nazionali in materia di subappalto e del diritto dell’Unione
europea, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte
di Giustizia, impone al Collegio, quale giudice di ultima
istanza, di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di
giustizia UE dell’art. 118 commi 2 e 4 del previgente codice
dei contratti pubblici, rispetto ai principi e alle regole
ricavabili dagli articoli 49 e 56 TFUE nonché dalla
direttiva 2004/18;
f) la previsione dei limiti generali dettati dai
due commi dell’art. 118 in questione (contenenti
rispettivamente un limite generale del 30 per cento per il
subappalto, con riferimento all’importo complessivo del
contratto, nonché un limite del 20% al ribasso da applicare
ai subappaltatori), può rendere più difficoltoso l’accesso
delle imprese, in particolar modo di quelle di piccole e
medie dimensioni, agli appalti pubblici, così ostacolando
l’esercizio della libertà di stabilimento e della libera
prestazione dei servizi e precludendo, peraltro, agli stessi
acquirenti pubblici l’opportunità di ricevere offerte più
numerose e diversificate;
g) il limite del 30 per cento, non previsto dalla
direttiva 2004/18, impone una restrizione alla facoltà di
ricorrere al subappalto per una parte del contratto fissata
in maniera astratta in una determinata percentuale dello
stesso, e ciò a prescindere dalla possibilità di verificare
le capacità di eventuali subappaltatori e senza menzione
alcuna del carattere essenziale degli incarichi di cui si
tratterebbe, in contrasto con gli obiettivi di apertura alla
concorrenza e di favore per l’accesso delle piccole e medie
imprese agli appalti pubblici;
h) in termini di completezza occorre ricordare
come in sede consultiva il Consiglio di Stato abbia
evidenziato le ragioni della disciplina limitativa del
subappalto:
h1) nel parere n. 855/2016 reso
sul progetto di nuovo codice dei contratti pubblici,
l’organo consultivo ha osservato che il legislatore
nazionale potrebbe porre, in tema di subappalto, limiti di
maggior rigore rispetto alle direttive europee, che non
costituirebbero un ingiustificato goldplating, in
quanto basati su pregnanti ragioni di ordine pubblico, di
tutela della trasparenza e del mercato del lavoro, ciò nella
misura in cui non si traduca in un ostacolo ingiustificato
alla concorrenza e a salvaguardia di interessi e valori
costituzionali, ovvero enunciati nell’art. 36 del TFUE;
h2) nel successivo parere n.
782/2017, reso sul progetto di decreto correttivo al codice,
l’organo consultivo, dopo aver dato atto della
giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo cui il
diritto europeo non consente agli Stati membri di porre
limiti quantitativi al subappalto, e chiarito che tale
giurisprudenza eurounitaria si è formata in relazione alla
previgente direttiva 2004/18, si è espresso nel senso che la
nuova direttiva 2014/24 consente agli Stati membri di
dettare una più restrittiva disciplina del subappalto,
rispetto alla maggiore libertà del subappalto nella
previgente direttiva, ciò perché include nella disciplina
del subappalto finalità che finora erano state specifiche
della legislazione italiana, ossia una maggiore trasparenza
e la tutela giuslavoristica oltre che la tutela delle micro
piccole e medie imprese; ciò può indurre alla ragionevole
interpretazione che le limitazioni quantitative al
subappalto, previste dal legislatore nazionale, non sono in
frontale contrasto con il diritto europeo, potendo essere
giustificate, da un lato alla luce dei principi di
sostenibilità sociale che sono alla base delle stesse
direttive, e dall’altro lato alla luce di quei valori
superiori, declinati dall’art. 36 TFUE, che possono fondare
restrizioni della libera concorrenza e del mercato, tra cui,
espressamente, l’ordine e la sicurezza pubblici;
i) oltre a quanto evidenziato in sede consultiva,
sussistono ulteriori motivi posti a fondamento
dell’introduzione delle soglie in questione:
i1) per un verso, relativamente
all’eliminazione del limite del 20% per il possibile ribasso
rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione, emerge il
rischio del dare vita a forme occulte di dumping salariale,
da cui potrebbe scaturire un effetto anticoncorrenziale;
i2) per un altro verso,
relativamente all’eliminazione del limite del 30% per la
parte di servizi subappaltabili, emerge la possibilità di
avere aggiudicazioni dove l’adempimento è posto a rischio
per la conseguente difficoltà di valutare la sostenibilità
-e quindi la non anomalia– dell’offerta; come avvenuto nel
caso di specie;
j) in tale contesto è possibile inquadrare la
ratio sottesa ai limiti in esame sulla scorta della
generale indicazione contenuta nella stessa giurisprudenza
europea sopra richiamata, secondo cui una restrizione alla
libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei
servizi “può essere giustificata qualora essa persegua un
obiettivo legittimo di interesse pubblico e purché rispetti
il principio di proporzionalità, vale a dire, sia idonea a
garantire la realizzazione di tale obiettivo e non vada
oltre quanto è necessario a tal fine” (sentenza del
05.04.2017, causa C-298/15, cit.).
IV. – Si segnala per completezza quanto segue:
k) sul subappalto in generale:
k1) con riferimento alla
disciplina di cui all’art. 118 d.lgs. n. 163 del 2006 si
vedano: N. CENTOFANTI, M. FAVAGROSSA e P. CENTOFANTI, Il
subappalto, Padova, 2012; A. GUARNIERI, D. TESSERA, commento
all’art. 118, in Commentario al codice dei contratti
pubblici, a cura di G. F. FERRARI, G. MORBIDELLI, Milano,
2013; A. DI RUZZA, C. LINDA, commento all’art. 118, in
Codice dell'appalto pubblico, a cura di S. BACCARINI, G.
CHINÈ, R. PROIETTI, Milano, 2015, 1366 ss.; D. GALLI e C.
GUCCIONE, Contratti pubblici: «avvalimento» e
subappalto in Giornale dir. amm., 2015, 127; C. SADILE, Il
subappalto dei lavori pubblici, Milano, 2014;
k2) con riferimento alla
disciplina di cui all’art. 105 d.lgs. n. 50 del 2016 si
vedano: MANCINI G., Brevi note sui limiti di ammissibilità
del subappalto ai sensi dell'art. 105 del nuovo codice degli
appalti in Riv. trim. appalti, 2016, 711; M. GENTILE, Il
subappalto nel «nuovo» codice: aumentano limiti,
vincoli e dubbi applicativi in Appalti & Contratti, 2016,
fasc. 6, 43; R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici,
Bologna, 2017, 1488 ss.;
k3) con riferimento alla
disciplina successiva al correttivo al Codice dei contratti
pubblici (d.lgs. n. 56 del 2017) si vedano: GENTILE M., Il
correttivo allarga <con moderazione> le maglie del
subappalto in Appalti & Contratti, 2017, fasc. 7, 15; G.
BALOCCO, La riforma del subappalto e principio di
concorrenza in Urbanistica e appalti, 2017, 621; G.A.
GIUFFRE’, Le novità in tema di subappalto in Il correttivo
al Codice dei contratti pubblici, a cura di M.A. SANDULLI,
M. LIPARI, F. CARDARELLI, Milano, 2017, p. 331;
l) sulla compatibilità con il diritto europeo dei
limiti al subappalto posti dalla legislazione italiana:
l1) in dottrina spunti
specifici sul tema sono offerti da M. MARTINELLI, La
capacità economica e finanziaria, in Il nuovo diritto degli
appalti pubblici a cura di R. GAROFOLI, M.A. SANDULLI,
Milano, 2005, 633 (ove si evidenzia che “la
giurisprudenza comunitaria appare orientata a riconoscere la
possibilità di ricorrere al subappalto oltre i limiti
eventualmente stabiliti dalla normativa interna, allorché i
requisiti di capacità del terzo subappaltatore siano stati
valutati in corso di gara dall’amministrazione
aggiudicatrice…in tal caso, infatti, vi sono tutte le
garanzie che l’appalto venga effettivamente eseguito da
soggetti dotati di adeguata qualificazione”), M. E.
COMBA, L'esecuzione delle opere pubbliche - Con cenni di
diritto comparato, Torino, 2011, 61 ss., R. CARANTA, I
contratti pubblici, Torino, 2012, 364, che, evidenziati i
limiti al subappalto della legislazione italiana,
stigmatizza che “si tratta di limiti tout court in
contrasto con il diritto europeo”;
l2) come risulta anche
dall’ordinanza in rassegna il tema è anche affrontato
nell’ambito dei menzionati pareri resi dal Consiglio di
Stato sul nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50
del 2016) e sul Correttivo allo stesso (d.lgs. n. 56 del
2017): nel parere n. 855/2016 il Consiglio di Stato aveva
osservato, in relazione all’art. 105, che il legislatore
nazionale potrebbe porre, in tema di subappalto, limiti di
maggior rigore rispetto alle direttive europee, che non
costituirebbero un ingiustificato goldplating, ma
sarebbero giustificati da pregnanti ragioni di ordine
pubblico, di tutela della trasparenza e del mercato del
lavoro; nel parere n. 782 del 2017 il Consiglio di Stato,
pur partendo dalla premessa che “questo Consesso non
ignora la giurisprudenza della C. giust. UE, e,
segnatamente, da ultimo, la decisione C. giust. UE, III,
14.07.2016 C-406/14 (ma v. anche C. giust. UE, 10.10.2013
C-94/12; Id., 18.03.2004 C-314/01), secondo cui il diritto
europeo non consente agli Stati membri di porre limiti
quantitativi al subappalto”, afferma che “tuttavia,
tale giurisprudenza eurounitaria si è appunto formata in
relazione alla previgente direttiva 2004/18” e conclude
nel senso che “la complessiva disciplina delle nuove
direttive, più attente, in tema di subappalto, ai temi della
trasparenza e della tutela del lavoro, in una con
l’ulteriore obiettivo, complessivamente perseguito dalle
direttive, della tutela delle micro, piccole e medie
imprese, può indurre alla ragionevole interpretazione che le
limitazioni quantitative al subappalto, previste da
legislatore nazionale, non sono in frontale contrasto con il
diritto europeo”;
l3) quanto alla giurisprudenza
europea si ricordano i seguenti pronunciamenti:
- Corte
giustizia dell’UE sez. V, 05.04.2017, C-298/2015, Borta UAB,
secondo cui “per gli appalti pubblici di rilievo
transfrontaliero, anche se sotto la soglia di applicazione
delle direttive europee, è interesse dell'Unione che
l'apertura della procedura alla concorrenza sia la più ampia
possibile, e il ricorso al subappalto, che può favorire
l'accesso delle piccole e medie imprese agli appalti
pubblici, contribuisce al perseguimento di tale obiettivo.
Pertanto, una disposizione nazionale, che preveda che in
caso di ricorso a subappaltatori per eseguire un appalto
pubblico di lavori, l'aggiudicatario sia tenuto a realizzare
l'opera principale, come descritta dall'amministrazione
aggiudicatrice, costituisce una restrizione alla libertà di
stabilimento e alla libera prestazione dei servizi”;
- Corte di
giustizia dell’UE, sez. IV, 27.10.2016, C-292/15, GmbH
(oggetto della News US in data 08.11.2016), secondo la quale
“l’articolo 5, paragrafo 1, del regolamento (CE) n.
1370/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del
23.10.2007, relativo ai servizi pubblici di trasporto di
passeggeri su strada e per ferrovia, deve essere
interpretato nel senso che, nel corso di una procedura di
aggiudicazione di un appalto di servizio pubblico di
trasporto di passeggeri con autobus, l’articolo 4, paragrafo
7, di tale regolamento -che prevede la limitazione del
ricorso al subappalto (commisurata in funzione dei
chilometri tabellari)– deve ritenersi applicabile a tale
appalto. L’articolo 4, paragrafo 7, del regolamento n.
1370/2007, deve essere interpretato nel senso che esso non
osta a che l’amministrazione aggiudicatrice stabilisca nella
misura del 70% la quota di fornitura diretta da parte
dell’operatore a cui è affidata la gestione e la prestazione
di un servizio pubblico di trasporto di passeggeri con
autobus, come quello oggetto del procedimento principale”;
- Corte di
giustizia dell’UE, sez. III, 14.07.2016, C-406/14, Wroclaw,
in Foro it., 2016, IV, 389, secondo cui “la direttiva
2004/18/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del
31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di
forniture e di servizi, come modificata dal regolamento (Ce)
2083/2005 della commissione, del 19.12.2005, deve essere
interpretata nel senso che un’amministrazione aggiudicatrice
non è autorizzata ad imporre, mediante una clausola del
capitolato d’oneri di un appalto pubblico di lavori, che il
futuro aggiudicatario esegua una determinata percentuale dei
lavori oggetto di detto appalto avvalendosi di risorse
proprie”;
- Corte di
giustizia dell’UE, sez. X, 22.10.2015, nella causa 425/2014,
Edilux–Sicef -in Appalti & Contratti, 2015, fasc. 12, 90
(m), con nota di CANAPARO, Riv. corte conti, 2015, fasc. 5,
381, Giur. it., 2016, 1459 (m), con nota di CRAVERO,
Giornale dir. amm., 2016, 318 (m), con nota di VINTI–
secondo cui “le norme fondamentali e i principi generali
del Tfue, segnatamente i principi di parità di trattamento e
di non discriminazione nonché l'obbligo di trasparenza che
ne deriva, devono essere interpretati nel senso che essi non
ostano a una disposizione di diritto nazionale in forza
della quale un'amministrazione aggiudicatrice possa
prevedere che un candidato o un offerente sia escluso
automaticamente da una procedura di gara relativa a un
appalto pubblico per non aver depositato, unitamente alla
sua offerta, un'accettazione scritta degli impegni e delle
dichiarazioni contenuti in un protocollo di legalità, come
quello di cui trattasi nel procedimento principale,
finalizzato a contrastare le infiltrazioni della criminalità
organizzata nel settore degli appalti pubblici; tuttavia,
nei limiti in cui tale protocollo preveda dichiarazioni
secondo le quali il candidato o l'offerente non si trovi in
situazioni di controllo o di collegamento con altri
candidati o offerenti, non si sia accordato e non si
accorderà con altri partecipanti alla gara e non
subappalterà lavorazioni di alcun tipo ad altre imprese
partecipanti alla medesima procedura, l'assenza di siffatte
dichiarazioni non può comportare l'esclusione automatica del
candidato o dell'offerente da detta procedura”;
m) sul c.d. subappalto necessario cfr. Cons.
Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9 (in Foro it., 2016, III,
65, con nota di CONDORELLI; Contratti Stato e enti pubbl.,
2015, fasc. 4, 87, con nota di VESPIGNANI; Urbanistica e
appalti, 2016, 167, con nota di GASTALDO, LONGO, CANZONIERI;
Giornale dir. amm., 2016, 365 (m), con nota di GALLI, CAVINA;
Nuovo dir. amm., 2016, fasc. 3, 53, con nota di NARDOCCI),
che ha inteso risolvere il contrasto giurisprudenziale in
tema di subappalto necessario, escludendo dunque
l'obbligatorietà dell'indicazione del nominativo del
subappaltatore già in sede di presentazione dell'offerta,
anche "nell'ipotesi in cui il concorrente non possieda la
qualificazione nelle categorie scorporabili" previste
dall'art. 107, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010, che
disciplina i requisiti di partecipazione alla gara; cfr.
anche A. SENATORE, Il subappalto necessario nella
prospettiva evolutiva del d.leg. n. 50/2016 in Urbanistica e
appalti, 2017, 456;
n) sul riparto della competenza legislativa fra
Stato e regioni specie avuto riguardo al subappalto, Corte
cost., 17.12.2008, n. 411 (in Foro amm. CDS 2009, 5, 1192
con nota di CASALINI; Corriere giur., 2009, 640, con nota di
MUSOLINO; Urbanistica e appalti, 2009, 301, con nota di
CONTESSA) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
ordinanza 11.06.2018 n. 3553 - commento tratto da
e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi – Art. 34, c. 2 d.P.R. n. 380/2001 – Opere
realizzate senza titolo per ampliarne uno preesistente –
Inapplicabilità.
L’art. 34, comma 2, del testo unico sull’edilizia (in forza
del quale si applica la sanzione pecuniaria piuttosto che la
demolizione) presuppone che vengano in rilievo gli stessi
lavori edilizi posti in essere a seguito del rilascio del
titolo e in parziale difformità da esso e non è quindi
applicabile alle opere realizzate senza titolo per ampliarne
uno preesistente (Consiglio di Stato, sez. VI, 01/06/2016,
n. 2325) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 11.06.2018 n. 1321 -
link a
www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
La reiterazione di vincoli urbanistici
preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità
non richiede una motivazione specifica circa la destinazione
di zona delle singole aree (cd. motivazione polverizzata) ma
soltanto una motivazione circa le esigenze urbanistiche che
sono a fondamento della variante medesima.
---------------
Il primo motivo, nei limiti in cui è stato rivolto
avverso il difetto d’istruttoria e di motivazione della
delibera reiterativa del vincolo di inedificabilità (p.lla
186), è infondato.
Osserva, anzitutto, il collegio che alla luce del prevalente
orientamento del Giudice amministrativo la reiterazione di
vincoli urbanistici preordinati all'espropriazione o che
comportino l'inedificabilità non richiede una motivazione
specifica circa la destinazione di zona delle singole aree
(cd. motivazione polverizzata), ma soltanto una motivazione
circa le esigenze urbanistiche che sono a fondamento della
variante medesima (cfr. Consiglio di Stato Sez. V
12.05.2003, n. 2509; Sez. V 03.03.2003, n. 1172; Consiglio
di Stato ad. plen. 22.12.1999 n. 24) (TAR Lazio-Latina,
sentenza 09.06.2018 n. 343 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi ai sensi dell'articolo 33 della legge 104/1992 e ferie.
«La limitazione della computabilità (....) dei permessi di cui all'articolo
33, comma 3, della legge 05.02.1992, n. 104, in forza del richiamo
operato dal successivo comma 4 all'ultimo comma dell'articolo 7 della legge
30.12.1971, n. 1204 (abrogato dal Dlgs 26.03.2001, n. 151, che ne
ha tuttavia recepito il contenuto negli articoli 34 e 51), opera soltanto
nei casi in cui essi debbano cumularsi effettivamente con il congedo
parentale ordinario -che può determinare una significativa sospensione
della prestazione lavorativa- e con il congedo per malattia del figlio, per
i quali compete un'indennità inferiore alla retribuzione normale
(diversamente dall'indennità per i permessi ex lege n. 104 del 1992
commisurata all'intera retribuzione), risultando detta interpretazione
idonea ad evitare che l'incidenza sulla retribuzione possa essere di
aggravio della situazione dei congiunti del portatore di handicap e
disincentivare l'utilizzazione del permesso».
Questo il principio della Corte di Cassazione –Sez. VI civile– che
con l'ordinanza
06.06.2018 n. 14468, ha confermato la
legittimità della domanda avanzata da un lavoratore, diretta al
riconoscimento della illegittimità della decurtazione operata dal datore di
lavoro dei giorni di permesso fruiti ai sensi dell'articolo 33, comma 3,
della legge 104/1992 nel computo delle ferie
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.06.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rileva nel caso di specie l’art. 3, comma 1,
lett. f), del d.p.r. n. 380/2001 in virtù del quale va
qualificata come ristrutturazione urbanistica (e non
come sostituzione edilizia) l’opera che si risolva in una
modificazione del disegno dei lotti e/o degli isolati.
Invero, la demolizione di un edificio e la sua
ricostruzione, con ampliamento, in un’area ben distinta e
separata dal terreno originariamente edificato, imprime un
diverso assetto edilizio e una diversa conformazione dei due
lotti; nel caso di specie, inoltre, l’intervento edilizio
proposto comporta un collegamento con la viabilità pubblica
completamente diverso, in quanto l’opera progettata prevede
la traslazione da una zona affacciata su strada comunale ad
una zona prospiciente la strada provinciale, rendendo così
ancor più evidente la modifica del disegno dei lotti
interessati.
---------------
Il piano attuativo è legittimamente richiesto non solo per
le zone del tutto prive di opere di urbanizzazione, ma anche
in caso di urbanizzazioni che necessitino di un adeguamento
o di un potenziamento, ipotesi queste sussistenti per la
zona in questione, nella quale è pacifica la mancanza della
fognatura pubblica e del collegamento con la rete idrica.
Inoltre, la previsione del piano attuativo può essere
finalizzata ad assicurare un più incisivo controllo del
Comune sul nuovo disegno urbanistico dei lotti interessati
dalla demolizione e ricostruzione, in modo da verificarne il
coordinamento con l’assetto della zona ovvero ai fini
dell’inserimento ordinato delle nuove costruzioni
nell’ambito urbanistico circostante.
---------------
... per l'annullamento della nota del Dirigente del Servizio
Servizi alla Città – Ufficio Edilizia privata- del Comune di
Capannori prot. n. 5005 dell'11.07.2017 comunicata tramite
pec il 12.07.2017 e notificata in data 31.08.2017,
contenente: “Comunicazione di diniego al rilascio del
permesso di costruire” in relazione alla pratica
edilizia n. P2017/0053, con la quale la El. s.r.l. aveva
richiesto permesso di costruire per la demolizione e
ricostruzione di locali uffici a corredo di un'attività
commerciale posti in Capannori, località Lunata Via ... n.
14;
...
In data 20.4.2017 El. s.r.l. e il signor Pi.Gi. hanno
presentato al Comune di Capannori, quali proprietari,
domanda di permesso di costruire per la demolizione e
ricostruzione di uffici a corredo di un’attività
commerciale, relativamente a due piccoli edifici in località
Lunata, conformemente all’art. 22 del regolamento
urbanistico, il quale consente, tramite intervento diretto
ovvero tramite sostituzione edilizia, la demolizione e
ricostruzione di superfici inferiori a 600 metri quadrati.
Il Comune, con nota ex art. 10-bis della legge n. 241/1990,
preso atto che il progetto riguardava il recupero di
volumetrie esistenti con ampliamento per la costruzione di
uffici dell’attività commerciale esistente, ha evidenziato
che il nuovo edificio non risultava collegato a quelli già
esistenti facenti parte dell’attività commerciale, rendeva
necessaria una nuova viabilità di accesso e nuove opere di
urbanizzazione e comportava quindi una modificazione del
disegno dei lotti edificati e dell’isolato, così da
configurare una ristrutturazione urbanistica, sottoposta
all’obbligo della preventiva approvazione del piano
attuativo.
El. s.r.l. ha replicato che il previsto spostamento di un
edificio di 50 mq. all’interno del medesimo comparto
urbanistico non può ricadere nell’ambito di applicazione
della norma del regolamento urbanistico che, per gli
interventi sostitutivi del tessuto urbanistico edilizio,
prevede l’obbligo del preventivo piano attuativo.
Il Comune, con provvedimento dell’11.07.2017, ha respinto
l’istanza di permesso di costruire, sull’assunto che
l’intervento progettato costituiva non sostituzione edilizia
ma ristrutturazione urbanistica richiedente l’approvazione
di un piano attuativo.
...
Il ricorso è infondato.
I due edifici esistenti (uffici) ricadono in area
identificata al foglio 69, mappali 575 e 576, con accesso
dalla via comunale dei Pi.; il nuovo edificio sarà
realizzato ad una distanza di 300 metri dagli edifici
originari, su area inedificata con accesso da altra strada
(via provinciale Antonio Rossi), identificata al foglio 69
mappale 188: il lotto in cui i ricorrenti intendono
costruire il nuovo edificio non costituisce resede catastale
o pertinenza ai sensi dell’art. 25 del regolamento edilizio
(allegato n. 5 prodotto dall’Ente) ma consiste in un’altra
superficie fondiaria posta a 300 metri di distanza dal
manufatto originario (si veda la visuale satellitare
costituente il documento n. 13 depositato in giudizio dal
Comune).
Inoltre, l’area su cui è prevista la nuova costruzione è
priva di qualsiasi possibile collegamento viario interno con
il terreno su cui sorgono i locali da demolire, in quanto
tra i due lotti si interpongono la particella n. 309,
destinata a parcheggio pubblico e sottoposta a vincolo
espropriativo (art. 34 delle NTA del regolamento
urbanistico), e le particelle n. 1304 e 397, intestate a
terzi (si vedano la planimetria allegata all’istanza di
permesso di costruire, costituente il documento n. 1
allegato all’impugnativa, e il documento n. 9 depositato in
giudizio dal Comune).
Pertanto, il progetto presentato prevede una traslazione
della volumetria, con ampliamento, in un lotto distante (300
metri) dalla resede dell’edificio da demolire e scisso dal
lotto sede dell’edificio stesso.
Orbene, anche a prescindere dal restrittivo art. 25 del
regolamento edilizio (invocato dalla difesa del Comune),
secondo cui l’area di pertinenza non può estendersi oltre 50
metri dal fabbricato principale, rileva nel caso di specie
l’art. 3, comma 1 lett. f), del d.p.r. n. 380/2001 (recepito
dall’art. 10, comma 1, del regolamento urbanistico del
Comune di Capannori), in virtù del quale va qualificata come
ristrutturazione urbanistica (e non come sostituzione
edilizia) l’opera che si risolva in una modificazione del
disegno dei lotti e/o degli isolati.
Invero, la demolizione di un edificio e la sua
ricostruzione, con ampliamento, in un’area ben distinta e
separata dal terreno originariamente edificato, imprime un
diverso assetto edilizio e una diversa conformazione dei due
lotti; nel caso di specie, inoltre, l’intervento edilizio
proposto comporta un collegamento con la viabilità pubblica
completamente diverso, in quanto l’opera progettata prevede
la traslazione da una zona affacciata su strada comunale ad
una zona prospiciente la strada provinciale, rendendo così
ancor più evidente la modifica del disegno dei lotti
interessati.
Su tali premesse rileva l’art. 10, comma 2, del regolamento
urbanistico, che assoggetta a piano attuativo gli interventi
di ristrutturazione urbanistica.
Invero, il piano attuativo è legittimamente richiesto non
solo per le zone del tutto prive di opere di urbanizzazione,
ma anche in caso di urbanizzazioni che necessitino di un
adeguamento o di un potenziamento (ex multis: Cons.
Stato, IV, 27.03.2018, n. 1906), ipotesi queste sussistenti
per la zona in questione, nella quale è pacifica la mancanza
della fognatura pubblica e del collegamento con la rete
idrica (si veda la pagina 2 della memoria di replica
depositata in giudizio dai ricorrenti in data 30.04.2018).
Inoltre, la previsione del piano attuativo può essere
finalizzata ad assicurare un più incisivo controllo del
Comune sul nuovo disegno urbanistico dei lotti interessati
dalla demolizione e ricostruzione, in modo da verificarne il
coordinamento con l’assetto della zona ovvero ai fini
dell’inserimento ordinato delle nuove costruzioni
nell’ambito urbanistico circostante (Cons. Stato, V,
29.04.2000, n. 2562; TAR Toscana, I, 16.06.2014, n. 1042).
L’impugnato provvedimento dà contezza dell’iter logico posto
a supporto del diniego di rilascio del permesso di costruire
e degli elementi di fatto, ritenuti decisivi, che hanno
indotto l’Amministrazione a disattendere le osservazioni
presentate dalla parte interessata, cosicché risulta priva
di fondamento anche la censura incentrata sulla violazione
dell’art. 3 della legge n. 241/1990.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 06.06.2018 n. 808 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un titolo edilizio può essere rilasciato, anche
in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di
piano regolatore, solo se è stato accertato che il lotto del
richiedente è l'unico a non essere stato ancora edificato e
si trova in una zona che, oltre ad essere integralmente
interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard
urbanistici minimi prescritti.
E, comunque, anche in presenza di una zona già urbanizzata,
la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei
casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una
pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura
incompatibile con un piano attuativo, ma non anche
nell'ipotesi in cui, per effetto di una edificazione
disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che
esige un intervento idoneo a restituire efficienza
all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un
disegno urbanistico della zona, ad esempio, completando il
sistema della viabilità secondaria o integrando
l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli
standards minimi per spazi e servizi pubblici e le
condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue,
già asservite all'edificazione.
Ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione,
quale presupposto per il rilascio della concessione
edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con
il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di
potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e,
quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree
già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una
necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in
caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona
già edificata e urbanizzata.
---------------
11) Tanto premesso, il Collegio esaminati gli atti allegati
al ricorso e in particolare la planimetria dell’area, le
fotografie e la relazione tecnica di parte ritiene che
l’area in argomento allo stato non presenta gli elementi
caratteristici del lotto intercluso così come delineati
dalla giurisprudenza la quale sul punto spiega che “Un
titolo edilizio può essere rilasciato, anche in assenza del
piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore,
solo se è stato accertato che il lotto del richiedente è
l'unico a non essere stato ancora edificato e si trova in
una zona che, oltre ad essere integralmente interessata da
costruzioni, è anche dotata delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi
prescritti; e, comunque, anche in presenza di una zona già
urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è
esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in
presenza di una pressoché completa edificazione della zona,
sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, ma non
anche nell'ipotesi in cui, per effetto di una edificazione
disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che
esige un intervento idoneo a restituire efficienza
all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un
disegno urbanistico della zona, ad esempio, completando il
sistema della viabilità secondaria o integrando
l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli
standards minimi per spazi e servizi pubblici e le
condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue,
già asservite all'edificazione; ciò, in quanto l'esigenza di
un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio
della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo,
allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già
esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di
armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che
richiedano una necessaria pianificazione della maglia e
perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi
analoghi di zona già edificata e urbanizzata” (Consiglio
di Stato sez. IV 27.03.2018 n. 1906) (TAR Lazio-Latina,
sentenza 06.06.2018 n. 316 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Circa l’interpretazione dell’art. 97, comma 2,
lett. b), del d.lgs. n. 50 del 2016, il quale individua il
criterio di calcolo della soglia di anomalia,
l’interpretazione fatta propria da parte ricorrente, per la
quale per il calcolo della somma dei ribassi non vanno
considerate le offerte previamente escluse in virtù del
taglio delle ali, pur in un contesto di incertezza
interpretativa e giurisprudenziale, è stata però finora
condivisa dalla giurisprudenza maggioritaria, in particolare
in grado d’appello.
Il Collegio non nasconde come la norma in questione, nel
testo modificato dal d.lgs. n. 56 del 2017, ponga problemi
interpretativi, in quanto la necessità del taglio della ali
è specificata solo con riguardo alla media aritmetica dei
ribassi e non alla somma degli stessi.
Peraltro, per questioni di semplicità e logicità
dell’interpretazione della norma, nonché per favorire la
continuità e la stabilità dell’interpretazione alla luce
delle sentenze sopracitate, il Collegio ritiene di aderire
alla tesi proposta da parte ricorrente.
---------------
1 Il ricorso è fondato.
1.1 Infatti la controversia pone un’unica questione di
diritto, concernente l’interpretazione dell’art. 97, comma
2, lett. b), del d.lgs. n. 50 del 2016, il quale oggi
individua così il criterio di calcolo della soglia di
anomalia: “b) media aritmetica dei ribassi percentuali di
tutte le offerte ammesse, con esclusione del venti per cento
rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle
di minor ribasso arrotondato all'unità superiore, tenuto
conto che se la prima cifra dopo la virgola della somma dei
ribassi offerti dai concorrenti ammessi è pari ovvero uguale
a zero la media resta invariata; qualora invece la prima
cifra dopo la virgola, della somma dei ribassi offerti dai
concorrenti ammessi è dispari, la media viene decrementata
percentualmente di un valore pari a tale cifra.”
1.2 L’interpretazione fatta propria da parte ricorrente, per
la quale per il calcolo della somma dei ribassi non vanno
considerate le offerte previamente escluse in virtù del
taglio delle ali, pur in un contesto di incertezza
interpretativa e giurisprudenziale, è stata però finora
condivisa dalla giurisprudenza maggioritaria, in particolare
in grado d’appello. Sul punto devono essere citate le
sentenze del Consiglio di Stato 17.10.2017, n. 4803,
23.01.2018, n. 435 e, più recentemente, 17.05.2018, n. 2959,
menzionate dalle ricorrenti.
1.3 Il Collegio non nasconde come la norma in questione, nel
testo modificato dal d.lgs. n. 56 del 2017, ponga problemi
interpretativi, in quanto la necessità del taglio della ali
è specificata solo con riguardo alla media aritmetica dei
ribassi e non alla somma degli stessi.
1.4 Peraltro, per questioni di semplicità e logicità
dell’interpretazione della norma, nonché per favorire la
continuità e la stabilità dell’interpretazione alla luce
delle sentenze sopracitate, il Collegio ritiene di aderire
alla tesi proposta da parte ricorrente (si veda la medesima
posizione esposta sul punto dalla recentissima sentenza del
Tar Piemonte 09.05.2018 n. 568).
1.5 Il ricorso deve quindi essere accolto, con annullamento
del provvedimento impugnato. Il Collegio ritiene di non
prendere posizione in ordine all’eventuale applicazione del
cosiddetto “blocco unitario” (con riguardo ad offerte
identiche) -di cui alle Linee guida n. 4 di ANAC– e alle
relative conseguenze sull’aggiudicazione. Sul punto va
infatti rilevato che, come osserva la stessa
Amministrazione, le Linee guida n. 4 sono entrate in vigore
successivamente all’avvio della procedura di che trattasi
(07.04.2018) e non hanno carattere non vincolante (senza
considerare che nemmeno le ricorrenti ne hanno richiesto
l’applicazione).
2 La stazione appaltante dovrà quindi effettuare il
procedimento di calcolo dell’anomalia secondo l’orientamento
sopra ricordato, senza operare la reintroduzione delle
offerte espunte con il taglio delle ali (TAR Marche,
sentenza 05.06.2018 n. 418 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Fresato bituminoso - Limiti al
riutilizzo - Asportazione del manto stradale mediante
spandimento sul suolo e il compattamento - Esclusione -
Rifiuto speciale dal Codice Europeo dei Rifiuti (CER) -
Sottoprodotto - Utilizzo nello stesso ciclo di produzione,
senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito - Art.
256, comma 1, d.lgs. 152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di gestione dei rifiuti, la riutilizzabilità del
fresato bituminoso proveniente dalla asportazione del manto
stradale, non può essere consentita attraverso lo
spandimento sul suolo e il compattamento, in quanto pratiche
incompatibili con il riutilizzo del fresato bituminoso.
Inoltre, il fresato bituminoso è classificato come rifiuto
speciale dal Codice Europeo dei Rifiuti (CER) e può essere
trattato alla stregua di un sottoprodotto solo se venga
inserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato senza
nessun trattamento in un impianto che ne preveda l'utilizzo
nello stesso ciclo di produzione, senza operazioni di
stoccaggio a tempo indefinito (Consiglio di Stato, Sez. IV,
06/10/2014, n. 4978; id., Sez. IV, 21/05/2013, n.4151).
RIFIUTI - Spandimento dei rifiuti in
un'area vasta e loro compattamento - Stoccaggio di rifiuti -
Deposito temporaneo - Configurabilità - Esclusione.
Lo spandimento dei rifiuti in un'area vasta e del loro
compattamento, non può essere qualificato come stoccaggio di
rifiuti (o deposito temporaneo dei rifiuti nel luogo di
produzione in attesa del loro trasferimento in un impianto
di trattamento), in quanto attività, illogica e
antieconomica, incompatibili con il successivo trasporto in
altro luogo dei rifiuti (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 04.06.2018 n. 24865 -
link a
www.ambientediritto.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Equo compenso e Minimi tariffari liberi professionisti:
legittimi gli incarichi gratuiti.
Con l'ordinanza 04.06.2018 n. 14293 la Suprema Corte di
Cassazione -Sez. II civile- ha confermato che
essendo il
compenso spettante liberamente determinabile dalle parti, è
anche legittimo che il professionista possa rinunciarvi.
Abbiamo chiesto un commento di questa sentenza all'Arch.
Gi.Lo., Dirigente del Settore Urbanistica del Comune di
Catanzaro, che tutti ricorderanno per la vicenda del bando
per la redazione del Piano strutturale e del relativo
Regolamento Edilizio Urbanistico (REU) con importo a base di
gara pari a 1 euro e un rimborso spese (preventivamente
autorizzate ed effettivamente sostenute e documentate) nel
limite massimo di 250 mila euro.
Un bando che ha fatto molto chiacchierare (leggi articoli)
ma su cui nessuno ha potuto far nulla in quanto conforme
alla normativa in vigore che, precedentemente alla
pubblicazione del D.Lgs. n. 56/2017 (C.d. Decreto correttivo
al Codice dei contratti), lasciava le stazioni appaltanti
libere nella determinazione dell'importo da porre a base di
gara per l'affidamento degli incarichi di progettazione
(leggi articolo).
Possibilità che è stata eliminata dal decreto correttivo,
con il quale è stato previsto che i corrispettivi previsti
dal DM 17/06/2017 (c.d. decreto Parametri) devono essere
utilizzati dalle stazioni appaltanti quale criterio o base
di riferimento ai fini dell'individuazione dell'importo da
porre a base di gara per l'affidamento degli incarichi di
progettazione e le stazioni appaltanti mentre non possono
subordinare la corresponsione dei compensi all’ottenimento
del finanziamento dell’opera progettata non possono neanche
prevedere quale corrispettivo forme di sponsorizzazione o di
rimborso (21.06.2018 - tratto da e link a
www.lavoripubblici.it).
---------------
MASSIMA
1. - Con un unico motivo la società ricorrente
deduce la violazione e falsa applicazione della legge n. 340
del 1976, della legge n. 404 del 1977, articolo 6, degli
articoli 1339, 1418 e 2233 c.c., in quanto la corte
territoriale avrebbe errato nel ritenere che i minimi
tariffari relativi alla professione di architetto non
possano essere derogati con un accordo fra le parti; ciò
alla luce della circostanza che i detti minimi non sono
dettati per tutelare un interesse generale della
collettività e che l'ordinamento non prevede la sanzione
della nullità in caso di patti derogatori.
1.2. - Il motivo è fondato.
1.3. - Con specifico motivo di gravame, l'appellante In.
s.r.l. aveva lamentato che il giudice di primo grado, nel
riferirsi alla legge n. 340 del 1976 (che stabilisce che i
minimi di tariffa professionale degli ingegneri e degli
architetti sono inderogabili) avesse omesso di effettuare un
qualsiasi vaglio della giurisprudenza in materia.
Rilevava la società che le parti si erano accordate per il
compenso professionale al Moscatelli con l'atto di
affidamento dell'incarico allo stesso; e che solo al momento
della costituzione in giudizio il professionista aveva
disatteso gli accordi convenuti, reclamando un compenso
professionale assai superiore secondo tariffa, la quale
tuttavia è considerata dalla giurisprudenza come fonte
normativa residuale, applicabile ove non via sia pattuizione
tra le parti.
E quindi (continuava l'appellante) non potrebbe ritenersi
nullo, in carenza di una esplicita previsione in tal senso,
l'accordo elusivo del'obbligatorietà dei minimi inderogabili
delle tariffe professionali, che sono dettati nell'interesse
del decoro e della dignità delle singole categorie
professionali, sicché il momento derogatorio potrà semmai
essere adeguatamente tutelato in ambito disciplinare.
La Corte territoriale, in risposta a tale motivo, ha
osservato che la Corte di cassazione, con sentenza n. 6627
del 2012 ha respinto il ricorso presentato da un architetto
avverso la decisione con cui i giudici di merito non avevano
ritenuto operante, nel calcolo del compenso relativo ad un
incarico che lo stesso aveva ricevuto da parte di un ente
pubblico, il principio della inderogabilità dei minimi
tariffari tra il professionista ed il cliente, così
motivando: «l'inderogabilità dei limiti tariffari di
categoria stabiliti per i professionisti è circoscritta
dalla L. 01.07.1977, n. 404, art. 6 ai soli incarichi
professionali privati e non vale, pertanto, per gli
incarichi conferiti da enti pubblici, in quanto detta norma,
interpretando autenticamente la L. 05.05.1976, n. 340, art.
unico -che sancisce l'inderogabilità dei minimi delle
tariffe professionali degli ingegneri e degli architetti- ne
ha limitato l'applicazione ai rapporti intercorrenti tra
privati, con previsione che non viola l'art. 3 Cost., poiché
la derogabilità dei minimi tariffari prevista dall'art. 6
legge cit. riguarda anche i professionisti privati (Cass. n.
14187 del 27/06/2011; Cass. n. 21235 del 05/10/2009; Cass.
n. 18223 del 11/08/2009)».
E, poiché nel caso di specie si controverte in relazione ad
un incarico conferito non da un ante pubblico ma da un
privato, la Corte d'appello ha confermato la correttezza
della decisione di primo grado nel ritenere che la legge n.
340 del 1976 stabilisce che i minimi di tariffa
professionale degli ingegneri e degli architetti sono in
questi casi inderogabili.
1.4. - Costituisce principio largamente
consolidato nella giurisprudenza di legittimità,
dal quale il Collegio non intende discostarsi (di recente,
Cass. n. 21235 del 2013; cass. n. 1900 del 2017),
quello secondo il quale il compenso per prestazioni
professionali va determinato in base alla tariffa ed
adeguato all'importanza dell'opera, solo nel caso in cui
esso non sia stato liberamente pattuito, in quanto l'art.
2233 c.c. pone una garanzia di carattere preferenziale tra i
vari criteri di determinazione del compenso, attribuendo
rilevanza in primo luogo alla convenzione che sia
intervenuta fra le parti e poi, solo in mancanza di
quest'ultima, e in ordine successivo, alle tariffe e agli
usi e, infine, alla determinazione del giudice, mentre non
operano i criteri di cui all'art. 36 Cost., comma 1,
applicabili solo ai rapporti di lavoro subordinato.
La violazione dei precetti normativi che impongono
l'inderogabilità dei minimi tariffari non importa, secondo
il richiamato orientamento, la nullità, ex art. 1418 c.c.,
comma 1, del patto in deroga, in quanto trattasi di precetti
non riferibili ad un interesse generale, cioè dell'intera
collettività, ma solo ad un interesse della categoria
professionale
(Cass. n. 21235 del 2009; Cass. n. 17222 del 2011; Cass. n.
1900 del 2017).
A questa conclusione si giunge alla luce
dei principi espressi da questa Corte a sezioni unite
(Cass. sez. un. n. 18450 del 2005), che,
pur applicati in una fattispecie nella quale il committente
era una pubblica amministrazione, sono pienamente
applicabili anche nel caso in cui il committente sia un
soggetto privato.
Occorre premettere che l'articolo unico della legge n. 340
del 1976 stabiliva che i minimi di tariffa per gli onorari a
vacazione, a percentuale ed a quantità, fissati dalla legge
02.03.1949, n.143, o stabiliti secondo il disposto della
presente legge, sono inderogabili. L'inderogabilità non si
applica agli onorari a discrezione per le prestazioni di cui
all'articolo 5 del testo unico approvato con la citata legge
02.03.1949, n. 143. L'art. 6 L. 404 del 1977 ha poi
stabilito che "L'articolo unico della legge 05.05.1976,
n. 340, deve intendersi applicabile esclusivamente ai
rapporti intercorrenti tra privati".
Peraltro, nel richiamato precedente di questa Corte a
sezioni unite, si riafferma che, nella disciplina delle
professioni intellettuali, il contratto costituisce la fonte
principale per la determinazione del compenso, mentre la
relativa tariffa rappresenta una fonte sussidiaria e
suppletiva, alla quale è dato ricorrere, ai sensi dell'art.
2233 c.c., soltanto in assenza di pattuizioni al riguardo e
pertanto le limitazioni al potere di autonomia delle parti e
la prevalenza della liquidazione in base a tariffa possono
derivare soltanto da leggi formali o da altri atti aventi
forza di legge riguardanti gli ordinamenti professionali.
Il primato della fonte contrattuale impone di ritenere che
il compenso spettante al professionista, ancorché elemento
naturale del contratto di prestazione d'opera intellettuale,
sia liberamente determinabile dalle parti e possa anche
formare oggetto di rinuncia da parte del professionista,
salva resistenza di specifiche norme proibitive che,
limitando il potere di autonomia delle parti, rendano
indisponibile il diritto al compenso per la prestazione
professionale e vincolante la determinazione del compenso
stesso in base a tariffe.
Nella normativa concernente le professioni
di ingegnere ed architetto manca una disposizione espressa
diretta a sanzionare con la nullità eventuali clausole in
deroga alle tariffe e, sul piano logico, le norme
sull'inderogabilità dei minimi tariffari sono contemplate
non a tutela di un interesse generale della collettività ma
di un interesse di categoria, onde per una clausola che si
discosti da tale principio non è configurabile -in difetto
di un'espressa previsione normativa in tal senso- il ricorso
alla sanzione della nullità, dettata per tutelare la
violazione d'interessi generali.
Il principio d'inderogabilità è diretto ad
evitare che il professionista possa essere indotto a
prestare la propria opera a condizioni lesive della dignità
della professione (sicché la sua violazione, in determinate
circostanze, può assumere rilievo sul piano disciplinare),
ma non si traduce in una norma imperativa idonea a rendere
invalida qualsiasi pattuizione in deroga, allorché questa
sia stata valutata dalle parti nel quadro di una libera
ponderazione dei rispettivi interessi
(Cass. n. 15786 del 2013).
1.5. - Sulla base di tali principi, il motivo di ricorso va
accolto e la sentenza impugnata va cassata e rinviata ad
altra sezione della Corte d'appello di Genova, che
provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente
giudizio (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 04.06.2018 n. 14293). |
URBANISTICA:
L’obbligo della ripubblicazione del P.G.T.
adottato ricorre solo nel caso in cui le modifiche siano
tali da comportare un vero e proprio “stravolgimento dello
strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi
stessi criteri ispiratori, e non anche per variazioni di
dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto
originario, anche quando queste sono numerose sul piano
quantitativo ovvero incidono in modo intenso sulla
destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
---------------
2.2.3.1. Con il primo motivo, lamenta la violazione
degli artt. 13, comma 4, della l. r. n. 12/2005 e 9 e 10
della l. n. 241/1990 perché solo in sede di approvazione del
Piano il comune avrebbe imposto il vincolo conformativo:
- sulla “Casa dell’Accoglienza don Francesco Gariboldi”, di
cui al mappale 68 del foglio 5, classificandola come
servizio pubblico di interesse generale;
- sulla “Corte Maregnot”, di cui al mappale 68 del foglio 3,
prevedendone la esclusiva destinazione per gli usi di cui al
comma 10 dell’art. 13 (usi di interesse comune).
Assume parte ricorrente la conseguente violazione degli
oneri di pubblicità di cui all’art. 13, comma 4, della legge
regionale, che -al fine di consentire agli interessati di
presentare osservazioni- richiede il deposito degli atti di
P.G.T. nella segreteria comunale per un periodo continuativo
di trenta giorni, a pena di inefficacia degli stessi.
Deposito che, in parte qua, sarebbe mancato.
La censura non è condivisibile.
Come correttamente osservato dalla Difesa del Comune,
l’obbligo della ripubblicazione del P.G.T. adottato ricorre
solo nel caso in cui le modifiche siano tali da comportare
un vero e proprio “stravolgimento dello strumento
adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio
che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario,
anche quando queste sono numerose sul piano quantitativo
ovvero incidono in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree” (Consiglio di Stato sez.
IV 04.12.2013 n. 5769; Consiglio di Stato sez. IV 13.07.2010
n. 4546).
Stravolgimento che, con tutta evidenza, non ricorre nel caso
di specie.
Il primo motivo del ricorso principale, pertanto, è
infondato e va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.06.2018 n. 1417 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se gli interventi edilizi
ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, essi
sono soggetti alla previa acquisizione dell'autorizzazione
paesaggistica, con la conseguenza che, quand'anche si
trattasse di opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera
S.C.I.A./D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria
sarebbe doverosa se non è stata ottenuta la previa
autorizzazione paesistica.
In ogni caso, la presenza di opere che implichino una
stabile (benché non irreversibile) trasformazione del
territorio, preordinata a soddisfare esigenze non precarie,
rende necessario il rilascio di un idoneo titolo edilizio.
---------------
Pertanto, qualora l'entità del deposito dei materiali e la
stabilità dell'utilizzazione dell'area emergano con una
certa evidenza -come nel caso di specie, in cui si afferma
espressamente che l’utilizzo è risalente nel tempo– deve
comunque ritenersi realizzata una trasformazione permanente
dell'assetto edilizio del territorio, necessitante di
concessione edilizia
---------------
La giurisprudenza è ormai costante, infatti, nell’affermare
che, se gli interventi edilizi ricadano in zona assoggettata
a vincolo paesaggistico, essi sono soggetti alla previa
acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la
conseguenza che, quand'anche si trattasse di opere
pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera
S.C.I.A./D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria
sarebbe doverosa se non è stata ottenuta la previa
autorizzazione paesistica (cfr., sul punto, tra le tante, la
sentenza TAR Campania, Napoli, sez. VI, 20.04.2016, n.
1976, significativa di un orientamento costante da cui il
Collegio non ravvisa ragioni di discostarsi).
In ogni caso, la presenza di opere che implichino una
stabile (benché non irreversibile) trasformazione del
territorio, preordinata a soddisfare esigenze non precarie,
rende necessario il rilascio di un idoneo titolo edilizio.
Pertanto, qualora l'entità del deposito dei materiali e la
stabilità dell'utilizzazione dell'area emergano con una
certa evidenza -come nel caso di specie, in cui si afferma
espressamente che l’utilizzo è risalente nel tempo– deve
comunque ritenersi realizzata una trasformazione permanente
dell'assetto edilizio del territorio, necessitante di
concessione edilizia (in tal senso cfr. TAR Piemonte, Sez.
I, n. 891, del 12.07.2013) (TAR Lomabrdia-Brescia, Sez.
II,
sentenza 04.06.2018 n. 539 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Straordinario pagabile solo se autorizzato.
La III Sez. Consiglio di Stato mette la parola fine alla
possibilità di retribuire il lavoro straordinario in assenza
di autorizzazione.
Con la
sentenza 01.06.2018 n. 3322 afferma che
nel rapporto di pubblico impiego si applica la
regola che condiziona in via di principio il lavoro
straordinario all’autorizzazione preventiva e formale,
considerata essenziale per l’attuazione dei principi di
legalità, imparzialità e buon andamento.
La vicenda riguarda il pagamento di somme per ore di lavoro
straordinario effettuate da alcuni militari, il cui rapporto
di lavoro non è stato “contrattualizzato” per cui le
controversie restano al giudice amministrativo. Le somme
sono state in un primo tempo riconosciute grazie a un
decreto ingiuntivo, impugnato dal ministero dell’Economia e
revocato dal Tar con sentenza del 2008, ritenendo infondata
la loro pretesa di fronte al fatto che il servizio
straordinario non era stato autorizzato e che quindi
avrebbero dovuto essere risarciti per le prestazioni
eccedenti mediante riposi compensativi.
I militari hanno impugnato la sentenza Netta la chiusura dei
giudici dell’appello, secondo i quali la retribuibilità del
lavoro straordinario è in via di principio condizionata
all’autorizzazione.
Il corrispettivo per lo straordinario motivato da esigenze
urgenti ed indifferibili può essere individuato, «previa
adeguata informazione», non solo nella retribuzione per
straordinario ma anche nella maturazione di riposi
compensativi corrispondenti alle ore di lavoro
effettivamente prestate.
Soluzione che, secondo i giudici di Palazzo Spada,
contempera le esigenze personali del dipendente e quelle
degli uffici.
Interessante la postilla. A detta della terza sezione, non
possono ritenersi legittime le eventuali disposizioni
interne che pretendano di condizionare il diritto ai riposi
compensativi a formali richieste da parte del singolo
interessato, da prodursi in tempi e secondo procedure
fissate unilateralmente dall’amministrazione, il cui mancato
rispetto produrrebbe la perdita del beneficio.
Spetta all’amministrazione, che autorizza le prestazioni
svolte in eccedenza e per questo conosce i dati ma anche le
esigenze del servizio, esercitare il potere-dovere di
riconoscere d’ufficio i turni di riposo compensativi anche
in assenza di una specifica istanza del dipendente (articolo
Il Sole 24 Ore dell'11.06.2018).
---------------
MASSIMA
L’appello non è fondato e va pertanto respinto, con
integrale conferma della gravata sentenza.
La Giurisprudenza della Sezione –cfr. per un efficace e
condivisibile compendio IV Sez. n. 3423 del 2017– ha infatti
chiarito che:
- “anche nel rapporto di pubblico impiego dei
militari della Guardia di finanza trova applicazione la
regola per la quale la retribuibilità del lavoro
straordinario è in via di principio condizionata
all'esistenza di una previa e formale autorizzazione allo
svolgimento di prestazioni eccedenti l'ordinario orario di
lavoro, la quale svolge una pluralità di funzioni, tutte
riferibili alla concreta attuazione dei principi di
legalità, imparzialità e buon andamento cui, ai sensi
dell'art. 97 Cost., deve essere improntata l'azione della
p.a., anche militare”
(Cons. Stato, sez. IV,
26.02.2013 n. 1186; Id, 26.03.2012 n. 1749);
- “deve escludersi che l'Amministrazione
sia di norma tenuta a pagare le ore di lavoro straordinario
prestate in eccedenza al limite massimo previsto dal monte
ore autorizzato e senza che risulti comprovata l'effettiva
autorizzazione preventiva a svolgere il lavoro extra orario:
per questo genere di prestazioni eccedenti infatti il
militare ha solo il diritto eventualmente a fruire di
corrispondenti riposi compensativi”
(Cons. Stato, sez. IV,
n. 1186/2013 cit.);
- "in presenza di esigenze urgenti ed
indifferibili, non può discutersi che il militare della
Guardia di finanza, cui sia stato ordinato lo svolgimento di
prestazioni lavorative eccedenti l'ordinario orario di
lavoro, abbia sempre diritto al corrispettivo dell'attività;
tale corrispettivo, peraltro, è da individuare, previa
adeguata informazione, non solo nella relativa retribuzione,
per prestazioni nel limite del "monte ore" per il quale
esiste copertura finanziaria, ma anche, in caso diverso,
nella maturazione di riposi compensativi corrispondenti alle
ore di lavoro effettivamente prestate, da fruirsi
compatibilmente con le esigenze di servizio, contemperandosi
ragionevolmente ed equamente -in tal modo- le esigenze
personali del dipendente e quelle dell'organizzazione del
lavoro e degli uffici, precisandosi altresì che “non possono
ritenersi legittime quelle eventuali disposizioni (di natura
regolamentare o provvedimentale) che pretendano di
condizionare il diritto ai predetti riposi compensativi ad
apposite, formali richieste del singolo interessato, da
prodursi in tempi e secondo procedure fissate
unilateralmente dall'Amministrazione militare, il cui
mancato rispetto produrrebbe la perdita del beneficio stesso”
(Cons. Stato, sez. IV, 12.05.2008 n. 2170).
Su tale ultimo aspetto si è altresì affermato che
il diritto al riposo compensativo per le ore di
straordinario effettuate in eccedenza “corrispondendo ad
un dovere organizzativo dell'amministrazione, era in effetti
subordinato ad un'istanza del dipendente, richiesta
dall'art. 44 del citato Regolamento ... è però da osservare
sul punto che l'art. 28 del D.P.R. n. 170 del 2007, norma
sopravvenuta al regolamento, accolla all'amministrazione il
dovere di cui si tratta tenendo presenti le richieste del
personale (presentate nel corso del procedimento di
organizzazione dei turni), ma non sembra configurare la
domanda come una "conditio sine qua non" per l'esercizio del
diritto al riposo compensativo; l'art. 28 sembra quindi
avere una portata innovativa sul punto ed un senso riduttivo
della portata della norma precedente. Pertanto, in assenza
di domande di turnazione e considerato che l'amministrazione
è necessariamente a conoscenza dei dati inerenti le
prestazioni svolte in eccedenza (come delle esigenze del
servizio), essa permane nel potere-dovere di riconoscere
d'ufficio i turni di riposo compensativi anche in assenza di
una specifica istanza del dipendente.”
Sulla scorta delle considerazioni che precedono la pretesa
degli appellanti di ottenere il pagamento a titolo di lavoro
straordinario delle ore lavorative prestate in eccedenza
rispetto al normale orario risulta infondata. |
APPALTI:
Sopralluogo – Attestazione rilasciata dalla
stazione appaltante – Irregolarità o incompletezza –
Offerente incolpevole.
Eventuali irregolarità o incompletezze della certificazione
rilasciata dalla stazione appaltante, per attestare
l’avvenuto sopralluogo e da inserire nel plico contenente
l’offerta (per essere poi esibita al seggio di gara), non
possono andare a discapito dell’offerente incolpevole (cfr.
TAR Marche, 31/10/2017 n. 829) (TAR Marche,
sentenza 30.05.2018 n. 397 -
link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Contribuzione
sull'indennità sostitutiva per ferie non godute.
La Corte di Cassazione -civile, sez. lavoro- con
ordinanza
29.05.2018 n. 13473 ha affermato che l'indennità sostitutiva di
ferie non godute è assoggettabile a contribuzione previdenziale a norma
dell'articolo 12 della legge 153/1969, sia perché, essendo in rapporto di
corrispettività con le prestazioni lavorative effettuate nel periodo di
tempo che avrebbe dovuto essere dedicato al riposo, ha carattere retributivo
e gode della garanzia prestata dall'articolo 2126 del codice civile, a
favore delle prestazioni effettuate con violazione di norme poste a tutela
del lavoratore, sia perché un eventuale suo concorrente profilo risarcitorio
-oggi pur escluso dal sopravvenuto articolo 10 del Dlgs 66/2003, come
modificato dal Dlgs 213/2004, in attuazione della direttiva n. 93/104/Ce-
non escluderebbe la riconducibilità all'ampia nozione di retribuzione
imponibile delineata dal citato articolo 12, costituendo essa comunque
un'attribuzione patrimoniale riconosciuta a favore del lavoratore in
dipendenza del rapporto di lavoro e non essendo ricompresa nella elencazione
tassativa delle erogazioni escluse dalla contribuzione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.06.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno
natura urgente e strettamente vincolata, essendo dovuti in
assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del
territorio, con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del
soggetto destinatario; pertanto, tali atti non necessitano
della comunicazione di avvio del procedimento di cui
all'art. 7 L. n. 241/1990.
E', quindi, legittima l'ordinanza di demolizione di un'opera
abusiva che non sia stata preceduta da siffatta
comunicazione, posto che, da un lato, l'obbligo di
comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività
vincolata e, dall'altro, ai sensi dell'art. 21-octies, comma
2, l. n. 241 del 1990, l'omissione della comunicazione di
avvio del procedimento, laddove la si considerasse al
contrario dovuta, non comporta conseguenze nel caso in cui
il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
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3.- Infondato è il primo motivo.
Secondo costante e condivisa giurisprudenza, anche di questa
Sezione, gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno
natura urgente e strettamente vincolata, essendo dovuti in
assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del
territorio, con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del
soggetto destinatario; pertanto, tali atti non necessitano
della comunicazione di avvio del procedimento di cui
all'art. 7 L. n. 241/1990.
E', quindi, legittima l'ordinanza
di demolizione di un'opera abusiva che non sia stata
preceduta da siffatta comunicazione, posto che, da un lato,
l'obbligo di comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi
di attività vincolata e, dall'altro, ai sensi dell'art.
21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990, l'omissione della
comunicazione di avvio del procedimento, laddove la si
considerasse al contrario dovuta, non comporta conseguenze
nel caso in cui il contenuto dispositivo del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 28.09.2017, n. 4533; questa Sezione,
01.02.2018, n. 708;
idem, 10.01.2015, n. 107; Tar Napoli, sez. IV; 03.05.2017, n. 2320) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 29.05.2018 n. 3537 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non è prospettabile una
valutazione atomistica degli interventi edilizi compiuti,
allorché gli stessi facciano parte di un disegno
sostanzialmente unitario di realizzazione di una determinata
complessiva opera, risultante priva di titolo.
Ne consegue che non è ammissibile una loro valutazione
astratta e separata, dovendo al contrario condursi
un’analisi unitaria, sintetica e complessiva, in quanto ogni
manufatto è parte di un più ampio quadro di illecito
sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo
regime giuridico di illegittimità.
---------------
5.- Infondati sono il quarto e l’ottavo motivo che, per
ragioni di connessione argomentativa, sono trattati
congiuntamente.
5.1.- Parte delle opere contestate hanno prodotto innegabili
aumenti planivolumetrici, con incremento del carico
urbanistico, per i quali sono stati necessari interventi di
nuova costruzione che, ai sensi dell’art. 10 d.p.r.
380/2001, avrebbero richiesto il permesso di costruire.
Riguardo alle opere indicate alle lettere C, D ed E,
trattandosi rispettivamente di una tenda telescopica, di una
tettoia e della veranda, il ricorrente, nel negare la
produzione di nuovi volumi e superfici, fa valere per le
prime due il carattere intrinsecamente temporaneo, con
conseguente abnormità del richiamo all’art. 27 d.p.r.
380/2001; per la terza, la natura di pertinenza ovvero, in
ogni caso, di volume tecnico.
5.2.- Come a più riprese affermato da questa Sezione, non è
prospettabile una valutazione atomistica degli interventi
edilizi compiuti, allorché gli stessi facciano parte di un
disegno sostanzialmente unitario di realizzazione di una
determinata complessiva opera, risultante priva di titolo.
Ne consegue che non è ammissibile una loro valutazione
astratta e separata, dovendo al contrario condursi
un’analisi unitaria, sintetica e complessiva, in quanto ogni
manufatto è parte di un più ampio quadro di illecito
sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo
regime giuridico di illegittimità (cfr. di recente, per
tutte, la sentenza dell’11.01.2018 n. 194).
Riguardo alle opere interne, non può sostenersi la necessità
di una loro valutazione separata in quanto tali, posto che
le stesse potrebbero essere assentite solamente se
riguardanti un immobile legittimamente edificato (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 29.05.2018 n. 3537 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Riguardo alla nozione di pertinenza, questa richiede un
oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa
accessoria e quella principale (sicché la prima non è
suscettibile di autonoma e separata utilizzazione),
sempreché l’opera secondaria non comporti alcun maggiore
carico urbanistico ed un apprezzabile aumento di volumetria,
incidente anche sulla protezione dei luoghi accordata dalla
tutela paesaggistica.
Invero, per un’analoga
struttura consistente in una veranda, è stato precisato che:
“l’installazione di un veranda chiusa è senza dubbio una
trasformazione edilizia produttiva che aggrava il carico
urbanistico, con una modificazione altresì della sagoma e
del prospetto dell’edificio, in zona vincolata, comportante,
con tutta evidenza, degli aumenti di volumetria non
irrilevanti che, oltre ad escludere il rapporto pertinenziale, risultano ostativi al rilascio in via postuma
della compatibilità paesaggistica, ai sensi dell’art. 167,
co. 4, e dell’art. 146, co. 4, del d.lgs. n. 42 del 2004”.
---------------
5.- Infondati sono il quarto e l’ottavo motivo che, per
ragioni di connessione argomentativa, sono trattati
congiuntamente.
...
Riguardo alla nozione di pertinenza, questa richiede un
oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa
accessoria e quella principale (sicché la prima non è
suscettibile di autonoma e separata utilizzazione),
sempreché l’opera secondaria non comporti alcun maggiore
carico urbanistico ed un apprezzabile aumento di volumetria,
incidente anche sulla protezione dei luoghi accordata dalla
tutela paesaggistica (cfr., da ultimo, la sentenza della
Sezione del 03.05.2017 n. 2381 che, per un’analoga
struttura consistente in una veranda, ha precisato che:
“l’installazione di un veranda chiusa è senza dubbio una
trasformazione edilizia produttiva che aggrava il carico
urbanistico, con una modificazione altresì della sagoma e
del prospetto dell’edificio, in zona vincolata, comportante,
con tutta evidenza, degli aumenti di volumetria non
irrilevanti che, oltre ad escludere il rapporto pertinenziale, risultano ostativi al rilascio in via postuma
della compatibilità paesaggistica, ai sensi dell’art. 167,
co. 4, e dell’art. 146, co. 4, del d.lgs. n. 42 del 2004”) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 29.05.2018 n. 3537 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per le opere abusive che non hanno prodotto
volumi, va osservato che l’art. 27 del D.P.R. n. 380/2001
opera nei territori assoggettati a speciale protezione con
il vincolo di tutela paesaggistica.
In questa ipotesi, la giurisprudenza ha elaborato un
principio di indifferenza del titolo edilizio necessario
all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando
la legittimità dell’esercizio del potere repressivo anche in
caso di opere soggette a mera d.i.a.,
questo perché a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più
idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in
zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva
è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta
carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi del
menzionato art. 27, comma 2, d.p.r. 380/2001 deve essere
sanzionato.
La norma citata riconosce, infatti, all’amministrazione
comunale un generale potere di vigilanza e controllo
sull’intera attività urbanistica ed edilizia, imponendo
l'adozione di provvedimenti di demolizione qualora siano
realizzate in zone vincolate opere prive dei relativi titoli
abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata
dall’intervento edilizio non autorizzato. Ciò mediante
l’esercizio di un potere-dovere privo di margini di
discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi
accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere
assentibili con D.I.A. (ora SCIA), prive di autorizzazione
paesaggistica.
---------------
5.- Infondati sono il quarto e l’ottavo motivo che, per
ragioni di connessione argomentativa, sono trattati
congiuntamente.
...
5.3.- Per le opere abusive che non hanno prodotto volumi, va
osservato che l’art. 27 del D.P.R. n. 380 del 2001 opera nei
territori assoggettati a speciale protezione con il vincolo
di tutela paesaggistica (in cui è compreso il Comune di
Torre del Greco).
In questa ipotesi, la giurisprudenza ha elaborato un
principio di indifferenza del titolo edilizio necessario
all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando
la legittimità dell’esercizio del potere repressivo anche in
caso di opere soggette a mera d.i.a. (cfr. la sentenza della
Sez. VI di questo Tribunale del 26.03.2015 n. 1815),
questo perché a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più
idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in
zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva
è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta
carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi del
menzionato art. 27, comma 2, d.p.r. 380/2001 deve essere
sanzionato.
La norma citata riconosce, infatti,
all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza
e controllo sull’intera attività urbanistica ed edilizia,
imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione qualora
siano realizzate in zone vincolate opere prive dei relativi
titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità
violata dall’intervento edilizio non autorizzato. Ciò
mediante l’esercizio di un potere-dovere privo di margini di
discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi
accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere
assentibili con D.I.A. (ora SCIA), prive di autorizzazione
paesaggistica (cfr., le sentenze di questa Sezione: 08.01.2016 n. 17 e 25.10.2017, n. 5015, con ulteriori
richiami) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 29.05.2018 n. 3537 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L’applicazione doverosa e vincolata della
sanzione edilizia deriva unicamente dalla rilevazione di un
intervento effettuato privo della preventiva acquisizione
del prescritto titolo abilitativo, senza che possa rilevare
la conformità urbanistica o meno delle opere realizzate, la
quale può interessare soltanto ai fini della loro eventuale
sanatoria, richiesta dall’interessato.
---------------
Ai sensi dell'art. 36 d.p.r. n. 380/2001, ove il Comune non
si pronunci espressamente entro il termine di sessanta
giorni dal ricevimento dell’istanza di accertamento di
conformità, la stessa s'intende respinta. Sull’istanza si
forma infatti una fattispecie tipica, prevista dal
legislatore, di silenzio-diniego che dev’essere impugnato
mediante la proposizione di motivi aggiunti o ricorso
autonomo.
Il silenzio-diniego può infatti essere oggetto di azione
giurisdizionale di annullamento, alla stregua di un
provvedimento esplicito, con la differenza però che il
diniego, in quanto tacito, non è censurabile per difetto di
motivazione, di cui è strutturalmente carente per previsione
legislativa, ma solo per il suo contenuto di rigetto.
Ugualmente, del silenzio-diniego non sono censurabili gli
altri difetti formali propri degli atti, quali i vizi del
procedimento, la mancanza di pareri o del preavviso dei
motivi ostativi all’accoglimento.
Infatti, la stessa previsione normativa del silenzio-diniego
è giustificabile ove si consideri che l’accertamento di
conformità, come evidenziato da costante giurisprudenza, è
diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in
quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo ma
conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica
applicabile per l’area su cui sorgono, vigente al momento
sia della loro realizzazione sia della presentazione
dell’istanza di conformità (c.d. “doppia conformità”).
Il provvedimento di sanatoria assume, dunque, una
connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di
apprezzamenti discrezionali, dovendo l’autorità procedente
valutare la conformità dell’opera alla normativa urbanistica
ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i segmenti
temporali considerati dalla norma.
---------------
Come chiarito, inoltre, da costante giurisprudenza, la
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità
non incide sulla legittimità dei provvedimenti demolitori in
precedenza emessi ma si limita solo a sospenderne
temporaneamente gli effetti sino alla definizione del
relativo procedimento, in ciò distinguendosi dagli speciali
procedimenti di condono edilizio; in altri termini,
l’efficacia della sanzione demolitoria resta soltanto
sospesa, ossia posta in uno stato di temporanea quiescenza.
Va del resto rifiutata una diversa soluzione interpretativa
che produrrebbe il paradossale vantaggio per il soggetto
destinatario del provvedimento di paralizzare ad libitum la
potestà amministrativa, determinando la definitiva
inefficacia di un provvedimento autoritativo, ogni qual
volta sia adottato, mediante la mera presentazione di
un’istanza.
---------------
Ne consegue che, a conclusione del procedimento di
sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di
demolizione resta privo di effetti, in ragione
dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina
urbanistica ed edilizia, con conseguente venire meno
dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata; al
contrario, in caso di rigetto dell’istanza, espresso o
tacito, l’ordine demolitorio acquista di nuovo la sua
originaria efficacia.
In quest’ultima ipotesi, il termine concesso per
l’esecuzione spontanea della demolizione dovrà decorrere dal
momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza
dell’interessato; costui, infatti, non può essere
pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge,
quale quella di chiedere la verifica postuma di conformità
urbanistica e, pertanto, ha diritto di fruire dell’intero
termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando
così le conseguenze negative connesse alla mancata
esecuzione dello stesso.
---------------
6.- Infondato è il
quinto motivo.
In primo luogo, non risulta presentata alcuna domanda di
accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 d.p.r.
380/2001.
In secondo luogo, come già chiarito nell’analisi dei motivi
di ricorso che precedono, l’applicazione doverosa e
vincolata della sanzione edilizia deriva unicamente dalla
rilevazione di un intervento effettuato privo della
preventiva acquisizione del prescritto titolo abilitativo,
senza che possa rilevare la conformità urbanistica o meno
delle opere realizzate, la quale può interessare soltanto ai
fini della loro eventuale sanatoria, richiesta
dall’interessato.
In ogni caso, le censure non considerano che, ai sensi del
menzionato art. 36 d.p.r. n. 380/2001, ove il Comune non si
pronunci espressamente entro il termine di sessanta giorni
dal ricevimento dell’istanza di accertamento di conformità,
la stessa s'intende respinta. Sull’istanza si forma infatti
una fattispecie tipica, prevista dal legislatore, di
silenzio-diniego che dev’essere impugnato mediante la
proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. III,
09.12.2014, n.
6425; Idem, n. 3386 del 08.07.2015), nessuno dei quali
risulta, allo stato, avanzato.
Il silenzio-diniego può infatti essere oggetto di azione
giurisdizionale di annullamento, alla stregua di un
provvedimento esplicito, con la differenza però che il
diniego, in quanto tacito, non è censurabile per difetto di
motivazione, di cui è strutturalmente carente per previsione
legislativa, ma solo per il suo contenuto di rigetto.
Ugualmente, del silenzio-diniego non sono censurabili gli
altri difetti formali propri degli atti, quali i vizi del
procedimento, la mancanza di pareri o del preavviso dei
motivi ostativi all’accoglimento (cfr. TAR Campania,
Napoli, sez. III, 22.08.2016, n. 4088).
Infatti, la stessa previsione normativa del silenzio-diniego
è giustificabile ove si consideri che l’accertamento di
conformità, come evidenziato da costante giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato sez. IV,
05.05.2017 n. 2063),
alla quale questa Sezione si è più volte conformata (cfr. ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. III,
05.09.2017,
n. 4249), è diretto a sanare le opere solo formalmente
abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del
titolo ma conformi nella sostanza alla disciplina
urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono, vigente
al momento sia della loro realizzazione sia della
presentazione dell’istanza di conformità (c.d. “doppia
conformità”).
Il provvedimento di sanatoria assume, dunque, una
connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di
apprezzamenti discrezionali, dovendo l’autorità procedente
valutare la conformità dell’opera alla normativa urbanistica
ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i segmenti
temporali considerati dalla norma (ex multis, cfr. TAR
Campania, Napoli, sez. III, 24.10.2017, n. 4940).
Come chiarito, inoltre, da costante giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, sez. VI,
02.02.2015, n. 466), la
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità
non incide sulla legittimità dei provvedimenti demolitori in
precedenza emessi ma si limita solo a sospenderne
temporaneamente gli effetti sino alla definizione del
relativo procedimento, in ciò distinguendosi dagli speciali
procedimenti di condono edilizio; in altri termini,
l’efficacia della sanzione demolitoria resta soltanto
sospesa, ossia posta in uno stato di temporanea quiescenza.
Va del resto rifiutata una diversa soluzione interpretativa
che produrrebbe il paradossale vantaggio per il soggetto
destinatario del provvedimento di paralizzare ad libitum la
potestà amministrativa, determinando la definitiva
inefficacia di un provvedimento autoritativo, ogni qual
volta sia adottato, mediante la mera presentazione di
un’istanza (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 05.09.2017, n. 4251).
Ne consegue che, a conclusione del procedimento di
sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di
demolizione resta privo di effetti, in ragione
dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina
urbanistica ed edilizia, con conseguente venire meno
dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata; al
contrario, in caso di rigetto dell’istanza, espresso o
tacito, l’ordine demolitorio acquista di nuovo la sua
originaria efficacia.
In quest’ultima ipotesi, il termine concesso per
l’esecuzione spontanea della demolizione dovrà decorrere dal
momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza
dell’interessato; costui, infatti, non può essere
pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge,
quale quella di chiedere la verifica postuma di conformità
urbanistica e, pertanto, ha diritto di fruire dell’intero
termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando
così le conseguenze negative connesse alla mancata
esecuzione dello stesso (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III,
06.04.2017, n. 1891)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 29.05.2018 n. 3537 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Secondo costante e condivisa giurisprudenza non
occorre una motivazione rafforzata sull’interesse pubblico
alla demolizione di opere, anche laddove queste siano
esistenti da tempo.
Per la legittimità dell’ordine di demolizione è sufficiente
l’enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto
rilevanti ai fini della individuazione della fattispecie di
illecito e dell’applicazione della corrispondente misura
sanzionatoria prevista dalla legge.
Il decorso del tempo, di norma, non comporta l’estinzione
del potere repressivo dell’attività edilizia abusiva, che
concretizza un illecito con effetti permanenti, atteso il
preminente interesse generale al corretto ed ordinato uso
del territorio.
Ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo
e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire
anche a notevole distanza di tempo dalla commissione
dell'abuso, senza che la distanza temporale nell'adozione
delle misure sanzionatorie possa significare forme di
sanatoria o il sorgere di affidamenti per situazioni ormai
di fatto consolidate.
L'ordinamento tutela, infatti, l'affidamento solo se
incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si
concretizza in una attività volontaria del responsabile
contra legem, quindi non tollerabile per l’ordinamento. In
altri termini, non può ammettersi un affidamento meritevole
di tutela alla conservazione di una situazione illegale.
Colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del
fatto che l'amministrazione, nel restare inerte, lo abbia in
un certo modo avvantaggiato, adottando soltanto a notevole
distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell'abuso non
sanabile.
---------------
La presenza del vincolo paesaggistico sul territorio
comunale impone all’amministrazione l’adozione dei
provvedimenti sanzionatori di cui all’art. 27 d.p.r.
380/2001, esistendo l’esigenza della massima protezione del
valore paesaggio tutelato la quale può essere raggiunta solo
con la rimozione degli abusi compiuti e il ripristino della
situazione preesistente.
---------------
7.- Infondati sono anche il
sesto ed il settimo motivo, da
trattare congiuntamente in relazione ai profili di
connessione argomentativa negli stessi presenti.
7.1.- Secondo costante e condivisa giurisprudenza non
occorre una motivazione rafforzata sull’interesse pubblico
alla demolizione di opere, anche laddove queste siano
esistenti da tempo.
Per la legittimità dell’ordine di demolizione è sufficiente
l’enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto
rilevanti ai fini della individuazione della fattispecie di
illecito e dell’applicazione della corrispondente misura
sanzionatoria prevista dalla legge (cfr. questa Sezione, 02.01.2018, n. 5).
Il decorso del tempo, di norma, non comporta l’estinzione
del potere repressivo dell’attività edilizia abusiva, che
concretizza un illecito con effetti permanenti, atteso il
preminente interesse generale al corretto ed ordinato uso
del territorio (cfr. la citata sentenza dell’Adunanza
Plenaria n. 9 del 2017 e, di recente, la sentenza della
Sezione del 28.08.2017 n. 4146). Ne consegue che
l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione
della relativa sanzione può intervenire anche a notevole
distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che la
distanza temporale nell'adozione delle misure sanzionatorie
possa significare forme di sanatoria o il sorgere di
affidamenti per situazioni ormai di fatto consolidate (cfr.
per tutte Cons. Stato sentenze nn. 1070/2017; 1774/2016;
4880/2015; 4892/2014; 5943/2013).
L'ordinamento tutela, infatti, l'affidamento solo se
incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si
concretizza in una attività volontaria del responsabile
contra legem, quindi non tollerabile per l’ordinamento. In
altri termini, non può ammettersi un affidamento meritevole
di tutela alla conservazione di una situazione illegale.
Colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del
fatto che l'amministrazione, nel restare inerte, lo abbia in
un certo modo avvantaggiato, adottando soltanto a notevole
distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell'abuso non
sanabile.
7.2.- Il ricorrente contesta infine con il settimo motivo la
sanzione della demolizione perché l’eventuale abuso
ricadrebbe in zona territoriale B5 ed in zona Satura interna
del PTP, con conseguente non sottoposizione a vincolo d’inedificabilità
assoluta.
La censura non ha fondamento.
Come sopra chiarito, la
presenza del vincolo paesaggistico sul territorio comunale
impone all’amministrazione l’adozione dei provvedimenti
sanzionatori di cui all’art. 27 d.p.r. 380/2001, esistendo
l’esigenza della massima protezione del valore paesaggio
tutelato la quale può essere raggiunta solo con la rimozione
degli abusi compiuti e il ripristino della situazione
preesistente.
Va ricordato che, in presenza di abusi in zona sottoposta a
vincolo paesaggistico, l’art. 167, comma 4, lett. a), d.lgs.
42/2004 ammette l’autorizzazione paesaggistica postuma a
condizione che “i lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, … non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di
quelli legittimamente realizzati”.
L’autorizzazione
paesaggistica costituisce uno dei presupposti per la
conformità edilizio-urbanistica, il che rende non
sostenibili gli assunti del ricorrente in ordine alla
compatibilità delle diverse opere effettuate abusivamente
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 29.05.2018 n. 3537 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Fibre d’amianto - Operazioni di
demolizione di un fabbricato - Ignoranza della presenza di
amianto nei rifiuti - Obbligo supplementare di diligenza,
monitoraggio e controllo - Artt. 256 e 259 d.Lgs. 152/2006 -
SICUREZZA SUL LAVORO - Tutela della salute dei lavoratori -
Accorgimento tecnico-preventivo - Art. 262, comma 2, d.Lgs.
81/2008.
Pur ipotizzandosi una ragionevole ignoranza della presenza
di fibre d’amianto prima dell'inizio dei lavori di
demolizione edilizie e relativo smaltimento dei rifiuti,
deve ritenersi che, una volta avviati i lavori, il soggetto
che vi abbia partecipato o che abbia diretto le operazioni
sia in grado di rendersi conto del pericolo in corso e di
gestire tali rifiuti secondo le prescrizioni di legge.
Pertanto, fuori da tali prescrizioni, per i lavori di
demolizione di un manufatto con presenza di fibre d’amianto
e rimozione dei rifiuti sono configurabile le fattispecie
dei reati, di cui agli art. 256, comma 1, 2 e 5, d.Lgs.
152/2006 e 262, comma 2, d.Lgs. 81/2008, di trasporto non
autorizzato di rifiuti pericolosi e omessa adozione delle
misure preventive a tutela della salute dei lavoratori
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.05.2018 n. 23864 -
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APPALTI:
Suddivisione in lotti funzionali – Deroga –
Adeguata motivazione.
Le stazioni
appaltanti devono, ove possibile ed economicamente
conveniente, suddividere gli appalti in lotti funzionali al
fine di favorire l'accesso delle piccole e medie imprese;
nella determina a contrarre, le P.A. medesime devono
indicare la motivazione circa la mancata suddivisione
dell'appalto in lotti.
Il principio della suddivisione in lotti può dunque essere
derogato, seppur attraverso una decisione che deve essere
adeguatamente motivata (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI,
12.09.2014, n. 4669) ed è espressione di scelta
discrezionale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 16.03.2016,
n. 1081), sindacabile soltanto nei limiti della
ragionevolezza e proporzionalità, oltre che dell’adeguatezza
dell’istruttoria (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 28.05.2018 n. 1202 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio ricorda che:
a) atteso che, in base all'art. 11, comma
primo, del t.u. edilizia, il permesso di costruire è
rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia
titolo per richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere
il rilascio di un titolo abilitativo edilizio si configura
in capo non solo al proprietario del terreno, ma pure al
soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo,
che lo autorizzi a disporne al riguardo;
b) v'è il contestuale onere della P.A. di accertare con
serietà e rigore siffatta legittimazione a chiedere il
titolo edilizio, dovendo pertanto la P.A. accertare che
l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria.
Ciò premesso, al fine di dimostrare la proprietà del
muro in questione, alcuna rilevanza può essere attribuita,
come correttamente ritenuto dall’amministrazione procedente,
alla dichiarazione sostitutiva di atto notorio presentata,
ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. 28.12.2000, n. 445,
dal ricorrente nel corso del procedimento dinanzi al Comune
di Andria.
Al riguardo è costante la giurisprudenza del Consiglio di
Stato nell’affermare l’inutilizzabilità della dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà nell’ambito del processo
amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un mezzo
surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non
possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un
mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi,
precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività
istruttoria dell'amministrazione.
D’altro canto, “l'attitudine certificativa e probatoria
della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà e
delle autocertificazioni o auto dichiarazioni è limitata a
specifici status o situazioni rilevanti in determinate
attività o procedure amministrative e non vale a superare
quanto attestato dall'amministrazione, sino a querela di
falso, dall'esame obiettivo delle risultanze documentali”.
---------------
6.1. L’appello è infondato e non può trovare accoglimento.
6.2.1. In primo luogo, deve essere respinta la censura
attinente alla violazione del principio di corrispondenza
tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c. da parte del
giudice di primo grado, in quanto l’accertamento della
proprietà comunale del vicolo Battisti risulta essere
funzionale all’accertamento della proprietà del suolo su cui
sorge il muro e, conseguentemente, del muro stesso, oggetto
del provvedimento impugnato.
6.2.2. Al riguardo, il Collegio ricorda che:
a) atteso che, in base all'art. 11, comma primo, del t.u.
edilizia, il permesso di costruire è rilasciato al
proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere il rilascio
di un titolo abilitativo edilizio si configura in capo non
solo al proprietario del terreno, ma pure al soggetto
titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo
autorizzi a disporne al riguardo (cfr. Cons. St., sez. VI,
15.07.2010, n. 4557; id., sez. IV, 02.09.2011, n.
4968);
b) v'è il contestuale onere della P.A. di accertare con
serietà e rigore siffatta legittimazione a chiedere il
titolo edilizio (arg. ex Cons. Stato, sez. IV, 07.09.2016, n. 3823), dovendo pertanto la P.A. accertare che
l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria (cfr. Cons. Stato, sez. V, 04.04.2012, n.
1990).
6.3. Ciò premesso, al fine di dimostrare la proprietà del
muro in questione, alcuna rilevanza può essere attribuita,
come correttamente ritenuto dall’amministrazione procedente,
alla dichiarazione sostitutiva di atto notorio presentata,
ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. 28.12.2000, n. 445,
dal ricorrente nel corso del procedimento dinanzi al Comune
di Andria.
Al riguardo è costante la giurisprudenza del Consiglio di
Stato nell’affermare l’inutilizzabilità della dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà nell’ambito del processo
amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un mezzo
surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non
possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un
mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi,
precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività
istruttoria dell'amministrazione (ex multis Cons. Stato,
sez. IV, 07.08.2012, n. 4527; id., sez. VI, 08.05.2012, n. 2648; id., sez. IV,
03.08.2011, n. 4641; id.,
sez. IV, 03.05.2005, n. 2094; id., sez. IV, 29.04.2002, n. 2270).
D’altro canto, “l'attitudine certificativa e probatoria
della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà e
delle autocertificazioni o auto dichiarazioni è limitata a
specifici status o situazioni rilevanti in determinate
attività o procedure amministrative e non vale a superare
quanto attestato dall'amministrazione, sino a querela di
falso, dall'esame obiettivo delle risultanze documentali”
(Cons. Stato, sez. V, 20.05.2008, n. 2352)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.05.2018 n. 3143 - link a
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EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Ai fini dell’accertamento
della proprietà pubblica giova la presunzione di
appartenenza al demanio stradale comunale delle aree che
sono in comunicazione diretta col suolo pubblico in modo da
consentire l’accesso ad esse, ai sensi dell’art. 22 l. n.
2248/1865.
Da ciò consegue, in primo luogo, l’applicabilità al
caso di specie dell’art. 881 c.c., che pone una presunzione
di proprietà sui muri divisori in favore del proprietario
del fondo verso il quale esiste lo spiovente ed in ragione
dello spiovente medesimo.
---------------
Deve essere ritenuta infondata, per carenza di prova, la
censura volta ad affermare l’avvenuta sdemanializzazione
tacita della citata porzione di suolo, risultando, per
l’effetto, inusucapibile il bene medesimo.
Parte ricorrente, invero, non introduce sufficienti elementi
dimostrativi della sussistenza di atti del Comune
incompatibili con la volontà di conservare la destinazione
della porzione di suolo ad uso pubblico, come del disuso
prolungato da parte della collettività unitamente
all’inerzia dell’amministrazione nella cura del bene.
Tale carenza probatoria, peraltro, va considerata alla luce
della giurisprudenza limitativa sviluppatasi in materia,
che, ponendosi in maniera critica verso il riconoscimento
della generica ammissibilità della sdemanializzazione
tacita, ritiene la stessa ravvisabile solo in presenza di
atti e/o fatti che mostrino inequivocabilmente la volontà
dell’amministrazione di sottrarre il bene medesimo a detta
destinazione e di rinunciare definitivamente al suo
ripristino, non potendosi ciò desumere dalla pura e semplice
circostanza che il bene non sia più adibito, anche da lungo
tempo, all’uso pubblico.
---------------
6.4. Pertanto, ai fini dell’accertamento incidentale in
ordine alla proprietà del muro oggetto del richiesto titolo
edilizio, occorre considerare che il vicolo Cesare Battisti
sul quale lo stesso insiste risulta essere pacificamente di
proprietà comunale, in primo luogo non ravvisandosi nessuna
contestazione al riguardo.
Peraltro, ai fini dell’accertamento della proprietà pubblica
sul vicolo giova la presunzione di appartenenza al demanio
stradale comunale delle aree che sono in comunicazione
diretta col suolo pubblico in modo da consentire l’accesso
ad esse, ai sensi dell’art. 22 l. n. 2248/1865, come per
l’appunto avviene nel caso di specie, atteso il collegamento
del vicolo Battisti con la strada comunale via Orsini. In
senso opposto, del resto, non è stata addotta alcuna prova
contraria, non potendo ritenersi sufficiente a tal fine, per
le sopra esposte motivazioni, la dichiarazione sostitutiva
di atto notorio.
6.5. Da ciò consegue, in primo luogo, l’applicabilità al
caso di specie dell’art. 881 c.c., che pone una presunzione
di proprietà sui muri divisori in favore del proprietario
del fondo verso il quale esiste lo spiovente ed in ragione
dello spiovente medesimo. Il muro in questione, per
l’appunto, presenta una struttura, qualificabile come
spiovente (sono presenti, in particolare, delle tegole sulla
sommità del muro), che, senza dubbio, è rivolta verso
l’esterno, ossia verso il citato vicolo Battisti.
Del resto, in senso contrario, a differenza di quanto
sostenuto dall’appellante, non si riscontra alcuna
disomogeneità tra le due entità prediali confinanti, dovendo
essere entrambe qualificate alla stregua di cortili.
Invero,
se con riferimento al cortile del privato ricorrente non
sussistono dubbi in tal senso, il Collegio rileva che anche
il vicolo C. Battisti possiede gli elementi per essere
qualificato in questi termini. Il vicolo, infatti, per un
estremo, risulta chiuso proprio dal muro divisorio, mentre,
dalla parte opposta, sebbene collegato alla via Orsini, non
risulta agevolmente transitabile, in quanto per accedere
allo stesso da via Orsini è necessario scendere alcuni
gradini.
In conclusione, il vicolo, essendo idoneo allo stazionamento
pedonale e all’accesso pedonale alle altre proprietà private
che da esso hanno ingresso, presenta chiaramente la natura
di cortile e, di conseguenza, avendo carattere omogeneo al
fondo privato presente al di là del muro, non pone ostacoli
all’applicabilità del ridetto art. 881 c.c., in linea con la
giurisprudenza in materia (Cass. Civ., sez. II, 10.03.2006, n. 5258; id., sez. II, 24.02.2000, n. 2102; id.,
sez. II, 24.12.1994, n. 11162; id., sez. II, 11.01.1989, n. 78).
6.6. Peraltro, ad ulteriore conferma della proprietà
comunale sul muro, va considerato che dall’accertamento
della proprietà comunale del suolo su cui è stato costruito
il muro discende l’applicazione del principio
dell’accessione di cui all’art. 934 c.c., secondo cui
qualunque costruzione od opera esistente sopra o sotto il
suolo appartiene al proprietario di questo.
6.7. In senso contrario, deve essere ritenuta infondata, per
carenza di prova, la censura volta ad affermare l’avvenuta
sdemanializzazione tacita della citata porzione di suolo,
risultando, per l’effetto, inusucapibile il bene medesimo.
Parte ricorrente, invero, non introduce sufficienti elementi
dimostrativi della sussistenza di atti del Comune
incompatibili con la volontà di conservare la destinazione
della porzione di suolo ad uso pubblico, come del disuso
prolungato da parte della collettività unitamente
all’inerzia dell’amministrazione nella cura del bene.
Tale carenza probatoria, peraltro, va considerata alla luce
della giurisprudenza limitativa sviluppatasi in materia,
che, ponendosi in maniera critica verso il riconoscimento
della generica ammissibilità della sdemanializzazione
tacita, ritiene la stessa ravvisabile solo in presenza di
atti e/o fatti che mostrino inequivocabilmente la volontà
dell’amministrazione di sottrarre il bene medesimo a detta
destinazione e di rinunciare definitivamente al suo
ripristino (Cons. Stato, sez. IV, 20.01.2015, n. 138),
non potendosi ciò desumere dalla pura e semplice circostanza
che il bene non sia più adibito, anche da lungo tempo,
all’uso pubblico (Cass. Civ., sez. un., 29.05.2014, n.
12062).
7. Risulta infine destituito di fondamento anche l’autonomo
motivo di appello con cui il ricorrente torna a censurare
l’ordinanza impugnata in quanto non supportata dal
necessario interesse pubblico al ripristino del muro.
Invero, in considerazione dell’accertata proprietà comunale
del muro in questione, l’interesse pubblico al ripristino
sotteso all’ordinanza comunale deve in effetti essere
individuato proprio nella tutela delle proprietà comunali
per consentire la loro adibizione all’uso della collettività
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.05.2018 n. 3143 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il diritto di accesso agli atti in possesso della
Pubblica Amministrazione viene disciplinato sia dall’art. 22
della L. 241/1990, sia, nella forma del c.d. accesso civico
generalizzato, dall’art. 5, co. 2, del D.Lgs. n. 33/2013, come modificato
dal D.Lgs. n. 97/2016 (decreto F.O.I.A.).
La nuova normativa non elimina, né rende privo di portata
pratica l’accesso documentale o procedimentale, di cui
all’art. 22 L. 241/1990, che è azionabile soltanto da chi
abbia un “interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
Al contrario, il D.lgs. n. 97/2016 ha operato una
considerevole estensione dei confini della trasparenza,
intesa oggi come “accessibilità totale dei dati e
documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo
scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la
partecipazione degli interessati all’attività amministrativa
e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento
delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse
pubbliche”, come recita l’art. 1, co. 1, del D.Lgs. n.
33/2013.
---------------
L'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue
rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce
principio generale dell'attività amministrativa al fine di
favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e
la trasparenza (art. 22, co. 2, L. 241/1990), con la
conseguente introduzione del principio della massima
ostensione dei documenti amministrativi, salve le
limitazioni giustificate dalla necessità di contemperare il
suddetto interesse con altri interessi meritevoli di tutela
(cfr. il successivo co. 3) che, tuttavia, nel caso in esame
non risultano ricorrere, non sussistendo dunque ostacoli
all’ostensione documentale richiesta.
---------------
La controversia de qua ha ad oggetto il diritto di accesso
agli atti in possesso della Pubblica Amministrazione, il
quale viene disciplinato sia dall’art. 22 della L. 241/1990,
sia, nella forma del c.d. accesso civico generalizzato,
dall’art. 5, co. 2, del D.Lgs. n. 33/2013, come modificato
dal D.Lgs. n. 97/2016 (decreto F.O.I.A.).
La nuova normativa non elimina, né rende privo di portata
pratica l’accesso documentale o procedimentale, di cui
all’art. 22 L. 241/1990, che è azionabile soltanto da chi
abbia un “interesse diretto, concreto ed attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
Al contrario, il D.lgs. n. 97/2016 ha operato una
considerevole estensione dei confini della trasparenza,
intesa oggi come “accessibilità totale dei dati e
documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo
scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la
partecipazione degli interessati all’attività amministrativa
e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento
delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse
pubbliche”, come recita l’art. 1, co. 1, del D.Lgs. n.
33/2013.
Nel caso di specie, la ricorrente ha presentato
all’Amministrazione resistente istanza di accesso ex art.
art. 5, co. 2, del D.Lgs. n. 33/2013, per la quale non è
necessario pertanto motivare la sussistenza del citato “interesse
diretto, concreto e attuale” richiesto invece dalla L.
n. 241/1990.
Tuttavia, nonostante l’aspetto formale, l’istanza in
questione appare, sotto un profilo sostanziale, più
rispondente alle finalità e all’ambito applicativo di cui
alla L. n. 241/1990 e ss.mm.ii.
Infatti, non v’è dubbio alcuno che la ricorrente sia
titolare, nella specie, di un interesse diretto, concreto e
attuale corrispondente a una situazione giuridicamente
tutelata e collegata ai documenti dei quali ha chiesto
l’accesso (art. 22, comma 2, lettera b), l. n. 241/1990).
Peraltro, vale la regola per cui l'accesso ai documenti
amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico
interesse, costituisce principio generale dell'attività
amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di
assicurarne l'imparzialità e la trasparenza (art. 22, co. 2,
L. 241/1990), con la conseguente introduzione del principio
della massima ostensione dei documenti amministrativi, salve
le limitazioni giustificate dalla necessità di contemperare
il suddetto interesse con altri interessi meritevoli di
tutela (cfr. il successivo co. 3) che, tuttavia, nel caso in
esame non risultano ricorrere, non sussistendo dunque
ostacoli all’ostensione documentale richiesta.
Con riferimento, pertanto, agli invocati profili di
inammissibilità per tardività dell’istanza, si osserva che,
ai sensi dell’art. 22 della L. 241/1990, come sostituito
dall’art. 15 della L. 15/2005: “il diritto di accesso è
esercitabile fino a quando la pubblica amministrazione ha
l’obbligo di detenere i documenti amministrativi ai quali si
chiede di accedere” (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 24.05.2018 n. 752 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
La nozione di situazione giuridicamente
rilevante ex art. 22, l. n. 241 del 1990 comporta che la
legittimazione all'accesso spetta a chiunque possa
dimostrare che gli atti oggetto della domanda di ostensione
abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o
indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla
lesione di una posizione giuridica, e ciò per l'autonomia
del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene
della vita distinto rispetto alla situazione legittimante
all'impugnativa dell'atto, onde è a tali fini sufficiente un
interesse personale e concreto, serio e non emulativo,
riconducibile al soggetto in quanto titolare di una
posizione soggettiva giuridicamente rilevante e qualificata
dall'ordinamento come meritevole di tutela.
In coerenza con tale impostazione di fondo, è stata
riconosciuta “la legittimazione all’accesso agli atti
riguardanti l’attività svolta da altra impresa nel medesimo
bacino d’utenza, giacché tanto consente di verificare
l’eventuale sussistenza di irregolarità idonee a tradursi in
un pregiudizio per la concorrenza”.
---------------
Per quanto riguarda la richiesta di accesso civico ex art. 5
d.lgs. 33/2013, così come modificato dal d.lgs. 97/2016, è
stato rilevato che <<il d.lgs. n. 97/2016 ha operato
un’importante estensione dei confini della trasparenza,
intesa oggi come “accessibilità totale dei dati e documenti
detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di
tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la
partecipazione degli interessati all’attività amministrativa
e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento
delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse
pubbliche”, come recita l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n.
33/2013.
Inoltre, in forza del comma 3 dello stesso articolo, le
disposizioni sulla trasparenza di cui al d.lgs. n. 33/2013
sono state espressamente qualificate come “livello
essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni
pubbliche”, garantito, quindi, sull’intero territorio
nazionale, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.,
con conseguente vincolo di inderogabilità in pejus. Il
rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso
devono essere motivati con riferimento ai casi ed ai limiti
stabiliti dall’articolo 5-bis.
Tale norma identifica, innanzitutto, i divieti ‘assoluti’ di
accesso: l'accesso civico di cui all'articolo 5, comma 2, è
rifiutato se il diniego è necessario per evitare un
pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi
pubblici inerenti ai seguenti ambiti: a) la sicurezza
pubblica e l'ordine pubblico; b) la sicurezza nazionale; c)
la difesa e le questioni militari; d) le relazioni
internazionali; e) la politica e la stabilità finanziaria ed
economica dello Stato; f) la conduzione di indagini sui
reati e il loro perseguimento; g) il regolare svolgimento di
attività ispettive.
Inoltre, l'accesso di cui all'articolo 5, comma 2, è altresì
rifiutato se il diniego è necessario per evitare un
pregiudizio concreto alla tutela di uno dei seguenti
interessi privati: a) la protezione dei dati personali, in
conformità con la disciplina legislativa in materia; b) la
libertà e la segretezza della corrispondenza; c) gli
interessi economici e commerciali di una persona fisica o
giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il
diritto d'autore e i segreti commerciali. 3. Il diritto di
cui all'articolo 5, comma 2, è escluso nei casi di segreto
di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o
divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in
cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al
rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti,
inclusi quelli di cui all'articolo 24, comma 1, della legge
n. 241/1990.
In modo particolare, in questi ultimi casi relativi alla
tutela di “interessi privati”, l’amministrazione non potrà
respingere la domanda senza fornire un’adeguata motivazione
al diniego (come invece nei casi di cui al comma 3: segreto
di Stato e altri casi previsti dalla legge) ma dovrà
compiere un ulteriore passaggio motivazionale, al fine di
verificare se la richiesta ostensione potrebbe cagionare un
pregiudizio concreto a quegli stessi interessi, che sono
rilevanti ma pur sempre di natura privata.
L’amministrazione, in tal caso, dovrà dimostrare che
dall’accesso generalizzato deriva un pregiudizio concreto
ossia che vi è un nesso di casualità tra l’accesso
consentito e il pregiudizio>>.
---------------
La ricorrente, esercente l’attività di commercio con automarket su
posteggio nelle zone di Parco della Grottella e del Castello
del Comune di Copertino, ha inviato al comune di Copertino
numerose segnalazioni, denunce ed esposti, relative a
violazioni della normativa applicabile in materia di
commercio su aree pubbliche da parte di soggetti
abitualmente sostanti in modo permanente, con paninoteche
ambulanti, nelle vicinanze dei posteggi a lei assegnati.
Con istanza del 28.06.2017, la ricorrente ha chiesto al
Comune di “conoscere lo stato della pratica, e il rilascio
di copia di ogni singolo atto istruttorio e di verifica, la
nomina del responsabile del procedimento, eventuali risposte
e/o archiviazioni delle segnalazioni, ed eventuali
provvedimenti sanzionatori e/o di contestazione applicati
nei confronti di terzi, oppure i motivi della mancata
attivazione dei procedimenti di verifica di quanto
segnalato” con riferimento ad ogni singola segnalazione
indicata nella domanda di accesso.
La ricorrente ha poi contestualmente formulato istanza per
l’accesso agli atti ai sensi dell'art. 5, comma 2, d.lgs.
33/2013, come modificato dal d.lgs. 97/2016 (F.O.I.A.),
relativamente a “- tutte le autorizzazioni e/o permessi e/o
licenze rilasciati dal Comune di Copertino dal 2010 ad oggi
per esercizio su posteggio e/o di commercio ambulante sul
territorio Comunale e in particolare nella zona di Parco
della Grottella e nella zona Castello. - Eventuali
comunicazioni o richieste di intervento ovvero richieste di
informativa effettuate dal Comune di Copertino al Comando di
Polizia Municipale dalla data del 01.05.2016 sino alla
data di protocollazione della presente; - Ordini di servizi
disposti dall'Amministrazione, siano essi stati emessi dal
Comune stesso ovvero dal Comando di Polizia Municipale
aventi ad oggetto controlli sul territorio in materia di
commercio ambulante, dal 01.05.2016 sino alla data di
protocollazione della presente; - Esito di eventuali
controlli effettuati per l'accertamento e la sanzione delle
violazioni sempre nel periodo sopra richiamato ed in
particolare in data 28.06.2016 presso il Parco della Grottella nei confronti dei mezzi ambulanti targanti
...
e ...”.
Stante il silenzio serbato dall’amministrazione comunale, la
ricorrente, con il presente ricorso, ha chiesto
l’annullamento del provvedimento di diniego e l’accertamento
della fondatezza della richiesta di accesso.
La ricorrente ha formulato i seguenti motivi: 1.
Illegittimità del silenzio serbato sull’istanza di accesso
agli atti ex artt. 22 e ss., l. 241/1990; specificità della
richiesta di accesso; legittimazione attiva e sussistenza di
un interesse qualificato in capo all’istante. 2. Violazione
art. 3 della l. n. 241/1990; eccesso di potere, nonché
violazione dei principi di trasparenza di cui al d.lgs. n.
33/2013 e di buon andamento ex art. 97 Cost..
Deduce la ricorrente: che l’istanza è dettagliata e
specifica; che l’Amministrazione non poteva sottrarsi dal
dare riscontro all’accesso agli atti, trattandosi di
procedimenti avviati ad istanza di parte; che colui che
esercita attività di commercio in una stessa zona ove opera
un altro esercizio della stessa specie, trovandosi in un
rapporto diretto con la struttura di vendita concorrente e
ricevendo dalla stessa un pregiudizio, consistente nella
distrazione di clientela, ha diritto a chiedere ed a
ottenere dal Comune di verificare la regolarità delle
autorizzazioni commerciali possedute dal concorrente; che
l’obbligo di trasparenza di cui al d.lgs. n. 33 del
14.03.2013 va inteso come accessibilità totale ed immediata
alle informazioni sull’organizzazione e sull’attività delle
pubbliche amministrazioni allo scopo di favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche.
Con ordinanza n. 399/2018 il Collegio ha chiesto al Comune
una documentata relazione sui fatti di causa.
Il Comune non ha dato alcun riscontro alla suddetta
richiesta.
...
Nella fattispecie la ricorrente è titolare di un “interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
al quale è chiesto l'accesso” che, ai sensi dell'art. 22, l.
n. 241/1990, la legittima alla presentazione dell’istanza di
accesso e all’accoglimento della stessa.
È stato precisato dalla giurisprudenza, condivisa, che “la
nozione di situazione giuridicamente rilevante ex art. 22,
l. n. 241 del 1990 comporta che la legittimazione
all'accesso spetta a chiunque possa dimostrare che gli atti
oggetto della domanda di ostensione abbiano spiegato o siano
idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione
giuridica, e ciò per l'autonomia del diritto di accesso,
inteso come interesse ad un bene della vita distinto
rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa
dell'atto, onde è a tali fini sufficiente un interesse
personale e concreto, serio e non emulativo, riconducibile
al soggetto in quanto titolare di una posizione soggettiva
giuridicamente rilevante e qualificata dall'ordinamento come
meritevole di tutela” (Tar Trieste, Friuli-Venezia Giulia,
sez. I, 02.11.2012, n. 390)
In coerenza con tale impostazione di fondo, è stata
riconosciuta “la legittimazione all’accesso agli atti
riguardanti l’attività svolta da altra impresa nel medesimo
bacino d’utenza, giacché tanto consente di verificare
l’eventuale sussistenza di irregolarità idonee a tradursi in
un pregiudizio per la concorrenza” (Tar Trieste,
Friuli-Venezia Giulia, 390/2012, cit.).
Nel caso in esame, è indubbio che i documenti di cui si è
chiesto l’accesso riguardano la posizione giuridica della
ricorrente, proprio in quanto diretti alla tutela della
propria autorizzazione al commercio anche con riferimento
alla verifica della presenza o meno di una concorrenza
sleale.
Per quanto riguarda la richiesta di accesso civico ex art. 5
d.lgs. 33/2013, così come modificato dal d.lgs. 97/2016, è
stato rilevato che <<il d.lgs. n. 97/2016 ha operato
un’importante estensione dei confini della trasparenza,
intesa oggi come “accessibilità totale dei dati e documenti
detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di
tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la
partecipazione degli interessati all’attività amministrativa
e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento
delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse
pubbliche”, come recita l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n.
33/2013.
Inoltre, in forza del comma 3 dello stesso
articolo, le disposizioni sulla trasparenza di cui al d.lgs.
n. 33/2013 sono state espressamente qualificate come
“livello essenziale delle prestazioni erogate dalle
amministrazioni pubbliche”, garantito, quindi, sull’intero
territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett.
m), Cost., con conseguente vincolo di inderogabilità in pejus. Il rifiuto, il differimento e la limitazione
dell’accesso devono essere motivati con riferimento ai casi
ed ai limiti stabiliti dall’articolo 5-bis.
Tale norma
identifica, innanzitutto, i divieti ‘assoluti’ di accesso:
l'accesso civico di cui all'articolo 5, comma 2, è rifiutato
se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio
concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici
inerenti ai seguenti ambiti: a) la sicurezza pubblica e
l'ordine pubblico; b) la sicurezza nazionale; c) la difesa e
le questioni militari; d) le relazioni internazionali; e) la
politica e la stabilità finanziaria ed economica dello
Stato; f) la conduzione di indagini sui reati e il loro
perseguimento; g) il regolare svolgimento di attività
ispettive.
Inoltre, l'accesso di cui all'articolo 5, comma
2, è altresì rifiutato se il diniego è necessario per
evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno dei
seguenti interessi privati: a) la protezione dei dati
personali, in conformità con la disciplina legislativa in
materia; b) la libertà e la segretezza della corrispondenza;
c) gli interessi economici e commerciali di una persona
fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale,
il diritto d'autore e i segreti commerciali. 3. Il diritto
di cui all'articolo 5, comma 2, è escluso nei casi di
segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o
divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in
cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al
rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti,
inclusi quelli di cui all'articolo 24, comma 1, della legge
n. 241/1990.
In modo particolare, in questi ultimi casi
relativi alla tutela di “interessi privati”,
l’amministrazione non potrà respingere la domanda senza
fornire un’adeguata motivazione al diniego (come invece nei
casi di cui al comma 3: segreto di Stato e altri casi
previsti dalla legge) ma dovrà compiere un ulteriore
passaggio motivazionale, al fine di verificare se la
richiesta ostensione potrebbe cagionare un pregiudizio
concreto a quegli stessi interessi, che sono rilevanti ma
pur sempre di natura privata. L’amministrazione, in tal
caso, dovrà dimostrare che dall’accesso generalizzato deriva
un pregiudizio concreto ossia che vi è un nesso di casualità
tra l’accesso consentito e il pregiudizio>> (Tar Lazio, sez. III-bis, 20.02.2018, n. 3453).
Posti questi principi, è da rilevare che il ricorrente ha
diritto ad accedere ai dati e alle informazioni richiesti
nei limiti della tutela di eventuali controinteressati.
L’amministrazione comunale dovrà dare comunicazione della
richiesta di accesso agli eventuali controinteressati, e
dovrà poi provvedere alla valutazione delle eventuali
controdeduzioni di segno negativo dei medesimi
controinteressati, da soppesare, in termini di sussistenza
del pregiudizio, nel provvedimento finale quanto ad ampiezza
dei dati e dei documenti da ostendere.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto sia per
quanto riguarda l’accesso ex art. 22, l. 241/1990 sia per
quanto riguarda l’accesso civico, quest’ultimo nelle
modalità di cui in motivazione (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 21.05.2018 n. 839 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
La dichiarazione sostitutiva dell’atto di
notorietà “non costituisce elemento probatorio dirimente in ordine
alla data di ultimazione dei lavori, dovendo essere
supportata da ulteriori elementi, anche indiziari, purché
altamente probanti”.
Più in dettaglio, le dichiarazioni sostitutive, rese dalla
parte interessata o da terzi, non hanno alcun “valore” certificativo o probatorio nei confronti della pubblica
amministrazione. Esse, inoltre, non sono utilizzabili nel processo
amministrativo e non rivestono alcun effettivo valore
probatorio in ambito processuale, potendo costituire
eventualmente soltanto indizi, che comunque, in mancanza di
altri elementi gravi, precisi e concordanti, non risultano ex se
idonei a scalfire l’attività istruttoria
dell’amministrazione, ovvero le deduzioni con cui la stessa
amministrazione rileva l’inattendibilità di quanto
rappresentato dall’interessato.
---------------
16.1.4 Neppure può darsi rilievo alla dichiarazione sostitutiva
dell’atto di notorietà, sottoscritta da un privato
cittadino, depositata agli atti del giudizio, che
comproverebbe l’esistenza dell’immobile nel 1939.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza,
infatti, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà
“non costituisce elemento probatorio dirimente in ordine
alla data di ultimazione dei lavori, dovendo essere
supportata da ulteriori elementi, anche indiziari, purché
altamente probanti” (Cons. Stato, Sez. VI, 24.05.2016,
n. 2179).
Più in dettaglio, le dichiarazioni sostitutive, rese dalla
parte interessata o da terzi, non hanno alcun “valore” certificativo o probatorio nei confronti della pubblica
amministrazione (Cons. Stato, Sez. IV, 29.05.2014, n.
2782). Esse, inoltre, non sono utilizzabili nel processo
amministrativo e non rivestono alcun effettivo valore
probatorio in ambito processuale, potendo costituire
eventualmente soltanto indizi, che comunque, in mancanza di
altri elementi gravi, precisi e concordanti, non risultano
ex se idonei a scalfire l’attività istruttoria
dell’amministrazione, ovvero le deduzioni con cui la stessa
amministrazione rileva l’inattendibilità di quanto
rappresentato dall’interessato (in questo senso: Cons.
Stato, Sez. VI, 27.07.2015, n. 3666; cfr. anche, ex multis: Cass. Civ., Sez. III, 28.04.2010 n. 10191; Cons.
Stato, Sez. IV, n. 2782 del 2014, cit.; Id., 03.08.2011,
n. 4641).
Peraltro, la suddetta dichiarazione è stata resa da una
persona che, nel 1939, aveva solo sei anni, e che riferisce
la presenza, in corrispondenza dell’attuale civico 80 di Via
..., di un capannone “adibito a mangiatoia dove c’erano
le mucche”; manufatto rispetto al quale non è minimamente
comprovata la continuità né rispetto al capannone di oltre
500 mq che, secondo quanto sostenuto nel ricorso,
costituirebbe il nucleo originario dell’immobile, né –tanto
meno– rispetto al prefabbricato di oltre 900 mq attualmente
esistente e adibito a destinazione commerciale.
16.1.5 I ricorrenti producono, poi, ulteriore documentazione
e, in particolare, cartografie risalenti ad anni dal 1946 al
1972 e un estratto del PRG previgente, evidenziando la
presenza di un manufatto che sarebbe identificabile con il
capannone originario.
Al riguardo, deve tuttavia rilevarsi che, anche a voler
ritenere provata, sulla base di questi elaborati, la
presenza di un fabbricato nell’area, e pure laddove fosse
dimostrata la continuità di tale manufatto rispetto al
capannone prefabbricato oggi esistente, non ne discenderebbe
comunque la legittima realizzazione dell’opera.
La difesa
dell’Amministrazione ha infatti correttamente evidenziato
che l’articolo 1 del Regolamento edilizio in vigore nel
Comune di Milano dal 01.08.1921 prescriveva, sull’intero
territorio comunale, l’obbligo di denuncia delle opere
edilizie, al fine del rilascio del nulla osta alla relativa
esecuzione. Sin da allora non era, perciò, consentita la
realizzazione di opere senza titolo.
Conseguentemente, la liceità del capannone presupporrebbe la
prova della sua realizzazione in epoca anteriore al 01.08.1921: circostanza, questa, che non è stata neppure
allegata dai ricorrenti.
16.1.6 In definitiva, deve ritenersi non censurabile il
provvedimento impugnato, laddove riferisce il diniego di
sanatoria e l’ordine di demolizione all’intero capannone, in
quanto risultante in toto privo di titolo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1297 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, "è legittimo il doveroso diniego della
concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo
abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto
alla normativa urbanistica vigente al momento della loro
realizzazione quanto a quella vigente al momento della
domanda di sanatoria.
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non
solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il
legislatore regionale)
può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo
edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva
del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il
divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso)
in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi
sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico”.
La c.d. “doppia conformità” costituisce, perciò, un
requisito dal quale non può prescindersi ai fini del
rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d.
“sanatoria giurisprudenziale” –consistente nel rilascio del
titolo edilizio sulla base della sola conformità dell’opera
abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente–
finirebbe per dare luogo a “un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi
previsione normativa e che pertanto non può ritenersi
ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio
di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere
tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla
stregua del principio di nominatività, poteri che non
possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del
principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere
di attribuzioni riservate all’Amministrazione”.
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la
ragionevolezza della regola posta dall’articolo 36 del
d.P.R. n. 380 del 2001 discende dall’esigenza, presa in
considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di
pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di
rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta
illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere
dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo
è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in
presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello
strumento urbanistico.
---------------
Le risultanze catastali possono valere a documentare
l’esistenza di un fabbricato in una certa epoca, ma non
anche la sua legittima realizzazione senza titolo.
---------------
L’istanza presentata al Comune ha ad oggetto il rilascio di
un permesso di costruire in parziale sanatoria.
Conseguentemente, la disciplina applicabile alla suddetta
istanza non è quella relativa al rilascio dell’ordinario
permesso di costruire, dettata dall’articolo 20 del d.P.R.
n. 380 del 2001 e dall’articolo 38 della legge regionale n.
12/2005, bensì quella dell’accertamento di conformità di cui
all’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001. Previsione,
quest’ultima, che interviene, peraltro, in un ambito
sottratto alla legislazione regionale, in quanto è
finalizzata alla sanatoria di opere abusive (cfr. C. cost.
n. 232 del 2017).
Ciò posto, deve rilevarsi che il predetto articolo 36
stabilisce espressamente che “Sulla richiesta di permesso in
sanatoria il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione,
entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si
intende rifiutata”. E, al riguardo, la giurisprudenza ha da
tempo chiarito che la previsione normativa determina la
formazione legale e automatica di un provvedimento di
diniego una volta decorso il termine stabilito.
Nessun ritardo è, perciò, configurabile, atteso che la parte
istante avrebbe potuto impugnare il provvedimento di diniego
formatosi per silentium dopo sessanta giorni dalla
presentazione dell’istanza e che è stato poi superato dalla
nuova determinazione negativa assunta espressamente
dall’Amministrazione in esito all’istruttoria svolta.
In ogni caso, anche a volere –in ipotesi– ritenere
applicabili le diverse norme procedimentali invocate dai
ricorrenti, non sarebbe comunque ravvisabile un vizio del
provvedimento a causa del mancato rispetto dei termini da
essi allegati. E ciò in quanto, in base ai principi, “in
assenza di una specifica disposizione che espressamente
preveda il termine come perentorio, comminando la perdita
della possibilità di azione da parte dell’Amministrazione al
suo spirare o la specifica sanzione della decadenza, il
termine stesso deve intendersi come meramente sollecitatorio
o ordinatorio ed il suo superamento non determina
l’illegittimità dell’atto, ma una semplice irregolarità non
viziante”.
---------------
16.3 Nessun rilievo può assumere, poi, ai fini del rilascio
della sanatoria, la circostanza che l’opera sia conforme al
PGT oggi in vigore.
16.3.1 Contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti,
deve infatti escludersi la possibilità che l’opera
abusivamente realizzata possa essere sanata sulla base del
solo riscontro della conformità agli strumenti urbanistici
vigenti.
E invero, secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è
legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria
di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse
non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica
vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella
vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St.,
Sez. V, 17.03.2014, n. 1324; Sez. V, 11.06.2013, n.
3235; Sez. V, 17.09.2012, n. 4914; Sez. V, 25.02.2009, n. 1126; Sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non
solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il
legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101)
può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo
edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva
del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il
divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso)
in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi
sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico.”
(così Cons. Stato, Sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
La c.d. “doppia conformità” costituisce, perciò, un
requisito dal quale non può prescindersi ai fini del
rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d.
“sanatoria giurisprudenziale” –consistente nel rilascio del
titolo edilizio sulla base della sola conformità dell’opera
abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente–
finirebbe per dare luogo a “un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi
previsione normativa e che pertanto non può ritenersi
ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio
di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere
tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla
stregua del principio di nominatività, poteri che non
possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del
principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere
di attribuzioni riservate all’Amministrazione” (Cons. Stato,
Sez. VI, 18.07.2016, n. 3194).
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la
ragionevolezza della regola posta dall’articolo 36 del
d.P.R. n. 380 del 2001 discende dall’esigenza, presa in
considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di
pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di
rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta
illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere
dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce
sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione,
anche in presenza di una sopraggiunta modificazione
favorevole dello strumento urbanistico (Cons. Stato, Sez. V,
17.03.2014, n. 1324, e Id., n. 2755 del 2014, cit.).
16.3.2 Anche sotto questo profilo, le censure contenute nel
terzo motivo di ricorso vanno, perciò, rigettate.
17. Con il quarto motivo, i ricorrenti affermano che la
motivazione del provvedimento impugnato sarebbe inconferente,
laddove afferma l’irrilevanza delle risultanze catastali al
fine di provare la liceità dell’opera. E ciò in quanto i
dati catastali non sarebbero stati invocati nell’istanza di
permesso di costruire. Peraltro, tali dati, contrariamente a
quanto ritenuto dall’Amministrazione, avrebbero comunque una
propria rilevanza.
17.1 Al riguardo, deve anzitutto osservarsi che
l’affermazione, contenuta nel provvedimento impugnato,
secondo la quale “l’accatastamento del capannone non
comprova la liceità dello stesso ai fini della regolarità
urbanistica-edilizia”, fornisce riscontro, in realtà, a
quanto allegato nelle osservazioni presentate nel
procedimento amministrativo. Nella relativa memoria si era,
infatti, sostenuta l’esistenza del capannone da tempo
immemore, come sarebbe attestato anche da planimetrie
reperite, tra l’altro “presso (...) il Catasto Edilizio
Urbano”.
17.2 D’altro canto, l’affermazione del Comune deve ritenersi
corretta, atteso che le risultanze catastali possono valere
a documentare l’esistenza di un fabbricato in una certa
epoca, ma non anche la sua legittima realizzazione senza
titolo.
Nel caso di specie, per le ragioni sopra dette, la
documentazione richiamata dai ricorrenti non permette di
dimostrare la liceità dell’opera, atteso che non è comunque
provata l’esistenza di alcun manufatto prima del 01.08.1921.
17.3 Il motivo va, perciò, rigettato.
18. Con il quinto motivo di impugnazione, i ricorrenti
deducono la violazione del termine per provvedere,
richiamando la disciplina del rilascio del permesso di
costruire di cui all’articolo 38 della legge regionale n. 12
del 2005.
18.1 Al riguardo, deve anzitutto osservarsi che, nel caso
oggetto del presente giudizio, il superamento del termine
per provvedere è ontologicamente inconfigurabile.
L’istanza presentata al Comune, e che ha condotto
all’emanazione del provvedimento impugnato, aveva, infatti,
ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire in
parziale sanatoria.
Conseguentemente, la disciplina applicabile alla suddetta
istanza non è quella relativa al rilascio dell’ordinario
permesso di costruire, dettata dall’articolo 20 del d.P.R.
n. 380 del 2001 e dall’articolo 38 della legge regionale n.
12 del 2005, bensì quella dell’accertamento di conformità di
cui all’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001. Previsione,
quest’ultima, che interviene, peraltro, in un ambito
sottratto alla legislazione regionale, in quanto è
finalizzata alla sanatoria di opere abusive (cfr. C. cost.
n. 232 del 2017).
Ciò posto, deve rilevarsi che il predetto articolo 36
stabilisce espressamente che “Sulla richiesta di permesso in
sanatoria il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione,
entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si
intende rifiutata”. E, al riguardo, la giurisprudenza ha da
tempo chiarito che la previsione normativa determina la
formazione legale e automatica di un provvedimento di
diniego una volta decorso il termine stabilito (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV,
06.06.2008, n. 2681).
Nessun ritardo è, perciò, configurabile, atteso che la parte
istante avrebbe potuto impugnare il provvedimento di diniego
formatosi per silentium dopo sessanta giorni dalla
presentazione dell’istanza e che è stato poi superato dalla
nuova determinazione negativa assunta espressamente
dall’Amministrazione in esito all’istruttoria svolta.
18.2 In ogni caso, deve pure tenersi presente che anche a
volere –in ipotesi– ritenere applicabili le diverse norme
procedimentali invocate dai ricorrenti, non sarebbe comunque
ravvisabile un vizio del provvedimento a causa del mancato
rispetto dei termini da essi allegati. E ciò in quanto, in
base ai principi, “in assenza di una specifica disposizione
che espressamente preveda il termine come perentorio,
comminando la perdita della possibilità di azione da parte
dell’Amministrazione al suo spirare o la specifica sanzione
della decadenza, il termine stesso deve intendersi come
meramente sollecitatorio o ordinatorio ed il suo superamento
non determina l’illegittimità dell’atto, ma una semplice
irregolarità non viziante” (Cons. Stato, Sez. VI, 27.02.2012,
n. 1084)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1297 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La possibilità di risarcire il danno da ritardata
conclusione del procedimento amministrativo presuppone,
infatti, logicamente che un ritardo sia configurabile;
evenienza, questa, che non si verifica in presenza di una
fattispecie di silenzio c.d. significativo, quale quella
riscontrabile nel caso oggetto del presente giudizio,
secondo quanto sopra detto.
E’, perciò, esclusa in radice la
risarcibilità del danno da ritardo ai sensi dell’articolo
2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
D’altro canto, la circostanza che l’Amministrazione, anche dopo
la formazione del silenzio-diniego, abbia ulteriormente
approfondito l’istruttoria, pervenendo poi, a distanza di
tempo, a determinarsi espressamente, non risulta essersi
risolta in danno dei ricorrenti, secondo quanto da essi
genericamente allegato, bensì –semmai– a loro vantaggio.
Deve, infatti, osservarsi che il lungo tempo che i ricorrenti lamentano
essere trascorso tra il deposito della memoria partecipativa
e l’adozione del provvedimento conclusivo ha consentito agli
interessati di procrastinare la demolizione dell’opera
abusiva e di continuare a trarne profitto.
---------------
18.3 Anche il quinto e ultimo motivo di impugnazione va,
perciò, rigettato.
19. I ricorrenti hanno domandato anche la condanna
dell’Amministrazione al risarcimento del danno, indicando i
pregiudizi da essi subiti:
(i) nella perdita dell’immobile a seguito della demolizione,
in caso di rigetto della domanda cautelare;
(ii) nel ritardo nella conclusione del procedimento
amministrativo.
19.1 Le prospettazioni dei ricorrenti sono, tuttavia,
infondate sotto entrambi i profili.
19.2 Quanto al danno da perdita dell’immobile, a causa
dell’esecuzione dell’ordinanza di demolizione, il Collegio
rileva, anzitutto, che gli stessi ricorrenti hanno
rinunciato alla domanda di sospensione del provvedimento
impugnato e che, peraltro, non risulta agli atti del
giudizio che il capannone sia stato poi demolito. Nessun
pregiudizio risulta, perciò, riscontrabile sotto questo
profilo.
In ogni caso, il rigetto della domanda di annullamento
dell’ordinanza di demolizione comporta comunque, di per sé,
l’inconfigurabilità di un danno ingiusto derivante dalla
perdita del bene.
19.3 Per ciò che attiene, poi, all’allegato pregiudizio che
i ricorrenti affermano di aver subito a causa del protrarsi
del procedimento avviato su loro istanza, il Collegio
ritiene di poter prescindere dall’eccezione di tardività
sollevata dalla difesa comunale, stante l’infondatezza nel
merito della domanda risarcitoria.
La possibilità di risarcire il danno da ritardata
conclusione del procedimento amministrativo presuppone,
infatti, logicamente che un ritardo sia configurabile;
evenienza, questa, che non si verifica in presenza di una
fattispecie di silenzio c.d. significativo, quale quella
riscontrabile nel caso oggetto del presente giudizio,
secondo quanto sopra detto. E’, perciò, esclusa in radice la
risarcibilità del danno da ritardo ai sensi dell’articolo
2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (Cons. Stato,
Sez. IV, 29.09.2016, n. 4028).
D’altro canto, come correttamente rimarcato dalla difesa
comunale, la circostanza che l’Amministrazione, anche dopo
la formazione del silenzio-diniego, abbia ulteriormente
approfondito l’istruttoria, pervenendo poi, a distanza di
tempo, a determinarsi espressamente, non risulta essersi
risolta in danno dei ricorrenti, secondo quanto da essi
genericamente allegato, bensì –semmai– a loro vantaggio.
Deve, infatti, osservarsi che, secondo gli elementi agli
atti del giudizio, il lungo tempo che i ricorrenti lamentano
essere trascorso tra il deposito della memoria partecipativa
e l’adozione del provvedimento conclusivo ha consentito agli
interessati di procrastinare la demolizione dell’opera
abusiva e di continuare a trarne profitto.
19.4 Da ciò il rigetto della domanda risarcitoria
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1297 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Le conseguenze degli illeciti edilizi sono
compiutamente disciplinate nel Titolo IV della Parte I del
d.P.R. n. 380 del 2001.
E, in base alle previsioni ivi
contenute, la commissione di tali illeciti comporta, tra
l’altro, l’irrogazione di sanzioni amministrative, le quali
–secondo i principi– hanno natura principalmente ripristinatoria dell’interesse pubblico leso, più che
afflittiva nei confronti dei soggetti responsabili.
L’esigenza di riparazione del danno arrecato dall’opera
abusiva all’interesse pubblico all’ordinato assetto del
territorio è stata, perciò, già contemplata dalla normativa
di fonte primaria, ove sono stabiliti specifici rimedi di
carattere ripristinatorio, i quali, nella valutazione
operata dal legislatore, esauriscono ogni profilo di
rilevanza giuridica del danno arrecato all’interesse
pubblico dall’opera abusiva.
Ne deriva che non è configurabile un danno ingiusto a carico
del Comune a causa della permanenza nel tempo dell’opera
abusiva, poiché tale permanenza costituisce una circostanza
di mero fatto, dovuta ai tempi per l’esercizio del potere
sanzionatorio, e atteso che, come detto, secondo la
valutazione operata dal legislatore, il pregiudizio
all’interesse pubblico derivante dall’opera abusiva deve
intendersi ripristinato con l’irrogazione e l’esecuzione
delle sanzioni previste dal d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
La giurisprudenza ha ritenuto spettante alla giurisdizione
esclusiva del G.A. la cognizione sui provvedimenti di
recupero delle somme anticipate per la demolizione
dell’abuso edilizio.
---------------
20.3.2 Nel merito, la domanda non può, tuttavia, essere
accolta.
Le conseguenze degli illeciti edilizi sono, infatti,
compiutamente disciplinate nel Titolo IV della Parte I del
d.P.R. n. 380 del 2001. E, in base alle previsioni ivi
contenute, la commissione di tali illeciti comporta, tra
l’altro, l’irrogazione di sanzioni amministrative, le quali
–secondo i principi– hanno natura principalmente ripristinatoria dell’interesse pubblico leso, più che
afflittiva nei confronti dei soggetti responsabili.
L’esigenza di riparazione del danno arrecato dall’opera
abusiva all’interesse pubblico all’ordinato assetto del
territorio è stata, perciò, già contemplata dalla normativa
di fonte primaria, ove sono stabiliti specifici rimedi di
carattere ripristinatorio, i quali, nella valutazione
operata dal legislatore, esauriscono ogni profilo di
rilevanza giuridica del danno arrecato all’interesse
pubblico dall’opera abusiva.
Ne deriva che non è configurabile un danno ingiusto a carico
del Comune a causa della permanenza nel tempo dell’opera
abusiva, poiché tale permanenza costituisce una circostanza
di mero fatto, dovuta ai tempi per l’esercizio del potere
sanzionatorio, e atteso che, come detto, secondo la
valutazione operata dal legislatore, il pregiudizio
all’interesse pubblico derivante dall’opera abusiva deve
intendersi ripristinato con l’irrogazione e l’esecuzione
delle sanzioni previste dal d.P.R. n. 380 del 2001.
20.4 Anche la pretesa sub (b) rientra potenzialmente nella
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, atteso
che la giurisprudenza ha ritenuto spettante a tale
giurisdizione la cognizione sui provvedimenti di recupero
delle somme anticipate per la demolizione dell’abuso
edilizio (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, Sentenza 29.01.2014, n. 206; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 16.01.2012, n. 195).
La domanda è, tuttavia, infondata, in quanto l’opera non
risulta essere stata demolita dall’Amministrazione, la quale
non ha pertanto subito alcun danno, e considerato inoltre
che la disciplina del d.P.R. n. 380 del 2001 non prevede
l’anticipazione dei costi della demolizione da parte del
privato responsabile, benché questi debba sopportare la
relativa spesa.
Anche in questo caso, l’accoglimento della domanda comunale
verrebbe a porsi, perciò, in contrasto con il carattere di
tipicità e nominatività proprio delle sanzioni edilizie e –conseguentemente–
non è configurabile un danno ingiusto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1297 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Affinché
un’opera possa rientrare nel regime delle pertinenze in
senso edilizio e/o urbanistico, essa deve assumere un
rilievo oggettivamente marginale, tale da comportare una
pressoché irrilevante alterazione dello stato dei luoghi.
Per giurisprudenza consolidata:
- “la qualifica di pertinenza urbanistico-edilizia è applicabile
soltanto a opere di modestissima entità e accessorie
rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli
manufatti per il contenimento di impianti tecnologici e
simili, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle
dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una
propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e
non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti
possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
(…) a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai
fini urbanistico-edilizi un manufatto può essere
considerato una pertinenza quando è non solo preordinato a
una esigenza oggettiva dell'edificio principale ed è
inserito funzionalmente al suo servizio, ma è anche sfornito
di un autonomo valore di mercato e non incide sul <carico
urbanistico> mediante la creazione di un <nuovo volume>”;
- “… salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini
edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato
un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a
quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia
realizzata una qualsiasi opera, come una tettoia, che ne
alteri la sagoma”.
---------------
Con riguardo al I motivo d’impugnazione, mirato a demolire
la prima ragione del diniego, il Collegio condivide e fa
proprio quanto ripetutamente affermato dal Consiglio di
Stato (tra le più recenti cfr. sez. VI, 09.03.2018, n.
1518; id., 17.05.2017, n. 2348) ovvero che “affinché
un’opera possa rientrare nel regime delle pertinenze in
senso edilizio e/o urbanistico, essa deve assumere un
rilievo oggettivamente marginale, tale da comportare una
pressoché irrilevante alterazione dello stato dei luoghi”
(cfr. Sez. VI, 13.03.2017, n. 1155; id., 16.02.2017, n. 694).
Per giurisprudenza consolidata (cfr., ex multis, Cons. St.,
Sez. Sez. VI, 02.02.2017, n. 694; id., 04.01.2016,
n. 19; id., 11.03.2014, n. 3952; Sez. V, n. 817 del 2013;
Sez. IV, n. 615 del 2012):
- “la qualifica di pertinenza urbanistico-edilizia è applicabile
soltanto a opere di modestissima entità e accessorie
rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli
manufatti per il contenimento di impianti tecnologici e
simili, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle
dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una
propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e
non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti
possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
(…) a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai
fini urbanistico-edilizi un manufatto può essere
considerato una pertinenza quando è non solo preordinato a
una esigenza oggettiva dell'edificio principale ed è
inserito funzionalmente al suo servizio, ma è anche sfornito
di un autonomo valore di mercato e non incide sul <carico
urbanistico> mediante la creazione di un <nuovo volume>
(Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n. 615, cit.)” (Cons. Stato
n. 1518/2018 cit.).
- “… salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini
edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato
un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a
quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia
realizzata una qualsiasi opera, come una tettoia, che ne
alteri la sagoma” (Cons. Stato n. 2348/2017 cit.).
In giurisprudenza, che il Collegio condivide e fa propria, è
stata anche esclusa la natura pertinenziale di un bene non
coessenziale a un bene principale, suscettibile di
successiva utilizzazione anche in modo autonomo e separato e
privo di collegamento ad una esigenza effettiva oggettiva
dell’edificio cui accede (Tar Campania, Napoli, sez. IV, 16.01.2017, n. 357 - fattispecie riguardante una tettoia
in ferro e lamiere termoisolanti di 40 mq realizzata in
assenza di titolo edilizio) (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 21.05.2018 n. 164 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Nel giudizio amministrativo l’interesse a
ricorrere è caratterizzato dalla presenza degli stessi
requisiti che caratterizzano l’interesse ad agire ex art.
100 c.p.c., vale a dire la prospettazione di una lesione
concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e
l’effettiva utilità che potrebbe derivare a quest’ultimo
dall’eventuale annullamento dell’atto impugnato, così che il
ricorso deve essere considerato inammissibile per carenza di
interesse in tutte le ipotesi in cui l’annullamento
giurisdizionale di un atto amministrativo non sia in grado
di arrecare alcun vantaggio all’interesse sostanziale del
ricorrente.
---------------
7. Occorre premettere che nel giudizio amministrativo
l’interesse a ricorrere è caratterizzato dalla presenza
degli stessi requisiti che caratterizzano l’interesse ad
agire ex art. 100 c.p.c., vale a dire la prospettazione di
una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del
ricorrente e l’effettiva utilità che potrebbe derivare a
quest’ultimo dall’eventuale annullamento dell’atto
impugnato, così che il ricorso deve essere considerato
inammissibile per carenza di interesse in tutte le ipotesi
in cui l’annullamento giurisdizionale di un atto
amministrativo non sia in grado di arrecare alcun vantaggio
all’interesse sostanziale del ricorrente (cfr., ex plurimis,
Cons. Stato, sez. IV, 05.02.2018, n. 707; TAR Lazio,
Roma, sez. I-quater, 13.04.2018, n. 4089) (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 17.05.2018 n. 537 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sono inammissibili per carenza d’interesse le
censure concernenti la disciplina urbanistica di aree
estranee a quelle di proprietà del ricorrente, giacché le
prescrizioni dello strumento urbanistico vanno considerate
scindibili ai fini del loro eventuale annullamento in sede
giurisdizionale, rimanendo peraltro salva la possibilità di
proporre impugnativa ove la nuova destinazione di zona, pur
concernendo un’area non appartenente al ricorrente, incide
direttamente su interessi propri e specifici dello stesso.
Ed infatti, costituisce ius receptum il principio in base al
quale nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici,
anche particolareggiati, o di loro varianti, il semplice
rapporto di vicinitas, se dimostra al più la sussistenza di
una generica legittimazione, non è però sufficiente a
fondare anche l’interesse a ricorrere, occorrendo
l’allegazione e la prova di uno specifico e concreto
pregiudizio a carico dei suoli in proprietà della parte
ricorrente per effetto degli atti di pianificazione
impugnati (dai quali, per definizione, quei suoli non sono
incisi direttamente).
Tale pregiudizio non può risolversi
nel generico pregiudizio all’ordinato assetto del
territorio, alla salubrità dell’ambiente e ad altri valori
la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi
soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona
interessata dalla pianificazione e che, oltre tutto,
porrebbe l’ulteriore problema di individuare il limite al di
là del quale non si sia più in presenza di una lesione
specifica e differenziata, ma di un pregiudizio assimilabile
a quello che qualsiasi cittadino potrebbe lamentare.
--------------
Affinché si possa contestare in giudizio la disciplina
urbanistica di aree estranee a quelle di proprietà del
ricorrente è necessario che la nuova destinazione
urbanistica (per l’appunto concernente un’area non
appartenente al ricorrente) incida direttamente sul
godimento o sul valore di mercato dell'area viciniore o
comunque su interessi propri e specifici del medesimo
esponente, dovendo di tanto l'interessato fornire se non una
rigorosa dimostrazione, almeno idonei principi di prova.
Detto diversamente, occorre che il ricorrente medesimo
alleghi in maniera specifica i pregiudizi subiti o temuti,
onde evitare che l’impugnativa finisca per fondarsi sulla
generica lesione all'ordinato assetto del territorio da
parte di un qualunque soggetto residente nel territorio in
questione.
---------------
Ove venga impugnata la prescrizione contenuta in un piano
urbanistico, qualora nelle more del giudizio tale strumento
sia interamente sostituito da un altro piano, non vi è più
interesse a discutere sul precedente strumento, anche
laddove il nuovo abbia riprodotto la prescrizione impugnata.
---------------
8. Orbene, alla stregua dell’indirizzo giurisprudenziale
consolidato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 04.12.2017, n. 5674; Cons. Stato, sez. IV, 12.05.2014, n. 2403; Cons. Stato, sez. IV, 24.12.2007, n.
6619), sono inammissibili per carenza d’interesse le censure
concernenti la disciplina urbanistica di aree estranee a
quelle di proprietà del ricorrente, giacché le prescrizioni
dello strumento urbanistico vanno considerate scindibili ai
fini del loro eventuale annullamento in sede
giurisdizionale, rimanendo peraltro salva la possibilità di
proporre impugnativa ove la nuova destinazione di zona, pur
concernendo un’area non appartenente al ricorrente, incide
direttamente su interessi propri e specifici dello stesso.
Ed infatti, costituisce ius receptum (cfr. TAR Umbria,
sez. I, 10.04.2018, n. 222) il principio in base al
quale nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici,
anche particolareggiati, o di loro varianti, il semplice
rapporto di vicinitas, se dimostra al più la sussistenza di
una generica legittimazione, non è però sufficiente a
fondare anche l’interesse a ricorrere, occorrendo
l’allegazione e la prova di uno specifico e concreto
pregiudizio a carico dei suoli in proprietà della parte
ricorrente per effetto degli atti di pianificazione
impugnati (dai quali, per definizione, quei suoli non sono
incisi direttamente). Tale pregiudizio non può risolversi
nel generico pregiudizio all’ordinato assetto del
territorio, alla salubrità dell’ambiente e ad altri valori
la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi
soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona
interessata dalla pianificazione (cfr. cit. Cons. Stato,
sez. IV, 12.05.2014, n. 2403; TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 22.01.2018, n. 175; TAR Toscana, sez. I, 19.09.2016, n. 1368) e che, oltre tutto, porrebbe
l’ulteriore problema di individuare il limite al di là del
quale non si sia più in presenza di una lesione specifica e
differenziata, ma di un pregiudizio assimilabile a quello
che qualsiasi cittadino potrebbe lamentare (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 18.12.2013, n. 6082; TAR Emilia
Romagna, Parma, sez. I, 13.03.2015, n. 75).
Ritiene il Collegio di dover ulteriormente precisare che
affinché si possa contestare in giudizio la disciplina
urbanistica di aree estranee a quelle di proprietà del
ricorrente è necessario che la nuova destinazione
urbanistica (per l’appunto concernente un’area non
appartenente al ricorrente) incida direttamente sul
godimento o sul valore di mercato dell'area viciniore o
comunque su interessi propri e specifici del medesimo
esponente, dovendo di tanto l'interessato fornire se non una
rigorosa dimostrazione, almeno idonei principi di prova
(Cons. Stato, sez. IV, 15.11.2011, n. 6016; TAR
Campania, Napoli, sez. VII, 28.03.2018, n. 1961); detto
diversamente, occorre che il ricorrente medesimo alleghi in
maniera specifica i pregiudizi subiti o temuti, onde evitare
che l’impugnativa finisca per fondarsi sulla generica
lesione all'ordinato assetto del territorio da parte di un
qualunque soggetto residente nel territorio in questione
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.02.2016, n. 719; Cons.
Stato, sez. IV, 09.07.2015, n. 3432; Cons. Stato, sez. IV,
16.07.2015, n. 3579; TAR Toscana, sez. I, 06.09.2016, n. 1315).
Si deve ribadire, a questo punto, che il ricorrente -proprietario di un immobile di civile abitazione con
giardino circostante, adiacente all’area interessata dalla
variante, di proprietà del Sig. Ta.- si è limitato ad
affermare che gli atti in epigrafe sono illegittimi e lesivi
dei suoi interessi <<ad un corretto ed equilibrato uso del
territorio>> (pag. 6 del ricorso); tanto, alla luce del
richiamato indirizzo giurisprudenziale -dal quale il
Collegio non intende decampare– in accoglimento
dell’eccezione formulata dalla difesa di parte resistente
(pag. 2 della memoria difensiva depositata in data 06.04.2018), fa sì che il ricorso debba essere dichiarato
inammissibile.
Il Collegio ritiene di dover precisare che, in difetto della
ragione di inammissibilità per originaria carenza di
interesse, il ricorso sarebbe stato dichiarato improcedibile
per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che –come
eccepito anche in questo caso dalla difesa di parte
resistente– essendosi dotato il Comune di Noventa Vicentina
di nuovi strumenti urbanistici avrebbe comunque dovuto farsi
applicazione del consolidato orientamento interpretativo
secondo cui ove venga impugnata la prescrizione contenuta in
un piano urbanistico, qualora nelle more del giudizio tale
strumento sia interamente sostituito da un altro piano, non
vi è più interesse a discutere sul precedente strumento,
anche laddove il nuovo abbia riprodotto la prescrizione
impugnata (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
24.02.2004, n. 731; TAR Lombardia, Milano, sez. II,
21.02.2017, n. 434) (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 17.05.2018 n. 537 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come noto, sotto il profilo della disciplina
edilizia, una volta che un’opera sia realizzata per
soddisfare esigenze che non hanno carattere transitorio, non
hanno alcuna incidenza le caratteristiche costruttive e la
sua maggiore o minore amovibilità.
---------------
Sotto il profilo paesaggistico non qualsiasi tipo di
intervento è inderogabilmente assoggettato al previo
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Nel caso all’esame risulta condivisibile -in ragione della
lieve entità dell’intervento che consiste nell’apposizione
delle lastre di pietra su una strada preesistente per pochi
metri quadri con un irrilevante impatto sull’ambiente dato
che la strada mantiene la funzione e destinazione che aveva
in precedenza senza che vi sia stata una trasformazione dei
luoghi- la sua qualificazione come intervento di
manutenzione straordinaria eseguito per conto del Comune e
come tale inidoneo ad alterare lo stato dei luoghi, e
pertanto non necessitante dell’autorizzazione paesaggistica
ai sensi dell’art. 149, comma 1, lett. a), del Dlgs.
22.01.2004, n. 42.
---------------
Considerato:
- che con il ricorso in epigrafe il ricorrente impugna il
provvedimento del Comune di San Vito di Cadore prot. n. 10
del 21.12.2017, con il quale è stato diffidato, ai
sensi dell’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, a demolire
le opere abusive realizzate sul suolo demaniale adiacente
all’edificio di sua proprietà;
- che tali opere consistono nell’apposizione di alcune
lastre di pietra che formano in adiacenza all’immobile
un’esigua pavimentazione della strada già esistente e non
asfaltata, e nella realizzazione di un pozzetto di scolo
delle acque meteoriche (le tre pavimentazioni a forma
triangolare sono poste in corrispondenza di tre rientranze
dell’immobile, ed hanno una superficie di 2,6; 2,23; 4, 2
mq);
- che il provvedimento è motivato con riferimento alla
mancanza di un titolo edilizio e dell’autorizzazione
paesaggistica, necessaria perché tutto il territorio
comunale è sottoposto a vincolo paesaggistico;
- che in fatto il ricorrente, a sostegno delle proprie
deduzioni, allega la nota prot. n. 421/14 del 23.06.2000, con la quale il Comune, constatato che la posa delle
lastre non impedisce il passaggio sulla strada e che è
idonea ad ovviare ai problemi igienici riscontrati a causa
della difficoltà a provvedere alla pulizia del fondo
stradale in terra battuta, ha espressamente autorizzato
l’intervento;
- che quanto alla realizzazione del pozzetto di scolo il
ricorrente allega la nota prot. 5187/10 del 24.07.2006,
con la quale il Comune afferma di prendere atto delle opere
realizzate proponendosi di regolarizzare l’intervento in
modo espresso;
- che con il primo motivo il ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, il
travisamento e la carenza di istruttoria, in quanto il
Comune non ha valutato di aver esso stesso autorizzato le
opere e che difettano pertanto i presupposti per
l’applicazione dell’ordine di ripristino di cui al citato
art. 35, trattandosi di interventi di manutenzione
straordinaria realizzati sul suolo pubblico per conto
dell’Amministrazione comunale;
- che il Comune sul punto replica che gli interventi non
possono essere qualificati come eseguiti per suo conto in
quanto finalizzati a salvaguardare l’edificio del ricorrente
da possibili infiltrazioni, e comunque sono da rimuovere
perché eseguiti senza il previo rilascio di
un’autorizzazione paesaggistica;
- che con il secondo motivo il ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, il
travisamento e la carenza di istruttoria, in quanto,
quand’anche si volessero qualificare le opere come private,
difetterebbero i presupposti dell’abusività delle stesse
perché sono state autorizzate espressamente dal Comune;
- che il Comune replica che l’autorizzazione dallo stesso
rilasciata riguardava la posa di lastre in pietra non
fissate al terreno, mentre quelle realizzate sono fissate, e
per questo profilo, oltre che per la realizzazione della
caditoia e del relativo pozzetto delle acque meteoriche,
manca un titolo abilitativo e permane quindi la condizione
di abusività;
- che con il terzo motivo il ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 149 del Dlgs. 22.01.2004, n. 42,
perché trattandosi della parziale pavimentazione di una
limitata porzione di una strada preesistente si tratta di un
intervento di straordinaria manutenzione che non altera lo
stato dei luoghi e l’aspetto degli edifici;
- che il Comune replica affermando che tutte le opere
realizzate ex novo devono ritenersi assoggettate all’obbligo
del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica;
- che la Soprintendenza si è costituita in giudizio
rilevando la sua estraneità alla controversia;
- che alla Camera di consiglio del 12.04.2018, fissata
per l’esame della domanda cautelare, avvisate le parti della
possibile definizione della controversia con sentenza resa
in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.,
la causa è stata trattenuta in decisione;
- che il ricorso è fondato e deve essere accolto per tutti i
motivi dedotti;
- che infatti è comprovato che le opere sono state
realizzate dal ricorrente con l’esplicito assenso del
Comune;
- che, in particolare, ciò risulta dalla nota prot. n. n.
421/14 del 23.06.2000, per quanto riguarda la
pavimentazione e, contrariamente a quanto afferma il Comune,
è irrilevante la circostanza che con la stessa fosse stata
autorizzata la mera posa delle lastre in luogo della loro
infissione;
- che infatti, come noto, sotto il profilo della disciplina
edilizia, una volta che un’opera sia realizzata per
soddisfare esigenze che non hanno carattere transitorio, non
hanno alcuna incidenza le caratteristiche costruttive e la
sua maggiore o minore amovibilità (cfr. Tar Lombardia,
Milano, Sez. II, 30.06.2017 n. 1463);
- che, per quanto riguarda il pozzetto di scolo, l’opera
risulta parimenti autorizzata come emerge dalla nota prot.
5187/10 del 24.07.2006, che è stata resa in risposta
alla richiesta formulata dal ricorrente con nota del 19.07.2006 (cfr. doc. 14 allegato alle difese del Comune)
nella quale si faceva esplicito riferimento alla circostanza
che il Comune per realizzare il pozzetto ha fornito il
materiale (i tombini e i cordoli) e che il ricorrente
chiedeva la formale regolarizzazione dell’intervento di regimazione delle acque di scolo, senza che sul punto il
Comune, a fronte di tali richieste, avesse alcunché da
obiettare;
- che pertanto sotto il profilo edilizio difettano i
presupposti per l’applicazione dell’ordine di rimozione
emesso ai sensi dell’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380,
che richiede che le opere siano realizzate in assenza di
titolo abilitativo che invece nel caso all’esame risulta
rilasciato;
- che sotto il profilo paesaggistico non qualsiasi tipo di
intervento è inderogabilmente assoggettato al previo
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica;
- che nel caso all’esame risulta condivisibile -in ragione
della lieve entità dell’intervento che consiste
nell’apposizione delle lastre di pietra su una strada
preesistente per pochi metri quadri con un irrilevante
impatto sull’ambiente dato che la strada mantiene la
funzione e destinazione che aveva in precedenza senza che vi
sia stata una trasformazione dei luoghi- la sua
qualificazione come intervento di manutenzione straordinaria
eseguito per conto del Comune e come tale inidoneo ad
alterare lo stato dei luoghi, e pertanto non necessitante
dell’autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 149,
comma 1, lett. a), del Dlgs. 22.01.2004, n. 42;
- che in definitiva pertanto il ricorso deve essere accolto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.05.2018 n. 525 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Qualificazione
giuridica dell’intervento e rispetto delle norme sulle
distanze.
La qualificazione giuridica
dell’intervento non sempre è decisiva per stabilire quando
si imponga il rispetto delle norme sulle distanze, in quanto
ciò che appare rilevante è piuttosto il grado di
innovatività della nuova opera rispetto alla precedente,
dovendo ammettersi una deroga allorquando si tratti di
interventi che comportino il recupero di un bene esistente
già collocato a distanza inferiore a quella legale.
Soltanto se l’intervento, in ragione dell’entità delle
modifiche apportate al fabbricato, renda l’opera realizzata
nel suo complesso oggettivamente diversa da quella
preesistente, è necessario il rispetto delle distanze di cui
all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, trattandosi di
prescrizioni volte alla salvaguardia di imprescindibili
esigenze igienico-sanitarie, che potrebbero venire
irrimediabilmente compromesse dalla creazione di malsane
intercapedini.
---------------
3. Con la terza doglianza si deduce l’illegittimità
del provvedimento di autotutela comunale nella parte in cui
ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 9 del D.M.
n. 1444 del 1968, in quanto non sarebbe stata rispettata la
distanza di 10 m tra l’edificio oggetto di intervento di
recupero del sottotetto e l’edificio frontistante,
trattandosi di edifici realizzati ante 1968 e ricadenti nel
nucleo di antica formazione, per i quali la citata norma
prevede delle deroghe in tema di distanze, laddove si
realizzino interventi di ristrutturazione edilizia.
3.1. La doglianza è fondata.
In sede di verificazione –similmente a quanto evidenziato
dagli Uffici comunali (cfr. all. 3 al ricorso)– è stato
appurato che la distanza tra i fabbricati risulta essere
pari al massimo a 9,12 m, se considerata con riferimento ai
parametri murari dei due fronti prospicienti, oppure al
livello minimo di 8,03 m, se calcolata prendendo a
riferimento altri elementi (cfr. pagg. 7 e 8 della Relazione
del verificatore).
Tuttavia, trattandosi di un intervento di recupero del
sottotetto e soprattutto avendo riguardo alla zona in cui
sono situati gli immobili, già posti inizialmente ad una
distanza inferiore ai 10 m, non è stata dimostrata
l’avvenuta realizzazione di un manufatto sensibilmente
difforme rispetto ai suoi caratteri originari, non apparendo
rilevante ai fini di cui al presente contenzioso una
qualsiasi, seppur minima, modificazione dell’immobile che
non superi la soglia di apprezzabilità.
Difatti, secondo la giurisprudenza della Sezione, la
qualificazione giuridica dell’intervento non sempre è
decisiva per stabilire quando si imponga il rispetto delle
norme sulle distanze, in quanto ciò che appare rilevante è
piuttosto il grado di innovatività della nuova opera
rispetto alla precedente, dovendo ammettersi una deroga
allorquando si tratti di interventi che comportino il
recupero di un bene esistente già collocato a distanza
inferiore a quella legale.
Soltanto se l’intervento, in ragione dell’entità delle
modifiche apportate al fabbricato, renda l’opera realizzata
nel suo complesso oggettivamente diversa da quella
preesistente, è necessario il rispetto delle distanze di cui
all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, trattandosi di
prescrizioni volte alla salvaguardia di imprescindibili
esigenze igienico-sanitarie, che potrebbero venire
irrimediabilmente compromesse dalla creazione di malsane
intercapedini (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 14.03.2017,
n. 646; 05.12.2016, n. 2301).
Ne deriva che la mancata evidenziazione del grado di
innovatività della nuova opera, come risultante
dall’intervento edilizio intrapreso dal ricorrente, rende
illegittimo il provvedimento comunale anche nella parte in
cui ha eccepito il mancato rispetto delle distanze tra le
pareti finestrate di edifici frontistanti.
3.2. Ciò determina l’accoglimento anche della predetta
censura (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.05.2018 n. 1243
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Recupero
sottotetti in Lombardia.
Per giurisprudenza costante di questo Tribunale, nel
consentire modificazioni delle altezze di colmo e di gronda
e delle linee di pendenza delle falde “[...] unicamente al
fine di assicurare i parametri di cui all’articolo 63, comma
6” (cioè l’altezza media ponderale di metri 2,40), l’art.
64, comma 1, della legge regionale n. 12/2005 ammette
evidentemente l’incremento delle altezze nei soli limiti
strettamente funzionali ad assicurare le condizioni minime
di salubrità agli spazi (resi) abitativi, sicché l’altezza
media di 2,40 metri deve ritenersi ad un tempo altezza
minima (per l’abitabilità degli spazi) e altezza massima
(se comporta l’innalzamento delle linee di colmo e di gronda
del tetto).
---------------
1. Il ricorso è fondato nei sensi di seguito specificati.
2. Si può prescindere dallo scrutinio della prima censura di
ricorso e si può passare direttamente all’esame della
seconda doglianza con cui si assume il difetto di
istruttoria atteso che le misure eccedenti, rilevate nel
corso del sopralluogo, ossia un’altezza media ponderale
superiore a 2,40 m, si riferirebbero ad una fase in cui i
lavori erano ancora in corso e quando non erano stata ancora
posate le finiture interne, quali pavimenti e travi;
inoltre, le violazioni rilevate avrebbero dovuto indurre
l’Amministrazione ad adottare un provvedimento sanzionatorio
per parziale difformità e non a stabilire l’annullamento del
titolo edilizio; sarebbe altresì illegittimo considerare
l’altezza di 2,40 m quale limite massimo per il recupero dei
sottotetti e non solo alla stregua di un limite minimo.
2.1. La doglianza è fondata nei sensi dei seguito
specificati.
Va premesso che, ai sensi dell’art. 63, comma 6, della legge
regionale n. 12 del 2005 “il recupero abitativo dei
sottotetti è consentito purché sia assicurata per ogni
singola unità immobiliare l’altezza media ponderale di metri
2,40, ulteriormente ridotta a metri 2,10 per i comuni posti
a quote superiori a seicento metri di altitudine sul livello
del mare, calcolata dividendo il volume della parte di
sottotetto la cui altezza superi metri 1,50 per la
superficie relativa”.
Il successivo art. 64, comma 1, stabilisce che “gli
interventi edilizi finalizzati al recupero volumetrico dei
sottotetti possono comportare l’apertura di finestre,
lucernari, abbaini e terrazzi per assicurare l’osservanza
dei requisiti di aeroilluminazione e per garantire il
benessere degli abitanti, nonché, per gli edifici di altezza
pari o inferiore al limite di altezza massima posto dallo
strumento urbanistico, modificazioni di altezze di colmo e
di gronda e delle linee di pendenza delle falde, unicamente
al fine di assicurare i parametri di cui all’articolo 63,
comma 6”.
Per giurisprudenza costante di questo Tribunale, nel
consentire modificazioni delle altezze di colmo e di gronda
e delle linee di pendenza delle falde “[...] unicamente al
fine di assicurare i parametri di cui all’articolo 63, comma
6” (cioè l’altezza media ponderale di metri 2,40), l’art.
64, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005 ammette
evidentemente l’incremento delle altezze nei soli limiti
strettamente funzionali ad assicurare le condizioni minime
di salubrità agli spazi (resi) abitativi, sicché l’altezza
media di 2,40 metri deve ritenersi ad un tempo altezza
minima (per l’abitabilità degli spazi) e altezza massima (se
comporta l’innalzamento delle linee di colmo e di gronda del
tetto) [cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 19.03.2014, n.
714; 05.07.2011, n. 1763; 29.10.2009, n. 4941].
2.2. Tuttavia nella fattispecie de qua le difformità
rilevate in sede di sopralluogo in ordine all’altezza
interna del piano sottotetto –ossia da un minimo di 2,82 (o
2,81) m ad un massimo di 3,00 m– si riferiscono ad una fase
in cui i lavori non risultavano ancora ultimati, non essendo
nemmeno state posate le finiture interne, ossia il pavimento
e le travi.
Le predette difformità infatti sono state
rilevate anche in sede di verificazione (cfr. Relazione
depositata, par. 4 e 5, pagg. 6 e ss.), però in misura
diversa e sensibilmente inferiore –da un’altezza minima di
2,64 m ad una massima di 2,82 m– rispetto a quelle
risultanti dal sopralluogo comunale del 10 aprile 2014 (all.
5 del Comune); il verificatore ha poi precisato che,
trattandosi di accertamenti effettuati su una struttura al
rustico non ancora completata, non si può con certezza
stabilire quali saranno le misure finali, ma se ne può solo
ipotizzarne l’entità (Relazione depositata, par. 6).
Da quanto evidenziato in precedenza discende che soltanto
alla conclusione dei lavori sarà possibile stabilire, senza
alcun residuo dubbio, l’avvenuto rispetto delle misure
previste nel progetto e, in caso di loro violazione,
assumere i conseguenti provvedimenti, che però devono
riferirsi non al progetto, non contestato nella sua
legittimità, ma ai lavori eseguiti in difformità totale o
parziale, secondo le previsioni di cui agli artt. 31 e ss.
del D.P.R. n. 380 del 2001.
2.3. Ciò determina l’accoglimento della seconda censura di
ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.05.2018 n. 1243
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EDILIZIA PRIVATA:
Le differenze che connotano il soppalco, il
pergolato e la tettoia.
Il soppalco, ovvero lo spazio aggiuntivo
che si ricava all’interno di un locale, di solito come nella
specie, un’abitazione, interponendovi un solaio, è soggetto
ad una disciplina edilizia che non è definita in modo
univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle
caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, il soppalco richiede infatti il
permesso di costruire quando sia di dimensioni non modeste e
comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile
preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R.
06.06.2001, n. 380, con incremento delle relative superfici
dell'immobile e in prospettiva del carico urbanistico: così
per tutte C.d.S. 03.09.2014 n. 4468.
Il soppalco che non sia tale da incrementare la superficie
utile dell’immobile, e in particolare quello che non sia
suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno a sé
stante rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi
minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è
richiesto.
Applicando il principio appena delineato al caso di specie,
risulta immediato affermare che il soppalco realizzato dalla
ricorrente appellante rientra fra quelli che richiedono il
permesso di costruire.
Esso infatti si compone di uno spazio nel quale è stata
realizzata una piccola stanza da bagno, e quindi, per
definizione, uno spazio fruibile dalle persone: di
conseguenza, il carico urbanistico risulta incrementato, con
necessità di ottenere il titolo edilizio in questione.
---------------
Con riferimento specifico al pergolato, la Sezione ha
avuto già modo di affermare che lo stesso è una struttura
realizzata al fine di adornare e ombreggiare giardini o
terrazze, costituita un'impalcatura formata da montanti
verticali ed elementi orizzontali che li connettono ad una
altezza tale da consentire il passaggio delle persone.
Di norma quindi il pergolato, come struttura aperta su tre
lati e nella parte superiore, non richiede alcun titolo
edilizio. Di contro, il pergolato stesso, quando sia coperto
superiormente, anche in parte, con una struttura non
facilmente amovibile, diventa una tettoia, ed è soggetto
alla disciplina relativa.
---------------
La disciplina della tettoia non è
definita in modo univoco né nella normativa né in
giurisprudenza.
Dal punto di vista normativo, va considerato anzitutto
l’art. 6 del T.U. 06.06.2001 n. 380, che contiene l’elenco
delle opere di cd edilizia libera, le quali non necessitano
di alcun titolo abilitativo; a prescindere dalla natura
esemplificativa o tassativa che si voglia riconoscere a tale
elenco, va poi osservato che esso comprende voci di per sé
abbastanza generiche, tali da poter ricomprendere anche
opere non espressamente nominate.
Con riferimento alle tettoie, rileva in particolare la voce
di cui all’art. 6, comma 1, lettera e)-quinquies, che
considera opere di edilizia libera gli “elementi di
arredo delle aree pertinenziali degli edifici”, concetto
nel quale può sicuramente rientrare una tettoia
genericamente intesa, come copertura comunque realizzata di
un’area pertinenziale, come il terrazzo.
La norma è stata introdotta dall’art. 3 del d.lgs.
25.11.2016 n. 222, ma si deve considerare applicabile anche
alle costruzioni precedenti, come quella per cui è causa,
per due ragioni.
In primo luogo, nel diritto delle sanzioni è
principio generale e notorio, e come tale non richiede
puntuali citazioni, che non si possano subire conseguenze
sfavorevoli per un comportamento in ipotesi illecito nel
momento in cui è stato realizzato, che più non lo sia quando
si tratti di applicare le sanzioni stesse.
In secondo luogo, la giurisprudenza di cui subito si
dirà, anche in epoca anteriore alla modifica legislativa di
cui s’è detto, distingueva all’interno della categoria in
esame costruzione da costruzione assoggettandola a regime
diverso a seconda delle sue caratteristiche.
In materia, è poi intervenuto di recente un chiarimento
da parte del legislatore, ovvero il recente D.M. 02.03.2018,
pubblicato nella G.U. 07.04.2018 n. 81, di “Approvazione
del glossario contenente l'elenco non esaustivo delle
principali opere edilizie realizzabili in regime di attività
edilizia libera”, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del
citato d.lgs. 222/2016.
A sua volta, la norma dell’art. 1, comma 2, prevede che “Con
riferimento alla materia edilizia, al fine di garantire
omogeneità di regime giuridico in tutto il territorio
nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e
dei trasporti di concerto con il Ministro delegato per la
semplificazione e la pubblica amministrazione, da emanare
entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del
presente decreto, previa intesa con la Conferenza unificata
di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28.08.1997, n.
281, è adottato un glossario unico, che contiene l'elenco
delle principali opere edilizie, con l'individuazione della
categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del
conseguente regime giuridico a cui sono sottoposte, ai sensi
della tabella A di cui all'articolo 2 del presente decreto”.
Il decreto ministeriale attuativo di cui s’è detto
comprende, al n. 50 del glossario delle opere realizzabili
senza titolo edilizio alcuno, in particolare le cd
pergotende, ovvero, per comune esperienza, strutture di
copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche
non modesta, formate da montanti ed elementi orizzontali di
raccordo e sormontate da una copertura fissa o ripiegabile
formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che
ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando la
fruibilità della struttura. Si tratta quindi di un manufatto
molto simile alla tettoia, che se ne distingue secondo
logica solo per presentare una struttura più leggera.
Al polo opposto, v’è l’art. 10, comma 1, lettera a), del
T.U. 380/2001, che assoggetta invece al titolo edilizio
maggiore, ovvero al permesso di costruire, “gli
interventi di nuova costruzione”. Come subito si vedrà,
la giurisprudenza si fonda su tale norma per richiedere
appunto il permesso di costruire nel caso di tettoie di
particolari dimensioni e caratteristiche.
Si afferma infatti in via generale che tale struttura
costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il
permesso di costruire nel momento in cui difetta dei
requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi
precari, ovvero quando modifica la sagoma dell’edificio.
Da tutto ciò, emerge chiara una conseguenza: non è
possibile affermare in assoluto che la tettoia richiede, o
non richiede, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o
non assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare
nello specifico come essa è realizzata.
In proposito, quindi, l’amministrazione ha l’onere di
motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e
completa istruttoria che rilevi esattamente le opere
compiute e spieghi per quale ragione esse superano i limiti
entro i quali si può trattare di una copertura realizzabile
in regime di edilizia libera.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR Sardegna, sezione
II, 23.09.2011 n. 952, resa fra le parti, che ha respinto il
ricorso n. 75/2010 R.G. proposto per l’annullamento
dell’ordinanza 07.10.2009 n. 31, notificata il giorno
05.11.2009, con la quale il Funzionario delegato del Comune
di Olbia ha ingiunto la demolizione in quanto abusive di
opere realizzate sull’immobile situato in frazione di Porto
Rotondo, località Punta Nuraghe, su terreno distinto al
catasto al foglio 2, mappale 1056, sub 5, e costituite da un
soppalco di 3 metri per 3 metri con annesso servizio
igienico di 2,30 per 1,15 metri circa e nella trasformazione
di un lastrico solare di circa 16 mq in veranda coperta
mediante copertura installata al posto della pergola
autorizzata;
...
Con l’ordinanza meglio indicata in epigrafe, il Comune
intimato appellato ha ingiunto alla ricorrente appellante di
demolire in quanto abusive due opere realizzate
nell’abitazione di sua proprietà che si trova a Porto
Rotondo, località Punta Nuraghe, su terreno distinto al
catasto al foglio 2, mappale 1056, sub 5; si tratta in
particolare della costruzione di un soppalco di 3 metri
per 3 metri con annesso un bagno di 2,30 per 1,15 metri
circa e della trasformazione di un lastrico solare di
circa 16 mq in veranda mediante una copertura installata
al posto della pergola che invece era stata autorizzata, il
tutto costruito senza titolo in zona sottoposta a vincolo
paesistico come da D.M. 30.11.1965 e 11.01.1968 (doc. 7 in I
grado ricorrente appellante, ordinanza citata).
Con la sentenza meglio indicata in epigrafe, il TAR ha
respinto il ricorso proposto contro tale ordinanza; in
motivazione, ha ritenuto in sintesi che il soppalco in
questione abbia realizzato un aumento della superficie utile
dell’appartamento, e quindi del carico urbanistico, dato che
ospita un bagno ed un posto letto, e che quindi esso
necessitasse di permesso di costruire; ha ancora ritenuto
che la veranda, costituita da una struttura in legno coperta
da una guaina impermeabile, fosse difforme dalla pergola
coperta di canne che invece era stata assentita.
Contro tale sentenza, l’interessata ha proposto
impugnazione, con appello che contiene un unico motivo,
secondo logica di violazione dell’art. 31 del T.U.
06.06.2001 n. 380, in cui sostiene che gli interventi in
questione richiederebbero, al più, un titolo edilizio minore
come la segnalazione certificata di inizio attività – SCIA,
e in sua mancanza sarebbero passibili di sole sanzioni
pecuniarie.
...
1. L’appello è parzialmente fondato, nei termini di quanto
subito si dirà.
2. L’ordinanza impugnata in primo grado si riferisce a due
distinte opere, ovvero alla realizzazione senza titolo di un
soppalco interno all’abitazione della ricorrente appellante
e alla trasformazione in veranda di un manufatto assentito
come pergola esterna coperta di incannicciato.
Le opere in questione, di natura all’evidenza diversa, vanno
considerate separatamente.
3. Con riferimento al soppalco, vale quanto già affermato in
via generale dalla Sezione in particolare nella sentenza
02.03.2017 n. 985, che si cita per tutte.
3.1 Il soppalco, ovvero lo spazio aggiuntivo che si
ricava all’interno di un locale, di solito come nella
specie, un’abitazione, interponendovi un solaio, è soggetto
ad una disciplina edilizia che non è definita in modo
univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle
caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, il soppalco richiede infatti il
permesso di costruire quando sia di dimensioni non modeste e
comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile
preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R.
06.06.2001, n. 380, con incremento delle relative superfici
dell'immobile e in prospettiva del carico urbanistico: così
per tutte C.d.S. 03.09.2014 n. 4468.
Il soppalco che non sia tale da incrementare la superficie
utile dell’immobile, e in particolare quello che non sia
suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno a sé
stante rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi
minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è
richiesto.
3.2 Applicando il principio appena delineato al caso di
specie, risulta immediato affermare che, come già ritenuto
dal Giudice di primo grado, il soppalco realizzato dalla
ricorrente appellante rientra fra quelli che richiedono il
permesso di costruire.
Esso infatti si compone di uno spazio nel quale è stata
realizzata una piccola stanza da bagno, e quindi, per
definizione, uno spazio fruibile dalle persone: di
conseguenza, il carico urbanistico risulta incrementato, con
necessità di ottenere il titolo edilizio in questione.
4. Considerazioni diverse vanno svolte a proposito della
veranda asseritamente realizzata mediante trasformazione del
pergolato già assentito.
4.1 Con riferimento specifico al pergolato, la
Sezione ha avuto già modo di affermare che lo stesso è una
struttura realizzata al fine di adornare e ombreggiare
giardini o terrazze, costituita un'impalcatura formata da
montanti verticali ed elementi orizzontali che li connettono
ad una altezza tale da consentire il passaggio delle
persone.
Di norma quindi il pergolato, come struttura aperta su tre
lati e nella parte superiore, non richiede alcun titolo
edilizio. Di contro, il pergolato stesso, quando sia coperto
superiormente, anche in parte, con una struttura non
facilmente amovibile, diventa una tettoia, ed è soggetto
alla disciplina relativa: così C.d.S. sez. VI 25.01.2017
n. 306.
5. La disciplina della tettoia, peraltro, non è
definita in modo univoco né nella normativa né in
giurisprudenza.
5.1 Dal punto di vista normativo, va considerato anzitutto
l’art. 6 del T.U. 06.06.2001 n.380, che contiene l’elenco
delle opere di cd edilizia libera, le quali non necessitano
di alcun titolo abilitativo; a prescindere dalla natura
esemplificativa o tassativa che si voglia riconoscere a tale
elenco, va poi osservato che esso comprende voci di per sé
abbastanza generiche, tali da poter ricomprendere anche
opere non espressamente nominate.
Con riferimento alle tettoie, rileva in particolare la voce
di cui all’art. 6, comma 1, lettera e)-quinquies, che
considera opere di edilizia libera gli “elementi di
arredo delle aree pertinenziali degli edifici”, concetto
nel quale può sicuramente rientrare una tettoia
genericamente intesa, come copertura comunque realizzata di
un’area pertinenziale, come il terrazzo.
La norma è stata introdotta dall’art. 3 del d.lgs.
25.11.2016 n. 222, ma si deve considerare applicabile anche
alle costruzioni precedenti, come quella per cui è causa,
per due ragioni.
In primo luogo, nel diritto delle sanzioni è
principio generale e notorio, e come tale non richiede
puntuali citazioni, che non si possano subire conseguenze
sfavorevoli per un comportamento in ipotesi illecito nel
momento in cui è stato realizzato, che più non lo sia quando
si tratti di applicare le sanzioni stesse.
In secondo luogo, la giurisprudenza di cui subito si
dirà, anche in epoca anteriore alla modifica legislativa di
cui s’è detto, distingueva all’interno della categoria in
esame costruzione da costruzione assoggettandola a regime
diverso a seconda delle sue caratteristiche.
5.2 In materia, è poi intervenuto di recente un chiarimento
da parte del legislatore, ovvero il recente D.M. 02.03.2018,
pubblicato nella G.U. 07.04.2018 n. 81, di “Approvazione
del glossario contenente l'elenco non esaustivo delle
principali opere edilizie realizzabili in regime di attività
edilizia libera”, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del
citato d.lgs. 222/2016.
A sua volta, la norma dell’art. 1, comma 2, prevede che “Con
riferimento alla materia edilizia, al fine di garantire
omogeneità di regime giuridico in tutto il territorio
nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e
dei trasporti di concerto con il Ministro delegato per la
semplificazione e la pubblica amministrazione, da emanare
entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del
presente decreto, previa intesa con la Conferenza unificata
di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28.08.1997, n.
281, è adottato un glossario unico, che contiene l'elenco
delle principali opere edilizie, con l'individuazione della
categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del
conseguente regime giuridico a cui sono sottoposte, ai sensi
della tabella A di cui all'articolo 2 del presente decreto”.
Il decreto ministeriale attuativo di cui s’è detto
comprende, al n. 50 del glossario delle opere realizzabili
senza titolo edilizio alcuno, in particolare le cd
pergotende, ovvero, per comune esperienza, strutture di
copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche
non modesta, formate da montanti ed elementi orizzontali di
raccordo e sormontate da una copertura fissa o ripiegabile
formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che
ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando la
fruibilità della struttura. Si tratta quindi di un manufatto
molto simile alla tettoia, che se ne distingue secondo
logica solo per presentare una struttura più leggera.
5.3 Al polo opposto, v’è l’art. 10, comma 1, lettera a), del
T.U. 380/2001, che assoggetta invece al titolo edilizio
maggiore, ovvero al permesso di costruire, “gli
interventi di nuova costruzione”. Come subito si vedrà,
la giurisprudenza si fonda su tale norma per richiedere
appunto il permesso di costruire nel caso di tettoie di
particolari dimensioni e caratteristiche.
Si afferma infatti in via generale che tale struttura
costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il
permesso di costruire nel momento in cui difetta dei
requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi
precari, ovvero quando modifica la sagoma dell’edificio: fra
le molte, C.d.S. sez. IV 08.01.2018 n. 12 e sez. VI
16.02.2017 n. 694.
6. Da tutto ciò, emerge chiara una conseguenza: non è
possibile affermare in assoluto che la tettoia richiede, o
non richiede, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o
non assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare
nello specifico come essa è realizzata.
In proposito, quindi, l’amministrazione ha l’onere di
motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e
completa istruttoria che rilevi esattamente le opere
compiute e spieghi per quale ragione esse superano i limiti
entro i quali si può trattare di una copertura realizzabile
in regime di edilizia libera.
7. Tutto ciò non si ritrova nel provvedimento impugnato, che
come detto in narrativa si limita ad una descrizione
generica di quanto rilevato; esso va allora annullato nella
parte corrispondente indicata in dispositivo, con salvezza
com’è ovvio di eventuali successivi provvedimenti
dell’amministrazione, conseguenti a un congruo riesame della
fattispecie concreta (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.05.2018 n. 2701 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Autorizzazione
paesaggistica postuma - Condono ambientale - Valutazione
della compatibilità paesaggistica - Ordine di rimessione in
pristino dello stato dei luoghi - Artt. 146, 167, e 181
d.lgs. n. 42/2004.
L'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto agli altri titoli edilizi legittimanti
l'intervento edilizio e, al di fuori dei casi previsti
dall'art. 167, commi 4 e 5, d.lgs. n. 42 del 2004, non può
essere rilasciata in sanatoria successivamente alla
realizzazione, anche parziale, degli interventi (art. 146,
comma 4, d.lgs. n. 42/2004; Cons. Stato, Sez. 6, n. 5327 del
24/11/2015), mentre estingue il reato di cui all'art. 181,
comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, solo se espressamente
rilasciata all'esito della speciale procedura di cui
all'art. 181, comma 1-quater, stesso decreto e non ha
equipollenti.
Va ricordato che, con la legge n. 308 del 2014, sono state
apportate modifiche all'art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004,
ed è stata prevista tra l'altro, la possibilità di una
valutazione postuma della compatibilità paesaggistica di
alcuni interventi definibili come "minori", all'esito
della quale, pur mantenendo ferma l'applicazione delle
misure amministrative pecuniarie previste dall'art. 167, non
si applicano le sanzioni penali stabilite per il reato
contravvenzionale contemplato dall'art. 181, comma 1, del
d.lgs. n. 42 del 2004.
In ogni caso, il rilascio del provvedimento di compatibilità
paesaggistica non determina automaticamente la non
punibilità dei predetti reati, in quanto compete sempre al
giudice l'accertamento dei presupposti di fatto e di diritto
legittimanti l'applicazione del cosiddetto condono
ambientale e, comunque, può avere ad oggetto le sole opere
già in origine assentibili perché compatibili con il
paesaggio, sì che lo stesso non può essere condizionato
all'esecuzione di determinati interventi (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.05.2018 n. 19151 -
link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Concessione edilizia in sanatoria rilasciata a
seguito di accertamento di conformità - Effetti sui reati
urbanistici ma non i reati paesaggistici - Art. 36 del
d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
La concessione rilasciata a seguito di accertamento di
conformità ex art. 36 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, estingue
i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche
vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti dal d.lgs.
22.01.2004, n. 42, che sono soggetti ad una disciplina
difforme e differenziata (Sez. 3, n. 40375 del 09/09/2015,
P.M. in proc. Casalanguida) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 04.05.2018 n. 19151 -
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Nelle ipotesi di impugnazione delle ordinanze adottate dal
sindaco ex art. 54 T.u.e.l., adottato con d.lgs. 18.08.2000
n. 267, sussiste non solo la legittimazione passiva in capo
al Comune, ma anche il difetto di legittimazione passiva di
altre amministrazioni statali nelle stesse ipotesi, atteso
che l'imputazione giuridica allo Stato degli effetti
dell'atto dell'organo del Comune ha una natura meramente
formale, nel senso che non per questo il Sindaco diventa
organo di un' amministrazione dello Stato, ma resta
incardinato nel complesso organizzativo dell'ente locale,
senza che il suo status sia modificato.
Il Ministero dell’Interno deve pertanto essere estromesso
dal giudizio per difetto di legittimazione passiva.
---------------
Con il termine ordinanza si richiamano quei provvedimenti
autoritativi che impongono o vietano o regolano. Essi
esprimono un comando più articolato rispetto al semplice
ordine poiché le ordinanze conseguono ad un processo
valutativo. Esse, in altri termini, sono caratterizzate da
ampia discrezionalità.
Le ordinanze sindacali contingibili e urgenti costituiscono
attuazione concreta di un potere extra ordinem attribuito al
Sindaco quale rappresentante della comunità locale per far
fronte ai casi di emergenza sanitaria o igienica a carattere
esclusivamente locale (art. 50, comma 5, TUEL) ovvero quale
ufficiale del Governo al fine di prevenire e di eliminare
gravi pericoli che minaccino l'incolumità pubblica e la
sicurezza urbana (art. 54, comma 4, TUEL).
Nell'ambito del “genere” ordinanza si usa distinguere le
ordinanze di necessità e le ordinanze di necessità e di
urgenza. Nel primo caso, si tratta di atti tipici,
predeterminati nel loro contenuto e negli altri elementi
essenziali, nel secondo caso, invece, il contenuto delle
ordinanze non è predeterminato. Ciò non significa che esso
sia del tutto libero.
I contenuti dell’ordinanza contingibile e urgente sono
conformati in astratto dal fine per cui è attribuito il
relativo potere. In concreto, si devono conformare alla
situazione di necessità cui si deve far fronte.
Quindi l'ordinanza deve essere coerente nei contenuti con il
suo specifico presupposto oggettivo.
Questo significa che solo nei casi in cui l'ordinamento non
abbia disciplinato altro possibile strumento adatto alla
situazione concreta, è possibile ricorrere all'ordinanza di
necessità e di urgenza.
Si tratta di una soluzione eccezionale e residuale.
In presenza di norme che attribuiscono poteri idonei a
regolare la situazione concreta l'amministrazione non può
ricorrere a poteri extra ordinem.
Caratteristiche essenziali delle ordinanze sono, in
definitiva, l'atipicità e l'indeterminatezza.
Si tratta di caratteristiche funzionali all'elasticità dei
possibili contenuti ed è la ragione per cui l'adozione di
questi atti deve essere circoscritta a casi eccezionali
rigorosamente definiti dai presupposti della contingibilità
e dell'urgenza.
---------------
Il potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili e
urgenti ha natura residuale.
Il suo esercizio presuppone la necessità di provvedere in
via d'urgenza con strumenti extra ordinem per far fronte a
situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di
pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, cui
non si può provvedere con gli strumenti ordinari apprestati
dall'ordinamento; i provvedimenti in parola sono perciò
connotati da provvisorietà e temporaneità quanto agli
effetti e da proporzionalità rispetto al pericolo cui
ovviare.
E' pertanto illegittimo adottare ordinanze contingibili e
urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti
o quando non vi sia "urgenza" di provvedere, cioè l'assoluta
necessità di porre in essere un intervento non rinviabile a
tutela della pubblica incolumità.
---------------
Va anzitutto esaminata l’eccezione sollevata dal Ministero
dell’Interno che afferma il proprio difetto di
legittimazione passiva.
L’eccezione è fondata.
Nelle ipotesi di impugnazione delle ordinanze adottate dal
sindaco ex art. 54 T.u.e.l., adottato con d.lgs. 18.08.2000 n. 267, sussiste non solo la legittimazione passiva in
capo al Comune, ma anche il difetto di legittimazione
passiva di altre amministrazioni statali nelle stesse
ipotesi, atteso che l'imputazione giuridica allo Stato degli
effetti dell'atto dell'organo del Comune ha una natura
meramente formale, nel senso che non per questo il Sindaco
diventa organo di un' amministrazione dello Stato, ma resta
incardinato nel complesso organizzativo dell'ente locale,
senza che il suo status sia modificato (Consiglio di Stato,
sez. IV, 29.04.2014, n. 2221, Tar Sardegna, sez. I, 03.11.2017, n. 679).
Il Ministero dell’Interno deve pertanto essere estromesso
dal giudizio per difetto di legittimazione passiva.
Nel merito il ricorso è fondato.
Occorre svolgere alcune considerazioni di carattere
generale.
Con il termine ordinanza si richiamano quei provvedimenti
autoritativi che impongono o vietano o regolano. Essi
esprimono un comando più articolato rispetto al semplice
ordine poiché le ordinanze conseguono ad un processo
valutativo. Esse, in altri termini, sono caratterizzate da
ampia discrezionalità.
Le ordinanze sindacali contingibili e urgenti costituiscono
attuazione concreta di un potere extra ordinem attribuito al
Sindaco quale rappresentante della comunità locale per far
fronte ai casi di emergenza sanitaria o igienica a carattere
esclusivamente locale (art. 50, comma 5, TUEL) ovvero quale
ufficiale del Governo al fine di prevenire e di eliminare
gravi pericoli che minaccino l'incolumità pubblica e la
sicurezza urbana (art. 54, comma 4, TUEL).
Nell'ambito del “genere” ordinanza si usa distinguere le
ordinanze di necessità e le ordinanze di necessità e di
urgenza. Nel primo caso, si tratta di atti tipici,
predeterminati nel loro contenuto e negli altri elementi
essenziali, nel secondo caso, invece, il contenuto delle
ordinanze non è predeterminato. Ciò non significa che esso
sia del tutto libero.
I contenuti dell’ordinanza contingibile e urgente sono
conformati in astratto dal fine per cui è attribuito il
relativo potere. In concreto, si devono conformare alla
situazione di necessità cui si deve far fronte.
Quindi l'ordinanza deve essere coerente nei contenuti con il
suo specifico presupposto oggettivo.
Questo significa che solo nei casi in cui l'ordinamento non
abbia disciplinato altro possibile strumento adatto alla
situazione concreta, è possibile ricorrere all'ordinanza di
necessità e di urgenza.
Si tratta di una soluzione eccezionale e residuale.
In presenza di norme che attribuiscono poteri idonei a
regolare la situazione concreta l'amministrazione non può
ricorrere a poteri extra ordinem.
Caratteristiche essenziali delle ordinanze sono, in
definitiva, l'atipicità e l'indeterminatezza.
Si tratta di caratteristiche funzionali all'elasticità dei
possibili contenuti ed è la ragione per cui l'adozione di
questi atti deve essere circoscritta a casi eccezionali
rigorosamente definiti dai presupposti della contingibilità
e dell'urgenza.
Occorre domandarsi quindi quali siano i presupposti, in
concreto, per adottare un’ordinanza contingibile e urgente.
Essi sono individuati da una giurisprudenza ormai del tutto
pacifica che il Collegio ha già richiamato nell’esame della
domanda cautelare.
E’ qui sufficiente ribadire che il potere del Sindaco di
emanare ordinanze contingibili e urgenti ha natura
residuale; il suo esercizio presuppone la necessità di
provvedere in via d'urgenza con strumenti extra ordinem per
far fronte a situazioni di natura eccezionale ed
imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per
l'incolumità pubblica, cui non si può provvedere con gli
strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento; i
provvedimenti in parola sono perciò connotati da
provvisorietà e temporaneità quanto agli effetti e da
proporzionalità rispetto al pericolo cui ovviare; è pertanto
illegittimo adottare ordinanze contingibili e urgenti per
fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando
non vi sia "urgenza" di provvedere, cioè l'assoluta
necessità di porre in essere un intervento non rinviabile a
tutela della pubblica incolumità (ex multis, Consiglio di
Stato, sez. V, 14/11/2017, n. 5239).
Nessuno di questi presupposti sussiste nel caso che qui
occupa il Collegio.
E’ sufficiente precisare, dopo un esame degli atti di causa
che:
1) la necessità di garantire il libero transito all’arenile
al fine di favorire il servizio di salvamento a mare e il
ritiro dei rifiuti e l’accesso dei mezzi di soccorso medico,
antincendio e di protezione civile è nota
all’amministrazione da lunghissimo tempo;
2) la ricorrente ha ripetutamente comunicato la
disponibilità (si veda per esempio la nota del 19.07.2017, documento 18 produzioni dell’amministrazione) “a
consentire l’agevole accesso all’arenile ed a concordare le
modalità che possano garantire pienamente l’interesse
pubblico alla sicurezza della balneazione”;
3) il provvedimento adottato dal Sindaco è palesemente privo
del requisito della temporaneità.
La difesa dell’amministrazione afferma che il provvedimento
emanato dall’Amministrazione comunale di Ga. è da
inquadrarsi (anche) nel novero delle ordinanze ex art. 378 L
2248/1865 All. F, utilizzabili dalla P.A. in esplicazione
del potere di autotutela possessoria e, per altro verso, di
quelli derivanti dalle norme di cui agli articoli 822 e ss.
del codice civile, per ripristinare lo stato dei luoghi onde
consentire il libero transito sulle vie di proprietà e/o di
uso pubblico (memoria depositata il 19.02.2018).
Ma anche così configurato il provvedimento sarebbe
illegittimo.
Questa Sezione ha recentemente chiarito quali sono i
presupposti per l’adozione di un atto quale quello che il
Comune assume di avere adottato (Tar Sardegna, sez. I, 03.11.2017, n. 679).
Ma tali presupposti non sussistono dato che la situazione in
questo caso è del tutto particolare.
Il privato non ha interrotto alcun uso pubblico dei beni che
da tempo sono nella disponibilità di Ba. di Ga. s.p.a.
che, per inciso, ha ampiamente argomentato in ordine alla
sussistenza del proprio titolo legittimante.
Quale che sia, quindi, la natura del provvedimento che il
Sindaco ha adottato, esso resta illegittimo.
Difettano i presupposti per la sua adozione sia che lo si
inquadri come ordinanza contingibile e urgente sia che lo si
inquadri, come da ultimo classificato dalla difesa del
Comune, come atto di autotutela possessoria.
Il Comune quindi, per risolvere le problematiche segnalate,
dovrà utilizzare (per tempo) gli ordinari strumenti previsti
dall’ordinamento.
Il ricorso è, in definitiva, fondato e deve essere accolto
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 04.05.2018 n. 406 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Va evidenziata l’illegittimità del diniego di
sanatoria, siccome carente sia della formale comunicazione
dei motivi ostativi sia di adeguato riscontro alle
osservazioni che l’interessato avrebbe ben potuto
presentare.
Occorre premettere, al riguardo, che un’applicazione
corretta dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 esige,
non solo che l’Amministrazione enunci compiutamente nel
preavviso di provvedimento negativo le ragioni che intende
assumere a fondamento del diniego, ma anche che le integri,
nella determinazione conclusiva (ovviamente, se ancora
negativa), con le argomentazioni finalizzate a confutare la
fondatezza delle osservazioni formulate dall’interessato
nell’ambito del contraddittorio predecisorio attivato
dall’adempimento procedurale in questione.
Infatti, solo il modus procedendi appena descritto permette
che la disposizione di riferimento assolva la sua funzione
di consentire un effettivo ed utile confronto dialettico con
l’interessato prima della formalizzazione dell’atto
negativo, evitando che si traduca in un inutile e sterile
adempimento formale (peraltro neppure rispettato nel caso di
specie).
In linea generale va ribadito che, a seguito delle modifiche
introdotte dalla l. 11.02.2005 n. 15, l'istituto del
preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis, l. n. 241 del
1990 -introdotto dall'art. 6 della prima legge menzionata-
stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei
procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la
conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento
di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia
stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui al
citato art. 10-bis in quanto preclusivo per il soggetto
interessato della piena partecipazione al procedimento e
dunque della possibilità di uno apporto collaborativo,
capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda.
---------------
Considerato in diritto che:
...
- nel merito, l’appello appare prima facie fondato sotto
l’assorbente profilo della violazione delle garanzie
procedimentali;
- va evidenziata l’illegittimità del diniego di sanatoria, siccome
carente sia della formale comunicazione dei motivi ostativi
sia di adeguato riscontro alle osservazioni che
l’interessato avrebbe ben potuto presentare;
- occorre premettere, al riguardo, che un’applicazione corretta
dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 esige, non solo
che l’Amministrazione enunci compiutamente nel preavviso di
provvedimento negativo le ragioni che intende assumere a
fondamento del diniego, ma anche che le integri, nella
determinazione conclusiva (ovviamente, se ancora negativa),
con le argomentazioni finalizzate a confutare la fondatezza
delle osservazioni formulate dall’interessato nell’ambito
del contraddittorio predecisorio attivato dall’adempimento
procedurale in questione (Cons. St., sez. I, 25.03.2015, n.
80);
- infatti, solo il modus procedendi appena descritto
permette che la disposizione di riferimento assolva la sua
funzione di consentire un effettivo ed utile confronto
dialettico con l’interessato prima della formalizzazione
dell’atto negativo, evitando che si traduca in un inutile e
sterile adempimento formale (peraltro neppure rispettato nel
caso di specie);
- in linea generale va ribadito che, a seguito delle modifiche
introdotte dalla l. 11.02.2005 n. 15, l'istituto del
preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis, l. n. 241 del
1990 -introdotto dall'art. 6 della prima legge menzionata-
stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei
procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la
conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento
di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia
stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui al
citato art. 10 bis in quanto preclusivo per il soggetto
interessato della piena partecipazione al procedimento e
dunque della possibilità di uno apporto collaborativo,
capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda;
- nel caso di specie, contrariamente a quanto desumibile dalla
sentenza appellata, non è applicabile la sanatoria
processuale, sia per la generale natura discrezionale del
potere edilizio in oggetto sia, in termini dirimenti, per la
mancanza della necessaria eccezione processuale della difesa
di parte pubblica;
- peraltro, emerge una evidente contraddittorietà della sentenza
appellata laddove ha concluso nel senso che la
partecipazione non avrebbe potuto incidere sul contenuto
sostanziale del provvedimento, a fronte della carenza di
elementi istruttori ricavabili dall’attività amministrativa
confluita nel provvedimento impugnato, come all’evidenza
dimostrato dal fatto che lo stesso Tar ha ritenuto
necessario svolgere uno specifico accertamento istruttorio,
disponendo una apposita consulenza tecnica d’ufficio;
- se appare in generale necessario garantire il preliminare esame
degli elementi istruttori prodotti da parte originaria
istante nell’ambito della naturale sede procedimentale, ciò
occorre a maggior ragione nel caso di specie laddove lo
stesso Comune aveva evidenziato, come da nota datata
16.07.2008, l’avvenuta esecuzione della pregressa ordinanza
sanzionatoria, in termini direttamente contraddittori
rispetto al successivo diniego qui in contestazione;
- alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va accolto
e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, va
accolto il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato Sez.
V,
sentenza 02.05.2018 n. 2615 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 15, comma 2, d.p.r.
06.06.2001, n. 380, il termine per l'inizio dei lavori non
può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo;
quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere
completata, non può superare tre anni dall'inizio dei
lavori.
Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la
parte non eseguita tranne che, anteriormente alla scadenza,
sia stata richiesta una proroga e l'effetto decadenziale si
riconnette al mero dato fattuale del mancato avvio dei
lavori entro il termine annuale fissato dalla legge.
In altri termini la decadenza del permesso di costruire
costituisce effetto automatico del trascorrere del tempo,
che per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un
anno dal rilascio del titolo abilitativo e la pronunzia di
decadenza del permesso a costruire ha carattere strettamente
vincolato all'accertamento del mancato inizio e
completamento dei lavori entro i termini stabiliti dalla
norma stessa (rispettivamente un anno e tre anni dal
rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga), e natura
ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a
costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione.
Decadenza che opera di diritto, con la conseguenza che non è
richiesta l'adozione di un provvedimento amministrativo
espresso.
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Secondo giurisprudenza consolidata e condivisibile l'onere
della prova del mancato inizio dei lavori assentiti con
licenza edilizia ovvero con permesso a costruire, incombe
sul Comune che ne dichiara la decadenza alla stregua del
principio generale in forza del quale i presupposti
dell'atto adottato devono essere accertati dall'autorità
emanante.
Sempre secondo gli insegnamenti più recenti e condivisibili
della giurisprudenza, l'inizio dei lavori, ai sensi
dell'art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 -norma
sostanzialmente conforme al citato art. 60 l.r. 11/9- deve
intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono
desumersi dagli indizi rilevati sul posto.
Pertanto i lavori debbono ritenersi «iniziati» quando
consistono nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè
nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di elementi
portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di
scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo
edificio per evitare che il termine di decadenza del
permesso possa essere eluso con ricorso ad interventi
fittizi e simbolici.
La mera esecuzione di lavori di sbancamento è, di per sé,
inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto
dell'effettivo inizio dei lavori, entro il termine di un
anno dal rilascio del permesso di costruire a pena di
decadenza del titolo abilitativo (art. 15 d.P.R. n.
380/2001), essendo necessario che lo sbancamento sia
accompagnato dalla compiuta organizzazione del cantiere e da
altri indizi idonei a confermare l'effettivo intendimento
del titolare del permesso di costruire di realizzare l'opera
assentita.
L'effettivo inizio dei lavori edili deve essere valutato non
in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale
riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento
edilizio così come programmato e autorizzato; l'inizio dei
lavori, idoneo ad impedire la decadenza del titolo edilizio,
può ritenersi sussistente quando le opere intraprese sono
tali da evidenziare l'effettiva volontà di realizzare
l'opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice
sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti
e materiali da costruzione.
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Come sottolineato dalla giurisprudenza, nel settore edile la
decadenza costituisce l'effetto automatico dell'inutile
decorso del termine entro cui i lavori si sarebbero dovuti
iniziare e concludere; pertanto, essa ha natura non già
costitutiva, bensì dichiarativa con efficacia ex tunc di un
effetto verificatosi ex se e direttamente e in tal modo va
letto l'art. 15, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in
virtù del quale, inutilmente decorsi detti termini, il
permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne
che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una
proroga.
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L'istituto della proroga dei termini, quale provvedimento di
secondo grado, modifica, ancorché parzialmente, il complesso
degli effetti giuridici delineati dall'atto originario,
accedendo all'originaria concessione ed operando uno
spostamento in avanti del suo termine finale di efficacia,
ciò diversamente dal rinnovo della concessione edilizia che
implica il rilascio di un nuovo ed autonomo titolo,
subordinato ad una nuova ed autonoma verifica dei
presupposti richiesti dalle norme urbanistiche vigenti al
momento del rilascio salvo, naturalmente, che le opere
ancora da eseguire rientrino tra quelle realizzabili
mediante segnalazione certificata di inizio attività.
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Il motivo è infondato.
Come accennato, con il provvedimento del 16.08.2017 e
quello, da quest’ultimo richiamato, datato 01.06.2017, il
Comune di Courmayeur, nel rigettare l’istanza di variante
alla concessione/permesso a costruire originaria n. 61 del
22.11.2011, ha ritenuto decaduta la concessione medesima
perché i lavori di fatto non sono mai stati iniziati.
In tal senso, quindi, i provvedimenti impugnati, ancorché
resi nell’ambito di un procedimento instaurato per la
variante alla originaria concessione edilizia, contengono un
accertamento ed una statuizione esplicitamente dichiarativa
dell’intervenuta decadenza di quest’ultima.
Ai sensi dell’art 60, comma 6, l.r. 11/1998, decorsi i
termini di cui al comma 5 (cioè quelli di inizio e fine dei
lavori come previsti nella concessione-permesso a
costruire), il permesso di costruire decade di diritto per
la parte non eseguita, salvo che, anteriormente alla
scadenza, sia richiesta una proroga. La proroga può essere
accordata con provvedimento motivato per una sola volta e
per un periodo non superiore a ventiquattro mesi, per cause
indipendenti dalla volontà del titolare del permesso di
costruire che abbiano ritardato i lavori in corso di
esecuzione.
Il fatto che la declaratoria di decadenza non sia stata resa
nell’ambito di un procedimento autonomo rispetto a quello
sorto in conseguenza della richiesta di variante da parte
del La. non rileva, in quanto è necessario e sufficiente che
il provvedimento di rigetto della predetta istanza sia
preceduto da una declaratoria espressa e motivata
dell’intervenuta decadenza, quale effetto ex lege
conseguente all’accertamento –in questo caso- del mancato
inizio dei lavori.
Al riguardo, va richiamato il più recente insegnamento
espresso dal Consiglio di Stato secondo il quale, ai sensi
dell'art. 15, comma 2, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, il termine
per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno
dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il
quale l'opera deve essere completata, non può superare tre
anni dall'inizio dei lavori; decorsi tali termini il
permesso decade di diritto per la parte non eseguita tranne
che, anteriormente alla scadenza, sia stata richiesta una
proroga e l'effetto decadenziale si riconnette al mero dato
fattuale del mancato avvio dei lavori entro il termine
annuale fissato dalla legge; in altri termini la decadenza
del permesso di costruire costituisce effetto automatico del
trascorrere del tempo, che per l'inizio dei lavori non può
essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo
abilitativo e la pronunzia di decadenza del permesso a
costruire ha carattere strettamente vincolato
all'accertamento del mancato inizio e completamento dei
lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa
(rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo
abilitativo, salvo proroga), e natura ricognitiva del venir
meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia
del titolare a darvi attuazione; decadenza che opera di
diritto, con la conseguenza che non è richiesta l'adozione
di un provvedimento amministrativo espresso (così, Consiglio
di Stato, sez. IV, 10/07/2017, n. 3371).
Peraltro, la soluzione della questione non sarebbe
differente anche qualora si considerasse il parzialmente
diverso precedente principio di diritto espresso dal
Consiglio di Stato secondo il quale, sebbene la decadenza
del permesso di costruire ai sensi dell'art. 15, comma 2,
d.P.R. n. 380 del 2001 costituisca un effetto che discende
dall'inutile decorso del termine di inizio e/o completamento
nondimeno s’impone l’adozione di un provvedimento formale da
parte del competente organo comunale, ancorché meramente
dichiarativo e con efficacia ex tunc: questo perché
la ratio della necessaria intermediazione di un
formale provvedimento amministrativo di carattere
dichiarativo va ravvisata nell'esigenza di assicurare il
contraddittorio con il privato in ordine all'esistenza dei
presupposti di fatto e di diritto che giustificano la
pronuncia stessa (così, Consiglio di Stato, sez. IV,
22/10/2015, n. 4823).
Nel caso di specie la finalità di consentire una forma di
interlocuzione al procedimento de quo è stata comunque
assicurata se è vero che con la comunicazione del 01.06.2017
la P.A. ha concretamente instaurato il contraddittorio con
il La. in ordine alla stessa.
E d’altra parte non è previsto normativamente, e le pronunce
sopra richiamate del Consiglio di Stato sostanzialmente
escludono la necessità, che il provvedimento dichiarativo
della intervenuta decadenza debba essere reso nell’ambito di
un procedimento ad hoc, autonomo e precedente, ad
esempio, a quello di autorizzazione alla variante.
E’ sufficiente, invece, che, come nel caso di specie,
nell’ambito di un procedimento comunque connesso con quello
all’esito del quale era stato adottata la concessione
edilizia-permesso a costruire, la decadenza venga accertata
e motivatamente dichiarata anche solo in via incidentale,
come premessa per l’adozione del provvedimento conclusivo e
che il soggetto controinteressato all’accertamento della
decadenza sia stato messo in condizione di poter
interloquire con la P.A.
Poiché nel caso di specie, come accennato, il La. ha
ricevuto la missiva ai sensi dell’art. 16 l. 11/1998
(istituto sostanzialmente omologo a quello di cui all’art
10-bis l. 241/1990), attesa, altresì, la natura vincolata
dell’accertamento e del provvedimento dichiarativo
dell’intervenuta decadenza, la mancanza di un autonomo
procedimento e di una formale comunicazione di avvio dello
stesso non rileva in quanto la partecipazione del La. alla
valutazione in questione è stata garantita.
Si può passare ora agli ulteriori motivi di impugnazione, in
ordine ai quali è possibile procedere ad un esame unitario.
In primo luogo, il La. lamenta “violazione e falsa
applicazione degli artt. 59, 60 e 60-bis della L.R. n.
11/1998, eccesso di potere per palese contraddittorietà e
illogicità della motivazione, eccesso di potere per difetto
di istruttoria” in quanto:
- in data 19.10.2012 il Geom. Re. aveva comunicato formale denuncia
di inizio lavori regolarmente protocollata e inviata anche
alla competente Asl e alla Direzione Regionale del Lavoro
indicando come data presunta di inizio lavori il 19.10.2012;
- successivamente a tale data il Re. aveva dato effettivamente
avvio ai lavori, entro il 21.11.2012, realizzando a) la
picchettatura e la recinzione del cantiere; b) i lavori di
sbancamento prodromici alla posa delle solette e della
muratura; c) la posa delle tubature e degli allacciamenti
relativi all’impianto fognario per consentire il deflusso
dell’acqua; d) gli allacciamenti relativi all’acquedotto,
all’acqua corrente, all’energia elettrica;
- i rilievi effettuati dal geom. Sa. per conto delle
controinteressate Be.Ro. ed El. tra il mese di settembre
2016 e il mese di maggio 2017 e quelli successivi eseguiti
dai tecnici comunali in data 31.5.2017 non rilevano essendo
stati eseguiti a distanza di cinque anni dalla dichiarazione
di inizio lavori;
- la mancata prosecuzione dei lavori è stata incolpevole è ha
determinato un mutamento dello stato dei luoghi.
In secondo luogo, il ricorrente lamenta “violazione e
falsa applicazione dell’art. 60 della L.R. n. 11/1998 e
dall’art 15 del D.P.R. 380/2001; eccesso di potere per
palese contraddittorietà e illogicità della motivazione;
eccesso di potere per difetto di istruttoria”, in
quanto:
- a seguito dell’avviso di inizio lavori del 19.10.2012 non era
stato più possibile proseguire gli stessi sia a causa del
peggioramento delle condizioni atmosferiche, e della
conseguente ordinanza sindacale di chiusura della strada
comunale della Val Veny sino alla primavera successiva, sia
per il peggioramento delle condizioni di salute del Re., al
quale, già provato per una neuropatia dal 2010, era stata
diagnosticata, nel dicembre 2012, una forma tumorale alla
laringe successivamente estesasi anche al polmone sinistro e
alle ossa fino alla morte del predetto in data 26.02.2016;
- il Comune resistente concedendo la proroga della data di fine
lavori con provvedimento in data 14.07.2016 ha ritenuto
meritevoli di accoglimento e condivisione le summenzionate
motivazioni ritenendo che dall’autunno 2012 il Re. non fosse
in grado svolgere il ruolo di direttore dei lavori e,
implicitamente, che i lavori fossero già stati iniziati.
Nessuna delle doglianze predette è accoglibile.
Occorre muovere dalla questione relativa alla contestata
erroneità dell’accertamento dei fatti e alla asserita
carenza di istruttoria da parte della P.A.
La concessione edilizia n. 61/11 del 22.11.2011 ottenuta da
Re.An. e ritirata dallo stesso in data 02.12.2011 prevedeva
come data ultima per l’inizio dei lavori il 21.11.2012, e
come termine di ultimazione dei lavori 60 giorni dalla data
di inizio dei lavori.
Nella comunicazione di inizio lavori e in quella di apertura
cantiere (docc. 1 e 2 parte intervenuta Re.) Re.An. ha
indicato come data di inizio dei lavori quella del
19.10.2012 e se medesimo come responsabile e direttore dei
lavori.
Occorre premettere che secondo giurisprudenza consolidata e
condivisibile l'onere della prova del mancato inizio dei
lavori assentiti con licenza edilizia ovvero con permesso a
costruire, incombe sul Comune che ne dichiara la decadenza
alla stregua del principio generale in forza del quale i
presupposti dell'atto adottato devono essere accertati
dall'autorità emanante (in questo senso si vedano Consiglio
di Stato, sez. V, 11/04/1990, n. 343; TAR Campania, Napoli
sez. II, 27/04/2005, n. 4817).
Sempre secondo gli insegnamenti più recenti e condivisibili
della giurisprudenza, l'inizio dei lavori, ai sensi
dell'art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 -norma
sostanzialmente conforme al citato art. 60 l.r. 11/9- deve
intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono
desumersi dagli indizi rilevati sul posto. Pertanto i lavori
debbono ritenersi «iniziati» quando consistono nel
concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell'impianto del
cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti, nella
elevazione di muri e nella esecuzione di scavi preordinati
al gettito delle fondazioni del costruendo edificio per
evitare che il termine di decadenza del permesso possa
essere eluso con ricorso ad interventi fittizi e simbolici.
La mera esecuzione di lavori di sbancamento è, di per sé,
inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto
dell'effettivo inizio dei lavori, entro il termine di un
anno dal rilascio del permesso di costruire a pena di
decadenza del titolo abilitativo (art. 15 d.P.R. n.
380/2001), essendo necessario che lo sbancamento sia
accompagnato dalla compiuta organizzazione del cantiere e da
altri indizi idonei a confermare l'effettivo intendimento
del titolare del permesso di costruire di realizzare l'opera
assentita (Consiglio di Stato, sez. VI, 19/09/2017, n.
4381); l'effettivo inizio dei lavori edili deve essere
valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e
puntuale riferimento all'entità ed alle dimensioni
dell'intervento edilizio così come programmato e
autorizzato; l'inizio dei lavori, idoneo ad impedire la
decadenza del titolo edilizio, può ritenersi sussistente
quando le opere intraprese sono tali da evidenziare
l'effettiva volontà di realizzare l'opera, non essendo a ciò
sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la
predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione
(Consiglio di Stato, sez. V, 31/08/2017, n. 4150).
Ora nella specie, nel verbale di sopralluogo eseguito dai
tecnici comunali in data 31.05.2017, sulla scorta del quale
sono stati poi emessi i provvedimenti impugnati, è stato
constatato che: <<all’interno dell’area oggetto di lavori
non si rilevano attività edilizie in corso né opere edili
considerevoli realizzate. Nel sedime del rudere sono
presenti un tubo di derivazione dell’acqua con relativo
rubinetto e dei passacavi corrugati in plastica. E’ presente
una recinzione in legno in stato di degrado e abbandono che
delimita parzialmente una parte d’area oggetto dei lavori di
cui alla C.E. 61/11. Alla base della recinzione ci sono
ammassate delle reti di cantiere di colore arancione e
verde. Inoltre, non è stato apposto nessun cartello di
cantiere>>.
Tale documento e i rilievi in esso contenuti devono
ritenersi di per sé idonei a fondare un legittimo
provvedimento di decadenza salva un’eventuale prova
contraria, da parte del controinteressato, idonea a
dimostrare l’effettiva esecuzione di opere sufficienti a
integrare un’ipotesi di inizio lavori.
La documentazione prodotta dal ricorrente e dalle
intervenute al riguardo non è idonea ad integrare la prova
contraria di cui sopra.
In particolare, la documentazione fotografica depositata dal
La. (doc 10) è priva di data, né è possibile determinarla
aliunde, sicché non può essere con certezza affermato
che rappresenti la situazione dei luoghi al momento del
19.10.2012; nello stesso senso, la planimetria (doc. 8) così
come il regolamento utenti del nuovo collettore fognario del
Cuignon nel Comune di Courmayeur (doc 9) non recano la data
né è possibile accertarla aliunde. Infine, la fattura
(doc. 11) è di data successiva e non consente di capire
quando sono stati eseguiti i lavori indicati nella stessa.
Le opere asseritamente eseguite dal Re. e dedotte da parte
ricorrente nell’atto introduttivo come sopra riportate,
quindi, non risultano adeguatamente provate; del resto, se
anche lo fossero, non sarebbero comunque idonee ad integrare
quanto richiesto dalla giurisprudenza citata affinché i
lavori possano ritenersi “iniziati”.
Il fatto, poi, che il sopralluogo da parte dei tecnici
comunali e il relativo accertamento sia avvenuto solo in
data 31.05.2017 non rende illegittima la declaratoria di
decadenza, in quanto deve ritenersi che in mancanza di prova
contraria la situazione attuale corrisponda a quella
esistente alla data di inizio dei lavori (19.10.2012).
Parte ricorrente, infatti, non ha fornito idonei elementi di
prova atti a dimostrare che la condizione dei luoghi attuale
sia mutata in modo rilevante rispetto a tale ultima data, né
ciò è possibile affermarlo in via meramente presuntiva.
Esaminiamo, quindi, la questione relativa alla –solo
apparente– contraddittorietà esistente tra i provvedimenti
per i quali è causa e quello di proroga del 14.07.2016
emesso dal Comune di Courmayeur e più sopra citato.
In quest’ultimo provvedimento la P.A. ha motivato
richiamando l’art. 60 della L. R. 11/1998 e ritenendo, ai
fini del rispetto del termine di completamento dei lavori,
sussistenti cause giustificative della proroga indipendenti
dalla volontà del titolare della concessione, dando atto
che:
- Re.An. era cointestatario della Concessione Edilizia n. 61/11 ed
era anche direttore dei lavori architettonici e strutturali;
- dalla documentazione presentata in data 20.06.2016 (ovvero quella
medica richiamata e depositata da parte ricorrente anche nel
presente giudizio) emergeva che il Re. era in precarie
condizioni di salute e che dall’autunno 2012 le sue
condizioni di salute erano peggiorate in maniera
significativa tale da non consentirgli di svolgere il
compito di direttore di lavori;
Come accennato, secondo il La. e parte intervenuta i
provvedimenti impugnati sarebbero illegittimi perché
l’accertamento dell’intervenuta decadenza doveva ritenersi
precluso alla luce della suddetta proroga, atteso che il
Comune, nell’accordare la stessa, non può non aver accertato
la regolarità e tempestività dell’inizio dei lavori.
Occorre evidenziare che il provvedimento di proroga non
contiene alcun accertamento espresso in ordine al rispetto
del termine di inizio dei lavori, né può ritenersi che ciò
sia implicito, in quanto, a ben vedere, la motivazione è
integralmente incentrata sulla fondatezza dei motivi
addotti, dalle allora titolari della concessione edilizia
(le intervenute Re.), quali “cause indipendenti dalla
volontà del titolare del permesso di costruire che abbiano
ritardato i lavori in corso di esecuzione”.
Ecco, quindi, che a fronte di un provvedimento che nulla
accerta in ordine alla tempestività dell’inizio dei lavori,
non solo non vi erano preclusioni per il Comune, ma la
declaratoria di decadenza deve ritenersi un atto dovuto da
parte della P.A..
Come sottolineato dalla giurisprudenza, infatti, nel settore
edile la decadenza costituisce l'effetto automatico
dell'inutile decorso del termine entro cui i lavori si
sarebbero dovuti iniziare e concludere; pertanto, essa ha
natura non già costitutiva, bensì dichiarativa con efficacia
ex tunc di un effetto verificatosi ex se e
direttamente e in tal modo va letto l'art. 15, comma 2,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in virtù del quale, inutilmente
decorsi detti termini, il permesso decade di diritto per la
parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza,
venga richiesta una proroga (così, Consiglio di Stato, sez.
IV, 15/04/2016, n. 1520).
Pertanto, al momento dell’adozione della proroga la
concessione originaria aveva già perduto ogni effetto,
sicché, non solo la variante richiesta dal La. non poteva
essere autorizzata, non essendovi più alcuna concessione
efficace, ma anche la stessa proroga è provvedimento che,
se, da un lato, non avrebbe dovuto essere adottato,
dall’altro in ogni caso, essendo meramente accessorio della
concessione originaria, partecipa delle sorti di
quest’ultimo.
Infatti, l'istituto della proroga dei termini, quale
provvedimento di secondo grado, modifica, ancorché
parzialmente, il complesso degli effetti giuridici delineati
dall'atto originario, accedendo all'originaria concessione
ed operando uno spostamento in avanti del suo termine finale
di efficacia, ciò diversamente dal rinnovo della concessione
edilizia che implica il rilascio di un nuovo ed autonomo
titolo, subordinato ad una nuova ed autonoma verifica dei
presupposti richiesti dalle norme urbanistiche vigenti al
momento del rilascio salvo, naturalmente, che le opere
ancora da eseguire rientrino tra quelle realizzabili
mediante segnalazione certificata di inizio attività (così,
Consiglio di Stato, sez. IV, 05/07/2017, n. 3283).
Essendo priva di autonomia, quindi, la proroga subisce
inevitabilmente l’effetto caducatorio, ex tunc e
operante di diritto, della decadenza dell’originaria
concessione (TAR Valle d'Aosta,
sentenza 18.04.2018 n. 26 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Per pacifica giurisprudenza, il provvedimento
amministrativo, preceduto da atti istruttori, può ritenersi
adeguatamente motivato per relationem anche con il mero
richiamo ad essi giacché tale richiamo sottintende
l'intenzione dell'Autorità emanante di farli propri,
assumendoli a causa giustificativa della determinazione
adottata, purché dal complesso degli atti del procedimento
siano evincibili le ragioni giuridiche che supportano la
decisione, onde consentire al destinatario di contrastarle
con gli strumenti offerti dall'ordinamento e al giudice
amministrativo, ove investito della relativa controversia,
di sindacarne la fondatezza.
---------------
Va soggiunto che l'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 -che
attribuisce ai soggetti nei confronti dei quali il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti la
facoltà di "presentare memorie scritte e documenti, che
l'amministrazione ha l'obbligo di valutare ove siano
pertinenti all'oggetto del procedimento"- non impone la
puntuale, analitica confutazione delle osservazioni
presentate dalla parte privata a seguito della ricezione
della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento
dell'istanza, essendo sufficiente ai fini della
giustificazione del provvedimento adottato la motivazione
complessivamente resa a sostegno dell'atto stesso che renda
nella sostanza percepibili le ragioni del mancato
adeguamento alle deduzione difensive dei privati.
---------------
3. Con il secondo e quarto motivo la
ricorrente lamenta che il provvedimento di diniego è
motivato con il mero richiamo “per relationem” ai motivi
ostativi all’accoglimento della istanza, riprodotti nella
premessa e che le articolate osservazioni dalla medesima
presentate siano state del tutto ignorate, in quanto
ritenute “inidonee ad apportare elementi tali da far
riconsiderare quanto già comunicato”.
La censura non ha pregio.
3.1. Va premesso che, per pacifica giurisprudenza, il
provvedimento amministrativo, preceduto da atti istruttori,
può ritenersi adeguatamente motivato per relationem anche
con il mero richiamo ad essi giacché tale richiamo
sottintende l'intenzione dell'Autorità emanante di farli
propri, assumendoli a causa giustificativa della
determinazione adottata, purché dal complesso degli atti del
procedimento siano evincibili le ragioni giuridiche che
supportano la decisione, onde consentire al destinatario di
contrastarle con gli strumenti offerti dall'ordinamento e al
giudice amministrativo, ove investito della relativa
controversia, di sindacarne la fondatezza (Cons. St., sez. VI, 24.02.2011, n. 1156; id. sez. IV, 03.08.2010,
n. 5150).
Va soggiunto che l'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 -che
attribuisce ai soggetti nei confronti dei quali il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti la
facoltà di "presentare memorie scritte e documenti, che
l'amministrazione ha l'obbligo di valutare ove siano
pertinenti all'oggetto del procedimento"- non impone la
puntuale, analitica confutazione delle osservazioni
presentate dalla parte privata a seguito della ricezione
della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento
dell'istanza, essendo sufficiente ai fini della
giustificazione del provvedimento adottato la motivazione
complessivamente resa a sostegno dell'atto stesso che renda
nella sostanza percepibili le ragioni del mancato
adeguamento alle deduzione difensive dei privati (TAR Emilia
Romagna, Parma, 16.11.2015; TAR Friuli-Venezia Giulia,
15.05.2015 n. 214; TAR Campania, Salerno, sez. I, 25.03.2014
n. 604).
...
12. Con il
settimo motivo ci si duole del mancato esame delle
osservazioni presentate in seno al procedimento
sanzionatorio dovendo “l'Amministrazione dare conto in
modo chiaro e comprensibile delle ragioni sostanziali del
mancato adeguamento dell'azione amministrativa alle
osservazioni presentate, poste a fondamento della decisione
maturata” (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 29.04.2016, n.
4893).
Anche tale doglianza è stata esaminata, rigettandola, nella
trattazione del ricorso principale.
E’ sufficiente rammentare che l'art. 10-bis, l. n. 241 del
1990 non impone la puntuale, analitica confutazione delle
osservazioni presentate dalla parte privata a seguito della
ricezione della comunicazione dei motivi ostativi
all'accoglimento dell'istanza, essendo sufficiente ai fini
della giustificazione del provvedimento adottato la
motivazione complessivamente resa a sostegno dell'atto
stesso che renda nella sostanza percepibili le ragioni del
mancato adeguamento alle deduzione difensive dei privati
(TAR Emilia Romagna, Parma, 16.11.2015; TAR
Friuli-Venezia Giulia, 15.05.2015 n. 214; TAR
Campania, Salerno, sez. I, 25.03.2014 n. 604).
D’altra parte è decisiva la circostanza che l’ordine di
demolizione consegue a un procedimento sfociato in un
diniego di sanatoria a sua volta preceduto da un altro
procedimento sanzionatorio concluso con una prima diffida a
demolire del 2016, e in tali occasioni la ricorrente ha
avuto modo di proporre osservazioni del medesimo tenore di
quelle di cui ora si lamenta il mancato esame, già
scrutinate e non ritenute accoglibili dalla PA
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 17.04.2018 n. 556 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I gazebo non
precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti,
vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi,
con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla
rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità
della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il
gazebo non precario non è deputato ad un uso per fini
contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare
esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere
permanente e non stagionale dell'attività svolta.
---------------
5. Con il quinto
e sesto motivo si lamenta che il provvedimento di
diniego ponga a fondamento anche l’assenza di autorizzazione
all’utilizzo del passo carrabile, dovendo atteso che il
rilascio della sanatoria presuppone il solo rispetto delle
norme urbanistiche e non di quelle in materia di occupazione
di aree e spazi pubblici.
L’affermazione, finalizzata a far assumere rilevanza a tale
aspetto del tutto secondario del provvedimento, non può
essere condivisa.
5.1. Invero il diniego avversato è fondato sulla mancanza
del requisito della doppia conformità urbanistica e il
provvedimento impugnato menziona per mera completezza
d’argomentazione anche l’assenza dell’autorizzazione ai
passi carrabili “fermo restando i contrasti sopra indicati”
e dunque assumendo che la sanatoria veniva respinta per
ragioni urbanistiche e non per altre motivazioni.
5.2. Ci si duole, altresì, dell’ultimo capoverso della parte
motiva dell’atto avversato, ovvero quello inerente alla non
sanabilità dei piccoli manufatti presenti sull’area, e in
particolare del gazebo; e ciò sia perché la sanatoria non
comprendeva il gazebo sia perché lo stesso sarebbe opera
precaria, non soggetta né a titolo edilizio, né alle norme
in materia di distanza dagli edifici né al preventivo
deposito della pratica al Genio civile.
Come rilevato dalla difesa del Comune la censura, sul punto,
si palesa inammissibile per difetto di interesse.
Infatti, se il gazebo non rientra fra le opere che la
ricorrente aveva interesse a sanare (prevedendosene nella
relazione tecnica allegata alla domanda di sanatoria lo
smantellamento) pare evidente che non vi sia interesse a
contestare tale profilo del provvedimento.
Peraltro, non può ritenersi che il gazebo sia un’opera
precaria e perciò priva di rilevanza urbanistica, risultando
dal verbale della Polizia municipale che in realtà si tratta
di un manufatto con struttura in tubi di ferro ed infissi in
una platea di cemento cementati al suolo e copertura in
plastica trattandosi perciò di un manufatto urbanisticamente
rilevante e soggetto a permesso di costruire.
5.3. In proposito è pacifico l’orientamento della
giurisprudenza secondo cui i gazebo non precari, ma
funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno
considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con
sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando
la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità
della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il
gazebo non precario non è deputato ad un uso per fini
contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare
esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere
permanente e non stagionale dell'attività svolta.
...
11. Con il sesto
motivo la ricorrente lamenta che l’ordinanza di
demolizione abbia riguardato anche il “gazebo” adibito a
“rimessa di attrezzature”, trattandosi di manufatto di
piccole dimensioni (mq. 24) in struttura metallica leggera,
senza parti in muratura, con copertura in plastica e,
quindi, in materiale non rigido né durevole, come tale privo
di rilevanza edilizia.
La censura è infondata.
Si è già rilevato, analizzando il quinto motivo del ricorso
principale, che non può ritenersi che il gazebo costituisca
un’opera precaria priva di rilevanza urbanistica,
trattandosi in realtà di un manufatto con struttura in tubi
di ferro ed infissi in una platea di cemento cementati al
suolo e copertura in plastica e quindi di un manufatto urbanisticamente rilevante e soggetto a permesso di
costruire.
In ogni caso è pacifico che i gazebo non precari, ma
funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno
considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con
sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando
la precarietà strutturale del manufatto (peraltro non
rilevabile nella fattispecie), la rimovibilità della
struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il gazebo
non precario non è deputato ad un suo uso per fini
contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare
esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere
permanente e non stagionale dell'attività svolta (Cons. St.,
sez. IV, 04.04.2013, n. 4438; id., sez. VI, 03.06.2014, n. 2842).
(tra le tante, TAR Molise, 21.09.2016 n. 353; TAR Lazio,
sez. I, 21.09.2016 n. 9881, TAR Umbria, 16.02.2015 n. 81)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 17.04.2018 n. 556 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
L’ordinamento nazionale è informato dai principi
enunciati dalla “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea”, peraltro già affermati dalla Costituzione (cfr.
artt. 24, 41, 42 e 97).
Per quanto attiene al procedimento amministrativo la legge
n. 241 del 1990, più volte emendata e integrata, regola
compiutamente le modalità di svolgimento dell’azione
amministrativa assicurando al cittadino adeguate guarentigie
affinché l’azione della pubblica amministrazione si svolga
nel rispetto di quei principi e valori richiamati dalla
ricorrente, non da ultimo il diritto al contraddittorio.
Peraltro i principi suddetti devono coniugarsi anche con
quello di buon andamento i cui corollari si traducono
nell’esigenza di efficacia, efficienza, economicità e
qualità di tale azione.
Il principio di proporzionalità ad
essi sotteso comporta anche la necessità che il procedimento
si svolga con ragionevole speditezza e dunque il diniego alla
richiesta di una integrazione dell’istruttoria cui fa
riferimento al ricorrente trova piena legittimità una volta
che l’amministrazione, avendo già posto in essere la fase
del contraddittorio con l’interessato, sia in possesso di
tutti gli elementi necessari all’emanazione del
provvedimento finale.
---------------
6. Da ultimo, con il
settimo motivo la società contesta la violazione
della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”,
la quale prescrive il diritto di “ogni persona di essere
ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un
provvedimento che le rechi pregiudizio” e quella del diritto
di difesa. Ciò in quanto l’amministrazione non avrebbe
aderito alla richiesta di supplemento di istruttoria
avanzata dall’interessata.
L’assunto non merita adesione.
6.1. L’ordinamento nazionale è informato dai principi
enunciati dalla “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea”, peraltro già affermati dalla Costituzione (cfr.
artt. 24, 41, 42 e 97).
Per quanto attiene al procedimento amministrativo la legge
n. 241 del 1990, più volte emendata e integrata, regola
compiutamente le modalità di svolgimento dell’azione
amministrativa assicurando al cittadino adeguate guarentigie
affinché l’azione della pubblica amministrazione si svolga
nel rispetto di quei principi e valori richiamati dalla
ricorrente, non da ultimo il diritto al contraddittorio.
Peraltro i principi suddetti devono coniugarsi anche con
quello di buon andamento i cui corollari si traducono
nell’esigenza di efficacia, efficienza, economicità e
qualità di tale azione. Il principio di proporzionalità ad
essi sotteso comporta anche la necessità che il procedimento
si svolga con ragionevole speditezza (cfr. Cons. Stato, sez.
V, 21.06.2013 n. 3402) e dunque il diniego alla
richiesta di una integrazione dell’istruttoria cui fa
riferimento al ricorrente trova piena legittimità una volta
che l’amministrazione, avendo già posto in essere la fase
del contraddittorio con l’interessato, sia in possesso di
tutti gli elementi necessari all’emanazione del
provvedimento finale.
Le ragioni esposte conducono, in conclusione, al rigetto del
ricorso
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 17.04.2018 n. 556 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Si è condivisibilmente ritenuto che
l’amministrazione comunale potrebbe del tutto
ragionevolmente compendiare in un unico atto, recante
plurime statuizioni, tanto il diniego di sanatoria che il
consequenziale ordine di demolizione e ciò, anzitutto, per
l'evidente condivisione, da parte di questi atti, dei
medesimi presupposti fattuali e giuridici nonché, poi, per
la stretta e doverosa consequenzialità che indissolubilmente
lega siffatti provvedimenti.
---------------
Il rigetto dei ricorsi avverso gli atti
che hanno negato l'accertamento dell'istanza di conformità
rende intangibile il consequenziale provvedimento di
demolizione e di riduzione in pristino laddove lo stesso sia
censurato in via derivata rispetto ai precedenti
provvedimenti e non per vizi autonomi, tra i quali non può
certo farsi rientrare la prospettazione di censure che
riguardando il diniego di sanatoria avrebbero dovuto essere
prospettate in quella sede.
---------------
9.
Inammissibile si palesa il quarto motivo con cui la
società solleva la questione dell’asserita compatibilità
urbanistica dell’intervento sia con la disciplina del
progetto norma 2.3. che consentirebbe la realizzazione di
parcheggi e piazze sulle aree interessate dall’abuso, sia
con l’art. 85 del Regolamento urbanistico a tenore del quale
sarebbe ammissibile la realizzazione di piazzali espositivi
commerciali.
Invero, il provvedimento sanzionatorio impugnato è sorretto
dal diniego di rilascio della sanatoria, impugnato con
l’atto introduttivo del giudizio, ma in tale sede detto
profilo non è stato contestato dall’interessata di talché la
coltivazione di siffatta doglianza in sede di motivi
aggiunti si palesa tardiva e inammissibile.
Si è infatti condivisibilmente ritenuto che
l’amministrazione comunale potrebbe del tutto
ragionevolmente compendiare in un unico atto, recante
plurime statuizioni, tanto il diniego di sanatoria che il
consequenziale ordine di demolizione e ciò, anzitutto, per
l'evidente condivisione, da parte di questi atti, dei
medesimi presupposti fattuali e giuridici nonché, poi, per
la stretta e doverosa consequenzialità che indissolubilmente
lega siffatti provvedimenti (TAR Campania, Napoli, sez. IV,
05.10.2017 n. 4646; id. sez. VI, 15.07.2010 n.
16807).
9.1. D’altro canto, il rigetto dei ricorsi avverso gli atti
che hanno negato l'accertamento dell'istanza di conformità
rende intangibile il consequenziale provvedimento di
demolizione e di riduzione in pristino laddove lo stesso sia
censurato in via derivata rispetto ai precedenti
provvedimenti e non per vizi autonomi, tra i quali non può
certo farsi rientrare la prospettazione di censure che
riguardando il diniego di sanatoria avrebbero dovuto essere
prospettate in quella sede (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 15.09.2016 n. 1679
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 17.04.2018 n. 556 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
E' noto che la realizzazione di opere di recinzione può
ritenersi esente dal regime del permesso di costruire solo
ove le recinzioni non configurino un'opera edilizia
permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di
immediata asportazione (quindi, ad esempio, recinzioni in
rete metallica, sorretta da paletti in ferro o di legno e
senza muretto di sostegno), essendo per contro necessario il
titolo abilitativo quando la recinzione costituisca opera di
carattere permanente, incidendo in modo durevole e non
precario sull'assetto edilizio del territorio.
---------------
10. Con il
quinto motivo si censura l’ordine di demolizione nella
parte in cui ingiunge il ripristino anche di opere (la
recinzione, l’impianto di illuminazione e le colonnine
antifurto) che, in sé, non avrebbero rilevanza urbanistica e
dunque non potrebbero essere oggetto di sanzione ripristinatoria.
La tesi non appare condivisibile dal momento che, come
rilevato dalla difesa del Comune, l’ordine di demolizione è
atto diretto alla repressione dell’abuso nel suo complesso e
quindi a tutte le singole opere che concorrono a
determinarlo, tenuto conto fra l’altro che esse sono fra
loro “evidentemente legate e mirate al compimento di un
medesimo e complesso illecito, ossia la trasformazione in
un’area inedificata in un piazzale commerciale” che “solo in
quanto tale è stato pavimentato, recintato, dotato di
antifurto e impianto di illuminazione”.
In ogni caso, è noto che la realizzazione di opere di
recinzione può ritenersi esente dal regime del permesso di
costruire solo ove le recinzioni non configurino un'opera
edilizia permanente, bensì manufatti di precaria
installazione e di immediata asportazione (quindi, ad
esempio, recinzioni in rete metallica, sorretta da paletti
in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), essendo
per contro necessario il titolo abilitativo quando la
recinzione costituisca opera di carattere permanente,
incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto
edilizio del territorio (TAR Lazio. sez. II, 04.09.2017 n.
9529; TAR Marche, 23.012017 n. 69)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 17.04.2018 n. 556 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E'
pacifico che l’estraneità del proprietario agli abusi
edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la
piena ed esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità
dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino
dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo
l'inidoneità del provvedimento repressivo a costituire
titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale
dell'area di sedime sulla quale insiste
il bene.
Infatti, l'acquisizione gratuita dell'area non è una misura
strumentale per consentire al Comune di eseguire la
demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma
costituisce una sanzione autonoma che consegue
all'inottemperanza all'ingiunzione, e, pertanto, essa si
riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non
potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e,
in particolare, nei confronti del proprietario dell'area
quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa
estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone
egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con
gli strumenti offerti dall'ordinamento.
---------------
13. Con l’ottavo
motivo la deducente si duole dell’errata e generica
indicazione del bene e dell’area di sedime delle aree da
acquisire in caso di mancata spontanea demolizione delle
opere eseguite. Inoltre, il provvedimento non avrebbe dato
conto dei criteri e del meccanismo di calcolo utilizzati
che, per contro, devono essere concretamente esplicati.
La censura si palesa carente di interesse.
Invero la ricorrente è solo conduttrice in locazione delle
aree dove sono stati eseguiti gli abusi e dunque spetta al
proprietario del bene la tutela del proprio interesse ad
evitare l’acquisizione gratuita dell’area di sedime al
patrimonio del Comune.
In proposito è pacifico che l’estraneità del proprietario
agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne
abbia la piena ed esclusiva disponibilità non implica
l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione
in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi
confronti, ma solo l'inidoneità del provvedimento repressivo
a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste
il bene.
Infatti, l'acquisizione gratuita dell'area non è
una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire
la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma
costituisce una sanzione autonoma che consegue
all'inottemperanza all'ingiunzione, e, pertanto, essa si
riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non
potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e,
in particolare, nei confronti del proprietario dell'area
quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa
estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone
egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con
gli strumenti offerti dall'ordinamento (TAR Campania,
Salerno, sez. I, 09.06.2017 n. 1049; TAR Sicilia,
Palermo, sez. II, 18.11.2014, n. 2889)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 17.04.2018 n. 556 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'acquisizione
gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è un
atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale ed è
subordinato unicamente all'accertamento dell'inottemperanza
e al decorso del termine di legge fissato per la demolizione
e il ripristino dello stato dei luoghi, senza che
l'Amministrazione sia tenuta a motivare le ragioni di
interesse pubblico sottese all'acquisizione.
---------------
14. Il nono
motivo si incentra sulla mancata valutazione della
sussistenza di un interesse pubblico al mantenimento delle
opere per fini di pubblica necessità, in asserita violazione
dell’art. 196, comma 5, della l.reg. n. 65/2014, e
dell’art. 31, comma 5, D.P.R. n. 380/2001.
La censura non coglie nel segno.
Fermo restando quanto già esposto in ordine al precedente
motivo relativamente alla carenza di interesse della
ricorrente, vale rammentare il consolidato principio per cui
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere
abusive è un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale
ed è subordinato unicamente all'accertamento
dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge
fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei
luoghi, senza che l'Amministrazione sia tenuta a motivare le
ragioni di interesse pubblico sottese all'acquisizione (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 29.09.2017 n. 4547;
id., sez. IV, 05.05.2017 n. 2053, id. sez. V, 26.01.2000 n. 341)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 17.04.2018 n. 556 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Revisione
prezzi negli appalti pubblici.
Con la previsione dell’obbligo di
revisione del prezzo di un appalto di durata su base
periodica il legislatore ha inteso munire i contratti di
forniture e servizi di un meccanismo che, a cadenze
determinate, comporti la definizione di un nuovo
corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto,
conseguente alla dinamica dei prezzi registrata in un dato
arco temporale, con beneficio per entrambi i contraenti, in
quanto incidente sull’equilibrio contrattuale; da un lato,
l’appaltatore vede ridotta, anche se non eliminata, l’alea
propria dei contratti di durata, dall’altro, la
stazione appaltante vede diminuito il pericolo di un
peggioramento della qualità o quantità di una prestazione,
divenuta per l’appaltatore eccessivamente onerosa o,
comunque, non remunerativa.
Il riferimento normativo alla clausola revisionale, avente
carattere di norma imperativa e al quale si applicano gli
artt. 1339 e 1419 c.c., non attribuisce alle parti ampi
margini di libertà negoziale, ma impone di tradurre sul
piano contrattuale l'obbligo legale, definendo anche i
criteri e gli essenziali momenti procedimentali per il
corretto adeguamento del corrispettivo.
In definitiva,
può ritenersi che la previsione di cui all’art. 115 del
codice dei contratti ponga ex lege un rimedio manutentivo,
in funzione del mantenimento dell’equilibrio economico del
contratto, per la gestione di sopravvenienze giuridicamente
rilevanti intervenute nel corso dell'esecuzione del rapporto
contrattuale
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
---------------
II.1) La questione oggetto del presente giudizio verte dunque
intorno ai criteri e alla metodologia di quantificazione
della misura della revisione prezzi, non essendo contestato
il diritto ad ottenere la revisione del prezzo dell’appalto,
ma la misura della stessa.
II.2) Va in proposito precisato, in punto di giurisdizione,
che ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. e.2), c.p.a. le
controversie in tema di revisione prezzi sono devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sia che
la contestazione riguardi la spettanza della stessa, sia
l'esatto suo importo come quantificato dal concreto
provvedimento applicativo (TAR Lecce sez. III 10.10.2013 n. 2111).
La disposizione richiamata trova il suo
antecedente positivo nell’art. 244, comma 3, del Codice dei
contratti che ha superato, nel solco tracciato dall'art. 6,
l. n. 537 del 1993, la tradizionale distinzione in base alla
quale erano devolute alla giurisdizione del giudice
ordinario le controversie relative al quantum della
revisione prezzi e al giudice amministrativo quelle
afferenti all'an debeatur, imponendo la concentrazione
dinanzi alla stessa autorità giurisdizionale di tutte le
cause relative all'istituto negli appalti pubblici ad
esecuzione continuata o periodica, con conseguente potere
del giudice amministrativo di conoscere della misura della
revisione e di emettere condanna al pagamento delle relative
somme.
II.3) Con la previsione dell’obbligo di revisione del prezzo
di un appalto di durata su base periodica il legislatore ha
inteso munire i contratti di forniture e servizi di un
meccanismo che, a cadenze determinate, comporti la
definizione di un "nuovo" corrispettivo per le prestazioni
oggetto del contratto, conseguente alla dinamica dei prezzi
registrata in un dato arco temporale, con beneficio per
entrambi i contraenti, in quanto incidente sull’equilibrio
contrattuale. Da un lato l’appaltatore vede ridotta, anche
se non eliminata, l’alea propria dei contratti di durata,
dall’altro la stazione appaltante vede diminuito il pericolo
di un peggioramento della qualità o quantità di una
prestazione, divenuta per l’appaltatore eccessivamente
onerosa o, comunque, non remunerativa (Tar Lazio–Roma sez. III-quater 18.03.2014 n. 2953).
Il riferimento normativo alla clausola revisionale, avente
carattere di norma imperativa e al quale si applicano gli
artt. 1339 e 1419 c.c., non attribuisce alle parti ampi
margini di libertà negoziale, ma impone di tradurre sul
piano contrattuale l'obbligo legale, definendo anche i
criteri e gli essenziali momenti procedimentali per il
corretto adeguamento del corrispettivo (Tar Lecce sez. I 11.12.2013 n. 2423; Cons. Stato sez. III
09.05.2012 n.
2648; Cons. Stato, Sez. III, 01.02.2012, n. 504;
TAR Bari sez. II 11.07.2013 n. 1141).
In definitiva può ritenersi che la previsione di cui
all’art. 115 del codice dei contratti ponga ex lege un
rimedio manutentivo, in funzione del mantenimento
dell’equilibrio economico del contratto, per la gestione di
sopravvenienze giuridicamente rilevanti intervenute nel
corso dell'esecuzione del rapporto contrattuale (cfr. Corte
Cost. n. 447/2006).
III) Ciò precisato, il Collegio ritiene di cominciare
l’esame delle censure dalla terza, che attiene al periodo di
riferimento del calcolo della revisione.
III.1) Va premesso in punto di fatto che la scadenza del
contratto era stabilita al 30.04.2010. Successivamente
l’Amministrazione comunale ha valutato l’opportunità di
accorpare i servizi rientranti nel contratto di global
service per la manutenzione ordinaria e straordinaria delle
aree a verde pubblico –affidato all’odierno ricorrente-
con quelli effettuati sulle stesse aree da altri operatori
(svuotamento cestini, pulizia, disinfezione aree cani,
apertura/chiusura cancelli dei parchi cittadini).
Nelle more
dell’allineamento temporale della scadenza di tali
affidamenti, al fine di promuovere un’unica procedura ad
evidenza pubblica per l’accorpamento dei servizi, ha
disposto con tre distinti atti la “proroga” del contratto in
essere con la ricorrente, rispettivamente per i periodi 01.05.2010-31.12.2010,
01.01.2011-31.03.2011 e 01.04.2011-30.06.2011.
III.2) In proposito si fronteggiano due posizioni: a detta
della ricorrente si tratterebbe di veri e propri atti di
proroga, con i quali è stata meramente variata la durata del
contratto; trattandosi di proroga sarebbero periodi “utili”
ai fini dell’applicazione dell’istituto della revisione
prezzi. Secondo l’Amministrazione invece si tratterebbe di
nuovi e autonomi rapporti giuridici di durata complessiva
inferiore all’anno e dunque non soggetti all’applicazione
della revisione prezzi.
III.3) L’indagine circa la natura dei predetti atti deve
essere condotta a prescindere dal nomen utilizzato
dall’Amministrazione, indagando l’effettiva volontà delle
parti.
Il Collegio osserva che la deliberazione n. 1216/2010 con
cui è stata disposta la prima “proroga” costituisce l’esito
di una istruttoria nell’ambito della quale l’Amministrazione
ha specificamente valutato sia l’economicità della scelta di
riaffidare al ricorrente il contratto per un periodo di 8
mesi, convenendo di applicare al costo del servizio
complessivo richiesto lo stesso ribasso d’asta presentato
dall’appaltatore in fase di offerta economica, sia
l’efficacia dell’operazione negoziale, tenuto conto della
conoscenza del territorio da parte dell’operatore in
rapporto al breve periodo di affidamento, che non avrebbe
consentito ad un nuovo soggetto di operare appunto con le
stesse caratteristiche di efficacia.
I contenuti motivazionali della deliberazione danno quindi
atto di una negoziazione e di una ampia valutazione circa la
convenienza economica dell’operazione, che non si risolve in
un mero differimento del termine di scadenza del precedente
contratto, ma consiste in un nuovo rapporto negoziale.
Ad identica conclusione si giunge esaminando gli atti
relativi alle altre due “proroghe”.
Quella relativa al periodo 01.01.2011-31.03.2011 è
stata motivata dal fatto che, a seguito di una proposta di AMSA s.p.a. (affidataria dei servizi di pulizia), si era
reso necessario modificare il progetto di manutenzione
ordinaria programmata delle aree verdi che avrebbe formato
oggetto della futura gara, con la conseguente esigenza di
procrastinare l’indizione della procedura.
Nel relativo atto di sottomissione sottoscritto dalla
ricorrente e dall’Amministrazione, il contratto originario
risulta essere stato integrato da ulteriori clausole
(precisamente riguardanti gli obblighi dell’appaltatore
relativi alla tracciabilità dei flussi finanziari, la
clausola risolutiva espressa e l’autorizzazione del
subappalto) e vi è ancora l’espressa accettazione
dell’appaltatore di mantenere il ribasso del 6,68% per le
attività di manutenzione sia ordinaria che straordinaria.
Anche in tal caso quindi vi sono sufficienti elementi per
ritenere che si tratti di un nuovo rapporto contrattuale
posto in essere a seguito di un’attività di negoziazione che
non ha riguardato la mera scadenza del contratto precedente.
Infine, quanto alla “proroga” per il periodo 01.04.2011-30.06.2011, motivata dalla dilazione dei tempi per la
conclusione della procedura di affidamento del servizio,
anche in questo caso l’appaltatore ha confermato di
mantenere il ribasso del 6,68%; inoltre nella relazione
tecnica allegata alla deliberazione 584/2011 si è dato conto
della possibilità di dar corso ad interventi con
caratteristiche straordinarie, subordinatamente alla stesura
e all’approvazione di un elaborato progettuale conforme alle
linee guida comunali. Anche in questa occasione dunque il
contenuto complessivo degli atti portano a ritenere che vi
sia stata un’autonoma negoziazione che ha condotto ad un
nuovo rapporto contrattuale.
Tale qualificazione dei tre contratti intervenuti
successivamente alla scadenza del 30.04.2010 (ovvero la
scadenza originaria del contratto sottoscritto a seguito
della procedura ad evidenza pubblica) rende inapplicabile
l’istituto della revisione prezzi, trattandosi appunto di
nuovi rapporti che costituiscono autonome operazioni
negoziali.
E’ sufficiente in proposito far rinvio alla costante
giurisprudenza secondo la quale la revisione dei prezzi si
applica solo alle proroghe contrattuali, previste come tali
ab origine negli atti di gara ed oggetto di consenso a monte
nonché note ai concorrenti della procedura selettiva per
l'affidamento del contratto originario (e quindi coinvolte
nell'offerta economica da costoro presentata), ma non anche
negli atti successivi al contratto originario, con i quali,
mediante specifiche manifestazioni di volontà, è stato dato
corso tra le parti a distinti, nuovi ed autonomi rapporti
giuridici, pur se di contenuto identico a quello originario
in merito alla remunerazione del servizio, senza che sia
stata avanzata alcuna proposta di modifica del
corrispettivo, che pure la parte privata era libera di
formulare, nel contesto di un rinnovato esercizio
dell'autonomia negoziale, attraverso cui vengono liberamente
pattuite le condizioni del rapporto (TAR Lazio-Roma
sez. II, 04.09.2017, n. 9531).
L'impresa che ha beneficiato di una speciale ed autonoma
valutazione della stazione appaltante e che si compendia
nella possibilità di rinnovo del contratto senza gara a
condizione di un prezzo concordato, non può poi pretendere
di applicare allo stesso contratto il meccanismo della
revisione dei prezzi, che condurrebbe ad effetti del tutto
opposti rispetto al corrispettivo pattuito per la
prosecuzione (extra ordinem) del rapporto contrattuale
(cfr., in tal senso, TAR Lazio-Roma, Sez. III, 30.05.2016 n. 6252, con la giurisprudenza ivi elencata).
Nel caso di specie, come sopra già rilevato, il ricorrente,
in sede di rinnovo contrattuale, ha convenuto di applicare
lo stesso ribasso d’asta offerto in sede di gara per
l’assegnazione del servizio, sul presupposto, evidentemente,
di una propria convenienza economica non essendo obbligato
ad assentire alla proposta. Tale determinazione, che poi si
è tradotta nell’accordo contrattuale, stride con la
successiva della richiesta di revisione prezzi in relazioni
a tali contratti, ciascuno dei quali di durata contenuta e
realisticamente, quindi, non suscettibili di variazioni
sotto il profilo del sinallagma economico.
Per le ragioni che precedono, la pretesa del ricorrente che
il calcolo della revisione prezzi tenga conto del periodo
fino al 30.06.2011 non può essere accolta.
IV) Secondo il ricorrente, poi, il calcolo della revisione
prezzi effettuato dal Comune sarebbe errato in quanto
l’Amministrazione, nel far riferimento agli indici ISTAT,
avrebbe dovuto prendere in considerazione le variazioni dal
mese di un certo anno al mese corrispondente dell’anno
successivo (es. da maggio 2008 a maggio 2009).
Va precisato in punto di fatto che il Comune ha considerato
e applicato gli indici ISTAT relativi ai seguenti periodi:
01/05/2007–30/04/2008; 01/05/2008-30/04/2009; 01/05/2009–30/04/2010.
La censura del ricorrente non può essere condivisa.
Ed invero i periodi considerati dall’Amministrazione
corrispondono esattamente ad un anno solare, in conformità
alla disciplina dell’istituto in questione che opera con
cadenza annuale. L’argomento della ricorrente porta di
contro a considerare un periodo maggiore dell’anno.
Il calcolo operato dall’Amministrazione, sotto il profilo
esaminato, risulta quindi corretto.
Anche tale doglianza non è pertanto meritevole di
accoglimento.
V) Infine secondo il ricorrente il calcolo effettuato
dall’Amministrazione sarebbe errato in quanto il Comune
avrebbe applicato gli indici FOI agli importi dei canoni
trimestrali, determinati detraendo le penali applicate nei
singoli stati di avanzamento.
Va rammentato che la ratio dell’istituto della revisione -dal punto di vista dell’appaltatore- è quello di “tenere
indenni gli appaltatori delle amministrazioni pubbliche da
quegli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che,
incidendo sulla percentuale di utile stimata al momento
della formulazione dell'offerta, potrebbero indurre
l'appaltatore a svolgere il servizio o ad eseguire la
fornitura a condizioni deteriori rispetto a quanto pattuito
o, addirittura, a rifiutarsi di proseguire nel rapporto, con
inevitabile compromissione degli interessi pubblici” (TAR
Campania-Napoli sez. VIII 05.02.2015 n. 887).
Deve quindi ritenersi che la revisione dei prezzi sia
giustificata solo in relazione allo squilibrio
(effettivamente determinatosi) dei costi (concretamente
sostenuti) che incidono sull’utile di impresa (TAR Milano
sez. III 22.06.2015 n. 1433).
In tale ottica non può che farsi riferimento a costi le cui
oscillazioni in aumento non solo non siano prevedibili ma
anche non siano imputabili all’imprenditore.
Certamente il pagamento di penali incide sull’utile di
impresa, ma è imputabile all’inadempimento dell’appaltatore.
Se così è, ai fini del calcolo della revisione prezzi, la
decurtazione dal canone concordato dell’importo delle penali
applicate risulta corretta.
Diversamente opinando si giungerebbe al risultato
paradossale per cui le somme che sono state sottratte dal
compenso contrattuale a causa degli inadempimenti concorrono
invece alla determinazione del prezzo revisionato, con
l’esito di abbattere nella sostanza l’importo delle penali.
Per le ragioni sopra illustrate non pare conducente
l’argomento del ricorrente secondo cui, in sintesi, se si
tenesse conto delle penali, il relativo importo dovrebbe
essere compensato con la maggior somma ottenuta
dall’appaltatore in sede di accordo bonario sulle riserve
iscritte dall’impresa.
A prescindere dall’irrilevanza della questione, posto che lo
stesso ricorrente, nell’atto introduttivo del giudizio
“dichiara sin d’ora di rinunciare al delta differenziale”
fra l’importo relativo all’accordo bonario e l’importo
riconosciuto a titolo di revisione decurtato dalle penali,
va osservato che quanto corrisposto in sede di accordo
bonario –volto a risolvere le riserve apposte– deve
ritenersi completamente satisfattivo di ogni possibile
ulteriore pretesa, regolandosi in quel (solo) contesto
l’eventuale squilibrio del sinallagma contrattuale.
La censura esaminata pertanto va rigettata, dovendosi
ritenere corretto il calcolo effettuato dall’Amministrazione
sotto il profilo contestato dal ricorrente.
VI) Da ultimo il ricorrente ha lamentato la mancata
corresponsione degli interessi di mora per il ritardato
pagamento a decorrere da ciascuna delle scadenza oggetto del
compenso revisionale sino alla data dell’effettivo soddisfo.
Va osservato che seppur nel solo frontespizio dell’atto
introduttivo il ricorrente ha chiesto altresì la
rivalutazione monetaria.
Secondo un costante orientamento dal quale il Collegio non
ha motivo di discostarsi “Data la natura di debito di valuta
propria del compenso a titolo di revisione dei prezzi in
materia di contratti ad esecuzione periodica o continuativa,
lo stesso è soggetto alla corresponsione degli interessi di
mora per ritardato pagamento, dal momento in cui sono dovuti
e sino all'effettivo soddisfo, in applicazione del d.lgs. 09.10.2002 n. 231, di attuazione della Direttiva n.
2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento
della P.A. nelle transazioni, mentre non è dovuta la
rivalutazione monetaria, in mancanza della prova da parte
dell'impresa creditrice di aver subito un danno maggiore
dell'importo corrispondente agli interessi legali” (TAR
Lecce sez. II 25.09.2017 n. 1518; TAR Lazio-Roma,
sez. II, 04.09.2017 n. 9531).
Nel caso di specie va riconosciuto il diritto della
ricorrente ad ottenere la corresponsione degli interessi per
ritardato pagamento dal momento in cui sono dovuti e sino
all'effettivo soddisfo, mentre non v’è spazio per il
riconoscimento del diritto alla rivalutazione monetaria, non
avendo la ricorrente dato prova della sussistenza di un
maggior danno.
Pertanto in parziale accoglimento della domanda va disposto
che l’Amministrazione ricalcoli la somma dovuta computando
gli interessi di mora dovuti alla ricorrente.
VII) Per le ragioni che precedono il ricorso va accolto
soltanto limitatamente al riconoscimento degli interessi
moratori sulle somme riconosciute a titolo di revisione
prezzi.
Considerata l’assenza di precedenti giurisprudenziali in
termini, sussistono eccezionali ragioni per disporre la
compensazione delle spese di lite (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 28.02.2018 n. 595
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le scelte riguardanti la classificazione dei
suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale
ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto
alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte
di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo
che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di
affidamento qualificato del privato a una specifica
destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
---------------
Le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un
nuovo strumento di pianificazione del territorio
costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento
di formazione dello strumento medesimo, con conseguente
assenza in capo all’Amministrazione a ciò competente di un
obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile
dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano
stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte
per la destinazione delle singole aree.
Pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le
osservazioni pervenute, non può però essere obbligata ad una
analitica confutazione di ciascuna di esse, essendo
sufficiente per la loro reiezione il mero contrasto con i
principi ispiratori del piano.
---------------
Le scelte di pianificazione territoriale, in quanto
espressione di tale ampia discrezionalità, sono sindacabili
dal giudice amministrativo entro limiti alquanto ristretti:
a tale riguardo le scelte urbanistiche compiute dalle
autorità preposte alla pianificazione territoriale
costituiscono scelte di merito, che non possono essere
sindacate dal giudice amministrativo salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste
ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che
si intendono nel concreto soddisfare, tanto che non è
configurabile neppure il vizio di eccesso di potere per
disparità di trattamento basata sulla comparazione con la
destinazione impressa agli immobili adiacenti.
---------------
2. Passando all’esame della restante parte del ricorso,
ossia quella attraverso la quale si contesta la
classificazione in zona agricola del mappale n. 106, la
stessa è infondata.
3. Con le censure contenute nel ricorso si deduce il difetto
di motivazione in relazione al rigetto delle osservazioni
presentate dai ricorrenti, non essendo stata considerata la
vocazione produttiva oggettivamente rilevabile dell’area,
pure in passato sancita dagli strumenti urbanistici e
altresì riconosciuta agli ambiti limitrofi.
3.1. Le doglianze sono infondate.
L’area in cui insiste il mappale n. 106 è inserita in un
contesto agricolo, considerato che su tre lati la stessa
confina con terreni agricoli, qualificati quali ambiti
destinati all’attività agricola di interesse strategico. La
zona a vocazione produttiva, in cui i ricorrenti hanno
chiesto di inserire anche la loro proprietà, si trova invece
sul lato opposto della strada provinciale n. 31, come
verificabile dalla consultazione degli allegati al P.G.T.
(tavola PDR.01c: all. 14 del Comune) e al P.T.C.P. (tavola
6: all. 20 del Comune). Pertanto, correttamente
l’Amministrazione non ha accolto le osservazioni formulate
dai ricorrenti che chiedevano
(i) la variazione
dell’azzonamento dell’area da produttiva a commerciale,
(ii)
la possibilità di ristrutturare in ampliamento l’edificio
esistente e
(iii) la possibilità di ricavare dei parcheggi
di pertinenza nell’area di cui al mappale n. 177, oltre che
(iv) l’eliminazione della fascia di rispetto stradale della
SP31.
Difatti, nelle controdeduzioni comunali si è
evidenziato che l’area rientra nelle “emergenze puntuali –
attività incompatibili” di cui all’art. 36-bis delle N.T.A.
del P.d.R. (all. 3 del Comune), ovvero si è al cospetto di
una zona con la presenza di attività incompatibili con
l’intorno agricolo e rurale, come rilevabile dall’esame
delle strategie di Piano poste a fondamento del P.G.T. (cfr.
all. 6 del Comune).
Del resto, il contesto in cui è inserita
l’area non poteva che condurre a qualificarla come parte
essenziale del sistema della ruralità, come chiarito sia dal
Documento di Piano, che ha imposto di evitare nuovo consumo
di suolo nel settore est della S.P. n. 31, Via Garibaldi,
ossia nella zona in cui è collocato il mappale n. 106 (pag.
220, punto A.8: all. 19 del Comune), sia dall’inserimento
del predetto mappale nella Classe 4 (alta) di sensibilità
paesaggistica (PDR.04: all. 17 del Comune). Comunque, l’art.
36-bis delle N.T.A. del P.d.R. non ha escluso affatto la
possibilità di effettuare interventi (conservativi) di
recupero edilizio sul manufatto preesistente, a patto però
di non dar luogo ad incrementi rilevanti dello stesso.
Tali valutazioni, quindi, appaiono pienamente ragionevoli e
assolutamente giustificate e coerenti con le linee
strategiche poste alla base del disegno pianificatorio. Del
resto, le scelte riguardanti la classificazione dei suoli
sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la
posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle
determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di
merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che
non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di
affidamento qualificato del privato a una specifica
destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio
di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia,
Milano, II, 20.06.2017, n. 1371; 27.02.2017, n.
451).
Va altresì evidenziato che nemmeno può trovare tutela in
sede giurisdizionale una aspettativa non giuridicamente
qualificata in relazione ad una migliore collocazione o
destinazione della propria area (TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2017, n. 761).
Inoltre, gli specifici rilievi formulati dalle parti
ricorrenti, oltre ad impingere nel merito delle scelte
dell’Amministrazione, non si fondano su elementi obiettivi
in grado di dimostrare l’abnormità o l’evidente
irragionevolezza delle determinazioni dell’Amministrazione
in relazione ai dati fattuali posti alla base delle stesse,
soprattutto avuto riguardo alla decisione di salvaguardare
al massimo livello l’area in questione; in assenza,
peraltro, di un affidamento tutelato al cambio di
destinazione dell’area in capo ai ricorrenti, la scelta
dell’Amministrazione non può essere ritenuta illegittima
(cfr., in tal senso, TAR Lombardia, Milano, II, 25.05.2017, n. 1166; 30.11.2016, n. 2271).
3.2. Quanto all’eccepito difetto di motivazione della scelta
pianificatoria posta in essere dal Comune, oltre ad apparire
in fatto infondato, risulta smentito anche dal consolidato
orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio,
secondo il quale “le osservazioni presentate in occasione
dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del
territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel
procedimento di formazione dello strumento medesimo, con
conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò
competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a
quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione
illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte
discrezionali assunte per la destinazione delle singole
aree; pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad
esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere
obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse,
essendo sufficiente per la loro reiezione il mero contrasto
con i principi ispiratori del piano” (TAR Lombardia,
Milano, II, 15.12.2017, n. 2396; 20.06.2017, n.
1371; 30.03.2017, n. 761; altresì, TAR Toscana, I, 06.09.2016, n. 1317; TAR Lombardia, Milano, II, 26.07.2016, n. 1505).
Nel caso de quo, l’Amministrazione ha evidenziato
l’inopportunità delle modifiche proposte dalle parti private
rispetto alle scelte poste alla base del Piano, giacché si è
inteso tutelare la valenza paesaggistica della zona in cui è
situata l’area di proprietà dei predetti soggetti; ciò
appare satisfattivo degli obblighi imposti in tal senso
dalla legge all’Autorità comunale, titolare del potere
pianificatorio (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 15.12.2017, n. 2396; 20.06.2017, n. 1371; 27.02.2017, n. 451).
3.3. Poi, la diversa collocazione della proprietà dei
ricorrenti rispetto a quelle di altri soggetti, seppure
poste tra loro in rapporto di prossimità, giustifica
certamente una differente classificazione urbanistica delle
stesse, anche in conseguenza della disomogeneità degli
interventi da effettuarsi nei vari comparti edificatori e in
ragione della loro consistenza.
Pertanto, in assenza di omogeneità delle zone poste in
comparazione, affatto dimostrata nel presente giudizio, non
è possibile invocare pretese finalizzate ad ottenere una
parità di trattamento, tanto meno in relazione all’assetto
urbanistico del territorio, dove l’Amministrazione dispone
della più ampia discrezionalità.
Le scelte di pianificazione
territoriale, in quanto espressione di tale ampia
discrezionalità, sono sindacabili dal giudice amministrativo
entro limiti alquanto ristretti: a tale riguardo le scelte
urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla
pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito,
che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo
salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o
irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto
soddisfare, tanto che non è configurabile neppure il vizio
di eccesso di potere per disparità di trattamento basata
sulla comparazione con la destinazione impressa agli
immobili adiacenti (TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2017, n. 761;
09.04.2015, n. 903; si veda pure Consiglio
di Stato, IV, 16.01.2012, n. 119).
3.4. Infine, il mancato accoglimento della richiesta
formulata dai ricorrenti di eliminare la fascia di rispetto
stradale appare giustificato dall’inidoneità del
procedimento pianificatorio urbanistico a regolamentare una
materia attinente nello specifico alla disciplina del
traffico stradale.
3.5. Ciò determina il rigetto delle suesposte doglianze.
4. Di conseguenza, il ricorso deve, in parte, essere
dichiarato inammissibile e, in parte, deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.02.2018 n. 567 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Programma
integrato di intervento e verifica postuma di
assoggettabilità a vas.
Il fatto che la verifica di
assoggettabilità alla VAS nei confronti di un piano
integrato di intervento intervenga solo successivamente
all’approvazione del PII non costituisce un vizio
insanabile.
In realtà, ove l’esito della verifica postuma
sia negativo, prevale l’aspetto sostanziale della conformità
dell’intervento al diritto comunitario e, pertanto, il PII è
da ritenersi convalidato e rimane efficace; nel caso
opposto, invece, ossia qualora la verifica evidenzi la
necessità della VAS, l’approvazione del PII viene travolta,
con conseguente obbligo per l’amministrazione di intervenire
nuovamente per conformare il programma alle risultanze della
VAS ovvero per cancellarlo definitivamente se del tutto
incompatibile
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
---------------
13. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni.
...
Sui presupposti del PII
17. Per quanto riguarda i presupposti del PII, si ritiene
condivisibile la tesi del Comune, che afferma la presenza di
tutte le condizioni poste dall’art. 87, comma 2, della LR
12/2005 (pluralità di destinazioni e di funzioni;
compresenza di tipologie e modalità d'intervento integrate;
rilevanza territoriale con effetto di riorganizzazione
dell'ambito urbano). La norma, peraltro, ammette il PII
anche quando solo due di queste condizioni siano presenti.
18. Nel progetto sono previste, e tra loro coordinate, due
destinazioni d’uso principali (residenziale e commerciale).
La seconda è a sua volta suddivisa in una pluralità di
utilizzazioni differenziate. Appare quindi evidente la
finalità di dare una nuova impronta urbanistica a questa
parte del territorio. Non è necessario che nel PII siano
previste infrastrutture pubbliche o destinate a servizi
pubblici, in quanto la riorganizzazione dell’ambito urbano
può riguardare anche le sole destinazioni di interesse dei
privati, quando il disegno complessivo corrisponda a un
interesse pubblico.
Perché sussista un interesse pubblico
non occorre che vi sia il passaggio da una condizione di
degrado a una di recupero ambientale delle aree interessate.
Questa è certamente una delle finalità perseguibili con il
PII, ma nello schema flessibile di tale strumento
urbanistico possono rientrare molti altri interventi (l’art.
88, comma 2, della LR 12/2005 stabilisce, con formula ampia,
che il PII persegue obiettivi di riqualificazione urbana e
ambientale).
È quindi ammissibile anche un programma come
quello in esame, che riscrive completamente le
caratteristiche di una porzione di territorio. La
circostanza che la trasformazione urbanistica aumenti il
peso insediativo è del tutto normale, purché l’effetto sia
ben regolato e funzionale.
Sul bilanciamento degli interessi pubblici e privati
19. L’incremento dei diritti edificatori non è solo normale,
ma spesso è indispensabile per garantire la fattibilità
economica del PII. Non sarebbe corretto desumere da questa
circostanza che l’amministrazione finisca per favorire i
privati. L’utilità conseguita dai privati è perfettamente
legittima, se bilanciata da una corrispondente utilità
pubblica. Le valutazioni che portano alla definizione
dell’equilibrio si collocano in una sfera di ampia
discrezionalità per l’amministrazione, e non sono, né
potrebbero essere, vincolate a un tetto insuperabile
stabilito direttamente dal legislatore.
Il limite di
incentivo (pari al 15% della volumetria ammessa) previsto
dall’art. 11, comma 5, della LR 12/2005 per i piani attuativi
finalizzati alla riqualificazione urbana e all’edilizia
residenziale pubblica riguarda interventi edilizi che non
richiedono la modifica dello strumento urbanistico. È quindi
sempre possibile andare oltre il suddetto limite attraverso
una variante allo strumento urbanistico.
20. Il documento di inquadramento territoriale non pone
ostacoli all’incremento dei diritti edificatori del PII
tramite variante urbanistica. È vero che viene individuato
l’obiettivo prioritario di migliorare il sistema del verde,
dei servizi e della viabilità (v. paragrafo 8.1.1), e sono
presenti inoltre direttive specifiche sul recupero dei siti
produttivi dismessi (v. paragrafo 7.0). Tra gli obiettivi
prioritari è però espressamente affermato anche quello di
ottimizzare il riuso del territorio urbanizzato (v.
paragrafo 8.1.1).
Il PII è quindi uno strumento
perfettamente utilizzabile per inserire nuova volumetria
all’interno di aree già trasformate, e occupate da edilizia
a bassa densità, in modo da evitare il consumo di suolo
agricolo. La possibilità di progettare unitariamente un
intero ambito territoriale garantisce che la maggiore
volumetria sia disposta razionalmente, e sia impiegata per
destinazioni d’uso ritenute utili alla collettività.
...
Sulla VAS
24. L’assoggettabilità del PII alla VAS è stata
espressamente esclusa dal Comune con la deliberazione
consiliare n. 3/2010, sul presupposto che i potenziali
impatti sarebbero di modesta entità e gestibili attraverso
le migliori tecniche disponibili, in particolare in materia
di efficienza energetica.
25. La procedura seguita è coerente con le direttive
formulate dalla Regione nell’allegato 1-M alla DGR 27.12.2007 n. 8/6420. Correttamente, le direttive
regionali impongono la VAS nella fase transitoria soltanto
alle varianti al PRG che producano gli stessi effetti delle
varianti al Documento di Piano del PGT, essendo quest’ultimo
il caso previsto a regime dall’art. 4, comma 2, della LR
12/2005. Nei confronti delle altre modifiche al PRG,
equivalenti a varianti al Piano dei Servizi e al Piano delle
Regole, è applicabile in via residuale soltanto la verifica
di assoggettabilità alla VAS.
26. Il contenuto del PII che costituisce variante al PRG
riguarda specifici indici edificatori (densità fondiaria,
altezza massima consentita), e dunque è sovrapponibile alla
materia del Piano delle Regole. Di conseguenza, l’unico
adempimento necessario era la verifica di assoggettabilità
alla VAS.
27. Il fatto che tale verifica sia avvenuta solo
successivamente all’approvazione del PII non costituisce un
vizio insanabile. In realtà, poiché l’esito della verifica
postuma è stato negativo, prevale l’aspetto sostanziale
della conformità dell’intervento al diritto comunitario, e
pertanto il PII è convalidato e rimane efficace. Nel caso
opposto, invece, ossia qualora la verifica avesse
evidenziato la necessità della VAS, l’approvazione del PII
sarebbe stata travolta, e l’amministrazione avrebbe dovuto
intervenire nuovamente per conformare il programma alle
risultanze della VAS, o per cancellarlo definitivamente se
del tutto incompatibile.
28. Sotto il profilo sostanziale, il giudizio sulla modesta
entità dei potenziali impatti del PII trova conferma nella
relazione ambientale del progettista, che costituisce
l’allegato H al progetto (v. doc. 9 del Comune). In effetti,
l’intensità dell’impatto non si misura quantitativamente in
relazione alla nuova volumetria insediata, ma con un metodo
qualitativo, analizzando il modo in cui tale volumetria si
inserisce nel contesto. Se dunque le conseguenze della nuova
edificazione possono essere importanti per gli edifici
preesistenti collocati nelle immediate vicinanze, la
valutazione è necessariamente differente quando il problema
è esaminato in uno scenario più ampio, dove le innovazioni
tendono a diluirsi e ad amalgamarsi con il resto del
territorio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 19.02.2018 n. 192
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Limiti
all’insediamento di nuove attività negli atti di
programmazione aventi natura economica e non economica.
La distinzione tra atti di programmazione
economica, che in linea di principio non possono più essere
fonte di limitazioni all’insediamento di nuove attività, e
atti di programmazione aventi natura non economica, i quali,
invece, nel rispetto del principio di proporzionalità,
possono imporre limiti rispondenti ad esigenze annoverabili
fra i motivi imperativi di interesse generale, deve essere
operata anche nell’ambito degli atti di programmazione
territoriale.
Detti atti non vanno infatti esenti dalle verifiche
prescritte dalla direttiva servizi per il solo fatto di
essere adottati nell’esercizio del potere di pianificazione
urbanistica, dovendosi verificare se in concreto essi
perseguano finalità di tutela dell’ambiente urbano o,
comunque, riconducibili all’obiettivo di dare ordine e
razionalità all’assetto del territorio, oppure perseguano la
regolazione autoritativa dell’offerta sul mercato dei
servizi attraverso restrizioni territoriali alla libertà di
insediamento delle imprese
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
---------------
In via preliminare vanno respinte entrambe le eccezioni preliminari
opposte dal Comune resistente.
Con riguardo all’eccezione di irricevibilità occorre
considerare che, già al tempo dei fatti di causa, si era
affermato, nella giurisprudenza costituzionale (sentenze n.
16.02.1993 n. 62; 19.03.1996 n. 79) e
amministrativa (Consiglio di Stato, sez. V, 29.01.2002
n. 491; id, sez IV, 08.07.1999, n. 1193), l’orientamento
favorevole a riconoscere alla conferenza di servizi (sia a
quella istruttoria sia a quella decisoria, come nel caso di
specie) la qualificazione di “modulo procedimentale
(organizzativo) suscettibile di produrre un’accelerazione
dei tempi procedurali e, nel contempo, un esame congiunto
degli interessi pubblici coinvolti (…), precipuamente
finalizzato all’assunzione concordata di determinazioni
sostitutive, a tutti gli effetti, di concerti, intese,
assensi, pareri, nulla osta, richiesti dal procedimento pluristrutturale specificatamente conformato dalla legge”
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 07.07.2000 n. 3830) e
che si conclude con l’emissione della deliberazione finale,
la quale “è un vero e proprio atto complesso e, come tale,
deve essere unitariamente imputato a tutte le Autorità
amministrative che, in qualità di membri necessari, hanno
partecipato al suo perfezionamento. Detta delibera deve,
poi, essere fatta propria dal Comune sul cui territorio la
grande struttura deve essere eseguita” (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 08.05.2007, n. 2107).
Gli approdi interpretativi formatisi in sede pretoria sono
rimasti, nella sostanza, inalterati anche a seguito
dell’evoluzione normativa che ha riguardato la conferenza di
servizi (fino alle recenti modifiche di cui alla legge
124/2015 e al d.lgs. 127/2016), essendosi confermata la
natura bifasica di tale istituto, connotato da una fase che
si conclude con una determinazione (anche se di tipo c.d.
decisorio) che ha valenza endoprocedimentale, e in una
successiva fase che si traduce nell’adozione di un
provvedimento con efficacia esterna.
Ne deriva che soltanto con la determinazione conclusiva è
sostanziato l’onere di impugnazione.
Quanto, invece, all’eccezione di inammissibilità del ricorso
per carenza d’interesse in capo alla ricorrente, è
persuasivo rilevare che quest’ultima ha partecipato alla
costituzione del “Consorzio Vulcano”, che ha poi
sottoscritto in data 23.12.1998 una convenzione con
l’Amministrazione comunale per attuare il piano
particolareggiato oggetto del contendere e che, in data
23.04.2004, ha ottenuto l’autorizzazione all’apertura del
centro commerciale: presupposti più che solidi per ritenere
diretto, concreto e attuale l’interesse all’annullamento
dell’impugnato provvedimento.
Ancorché tempestivo e ammissibile, il ricorso è, tuttavia,
infondato nel merito e va, pertanto, respinto.
Non coglie nel segno, per almeno due ragioni, il primo
motivo, con cui è stata censurata la lesione delle
prerogative di partecipazione al procedimento e la
violazione dell’art. 10-bis della legge 241/1990.
Anzitutto, occorre osservare che, prima della comunicazione
del provvedimento di diniego (22.05.2007), con raccomandata
del 02.05.2007 la Regione Lombardia ha reso noto alla
ricorrente “ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 9,
commi 3 e 5, del D.Lgs. 114/1998, nonché dell'art. 5, comma 10,
della L.R. 14/1999, (…) che in data 19.04.2007 la
conferenza di servizi ha ritenuto non ammissibile la domanda
presentata dalla Ma. S.r.l. prendendo atto
dell'attestazione di non conformità urbanistica effettuata
dal Comune”.
Oltre a ciò, alla conferenza di servizi ha partecipato
l’amministratore unico della ricorrente e i suoi consulenti,
i quali hanno esplicitato le proprie argomentazioni tecniche
e giuridiche in interventi puntualmente verbalizzati.
Parimenti infondato è il secondo motivo, incentrato sulla
violazione della legislazione nazionale e regionale sul
commercio, della deliberazione regionale sulle “modalità
applicative del programma triennale per lo sviluppo del
settore commerciale 2003-2005 in materia di grandi strutture
di vendita” e delle norme tecniche del piano attuativo
Vulcano, nonché sull’eccesso di potere in cui sarebbe
incorso il Comune resistente.
Sul punto, va esaminato il contenuto dell’istanza presentata
dalla ricorrente il 21.02.2007.
In tale domanda è stato espressamente significato che
“all'interno del “comparto operativo uffici”, adiacente al
“comparto integrato di servizi e commercio", è previsto
l'ampliamento della superficie di vendita del centro
commerciale de quo”, nel senso che “all'interno del
“comparto operativo uffici” è prevista la realizzazione di
una superficie lorda di pavimento di mq. 63.398, di cui mq.
12.900 destinati alla funzione commerciale, in conformità
alla prescrizioni dello strumento attuativo vigente”,
riconoscendo che, in rapporto alla distribuzione della SLP
per tipologie di destinazione sull’intero piano attuativo,
“la superficie lorda di pavimento complessivamente destinata
alla funzione commerciale risulta essere pari a mq. 40.000,
in ottemperanza a quanto disposto dal vigente strumento
urbanistico attuativo”.
Ciò conferma la disciplina delineata dalle norme di
attuazione del Piano Vulcano, nella quale si è previsto che
lo sviluppo edificatorio di ciascun comparto attuativo
(definito come “area operativa, interna al Piano attuativo,
oggetto di interventi unitari, anche se realizzati in fasi
successive”, cfr. art. 5) debba correlarsi ai “limiti
quantitativi” di cui al precedente art. 3.
Sotto tale profilo, nel “comparto operativo centro integrato
servizi e commercio” è stato stabilito che si sarebbero
potuti insediare esercizi di vicinato, medie strutture di
vendita, grandi strutture di vendita, centri commerciali al
dettaglio, mentre negli altri cinque comparti sarebbe stato
ammissibile soltanto l’insediamento di esercizi di vicinato
e medie strutture di vendita.
Il tutto nel rispetto degli inderogabili limiti di SLP
complessivamente determinati dal piano, non altrimenti
modificabili a pena di alterazione della ripartizione dei
complessivi mq. 261.000.
La tesi della ricorrente ha preso le mosse dal presupposto
che “all’interno del centro commerciale “Vulcano” risulta
autorizzata una superficie di vendita di mq. 4.200 per il
settore alimentare e di mq. 22.300 per il settore non
alimentare, per un totale di mq. 26.500, come da
provvedimento n. 3683 rilasciato dal Comune di Sesto San
Giovanni in data 23.04.2004”, e che, dunque, l’istanza “di
rilascio di una autorizzazione per l'ampliamento della
superficie di vendita del Centro Commerciale Vulcano
esistente riguarda una superficie di vendita di mq. 12.000,
afferente esclusivamente il settore non alimentare”, e che,
quindi, non violerebbe il limiti massimo di mq. 40.000
destinati alla funzione commerciale, in quanto “ad
ampliamento avvenuto la superficie di vendita complessiva
risulterebbe pari a mq. 38.500, di cui mq. 4.200 per il
settore alimentare e mq. 34.300 per il settore non
alimentare”.
A sostegno di tale prospettazione ha richiamato il contenuto
della relazione di compatibilità urbanistica-territoriale
allegata alla domanda, deducendo che “il giudizio di
conformità di un insediamento con le previsioni degli
strumenti urbanistici generali ed attuativi, riguardando la
corrispondenza della fattispecie concreta con un assetto di
interessi già prefigurato dalla disciplina urbanistica
applicabile implica una valutazione eminentemente doverosa e
vincolata, priva di contenuti discrezionali e, di talché il
provvedimento di accertamento di conformità assume una
connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di
appezzamenti discrezionali” (cfr. pag. 65).
Ad avviso del Collegio, però, tali assunti non possono
essere condivisi.
È la stessa ricorrente ad aver evidenziato che “nell'ambito
di trasferimenti di superficie lorda di pavimento di cui
sopra, è stata attribuita dal progetto al Comparto Uffici
una superficie lorda di pavimento commerciale pari a
mq. 12.900 che, sommata a quella attualmente "utilizzata" dal
Centro Commerciale esistente (mq. 27.100), satura la
capacità edificatoria massima prevista dal Piano
Particolareggiato vigente per la funzione commerciale (mq.
40.000)” e che, quindi, il reale intento oggetto della
domanda di inequivoco oggetto (“ampliamento”) è stato quello
di potenziare l’esistente centro commerciale, il quale –come ha soggiunto sempre la ricorrente– “si caratterizza
(…), in tutto o in parte, per i seguenti elementi: unicità
della struttura o dell'insediamento commerciale;
destinazione specifica o prevalente della struttura; spazi
di servizio gestiti unitariamente; infrastrutture comuni”.
A compendio della sussistenza di oggettivi indici di
accorpamento va, inoltre, considerata la disposizione di cui
all’art. 4, comma 1, lett. g), del D.lgs. 114/1998, secondo
cui “ai fini del presente decreto per superficie di vendita
di un centro commerciale si intende quella risultante dalla
somma delle superfici di vendita degli esercizi al dettaglio
in esso presenti”.
Proprio l’aumento della superficie di vendita si appalesa
costituire, nella specie, il peculiare l’obiettivo della
domanda del 21.02.2007, avendo la ricorrente chiesto il
“rilascio dell'autorizzazione commerciale per l'ampliamento
della superficie di vendita di una grande struttura - centro
commerciale autorizzato”, ma non tenendo conto della
previsione essenziale e dirimente che preclude
l’insediamento, nel comparto operativo contiguo a quello ove
attualmente sorge il centro commerciale, di una grande
struttura di vendita.
Non solo.
La disciplina trasfusa nelle norme tecniche attuative del
piano è informata all’osservanza di un preciso criterio
dimensione per le grandi strutture di vendita; l’art. 3
delle NTA ha, infatti, previsto che, per la destinazione
commerciale (la quale, come sopra si è detto, è soggetta al
complessivo limite quantitativo di SLP di 40.000 mq.), sia
ammessa la realizzazione di varie tipologie merceologiche
(testualmente “ad esempio: centro commerciale, negozi di
generi di prima necessità, negozi specializzati, attività
artigianali di servizio”), ma con la sostanziale
precisazione che “gli spazi destinati alla grande
distribuzione non potranno avere una Slp maggiore di m.
14.000”.
Una precisazione che, ad avviso del Collegio, sottende una
finalità di impulso alla concorrenza, cioè favorire
l’apertura di grandi strutture da parte di più operatori
commerciali, così impedendo il consolidamento di posizioni
di quasi monopolio, e che, per inciso, pone qualche dubbio
sulla legittimità del procedimento che ha condotto al
rilascio dell’originaria autorizzazione alla società
ricorrente nel “Comparto operativo centro integrato servizi
e commercio” per una superficie di 26.500 mq.
Dato il citato limite dimensionale, deve ritenersi che la
richiesta della ricorrente (ad avviso della quale
“l’inserimento di esercizi di vicinato e di medie strutture
di vendita all'interno del Comparto Uffici, nell'ambito
della s.l.p. commerciale residua summenzionata, è conforme a
quanto stabilito dal vigente P.R.G., ma configura tale
insediamento, alla luce della sopraggiunta normativa
regionale in materia di commercio, quale centro
commerciale”) non può che deporre per la volontà di
insediare, nel “comparto operativo uffici”, una grande
struttura di vendita (12.900 mq), perché altro non potrebbe
essere in base alla definizione legale di “centro
commerciale”, ossia “una media o una grande struttura di
vendita nella quale più esercizi commerciali sono inseriti
in una struttura a destinazione specifica e usufruiscono di
infrastrutture comuni e spazi di servizio gestiti
unitariamente” (art. 4, comma 1, lett. g), del D.lgs.
114/1998).
Ma tale tipo di insediamento è espressamente escluso dalla
normativa di piano (anche volendo prescindere dalla
contestazione dell’Amministrazione comunale sull’artificioso
accorpamento tra le superfici oggetto della domanda del
21.02.2007 e quelle già assentite con l’autorizzazione del
23.04.2004), né potrebbe ritenersi ugualmente ammissibile in
ragione dell’inevitabile alterazione dell’assetto del
territorio urbano, della dotazione di parcheggi pertinenziali, delle aree per il carico e lo scarico delle
merci, degli standard urbanistici, dell’impatto sul sistema
viario, insomma del carico urbanistico che graverebbe sul
comparto c.d. “contiguo”.
È, perciò, giustificato il giudizio di inammissibilità –per
“mancanza della conformità urbanistica” del programmato
insediamento– espresso dalla conferenza di servizi del
19.04.2007 per violazione dell’art. 4.2 della deliberazione
di G.R. n. VII/15701 del 18.12.2003, nella quale si
prevede che “qualora dovesse ricorrere un motivo di
inammissibilità (mancanza degli elementi essenziali, non
conformità urbanistica, obbligo di sottoporre l’intervento a
procedura di verifica o di valutazione di impatto ambientale
non soddisfatto alla presentazione della domanda di
autorizzazione) della domanda, la conferenza ne prende atto
e si chiude il procedimento in corso”.
Tale concetto, inoltre, è stato ribadito nella parte del
verbale di conferenza di servizi ove si è evidenziato che
“la concentrazione di tutta la superficie ad uso commerciale
in due comparii contigui non sia opportuna, sia rispetto ad
una corretta pianificazione commerciale, sia con riferimento
all'articolazione funzionale che deve essere garantita
nell'attuazione di un complesso comprensorio di
trasformazione come quello del P.A.”.
Assumendo tale posizione il Comune resistente ha, infatti,
inteso difendere le scelte di pianificazione tradottesi nel
piano attuativo, ossia l’individuazione di “sei comparti
operativi (ciascuno comprendente più unità di intervento)
(…) cui sono correlate le opere di urbanizzazione primaria e
secondaria e le opere di collegamento ai pubblici servizi”
(art. 2, comma 1, delle NTA del piano attuativo).
Sotto tale profilo, è necessario precisare che la vicenda
per cui è causa non prospetta questioni riguardanti una
limitazione all’insediamento di una grande struttura
perpetrata mediante l’esercizio (sviato) della potestà di
pianificazione: profilo, del resto, non dedotto neppure
dalla ricorrente.
Non si profila, dunque, la questione sulla rilevanza della
distinzione tra atti di programmazione economica –che in
linea di principio non possono più essere fonte di
limitazioni all’insediamento di nuove attività– e atti di
programmazione aventi natura non economica, i quali, invece,
nel rispetto del principio di proporzionalità, possono
imporre limiti rispondenti ad esigenze annoverabili fra i
motivi imperativi di interesse generale (principio, questo,
articolato nella direttiva 2006/123/CE, c.d. Bolkestein,
che, comunque, nel nostro ordinamento è stata recepita con
il D.lgs. 59/2010, quindi successivamente all’emissione
dell’impugnato provvedimento).
Una distinzione che –come si è osservato in giurisprudenza– “deve essere operata anche nell’ambito degli atti di
programmazione territoriale, i quali non vanno esenti dalle
verifiche prescritte dalla direttiva servizi per il solo
fatto di essere adottati nell’esercizio del potere di
pianificazione urbanistica, dovendosi verificare se in
concreto essi perseguano finalità di tutela dell’ambiente
urbano o, comunque, riconducibili all’obiettivo di dare
ordine e razionalità all’assetto del territorio, oppure
perseguano la regolazione autoritativa dell’offerta sul
mercato dei servizi attraverso restrizioni territoriali alla
libertà di insediamento delle imprese” (cfr. TAR Lombardia–Milano, 10.10.2013, n. 2271).
Nella specie, al contrario, non vi è stata compressione
alcuna della libertà di stabilimento, avendo
l’Amministrazione più semplicemente rilevato
l’inammissibilità di una domanda di ampliamento che avrebbe
palesemente violato la disciplina urbanistica sugli
insediamenti commerciali, vale a dire i limiti fissati per
le grandi strutture di vendita, e ciò in totale autonomia
dai principi in tema di liberalizzazione del mercato dei
servizi (cfr., sul punto, TAR Emilia Romagna–Parma, 17.03.2016, n. 110).
La legittimità del provvedimento che ha decretato
l’inammissibilità dell’ampliamento richiesto dalla società
ricorrente determina, quale naturale effetto,
l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse, del
terzo motivo, con cui è stata dedotta la violazione della
disciplina legislativa sulla dotazione di aree a standard
urbanistici (in particolare, i parcheggi pubblici),
giustificata dal Comune di Sesto San Giovanni mediante una
motivazione conseguenziale all’abnormità della superficie
commerciale richiesta dalla ricorrente (“considerata la
dimensione del prospettato "ampliamento" del centro
commerciale -di oltre il 47% rispetto alla SLP commerciale
in esercizio- si ritiene qualificante per l'insediamento e
opportuno ai fini di contenere il suo impatto sul contesto,
il reperimento di una dotazione di standard urbanistici
nella misura del 200% della superficie lorda di pavimento,
ferma restando la dotazione di comparto già stabilita dal
piano particolareggiato”).
In conclusione, il ricorso è in parte infondato e in parte
improcedibile, nei sensi espressi in motivazione (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.02.2018 n. 460 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -TRIBUTI: Sulla
Pec il ricorso è blindato. Il giudice deve attenersi all'eccezione del
contribuente.
Notifica della cartella via Pec, il giudice deve attenersi all'eccezione
sollevata con il ricorso del contribuente.
Mentre si va consolidando il
maggioritario orientamento delle pronunce dei giudici di merito sulla
nullità delle notifiche via Pec di cartelle allegate in Pdf (da ultima si
veda Ctp Siracusa
sentenza 14.02.2018 n. 881/2/2018 - link a
www.dirittoitaliano.com), di converso non pare sia dato il
giusto risalto alla diversa normativa alla quale si rifanno le Commissioni
tributarie per accertarne la violazione di legge.
Ci si intende riferire al fatto che, nella sua attuale versione, l'art. 26,
comma 2 del dpr n. 602/1973 prevede che la notifica della cartella possa
essere eseguita tramite Pec «con le modalità di cui al dpr n. 68/2005»
all'indirizzo del destinatario risultante dall'indice nazionale
dell'indirizzo di posta elettronica certificata (Ini–Pec).
Quindi, mentre non c'è dubbio che l'Agente della Riscossione possa valersi
del servizio di posta elettronica certificata, altrettanto pacifico è che
debbano essere rispettate le modalità previste dal citato dpr n. 68/2005.
Nonostante tale decreto sia stato oggetto di numerosi interventi
legislativi, modificativi e abrogativi di molti articoli che lo compongono
–tanto da rendere arduo stabilire quali parti di esso siano ancora in vigore
e secondo quale testo– piaccia o non piaccia, questo è il dispositivo di
legge atto a stabilire quale siano «le modalità di trasmissione» da
rispettare.
A dimostrazione della «attualità» della norma, basti pensare che il dpr
68/2005 è quello nuovamente richiamato dall'art. 60 del dpr 600/1973, come
modificato dalla legge 225/2016 (all'art. 7-quater, nono comma).
La questione si pone perché tale normativa –in gran parte– si sovrappone a
quella regolamentata dal dlgs 82/2005 (Codice dell'Amministrazione
digitale-Cad), la cui obbligatorietà di applicazione è oramai estesa ad ogni
branca della pubblica amministrazione, nonché alle società a controllo
pubblico. Senza volere qui appesantire la lettura, ci troviamo quindi di
fronte a due fonti di legge di primo livello che regolamentano –in modo
spesso non uniforme– la stessa materia (ad esempio si vedano «le regole
tecniche», regolamentate sia dall'art. 17 del dpr n. 68/2005, sia dall'art.
71 del dlgs n. 82/2005, che rinviano a loro volta l'uno al dm 02.11.2005, e
l'altro al dpcm 13.11.2014, i quali –manifestamente– si occupano in gran
parte dei medesimi argomenti).
Inaspettatamente quasi tutte le sentenze –al fine di escludere la conformità
dell'allegato (la cartella) al «documento informatico» previsto da ambedue
le disposizioni– fanno normalmente riferimento all'art. 20 (ed altri) del dlgs n. 82/2005 anziché –per esemplificare e non per esaurire– agli articoli
1 e 3 del dpr n. 68/2005 (quello richiamato espressamente dall'art. 26,
comma 2 del dpr n. 602/1973), il quale ultimo decreto contiene tutti gli
elementi necessari per costituire il quadro normativo da utilizzare per
l'esame della disciplina cui deve soggiacere la comunicazione Pec con i suoi
allegati.
La questione non è di poco conto in quanto, soprattutto qualora il
contribuente non abbia eccepito nel suo ricorso presunte violazioni
dell'Amministrazione finanziaria alla normativa prevista dal dlgs n.
82/2005, non pare che d'ufficio i giudici del merito possano attestare la
nullità della notifica, avvalendosi di tale ultima norma. E neanche si
intravvede a ciò utilità alcuna, per via delle puntuali ed esaustive
previsioni (si vedano ad esempio gli art. 9 e 11 del dpr n. 68/2005, nonché
il dm del 02/11/2005 al quale rinvia l'art. 17 Regole tecniche) riportate
nel dpr. Esse da sole sono tutte più che sufficienti a supportare la
necessità dell'allegazione del file in formato «p7m» (busta CAdES) o altre (PAdES
o XAdES).
Infatti, con il solo riferimento a questi ultimi dispositivi –tralasciandone molti altri– risulta chiaro che si deve avere riguardo a un
«documento informatico» non già a una «copia informatica» (ossia una
scansione del documento precedentemente emesso in forma cartacea) (articolo
ItaliaOggi Sette del 09.04.2018). |
TRIBUTI: Tributi
locali prescritti in cinque anni.
Nella riscossione dei tributi locali si applica il termine di prescrizione
quinquennale, decorrente dalla data di notifica della cartella di pagamento
divenuta definitiva per mancata impugnazione. L'Ufficio non potrà, dunque,
applicare il termine di prescrizione decennale, in via analogica rispetto a
quanto avviene nel caso in cui la pretesa erariale sia stata accertata con
sentenza passata in giudicato.
A tali considerazioni, proprie anche delle sezioni unite della Cassazione,
perveniva la III Sez. della Ctr del Lazio con
sentenza 23.01.2018 n. 310/3/2018.
Il collegio laziale accoglieva parzialmente l'appello del contribuente dopo
l'intervenuto rigetto del ricorso di primo grado con cui erano state
impugnate diverse intimazioni di pagamento, per il pagamento di tributi
locali, che si reputavano notificate a intervenuta prescrizione, in
violazione, dunque, della disciplina sul termine breve di prescrizione.
L'Ufficio ribadiva invece la definitività delle cartelle non opposte,
attribuendo alle stesse effetti del tutto equiparabili al passaggio in
giudicato della sentenza, e legittimando, in tal modo, la prescrizione della
pretesa a dieci anni anziché ai cinque.
Veniva, tuttavia, precisato che
nella riscossione dei tributi locali, l'ente impositore deve attenersi al
termine di prescrizione quinquennale previsto per le obbligazioni periodiche
ex art. 2948 c.c., categoria a cui sono ascrivibili i tributi in parola. I
giudici nella sentenza, infatti, richiamando l'orientamento delle sezioni
unite (Cass. civ. Sez. unite, sent. n. 23397 del 17/11/2016), specificano
che la cartella esattoriale, pur avendo le caratteristiche di un titolo
esecutivo, resta un atto amministrativo privo dell'attitudine ad acquisire
efficacia di giudicato, il che significa che la decorrenza del termine per
l'opposizione, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre
impugnazione, produce soltanto l'effetto sostanziale della irretrattabilità
del credito, mentre non determina alcun effetto processuale. Per tali motivi
non potrà trovare applicazione l'art. 2953 cod. civ. ai fini della
operatività della conversione del termine di prescrizione breve dei 5 anni
in quello ordinario decennale.
Alla luce di ciò, contro un'intimazione di
pagamento per tributi locali, che si riferisca a una cartella notificata
oltre il termine quinquennale, è possibile proporre ricorso dinanzi al
giudice tributario e ottenerne l'annullamento, come accadeva, pur se
parzialmente con riferimento ad alcune cartelle, nel caso di specie.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) L'appello è parzialmente fondato. Assorbente rispetto a ogni altra
questione risulta il problema della prescrizione. Non appare condivisibile
la motivazione rassegnata dal primo giudice con riferimento al generico
effetto interruttivo della prescrizione e all'operare, in ogni caso, del
termine ordinario di prescrizione per effetto della notifica della cartella
esattoriale.
La Corte di legittimità a Sezioni unite con la sentenza n.
23397 del 17/11/2016 ha affermato il principio di carattere generale secondo
cui la scadenza del termine perentorio sancito per opporsi o impugnare un
atto di riscossione mediante ruolo, o comunque di riscossione coattiva,
produce soltanto l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito
contributivo, ma non anche la c.d. «conversione» del termine di prescrizione
breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi
dell'art. 2953 cod. civ.
Pertanto, ove per i relativi crediti sia prevista
una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola
scadenza del termine concesso al debitore per proporre l'opposizione, non
consente di fare applicazione dell'art. 2953 c.c., tranne che in presenza di
un titolo giudiziale divenuto definitivo. La cartella di pagamento, avendo
natura di atto amministrativo, è priva dell'attitudine ad acquistare
efficacia di giudicato.
Non essendo più ermeneuticamente assimilabile la
cartella, non opposta, alla condanna passata in giudicato occorre
considerare la specifica prescrizione della cartella in relazione al singolo
tributo. ( ) i tributi locali si strutturano come prestazioni periodiche ( )
l'utente è tenuto al pagamento di essi in relazione al prolungarsi, sul
piano temporale, della prestazione erogata dall'ente impositore, senza che
sia necessario, per ogni singolo periodo contributivo, un riesame
dell'esistenza dei presupposti impositivi.
Essi, quindi vanno considerati
come obbligazioni periodiche o di durata e sono sottoposti alla prescrizione
quinquennale di cui all'art. 2948, n. 4 cod. civ. Applicando gli esposti
principi al caso in esame si evince che le cartelle oggetto delle
intimazioni di pagamento ( ) sono relative a tributi locali dovuti per gli
anni 1996, 1997, 1993-1998 in relazione ai quali risulta ampiamente decorso
il termine quinquennale di prescrizione considerato peraltro che la notifica
delle cartelle è intervenuta negli anni 2002-2003-2004 e 2005. ( )
Ne
consegue l'accoglimento parziale dell'appello nei termini sopra precisati. (
)
(articolo
ItaliaOggi Sette del 03.04.2018). |
TRIBUTI: Uffici
postali, niente imposta sulle insegne.
Le insegne degli uffici pubblici di Poste Italiane non avendo la valenza di
messaggio pubblicitario atto a stimolare il pubblico alla consumazione del
bene o alla fruizione del servizio in vendita, ma limitandosi a fornire agli
interessati le informazioni per l'individuazione del luogo in cui è
possibile fruire del servizio, non scontano l'imposta sulla pubblicità se
sono al di sotto delle dimensioni che la normativa in materia prescrive per
dette installazioni.
Sono queste le precisazioni con cui la Ctp di Pavia, con la
sentenza 13.12.2017 n. 353/2/2017, accoglieva
il ricorso della società Poste Italiane contro l'avviso di accertamento con
cui le veniva contestato l'omesso versamento dell'imposta sulla pubblicità
da parte del comune di Mortara. La ricorrente fondava il ricorso proprio
sulla non corretta applicazione della disciplina relativa all'imposta
comunale sulla pubblicità e sulle pubbliche affissioni introdotta con dlgs
507/1993.
La stessa considera rilevanti ai fini dell'assoggettamento tutti
quei messaggi diffusi nell'esercizio di una attività economica che abbiano
lo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero che siano
finalizzati a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato. La
ricorrente aggiungeva, inoltre, che le insegne, anche per dimensioni, non
superavano i limiti fissati dalla legge oltre i quali l'imposta era dovuta.
Pertanto la Ctp di Pavia esaminava la documentazione allegata che illustrava
funzione e dimensioni delle suddette insegne pubblicitarie. Le stesse, da
intendersi come ogni scritta in caratteri alfanumerici, completata
eventualmente da simboli o da marchi installata nella sede dell'attività,
non solo si limitavano a contraddistinguere il luogo in cui i servizi sono
resi, ma erano di superficie complessiva inferiore a 5 mq.
Il comma 1-bis
dell'art. 17 del dlgs 507/1993 istitutivo del canone sulla pubblicità,
introdotto dall'art. 10 della legge 28/12/2001 n. 448, stabilisce infatti
che il canone «non è dovuto per le insegne di esercizio delle attività
commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede
ove si svolge l'attività cui si riferiscono, per la superficie complessiva
sino a cinque metri quadrati».
Nel caso di specie la società delegata
all'accertamento e alla riscossione dal comune di Mortara utilizzava un
errato sistema di misurazione delle affissioni dell'ufficio pubblico che,
comunque, non superavano le soglie metriche fissate dalla legge ai fini
dell'assoggettamento all'imposta. La Ctp Pavia, pertanto, accoglieva il
ricorso, annullando l'atto di accertamento.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
(Omissis) Con l'avviso di accertamento di cui in epigrafe, il Concessionario
del servizio I. srl, addetto al servizio accertamento e riscossione
dell'imposta comunale sulla pubblicità e diritto sulle pubbliche affissioni
del comune di Mortara, accertava a carico della ricorrente
Società Poste italiane spa ( ) ai fini dell'imposta sulla pubblicità per
l'anno 2016, la somma complessiva di € 153,00 per imposta dovuta, interessi
moratori, sanzioni e spese.
Motivi dell'impugnazione.
La società Poste italiane spa proponeva ricorso contestando l'avviso in
epigrafe ed eccependo: in via preliminare e assorbente la violazione e falsa
applicazione dell'art. 17, comma 1-bis, dlgs 507/1993 e della risoluzione del
ministero dell'economia e delle finanze 24/04/2009, n. 2F. La società contesta
infatti di aver omesso il versamento dell'imposta di pubblicità in quanto
questo non era dovuto: la I. srl avrebbe infatti effettuato un calcolo
errato della superficie delle insegne recanti la scritta Poste italiane e
Mortara
( )
Motivi della decisione.
Il ricorso è fondato e merita accoglimento. Dalla disamina della
documentazione allegata risulta evidente che le insegne non hanno valenza di
messaggio pubblicitario atto a stimolare il pubblico alla consumazione del
bene o alla fruizione del servizio in vendita, bensì vanno inquadrate nella
categoria degli avvisi al pubblico e svolgono la mera funzione di fornire
agli interessati le informazioni atte a facilitare e individuare la
fruizione dei servizi resi e la loro sede. ( )
A ciò si deve aggiungere che
nessuna di esse, oltre che anche complessivamente, supera le superfici
minime esenti previste dal legislatore. Il dlgs 507 del 1993, innovato
dall'art. 10, comma 1, lett. C legge 28/12/2001 n. 448, stabilisce che
l'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e
di produzione di beni e di servizi, che contraddistinguono la sede ove si
svolge l'attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a 5 mq.
( ) nella fattispecie, non viene superato il limite massimo di esenzione dei
5 mq. Le spese del giudizio seguono la soccombenza.
Le stesse si liquidano a
favore di Poste Italiane in complessivi 200,00, oltre accessori di legge
dovuti.
P.Q.M. Accoglie il ricorso e condanna il comune di Mortara alla rifusione
delle spese del grado liquidate in complessivi 200,00, oltre accessori di
legge dovuti
(articolo
ItaliaOggi Sette del 03.04.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ABBANDONO DI RIFIUTI AD OPERA DI IGNOTI: PROVA PROVENIENZA.
Rifiuti - Abbandono di rifiuti ad opera di ignoti -
Provenienza certa dei rifiuti da una determinata impresa -
Mancata dimostrazione da parte del titolare di averli
consegnati a terzi autorizzati - Responsabilità per lo
smaltimento illegale - Prova logica - Legittimità
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 110, cod. pen.; art. 192,
c.p.p.
In caso di abbandono e smaltimento
illegale di rifiuti
speciali, legittimamente il Giudice può ricorrere alla
prova logica secondo cui, allorquando sia certa la
provenienza
dei rifiuti (nella specie da un’attività di
autocarrozzeria),
i soggetti titolari dell’impresa, cui siano riferibili i
rifiuti, sono responsabili del loro abbandono e smaltimento
illegale, salvo che non dimostrino di averli consegnati
a terzi autorizzati.
Il Tribunale condannava P. e F. per aver abbandonato, in
concorso con ignoti, rifiuti speciali non pericolosi,
costituiti
da parti di autoveicoli prodotti dall’attività di
autocarrozzeria di
cui erano titolari, rinvenuti all’interno di un’area verde
interessata
da un più vasto abbandono di rifiuti di diversa natura e
provenienza.
La Suprema Corte ha respinto il proposto ricorso, in cui si
sosteneva il travisamento della prova, osservando che il
Giudice aveva precisato che il teste P. della Polizia
Provinciale
di Firenze aveva riferito che, a seguito della segnalazione
di un cittadino, erano stati trovati, sul terreno di
proprietà di due persone estranee al processo, rifiuti di
vario genere (carcasse di elettrodomestici, calcinacci in
cartongesso, rifiuti di demolizioni e pezzi di automobili) e
che, da un’esplorazione più accurata dei rifiuti, era emerso
un pezzo di automobile con una targa intestata ad una
donna, la quale aveva dichiarato di aver fatto riparare la
sua
auto in una carrozzeria di Firenze.
A loro volta, gli imputati, gestori della carrozzeria in
questione,
avevano dichiarato che i rifiuti pericolosi venivano
gestiti da una ditta e quelli non pericolosi da tale E.F.,
successivamente risultato titolare di una ditta edile che
faceva anche demolizioni di strutture metalliche e sgomberi
di cantine, senza avere alcuna autorizzazione per lo
smaltimento dei rifiuti.
Secondo la Cassazione, condivisibilmente il Giudice era
ricorso alla prova logica: siccome i rifiuti erano
riferibili indiziariamente
agli imputati, i quali non avevano dimostrato di averli
consegnati a terzi, doveva arguirsi che gli stessi erano
responsabili
del loro abbandono e smaltimento illegale (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.11.2017 n. 52631
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 1/2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Demolizione di costruzioni abusive.
E' legittima l'ordinanza di demolizione basata sul
presupposto dell'assenza del titolo paesaggistico, ex D.Lgs.
n. 42/2004, di una pergotenda che, in ragione delle sue
dimensioni, è idonea ad alterare l'aspetto dell'edificio, e
dunque ha un impatto sull'estetica e sulla "fotografia" del
paesaggio a prescindere infatti dalla sua natura precaria e
amovibile (di per sé irrilevante per l'applicazione delle
disposizioni dell'indicato Codice dei beni culturali e del
paesaggio).
---------------
Ritenuto che i motivi di appello non sono fondati, poiché:
- la sentenza impugnata ha correttamente considerato dirimente il
fatto che l’ingiunzione n. 17 del 22.03.2016 (sulla quale
si è nel corso del giudizio trasferito l’interesse a
ricorrere) trova autonomo fondamento giuridico nella norma
speciale che sanziona la violazione del vincolo
paesaggistico;
- come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, mentre
l’ingiunzione di demolizione oggetto del ricorso
introduttivo era basata sul solo difetto di titolo edilizio,
la successiva ordinanza n. 17 del 2016 risulta basata sul
presupposto dell’assenza del titolo paesaggistico, in quanto
in essa si fa espresso riferimento al fatto che la parte
ricorrente aveva presentato un’istanza ai sensi dell’art.
167 d.lgs. n. 42 del 2004, e che tale istanza era stata
dichiarata archiviata per mancata integrazione documentale
(con nota n. 4561 del 03.03.2016);
- il Comune di Sant’Agnello è collocato in un’area geografica ‒la
penisola sorrentina‒ interamente sottoposta al vincolo
paesaggistico, e ciò importa che anche per l’opera in
contestazione si impone la previa acquisizione
dell’autorizzazione paesaggistica ‒atto autonomo e
presupposto rispetto ai titoli legittimanti l’intervento
urbanistico-edilizio‒ in mancanza della quale l’applicazione
della riduzione in pristino è doverosa;
- a prescindere infatti dalla sua (peraltro contestata da
controparte) natura precaria e amovibile (di per sé
irrilevante per l’applicazione delle disposizioni del codice
n. 42 del 2004), la pergotenda oggetto dell’ingiunzione, in
ragione delle sue dimensioni, è idonea ad alterare l’aspetto
dell’edificio, e dunque ha un impatto sull’estetica e sulla
“fotografia” del paesaggio;
- l’art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 attribuisce
all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza
e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia,
imponendo l’adozione di provvedimenti di demolizione anche
in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza
dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la
legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato;
- da ultimo, quanto all’asserito vincolo discendente dal cosiddetto
‘giudicato’ cautelare, è dirimente considerare che
l’ordinanza cautelare del giudice amministrativo è un
provvedimento meramente interinale, destinato ad essere
superato dal giudizio di merito;
- per le ragioni che precedono, l’appello è infondato e va respinto
(Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 12.10.2017 n. 4736
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’inottemperanza all’ordine di demolizione non
può essere giustificata dalla circostanza che le opere
abusive siano state oggetto di sequestro adottato
dall’Autorità giudiziaria, in quanto nelle ipotesi suddette
è sempre possibile richiedere il dissequestro allo scopo di
eseguire l’ordine stesso, sfuggendo al rischio
dell’acquisizione di diritto del bene e dell’area di sedime
al patrimonio del Comune.
---------------
8. Deve rilevarsi l’infondatezza del motivo di cui al primo
ricorso per motivi aggiunti con cui è stato impugnato il
verbale di accertamento di inottemperanza all’ordinanza di
demolizione, con cui si è rilevato che tale atto non può
essere adottato in pendenza di ricorso avverso l’ordinanza
di demolizione. In assenza di provvedimento giurisdizionale
di sospensione tale ultimo atto esplica pienamente i suoi
effetti, per cui il destinatario è tenuto a eseguirlo.
Per identiche ragioni analoghe è infondato il secondo
motivo, con cui i ricorrenti hanno dedotto che l’eventuale
demolizione del manufatto comprometterebbe il proprio
diritto di difesa da esercitare in sede di giudizio penale e
di giudizio amministrativo.
Del tutto infondato il rilievo secondo cui, in presenza di
sequestro, non era possibile procedere alla demolizione.
La giurisprudenza ha, infatti, precisato che
l’inottemperanza all’ordine di demolizione non può essere
cioè giustificata dalla circostanza che le opere abusive
siano state oggetto di sequestro adottato dall’Autorità
giudiziaria, in quanto nelle ipotesi suddette è sempre
possibile richiedere il dissequestro allo scopo di eseguire
l’ordine stesso, sfuggendo al rischio dell’acquisizione di
diritto del bene e dell’area di sedime al patrimonio del
Comune (tra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 28.01.2016 n.
335) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 13.03.2017 n. 409
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Occorre ben distinguere tra oneri di urbanizzazione e
costo
di costruzione.
Si afferma, infatti, in sede pretoria che per stabilire in quali
casi sussiste l'obbligo di versamento del contributo di
costruzione, occorre distinguere fra importi dovuti a titolo
di oneri di urbanizzazione ed importi dovuti a titolo di
costo di costruzione.
Per quanto riguarda specificamente i primi, si ritiene che,
poiché la loro funzione è quella di far sì che il
costruttore partecipi ai costi delle opere di urbanizzazione
in proporzione all'insieme dei benefici che la costruzione
ne ritrae, essi vanno corrisposti solo nel caso in cui
l'intervento determini un aumento del carico urbanistico, e
cioè determini la necessità di dotare l'area di nuove opere
di urbanizzazione ovvero l'esigenza di utilizzare più
intensamente quelle già esistenti.
Nel sistema vigente il contributo per oneri di
urbanizzazione è infatti un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del
concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle
opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei
benefici che la nuova costruzione ne ritrae, senza alcun
vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla
trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla
concreta utilità che il concessionario può conseguire dal
titolo edificatorio e dall'ammontare delle spese
effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere
stesse; tali oneri sono pertanto dovuti anche al di là di un
nesso di stretta inerenza delle opere di urbanizzazione
rispetto alle singole aree.
Il costo di costruzione, invece, essendo una percentuale
rapportata non ad opere da fare per la collettività ma ai
costi di costruzione per tipologia edilizia, adeguati
annualmente, non sono suscettibili di entrare nel meccanismo
dello scomputo, che è appunto disciplinato da detta norma
della convenzione.
---------------
II.2. Con il terzo mezzo, parte ricorrente evidenzia
che l’intervento avrebbe ad oggetto, tra l’altro, la
realizzazione di interventi di edilizia residenziale
sociale, con conseguente diritto all’esonero dal contributo
di costruzione a norma dell’art. 17 d.P.R. n. 380/2001, il
cui primo comma prevede che “Nei casi di edilizia
abitativa convenzionata, relativa anche ad edifici
esistenti, il contributo afferente al permesso di costruire
è ridotto alla sola quota degli oneri di urbanizzazione
qualora il titolare del permesso si impegni, a mezzo di una
convenzione con il comune, ad applicare prezzi di vendita e
canoni di locazione determinati ai sensi della
convenzione-tipo prevista dall'articolo 18”.
Si afferma così in giurisprudenza che “L'unico
presupposto richiesto dall'art. 17, D.P.R. n. 380 citato,
invero, è la realizzazione di alloggi e l'impegno a venderli
a prezzi agevolati, previa sottoscrizione di apposita
convenzione con il Comune” (cfr. Cons. Giust. Amm. Sic.,
21.12.2015, n. 713).
Parte ricorrente ha fornito dimostrazione del presupposto
costitutivo del diritto, avendo versato in atti la
convenzione Rep. n. 3562 del 24.01.2012, stipulata dalle
società Or. 85 S.c.a.r.l. e dalla Società Ga. S.r.l. con il
Comune di Pontecagnano, i cui artt. 2, 3 e 5 prevedono
l’impegno della ricorrente a realizzare intervento di
edilizia residenziale sociale per “una quota non
inferiore al 30% dell’edificato residenziale assentito”,
pari a n. 33 alloggi con prezzo di trasferimento che “dovrà
essere determinato nel rispetto della disciplina in tema di
edilizia sociale” (cfr. art. 5.5. della citata
convenzione).
Occorre ben distinguere tra oneri di urbanizzazione e
costo
di costruzione.
Si afferma, infatti, in sede pretoria (TAR Milano-Lombardia,
sez. II, 04.08.2016, n. 1561) che per stabilire in quali
casi sussiste l'obbligo di versamento del contributo di
costruzione, occorre distinguere fra importi dovuti a titolo
di oneri di urbanizzazione ed importi dovuti a titolo di
costo di costruzione.
Per quanto riguarda specificamente i primi, si ritiene che,
poiché la loro funzione è quella di far sì che il
costruttore partecipi ai costi delle opere di urbanizzazione
in proporzione all'insieme dei benefici che la costruzione
ne ritrae, essi vanno corrisposti solo nel caso in cui
l'intervento determini un aumento del carico urbanistico, e
cioè determini la necessità di dotare l'area di nuove opere
di urbanizzazione ovvero l'esigenza di utilizzare più
intensamente quelle già esistenti.
Nel sistema vigente il contributo per oneri di
urbanizzazione è infatti un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del
concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle
opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei
benefici che la nuova costruzione ne ritrae, senza alcun
vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla
trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla
concreta utilità che il concessionario può conseguire dal
titolo edificatorio e dall'ammontare delle spese
effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere
stesse; tali oneri sono pertanto dovuti anche al di là di un
nesso di stretta inerenza delle opere di urbanizzazione
rispetto alle singole aree.
Il costo di costruzione, invece, essendo una percentuale
rapportata non ad opere da fare per la collettività ma ai
costi di costruzione per tipologia edilizia, adeguati
annualmente, non sono suscettibili di entrare nel meccanismo
dello scomputo, che è appunto disciplinato da detta norma
della convenzione.
Or dunque, va sottolineato che parte resistente, nelle sue
articolazioni difensive non ha contestato la effettiva
realizzazione degli alloggi secondo quanto previsto in
progetto nella percentuale prevista per l’edilizia
residenziale pubblica, circostanza che quindi va reputata
processualmente acquisita e destinata ad integrare,
unitamente al visto impegno convenzionale, il presupposto
costituivo del diritto, in questa sede azionato,
all’esenzione dal pagamento del costo di costruzione.
Tanto è sufficiente, risultando recessiva ogni deduzione
afferente all’adeguatezza motivazionale dell’atto impugnato,
per l’accoglimento del motivo in esame
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 31.01.2017 n. 179 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ATTIVITÀ DI RAGGRUPPAMENTO E ABBRUCIAMENTO.
Rifiuti - Materiali vegetali - Attività di raggruppamento e
abbruciamento - Condizioni di liceità
Artt. 182, 185, 256, 256-bis, D.Lgs. n. 152/2006
Le attività di raggruppamento e
abbruciamento in piccoli
cumuli in quantità giornaliere non superiori a 3 m steri
per ettaro dei materiali vegetali di cui all’art. 185, comma
1, lett. f), D.Lgs. n. 152/2006, effettuate nel luogo di
produzione,
sono sottratte dalla disciplina sui rifiuti, poiché
sonoconsiderate normali pratiche agricole consentite per
il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o
ammendanti, e non costituiscono perciò attività
di gestione di rifiuti.
Tal A., condannato per il reato di cui all’art. 256, comma
1,
D.Lgs. n. 152/2006 per aver smaltito scarti di tessuti
vegetali, senza la prescritta autorizzazione, proponeva
impugnazione assumendo di aver ritenuto, per errore,
che esistessero circostanze di esclusione della pena e di
aver agito per lo stato di necessità determinato
dall’urgenza
di smaltire una serie di rifiuti, per evitare lo sviluppo di
incendi.
La Corte ha ritenuto che il ricorso, nel suo complesso,
fosse
fondato per la sussistenza delle condizioni di esclusione
dalla
disciplina dei rifiuti previste dall’art. 182, comma 6-bis, D.Lgs.
n. 152/2006 introdotto dalla Legge 11.08.2014, n. 116.
Infatti -così osserva la Corte- la disposizione richiamata
stabilisce che “le attività di raggruppamento e abbruciamento
in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a
tre
metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui
all’articolo
185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di
produzione,
costituiscono normali pratiche agricole consentite per il
reimpiego
dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti,
e non attività di gestione dei rifiuti. Nei periodi di
massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle
regioni, la combustione
di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata.
I comuni e le altre amministrazioni competenti in materia
ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o
vietare
la combustione del materiale di cui al presente comma
all’aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni
meteorologiche,
climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui
da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e
privata
incolumità e per la salute umana, con particolare
riferimento al
rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)”.
Si tratta, con tutta evidenza, di una disciplina in deroga
che ha ad
oggetto i materiali vegetali di cui all’art. 185, comma 1,
lett. f)
(richiamato dal nuovo comma 6-bis dell’art. 182) ossia:
“(...)
paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o
forestale
naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella
selvicoltura o per
la produzione di energia data le biomassa mediante
processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono
in pericolo la salute umana”.
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli
cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri
steri
per ettaro dei materiali vegetali, di cui all’art. 185,
comma 1,
lett. f), effettuate nel luogo di produzione, sono, quindi,
sottratte,
dalla disciplina sui rifiuti, poiché sono considerate
(costituiscono)
normali pratiche agricole consentite per il reimpiego
dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non
costituiscono più attività di gestione di rifiuti.
Quindi il loro “raggruppamento” ed “abbruciamento”, se
eseguito nel rispetto delle condizioni imposte dal comma 6-
bis dell’art. 182, non costituisce attività di gestione di
rifiuti, e
conseguentemente non può integrare alcun illecito previsto
dalla normativa di riferimento, per la fondamentale ragione
che, a condizioni esatte, le sostanze non rientrano ope
legis nel
novero dei rifiuti.
Richiamate le norme applicabili alla fattispecie, la Corte
ha
concluso che dal capo d’imputazione e dalla motivazione
della
sentenza non fosse possibile evincere il quantitativo dei
residui
vegetali bruciati, sicché non vi erano elementi per poter
ritenere che vi fossero state le condizioni oggettive per la
violazione di legge contestata (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.10.2016 n. 45406
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 1/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIUTILIZZO INERTI DA DEMOLIZIONE.
Rifiuti - Riutilizzo di inerti da demolizione - Attività di
recupero - Sussistenza
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Tenuto conto della definizione di
“recupero” dettata
dall’art. 183, comma 1, lett. t), D.Lgs. n. 152/2006, va
ricondotta
alla citata nozione l’attività consistente nell’utilizzare
rifiuti per realizzare un’opera edile (nella specie
il proprietario di un terreno era stato colto alla guida di
un escavatore nell’atto di spingere, all’interno di un fosso
demaniale, materiale di risulta da costruzione edile
misto a terra per rinsaldare il confine del terreno di sua
proprietà).
Il Tribunale
condannava A. per la contravvenzione di cui all’art.
256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006 perché,
nella sua qualità di proprietario di un terreno, era stato
trovato alla guida di un escavatore nell’atto di spingere,
all’interno
di un fosso demaniale, del materiale di risulta da
costruzione
edile misto a terra: il Tribunale, ritenuta non contestabile
la natura di rifiuto dei beni movimentati, essendo
emerso dalle stesse dichiarazioni dell’imputato la sua
volontà
di disfarsi definitivamente del materiale di risulta,
presente
nel terreno di sua proprietà fin dal 2002, aveva opinato
che la preventiva raccolta del materiale e la successiva
movimentazione con l’escavatore, realizzate senza alcuna
autorizzazione ed al fine di realizzare un argine al confine
della proprietà, configurasse una attività non autorizzata
di
raccolta e di recupero/smaltimento di rifiuti.
Nel proposto ricorso per cassazione, l’imputato sosteneva
invece che, escluso che egli fosse titolare di una impresa o
di un ente, come erroneamente contestatogli, la
giurisprudenza
di legittimità configurava nelle condotte di occasionale
abbandono/deposito incontrollato di un proprio rifiuto
e nel trasporto dello stesso nel luogo destinato
all’abbandono,
un mero illecito amministrativo ex art. 255 laddove
sia la condotta di raccolta che quella successiva di
trasporto
si esaurivano nella fase preparatoria e preliminare rispetto
alla condotta finale e principale di abbandono, restando
in essa esaurite, senza assumere autonoma rilevanza ai fini
penali.
Pertanto, il primo giudice aveva errato nell’attribuire
valenza
penale al mero “spostamento” dei rifiuti, compiuto da
un privato ed in modo del tutto occasionale, essendo tale
condotta unicamente indirizzata all’abbandono dei materiali,
già giacenti nei pressi della propria abitazione,
all’interno
del fosso demaniale.
La Cassazione ha respinto il ricorso ritenendo corretta,
alla
stregua della destinazione dei rifiuti dichiarata dallo
stesso
imputato (il quale aveva riferito che gli stessi dovevano
essere
utilizzati per rinsaldare il confine del terreno di sua
proprietà), la qualificazione operata dal primo giudice, il
quale ha ricondotto tale attività alla nozione di
“recupero”.
Infatti, secondo l’art. 183, comma 1, lett. t), D.Lgs. n.
152/2006, per “recupero” deve intendersi “qualsiasi
operazione
il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di
svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che
sarebbero
stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare
funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione,
all’interno
dell’impianto o nell’economia in generale”.
Rispetto a tale condotta, che, se svolta senza
autorizzazione,
configura già di per sé il reato di cui all’art. 256, comma
1, lett. a), secondo la Corte l’imputato si era reso
responsabile
di una ulteriore azione penalmente illecita, consistita
nel raccogliere il materiale di risulta, compattarlo e
spingerlo, con un escavatore, nel vicino fosso demaniale
posto al confine con la sua proprietà; condotta che,
correttamente,
il primo giudice aveva sussunto nella nozione legislativa
di “raccolta”.
Infatti, in base alla definizione offerta dall’art. 183,
comma
1, lett. o), per “raccolta” deve, infatti, intendersi “il
prelievo
dei rifiuti, compresi la cernita preliminare e il deposito
preliminare
alla raccolta”.
La sentenza ha inoltre osservato che il richiamo che
l’imputato
aveva fatto ai principi dettati in Cass. n. 41352 del 06.10.2014, Parpaiola, Rv. 260648 (1), non era pertinente
non ricorrendo nella specie, per le ragioni già chiarite,
una
condotta di abbandono o di deposito incontrollato di
rifiuti,
riconducibile, invece, alla previsione dell’art. 255, comma
1, D.Lgs. n. 152/2006.
---------------
Nota:
(1) In questa Rivista, 2015, pag. 53 (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.10.2016
n. 44900 -
tratto da Ambiente & sviluppo n. 12/2016) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
TRASPORTO RIFIUTI FERROSI.
Rifiuti - Trasporto di rifiuti ferrosi - Reato - Fattispecie
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Integra la contravvenzione di cui
all’art. 256, D.Lgs. n.
152/2006 il trasportare su un autocarro rifiuti, in gran
parte ferrosi, pacificamente destinati allo smaltimento
(nella specie, l’imputato trasportava due lavastoviglie
fuori uso, una lavatrice dismessa, una rete con doghe in
legno, una rete in metallo, una bici, un motore elettrico
e ferraglia varia e la Cassazione ha escluso che, per
l’eterogeneità
ed il quantitativo dei materiali rinvenuti,
l’attività di trasporto concernesse rifiuti prodotti
dall’imputato
il quale non era stato neppure in grado di dimostrare
come il trasporto fosse finalizzato all’esercizio
di attività commerciale in forma ambulante).
Per avere
effettuato, per mezzo di un autocarro, la raccolta
e il trasporto di rifiuti non pericolosi senza
autorizzazione
(nella parte cassonata del mezzo, furono rinvenuti dei
rifiuti,
in gran parte ferrosi, costituiti da due lavastoviglie fuori
uso, una lavatrice dismessa, una rete con doghe in legno,
una rete in metallo, una bici, un motore elettrico e
ferraglia
varia), tal C.M.M. veniva condannato per la contravvenzione
di cui all’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Secondo il ricorrente il Tribunale aveva però omesso di
argomentare
sulla natura imprenditoriale e non occasionale
del trasporto, non essendo stato dimostrato che avesse
partecipato alla raccolta e allo smaltimento rifiuti per
conto
di un terzo imprenditore; inoltre, il quantitativo di
rifiuti non
pericolosi era esiguo, l’episodio era isolato, l’autocarro
non
era di sua proprietà e tutto ciò avrebbe dovuto indurre il
primo giudice a ritenere che il trasporto fosse in realtà
funzionale
allo svolgimento dell’attività di commercio ambulante,
e non a quella di trasportatore di rifiuti; in ogni caso,
non rivestendo l’imputato la qualità di titolare di impresa
o
di un ente, l’occasionale trasporto di rifiuti configurava
un
mero illecito amministrativo ai sensi dell’art. 255, D.Lgs.
n.
152/2006.
La Suprema Corte ha ritenuto che la sentenza impugnata
avesse adeguatamente esplicato le ragioni per le quali era
stata ritenuta integrata la fattispecie contestata, avendo
il
giudice dato conto, in maniera puntuale, del rinvenimento
dell’imputato a bordo di un mezzo che trasportava materiali
ferrosi in disuso, pacificamente destinati allo smaltimento;
né l’imputato era stato in grado di dimostrare come il
trasporto fosse finalizzato all’esercizio di attività
commerciale
in forma ambulante, considerato che la giurisprudenza
esclude la configurabilità del reato di gestione non
autorizzata
di rifiuti a condizione che l’imputato sia in possesso
del titolo che lo abilitati all’esercizio del commercio
ambulante.
La Corte ha anche ritenuto che proprio per la eterogeneità
ed il quantitativo dei materiali di risulta trasportati,
l’attività
di trasporto concernesse rifiuti non prodotti dall’imputato
e
destinati ad essere da lui abbandonati e tale fatto
configurava
il reato di cui all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n.
152/2006, il quale, nel punire l’attività di gestione di
rifiuti
non autorizzata, contempla espressamente la condotta di
chiunque effettui, tra le altre, una “attività di
trasporto” (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 24.10.2016
n. 44593 -
tratto da Ambiente & sviluppo n. 12/2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ABBANDONO RIFIUTI: RESPONSABILITÀ DEL PROPRIETARIO DEL
TERRENO.
Rifiuti - Abbandono di rifiuti ad opera di terzi -
Responsabilità del proprietario del terreno - Mancata
rimozione dei rifiuti scaricati - Esclusione -
Partecipazione consapevole all’abbandono - Sussistenza
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Nel caso in cui proprietario di un
terreno, sul quale terzi
abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo
incontrollato,
non si attivi per la rimozione dei rifiuti non
è configurabile in forma omissiva il reato di cui all’art.
256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006; la responsabilità però
sussiste quando il proprietario consapevolmente partecipi
all’attività illecita, mettendo a disposizione il terreno
per il deposito di rifiuti, con conseguente trasformazione
dell’area.
Il Tribunale
condannava D. e A. per il reato di cui all’art.
256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 per aver conferito su un
terreno di loro proprietà, senza la prescritta
autorizzazione,
terra e roccia da scavo.
Nel proposto ricorso, i prevenuti sostenevano che il giudice
era pervenuto all’affermazione della loro responsabilità
senza esplicitare il percorso argomentativo attraverso cui
era pervenuto alla configurazione del reato e all’attribuibilità
della condotta alle ricorrenti, responsabilità fondata sulla
mera presenza sul luogo del fatto.
La Suprema Corte ha rilevato che la sentenza impugnata
aveva sviluppato una motivazione congrua, adeguata e
corretta sul piano del diritto per l’affermazione della
responsabilità
delle ricorrenti in ordine al reato di deposito
non autorizzato di rifiuti. Infatti, il giudice, dopo aver
ricostruito
il fatto, per come accertato dal Corpo Forestale dello
Stato che aveva rilevato l’esistenza, all’interno di un
fondo,
di proprietà delle ricorrenti, di un cumulo di terra e rocce
da scavo, con innalzamento del piano di campagna, e
dunque di un cumulo di rilevanti dimensioni, aveva dato atto
che le ricorrenti, presenti sul posto, interpellate non
avevano
esibito l’autorizzazione al deposito di rifiuti, e che non
ricorreva l’esclusione dall’applicazione della disciplina
sui
rifiuti per le terre e rocce da scavo in assenza di prova
positiva,
gravante sulle ricorrenti, della loro riutilizzazione
secondo
un progetto ambientalmente compatibile.
La Cassazione ha inoltre ritenuto che il Tribunale aveva
correttamente
evidenziato, oltre alla circostanza che le ricorrenti
erano proprietarie del fondo, sul quale erano state
depositate
le terre e rocce da scavo, la materiale disponibilità
del fondo desunta dall’essere residenti presso il luogo del
deposito e dall’essere presenti sul luogo al momento
dell’accertamento.
Infine, la Suprema Corte ha evidenziato che il Tribunale
aveva fatto corretta applicazione del principio secondo cui
non è configurabile in forma omissiva il reato di cui
all’art.
256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, nei confronti del
proprietario
di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato
o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso
in
cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, perché tale
responsabilità
sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico
di impedire la realizzazione o il mantenimento dell’evento
lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia
atti di gestione o movimentazione dei rifiuti, ed ha
condannato
le ricorrenti non già per la loro qualità di possessore
dell’area di deposito, ma per avere consapevolmente
partecipato
all’attività illecita, mettendo a disposizione il terreno
per il deposito di rocce e terra da scavo, con conseguente
trasformazione dell’area che, per le dimensioni di questa,
era necessariamente assentita dalle ricorrenti integrando,
così, un atto di gestione (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.09.2016
n. 39797 -
tratto da Ambiente & sviluppo n. 12/2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
TRASPORTO RIFIUTI SENZA FORMULARIO O CON DATI FALSI.
Rifiuti - Trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario
di identificazione o recante dati falsi - Intervenuta
depenalizzazione del reato
Art. 258, 260-bis, D.Lgs. n. 152/2006
In tema di rifiuti, il trasporto di
rifiuti pericolosi senza il
prescritto formulario, o con un formulario con dati
incompleti
o inesatti, eseguito sino al 16 agosto 2011 non è più
sanzionato penalmente né dal nuovo testo dell’art.
258, comma 4, D.Lgs. n. 152/2006, che si riferisce
alle imprese che trasportano i propri rifiuti e che prevede
la sanzione penale per altre condotte, né dall’art.
260-bis stesso dec., che punisce il trasporto di rifiuti
pericolosi
non accompagnato dalla scheda SISTRI.
Nella sentenza
che si riporta integralmente, la sez. feriale
della Cassazione ha colto l’occasione per ribadire, con una
serrata analisi delle norme succedutesi in materia di
trasporto
di rifiuti pericolosi con formulario identificativo (FIR)
recante false attestazioni, le conclusioni cui è giunta la
prevalente
giurisprudenza.
La Corte ha osservato che “il reato di illecito trasporto di
rifiuti
pericolosi senza formulario, ovvero con indicazione nel
formulario stesso di dati incompleti o inesatti, era
originariamente
previsto dall’art. 52, comma 3, D.Lgs. n. 22/1997,
il quale prevedeva l’applicabilità della pena di cui
all’art.
483 cod. pen.".
L’abrogazione del citato Decreto ad opera del D.Lgs. n.
152/2006, non ha prodotto, inizialmente, alcun effetto
rilevante,
in quanto l’art. 258, comma 4, aveva contenuto
pressoché identico a quello della disposizione previgente.
Il quadro normativo è rimasto immutato fino al 25.12.2010, data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 205/2010,
il quale, con l’art. 35, comma 1, lett. c), ha disposto la
sostituzione
dell’art. 258, comma 4.
Per effetto di tale intervento
correttivo, l’art. 258, comma 4, nella sua attuale
formulazione
così recita: “Le imprese che raccolgono e trasportano
i propri rifiuti non pericolosi di cui all’art. 212,
comma 8, che non aderiscono, su base volontaria, al sistema
di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) di cui
all’art. 188-bis, comma 2, lett. a), ed effettuano il
trasporto
di rifiuti senza il formulario di cui all’art. 193 ovvero
indicano
nel formulario stesso dati incompleti o inesatti sono puniti
con la sanzione amministrativa pecuniaria da milleseicento
euro a novemilatrecento euro. Si applica la pena di
cui all’art. 483 cod. pen., a chi, nella predisposizione di
un
certificato di analisi di rifiuti, fornisce false
indicazioni sulla
natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche
dei rifiuti e a chi fa uso di un certificato falso durante
il trasporto”.
L’intervento modificativo è stato effettuato in previsione
della pressoché concomitante piena operatività del SISTRI,
il sistema informatico di controllo della tracciabilità dei
rifiuti
la cui introduzione era prevista dall’art. 189, comma 3-bis, D.Lgs. n. 152/2006 (introdotto con il D.Lgs. n. 4/2008)
e che era finalizzato alla trasmissione e raccolta di
informazioni
su produzione, detenzione, trasporto e smaltimento di
rifiuti ed alla realizzazione, in formato elettronico, del
formulario
di identificazione dei rifiuti, dei registri di carico e
scarico e del MUD, da stabilirsi con apposito Decreto
ministeriale,
che il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio
e del mare ha emanato il 17.12.2009, dando
dunque attuazione alla disposizione richiamata.
Il contenuto del Decreto ministeriale è stato
successivamente
modificato ed integrato prorogando, però, anche i
termini originariamente fissati per la piena operatività del
sistema. Il D.Lgs. n. 205/2010, sempre considerando
l’imminente
entrata in funzione del SISTRI, che sostanzialmente
comporterebbe la sostituzione della documentazione
cartacea precedentemente utilizzata (MUD, Registri di carico
e scarico e FIR), ha provveduto, con l’art. 16, alla
sostituzione
degli artt. 188, 189, 190 e 193, all’introduzione degli
artt. 188-bis e 188-ter, nonché, con l’art. 36, alla
previsione
di specifiche sanzioni, contemplate dagli artt. 260-bis
e 260-ter.
Il D.Lgs. n. 205/2010, art. 16, comma 2, prevedeva,
tuttavia,
che le disposizioni in esso contenute entrassero in vigore
a decorrere dal giorno successivo alla scadenza del
termine di cui al D.M. 17.12.2009, art. 12, comma
2, (quindi all’effettivo avvio del SISTRI), termine che
però,
come già evidenziato, è stato più volte prorogato.
Al medesimo termine faceva riferimento anche il D.Lgs. n.
205/2010, art. 39, recante disposizioni transitorie e
finali,
per ciò che concerneva le sanzioni relative SISTRI,
prevedendone
peraltro la graduazione nel primo periodo di attività
del nuovo sistema di controllo della tracciabilità dei
rifiuti.
Nessun termine, invece, era previsto per l’entrata in vigore
dell’art. 35, con la conseguenza di una immediata efficacia
delle modifiche apportate al D.Lgs. n. 152/2006, art.
258 (contestato nel caso di specie), comportanti, come si è
visto, un restringimento dell’ambito soggettivo di
applicabilità
della disposizione non riferita più a ‘chiunque effettui il
trasporto’, bensì alle sole ‘imprese che raccolgono e
trasportano
i propri rifiuti non pericolosi di cui all’art. 212,
comma 8, che non aderiscono, su base volontaria, al sistema
di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI)’ e
l’assenza
dello specifico richiamo all’art. 483 cod. pen., per il
trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario ovvero con
indicazione nel formulario stesso di dati incompleti o
inesatti.
A fronte di quello che è stato da più parti (compresi i
ricorrenti)
qualificato come vuoto normativo, è dunque intervenuto
nuovamente il legislatore, con il D.Lgs. n. 121/2011, il
quale, con l’art. 4, comma 2, ha apportato modificazioni al
D.Lgs. n. 205/2010, art. 39, disponendo, tra l’altro,
l’inserimento
dei commi 2-bis e 2-ter, che si riferiscono all’ambito
di efficacia temporale del D.Lgs. n. 152/2006, art. 258.
Stabilisce, in particolare, il comma 2-bis, che “anche in
attuazione
di quanto disposto al comma 1, i soggetti di cui al
D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, art. 188-ter, commi 1, 2, 4 e
5,
e successive modificazioni, che fino alla decorrenza degli
obblighi di operatività del sistema di controllo della
tracciabilità
dei rifiuti (SISTRI) di cui al D.Lgs. 03.04.2006, n.
152, art. 188-bis, comma 2, lett. a), e successive
modificazioni,
non adempiono alle prescrizioni di cui all’art. 28,
comma 2, del Decreto del Ministro dell’Ambiente e della
tutela del territorio e del mare 18.02.2011, n. 52,
sono
soggetti alle relative sanzioni previste dal D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, art. 258, nella formulazione precedente
all’entrata
in vigore del presente Decreto”.
Il D.M. n. 52/2011, art. 28, comma 2, come modificato dal
successivo D.M. 10.11.2011, n. 219, stabilisce che
‘al fine di garantire l’adempimento degli obblighi di legge
e
la verifica della piena funzionalità del SISTRI, fino al
termine
di cui all’art. 12, comma 2, del Decreto del Ministro
dell’Ambiente
e della tutela del territorio e del mare del 17.12.2009 e successive modifiche e integrazioni, i soggetti
di cui agli artt. 3, 4 e 5 del presente Regolamento
rimangono
comunque tenuti agli adempimenti di cui al D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, artt. 190 e 193, e successive
modificazioni e sono soggetti alle relative sanzioni
previste
dal medesimo Decreto legislativo precedentemente all’entrata
in vigore del D.Lgs. 03.12.2010, n. 205’.
Il richiamo all’applicabilità delle previgenti sanzioni
risulta contenuto anche nel D.L. 22.06.2012, n. 83, art. 52,
comma 1, convertito con modificazioni dalla I. 07.08.2012, n. 134, ove, nel sospendere il termine di entrata in
operatività del SISTRI, si precisa che i soggetti di cui
all’art. 188-ter, “rimangono comunque tenuti agli adempimenti
di
cui al D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, artt. 190 e 193, ed
all’osservanza
della relativa disciplina, anche sanzionatoria,
vigente antecedentemente all’entrata in vigore del D.Lgs. 03.12.2010, n. 205”.
In esito all’emanazione del D.Lgs. n. 121/2011, si è posto
quindi il tema della natura - interpretativa od innovativa -
della medesima disciplina; orbene, ritiene questa Corte che
debba essere confermato l’indirizzo secondo cui il trasporto
di rifiuti pericolosi senza il prescritto formulario, o con
un formulario con dati incompleti o inesatti, non è più
sanzionato
penalmente né dal nuovo testo dell’art. 258, comma
4, D.Lgs. n. 152/2006 (come modificato nei termini
suddetti) -che si riferisce alle imprese che trasportano i
propri rifiuti e che prevede la sanzione penale per altre
condotte
(in particolare, per chi, nella predisposizione di
certificati
di analisi di rifiuti, fornisca false indicazioni sulla
tipologia
del rifiuto o fa uso del certificato falso)- né dall’art.
260-bis che punisce il trasporto di rifiuti pericolosi non
accompagnato
dalla scheda SISTRI.
Deve ritenersi, pertanto, che le modifiche introdotte dal
D.Lgs. n. 205/2010, eliminando (con evidente effetto
immediato)
dall’art. 258, comma 4, il riferimento al trasporto
di rifiuti senza formulario o con formulario contenente dati
incompleti o inesatti, abbia sottratto tali condotte alla
sanzione
penale.
Vi sarebbe stato quindi un vuoto normativo nel periodo
intercorrente
tra il 25.12.2010, data di entrata in vigore
del D.Lgs. n. 205/2010 ed il 16.08.2011, data che
segna l’inizio della vigenza dell’intervento c.d. riparatore
effettuato
con il D.Lgs. n. 121/2011, art. 4, comma 2, con
conseguente applicabilità dell’art. 2 cod. pen. Al citato
Decreto
n. 121, pertanto, non può attribuirsi se non una natura
di norma penale innovativa, con la conseguenza della
applicabilità della norma penale più favorevole per i fatti
commessi in epoca antecedente al 16.08.2011.
Non pare condivisibile, per contro, la tesi che attribuisce
alla
disposizione in esame natura di norma interpretativa,
con conseguente effetto retroattivo e reviviscenza anche
per il passato di una norma sanzionatrice penale già
espressamente abrogata dal legislatore con cessazione
della sua efficacia [in tal senso, sez. 3, n. 3692 del 17.12.2013, La Valle (1)]; in senso contrario, infatti, depone
la mancanza di qualsivoglia, esplicita manifestazione di
volontà del legislatore al riguardo, di tal ché non pare
consentito
pervenire al medesimo risultato attraverso un intervento
dell’interprete, per di più in malam partem. In senso
contrario, ancora, depone la circostanza -pacifica- per
cui
l’effetto abrogativo opera di norma automaticamente, al
momento dell’entrata in vigore della norma abrogatrice.
Con la precisazione ulteriore secondo la quale il futuro
legislatore
può certamente abrogare una norma (a sua volta)
abrogatrice e disporre la reviviscenza della disposizione
precedentemente abrogata, ma -qualora si tratti di norma
penale- la stessa potrà tornare in vigore solo dalla
vigenza
di quella disposizione che, per così dire, l’ha richiamata
in
vita attraverso l’eliminazione dal sistema della norma che
l’aveva abrogata.
Alla luce di quanto precede, occorre quindi concludere
che, con il D.Lgs. n. 121/2011, art. 4, comma 2, il
legislatore
ha appunto inteso porre rimedio alla situazione normativa
scaturente dal D.Lgs. n. 205/2010, introducendo nuovamente
norme penali per sanzionare quelle stesse violazioni
o, meglio, disponendo che riprendessero vigore quelle
disposizioni
penali precedentemente abrogate. Ma, in forza
del principio costituzionale di legalità e di
irretroattività delle
norme penali, tale nuova efficacia non può che decorrere ex nunc e non
ex tunc.
Né questa efficacia retroattiva può
essere conferita mediante l’attribuzione alla disposizione
di
una natura di norma meramente interpretativa, anche per
la necessità di seguire un’interpretazione adeguatrice che
non ponga il risultato dell’esegesi in possibile contrasto
con l’art. 25 Cost. e con il principio di irretroattività
della
norma penale sanzionatoria.
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Nota: (1) In questa Rivista, 2014, pag. 479 (Corte
di
Cassazione, Sez. feriale penale,
sentenza 01.09.2016 n. 36275
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 11/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
ARGINI FLUVIALI.
Distanze dei fabbricati dagli argini fluviali, diversi
regimi per opere di bonifica e altre acque pubbliche ex R.D.
n. 523/1904, vigenza, trasposizione nella normativa
urbanistica comunale, legittimità
Art. 144, D.Lgs. n. 152/2006; artt. 133, lett. a) e 96,
lett. f), R.D. n. 523/1904
In tema di distanze dei fabbricati dagli
argini fluviali, restano
vigenti, pur in seguito all’entrata in vigore del
c.d. codice dell’ambiente (art. 144, D.Lgs. n. 152/2006),
gli artt. 133, lett. a) e 96, lett. f), R.D. n. 523/1904, i
quali
fissano, in tema di opere di bonifica, una distanza minima
tra 4 a 10 metri e, con riferimento a tutte le altre acque
pubbliche, la distanza minima di 10 metri.
Pertanto,
legittimamente un’amministrazione comunale può trasporre
nella propria normativa urbanistica i diversi regimi
per ciascuno dei diversi corsi d’acqua.
Con la
pronuncia in commento la Cassazione, a sezioni
Unite, si è occupata della tematica dei regimi di distanze
dei fabbricati dagli argini fluviali per ragioni di tutela
idrica,
con particolare riferimento, in tema di opere di bonifica e
acque pubbliche, alle regole applicabili in seguito
all’entrata
in vigore del c.d. codice dell’ambiente.
Nel caso in esame, due Associazioni per la tutela ambientale
chiedevano al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche
l’annullamento della deliberazione di un consiglio comunale
con la quale era stata approvata una variante al
piano regolatore generale, con riduzione da 10 a 5 metri
delle distanze delle costruzioni dai corsi d’acqua pubblici.
Il Tribunale adito, però, respingeva il ricorso con cui si
sosteneva
che il limite di rispetto di mt. 10 dagli argini fluviali
poteva essere superato solo sulla scorta di ponderata
valutazione
di interventi per la miglior tutela idrica. Il TSAP, in
particolare, osservava che il suddetto limite è vincolante
non per la generalità dei corpi idrici nel territorio
comunale,
bensì solo per quelli non inerenti al sistema di bonifica;
per
i corpi idrici sottoposti alle specifiche competenze di
gestione
del Consorzio di Bonifica il limite di mt. 10 è, dunque,
superabile.
La questione giungeva così in Cassazione la quale, ricorda
innanzitutto la normativa applicabile al caso di specie:
• R.D. n. 268/1904, art. 133, lett. a): che, in tema di
opere
di bonifica e loro pertinenze, prevede, secondo la loro
importanza,
una distanza minima per i fabbricati che può essere
fissata da 4 a 10 metri;
• R.D. n. 523/1904, art. 96, lett. f): che, con riferimento
a
tutte le altre acque pubbliche, le loro sponde, alvei e
difese,
fissa la distanza minima di 10 metri per le fabbriche.
Sussistono, quindi, due diversi regimi, i quali, illustra la
Cassazione, sono tuttora in vigenti. In particolare:
• l’oggetto e le esigenze posti a fondamento di detti regimi
continuano a giustificarne il vigore, anche in seguito
all’entrata
in vigore del c.d. codice dell’ambiente;
• l’avvento della disposizione del D.Lgs. n. 152/2006, art.
144, secondo cui “tutte le acque superficiali e sotterranee,
ancorché non estratte dal sottosuolo, appartengono al
demanio
dello Stato”, non consente di ritener detti regimi
implicitamente
abrogati.
Da tali considerazioni consegue dunque che legittimamente
l’amministrazione comunale può trasporre nella propria
normativa urbanistica i diversi regimi per ciascuno dei
diversi corsi d’acqua (Corte
di
Cassazione, SS.UU. civili,
sentenza
01.07.2016 n. 13532
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 11/2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
TERRE E ROCCE DA SCAVO.
Rifiuti - Terre e rocce da scavo - Abrogazione dell’art. 186
D.Lgs. n. 152/2006 - Esclusione - Natura di norma temporanea
- È tale
Art. 186, 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 2, cod. pen.
Ai sensi dell’art. 39, comma 4, D.Lgs. n. 205/2010,
l’abrogazione
dell’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006 è destinata
ad operare solo a seguito dell’entrata in vigore dei D.M.
previsti dall’art. 184-bis del cit. decreto dovendo
corrispondere
il sottoprodotto ai requisiti qualitativi o quantitativi
stabiliti da tali provvedimenti. Considerato che il
citato art. 39, comma 4, prevede che l’abrogazione dell’art.
186 operi solo a far data dall’entrata in vigore dei
D.M. in materia di sottoprodotti, il predetto articolo ha
assunto natura di norma temporanea, con la conseguenza
che, ai sensi dell’art. 2 cod. pen. la relativa disciplina
si applica in ogni caso ai fatti commessi nella vigenza
della normativa in materia di terre e rocce da scavo.
Non sarebbe, infatti, possibile attribuire la qualifica
di sottoprodotto a determinati materiali sulla base di
disposizioni amministrative inesistenti all’epoca della
loro produzione.
A G.P. (in concorso con G.G.) veniva addebitato di avere
effettuato
una gestione non autorizzata di rifiuti non pericolosi
(terre e rocce da scavo) e di non avere osservato le
condizioni
richieste con le iscrizioni, in quanto, in luogo di una
attività di recupero ambientale mediante utilizzo di rifiuti
in
un’area estesa circa 9000 mq. come da comunicazione alla
Provincia di Lucca del 09.06.2009 con la specifica
prescrizione
di riutilizzare nel recupero ambientale i rifiuti di
cui al punto 12.7 dell’all. 1 sub all. 1 D.M. 05.02.1998
(fanghi costituiti da inerti - codice CER 010412), veniva
invece
riscontrata, nel corso di un controllo effettuato il 09.12.2009 nella località “Roccalberti” destinata al recupero
ambientale, la presenza di rifiuti non pericolosi costituiti
da terre e rocce da scavo provenienti dalla escavazione
della Galleria di Castelnuovo non autorizzate dalla
Provincia.
In relazione a tale fatto, il Tribunale dichiarava i due
fratelli
colpevoli del reato di cui all’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006.
Il proposto ricorso per cassazione è stato respinto.
La Cassazione ha, in primo luogo, notato che il Tribunale,
nel qualificare la condotta contestata, aveva ritenuto
applicabile
la disciplina di cui all’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006
dovendosi
le terre e rocce da scavo considerare rifiuti in
quanto la loro destinazione non era prevista nel progetto di
recupero ambientale e non erano state espletate tutte le
procedure previste per la esclusione di tali prodotti dalla
normativa sui rifiuti: in particolare, secondo il Tribunale,
il
materiale in questione non poteva essere qualificato come
sottoprodotto in assenza dei requisiti richiesti dal comma 1
dell’art. 186 e ciò anche dopo la modifica del menzionato
art. 186 intervenuta con la Legge n. 49/2009 in quanto il
comma 7-bis dell’art. 186 suddetto, come modificato dalla
legge ora menzionata, prescrive che “le terre e rocce da
scavo qualora ne siano accertate le caratteristiche
ambientali
possono essere utilizzate per interventi di miglioramento
ambientale anche in siti non degradati per il miglioramento
della qualità della copertura arborea o delle condizioni
idrogeologiche o della percezione paesaggistica”.
Il Tribunale aveva ritenuto comunque applicabile la norma
di cui all’art. 186 cit. interpretandola come norma di
carattere
temporaneo insuscettibile della applicazione dell’art. 2
cod. pen., rilevando che l’intera materia è stata poi
compiutamente
disciplinata dal D.M. n. 161 del 10.08.2012
entrato in vigore il successivo 6 ottobre. Pertanto,
mancando
all’epoca del sopralluogo previsioni specifiche in ordine
al riutilizzo di quei rifiuti e non potendosi essi
qualificare
come sottoprodotti, come peraltro deciso dalla stessa
azienda, tale materiale doveva considerarsi all’atto del
controllo
(09.12.2009) rifiuto.
La difesa, con il primo motivo, aveva ipotizzato invece
l’intervenuta
abrogazione dell’art. 186 per effetto di quanto disposto
dall’art. 39, D.Lgs. n. 205/2010, abrogazione confermata,
secondo la tesi difensiva, anche dall’art. 49 D.L. n.
1/2012 convertito nella Legge n. 27/2012 secondo la quale
“l’utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con
Decreto del Ministro dell’Ambiente e della Tutela del
Territorio
e del mare di concerto con il Ministero delle Infrastrutture
e Trasporti precisando che l’abrogazione della
norma sopra richiamata veniva differita alla data di entrata
in vigore del D.M.”.
Da qui il rilievo in ordine alla erronea applicazione della
legge
penale per avere il Tribunale ritenuto l’inapplicabilità
dell’art. 2 cod. pen. affermando la natura temporanea
dell’art.
186 più volte citato; in ogni caso, la qualifica di norma
temporanea sarebbe stata assunta solo con decorrenza 10.12.2010 e non oltre il
06.10.2012, con la
conseguenza
che all’epoca del controllo (09.10.2009) la norma
speciale non era più in vigore, dovendosi applicare, per
i fatti antecedenti al 10.12.2010, la disposizione di
cui all’art. 2, comma, cod. pen.
Il ricorso è stato giudicato infondato dalla Cassazione:
premesso
che la possibilità di utilizzazione diretta delle terre e
rocce da scavo, che determina l’esclusione della disciplina
dei rifiuti, è subordinata alla prova positiva, gravante
sull’imputato,
della loro riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente
compatibile, la Corte ha osservato che non basta dimostrare
che le terre e rocce non siano inquinate in vista dalla
applicabilità della speciale normativa ad esse inerenti. Nel
caso in esame, secondo le risultanze della sentenza
impugnata,
il G. era in possesso di un’autorizzazione per il recupero
ambientale nel Comune di Camporgiano, le cui prescrizioni
non erano state rispettate, con la conseguente insussistenza
dei requisiti richiesti dalla legge per sottrarre il
materiale
sequestrato alla disciplina dei rifiuti.
L’affermazione difensiva, secondo la quale le rocce e terre
da
scavo rispondevano ai requisiti per il loro impiego, era di
tipo
fattuale e non emergeva dalla sentenza, avendo, anzi, il
giudice
di merito affermato che i rifiuti da utilizzare per
l’attività di
recupero dovevano essere quelli identificati nel punto 12.7
dell’Allegato 1 Sub all. 1 al D.M. 05.02.1998 (fanghi
costituiti
da inerti con codice CER 01.04.12), mentre in sede di
sopralluogo, oltre a fanghi alternati con strati di terra ed
a un
cumulo di fanghi circa 750 metri cubi, vi era un cumulo di
terre e rocce da scavo da considerare come rifiuti ex art.
186
in quanto la loro destinazione per il riutilizzo non era
prevista
nel progetto che aveva poi dato luogo all’autorizzazione e
in
ogni caso non erano state portate a compimento tutte le
procedure
necessarie per l’esclusione di quel materiale estraneo
dalla normativa sui rifiuti.
Ciò chiarito circa gli aspetti fattuali, la Suprema Corte ha
ribadito
l’orientamento secondo cui, in relazione all’abrogazione
dell’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006, ai sensi dell’art. 39,
comma 4, D.Lgs. n. 205/2010, la stessa è destinata ad
operare
solo a seguito dell’entrata in vigore dei D.M. previsti
dall’art. 184-bis del Testo Unico, dovendo corrispondere il
sottoprodotto ai requisiti qualitativi o quantitativi
stabiliti da
tali provvedimenti. Considerato che il citato art. 39, comma
4, prevedeva che l’abrogazione dell’art. 186 operasse solo
a far data dall’entrata in vigore dei D.M. in materia di
sottoprodotti,
il predetto art. 186 ha assunto natura di norma
temporanea, con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 2
cod. pen. la relativa disciplina si applica in ogni caso ai
fatti
commessi nella vigenza della normativa in materia di terre
e rocce da scavo. Non sarebbe, infatti, possibile attribuire
la qualifica di sottoprodotto a determinati materiali sulla
base di disposizioni amministrative inesistenti all’epoca
della loro produzione.
Analoga sorte è stata riservata alla asserita
inapplicabilità
del regime previsto dall’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006 in
forza
del principio di retroattività della legge più favorevole
conseguente
all’emissione del D.M. n. 161/2012 entrato in vigore
il 06.10.2012 (epoca successiva ai fatti oggetto
del processo).
Infatti, la Suprema Corte ha ritenuto di
confermare
l’orientamento secondo il quale l’abrogazione dell’art.
186 opera soltanto a decorrere dall’entrata in vigore
del Decreto Interministeriale in materia di sottoprodotti,
con la conseguenza che la disposizione va qualificata come
norma temporanea, sicché ai sensi dell’art. 2 cod. pen.
la relativa disciplina trova applicazione in ogni caso per i
fatti commessi nella vigenza della normativa precedente in
tema di terre e rocce da scavo, in quanto non è possibile
attribuire la qualifica di sottoprodotto a materiali sulla
base
di disposizioni amministrative inesistenti al momento della
loro produzione (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 20.06.2016 n. 25429
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 10/2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
MATERIALI DA COSTRUZIONE E DEMOLIZIONE.
Rifiuti - Materiali provenienti da attività di costruzioni
e/o demolizioni - Raccolta, trasporto e avviamento a
smaltimento illecito - Responsabilità del titolare
dell’impresa
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Nel caso di attività di raccolta,
trasporto e avviamento
a smaltimento illecito di rifiuti provenienti da attività di
costruzioni e/o demolizioni, è responsabile il titolare
dell’impresa, se di piccole dimensioni, ove risulti essere
a conoscenza degli spostamenti dei mezzi aziendali sul
territorio e dell’intenzione - manifestata da un soggetto
coimputato del quale non era stata comunque impedita
l’iniziativa - di riutilizzare in futuro quello stesso
materiale
giacché tali circostanze ricollegano logicamente il
trasporto alle “attività produttive dell’azienda”.
La titolare
dell’impresa individuale R. Costruzioni di R. G.,
veniva condannata - unitamente al fratello - per il reato
previsto
dall’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006,
perché operava la raccolta, il trasporto e l’avviamento a
smaltimento illecito di rifiuti non pericolosi provenienti
da
attività di costruzioni e/o demolizioni (CER 17.09.04)
utilizzando
un autocarro Fiat Iveco in assenza di iscrizione all’Albo
nazionale dei gestori ambientali.
Nel ricorrere per cassazione, l’imputata sosteneva che il
Tribunale non aveva tenuto conto che ella non era a bordo
dell’autocarro al momento del controllo da parte del
personale
del NIPAF di Avellino, e che il fratello aveva ammesso
ogni responsabilità in ordine al trasporto dei rifiuti.
Contestava
anche la disposta confisca stante il grave ed irreparabile
danno economico per una impresa di costruzione di
modeste dimensioni.
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Suprema
Corte che ha svolto le seguenti considerazioni.
La censura oggetto del primo motivo era diretta a conseguire
una diversa valutazione dei fatti posti a fondamento
della affermazione di responsabilità dell’imputata, senza
tuttavia individuare vizi specifici della motivazione tali
da
intaccarne la intrinseca coerenza strutturale e logicità. La
sentenza impugnata comunque aveva ritenuto provata la
realizzazione, da parte della R., della contestata attività
di
raccolta, trasporto e avviamento a smaltimento illecito di
rifiuti
(non pericolosi) provenienti da attività di costruzioni
e/o demolizioni, sul rilievo che l’imputata era la titolare
di
una impresa di piccole dimensioni, che in tale qualità era a
conoscenza degli spostamenti dei mezzi aziendali sul
territorio,
oltre che del fatto che proprio il fratello aveva riferito
dell’intenzione di riutilizzare in futuro il materiale
residuo
per l’installazione di una baracca di cantiere, circostanza
che ricollegava logicamente il trasporto alle “attività
produttive
dell’azienda”.
Il fatto che il coimputato si fosse accollato la
responsabilità
dell’accaduto non costituiva elemento dimostrativo
dell’estraneità
della ricorrente alla realizzazione del reato, anche
sotto il profilo soggettivo, non avendo l’imputata comunque
impedito l’iniziativa del fratello.
Quanto al secondo motivo, la Cassazione ha osservato che
il Tribunale aveva puntualmente richiamato l’art. 259, comma
2, D.Lgs. n. 152/2006, disposizione che prevede la confisca
obbligatoria, in deroga al regime generale di tipo
facoltativo
di cui all’art. 240 cod. pen. sicché il mezzo di trasporto
utilizzato per il trasporto illecito di rifiuti è oggetto di
una presunzione legislativa di pericolosità che ne
giustifica la confisca (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
08.06.2016 n. 23690
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 8-9/2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
VEICOLI FUORI USO.
Rifiuti - Autovetture fuori uso - Natura di rifiuto
pericoloso - Condizioni
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Hanno natura di rifiuto pericoloso le
autovetture fuori
uso destinate alla demolizione, in relazione alle quali
non risulti la tenuta di documentazione cartacea idonea
a dimostrare la provenienza e le condizioni di manutenzione,
né l’adozione di alcuna procedura conforme al
D.Lgs. n. 209/2003 per il recupero ed il riciclaggio dei
materiali componenti i veicoli a fine vita, e comunque
non risulti la bonifica di tali mezzi mediante scomposizione
delle parti meccaniche e prelievo dell’olio esausto
dalle parti meccaniche (nella specie, era emersa la presenza
di batterie al piombo esauste e di autovetture prive
di targa e destinate alla demolizione, comprese di
motore e quindi di parti meccaniche miste ad olio, con
la conseguente qualificabilità di tali veicoli come rifiuti
pericolosi in ragione della presenza di scarti di olio per
motore).
La Corte
d’Appello confermava la sentenza di condanna
per il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a) e b),
D.Lgs.
n. 152/2006 emessa a carico di un soggetto che aveva
effettuato
attività abusiva di raccolta, smaltimento e stoccaggio
di rifiuti speciali pericolosi e non, in mancanza della
prescritta autorizzazione.
Nel proposto ricorso per cassazione, l’imputato evidenziava
la contraddittorietà tra la affermazione della natura di
rifiuti
pericolosi di quelli presenti nell’area nella sua
disponibilità
e quanto dichiarato dal teste Pensa, secondo cui nel momento
in cui aveva provveduto a ritirare il materiale presente
nell’area le batterie erano ancora efficienti, le
autovetture
erano state bonificate ed i motori d’auto non contenevano
oli.
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile a causa della
sua
genericità.
La Cassazione ha infatti osservato che la Corte
territoriale
aveva ribadito la natura di rifiuti pericolosi di parte dei
materiali
depositati nell’area nella disponibilità dell’imputato,
quantomeno con riferimento alle autovetture fuori uso
rinvenute
e destinate alla demolizione, in relazione alle quali
non era emersa la tenuta di alcuna documentazione cartacea
idonea a dimostrare la loro provenienza e le loro condizioni
di manutenzione, né l’adozione di alcuna procedura
conforme al D.Lgs. n. 209/2003 per il recupero ed il
riciclaggio
dei materiali componenti i veicoli a fine vita, ed in
particolare della bonifica di tali mezzi mediante
scomposizione
delle loro parti meccaniche e prelievo dell’olio esausto
dalle parti meccaniche, essendo, per contro, emersa, in
occasione del sopralluogo della polizia giudiziaria, la
presenza
di batterie al piombo esauste e di autovetture prive
di targa e destinate alla demolizione, comprese di motore e
quindi di parti meccaniche miste ad olio, con la conseguente
qualificabilità di tali veicoli come rifiuti pericolosi in
ragione della presenza di scarti di olio per motore.
La Corte d’Appello aveva anche ritenuto irrilevante la
deposizione
del teste indotto dalla difesa che aveva dichiarato di
aver riscontrato che nel settembre 2009 (successivamente
al sopralluogo ed al sequestro eseguiti il 06.08.2009) le
batterie presenti nel sito erano ancora funzionanti, le
automobili
erano state bonificate ed i motori non contenevano
oli, non essendo tali dichiarazioni incompatibili con gli
accertamenti
in precedenza eseguiti dalla polizia giudiziaria e
dovendo, anzi, presumersi che le operazioni di bonifica
fossero
state compiute successivamente, a seguito del provvedimento
autorizzatorio del giudice per le indagini preliminari
del Tribunale di Lucera del 02.09.2009.
La Suprema Corte ha dunque concluso che, a fronte di tale
analitica ed articolata ricostruzione, l’imputato si era
limitato
a ribadire quanto esposto nell’atto d’appello circa la
mancata dimostrazione della natura di rifiuti pericolosi di
quelli rinvenuti nell’area nella sua disponibilità,
omettendo
di confrontarsi in modo critico con la motivazione del
provvedimento
impugnato, nella quale, invece, sono state approfonditamente
illustrate le ragioni sia della qualificazione
di rifiuti pericolosi di parte di quelli rinvenuti nell’area
nella
disponibilità del ricorrente, sia della irrilevanza delle
dichiarazioni
apparentemente inconciliabili del teste indicato dalla
difesa, di cui è stata spiegata la compatibilità con le
risultanze
del sopralluogo eseguito dalla polizia giudiziaria e
con le deposizioni dei testi dell’accusa (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.05.2016 n. 20149
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 7/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il potere di sospensione dei lavori edili in
corso, attribuito all'Autorità comunale dall'art. 27 comma
3, D.P.R. n. 380 del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo
cautelare, in quanto destinato ad evitare che la
prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno
urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere
segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la
caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei
provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45
giorni, ove l'Amministrazione non abbia emanato alcun
provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in
questione perde ogni efficacia, mentre, nell'ipotesi di
emanazione del provvedimento sanzionatorio, è in virtù di
quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera
giuridica del destinatario con conseguente assorbimento
dell'ordine di sospensione dei lavori.
---------------
Il Collegio deve innanzitutto esaminare le questioni di
inammissibilità/improcedibilità del ricorso per carenza di
interesse in relazione all’ordine di sospensione dei lavori
ed al diniego di autorizzazione alla somministrazione di
alimenti e bevande, rilevate d’ufficio, ai sensi dell’art.
73, comma 3, c.p.a., all’udienza di discussione del
23.03.2016.
In relazione all’ordinanza di sospensione dei lavori n.
07/2012, prot. n. 1345, emessa dal Comune di Caserta in data
21.02.2012, si osserva che la costante giurisprudenza
amministrativa, condivisa dal Collegio, ha sempre
interpretato in termini categorici la disposizione di cui
all'art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001 pervenendo
al convincimento per cui (ex aliis, cfr. TAR Calabria
Catanzaro Sez. I, 27.07.2012, n. 840) “il potere di
sospensione dei lavori edili in corso, attribuito
all'Autorità comunale dall'art. 27 comma 3, D.P.R. n. 380
del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo cautelare, in quanto
destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori
determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla
descritta natura interinale del potere segue che il
provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica
della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti
definitivi. Ne discende che, a seguito dello spirare del
termine di 45 giorni, ove l'Amministrazione non abbia
emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo,
l'ordine in questione perde ogni efficacia, mentre,
nell'ipotesi di emanazione del provvedimento sanzionatorio,
è in virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la
lesione della sfera giuridica del destinatario con
conseguente assorbimento dell'ordine di sospensione dei
lavori” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.06.2014,
n. 3115, TAR Milano, Sez. II, 20.01.2015, n. 218, TAR
Campania, Napoli, VIII, 26.02.2016, n. 1080)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 05.05.2016 n. 2282
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
DEPOSITO TEMPORANEO.
Rifiuti - Deposito temporaneo - Condizioni di legittimità -
Stoccaggio dei rifiuti alla rinfusa - Reato
Artt. 183, 256, D.Lgs. n. 152/2006
Lo stoccaggio dei rifiuti alla rinfusa
esclude la regolarità
del deposito temporaneo.
I legali
responsabili della società A.C. s.a.s. di G.R. & C. venivano
condannati per aver effettuato un deposito preliminare
di rifiuti non prodotti nell’esercizio della propria
attività
(ritagli di guaina bituminosa e guaina rimossa durante la
fase di demolizione e costruzione raggruppati in un luogo
diverso rispetto a quello dove erano stati prodotti).
La condanna si fondava sui seguenti fatti e considerazioni:
a) a seguito di sopralluoghi erano stati rinvenuti nel
piazzale
dell’impresa due cassoni pieni: l’uno, di guaina bituminosa
(ritagli di rotoli di materia prima e di guaina sostituita
durante le fasi di demolizione e costruzione); l’altro, di
imballaggi
misti costituiti da barattoli che in origine avevano
contenuto sostanze utilizzate per la posa in opera della
guaina;
b) tali rifiuti, accatastati alla rinfusa, provenivano dai
vari
cantieri gestiti dall’impresa che svolgeva attività di
impermeabilizzazione
e coperture per l’edilizia;
c) sul registro di carico e scarico mancava ogni indicazione
sui rifiuti in questione essendo registrati solo i movimenti
di quelli (rifiuti misti da demolizione) conferiti per lo
smaltimento
ad altra impresa;
d) i rifiuti non erano stati prodotti nel luogo del loro
rinvenimento
ove erano situati esclusivamente gli Uffici amministrativi
della società;
e) non era stata provata la tesi difensiva per cui tali
rifiuti
fossero destinati alla commercializzazione.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso proposto avverso
la sentenza sotto il profilo della natura di rifiuto delle
guaine
e della regolarità del deposito.
La Cassazione ha premesso che, per escludere la natura di
rifiuto delle guaine bituminose, i ricorrenti avevano
utilizzato
argomenti di natura fattuale (attingendo a tal fine a dati
estrinseci al testo della sentenza) e nel merito ha
osservato
che:
a) il Tribunale aveva dato atto che le guaine erano
anch’esse
destinate allo smaltimento tramite impresa specializzata;
b) tale affermazione -di natura dirimente- si fondava su
elementi di prova indicati in sentenza di cui i ricorrenti
non
solo non eccepivano il travisamento, limitandosi ad opporre
la testimonianza della Coppo, secondo cui le guaine e le
latte venivano selezionate per decidere se riutilizzarle in
altri
impieghi o disfarsene, ma di cui riconoscevano la veridicità
allorquando opponevano l’inadempimento dell’impresa
in questione, a loro non imputabile;
c) in ogni caso, l’argomentazione difensiva (fondata sulla
testimonianza prima citata) secondo cui si trattava di
materie
prime secondarie, oltre ad essere contraddittoria con la
tesi dell’affidamento del deposito a terzi, non considerava
che tali erano solo quelle che rispettavano i requisiti e le
condizioni di cui ai decreti ministeriali indicati nell’art.
181-
bis, D.Lgs. n. 152/2006, non i residui della lavorazione dei
quali sia incerta la destinazione all’effettivo riutilizzo;
d) allo stesso modo, l’eccezione secondo cui il deposito
era regolare perché i rifiuti erano depositati nel “luogo di
produzione” (dovendosi per tale intendere, secondo la tesi
difensiva, anche la sede dell’impresa produttrice) non era
decisiva perché non considerava che lo stoccaggio alla
rinfusa
esclude “ex se” la regolarità del deposito stesso e che
in ogni caso il rispetto di tutte le modalità tecniche del
deposito
costituisce preciso onere di chi lo effettua, in
considerazione
della natura eccezionale e derogatoria del deposito
temporaneo rispetto alla disciplina ordinaria, onere che
non può essere assolto per la prima volta in sede di
legittimità
con l’inammissibile allegazione di dati fattuali;
e) peraltro, era da escludere che la sede dell’impresa non
funzionalmente ed immediatamente collegata al luogo di
materiale produzione del rifiuto potesse esser considerata
anch’essa “luogo di produzione” del rifiuto e ciò a
prescindere
dal fatto che tale collegamento, se non emerge “ictu
oculi”, deve essere provato in modo rigoroso da chi lo
deduce.
La Corte ha motivato anche perché non ha ritenuto astrattamente
applicabile la causa di non punibilità per la particolare
tenuità del fatto: infatti, la richiesta contrastava con
la decisione del Tribunale di sanzionare la condotta degli
imputati con una pena che, ancorché pecuniaria, non era
in alcun modo prossima al minimo edittale il che escludeva
l’esiguità del pericolo di danno per l’ambiente (e, dunque,
la particolare tenuità dell’offesa) che deve essere minimo,
trascurabile.
Secondo la Corte, la natura esigua del danno
(o del pericolo) concorre a rendere non punibile un fatto
che è comunque offensivo, sicché essa non può essere
confusa con le ipotesi di “speciale (o particolare) tenuità”
o
di “lieve entità” del fatto che attenuano il reato, senza
escluderne l’offensività. Si tratta di concetti non
sovrapponibili
che collocano la non punibilità per particolare tenuità
del fatto nella angusta area schiacciata tra la totale
inoffensività
della condotta e il reato attenuato dalla speciale o
particolare tenuità del fatto o dalla sua lieve entità (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.04.2016 n. 17184
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 7/2016) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RAGGRUPPAMENTO E ABBRUCIAMENTO DI MATERIALI VEGETALI.
Rifiuti - Materiali vegetali - Attività di raggruppamento e
abbruciamento - Disciplina applicabile
Artt. 182, 185, 256, 256-bis, D.Lgs. n. 152/2006
Costituisce attività di gestione di
rifiuti, esulando dalle
normali pratiche agricole, ogni attività di raggruppamento
e abbruciamento dei materiali vegetali di cui all’art.
185, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 152/2006 eseguita
fuori dal luogo di produzione o, se eseguita nel luogo di
produzione, per una finalità diversa dal reimpiego dei
materiali come sostanze concimanti o ammendanti; ovvero
che sia eseguita nel luogo di produzione, per il
reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o
ammendanti, ma in cumuli non piccoli o, se in cumuli
piccoli, in quantità giornaliere superiori a tre metri steri
per ettaro.
Nel ricorso per cassazione deciso dalla sentenza che si
riporta,
il ricorrente, condannato per avere effettuato tramite
combustione a cielo aperto, sul nudo terreno lo smaltimento
di rifiuti speciali non pericolosi costituiti da residui
della
trebbiatura del riso e in particolare da cumuli di pula e
paglia
di riso, assumeva che il Tribunale aveva ritenuto provata
la natura “dolosa” della combustione esclusivamente
sulla base della deposizione testimoniale del militare in
servizio
presso il Corpo dei Vigili del fuoco senza che questi
avesse in alcun modo accertato l’origine dolosa dell’abbruciamento
del cumulo di pula di riso dal quale fuoriusciva il
fumo.
Inoltre, il ricorrente, in relazione alla qualifica di
rifiuto
della pula di riso, sosteneva che il giudice aveva escluso
la qualifica dei materiali come sottoprodotto partendo dal
presupposto, non provato, che fosse stato l’imputato a dare
fuoco alla pula e alla paglia di riso presente sul fondo
agricolo: in altri termini, il Tribunale, partendo dal
presupposto
che il cumulo di pula di riso fosse stato deliberatamente
bruciato dal ricorrente, aveva dedotto che lo stesso
dovesse essere considerato a tutti gli effetti un rifiuto.
L’imputato
assumeva invece che la pula di riso rispettasse le
condizioni indicate dalla legge per essere considerata un
sottoprodotto, essendo indiscusso che la stessa fosse
originata
da un processo di produzione, quale è la produzione
del riso; la stessa era certamente utilizzata, nel corso
dello
stesso o di un successivo processo di produzione o di
utilizzazione,
da parte del produttore o di terzi, dal momento
che sono molteplici le modalità di utilizzo di tale
prodotto,
quale mangime per bovini e ovini, lettiera per gli animali,
utilizzo farmaceutico o per la produzione di energia nelle
centrali biogas; inoltre era prevista un’altra possibilità
di
utilizzo, utilizzata dal ricorrente ed incentivata dalla
comunità
europea (Regolamento Ce n. 73/2009), ovvero la sua
utilizzazione come concime, in considerazione delle
altissime
qualità energetiche, provvedendo al suo reinterramento
sul campo.
La Cassazione, nell’esaminare il primo motivo, ha osservato
che era stato accertato che i Vigili del fuoco ricevettero
una segnalazione di incendio presso l’azienda del
ricorrente;
che, sopraggiungendo sul posto, rinvennero all’interno
dell’azienda un cumulo di circa 80 mc. di pula di riso che
stava bruciando; che il ricorrente era la sola persona
presente
e che, all’arrivo degli operanti, stava chiudendo il
cancello di accesso all’azienda. Il teste, che aveva
coordinato
l’intervento, escluse che si trattasse di autocombustione,
rilevando che il fuoco era stato senz’altro appiccato
dall’esterno in quanto il fumo proveniva dalla superficie
esteriore del cumulo, tant’è che, quando i pompieri ruppero
la crosta esterna del cumulo, il fuoco si spense perché
all’interno il materiale era incombusto.
Successivamente, agenti del Corpo forestale si recarono
presso la citata azienda agricola e, alla presenza del
ricorrente
e di un suo dipendente, presero visione del cumulo,
oggetto dell’intervento dei pompieri e ormai ridotto in
cenere,
a ridosso del quale constatarono un nuovo abbruciamento di
residui vegetali derivanti dalla lavorazione del riso;
giusto nei pressi era infatti in funzione un essiccatoio,
in cui il riso veniva deumidificato e dai cui vagli uscivano
paglia di riso, cariossidi vuote, resti di erbe infestanti
eccetera
(nel piazzale vi erano anche cumuli di riso).
Sulla base di tali acquisizioni, il Tribunale aveva perciò
logicamente
escluso l’ipotesi dell’autocombustione.
Quanto al secondo motivo, la Cassazione, partendo dal fatto
che il fuoco era stato appiccato dall’imputato, proprietario
dell’azienda (recintata) ed unica persona presente al
momento dell’arrivo dei Vigili del fuoco, ha osservato che
il
Tribunale aveva ritenuto che l’attività di incenerimento in
questione andasse senz’altro considerata come attività di
smaltimento dei rifiuti, essendo volta a eliminare
(impropriamente)
degli scarti, peraltro di quantità significativa,
tanto che il fatto storico era ampiamente sussumibile nella
fattispecie astratta descritta dalla norma incriminatrice,
non potendosi ritenere che, nel caso in esame, i residui
vegetali
bruciati fossero dei sottoprodotti. Infatti la condotta
di bruciare tali materiali denotava la chiara intenzione del
detentore di disfarsene.
Secondo la Corte, il Tribunale aveva giustamente escluso
che l’abbruciamento in questione fosse penalmente
irrilevante
ai sensi dell’art. 185, lett. f), D.Lgs. n. 152/2006 in
quanto tale norma, ai fini dell’esclusione dal campo di
applicazione
della disciplina dei rifiuti, richiede, tra l’altro, che
i residui vegetali siano destinati al reimpiego in
agricoltura
(circostanza esclusa nel caso concreto in quanto il periodo
della concimazione della semina era già ampiamente decorso)
e che i metodi di utilizzo non danneggino l’ambiente
e non mettano in pericolo la salute umana (il rispetto di
tale
requisito era da escludersi posto che la combustione era
avvenuta nei pressi di un edificio ed in periodo in cui
l’accensione
dei fuochi era vietata sul territorio regionale).
In ordine alla reclamata natura di sottoprodotto della pula
di riso, la Suprema Corte ha osservato che nella specie
non solo il ricorrente non aveva fornito la prova certa che
la sostanza (pula di riso) fosse utilizzata “nel corso dello
stesso o di un successivo processo di produzione o di
utilizzazione,
da parte del produttore o di terzi”, ma il giudice
del merito aveva anche evidenziato l’esistenza della prova
contraria in quanto il periodo della semina era ampiamente
decorso e i residui vegetali non erano stati utilizzati nei
campi; né tali residui potevano essere successivamente
utilizzati
perché la condotta di bruciarli denotava, di fatto, la
chiara intenzione del detentore di disfarsene, trattandoli
non come sottoprodotto, ma come rifiuto, attraverso lo
smaltimento di essi mediante combustione.
La Cassazione, su sollecitazione del Procuratore Generale,
ha infine affrontato la questione dello ius superveniens nel
senso che i fatti, così come ricostruiti nella sentenza
impugnata,
inducevano a ritenere non sussistenti nel caso di specie
le ulteriori condizioni di esclusione dalla disciplina dei
rifiuti
previste dall’art. 182, comma 6-bis, D.Lgs. n. 152/2006
introdotto dall’art. 14, comma 8, lett. b), D.L. 24.06.2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.08.2014, n. 116, svolgendo in proposito due
considerazioni:
a) che nella stessa sentenza impugnata si dava atto
che i pompieri, sopraggiunti sul posto, avevano rinvenuto
all’interno
dell’azienda un cumulo di circa 80 mc di pula di riso
che stava bruciando, per cui era stato superato il limite di
3
metri steri per ettaro che l’art. 182, comma 6-bis, fissa
per la
irrilevanza penale del fatto, e
b) perché la stessa sentenza
dava atto che nel periodo interessato l’accensione dei
fuochi
era vietata sul territorio regionale.
La disposizione richiamata (art. 182, comma 6-bis) detta
una disciplina in deroga che ha ad oggetto i materiali
vegetali
di cui all’art. 185, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 152/2006
(richiamato dal nuovo comma 6-bis dell’art. 182) ossia: “
(...) paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale
agricolo
o forestale naturale non pericoloso utilizzati in
agricoltura,
nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale
biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano
l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana”.
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli
cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri
steri per ettaro dei materiali vegetali, di cui all’art.
185,
comma 1, lett. f), effettuate nel luogo di produzione, sono,
quindi, sottratte, dalla disciplina sui rifiuti, poiché sono
considerate (costituiscono) normali pratiche agricole
consentite
per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti
o ammendanti, e non costituiscono più attività di gestione
di rifiuti.
Quindi il loro “raggruppamento” ed “abbruciamento”, se
eseguito nel rispetto delle condizioni imposte dal comma
6-bis dell’art. 182, non costituisce attività di gestione di
rifiuti,
e conseguentemente non può integrare alcun illecito
previsto dalla normativa di riferimento, per la fondamentale
ragione che, a condizioni esatte, le sostanze non rientrano
ope legis nel novero dei rifiuti.
Infatti, letta “in controluce”, la disposizione stabilisce
che
costituisce invece attività di gestione di rifiuti, esulando
dalle normali pratiche agricole, ogni attività di
raggruppamento
e abbruciamento dei materiali vegetali di cui all’art.
185, comma 1, lett. f), eseguita fuori dal luogo di
produzione
o, se eseguita nel luogo di produzione, per una finalità
diversa dal reimpiego dei materiali come sostanze concimanti
o ammendanti; ovvero che sia eseguita nel luogo di
produzione, per il reimpiego dei materiali come sostanze
concimanti o ammendanti, ma in cumuli non piccoli o, se
in cumuli piccoli, in quantità giornaliere superiori a tre
metri
steri per ettaro.
Da ciò si ricava che l’art. 182, comma 6-bis, va coordinato
con la disciplina di cui all’art. 185, comma 1, lett. f), il
quale
dispone che gli stessi materiali non rientrano nel campo di
applicazione della normativa sui rifiuti qualora siano
“utilizzati
in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di
energia da tale biomassa mediante processi o metodi che
non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute
umana”, richiedendosi pertanto un reimpiego finalisticamente
orientato (“come sostanze concimanti o ammendanti”
e quindi l’utilizzazione in agricoltura che è
realisticamente
fattibile se le attività sono eseguite nei luoghi di
produzione),
nonché richiedendo processi o metodi ambientalmente
salubri e non pericolosi (interessi, entrambi, compromessi
da incendi indiscriminati di enormi quantità di
materiali, non controllabili), e in tal senso spiegandosi,
cioè
nell’intima connessione esistente tra l’art. 182, comma 6-bis e l’art. 185, comma 1, lett. f), il secondo periodo
inserito
nella prima norma, apparentemente sganciato dalla disciplina
di deroga dettata dalla prima parte della medesima
disposizione ex 182, comma 6-bis D.Lgs. n. 152/2006 secondo
cui “nei periodi di massimo rischio per gli incendi
boschivi, dichiarati dalle Regioni, la combustione di
residui
vegetali agricoli e forestali è sempre vietata. I Comuni e
le
altre amministrazioni competenti in materia ambientale
hanno la facoltà di sospendere, differire o vietare la
combustione
del materiale di cui al presente comma all’aperto
in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche,
climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui
da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e
privata
incolumità e per la salute umana, con particolare
riferimento
al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili
(PM10)”.
Pur nell’oggettiva difficoltà interpretativa, originata da
interventi
normativi, in materia, cronologicamente stratificati
e sistematicamente non omogenei, la Cassazione ha ritenuto
che -quando il materiale (non pericoloso) di cui all’art.
185, comma 1 lett. f) viene bruciato al di fuori delle
condizioni previste dall’art. 182, comma 6-bis, primo e
secondo
periodo, e, quindi, quando mancano le condizioni richieste
per l’esclusione dell’abbruciamento dalle attività di
gestione di rifiuti- è configurabile, contrariamente ad una
precedente decisione della stessa Corte (07.10.2014, Urcioli, Ced Cass., rv. 261790) il reato di cui all’art.
256,
comma 1, lett. a), relativo alle attività di gestione di
rifiuti
non autorizzate e non invece la disciplina sanzionatoria di
cui all’art. 256-bis in conformità all’approdo cui è giunta
in
parte qua la richiamata pronuncia, in virtù della clausola
di
riserva espressa nel secondo periodo del comma 6 dell’art.
256-bis secondo il quale “fermo restando quanto previsto
dall’art. 182, comma 6-bis, le disposizioni del presente
articolo
(ossia dell’art. 256-bis) non si applicano all’abbruciamento
di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato
da verde pubblico o privato”.
Nel caso di specie, il ricorrente aveva ampiamente superato
(bruciando circa 80 metri cubi di pula di riso) il limite di
3 metri steri per ettaro, che la norma fissa per la
irrilevanza
penale del fatto (come noto, un metro stero rappresenta
l’unità di volume apparente, cioè comprendente il materiale
vegetale e gli spazi vuoti, che corrisponde ad una catasta
delle dimensioni di 1 metro x 1 metro x 1 metro), avendo
inoltre svolto l’attività di abbruciamento nel periodo in
cui, come emerge dal testo della sentenza impugnata,
l’accensione dei fuochi era vietata sul territorio regionale
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.02.2016 n. 5504
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 4/2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RUMORE, RAPPORTI TRA PRIVATI PROPRIETARI DI FONDI VICINI.
Rumore non superiore alla soglia massima di rumorosità
fissata dalle norme speciali, tollerabilità, valutazione del
giudice in base al caso concreto
Artt. 844 e 2043 cod. civ.
In tema di immissioni rumorose con
riferimento ai rapporti
tra i privati proprietari di fondi vicini, un rumore
superiore di 3,5 rispetto al rumore di fondo che si
protragga
per cinque-dieci minuti al giorno, in orari non destinati
al riposo e non più di una volta al giorno, non
può essere ritenuto intollerabile, dovendosi peraltro
precisare che non essendo tale valore superiore alla soglia
massima di rumorosità fissata dalle norme speciali
(5 decibel in orario diurno), ben può il giudice valutare,
sulla base di un prudente apprezzamento che tenga
conto della peculiarità della specifica fattispecie, se si
sia o meno in presenza di immissioni intollerabili.
Con la pronuncia in commento la Suprema Corte illustra
alcuni
fondamentali principi in tema di immissioni rumorose
e applicabilità dell’art. 844 cod. civ. nei rapporti tra i
privati
proprietari di fondi vicini.
In particolare, ricorreva per cassazione l’originario attore
la
cui domanda ex artt. 844 e 2043 cod. civ. (cessazione o
riconduzione
dei rumori provenienti dal macchinario della
proprietà adiacente, nonché condanna del convenuto al
risarcimento
del danno biologico e morale) veniva rigettata
dal Tribunale, con pronuncia confermata in appello.
La Cassazione rigetta il ricorso chiarendo quanto segue
con riferimento ai seguenti tre aspetti:
1) art. 844 cod. civ. e carattere relativo del limite di
tollerabilità
delle immissioni;
2) parametri fissati dalle norme speciali a tutela
dell’ambiente
e poteri del giudice nello stabilire la tollerabilità o
meno delle immissioni nell’ambito privatistico;
3) Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 01.03.1991 e applicabilità dell’art. 844 cod. civ., nei
rapporti
tra i privati proprietari di fondi vicini.
Quanto al primo aspetto, la Suprema Corte ricorda, in
armonia
con la giurisprudenza di legittimità (si vedano al riguardo,
tra le tante, Cass. 03.08.2001, n. 10735; Cass. 06.06.2000, n. 7545; Cass. 12.02.2000, n. 1565;
Cass. 11.11.1997, n. 11118), che il limite di
tollerabilità
delle immissioni, a norma dell’art. 844 cod. civ., non
ha carattere assoluto, ma relativo; ciò vuol dire che esso
deve essere fissato con riguardo al caso concreto, tenendo
conto delle condizioni naturali e sociali dei luoghi e delle
abitudini della popolazione.
Quanto al secondo aspetto, i giudici osservano poi che i
parametri fissati dalle norme speciali a tutela
dell’ambiente
(dirette alla protezione di esigenze della collettività, di
rilevanza
pubblicistica), pur potendo essere considerati come
criteri minimali di partenza al fine di stabilire
l’intollerabilità
delle emissioni che li eccedano, non sono necessariamente
vincolanti per il giudice civile. Il giudice, infatti, nello
stabilire
la tollerabilità o meno dei relativi effetti nell’ambito
privatistico,
può anche discostarsene, pervenendo al giudizio di
intollerabilità ex art. 844 cod. civ. delle emissioni,
ancorché
contenute in quei limiti; ciò sulla scorta di un prudente
apprezzamento
che consideri la particolarità della situazione
concreta e dei criteri fissati dalla norma civilistica (sul
punto
si veda Cass. 25.08.2005, n. 17281).
Da ultimo, con riferimento ai valori fissati dal Decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri in data 01.03.1991,
la Cassazione ricorda che esso, nel determinare le modalità
di rilevamento dei rumori ed i limiti di tollerabilità in
materia
di immissioni rumorose -al pari dei regolamenti comunali
limitativi dell’attività rumorosa- fissa, quale misura da
non
superare per le zone non industriali, una differenza
rispetto
al rumore ambientale pari a 3 db in periodo notturno e in 5
db in periodo diurno: tali previsioni perseguono, precisa la
Suprema Corte, finalità di carattere pubblico ed opera nei
rapporti fra i privati e la PA. Dette disposizioni, perciò,
conclude
la Corte, non escludono l’applicabilità dell’art. 844
cod. civ., nei rapporti tra i privati proprietari di fondi
vicini
(Cass. 01.02.2011, n. 2319; Cass. 03.08.2001, n.
10735).
Ciò considerato, la Cassazione osserva che nella specie la
Corte d’Appello ha:
• accertato emissioni sonore che superavano il rumore di
fondo di 3,5 decibel nelle ore diurne e di 4,5 nelle ore
notturne;
• dato atto che tali valori risultano superiori a quello di
3
decibel del rumore di fondo, normalmente individuato dalla
giurisprudenza quale limite di tollerabilità delle
immissioni
rumorose;
• evidenziato che l’attore non ha provato né la frequenza
delle immissioni, né se avvenivano in orario notturno o di
riposo pomeridiano;
• ritenuto (esclusa per quanto detto la produzione di rumori
notturni o in orari destinati al riposo, e valutate tutte le
circostanze
del caso concreto) che un rumore diurno superiore
di 3,5 rispetto al rumore di fondo (che nella specie si
protraeva per cinque-dieci minuti al giorno e
presumibilmente,
non più di una volta al giorno) non può essere considerato
obiettivamente intollerabile;
• precisato che tale valore non risultava superiore alla
soglia
massima di rumorosità fissata dalle norme speciali
richiamate
nei citati precedenti giurisprudenziali (5 decibel in
orario diurno);
• osservato, di conseguenza, che ben poteva valutarsi, sulla
base di un prudente apprezzamento che tenga conto
della peculiarità della specifica fattispecie, se si era o
meno
in presenza di immissioni intollerabili;
• valutato che si era in presenza di immissioni non
intollerabili.
Alla luce di tutto ciò, la Cassazione conclude confermando
che il giudizio così espresso nella sentenza impugnata circa
la non intollerabilità delle immissioni in questione è
sorretto da una motivazione immune da vizi logici e
giuridici (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 29.10.2015 n. 22105
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 4/2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
IMMISSIONI ACUSTICHE, INTOLLERABILITÀ, RISARCIMENTO DEL
DANNO.
Immissioni, intollerabilità, danno, prova per presunzioni
Artt. 844 e 2043 cod. civ.
In tema di immissioni, le conseguenze
dannose della loro
intollerabilità possono essere provate anche in via
presuntiva. Dunque, pur in difetto di un’accertata lesione
psico-fisica, può essere accertata una significativa lesione
degli interessi della persona umana costituzionalmente
garantiti quale il diritto al riposo e alla tranquillità
e, accertata l’effettività del danno, la sua liquidazione
può avvenire in via equitativa in quanto ancorata alla
peculiarità del caso concreto.
Venivano proposte domande di inibitoria e di risarcimento
del danno in dipendenza di lamentate immissioni provenienti
da fabbricato adibito ad attività artigianale.
In esito al giudizio di primo grado, la Corte d’Appello
riteneva
accertato che si fossero verificate immissioni acustiche
eccedenti la normale tollerabilità. Per l’effetto,
condannava
il convenuto al risarcimento dei danni in favore
dell’attore.
In particolare, il giudice d’appello osservava che:
• il superamento del limite di tollerabilità delle
immissioni
rumorose previsto dalla normativa di settore risultava
accertato
(con C.T.U.), anche se solo durante l’utilizzo di un
muletto e non, invece, durante il funzionamento delle altre
apparecchiature;
• era stato chiesto il risarcimento del pregiudizio “alla
salute”
e alla “qualità della vita”, cagionato dalle immissioni
intollerabili
o meno, mentre non era stata riproposta la domanda
inibitoria;
• l’intollerabilità dei rumori in questione e la loro
incidenza
pregiudizievole sulle occupazioni e il riposo delle persone,
in misura tale da compromettere la normale fruibilità
dell’abitazione
e la qualità della vita al suo interno, erano risultate
confermate anche dalla prova testimoniale;
• rispetto a tale rumore, superiore alla soglia della
tollerabilità,
il danno era in re ipsa ed era risarcibile ai sensi degli
artt. 2043 e 2049 cod. civ., risultando liquidabile in via
equitativa,
avuto riguardo alla circostanza del caso concreto.
Con ricorso per cassazione, l’originario convenuto
denunciava
che il giudice di appello, ricorrendo ad una valutazione
di tipo equitativo e riconoscendo il risarcimento pur in
assenza di lesioni medicalmente accertate, si era sottratto
al compito di verificare l’effettività di un danno
giuridicamente
apprezzabile.
La Cassazione rigetta il ricorso, confermando la correttezza
della pronuncia impugnata.
Ciò sulla base delle seguenti argomentazioni:
• la Corte territoriale non ha confuso l’evento di danno con
le sue conseguenze, piuttosto, ha ritenuto provato siffatte
conseguenze dannose in via presuntiva;
• è stata infatti considerata “natura” e “alientità” del
rumore
(così come misurato dai tecnici), nonché la sua frequenza
discontinua nell’arco della giornata e la sua protrazione
negli anni;
• l’impianto motivazionale della decisione impugnata,
infatti,
espone puntualmente gli elementi probatori (c.t.u. e prova
testimoniale) da cui è stata desunta:
a) l’intollerabilità delle immissioni;
b) l’incidenza pregiudizievole di dette immissioni sulle
occupazioni
e il riposo delle persone, con un danno né futile,
né meramente immaginario;
Tutto ciò, prosegue la Cassazione, in linea con la
giurisprudenza
di legittimità (cfr. Cass. 19.12.2014, n. 26899)
secondo cui l’accertata esposizione ad immissioni sonore
intollerabili può determinare una lesione del diritto al
riposo
notturno e alla vivibilità della propria abitazione, la cui
prova
può essere fornita dal danneggiato anche mediante
presunzioni
sulla base delle nozioni di comune esperienza.
Dunque, osservano i giudici di legittimità, pur in difetto
di
un’accertata lesione psico-fisica, il pregiudizio accertato
dai giudici d’appello esprime una “significativa lesione
degli
interessi della persona umana costituzionalmente garantiti,
e segnatamente il diritto al riposo e alla tranquillità,
inevitabilmente impedito dal protrarsi dei rumori anche
nelle
ore del pomeriggio”.
In tale contesto, conclude la Suprema Corte, è postulato il
sicuro accertamento dell’effettività del danno, pure nelle
obiettive difficoltà della sua quantificazione; ne consegue,
diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, che la
liquidazione equitativa non si rivela in tali casi affatto
arbitraria,
risultando, invece, ancorata alla peculiarità del caso
concreto (Corte di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 20.10.2015 n. 21173
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 4/2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RUMORE, CONTEMPERAMENTO DELLE ESIGENZE DELLA PRODUZIONE CON
LE RAGIONI DELLA PROPRIETÀ.
Immissioni superiori ai limiti di tollerabilità, illiceità,
ambito operativo dell’attività di contemperamento delle
esigenze della produzione con le ragioni dei proprietari
lesi dalle immissioni
Art. 844, comma 2, cod. civ.
Le immissioni acustiche determinate da
un'attività produttiva
che superino i normali limiti di tollerabilità fissati,
nel pubblico interesse, da leggi o regolamenti, e da
verificarsi in riferimento alle condizioni del fondo che le
subisce, sono da reputarsi illecite, sicché il giudice,
dovendo
riconoscerle come tali, può addivenire ad un contemperamento
delle esigenze della produzione soltanto
al fine di adottare quei rimedi tecnici che consentano
l'esercizio della attività produttiva nel rispetto del
diritto
dei vicini a non subire immissioni superiori alla normale
tollerabilità.
Con la sentenza in commento, la Cassazione torna a
pronunciarsi
sull’art. 844 cod. civ. e, in particolare, sull’ambito
applicativo del comma 2.
Nel caso di specie, i titolari di un locale e di un albergo
venivano
chiamati in giudizio al fine di far accertare la provenienza
di immissioni rumorose, eccedenti la normale tollerabilità,
provenienti da detti ambienti. Gli attori, in particolare,
chiedevano l'accertamento della responsabilità dei convenuti
e la condanna degli stessi alla cessazione delle immissioni
in questione, nonché il risarcimento dei danni dagli
stessi subiti.
Il giudice adito accertava e dichiarava la sussistenza di
immissioni
rumorose eccedenti la normale tollerabilità, provenienti
dal locale, accertando quindi la responsabilità solidale
dei convenuti nella causazione del danno biologico da
inabilità temporanea parziale subita da alcuni degli attori,
e
condannando di conseguenza i convenuti in solido al
risarcimento,
anche del danno morale, oltre che per il danno
patrimoniale da temporaneo deprezzamento dell'immobile
di proprietà degli attori.
In seguito all’appello proposto da uno dei due convenuti, la
pronuncia di primo grado venne parzialmente riformata,
con conseguente ricorso per cassazione proposto dagli
originari
attori.
Questi denunciavano tra l’altro violazione e/o falsa
applicazione
di norme di diritto (ex art. 360 cod. proc. civ., n. 3) in
relazione all'art. 844 cod. civ., nonché
omessa/insufficiente/contraddittoria motivazione in ordine alla sussistenza di
immissioni
intollerabili. In particolare, col ricorso in parola veniva
osservato che:
- non è necessario il superamento dei limiti legali
stabiliti
dalla normativa sull'inquinamento acustico, laddove sia
accertata
l'intollerabilità delle immissioni, tenuto conto dello
stato dei luoghi ed anche della priorità dell'uso;
- nel caso in esame andavano prioritariamente tutelate le
esigenze abitative ed il diritto alla salute degli odierni
ricorrenti.
La Cassazione giudica detta doglianza infondata.
Come noto in tema di immissioni l’art. 844 cod. civ. dispone,
al primo comma, quanto segue: “il proprietario di un
fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore,
le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili
propagazioni
derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale
tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei
luoghi”.
Al secondo comma, poi, si precisa che “nell'applicare
questa norma l'autorità giudiziaria deve contemperare le
esigenze della produzione con le ragioni della proprietà.
Può tener conto della priorità di un determinato uso”.
I Giudici di legittimità osservano al riguardo che, l'art.
844
cod. civ., comma 2, nella parte in cui prevede la
valutazione,
da parte del giudice, del contemperamento delle esigenze
della produzione con le ragioni della proprietà,
considerando
eventualmente la priorità di un determinato uso,
deve essere letto, “tenendo conto che il limite della tutela
della salute è da ritenersi ormai intrinseco nell'attività
di
produzione oltre che nei rapporti di vicinato, alla luce di
una interpretazione costituzionalmente orientata, dovendo
considerarsi prevalente rispetto alle esigenze della
produzione
il soddisfacimento di una normale qualità della vita”.
Da ciò, illustra la Cassazione richiamando la propria
giurisprudenza
in materia (si veda in particolare Cass., 08.03.2010, n. 5564), discende che le immissioni acustiche
determinate
da un'attività produttiva che superino i normali limiti
di tollerabilità fissati, nel pubblico interesse, da leggi o
regolamenti,
e da verificarsi in riferimento alle condizioni del
fondo che le subisce, sono da reputarsi illecite; con la
conseguenza
che il giudice, dovendo riconoscerle come tali,
“può addivenire ad un contemperamento delle esigenze
della produzione soltanto al fine di adottare quei rimedi
tecnici
che consentano l'esercizio della attività produttiva nel
rispetto del diritto dei vicini a non subire immissioni
superiori
alla normale tollerabilità”.
Sulla base di tali principi la Cassazione osserva che nella
specie, secondo la sentenza impugnata, non sussiste la
prova che i rumori fossero intollerabili. Pertanto, non
poteva
essere applicato l'art. 844 cod. civ., comma 2. La doglianza
proposta è quindi infondata (Corte
di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 22.09.2015 n. 18624
- tratto da Ambiente & sviluppo n. 2/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le controversie sul contributo di concessione
(ora contributo di costruzione), devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo a partire dalla legge
28.01.1977 n. 10 (art. 16), introducono un giudizio sul
rapporto, che prescinde dall’impugnazione di atti.
La determinazione del contributo è, infatti, cosa
diversa ed autonoma rispetto al rilascio del permesso di
costruire, sia perché persegue finalità sue proprie, sia
perché si conclude con un atto -concettualmente diverso da
quello concessivo del titolo a costruire- che può essere
contestato e caducato in sede giurisdizionale senza
ripercussioni sul titolo edilizio.
Ciò dipende dalla natura del contributo, che, pur non avendo
carattere strettamente tributario, si configura come
corrispettivo di diritto pubblico connesso al rilascio della
concessione edilizia, a titolo di partecipazione del
concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in
proporzione ai benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
Si tratta, più specificamente, di una prestazione
patrimoniale imposta (dovuta cioè a prescindere dall’utilità
che riceve il concessionario e dalle spese effettivamente
necessarie per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione:
da determinarsi sulla
base delle norme che regolano i relativi criteri di
conteggio, le quali sono cogenti sia per il contribuente
(tenuto nei limiti di ciò che la legge dispone, in
osservanza del principio enunciato dall’art. 23 Cost.), sia
per l’Amministrazione (che non può richiedere importi
diversi, in eccesso o in difetto, da quelli dovuti per
legge).
Ciò implica, tra l’altro, che:
(a) relativamente al contributo, il rapporto tra titolare del
permesso edilizio e Amministrazione ha carattere paritetico,
e non autoritativo, con conseguente esigenza di determinare
ciò che è dovuto per legge, restando improponibili le
censure tipiche dell’impugnativa dei provvedimenti
amministrativi volte a far valere i c.d. vizi sintomatici
dell’eccesso di potere;
(b) la c.d. “’impugnazione” dell’atto di determinazione del
contributo per vizi propri (per es., computo errato),
comportando la lesione di un diritto (e non di un interesse
legittimo), è proponibile nei termini di prescrizione;
(c) in caso di errore (per difetto) nella liquidazione del
contributo la P.A. può parimenti pretenderne l’integrazione
(o il conguaglio) nel termine di prescrizione, così come a prescrizione è soggetta
l’azione di ripetizione dell’interessato che, dopo avere
pagato il contributo, ne chieda la restituzione -totale o
parziale- per indebito oggettivo.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento 26/27.10.2007, prot.
n. 17310, emesso dal responsabile dell’Area Tecnica, con cui
il Comune ha rideterminato il contributo di costruzione per
gli interventi edilizi eseguiti sull’area del complesso
produttivo “ex Mellin” ed ha ingiunto alla ricorrente
il pagamento di € 615.883,31 quale maggior somma dovuta a
tale titolo; con la condanna del Comune al risarcimento del
danno.
...
1. La Società ricorrente, già proprietaria dell’area
denominata ex Mellin e dei sovrastanti immobili, siti in
zona D1 “industriale e artigianale di completamento”,
nel periodo 2003~2007 ha realizzato su detti immobili,
successivamente alienati a terzi, interventi di
ristrutturazione, sulla base di diverse denunce di inizio
attività.
2. In base ad un accordo sostitutivo di provvedimento, ex
art. 11 legge n. 241/1990, recepito con delibera consiliare
29.06.2005 n. 15, ha inoltre realizzato opere di
urbanizzazione primaria (tratti di viabilità interna ed
esterna al complesso industriale), a totale proprio carico
e, a scomputo del contributo concessorio, interventi edilizi
(rifacimento del tetto e opere di adeguamento igienico
sanitario e impiantistico) su un edificio scolastico di
proprietà comunale.
3. A due anni di distanza dall’accordo il Comune ha avviato
un procedimento di riesame delle pratiche edilizie,
finalizzato alla corretta qualificazione dell’intervento
(cfr. avviso in data 26.05.2007, prot. n. 8477).
4. Al termine del contraddittorio procedimentale, con
l’impugnato provvedimento 26/27.10.2007, emesso dal
responsabile dell’Area Tecnica, il Comune ha riqualificato
l’intervento, ha rideterminato il contributo di costruzione
applicando la tariffa relativa agli interventi di nuova
costruzione (anziché di ristrutturazione), ed ha ingiunto
alla Società il pagamento di € 615.883,31 quale maggior
somma dovuta a tale titolo.
5. La Società ha impugnato il provvedimento sulla base di
tre motivi di ricorso, chiedendone l’annullamento, con la
condanna del Comune al risarcimento del danno; danno
concretatosi “nei costi tecnici, progettuali e di
esecuzione che la ricorrente ha dovuto sostenere [per] le
opere oggetto dell’accordo… completate e già in uso …”
(ricorso, pag. 25), nonché (memoria 29.04.2010, pag. 24) per
la stipula della polizza fideiussoria e le spese legali.
6. Con ordinanza 19.12.2007 n. 1971 la Sezione ha accolto la
domanda cautelare per motivi esclusivamente attinenti al
periculum in mora, subordinandola alla prestazione di
garanzia fideiussoria.
7. Ciò premesso, il Collegio osserva quanto segue.
Con il primo motivo la Società assume che, essendo
stati eseguiti gli interventi di ristrutturazione negli anni
2003-2006, sulla base di titoli edilizi consolidati, e per
giunta confluiti nell’accordo sostitutivo, il Comune non
avrebbe avuto alcun potere di procedere ad una nuova
istruttoria volta alla riqualificazione dell’intervento,
tanto meno dopo il silenzio-assenso formatosi sulle domande
di agibilità presentate dalla ricorrente e dalla sua avente
causa.
8. Con il secondo motivo assume che il Comune non
avrebbe potuto rideterminarsi unilateralmente in difformità
da quanto concordato in sede di accordo sostitutivo ex art.
11 legge 241/1990; che dal provvedimento impugnato non è
dato evincere quale sia l’interesse pubblico che avrebbe
indotto il Comune a riliquidare gli oneri concessori
discostandosi da quanto pattuito; che l’art. 11, quarto
comma, della legge 241/1990 prevede sì il recesso
dall’accordo, ma solo per sopravvenuti motivi di interesse
pubblico e previo indennizzo.
9. Con il terzo motivo assume che la ristrutturazione
è una tipologia di intervento che comprende anche la
demolizione e la ricostruzione parziale o totale nel
rispetto della volumetria preesistente; nel caso di specie
le opere realizzate in base a d.i.a. rientrerebbero appunto
nella nozione di ristrutturazione, essendo la s.l.p.
dell’edificio realizzato inferiore a quella dell’edificio
originario; viceversa, il provvedimento impugnato, emesso in
base a pareri redatti da professionisti esterni e ad una
sentenza del TAR Marche, non recherebbe alcuna motivazione
che dimostri un ipotetico errore di calcolo atto a
giustificare, nell’esercizio dell’autotutela, una
quantificazione degli oneri diversa da quella convenuta tra
le parti in sede di accordo sostitutivo.
10. Il ricorso, cui resiste il Comune, è infondato.
Va
premesso che le controversie sul contributo di concessione
(ora contributo di costruzione), devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo a partire dalla legge
28.01.1977 n. 10 (art. 16), introducono un giudizio sul
rapporto, che prescinde dall’impugnazione di atti.
11. La determinazione del contributo è, infatti, cosa
diversa ed autonoma rispetto al rilascio del permesso di
costruire, sia perché persegue finalità sue proprie, sia
perché si conclude con un atto -concettualmente diverso da
quello concessivo del titolo a costruire- che può essere
contestato e caducato in sede giurisdizionale senza
ripercussioni sul titolo edilizio (cfr. Cons. Stato IV
21.04.2009 n. 2438).
12. Ciò dipende dalla natura del contributo, che, pur non
avendo carattere strettamente tributario, si configura come
corrispettivo di diritto pubblico connesso al rilascio della
concessione edilizia, a titolo di partecipazione del
concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in
proporzione ai benefici che la nuova costruzione ne ritrae
(Cons. Stato 2^, 21.11.2007 n. 11073 e 10060/2004).
13. Si tratta, più specificamente, di una prestazione
patrimoniale imposta (dovuta cioè a prescindere dall’utilità
che riceve il concessionario e dalle spese effettivamente
necessarie per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione:
Cons. Stato V, 21.04.2006 n. 2258), da determinarsi sulla
base delle norme che regolano i relativi criteri di
conteggio, le quali sono cogenti sia per il contribuente
(tenuto nei limiti di ciò che la legge dispone, in
osservanza del principio enunciato dall’art. 23 Cost.), sia
per l’Amministrazione (che non può richiedere importi
diversi, in eccesso o in difetto, da quelli dovuti per
legge).
14. Ciò implica, tra l’altro, che:
(a) relativamente al contributo, il rapporto tra titolare del
permesso edilizio e Amministrazione ha carattere paritetico,
e non autoritativo, con conseguente esigenza di determinare
ciò che è dovuto per legge, restando improponibili le
censure tipiche dell’impugnativa dei provvedimenti
amministrativi volte a far valere i c.d. vizi sintomatici
dell’eccesso di potere (TAR Milano 2^, 13.07.1998 nn. 1817 e
1820);
(b) la c.d. “’impugnazione” dell’atto di determinazione del
contributo per vizi propri (per es., computo errato),
comportando la lesione di un diritto (e non di un interesse
legittimo), è proponibile nei termini di prescrizione (Cons.
Stato V, 03.05.2006 n. 2463);
(c) in caso di errore (per difetto) nella liquidazione del
contributo la P.A. può parimenti pretenderne l’integrazione
(o il conguaglio) nel termine di prescrizione (cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 06.06.2008 n. 2686; Sez. 2^, 21.11.2007 n.
11073 e 10060/2004), così come a prescrizione è soggetta
l’azione di ripetizione dell’interessato che, dopo avere
pagato il contributo, ne chieda la restituzione -totale o
parziale- per indebito oggettivo.
15. Nel caso in esame, non sono dunque pertinenti le censure
di difetto di motivazione, specie se riferite al
provvedimento del Comune come atto di autotutela assunto in
difetto di un interesse pubblico specificamente individuato (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.05.2010 n. 1566 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 15.06.2018 |
ã |
Sull'obbligo di arretrare la costruzione anche
nell'ipotesi in cui i fondi, anziché essere
contigui, siano separati da una striscia di terreno
di proprietà di terzi. |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche la presenza di una striscia di proprietà
aliena tra due costruzioni poste a distanza inferiore a
quella minima non preclude la possibilità di invocare il
rispetto delle distanze in questione, sebbene con l'adozione
di opportuni accorgimenti al fine di ripartire equamente
l'onere del rispetto delle distanze, alla luce
dell'esistenza del fondo alieno interposto.
Invero, l'obbligo
di arretrare la costruzione, posto dalla disciplina
urbanistica, va rispettato anche nell'ipotesi in cui i
fondi, anziché essere contigui, siano separati da una
striscia di terreno di proprietà di terzi.
Ed ancora,
nell'ipotesi di fondi non confinanti, perché
separati da una striscia di terreno di proprietà di un terzo
e di larghezza inferiore alla distanza minima legale,
sebbene non operi il principio della prevenzione, non
essendo oggettivamente configurabile l'ipotesi di una
costruzione "sul confine", giacché quella eretta
sulla demarcazione tra ciascun fondo e lo spazio intermedio
si presenta, rispetto all'altro fondo, come distaccata dal
confine medesimo, trova piuttosto applicazione la disciplina
delle costruzioni "con distacco".
---------------
Il primo motivo di ricorso denunzia la violazione e
falsa applicazione dell'art. 873 c.c. e del DM n. 1444/1968
nonché delle previsioni di cui all'art. 6, co. 2, delle NTA
del PRG del Comune di Bosco Chiesanuova.
Deducono i ricorrenti che, sebbene fosse emerso che la
sopraelevazione degli attori fosse risultata collocata ad
una distanza di appena un metro dalla loro costruzione, da
reputarsi preveniente, distanza largamente inferiore a
quella minima imposta dalla legge e dal regolamento locale,
tuttavia la domanda riconvenzionale è stata disattesa sol
perché tra i due fondi era collocata una striscia di terreno
di proprietà di terzi, sebbene di larghezza inferiore alla
distanza minima tra costruzioni.
Il motivo è fondato, risultando la decisione gravata non
conforme alla precedente giurisprudenza di questa Corte a
mente della quale anche la presenza di una
striscia di proprietà aliena tra due costruzioni poste a
distanza inferiore a quella minima, non preclude la
possibilità di invocare il rispetto delle distanze in
questione, sebbene con l'adozione di opportuni accorgimenti
al fine di ripartire equamente l'onere del rispetto delle
distanze, alla luce dell'esistenza del fondo alieno
interposto.
In tal senso si veda tra i precedenti di questa Corte, Cass.
n. 627/2003 a mente della quale l'obbligo
di arretrare la costruzione, posto dalla disciplina
urbanistica, va rispettato anche nell'ipotesi in cui i
fondi, anziché essere contigui, siano separati da una
striscia di terreno di proprietà di terzi.
In termini analoghi Cass. n. 5874/2017, secondo cui nell'ipotesi di fondi non confinanti, perché
separati da una striscia di terreno di proprietà di un terzo
e di larghezza inferiore alla distanza minima legale,
sebbene non operi il principio della prevenzione, non
essendo oggettivamente configurabile l'ipotesi di una
costruzione "sul confine", giacché quella eretta
sulla demarcazione tra ciascun fondo e lo spazio intermedio
si presenta, rispetto all'altro fondo, come distaccata dal
confine medesimo, trova piuttosto applicazione la disciplina
delle costruzioni "con distacco"
(per altri precedenti in presenza di una striscia di terreno
interposta, Cass. n. 3968/2013; Cass. n. 7525/2002).
Ne deriva che il rigetto della riconvenzionale in ragione
della sola presenza di un fondo intermedio contravviene a
quanto affermato dalla giurisprudenza ed impone la
cassazione della sentenza gravata in parte qua, con
rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Venezia per
un nuovo esame, anche al fine di riscontrare, in assenza di
una specifica indicazione da parte del giudice di appello,
che ha esaminato la questione nel merito, la inammissibilità
della relativa domanda come lamentata nelle memorie di parte
controricorrente (Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 08.05.2018 n. 11011). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo il prevalente orientamento di questa
Corte l'espressione di cui all'art. 873 c.c., che disciplina
le distanze tra costruzioni su "fondi finitimi", non va
intesa in senso letterale di fondi confinanti, ma in quello
di fondi "vicini".
Infatti quando il codice ha inteso riferirsi a fondi
-confinanti" ha sempre usato l'attributo "finitimo" e non
anche quello "contiguo" e che l'art. 873 c.c. riguardi anche
fondi non confinanti si desume dal contenuto dell'art. 879
c.c., nel quale sono escluse dall'osservanza della distanza
legale le costruzioni a confine con piazze o vie
pubbliche;i1 che, implicitamente, porta ad ammettere
l'applicabilità della norma dell'art. 873 alle costruzioni
su fondi confinanti con vie private o, comunque, con terreo
comune o altrui.
Costituisce del resto consolidato principio della
giurisprudenza di questa Corte quello per cui l'obbligo del
rispetto delle distanze da osservarsi nelle costruzioni
esistenti, previsto dall'art. 873 c.c. o dallo strumento
urbanistico locale, ad integrazione della predetta norma del
codice civile, è preordinato al fine di prevenire che tra
gli edifici privati esistenti o da edificarsi "su fondi
finitimi" (ovverossia "vicini" e non "confinanti") si
formino strette ed insalubri intercapedini tali da
ostacolare il godimento dell'aria e della luce, oltre che il
favorire del propagarsi di incendi.
Le ragioni igieniche ispiratrici della norma, aventi
finalità pubblicistiche, non vengono dunque meno né quando
tra gli edifici posti a distanza minore di quella legale vi
sia una zona di terreno comune alle stesse parti, né quando
detta zona sia di proprietà di un terzo estraneo alla lite.
---------------
Secondo il consolidato indirizzo di questa Corte
nell'ipotesi di fondi non confinanti, in quanto tra i fondi
suddetti intercorra una striscia di terreno di proprietà di
un terzo, di larghezza inferiore a quella legale, non opera
il principio della prevenzione, atteso che non è
oggettivamente configurabile l'ipotesi di una costruzione
"sul confine", secondo la disciplina degli artt. 874-877
c.c., in quanto quella eretta sulla demarcazione tra ciascun
fondo e lo spazio intermedio si presenta, rispetto all'altro
fondo, come distaccata dal confine.
In tale situazione deve escludersi l'attuazione del diritto
di prevenzione, nella forma della costruzione sul confine e
deve affermarsi l'applicazione della disciplina delle
costruzioni "con distacco".
---------------
Con il secondo motivo i ricorrenti denunziano la
violazione e falsa applicazione degli artt. 873 c.c. e 16
Reg. edilizio del Comune di San Giovanni in Persiceto,
dell'art. 4 delle NTA del PRG e del principio di
prevenzione, deducendo che le disposizioni sulle distanze
dovevano ritenersi applicabili alle sole superfici coperte
confinanti, situazione non ravvisabile nel caso di specie.
Deducono inoltre che la legittimità della sopraelevazione
derivava dal fatto che essa era stata eseguita su quanto in
precedenza edificato in aderenza all'edificio di Sc.Od.,
sulla base di un progetto unitario presentato da tutti i
proprietari interessati, vale a dire essi ricorrenti e
Sc.Od., con esclusione di Sc.Gi. che non era confinante.
Pure tale motivo è infondato.
Secondo il prevalente orientamento di questa Corte
l'espressione di cui all'art. 873 c.c. che disciplina le
distanze tra costruzioni su "fondi finitimi" non va
intesa in senso letterale di fondi confinanti, ma in quello
di fondi "vicini".
Infatti quando il codice ha inteso riferirsi a fondi
"confinanti" ha sempre usato l'attributo "finitimo" e
non anche quello "contiguo" e che l'art. 873 c.c.
riguardi anche fondi non confinanti si desume dal contenuto
dell'art. 879 c.c., nel quale sono escluse dall'osservanza
della distanza legale le costruzioni a confine con piazze o
vie pubbliche;i1 che, implicitamente, porta ad ammettere
l'applicabilità della norma dell'art. 873 alle costruzioni
su fondi confinanti con vie private o, comunque, con terreo
comune o altrui (Cass. 627/2003).
Costituisce del resto consolidato principio della
giurisprudenza di questa Corte quello per cui l'obbligo del
rispetto delle distanze da osservarsi nelle costruzioni
esistenti, previsto dall'art. 873 c.c. o dallo strumento
urbanistico locale, ad integrazione della predetta norma del
codice civile, è preordinato al fine di prevenire che tra
gli edifici privati esistenti o da edificarsi "su fondi
finitimi" (ovverossia "vicini" e non "confinanti")
si formino strette ed insalubri intercapedini tali da
ostacolare il godimento dell'aria e della luce, oltre che il
favorire del propagarsi di incendi.
Le ragioni igieniche ispiratrici della norma, aventi
finalità pubblicistiche, non vengono dunque meno né quando
tra gli edifici posti a distanza minore di quella legale vi
sia una zona di terreno comune alle stesse parti, né quando
detta zona sia di proprietà di un terzo estraneo alla lite
(Cass. 3849/1978; 1015/1983; 627/2003 e da ultimo
5154/2012).
Del pari infondata la dedotta violazione del c.d. principio
di prevenzione.
Ed invero secondo il consolidato indirizzo di questa Corte
nell'ipotesi di fondi non confinanti, in quanto tra i fondi
suddetti intercorra una striscia di terreno di proprietà di
un terzo, di larghezza inferiore a quella legale, non opera
il principio della prevenzione, atteso che non è
oggettivamente configurabile l'ipotesi di una costruzione "sul
confine", secondo la disciplina degli artt. 874-877
c.c., in quanto quella eretta sulla demarcazione tra ciascun
fondo e lo spazio intermedio si presenta, rispetto all'altro
fondo, come distaccata dal confine.
In tale situazione deve escludersi l'attuazione del diritto
di prevenzione, nella forma della costruzione sul confine e
deve affermarsi l'applicazione della disciplina delle
costruzioni "con distacco" (Csss. Ss.Uu. 5349/1982 e
Cass. 627/2003).
Si osserva peraltro che nel caso di specie non si pone un
problema di prevenzione tra costruzioni, posto che la
dedotta violazione deriva non già dall'ampliamento
originario, ma dalla soprelevazione successivamente
eseguita.
I ricorrenti non possono inoltre giovarsi, contrariamente a
quanto da essi dedotto, della disposizione di cui all'art. 4
norma attuazione del PRG del Comune di San Giovanni in
Persiceto, che al punto 3 stabilisce che:
- nel caso di edifici preesistenti costruiti a muro cieco sul
confine, le nuove costruzioni possono essere edificate in
aderenza;
- nel caso di due o più lotti contigui, la costruzione in aderenza
è concessa a condizione che sia presentato dai proprietari
un progetto unitario equivalente a vincolo reciproco di
costruire in aderenza.
La citata disposizione non consentiva infatti ai ricorrenti
di sopraelevare, mediante la presentazione di un progetto
unitario a vincolo reciproco di costruire in aderenza, senza
il consenso di Sc.Gi., quale proprietario del secondo piano,
frontistante la soprelevazione dei ricorrenti, non essendo
al riguardo sufficiente il consenso prestato dall'altro
fratello Sc.Od. (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 08.03.2017 n. 5874). |
EDILIZIA PRIVATA:
Allorché due terreni finitimi sono separati da
una striscia intermedia, inedificata o per qualsiasi ragione
inedificabile, e di larghezza inferiore al distacco dal
confine prescritto per le costruzioni, ciascuno dei
proprietari deve costruire sul proprio fondo ad una
distanza, rispetto al confine con il terreno di proprietà
aliena, che non sia inferiore alla metà della differenza che
residua sottraendo dal distacco imposto dalla normativa
edilizia la misura dello spazio occupato dalla striscia di
terreno interposta.
A tale orientamento, che stabilisce, in sostanza,
che nel computo della distanza minima imposta dalla legge o
dal regolamento locale la larghezza della striscia di
terreno interposta tra i due fondi debba essere
"neutralizzata",
cioè eliminata concettualmente, anche nel caso in
cui la distanza sia imposta tra la costruzione ed il
confine, occorre dare continuità, soffermata l'attenzione su
due aspetti della problematica.
Quanto al primo, è ben vero
che "finitimo" è perfettamente sinonimico rispetto a
"confinante" e che dunque a rigori un'area interposta tra
due fondi rende questi ultimi non reciprocamente confinanti.
Tuttavia occorre osservare che allorquando l'area interposta
e inedificabile abbia una larghezza inferiore a quella
prescritta per il distacco tra costruzioni o tra costruzione
e confine, e non si versi nell'ipotesi di cui all'art. 879,
cpv. c.c., l'inapplicabilità della regola del distacco
comporterebbe esattamente le medesime conseguenze negative
che l'art. 873 c.c. e le disposizioni locali integrative
sono dirette ad evitare.
Del tutto assenti indicazioni normative di segno diverso,
tali, cioè, da rendere plausibile la volontà del legislatore
di accettare un tale effetto pratico, s'impone mediante lo
strumento dell'analogia o dell'interpretazione estensiva una
soluzione che collochi la fattispecie entro l'ambito di
applicazione delle regole dettate in materia di distanze.
Per di più, va considerato che la stessa nozione di distanza
non definisce un dato meramente strutturale, ma disciplina
la relazione dinamica fra contrapposte facoltà edificatorie,
sicché anche il concetto di fondi confinanti o finitimi deve
essere inteso in funzione dello scopo normativo ogni qual
volta l'esercizio di tali facoltà incroci le esigenze
d'ordine pubblico e privato tutelate congiuntamente dagli
artt. 873 e ss. c.c.
La seconda considerazione è data dal fatto che
la giurisprudenza di questa Corte è ormai da tempo
attestata nel senso di ritenere che le norme degli strumenti
urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o
come spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o
in rapporto con l'altezza delle stesse, ancorché inserite in
un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a
regolare l'assetto del territorio, conservano il carattere
integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a
disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo
equo l'utilizzazione edilizia dei suoli privati, e pertanto
la loro violazione consente al privato di ottenere la
riduzione in pristino.
Nel contesto edilizio, pertanto, le norme
degli strumenti urbanistici che impongono l'osservanza di
una determinata distanza della costruzione dal confine non
esprimono una regola diversa rispetto a quella codicistica
basata sulla distanza tra fabbricati, ma una differente
tecnica di protezione interna alla medesima regola del
distacco, che in tutte le sue applicazioni va declinata
unitariamente.
---------------
7. - I primi due motivi, da esaminare congiuntamente
perché inerenti alla medesima quaestio iuris, sono
infondati, anche se per ragioni che richiedono una parziale
correzione ex art. 384,
ult. comma c.p.c. della motivazione in diritto della
sentenza impugnata (basata sul fatto che della particella di
terreno intermedia i Ma. siano comproprietari).
7.1. - Questa Corte ha già avuto modo di osservare che
allorché due terreni finitimi sono separati da una striscia
intermedia, inedificata o per qualsiasi ragione
inedificabile, e di larghezza inferiore al distacco dal
confine prescritto per le costruzioni, ciascuno dei
proprietari deve costruire sul proprio fondo ad una
distanza, rispetto al confine con il terreno di proprietà
aliena, che non sia inferiore alla metà della differenza che
residua sottraendo dal distacco imposto dalla normativa
edilizia la misura dello spazio occupato dalla striscia di
terreno interposta (Cass. nn. 3506/1999 e 7129/1993; vedi
anche Cass. n. 20606/2004, che però si limita a richiamare
detto principio, applicato dal giudice di merito; una
soluzione sostanzialmente analoga era stata accolta da Cass.
n. 3480/1978, che tuttavia, a differenza dell'indirizzo in
esame, non aveva escluso l'applicabilità sia pur parziale
del principio della prevenzione).
7.2. - A tale orientamento, che stabilisce, in sostanza, che
nel computo della distanza minima imposta dalla legge o dal
regolamento locale la larghezza della striscia di terreno
interposta tra i due fondi debba essere "neutralizzata"
(così, in motivazione, la n. 3506/1999 cit.), cioè eliminata
concettualmente, anche nel caso in cui la distanza sia
imposta tra la costruzione ed il confine, occorre dare
continuità, soffermata l'attenzione su due aspetti
della problematica.
7.2.1. - Quanto al primo, è ben vero che "finitimo"
è perfettamente sinonimico rispetto a "confinante" e
che dunque a rigori un'area interposta tra due fondi rende
questi ultimi non reciprocamente confinanti.
Tuttavia occorre osservare che allorquando l'area interposta
e inedificabile abbia una larghezza inferiore a quella
prescritta per il distacco tra costruzioni o tra costruzione
e confine, e non si versi nell'ipotesi di cui all'art. 879,
cpv. c.c., l'inapplicabilità della regola del distacco
comporterebbe esattamente le medesime conseguenze negative
che l'art. 873 c.c. e le disposizioni locali integrative
sono dirette ad evitare.
Del tutto assenti indicazioni normative di segno diverso,
tali, cioè, da rendere plausibile la volontà del legislatore
di accettare un tale effetto pratico, s'impone mediante lo
strumento dell'analogia o dell'interpretazione estensiva una
soluzione che collochi la fattispecie entro l'ambito di
applicazione delle regole dettate in materia di distanze.
Per di più, va considerato che la stessa nozione di distanza
non definisce un dato meramente strutturale, ma disciplina
la relazione dinamica fra contrapposte facoltà edificatorie,
sicché anche il concetto di fondi confinanti o finitimi deve
essere inteso in funzione dello scopo normativo ogni qual
volta l'esercizio di tali facoltà incroci le esigenze
d'ordine pubblico e privato tutelate congiuntamente dagli
artt. 873 e ss. c.c.
7.2.2. - La seconda considerazione, che dà conto
della preferenza dell'indirizzo predetto rispetto a quello
di Cass. n. 7525/2002 invocato dal ricorrente, è data dal
fatto che la giurisprudenza di questa Corte è ormai da tempo
attestata nel senso di ritenere che le norme degli strumenti
urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o
come spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o
in rapporto con l'altezza delle stesse, ancorché inserite in
un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a
regolare l'assetto del territorio, conservano il carattere
integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a
disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo
equo l'utilizzazione edilizia dei suoli privati, e pertanto
la loro violazione consente al privato di ottenere la
riduzione in pristino (Cass. nn. 7384/2001, 6209/1996 e
12918/1991).
Nel contesto edilizio, pertanto, le norme degli strumenti
urbanistici che impongono l'osservanza di una determinata
distanza della costruzione dal confine non esprimono una
regola diversa rispetto a quella codicistica basata sulla
distanza tra fabbricati, ma una differente tecnica di
protezione interna alla medesima regola del distacco, che in
tutte le sue applicazioni va declinata unitariamente.
7.3. - Pertanto, ricondotta la fattispecie sotto gli artt.
873 e ss. c.c. così
come integrati dall'intera disciplina degli strumenti
urbanistici locali in tema di distanze, viene meno anche il
rilievo della giusta obiezione mossa a Cass. n. 7525/2002,
ossia di non dare contezza del fondamento normativo del
reciproco diritto dei proprietari dei fondi confinanti di
pretendere il rispetto di una distanza maggiore di quella
legale e calcolata non dal confine comune, ma da quello col
fondo intermedio (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 18.02.2013 n. 3968). |
|
Piano Commerciale e correlate connotazioni urbanistiche: |
URBANISTICA:
Rilevanza dell’aspetto urbanistico nella localizzazione
degli esercizi commerciali.
---------------
Commercio – Piano di commercio – Aspetto urbanistico –
Dopo direttiva comunitaria Bolkestein n. 123/2006/CEE -
Rilevanza.
L’aspetto urbanistico mantiene piena
rilevanza nella disciplina relativa alla localizzazione
degli esercizi commerciali anche a seguito della direttiva
comunitaria n. 123/2006/CEE, meglio nota come direttiva "Bolkestein",
volta a ridurre i vincoli procedimentali e sostanziali
gravanti sui servizi privati, nel cui ambito rientra il
commercio, al fine di favorire la creazione nei vari Stati
membri di un regime comune mirato a dare concreta attuazione
ai principi di libertà di stabilimento e libera prestazione
(1)
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che le prescrizioni contenute nei piani
urbanistici in ragione dell'interesse pubblico tutelato
impediscono di attribuire prevalenza al piano commerciale
rispetto a quello urbanistico e le previsioni di un piano
commerciale devono avvenire ed attuarsi in conformità e
comunque in coerenza con le scelte di pianificazione
territoriale recate dallo strumento urbanistico
disciplinante i vari modi di utilizzo del territorio,
inclusi quelli relativi al commercio.
Lo Strumento di Intervento per l'Apparato Distributivo (SIAD)
costituisce uno strumento integrativo del PRG vigente. Anzi,
nello specifico, il SIAD appare essere tendenzialmente uno
strumento pianificatorio unico in materia di commercio, in
quanto esaustivo ed integrato, in cui vengono considerati
sia i profili i commerciali, che le esigenze di carattere
urbanistico. In sostanza, quindi, il SIAD dovrebbe contenere
tutte le prescrizioni di natura pianificatoria, comprese
quelle di natura urbanistica, inerenti alle strutture di
commercio, tra cui le medie strutture di vendita.
In tale ottica il SIAD si presenta come strumento che, da un
lato, ha una funzione integrativa degli strumenti
prettamente urbanistici, potendo dettare la disciplina
dettagliata su specifici punti inerenti alle localizzazioni
commerciali, e, dall'altro, ha una capacità regolatoria
tendenzialmente esaustiva, tale da contenere l'intera
disciplina per la localizzazione di strutture di commercio
sull'area interessata, senza necessità di ravvisare la
disciplina in diversi atti, taluni inerenti agli aspetti
urbanistici e tali altri agli aspetti di natura commerciale.
Allo stesso tempo il contenuto integrativo ed esaustivo,
riconducendo l’intera disciplina pianificatoria al SIAD,
dovrebbe comportare che si non presentino delle difformità
tra la disciplina dettata dagli strumenti specificamente
urbanistici, come il PRG, e il SIAD (per la parte relativa
alla pianificazione del commercio). In tale ottica,
pertanto, nel SIAD va ricercata l’intera disciplina
dell’area interessata dalla localizzazione di insediamenti
commerciali e, nel caso di non coincidenza tra la disciplina
del SIAD e quella degli strumenti urbanistici, quali il PRG,
tale difformità andrebbe interpretata, qualora possibile, in
ottica integrativa da parte delle disposizioni del SIAD
rispetto a quelle del PRG
(TAR Capmnaia-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 29.05.2018 n. 3501
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
... per l'annullamento del provvedimento del 30/06/2017 prot.
n. 21006 di diniego ed archiviazione pratica di rilascio di
permesso di costruire per realizzazione di un edificio ad
uso commerciale in Marcianise alla Via XXIV Maggio Angolo
Via Vicenza con domanda di autorizzazione all'apertura di
media struttura di vendita ai sensi della L.R. n. 1/2014
presentata il 23/05/2017 prot. n. 16365; nonché degli atti
presupposti fra cui la delibera C.C. n. 41 del 28/10/2005 se e
in quanto lesiva;
- per la condanna al risarcimento danni con interessi e
rivalutazione monetaria.
...
1) Il ricorso si rivela infondato.
In via preliminare il Collegio ritiene di effettuare alcune
precisazioni in ordine alla disciplina inerente al SIAD e ai
suoi rapporti con gli strumenti di natura urbanistica.
In via generale, si deve osservare la rilevanza dell’aspetto
urbanistico nella disciplina relativa alla localizzazione
degli esercizi commerciali anche a seguito dell'importante
direttiva comunitaria n. 123/2006/CEE, meglio nota come
direttiva "Bolkestein", volta a ridurre i vincoli
procedimentali e sostanziali gravanti sui servizi privati,
nel cui ambito rientra il commercio, al fine di favorire la
creazione nei vari Stati membri di un regime comune mirato a
dare concreta attuazione ai principi di libertà di
stabilimento e libera prestazione.
La direttiva “Bolkestein” prevede che l'iniziativa economica
non possa, di regola, essere assoggettata ad autorizzazioni
e limitazioni (specie se dirette al governo autoritativo del
rapporto fra domanda ed offerta), essendo ciò consentito
solo qualora sussistano motivi imperativi di interesse
generale rientranti nel catalogo formulato dalla Corte di
Giustizia (TAR Campania Napoli, Sez. III, 10/08/2015, n.
4227).
In tale ambito, che ha visto susseguirsi diversi interventi
del legislatore nazionale, si rileva come, comunque, da un
lato non si è operata una liberalizzazione incondizionata
del commercio e, dall’altro, rimane la rilevanza degli
aspetti urbanistici.
Sì è, infatti, osservato in giurisprudenza che le
prescrizioni contenute nei piani urbanistici in ragione
dell'interesse pubblico tutelato impediscono di attribuire
prevalenza al piano commerciale rispetto a quello
urbanistico (Cons. Stato, Sez. IV, sentenza 17.10.2012,
n. 5343), così come si è precisato che le previsioni di un
piano commerciale devono avvenire ed attuarsi in conformità
e comunque in coerenza con le scelte di pianificazione
territoriale recate dallo strumento urbanistico
disciplinante i vari modi di utilizzo del territorio,
inclusi quelli relativi al commercio, di guisa che la
disciplina urbanistica deve essere la prima ad essere tenuta
in considerazione al fine di valutare l'assentibilità di
un'attività commerciale (Cons. Stato Sez. IV 27.04.2004
n. 2521; idem, 07.06.2005 n. 2928).
In ogni caso, per quanto riguarda il settore del commercio,
è stato previsto lo strumento di intervento per l'apparato
distributivo (SIAD), che prevede un livello integrato di
programmazione e pianificazione del territorio ai fini
urbanistico-commerciali.
In particolare, come rilevato da una decisione di questo
TAR (Sez. II, 17.11.2017, n. 5435), l'art. 6 del D.Lgs. 31.03.1998 n. 114 (Riforma della disciplina
relativa al settore del commercio) prevede che le Regioni
devono "fissare i criteri di programmazione urbanistica
riferiti al settore commerciale" (comma 2), in specie
individuando "le aree da destinare agli insediamenti
commerciali" (comma 2, lett. a), "i vincoli di natura
urbanistica" (lett. c), nonché altri aspetti di carattere
edilizio ed urbanistico.
In attuazione del suddetto D.Lgs. n. 114 del 1998, la L.R. 07.01.2000 n. 1 (Direttive regionali in materia di
distribuzione commerciale) -abrogata dall'art. 64, comma 1, L.R. n. 1 del 2014 (Nuova disciplina in materia di
distribuzione commerciale)- aveva previsto tra l'altro,
all'art. 13, che i Comuni "devono provvedere a dotarsi dello
specifico strumento di intervento per l'apparato
distributivo, concernente ... le localizzazioni delle grandi
strutture di vendita, nel rispetto delle destinazioni d'uso
delle aree e degli immobili stabilite dallo stesso
strumento, che costituisce il piano di strumento integrato
del P.R.G.", tant'è che è sottoposto dopo l'approvazione al
visto di conformità regionale.
Il successivo art. 14 (intitolato "criteri di programmazione
urbanistica") disponeva che le strutture di media e grande
distribuzione possono essere realizzate solo su aree
ricadenti in zone urbanistiche espressamente dichiarate
compatibili, dotate di idonee infrastrutture e dimensionate
in proporzione all'esercizio commerciale da impiantare su di
esse.
Attualmente l’indicata L.R. n. 1 del 2014, nel sostituire la
L.R. n. 1 del 2000, ha introdotto la nuova disciplina
generale e di principio in materia di esercizio delle
attività commerciali nella Regione Campania. In particolare
l'art. 1, comma 2, della citata L.R. n. 1 del 2014 statuisce
che "2. Secondo la disciplina dell'Unione Europea e statale
in materia di concorrenza, di libertà di stabilimento e di
prestazione di servizi, costituisce principio generale
dell'ordinamento l'apertura di nuovi esercizi commerciali
nel territorio regionale senza contingenti, limiti
territoriali o vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi
quelli connessi alla tutela della salute dei lavoratori,
dell'ambiente, incluso l'ambiente urbano e dei beni
culturali."
L'art. 1, comma 3, aggiunge, tuttavia, che "L'introduzione
di un regime amministrativo volto a sottoporre ad
autorizzazione le medie strutture e le grandi strutture di
vendita, nonché gli esercizi per le merci ingombranti ed il
commercio in aree pubbliche, è giustificato sulla base
dell'esistenza di un interesse generale, costituzionalmente
rilevante e compatibile con l'ordinamento comunitario, nel
rispetto del principio di proporzionalità, riferito
esclusivamente alle materie di ambiente, di edilizia, di
urbanistica, di tutela della sanità pubblica, di tutela
della pubblica sicurezza, di tutela dei lavoratori e di
tutela dell'incolumità delle persone".
L'art. 10 reintroduce la disciplina relativa allo Strumento
comunale d'intervento per l'apparato distributivo,
denominato dalla legge stessa SIAD. La predetta disposizione
normativa al comma 1 prevede che "I Comuni adeguano gli
strumenti urbanistici generali ed attuativi, i regolamenti
di polizia locale e lo strumento d'intervento per l'apparato
distributivo, se vigente, oppure si dotano dello stesso
strumento, se ancora non vigente, recependo i criteri e gli
indirizzi di programmazione stabiliti dalla presente legge
entro centottanta giorni dalla sua entrata in vigore". Il
comma 2 attribuisce al SIAD la valenza di istituto centrale
per l'attività distributiva; lo stesso infatti "costituisce
lo strumento integrato del piano urbanistico comunale",
tramite il quale si individuano le aree da destinare ad
insediamenti commerciali, "con funzione esaustiva del potere
di programmazione e pianificazione del territorio ai fini urbanistico-commerciali".
Come già affermato da questa Sezione (TAR Campania, sez. VIII,
08.11.2016, n. 5149), dall'esame della normativa
nazionale e regionale emerge la chiara volontà del
legislatore di assegnare al SIAD una funzione esaustiva di
ogni esigenza di carattere sia commerciale sia urbanistico
nel settore della media e grande distribuzione di vendita.
Si è quindi dedotto, in primo luogo, che il legislatore non
ha inteso duplicare la programmazione dell'utilizzazione del
territorio, separando in distinti atti la programmazione
urbanistica e la programmazione commerciale (cfr. art. 6,
comma 2, ove si fa espresso riferimento a "criteri di
programmazione urbanistica riferiti al settore
commerciale"). In secondo luogo, l'atto di individuazione
delle aree da destinare agli insediamenti commerciali
costituisce "strumento urbanistico", ed è in tale strumento
che devono essere sia individuate le predette aree sia
dettate tutte le prescrizioni urbanistiche di specie.
D'altronde, tale interpretazione risulta del tutto
ragionevole anche sul piano logico-sistematico, non essendo
coerente col principio di buon andamento amministrativo
l'eventuale duplicazione e distinzione di funzioni di
programmazione e pianificazione con riferimento al medesimo
territorio, con la conseguente, paradossale intersecazione
di atti generali e/o di pianificazione.
Il criterio ispiratore dell'art. 6 del D.Lgs. n. 114 del
1998 è fondamentalmente improntato all'integrazione della
pianificazione territoriale ed urbanistica con la
programmazione commerciale; per questo -tra i criteri di
programmazione riferiti al settore commerciale- pretende la
correlazione tra titolo edilizio e autorizzazione
all'esercizio, eventualmente anche in modo contestuale.
Ciò esprime la necessità che -ai fini del rilascio
dell'autorizzazione commerciale- venga attentamente
considerata la conformità del nuovo insediamento ai vigenti
parametri urbanistici; è chiaro pertanto che non si può
prescindere dalle destinazioni d'uso previste dal P.R.G. ove
non modificate o integrate dal SIAD
(TAR Campania,
sez. VIII, 30.04.2014, n. 2407).
Alla luce del quadro legislativo nazionale e regionale
sinteticamente esposto, nonché della giurisprudenza di
questo TAR,
deve ritenersi che il SIAD costituisca uno
strumento integrativo del PRG vigente. Anzi, nello
specifico, il SIAD appare essere tendenzialmente uno
strumento pianificatorio unico in materia di commercio, in
quanto esaustivo ed integrato, in cui vengono considerati
sia i profili i commerciali, che le esigenze di carattere
urbanistico. In sostanza, quindi, il SIAD dovrebbe contenere
tutte le prescrizioni di natura pianificatoria, comprese
quelle di natura urbanistica, inerenti alle strutture di
commercio, tra cui le medie strutture di vendita.
In tale ottica il SIAD si presenta come strumento che, da un
lato, ha una funzione integrativa degli strumenti
prettamente urbanistici, potendo dettare la disciplina
dettagliata su specifici punti inerenti alle localizzazioni
commerciali, e, dall'altro, ha una capacità regolatoria
tendenzialmente esaustiva, tale da contenere l'intera
disciplina per la localizzazione di strutture di commercio
sull'area interessata, senza necessità di ravvisare la
disciplina in diversi atti, taluni inerenti agli aspetti
urbanistici e tali altri agli aspetti di natura commerciale.
Allo stesso tempo il contenuto integrativo ed esaustivo,
riconducendo l’intera disciplina pianificatoria al SIAD,
dovrebbe comportare che si non presentino delle difformità
tra la disciplina dettata dagli strumenti specificamente
urbanistici, come il PRG, e il SIAD (per la parte relativa
alla pianificazione del commercio). In tale ottica,
pertanto, nel SIAD va ricercata l’intera disciplina
dell’area interessata dalla localizzazione di insediamenti
commerciali e, nel caso di non coincidenza tra la disciplina
del SIAD e quella degli strumenti urbanistici, quali il PRG,
tale difformità andrebbe interpretata, qualora possibile, in
ottica integrativa da parte delle disposizioni del SIAD
rispetto a quelle del PRG. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Natura programmatoria del Piano di commercio.
---------------
Commercio – Piano di commercio – Natura – Individuazione.
Il Piano di commercio ha natura di
atto di programmazione economica, finalizzato a conformare,
anche sotto il profilo urbanistico, la distribuzione
commerciale (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che natura di atto di programmazione
economica, è, infatti, desunta dal giudice di primo grado
dall’obiettivo del Piano di perseguire la “salvaguardia
del sistema economico esistente”, con l’ulteriore
precisazione che “i nuovi insediamenti non devono
alterare l’organizzazione del sistema commerciale esistente”,
ritenendo “l’organizzazione programmata sia già
funzionale allo sviluppo coerente delle varie tipologie di
vendita presenti nel territorio comunale”.
A tale finalità economica, si sono poi aggiunte, nello
stesso Piano, diverse prescrizioni urbanistiche e
territoriali. In particolare, quelle relative a “salvaguardare
la sostenibilità territoriale e ambientale, l’equilibrio del
sistema urbano, di ridurre il consumo del suolo e di
riqualificare le aree di degrado”.
Sotto quest’ultimo profilo, il Piano del Commercio al
dettaglio su aree private, contenente la pianificazione
delle medie e grandi strutture di vendita, ha assunto anche
natura di atto di programmazione territoriale o urbanistica
per l’insediamento di nuovi esercizi commerciali.
Ha aggiunto la Sezione che la connessione tra pianificazione
commerciale e territoriale è ormai un dato acquisito al
sistema (Corte cost. n. 176 del 2014), essendo le due
materie preordinate a finalità diverse (tutela della
concorrenza e corretto uso del territorio) ma tra loro
interferenti (Cons. St., sez. VI, n. 2928 del 2005)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.05.2018, n. 2762
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
... per la riforma, in entrambi i ricorsi di appello (n.
1599/2017 e n. 1745/2017), della
sentenza 29.12.2016 n. 1423 del Tar per il
Veneto, Sez. III, resa tra le parti, concernente
l’annullamento:
- della deliberazione della Giunta comunale di Padova n. 2015/115
del 10.03.2015 avente ad oggetto: “Il Piano del Commercio
al dettaglio su area privata – Pianificazione locale delle
medie e grandi strutture di vendita. Approvazione”;
- della deliberazione del Consiglio comunale di Padova n. 2015/62
del 14.09.2015 avente ad oggetto: “Variante al P.I.
relativa all'art. 21 Zona Industriale delle N.T.A., alla
modifica delle destinazioni specifiche di aree a servizi ed
all'inserimento di nuovi perimetri. Controdeduzioni alle
osservazioni. Approvazione”;
- della deliberazione del Consiglio comunale di Padova n. 2015/63
del 19.04.2015 avente ad oggetto: “Variante al P.I. per
l'adeguamento alle previsioni del Piano del Commercio al
dettaglio su area privata – Controdeduzioni alle
osservazioni – Approvazione”.
...
11. Gli appelli non sono fondati.
12. In entrambi i ricorsi si prospetta innanzitutto il tema
della competenza della Giunta comunale di Padova
all’adozione del Piano di Commercio. Sia il -OMISSIS-, sia
la società In.It., lamentano una erronea interpretazione del
Tar in ordine all’accoglimento del vizio di incompetenza
prospettato in primo grado dalla Sa.Ma.Fi..
Come detto, il giudice di primo grado ha rilevato che la
funzione di programmazione, a cui avrebbe dovuto essere
ricondotto il Piano di Commercio, rientrava nelle competenze
del Consiglio comunale ai sensi dell'art. 42, comma 2, lett.
b), del d.lgs. n. 267 del 2000 (di seguito TUEL).
Secondo gli appellanti, invece, il Piano del Commercio, di
cui alla deliberazione della Giunta comunale n. 115/2015,
avrebbe rappresentato solo un “documento preliminare”
alla successiva variante, adottata ai sensi della legge
regionale n. 50/2012 e della legge regionale n. 11/2004, di
adeguamento del Piano degli Interventi alle previsioni del
Piano per il commercio al dettagli su area privata.
13. La tesi non può essere condivisa.
A prescindere dalla letterale dizione “Piano
di Commercio” riportata nelle premesse del documento
approvato dalla Giunta comunale con la deliberazione n.
115/2015, non sembra esservi dubbio sui contenuti dello
stesso atto deliberativo nel quale sono disposte una serie
di prescrizioni in ordine all’allocazione delle strutture
commerciali.
Partendo da questa constatazione, è corretta la conclusione
del Tar che ne ha rilevato la natura di atto di
programmazione economica, finalizzato a conformare, anche
sotto il profilo urbanistico, la distribuzione commerciale.
La natura di atto di programmazione
economica, è, infatti, desunta dal giudice di primo grado
dall’obiettivo del Piano di perseguire la “salvaguardia
del sistema economico esistente”, con l’ulteriore
precisazione che “i nuovi insediamenti non devono
alterare l’organizzazione del sistema commerciale esistente”,
ritenendo “l’organizzazione programmata sia già
funzionale allo sviluppo coerente delle varie tipologie di
vendita presenti nel territorio comunale”.
A tale finalità economica, si sono poi aggiunte, nello
stesso Piano, diverse prescrizioni urbanistiche e
territoriali. In particolare, quelle relative a “salvaguardare
la sostenibilità territoriale e ambientale, l’equilibrio del
sistema urbano, di ridurre il consumo del suolo e di
riqualificare le aree di degrado”.
Sotto quest’ultimo profilo, il Piano del
Commercio al dettaglio su aree private, contenente la
pianificazione delle medie e grandi strutture di vendita, ha
assunto anche natura di atto di programmazione territoriale
o urbanistica per l’insediamento di nuovi esercizi
commerciali.
E, come ha rilevato il Tar, solo per questo
aspetto di razionale gestione del territorio il Piano ha
potuto avere l’effetto di apporre restrizioni ai generali
principi di libertà di concorrenza e di stabilimento.
14. D’altra parte, la connessione tra
pianificazione commerciale e territoriale è ormai un dato
acquisito al sistema
(cfr. Corte cost., sentenza n. 176/2014),
essendo le due materie preordinate a finalità diverse
(tutela della concorrenza e corretto uso del territorio) ma
tra loro interferenti
(cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI, n. 2928/2005).
Per questa ragione, al di là di quanto affermato dagli
appellati sulla valenza urbanistica del Piano, in concreto
lo stesso ha determinato vincoli all’insediamento di
strutture produttive commerciali tra le quali quelle di
media e grande vendita.
15. Tali limitazioni di insediamento,
giustificabili in astratto sotto il profilo del diritto
comunitario (cfr. Corte di giustizia 24.03.2011 causa
C-400/08) per il contemperamento con le altre esigenze di
ordinato sviluppo del territorio, avrebbero
dovuto, in ragione del loro rilievo, essere comunque
adottate dall’organo consiliare, in quanto solo quest’ultimo
è chiamato dalla legge ad esprimere gli indirizzi politici
ed amministrativi di rilievo generale nella materia (cfr.
elenco art. 42, comma 2, lett. b), TUEL: “piani
territoriali ed urbanistici”).
16. La Giunta,
seppure dotata di una competenza residuale per tutti gli
atti non compresi nel suddetto elenco, nonché per quelli di
attuazione degli indirizzi generali del Consiglio comunale
(cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 3137/2014 e n. 4192/2013),
nel caso di specie, non poteva sostituirsi, tenuto
conto che lo stesso Piano è stato il presupposto di
principio per le successive deliberazioni urbanistiche di
attuazione.
17. Con la conseguenza che anche le innovazioni normative
contenute nell’art. 15, comma 13, del DL. n. 70/2011,
cosiddetto decreto sviluppo, non avrebbero potuto avere
rilievo in quanto collegate al riconoscimento della
competenza delle Giunte comunali all’approvazione dei piani
attutivi conformi allo strumento urbanistico vigente.
Non sarebbe stato possibile, infatti, che la Giunta, preso
atto della necessità di una variante alla strumento
urbanistico generale, avesse potuto decidere in merito per
poi attivare la competenza del Consiglio comunale, così
determinando una duplicazione di procedure in contrasto con
la disciplina acceleratoria del citato art. 15, comma 13,
del DL n. 70/2011 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 888/2016). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza del
Giudice di appello:
- il potere di pianificazione urbanistica si pone su di un piano di
prevalenza rispetto agli atti di gestione attinenti la
materia commerciale;
- l'art. 6, d.lgs. 31.03.1998 n. 114, è comunque finalizzato ad
assicurare l'integrazione tra la pianificazione territoriale
ed urbanistica e la programmazione commerciale, in quanto
pone la stretta correlazione tra titoli edilizi e
autorizzazioni all'esercizio, nel novero dei criteri di
programmazione riferiti al settore commerciale;
- le prescrizioni e le disposizioni del piano urbanistico sono
sempre prevalenti su quelle del piano commerciale, in quanto
rispondono all'esigenza di assicurare un ordinato assetto
del territorio, e le relative disposizioni possono
legittimamente porre limiti alla libertà di iniziativa
economica.
---------------
C.3 – Anche il sesto motivo è fondato.
Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza del
Giudice di appello:
"- il potere di pianificazione urbanistica si pone su di un
piano di prevalenza rispetto agli atti di gestione attinenti
la materia commerciale (cfr. Consiglio Stato sez. V
12.07.2004 n. 5057),
- l'art. 6, d.lgs. 31.03.1998 n. 114, è comunque finalizzato ad
assicurare l'integrazione tra la pianificazione territoriale
ed urbanistica e la programmazione commerciale, in quanto
pone la stretta correlazione tra titoli edilizi e
autorizzazioni all'esercizio, nel novero dei criteri di
programmazione riferiti al settore commerciale (cfr.
Consiglio Stato, sez. IV 08.06.2007 n. 3027);
- le prescrizioni e le disposizioni del piano urbanistico sono
sempre prevalenti su quelle del piano commerciale, in quanto
rispondono all'esigenza di assicurare un ordinato assetto
del territorio, e le relative disposizioni possono
legittimamente porre limiti alla libertà di iniziativa
economica (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI 10.04.2012 n.
2060)…" (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.02.2013, n.
1202).
Orbene -pur potendo il Consiglio Comunale, in sede di scelte
di pianificazione urbanistica, ritenere prevalente
l’interesse pubblico ad un ordinato assetto del territorio
rispetto all’interesse commerciale del singolo- nel caso di
specie vi è solo un generico riferimento alla mancanza di
una pianificazione commerciale e ad uno studio sull’impatto
che tale variazione della destinazione potrebbe avere.
E, sotto tale specifico profilo, l’organo consiliare pare
avere surrettiziamente riproposto una questione già
affrontata da questo TAR, e risolta in senso favorevole alla
ricorrente (v. TAR Sicilia, ord. n. 354/2015).
Peraltro, allo stato -tenuto conto dei chiarimenti forniti
dal responsabile con l’ulteriore integrazione istruttoria
richiesta dai consiglieri comunali- in quell’area non
potrebbe essere svolta alcuna attività industriale, in
quanto a ridosso del centro abitato; e, in base al progetto
presentato, è prevista anche una riduzione di cubatura e il
rispetto dei parametri urbanistici (TAR Sicilia-Palermo,
Sez. III,
sentenza 08.03.2018 n. 570 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
L’impugnato Piano del Commercio, con il quale
l’Ente Civico ha riconfermato le 14 grandi strutture di
vendita previste dai precedenti strumenti commerciali e
urbanistici e disatteso oltre 20 proposte di localizzazione
di nuove medie o grandi strutture di vendita, ha un
contenuto obiettivamente equivoco e rende difficile
l’individuazione delle autentiche finalità perseguite dal
pianificatore.
Il Piano sembra mostrare una doppia anima: in parte
atto di programmazione economica, in parte atto di
programmazione territoriale o urbanistica.
La natura di atto di programmazione economica pare desumersi
dall’obiettivo del Piano di perseguire la “salvaguardia
del sistema economico esistente”, con l’ulteriore
precisazione che “i nuovi insediamenti non devono
alterare l’organizzazione del sistema commerciale esistente”.
Con particolare riferimento alle grandi strutture di
vendita, il pianificatore mostra, poi, di ritenere che “l’organizzazione
programmata sia già funzionale allo sviluppo coerente delle
varie tipologie di vendita presenti nel territorio comunale”.
Tali obiettivi e considerazioni, costituenti verosimilmente
il retaggio della tradizione o il frutto di incrostazioni
del passato, parrebbero assegnare al Piano del Commercio del
Comune di Padova il compito di perseguire finalità di
programmazione economica, non più consentite a seguito
dell’entrata in vigore delle normativa, europea e nazionale,
di liberalizzazione del commercio.
La natura di atto di programmazione territoriale o
urbanistica traspare, invece, dalle enunciazioni che
assegnano al Piano la finalità di “salvaguardare la
sostenibilità territoriale e ambientale, l’equilibrio del
sistema urbano, di ridurre il consumo del suolo e di
riqualificare le aree di degrado”.
Tali considerazioni sembrano attribuire al Piano del
Commercio al dettaglio su aree private, contenente la
pianificazione delle medie e grandi strutture di vendita, la
natura di atto di programmazione territoriale o urbanistica,
consentendogli di porre limitazioni, purché proporzionate,
all’insediamento di nuovi esercizi commerciali.
---------------
Con particolare riferimento alle grandi strutture di vendita
la Corte di giustizia dell’Unione europea ha, invero,
ammesso, restrizioni alla libertà di stabilimento
giustificate da motivi imperativi d’interesse generale, a
condizione che siano idonee a garantire la realizzazione
dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto
necessario al raggiungimento dello stesso. Fra i motivi
imperativi riconosciuti dalla Corte europea figurano, tra
gli altri, la protezione dell’ambiente e la razionale
gestione del territorio.
Analoghe considerazioni sono estensibili alla libertà di
concorrenza, considerato che la disciplina europea e
nazionale sulle liberalizzazioni prevede che la libertà
d’iniziativa economica possa essere limitata o esclusa per
effetto di motivi imperativi d’interesse generale (compresa
la tutela dell’ambiente urbano) che prendono in
considerazione l’attività commerciale non per conformare il
relativo mercato, ma per tutelare altri interessi (si veda
il combinato disposto dell’art. 8, co. 1, lett. h), e art.
12, d.lgs. n. 59/2010 nonché l’art. 11, comma 1, lett. e),
del medesimo D.lgs. n. 59 del 2010).
Anche il Manuale curato dalla Commissione europea per
l’attuazione della direttiva servizi (Manuale, p. 15), pur
manifestando la preoccupazione che la pianificazione
urbanistica possa essere utilizzata per eludere le finalità
della direttiva, ribadisce che le norme urbanistiche possono
porre limitazioni all’esercizio dell’attività economica in
alcune zone.
Nell’esaminare il tema dei rapporti tra programmazione della
rete distributiva e pianificazione urbanistica, il Consiglio
di Stato ha affermato che le prescrizioni contenute nei
piani urbanistici, rispondendo all’esigenza di assicurare un
ordinato assetto del territorio, possono porre limiti agli
insediamenti commerciali, dunque alla libertà di iniziativa
economica, non già per considerazioni di politica economica,
ormai estranee al contesto di liberalizzazione di cui il
settore in esame risulta pervaso, bensì nell’esercizio della
funzione cui i suddetti piani sono preordinati, che è quella
di assicurare un ordinato assetto del territorio, con la
conseguenza che, proprio la diversità degli interessi
pubblici tutelati, consente di attribuire prevalenza al
piano urbanistico rispetto a quello commerciale.
La stessa giurisprudenza amministrativa ha, tuttavia,
precisato che anche gli atti di programmazione territoriale
non vanno esenti dalle verifiche prescritte dalla direttiva
servizi per il solo fatto di essere adottati nell’esercizio
del potere di pianificazione urbanistica, dovendosi
verificare se in concreto essi perseguano finalità di tutela
dell’ambiente urbano o, comunque, riconducibili
all’obiettivo di dare ordine e razionalità all’assetto del
territorio, oppure perseguano la regolazione autoritativa
dell’offerta sul mercato dei servizi attraverso restrizioni
territoriali alla libertà di insediamento delle imprese.
Il legislatore ha stabilito, infatti, che:
a) ricadono nell’ambito delle limitazioni vietate (salvo la
sussistenza di motivi imperativi d’interesse generale) non
solo i piani commerciali che espressamente sanciscono il
contingentamento numerico delle attività economiche, ma
anche gli atti di programmazione che impongano “limiti
territoriali” al loro insediamento (artt. 31, comma 1, e
34, comma 3, del D.L. 201/2011);
b) debbono, perciò, considerarsi abrogate le disposizioni di
pianificazione e programmazione territoriale o temporale
autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente
contenuto economico, che pongano limiti, programmi e
controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non
proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e
che in particolare impediscano, condizionino o ritardino
l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi
operatori economici (art. 1 del D.L. n. 1/2012).
Si è aggiunto che le norme di liberalizzazione impongono al
giudice chiamato a sindacare la legittimità degli atti di
pianificazione urbanistica che dispongono limiti o
restrizioni all'insediamento di nuove attività economiche in
determinati ambiti territoriali, l'obbligo di effettuare un
riscontro molto più penetrante di quello che si riteneva
essere consentito in passato; e ciò per verificare,
attraverso un'analisi degli atti preparatori e delle
concrete circostanze di fatto che a tali atti fanno da
sfondo, se effettivamente i divieti imposti possano
ritenersi correlati e proporzionati a effettive esigenze di
tutela dell'ambiente urbano o afferenti all'ordinato assetto
del territorio sotto il profilo della viabilità, della
necessaria dotazione di standard o di altre opere pubbliche,
dovendosi, in caso contrario, reputare che le limitazioni in
parola non siano riconducibili a motivi imperativi di
interesse generale e siano, perciò, illegittime.
---------------
Comunque si qualifichi l’impugnato atto di pianificazione
delle medie e grandi strutture di vendita (atto di
programmazione economica e di contingentamento all’apertura
di nuove medie o grandi strutture di vendita ovvero atto di
pianificazione territoriale o urbanistica, idoneo, quanto
meno in astratto, a porre restrizioni all’insediamento di
nuovi insediamenti commerciali), il Piano del Commercio del
Comune di Padova non poteva essere approvato dalla Giunta
Comunale.
La funzione di programmazione (atti di programmazione e di
pianificazione) è, infatti, devoluta al Consiglio Comunale
dall’art. 42, comma 2, lett. b), del T.U.E.L., che
attribuisce espressamente all’organo consiliare,
rappresentativo anche delle minoranze, la competenza ad
adottare sia gli atti di programmazione economica che quelli
di pianificazione territoriale o urbanistica (“Il consiglio
ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali:…
programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani
finanziari, programmi triennali e elenco annuale dei lavori
pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative
variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici,
programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione,
eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette
materie”).
La Giunta non poteva, pertanto, sostituirsi al Consiglio
nell’adozione di un atto di programmazione recante le scelte
strategiche in tema di localizzazione delle medie e grandi
strutture di vendita, considerato che, in base al cit. art.
42, persino le semplice deroghe e i pareri relativi ad atti
di programmazione e di pianificazione sono riservati
all’organo consiliare.
---------------
... per l'annullamento della deliberazione della Giunta
Comunale n. 2015/115 del 10/03/2015 ad oggetto "Il Piano
del Commercio al dettaglio su area privata - Pianificazione
locale delle medie e grandi strutture di vendita.
Approvazione";
e con i motivi aggiunti depositati il 22.12.2015 per
l'annullamento:
- della deliberazione del Consiglio Comunale n. 2015/62 del
14/09/2015 ad oggetto: "Variante al P.I. relativa
all'art. 21 Zona Industriale delle N.T.A., alla modifica
delle destinazioni specifiche di aree a servizi ed
all'inserimento di nuovi perimetri. Controdeduzioni alle
osservazioni. Approvazione";
- della deliberazione del Consiglio Comunale n. 2015/63 del
19/04/2015 ad oggetto: «Variante al P. I. per
l'adeguamento alle previsioni del Piano del Commercio al
dettaglio su area privata — Controdeduzioni alle
osservazioni - Approvazione»;
- di ogni altro atto comunque connesso per presupposizione o
consequenzialità ivi compresi, per quanto occorra, gli
elaborati allegati alla deliberazione consiliare di adozione
della variante al P.I. per l'adeguamento alle previsioni del
Piano del Commercio n. 2015/37 del 30/04/2015, che pure si
impugna, in quanto assunti "come parte integrante e
contestuale" della suddetta delibera di approvazione.
...
1.- La presente vertenza ha per oggetto l’impugnazione, da
parte di una società che aspira a realizzare una grande
struttura di vendita, del Piano del Commercio al dettaglio
su aree private, contenente la pianificazione delle medie e
grandi strutture di vendita, adottato dal Comune di Padova
nel 2015, successivamente alla cd. liberalizzazione del
commercio, e attuato a mezzo di successive varianti
urbanistiche.
2.- La società ricorrente sostiene che il Piano e le
collegate varianti urbanistiche sono atti di programmazione
economica e mirano a conformare la distribuzione commerciale
in chiave dirigista e in violazione delle recenti norme che
hanno liberalizzato il mercato della distribuzione
commerciale (direttiva servizi 2006/123/CE; art. 31 del d.l.
201/2011, conv. in l. 214/2011; art. 1 del d.l. 1/2012, conv.
in l. 27/2012).
3.- Replica l’Ente Civico affermando la natura schiettamente
urbanistica delle restrizioni poste dal Piano di sviluppo
commerciale e dalle collegate varianti urbanistiche
all’insediamento di medie e grandi strutture di vendita.
...
La censura è fondata e merita accoglimento.
5.1.- Giova premettere che l’impugnato Piano del Commercio,
con il quale l’Ente Civico ha riconfermato le 14 grandi
strutture di vendita previste dai precedenti strumenti
commerciali e urbanistici e disatteso oltre 20 proposte di
localizzazione di nuove medie o grandi strutture di vendita,
ha un contenuto obiettivamente equivoco e rende difficile
l’individuazione delle autentiche finalità perseguite dal
pianificatore.
Il Piano sembra mostrare una doppia anima: in parte
atto di programmazione economica, in parte atto di
programmazione territoriale o urbanistica.
La natura di atto di programmazione economica pare desumersi
dall’obiettivo del Piano di perseguire la “salvaguardia
del sistema economico esistente”, con l’ulteriore
precisazione che “i nuovi insediamenti non devono
alterare l’organizzazione del sistema commerciale esistente”.
Con particolare riferimento alle grandi strutture di
vendita, il pianificatore mostra, poi, di ritenere che “l’organizzazione
programmata sia già funzionale allo sviluppo coerente delle
varie tipologie di vendita presenti nel territorio comunale”.
Tali obiettivi e considerazioni, costituenti verosimilmente
il retaggio della tradizione o il frutto di incrostazioni
del passato, parrebbero assegnare al Piano del Commercio del
Comune di Padova il compito di perseguire finalità di
programmazione economica, non più consentite a seguito
dell’entrata in vigore delle normativa, europea e nazionale,
di liberalizzazione del commercio.
La natura di atto di programmazione territoriale o
urbanistica traspare, invece, dalle enunciazioni che
assegnano al Piano la finalità di “salvaguardare la
sostenibilità territoriale e ambientale, l’equilibrio del
sistema urbano, di ridurre il consumo del suolo e di
riqualificare le aree di degrado”.
Tali considerazioni sembrano attribuire al Piano del
Commercio al dettaglio su aree private, contenente la
pianificazione delle medie e grandi strutture di vendita, la
natura di atto di programmazione territoriale o urbanistica,
consentendogli di porre limitazioni, purché proporzionate,
all’insediamento di nuovi esercizi commerciali.
Con particolare riferimento alle grandi strutture di vendita
la Corte di giustizia dell’Unione europea ha, invero,
ammesso, restrizioni alla libertà di stabilimento
giustificate da motivi imperativi d’interesse generale, a
condizione che siano idonee a garantire la realizzazione
dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto
necessario al raggiungimento dello stesso. Fra i motivi
imperativi riconosciuti dalla Corte europea figurano, tra
gli altri, la protezione dell’ambiente e la razionale
gestione del territorio (Corte di Giustizia Unione europea,
sentenza del 24.03.2011 pronunciata in causa C-400/08).
Analoghe considerazioni sono estensibili alla libertà di
concorrenza, considerato che la disciplina europea e
nazionale sulle liberalizzazioni prevede che la libertà
d’iniziativa economica possa essere limitata o esclusa per
effetto di motivi imperativi d’interesse generale (compresa
la tutela dell’ambiente urbano) che prendono in
considerazione l’attività commerciale non per conformare il
relativo mercato, ma per tutelare altri interessi (si veda
il combinato disposto dell’art. 8, co. 1, lett. h), e art.
12, d.lgs. n. 59/2010 nonché l’art. 11, comma 1, lett. e),
del medesimo D.lgs. n. 59 del 2010).
Anche il Manuale curato dalla Commissione europea per
l’attuazione della direttiva servizi (Manuale, p. 15), pur
manifestando la preoccupazione che la pianificazione
urbanistica possa essere utilizzata per eludere le finalità
della direttiva, ribadisce che le norme urbanistiche possono
porre limitazioni all’esercizio dell’attività economica in
alcune zone.
Nell’esaminare il tema dei rapporti tra programmazione della
rete distributiva e pianificazione urbanistica, il Consiglio
di Stato ha affermato che le prescrizioni contenute nei
piani urbanistici, rispondendo all’esigenza di assicurare un
ordinato assetto del territorio, possono porre limiti agli
insediamenti commerciali, dunque alla libertà di iniziativa
economica, non già per considerazioni di politica economica,
ormai estranee al contesto di liberalizzazione di cui il
settore in esame risulta pervaso, bensì nell’esercizio della
funzione cui i suddetti piani sono preordinati, che è quella
di assicurare un ordinato assetto del territorio, con la
conseguenza che, proprio la diversità degli interessi
pubblici tutelati, consente di attribuire prevalenza al
piano urbanistico rispetto a quello commerciale (Cons. St.,
sez. VI, 10.04.2012, n. 2060).
La stessa giurisprudenza amministrativa ha, tuttavia,
precisato che anche gli atti di programmazione territoriale
non vanno esenti dalle verifiche prescritte dalla direttiva
servizi per il solo fatto di essere adottati nell’esercizio
del potere di pianificazione urbanistica, dovendosi
verificare se in concreto essi perseguano finalità di tutela
dell’ambiente urbano o, comunque, riconducibili
all’obiettivo di dare ordine e razionalità all’assetto del
territorio, oppure perseguano la regolazione autoritativa
dell’offerta sul mercato dei servizi attraverso restrizioni
territoriali alla libertà di insediamento delle imprese.
Il legislatore ha stabilito, infatti, che:
a) ricadono nell’ambito delle limitazioni vietate (salvo la
sussistenza di motivi imperativi d’interesse generale) non
solo i piani commerciali che espressamente sanciscono il
contingentamento numerico delle attività economiche, ma
anche gli atti di programmazione che impongano “limiti
territoriali” al loro insediamento (artt. 31, comma 1, e
34, comma 3, del D.L. 201/2011);
b) debbono, perciò, considerarsi abrogate le disposizioni di
pianificazione e programmazione territoriale o temporale
autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente
contenuto economico, che pongano limiti, programmi e
controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non
proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e
che in particolare impediscano, condizionino o ritardino
l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi
operatori economici (art. 1 del D.L. n. 1/2012).
Si è aggiunto che le norme di liberalizzazione impongono al
giudice chiamato a sindacare la legittimità degli atti di
pianificazione urbanistica che dispongono limiti o
restrizioni all'insediamento di nuove attività economiche in
determinati ambiti territoriali, l'obbligo di effettuare un
riscontro molto più penetrante di quello che si riteneva
essere consentito in passato; e ciò per verificare,
attraverso un'analisi degli atti preparatori e delle
concrete circostanze di fatto che a tali atti fanno da
sfondo, se effettivamente i divieti imposti possano
ritenersi correlati e proporzionati a effettive esigenze di
tutela dell'ambiente urbano o afferenti all'ordinato assetto
del territorio sotto il profilo della viabilità, della
necessaria dotazione di standard o di altre opere pubbliche,
dovendosi, in caso contrario, reputare che le limitazioni in
parola non siano riconducibili a motivi imperativi di
interesse generale e siano, perciò, illegittime (ex aliis
TAR Lombardia Milano Sez. I, 15.10.2013, n. 2305, TAR
Lombardia Milano Sez. I, 10.10.2013, n. 2271, le cui
motivazioni sono richiamate da Consiglio di Stato n. 5494
del 2014; in termini anche TAR Abruzzo, L’Aquila, n. 14 del
2016)
5.2.- Tutto ciò premesso osserva peraltro il Collegio che,
comunque si qualifichi l’impugnato atto di pianificazione
delle medie e grandi strutture di vendita (atto di
programmazione economica e di contingentamento all’apertura
di nuove medie o grandi strutture di vendita ovvero atto di
pianificazione territoriale o urbanistica, idoneo, quanto
meno in astratto, a porre restrizioni all’insediamento di
nuovi insediamenti commerciali), il Piano del Commercio del
Comune di Padova non poteva essere approvato dalla Giunta
Comunale.
La funzione di programmazione (atti di programmazione e di
pianificazione) è, infatti, devoluta al Consiglio Comunale
dall’art. 42, comma 2, lett. b), del T.U.E.L., che
attribuisce espressamente all’organo consiliare,
rappresentativo anche delle minoranze, la competenza ad
adottare sia gli atti di programmazione economica che quelli
di pianificazione territoriale o urbanistica (“Il
consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti
fondamentali:… programmi, relazioni previsionali e
programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e
elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e
pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani
territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali
per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da
rendere per dette materie”).
La Giunta non poteva, pertanto, sostituirsi al Consiglio
nell’adozione di un atto di programmazione recante le scelte
strategiche in tema di localizzazione delle medie e grandi
strutture di vendita, considerato che, in base al cit. art.
42, persino le semplice deroghe e i pareri relativi ad atti
di programmazione e di pianificazione sono riservati
all’organo consiliare.
5.3.- L’accoglimento del vizio d’incompetenza determina
l’assorbimento degli ulteriori motivi di ricorso (secondo i
principi enunciati da Cons. St., Ad. Pl. n. 5/2015 e
desumibili dall’art. 34, comma 2, c.p.a.) e comporta
l’illegittimità derivata delle collegate varianti
urbanistiche, impugnate con i motivi aggiunti, nella parte
in cui recepiscono le scelte strategiche in tema di
localizzazione degli esercizi commerciali assunte a monte
dalla Giunta Municipale e “adeguano” lo strumento
urbanistico generale al piano commerciale.
5.4.- Non può ritenersi che le varianti urbanistiche
approvate dal Consiglio abbiano inteso ratificare o
convalidare l’operato della Giunta (ipotesi, peraltro,
neppure prospettata dal Comune), considerato che la
fattispecie scrutinata non rientra nell’ipotesi derogatoria
di cui all’art. 42, comma 4, T.U.E.L. e che dagli atti non
emergono elementi che denotino la consapevolezza del vizio e
la volontà di rimuoverlo (TAR
Veneto, Sez. III,
sentenza 29.12.2016 n. 1423
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il completamento dell’esistente secondo piano
configura in ogni caso una “sopraelevazione”,
con la conseguenza che per detta attività era comunque
necessario il previo rilascio dell’autorizzazione ai
sensi dell’art.
90 d.p.r. n. 380/2001.
A tal riguardo, va evidenziato che ai sensi della citata
disposizione: «1. È consentita, nel rispetto degli
strumenti urbanistici vigenti:
a) la sopraelevazione di un piano negli edifici in muratura, purché
nel complesso la costruzione risponda alle prescrizioni di
cui al presente capo;
b) la sopraelevazione di edifici in cemento armato normale e
precompresso, in acciaio o a pannelli portanti, purché il
complesso della struttura sia conforme alle norme del
presente testo unico.
2. L’autorizzazione è consentita previa certificazione
del competente ufficio tecnico regionale che specifichi il
numero massimo di piani che è possibile realizzare in
sopraelevazione e l’idoneità della struttura esistente a
sopportare il nuovo carico.».
In ogni caso, per quanto l’art.
94 d.p.r. n. 380/2001 limita la necessità del
conseguimento della previa autorizzazione agli
interventi edilizi da realizzare in zone sismiche “ad
eccezione di quelle a bassa sismicità all’uopo indicate nei
decreti di cui all’articolo 83” (e quindi certamente
rientra in detta eccezione il Comune di -OMISSIS- in quanto
territorio classificato a bassa sismicità (ndr:
zona 3), va tuttavia evidenziato che la disposizione di
portata più generale in precedenza analizzata (i.e.
art. 90 d.p.r. n. 380/2001) impone la necessità
in via generale della previa autorizzazione per opere
particolarmente impattanti dal punto di vista della statica
dell’edificio quale la sopraelevazione, senza
specificazione alcuna e quindi a prescindere che l’opera sia
realizzata in un Comune a bassa sismicità ovvero ad
elevato livello di sismicità.
Ne consegue che nel caso di specie la ricorrente avrebbe
dovuto richiedere ed ottenere l’autorizzazione ai
sensi dell’art.
90 d.p.r. n. 380/2001.
---------------
1. - In data 10.12.2015 l’odierna ricorrente -OMISSIS-
presentava DIA (n. 670/15) per la “manutenzione
straordinaria di piccola copertura esistente al secondo
piano dell’immobile di proprietà sito in -OMISSIS- alla via
-OMISSIS- ed ampliamento nel limite del 20% ex c.d. Piano
Casa (L.R. 14/2009)”.
I lavori subivano una sospensione con ordinanza dell’UTC n.
3 del 04.02.2016 al fine di verificare l’eventuale
inosservanza delle norme di legge e di regolamento, delle
prescrizioni degli strumenti urbanistici o delle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi.
La ricorrente provvedeva, inoltre, ad una integrazione
istruttoria ed al pagamento dell’oblazione al fine di
estinguere il procedimento penale nel frattempo attivato.
Con successiva ordinanza n. 4/2016 l’Amministrazione, preso
atto del deposito dei calcoli statici da parte della
-OMISSIS-, revocava la precedente ordinanza di sospensione.
I lavori, pertanto, riprendevano quando, in prossimità della
loro ultimazione, veniva dapprima notificato l’avvio del
procedimento di annullamento in autotutela del titolo
abilitativo, poi conclusosi con l’adozione della gravata
ordinanza n. -OMISSIS- di revoca del titolo abilitativo, e
successivamente ordinata la riduzione in pristino dei luoghi
con la censurata ordinanza n. 11/2017.
La violazione constatata dalla Amministrazione nei censurati
provvedimenti consisteva nella: “… mancanza di conformità
tra la documentazione fotografica allegata relativa allo
stato dei luoghi con la planimetria catastale e l’assenza
della preventiva autorizzazione per opere di sopraelevazione
ai sensi dell’art. 90 del D.P.R. n. 380/2001 e s.m.i., al
piano lastrico solare facente parte dell’immobile sito in
-OMISSIS- via -OMISSIS-, distinto in catasto al fg. 22 p.lla
373 sub 22”.
La -OMISSIS- impugnava le citate ordinanze, deducendo
censure così sinteticamente riassumibili:
1) inesistenza dei presupposti fattuali per l’adozione del
provvedimento; difetto di motivazione e vizio di
presupposizione: l’incongruenza tra la documentazione
fotografica allegata e la planimetria catastale
(incongruenza pur ammessa dalla stessa interessata, non
essendovi stato accatastamento dell’originaria struttura)
non può comportare l’annullamento del titolo, dovendo al più
l’Amministrazione richiedere alla istante in fase
istruttoria di procedere all’accatastamento della struttura
esistente al secondo piano, la cui consistenza e risalenza
non può essere posta in dubbio, essendo attestata anche
dall’atto pubblico di acquisto; inoltre, l’intervento per
cui è causa non sarebbe soggetto ad autorizzazione alla
sopraelevazione ai sensi dell’art. 90 d.p.r. n. 380/2001, in
quanto non si tratterebbe di sopraelevazione, ma di
completamento fisiologico di costruzione preesistente
(secondo piano); in ogni caso, per la mera
sopraelevazione anche in base alla disciplina
regionale di cui alla
DGR
26.07.2016 n. 1166 dettata con
riferimento ai territori a bassa sismicità è
sufficiente il semplice deposito ex art. 93 d.p.r. n.
380/2001, anziché l’autorizzazione di cui all’art. 94
d.p.r. n. 380/2001 non necessaria per i territori a bassa
sismicità come appunto nel caso di -OMISSIS-;
2) eccesso di potere per contraddittorietà tra le ordinanze gravate
ed i precedenti atti e comportamenti tenuti
dall’Amministrazione (ordinanza di revoca della sospensione
n. 4/16 e nota di trasmissione prot. n. 7608 del
16.03.2016): sarebbe contraddittorio l’atteggiamento assunto
dall’Amministrazione; questa, infatti, in precedenza
revocava con il provvedimento n. 4/2016 l’ordinanza di
sospensione dei lavori n. 3/2016; subito dopo la ricorrente
provvedeva al deposito delle calcolazioni ex art. 93 d.p.r.
n. 380/2001; l’Amministrazione comunale avrebbe avuto tutte
le possibilità di verificare la compatibilità del progetto
con la disciplina antisismica ed eventualmente chiedere al
privato di ottenere la supposta necessaria autorizzazione
dal Genio civile (attualmente la Provincia).
La istante invocava, infine, tutela risarcitoria per lesione
dell’affidamento.
...
4. - Ciò premesso in punto di fatto, ritiene questo Giudice
che il ricorso debba essere respinto in quanto infondato.
Invero, il completamento dell’esistente secondo piano
configura in ogni caso una “sopraelevazione”
come correttamente evidenziato nelle censurate ordinanze e
come emerge anche dalla documentazione fotografica in atti,
con la conseguenza che per detta attività era comunque
necessario il previo rilascio dell’autorizzazione ai
sensi dell’art.
90 d.p.r. n. 380/2001.
A tal riguardo, va evidenziato che ai sensi della citata
disposizione: «1. È consentita, nel rispetto degli
strumenti urbanistici vigenti:
a) la sopraelevazione di un piano negli edifici in muratura, purché
nel complesso la costruzione risponda alle prescrizioni di
cui al presente capo;
b) la sopraelevazione di edifici in cemento armato normale e
precompresso, in acciaio o a pannelli portanti, purché il
complesso della struttura sia conforme alle norme del
presente testo unico.
2. L’autorizzazione è consentita previa certificazione
del competente ufficio tecnico regionale che specifichi il
numero massimo di piani che è possibile realizzare in
sopraelevazione e l’idoneità della struttura esistente a
sopportare il nuovo carico.».
In ogni caso, per quanto l’art.
94 d.p.r. n. 380/2001 limita la necessità del
conseguimento della previa autorizzazione agli
interventi edilizi da realizzare in zone sismiche “ad
eccezione di quelle a bassa sismicità all’uopo indicate nei
decreti di cui all’articolo 83” (e quindi certamente
rientra in detta eccezione il Comune di -OMISSIS- in quanto
territorio classificato a bassa sismicità (ndr:
zona 3), va tuttavia evidenziato che la disposizione di
portata più generale in precedenza analizzata (i.e.
art. 90 d.p.r. n. 380/2001) impone la necessità
in via generale della previa autorizzazione per opere
particolarmente impattanti dal punto di vista della statica
dell’edificio quale la sopraelevazione, senza
specificazione alcuna e quindi a prescindere che l’opera sia
realizzata in un Comune a bassa sismicità ovvero ad
elevato livello di sismicità.
Ne consegue che nel caso di specie la ricorrente avrebbe
dovuto richiedere ed ottenere l’autorizzazione ai
sensi dell’art.
90 d.p.r. n. 380/2001 (disposizione correttamente
richiamata nella motivazione dei censurati provvedimenti).
Stante il carattere assorbente della citata ragione ostativa
rispetto alla legittimità dell’opera, ragione di per sé sola
idonea a sorreggere la motivazione dei provvedimenti
impugnati, può quindi prescindersi dalla disamina di quanto
evidenziato dalla istante con il motivo di ricorso sub 2) in
linea con l’insegnamento di cui alla pronunzia dell’Adunanza
Plenaria n. 5/2015 (punto 9.3.4.3 della motivazione).
5. - Dalle argomentazioni espresse in precedenza discende la
reiezione del ricorso.
In ogni caso non può trovare accoglimento la domanda
risarcitoria formulata dalla ricorrente.
Invero, non sussiste alcun legittimo affidamento maturato
dalla -OMISSIS- suscettibile di tutela risarcitoria, posto
che il potere di autotutela è stato legittimamente
esercitato dalla P.A. nella osservanza del termine di 18
mesi prescritto dall’art. 21-nonies, comma 1 legge n.
241/1990 nella formulazione ratione temporis
applicabile alla fattispecie de qua (cfr. legge n. 124/2015)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 08.06.2018 n. 860 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ad eccezione dei soli interventi di semplice
manutenzione
ordinaria, qualsiasi intervento edilizio in zona
sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in
conglomerato cementizio armato, deve essere previamente
denunciato al competente ufficio al fine di consentire i
preventivi controlli; necessita, inoltre, del rilascio del
preventivo titolo abilitativo.
Il relativo
progetto deve essere redatto da un professionista abilitato
ed allegato alla
denuncia di esecuzione dei lavori; questi ultimi devono
essere parimenti diretti
da un professionista abilitato, conseguendone, in difetto,
la violazione del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 95 e ciascuna
violazione, risolvendosi
nell'inosservanza di specifiche prescrizioni, costituisce un
titolo autonomo di
reato.
Ne consegue che l'intervento edilizio realizzato
dall'imputato rientra,
dunque, nella nozione di costruzione assoggettata agli
obblighi di cui ai citati
artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001, non trattandosi di intervento
di semplice
manutenzione ordinaria, ma della realizzazione di due
manufatti in cemento di
apprezzabile consistenza (ndr:
due piattaforme in
cemento, una del perimetro di m. 2x3 e dell'altezza di
m. 5x0,2, su cui è stato posizionato un gruppo refrigerante,
e l'altra del perimetro di m. 1,2x1,6, destinata al
posizionamento di insegne), come tali rientranti nella nozione
di costruzione,
soggetti agli obblighi richiamati, in considerazione della
loro potenziale idoneità a
porre in pericolo la pubblica incolumità.
---------------
Il reato previsto dall'art. 95
del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380 è configurabile in relazione a qualsiasi opera,
eseguita in assenza della
prescritta autorizzazione antisismica, in grado di esporre a
pericolo la pubblica
incolumità, senza che le Regioni possano adottare in via
amministrativa deroghe
per particolari categorie di interventi.
Ne consegue l'infondatezza della doglianza, stante l'assenza
di rilievo della
suddetta delibera della Giunta regionale della Calabria, in
considerazione della
entità delle opere, tali, per la loro estensione e la loro
dimensione, da costituire
un possibile pericolo per la pubblica incolumità in caso di
eventi sismici.
---------------
Come già evidenziato in relazione al secondo
motivo, la
delibera della Giunta regionale
della Calabria n. 330
del 22/07/2011
tale delibera
non poteva, comunque, creare ex novo la categoria delle
"opere minori" che non
sarebbero soggette alla disciplina antisismica, in aperta
violazione del disposto
del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 83, il quale prevede che
tutte le costruzioni la cui
sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità
sono soggette alla
normativa antisismica, senza consentire alle Regioni di
adottare in via
amministrativa deroghe per particolari categorie di opere.
L'affidamento su essa riposto dal ricorrente non
consente, dunque, di escludere la negligenza del ricorrente
nella verifica della
necessità delle comunicazioni ed autorizzazioni richieste
dagli artt. 93 e 94 d.P.R.
380/2001, trattandosi di delibera illegittima, inidonea ad
escludere l'applicabilità
di norme di rango primario, considerando, tra l'altro, le
dimensioni e l'estensione
delle due piattaforme in cemento fatte realizzare
dall'imputato, come tali
certamente non riconducibili alla categoria delle opere
minori, sottratte alle leggi
nazionali e regionali in materia antisismica, con la
conseguenza che essere
esclusa l'incolpevolezza della condotta dell'imputato.
---------------
2. Per quanto riguarda il primo motivo, mediante il
quale sono stati
denunciati violazione dell'art. 93 d.P.R. 380/2001 e vizio
della motivazione, sulla
base del rilievo che le opere fatte realizzare dall'imputato
sarebbero escluse
dall'obbligo di comunicazione stabilito dall'art. 93 d.P.R.
380/2001, che lo
contempla esclusivamente in relazione a costruzioni,
riparazioni e
sopraelevazioni, va evidenziato che le opere oggetto della
contestazione,
realizzate in zona sottoposta a vincolo sismico, consistono
in due piattaforme in
cemento, una del perimetro di m. 2x3 e dell'altezza di m.
5x0,2, su cui è stato
posizionato un gruppo refrigerante, e l'altra del perimetro
di m. 1,2x1,6,
destinata al posizionamento di insegne, e da tre strutture
metalliche, con
copertura in plexiglass, destinate a deposito dei carrelli
per la spesa.
Alla luce di tale consistenza delle opere oggetto della
contestazione il
Tribunale, dato atto del rilascio della sanatoria e della
conseguente estinzione
della violazione dell'art. 44 d.P.R. 380/2001, ha escluso
che in relazione alle tre
strutture metalliche con copertura in plexiglass fosse
configurabile la violazione
degli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001, essendo asservite
all'edificio principale e
qualificabili, quindi, come pertinenze, mentre ne ha
ravvisato la configurabilità in
relazione alle due piattaforme in cemento, sottolineando che
le contravvenzioni
di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001 sono integrate
dalla realizzazione di
qualsiasi intervento edilizio, con la sola eccezione di
quelli di semplice
manutenzione ordinaria.
2.1. Dette conclusioni risultano del tutto corrette e
sfuggono, di
conseguenza, ai rilievi di violazione di legge e vizio di
motivazione formulati dal
ricorrente.
L'art. 93 d.P.R. n. 380 del 2001 prescrive, tra l'altro, che
nelle zone
sismiche, di cui all'art. 83 d.P.R. n. 380 del 2001,
chiunque intenda procedere a
costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne
preavviso scritto allo
sportello unico, che provvede a trasmettere al competente
ufficio tecnico della
regione copia della domanda e del progetto che ad esso deve
essere allegato
(comma 2).
L'art. 94 del medesimo d.P.R. n. 380 del 2001 prescrive poi
che nelle località
sismiche non si possono iniziare lavori senza la preventiva
autorizzazione scritta
del competente ufficio tecnico della regione. Il quarto
comma della medesima
disposizione dispone infine che i lavori devono essere
diretti da un ingegnere, un
architetto, un geometra o un perito edile iscritto
nell'albo, nei limiti delle
rispettive competenze.
Ne deriva che, ad eccezione dei soli interventi di semplice
manutenzione
ordinaria, qualsiasi intervento edilizio in zona sismica,
comportante o meno
l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato,
deve essere
previamente denunciato al competente ufficio al fine di
consentire i preventivi
controlli; necessita, inoltre, del rilascio del preventivo
titolo abilitativo; il relativo
progetto deve essere redatto da un professionista abilitato
ed allegato alla
denuncia di esecuzione dei lavori; questi ultimi devono
essere parimenti diretti
da un professionista abilitato, conseguendone, in difetto,
la violazione del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 95 (cfr., Sez. 3, n. 19185 del
14/01/2015, Garofano, Rv. 263376; Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi, Rv.
261155; Sez. 3, n.
34604 del 17/06/2010, Todaro, Rv. 248330) e ciascuna
violazione, risolvendosi
nell'inosservanza di specifiche prescrizioni, costituisce un
titolo autonomo di
reato.
Ne consegue che l'intervento edilizio realizzato
dall'imputato rientra,
dunque, nella nozione di costruzione assoggettata agli
obblighi di cui ai citati
artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001, non trattandosi di intervento
di semplice
manutenzione ordinaria, ma della realizzazione di due
manufatti in cemento di
apprezzabile consistenza, come tali rientranti nella nozione
di costruzione,
soggetti agli obblighi richiamati, in considerazione della
loro potenziale idoneità a
porre in pericolo la pubblica incolumità.
3. Per quanto riguarda il
secondo motivo, mediante è stata
denunciata
l'erronea applicazione della
delibera della Giunta regionale
della Calabria n. 330
del 22/07/2011, che ha individuato gli interventi edilizi per
i quali è disposta
l'esenzione da qualsiasi comunicazione al comune ed anche
dalla preventiva
autorizzazione scritta regionale, interventi tra i quali
dovrebbe ritenersi
compreso anche quello oggetto della contestazione,
rientrante tra le opere
minori di cui all'allegato A di tale delibera, va osservato
che questa Corte ha già
avuto modo di affrontare la questione della portata di tale
delibera,
escludendone la rilevanza, sulla base della considerazione,
che il Collegio
condivide e ribadisce, che il reato previsto dall'art. 95
del d.P.R. 06.06.2001,
n. 380 è configurabile in relazione a qualsiasi opera,
eseguita in assenza della
prescritta autorizzazione antisismica, in grado di esporre a
pericolo la pubblica
incolumità, senza che le Regioni possano adottare in via
amministrativa deroghe
per particolari categorie di interventi (Sez. 3, n. 19185
del 14/01/2015,
Garofano, Rv. 263376, relativa alla realizzazione di opere
di sostegno di
cartellonistica pubblicitaria di rilevanti dimensioni, illegittimamente qualificate da
delibera della regione Calabria come "opere minori"
sottratte alle leggi nazionali
e regionali in materia di edilizia sismica).
Ne consegue l'infondatezza della doglianza, stante l'assenza
di rilievo della
suddetta delibera della Giunta regionale della Calabria, in
considerazione della
entità delle opere, tali, per la loro estensione e la loro
dimensione, da costituire
un possibile pericolo per la pubblica incolumità in caso di
eventi sismici.
4. Tali considerazioni determinato l'infondatezza anche del
terzo motivo,
mediante il quale è stata prospettata violazione di legge
penale in ordine alla
sussistenza dell'elemento soggettivo dei reati e vizio di
motivazione, per
l'omessa o, comunque, insufficiente considerazione
dell'affidamento riposto dal
ricorrente sulla predetta delibera della Giunta regionale,
nonché sulla relazione
tecnica commissionata ad un esperto in vista della
realizzazione delle medesime
opere, perché, come già evidenziato in relazione al secondo
motivo,
tale delibera
non poteva, comunque, creare ex novo la categoria delle
"opere minori" che non
sarebbero soggette alla disciplina antisismica, in aperta
violazione del disposto
del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 83, il quale prevede che
tutte le costruzioni la cui
sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità
sono soggette alla
normativa antisismica, senza consentire alle Regioni di
adottare in via
amministrativa deroghe per particolari categorie di opere.
L'affidamento su essa riposto dal ricorrente, come pure
sulla suddetta
relazione tecnica commissionata in vista della realizzazione
di tali opere, non
consente, dunque, di escludere la negligenza del ricorrente
nella verifica della
necessità delle comunicazioni ed autorizzazioni richieste
dagli artt. 93 e 94 d.P.R.
380/2001, trattandosi di delibera illegittima, inidonea ad
escludere l'applicabilità
di norme di rango primario, considerando, tra l'altro, le
dimensioni e l'estensione
delle due piattaforme in cemento fatte realizzare
dall'imputato, come tali
certamente non riconducibili alla categoria delle opere
minori, sottratte alle leggi
nazionali e regionali in materia antisismica, con la
conseguenza che essere
esclusa l'incolpevolezza della condotta dell'imputato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.12.2016 n. 51683). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
deliberazione della Giunta regionale
della Calabria n. 330
del 22/07/2011
(Approvazione elenco opere dichiarate «minori».
Indirizzi interpretativi in materia di sopraelevazione di
edifici esistenti), per la
parte che qui rileva, deve essere ritenuta illegittima,
perché crea ex novo la categoria delle "opere
minori" che non sarebbero soggette alla disciplina
antisismica, in aperta violazione del disposto dell'art. 83
del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale prevede che tutte le
costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la
pubblica incolumità sono soggette alla normativa
antisismica, senza consentire alle Regioni di adottare in
via amministrativa deroghe per particolari categorie di
opere.
E l'illegittimità della deliberazione regionale
emerge dalla sua stessa formulazione laterale, laddove nel
preambolo si riconosce espressamente che «le norme
legislative nonché quelle tecniche in vigore non dettano,
espressamente, alcuna particolare limitazione o esclusione
delle opere da assoggettare alle discipline di cui sopra».
---------------
3. - Il ricorso non è fondato.
3.1. — Le articolate argomentazioni poste dal ricorrente a
sostegno del primo motivo di doglianza si scontrano con il
consolidato orientamento di questa Corte secondo
cui la
sistemazione di un'insegna o tabella pubblicitaria richiede
il rilascio del preventivo permesso di costruire quando per
le sue rilevanti dimensioni comporti mutamento territoriale;
atteso che soltanto un sostanziale mutamento del territorio
nel suo contesto preesistente, sia sotto il profilo
urbanistico che edilizio, fa assumere rilevanza penale alla
violazione del regolamento edilizio, con conseguente
integrazione del reato di cui all'art. 44, comma 1, lettera
b), del d.P.R. n. 380 del 2001 (sez. 3, 15.01.2004, n. 5328, rv. 227402; sez. 4, 18.01.2007, n. 6382, rv. 236104; sez. 3,
22.10.2010, n. 43249, rv. 248724).
Deve osservarsi, in particolare, che non vi è rapporto di
specialità tra la disciplina sanzionatoria penale dettata in
materia urbanistica e antisismica dal d.P.R. n. 380 del 2001
e quella, amministrativa pecuniaria, dettata dal decreto
legislativo n. 507 del 1993, in materia di imposta comunale
sulla pubblicità e pubbliche affissioni, in quanto si tratta
di sanzioni poste a tutela di interessi giuridici diversi,
presidiando la prima la pubblica incolumità e l'altra il
controllo sulle pubbliche affissioni, in relazione al loro
contenuto, alla loro natura commerciale, all'applicazione
dell'imposta sulla pubblicità.
Né a tale ricostruzione vale
obiettare, come fa il ricorrente, che l'art. 168 del d.lgs.
n. 42 del 2004 richiama, per l'apposizione di cartelli con
mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni poste a
tutela del paesaggio, le stesse sanzioni amministrative
previste dal codice della strada, perché la tutela del
paesaggio rappresenta un interesse diverso e ulteriore
rispetto al corretto assetto del territorio e, soprattutto,
alla tutela dell'incolumità pubblica nelle zone sismiche (ex
plurimis, Cass., sez. 3, 22.10.2010, n. 43249, rv.
248724; sez. 3, 10.04.2013, n. 39796, rv. 257677).
E tale giurisprudenza ha ampiamente superato il contrario
orientamento isolatamente espresso dalla sentenza sez. 3,
03.05.2006, n. 323, richiamata dalla difesa.
Né può valere ad escludere la sussistenza del reato il
riferimento alla
deliberazione della Giunta regionale
della Calabria n. 330
del 22/07/2011
(Approvazione elenco opere dichiarate «minori».
Indirizzi interpretativi in materia di sopraelevazione di
edifici esistenti).
Si tratta infatti, a ben vedere,
di una delibera che, per la
parte che qui rileva, deve essere ritenuta illegittima,
perché crea ex novo la categoria delle "opere
minori" che non sarebbero soggette alla disciplina
antisismica, in aperta violazione del disposto dell'art. 83
del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale prevede che tutte le
costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la
pubblica incolumità sono soggette alla normativa
antisismica, senza consentire alle Regioni di adottare in
via amministrativa deroghe per particolari categorie di
opere. E l'illegittimità della deliberazione regionale
emerge dalla sua stessa formulazione laterale, laddove nel
preambolo si riconosce espressamente che «le norme
legislative nonché quelle tecniche in vigore non dettano,
espressamente, alcuna particolare limitazione o esclusione
delle opere da assoggettare alle discipline di cui sopra».
Anche a prescindere dalle considerazioni appena svolte, deve
in ogni caso rilevarsi che tale deliberazione
—contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente—
non opera
una liberalizzazione generalizzata dell'istallazione di
strutture di sostegno per pannelli pubblicitari.
Non vi è dubbio che l'art. 2 del provvedimento stabilisca
che le opere minori individuate nell'allegato A sono
esentate dalla trasmissione del progetto presso gli uffici
regionali al fine dell'ottenimento dell'autorizzazione ai
sensi delle leggi nazionali e regionali in materia edilizia
sismica, e che in tale allegato siano comprese le «strutture
di sostegno per dispositivi di illuminazione, segnaletica
stradale, pannelli pubblicitari, insegne e simili, isolate e
non ancorati agli edifici, e qualora ancorati agli edifici,
aventi un peso complessivo uguale o inferiore a 1 KN
[...]» (punto 17 dell'allegato A).
Nondimeno, tale esenzione risulta sottoposta a due
condizioni. La prima, prevista dal successivo art. 3, è che
«la rispondenza della progettazione e della realizzazione
delle opere di che trattasi alle norme tecniche in vigore
dovrà essere certificata presso l'Ufficio tecnico del Comune
interessato, da un tecnico abilitato che dovrà dichiarare,
altresì che le stesse sono quelle riportate nel citato
elenco A». La seconda è fissata dal richiamato punto
17 dell'allegato A, il quale prevede che siano
escluse dall'assoggettabilità alle procedure previste in
materia edilizia sismica le strutture di sostegno, anche per
pannelli pubblicitari, alla condizione che esse siano dotate
di certificato e/o brevetto ministeriale.
Ne consegue che, anche a prescindere dalla già rilevata
illegittimità della deliberazione, la stessa non può avere
in nessun caso l'effetto di depenalizzare la condotta del
ricorrente, perché la realizzazione di sostegni per pannelli
pubblicitari non è libera, ma sottoposta ai regimi di
certificazione sopra richiamati. E del resto nel caso di
specie il ricorrente non ha neanche prospettato che il
sostegno da lui realizzato fosse dotato di certificazione ai
sensi dell'art. 3 e di certificato e/o brevetto ministeriale
ai sensi dell'art. 17 dell'allegato A alla richiamata
deliberazione regionale del 22.07.2011.
In relazione, infine, alle dimensioni del manufatto, va
osservato che le stesse sono molto significative,
trattandosi di un sostegno di 60 cm di diametro e di
un'altezza all'incirca corrispondente a quella di un
edificio di due piani; con la conseguenza che le
considerazioni svolte dalla difesa circa l'esclusione dei
manufatti di piccole dimensioni dall'ambito di applicazione
della disciplina antisismica risultano comunque irrilevanti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.05.2015 n. 19185). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Falso ideologico al tecnico del Comune che rilascia
un’autorizzazione paesaggistica illecita.
Integra il
reato previsto dall'art. 479 cod. pen.
- "Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in
atti pubblici" (ma i termini del
problema non cambiano in caso di sussistenza del reato di
cui all'art. 480
- "Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in
certificati o in autorizzazioni amministrative") il rilascio di autorizzazione
paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio
tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di
quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei
presupposti giuridico-fattuali per raccoglimento della
relativa domanda.
L'autorizzazione paesaggistica ha natura
di atto pubblico -comprovando l'attività di esame e
valutazione da parte dell'organo tecnico dei documenti
prodotti dal richiedente e producendo un effetto ampliativo
della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario- il cui
rilascio impone in capo all'organo competente l'obbligo
giuridico di svolgere in qualunque modo, e non
necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive
verifiche in merito alla sussistenza delle relative
condizioni.
Si tratta di insegnamento che affonda le radici nella
nota sentenza Sezz. U. 02.02.1995 n. 1827 che affermò il principio, mai più posto in
discussione, secondo il quale anche
nell'atto dispositivo -che consiste in una manifestazione di
volontà e non nella rappresentazione o descrizione di un
fatto- è configurabile la falsità ideologica in relazione
alla parte "descrittiva" in esso contenuta e, più
precisamente, in relazione all'attestazione, non conforme a
verità, dell'esistenza di una data situazione di fatto
costituente il presupposto indispensabile per il compimento
dell'atto, a nulla rilevando che tale attestazione non
risulti esplicitamente dal suo tenore formale, poiché,
quando una determinata attività del pubblico ufficiale, non
menzionata nell'atto, costituisce indefettibile presupposto
di fatto o condizione normativa dell'attestazione, deve
logicamente farsi riferimento al contenuto o tenore
implicito necessario dell'atto stesso, con la conseguente
irrilevanza dell'omessa menzione (talora scaltramente
preordinata) ai fini della sussistenza della falsità
ideologica.
I provvedimenti amministrativi emessi
all'esito di una valutazione discrezionale di tipo tecnico
non si sottraggono a tale principio.
Se il pubblico ufficiale chiamato ad esprimere un giudizio è
libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua
attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il
documento che lo rappresenta non è destinato a provare la
verità di alcun fatto.
Diversamente, se l'atto da compiere fa riferimento implicito
a previsioni normative, che dettano criteri di valutazione,
si è in presenza di quella che, in sede amministrativa, si
denomina discrezionalità tecnica, la quale vincola la
valutazione ad una verifica. In tal caso il pubblico
ufficiale esprime pur sempre un giudizio, ma l'atto potrà
essere obiettivamente falso se il giudizio di conformità,
non sarà rispondente ai parametri cui il giudizio stesso è
implicitamente vincolato.
---------------
2. Il ricorso è inammissibile perché manifestamente
infondato.
3.1 primi due motivi, comuni per l'oggetto, possono
essere esaminati congiuntamente.
3.1. L'imputato risponde «del reato di cui agli artt.
110, 479, cod. pen., per aver concorso, con la proprietaria
committente (Ad.Li.Co.), nell'illecito rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica predisponendo e
presentando, la proprietaria, la relazione paesaggistica
nella quale, nonostante l'illecito asservimento prevedesse
la realizzazione sul sito di volumetrie non consentite (in
particolare la zona qualificata E3 - verde agricolo fascia
costiera - con indice di fabbricabilità mc/mq 0,01 avrebbe
potuto esprimere una volumetria di circa mc. 45,32, mentre
veniva progettata una costruzione avente una volumetria di
mc. 352,52, utilizzando illecitamente volumetrie di fondi
distanti e con caratteristiche E2 ed indice di
fabbricabilità mc/mq 0,03), si affermava falsamente la
compatibilità ambientale dell'intervento e che lo stesso
valorizzava l'assetto del sito, sul quale veniva prevista
invece una densità di costruzione non consentita, con
conseguente pregiudizio ambientale, costituendo così gli
indispensabili falsi presupposti che consentivano al Re.,
come tecnico comunale, l'emissione dell'autorizzazione
paesaggistica, presupposto necessario per il rilascio del
permesso di costruire, fondata su tali qualificazioni nella
consapevolezza della loro falsità».
Il fatto è contestato come commesso in Morciano di Leuca il
14/12/2009.
3.2. La Corte di appello ha diversamente rubricato il fatto
qualificandolo ai sensi dell'art. 480, cod. pen.. Non rileva
in questa sede la diversa qualificazione del fatto (della
quale si giova l'imputato) derivante dalla ritenuta
diversità dell'oggetto della condotta (un'autorizzazione
piuttosto che un atto pubblico), perché ciò non muta i
termini del problema.
3.3. Secondo la ricostruzione della vicenda, così come
concordemente operata dai Giudici di merito senza
contestazioni del ricorrente, risulta quanto segue:
3.3.1. il 27/10/2009, la sig.ra Ad.Li.Co. aveva chiesto al Comune
di Morciano il rilascio del permesso di costruire per
realizzare una civile abitazione stagionale estesa 119 mq.
(oltre porticato) che sviluppava una volumetria di 352,52 mc.;
3.3.2. l'area di sedime era situata in zona classificata dal
Programma di Fabbricazione vigente come "E3 - verde
agricolo fascia costiera" (art. 18 delle relative NTA),
che prevedeva un indice di fabbricabilità fondiaria pari a
0,01 mc/mq, in base al quale avrebbe potuto essere
sviluppata una volumetria di soli 45,32 mc.;
3.3.3. la realizzazione dell'ulteriore volumetria era stata
progettualmente prevista mediante l'accorpamento di terreni
situati altrove, in zona classificata dal PdF come "E2 -
verde agricolo", che prevedeva un indice di
fabbricabilità pari a 0,03, mc/mq (art. 17 delle relative
NTA);
3.3.4. secondo quanto previsto dal PdF e dalla legge regionale
Puglia n. 56 del 1980, come costantemente interpretata dalla
giurisprudenza di legittimità e amministrativa,
l'accorpamento dei fondi era consentito solo
all'imprenditore agricolo e solo ove fosse compatibile con
la effettiva vocazione agricola dell'intervento;
3.3.5. nel fascicolo relativo alla richiesta di permesso di
costruire erano stati rinvenuti unicamente un certificato di
iscrizione alla camera di commercio della Colella come
imprenditore agricolo ed un certificato di attribuzione
della partita IVA per lo svolgimento dell'attività di "coltivazione
di frutti oleosi", ma nessun documento che correlasse
l'intervento edilizio all'attività agricola;
3.3.6. l'area oggetto di intervento era stata inserita dal P.U.T.T.
della Regione Puglia, nell'ambito territoriale esteso "C",
soggetto a particolare regime di tutela che richiedeva il
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica;
3.3.7. il 14/12/2009 era stata rilasciata l'autorizzazione
paesaggistica nella quale si affermava che: «l'intervento
previsto si ritiene conforme allo strumento urbanistico -
PdF vigente, in quanto rispetta gli indici plano volumetrici
prescritti nelle zone agricole (...) non incide in maniera
sconvolgente sull'aspetto architettonico e paesaggistico dei
luoghi (...) facendo salvi tipologia, volumi e standards
urbanistici previsti dal vigente PdF (...) l'intervento
risulta conforme al PUTT, così come riportato nella
relazione paesaggistica allegata al progetto (...) accertata
la conformità urbanistica dell'intervento allo strumento
urbanistico vigente, nonché al PUTT ed alla normativa in
materia».
3.4. Secondo i Giudici di merito, l'autorizzazione non
avrebbe potuto essere rilasciata ostandovi i seguenti
presupposti di fatto, ben noti all'imputato:
a) il progetto
prevedeva la realizzazione di una "casa di civile
abitazione in campagna";
b) l'intervento edilizio non
era funzionale alla conduzione di un'impresa agricola
inesistente;
c) i lotti da accorpare non erano confinanti,
né contigui;
d) gli indici di utilizzazione fondiaria non
erano omogenei, non essendo consentito utilizzare i maggiori
indici di utilizzazione fondiaria di un fondo per
incrementare quelli ben minori dell'area di sedime.
3.5. Di qui l'affermazione della falsità dell'autorizzazione
paesaggistica nella parte in cui ha dato per esistenti i
presupposti per il suo rilascio.
4. E' necessario premettere che, come anticipato, il
ricorrente non contesta le basi fattuali del ragionamento
dei Giudici di merito. Sin dall'appello, infatti, si era
limitato a contestare la configurabilità giuridica del reato
di falso ideologico e a dedurre la mancanza dell'elemento
soggettivo.
4.1. La tesi difensiva della insussistenza del reato è
totalmente infondata alla luce del costante insegnamento di
questa Corte secondo il quale integra il
reato previsto dall'art. 479 cod. pen. (ma i termini del
problema non cambiano in caso di sussistenza del reato di
cui all'art. 480) il rilascio di autorizzazione
paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio
tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di
quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei
presupposti giuridico-fattuali per raccoglimento della
relativa domanda. L'autorizzazione paesaggistica ha natura
di atto pubblico -comprovando l'attività di esame e
valutazione da parte dell'organo tecnico dei documenti
prodotti dal richiedente e producendo un effetto ampliativo
della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario- il cui
rilascio impone in capo all'organo competente l'obbligo
giuridico di svolgere in qualunque modo, e non
necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive
verifiche in merito alla sussistenza delle relative
condizioni (Sez.
3, n. 42064 del 30/06/2016, Quaranta, Rv. 268083).
4.2. Lo stesso principio, peraltro, è già stato affermato
con sentenza Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, Rv.
267953, che ha definito altro processo a carico dell'odierno
imputato, reo di aver rilasciato un'autorizzazione
paesaggistica falsa nei suoi presupposti.
4.3. Si tratta di insegnamento che affonda le radici nella
nota sentenza Sez. U, n. 1827 del 02/02/1995, Proietti, Rv.
200117, che affermò il principio, mai più posto in
discussione, secondo il quale anche
nell'atto dispositivo -che consiste in una manifestazione di
volontà e non nella rappresentazione o descrizione di un
fatto- è configurabile la falsità ideologica in relazione
alla parte "descrittiva" in esso contenuta e, più
precisamente, in relazione all'attestazione, non conforme a
verità, dell'esistenza di una data situazione di fatto
costituente il presupposto indispensabile per il compimento
dell'atto, a nulla rilevando che tale attestazione non
risulti esplicitamente dal suo tenore formale, poiché,
quando una determinata attività del pubblico ufficiale, non
menzionata nell'atto, costituisce indefettibile presupposto
di fatto o condizione normativa dell'attestazione, deve
logicamente farsi riferimento al contenuto o tenore
implicito necessario dell'atto stesso, con la conseguente
irrilevanza dell'omessa menzione (talora scaltramente
preordinata) ai fini della sussistenza della falsità
ideologica.
4.4. I provvedimenti amministrativi emessi
all'esito di una valutazione discrezionale di tipo tecnico
non si sottraggono a tale principio.
Se il pubblico ufficiale chiamato ad esprimere un giudizio è
libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua
attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il
documento che lo rappresenta non è destinato a provare la
verità di alcun fatto.
Diversamente, se l'atto da compiere fa riferimento implicito
a previsioni normative, che dettano criteri di valutazione,
si è in presenza di quella che, in sede amministrativa, si
denomina discrezionalità tecnica, la quale vincola la
valutazione ad una verifica. In tal caso il pubblico
ufficiale esprime pur sempre un giudizio, ma l'atto potrà
essere obiettivamente falso se il giudizio di conformità,
non sarà rispondente ai parametri cui il giudizio stesso è
implicitamente vincolato
(Sez. 5, n. 14283 del 17/11/1999, Pinto, Rv. 216123; Sez. 2,
n. 1417 del 11/10/2012, Platamone, Rv. 254305; Sez. F, n.
39843 del 04/08/2015, Di Napoli, Rv. 264364, che ha ribadito
la sussistenza del reato in caso di omessa indicazione, in
provvedimenti urbanistici di tipo abilitativo, da parte di
funzionari e dirigenti comunali, della reale consistenza
delle opere, della loro incidenza sulla realtà territoriale
e della normativa correttamente applicabile nel caso
concreto).
4.5. La tesi del cd. "falso indotto" è radicalmente
priva di fondamento fattuale prima ancora che giuridico
poiché mai è stata messa in discussione la conformità a vero
dei fatti rappresentati negli elaborati progettuali a
corredo della richiesta di autorizzazione, tant'è che il
Tribunale ha potuto agevolmente ricostruire la vicenda
esaminando proprio gli atti prodotti dalla proprietaria/
committente.
E dunque il ricorrente/pubblico ufficiale aveva ben presenti
i presupposti fattuali della condotta amministrativa e tutte
le informazioni necessarie a esprimere un giudizio tecnico
consapevole e coerente con i fatti documenti, senza
necessità di sopralluoghi.
Torna utile ricordare che, come detto, lo stesso ricorrente
non ha mai messo in discussione la ricostruzione dei fatti
operata dai giudici di merito secondo i quali la violazione
delle norme e degli strumenti urbanistici era talmente
eclatante da non poter passare inosservata ad un pubblico
ufficiale esperto come l'odierno ricorrente.
4.6. I primi due motivi sono dunque manifestamente
infondati (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.05.2018 n. 18890). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Beni ambientali. Richiesta di autorizzazione paesaggistica e
false attestazioni del richiedente circa la sussistenza
delle condizioni per l'accoglimento.
Integra il reato previsto dall'art.
479
cod. pen. il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da
parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente,
nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal
richiedente circa la sussistenza dei presupposti
giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa
domanda.
(In motivazione, la S.C. ha precisato che l'autorizzazione
paesaggistica ha natura di atto pubblico -comprovando
l'attività di esame e valutazione da parte dell'organo
tecnico dei documenti prodotti dal richiedente e producendo
un effetto ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del
proprietario- il cui rilascio impone in capo all'organo
competente l'obbligo giuridico di svolgere in qualunque
modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le
necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza
delle relative condizioni)
(massima tratta da www.lexambiente.it).
---------------
5.5. Venendo al ricorso presentato da Re., con il primo
motivo egli deduce, innanzitutto, profili di censura
sostanzialmente già formulati dagli altri due imputati,
sicché gli stessi debbono essere rigettati sulla scorta
delle argomentazioni già svolte.
Ciò vale, in primo luogo, per l'evidente falsità della
documentazione allegata alla D.I.A., attestante la
preesistenza dell'immobile oggetto dell'intervento edilizio,
rispetto alla quale i Giudici di secondo grado non avrebbero
replicato alle osservazioni del consulente di parte, Arch.
El., circa l'esistenza, in quella zona, di altri antichi
manufatti simili a quello in contestazione, composti anche
da conci squadrati, con la conseguenza che Re. non avrebbe
avuto motivo di nutrire sospetti in merito alla autenticità
dell'immobile oggetto della D.I.A.. Sul punto, appare dunque
opportuno rinviare, per ragioni di economia espositiva, alle
osservazioni già svolte al paragrafo 5.1.
Una volta affermata la correttezza della lettura processuale
compiuta dai giudici di merito sia in relazione
all'affermata falsità della rappresentazione documentale
allegata alla D.I.A., sia in relazione alla percepiblità
ictu oculi (ovvero sulla base dei meri rilievi
fotografici) della stessa, in specie per un soggetto
tecnicamente attrezzato ed esperto come Re. (tanto più ove
si consideri che, come osservato da Ba. in sede di ricorso,
la richiesta di intervento conservativo su una "muratura
perimetrale" priva di copertura solare, sarebbe stata
comunque destinata all'immediato "diniego"), deve poi
rilevarsi come sia esente da censure, sul piano
logico-giuridico, l'ulteriore passaggio motivazionale con
cui le due sentenze di primo e secondo grado hanno
ricondotto al delitto di cui all'art. 479 cod. pen. il
rilascio dell'autorizzazione paesaggistica n. 2/09 da parte
di un soggetto che, per le ragioni già esposte, era
consapevole della falsità di quanto attestato negli atti a
corredo della D.I.A..
Sul punto, Re. ha dedotto di non aver compiuto, con
l'autorizzazione paesaggistica, alcuna attestazione in
ordine all'epoca dell'immobile né alla sua fattura,
essendosi limitato a prendere atto del contenuto della
relazione tecnica e della allegata documentazione prodotta
dal richiedente ed asseverata da un professionista, così
come previsto dalla legislazione in materia edilizia.
Tali
atti, del resto, avrebbero pacificamente natura certificativa in ordine alla descrizione dello stato attuale
dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli
esistenti sull'area o sull'immobile interessati
dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si
intende realizzare e all'attestazione della loro conformità
agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio;
sicché, a fronte della relativa attestazione, il potere
dell'amministrazione si sostanzierebbe nel verificare la
corrispondenza di quanto dichiarato dall'interessato
rispetto ai canoni normativi stabiliti per l'attività in
questione.
Le argomentazioni difensive testé riassunte sono, tuttavia,
prive di pregio.
Come osservato, in passato, da questa Corte in una ipotesi
del tutto identica contestata all'odierno imputato,
l'autorizzazione paesaggistica, rilasciata da Gi.Re.,
aveva certamente la natura di atto pubblico, "comprovando
l'attività di esame dei documenti prodotti dal richiedente
svolta dal dirigente dell'Ufficio tecnico, esprimendo la sua
valutazione tecnica e producendo il consistente effetto
ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del
proprietario a costruire il manufatto, senza attivare la
procedura per ottenere il permesso a costruire"
(così,
in motivazione, Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, non massimata);
ciò che pertanto consente pacificamente di
escludere l'applicabilità della meno grave ipotesi di cui
all'art. 480 cod. pen..
In secondo luogo, i giudici di merito hanno puntualmente
chiarito che, avendo attestato la sussistenza delle
condizioni per il rilascio dell'autorizzazione, Re.
implicitamente asseverò l'esistenza dei presupposti di
fatto, della cui insussistenza, per le ragioni già chiarite,
egli era, tuttavia, pienamente consapevole.
In altri termini,
il rilascio del titolo abilitativo
rilevante sul piano paesaggistico presupponeva, in ogni
caso, un preventivo vaglio della sussistenza delle relative
condizioni, giuridiche e di fatto; sicché la dolosa
affermazione della sussistenza di presupposti che Re. era
perfettamente consapevole non esistessero integra, come
correttamente ritenuto dalla sentenza impugnata, il delitto
contestato.
Sotto altro profilo, del tutto inconferente è l'ulteriore
deduzione secondo cui il ricorrente non avrebbe avuto alcun
obbligo di effettuare preventive verifiche circa la
conformità della rappresentazione dello stato di fatto alla
reale situazione dei luoghi e in ordine alla preesistenza
del fabbricato.
E', infatti, evidente, proprio alla luce
delle menzionate caratteristiche dell'autorizzazione
paesaggistica, che in capo all'organo competente incomba,
diversamente da quanto opinato dal ricorrente, un vero e
proprio obbligo giuridico di accertare la sussistenza delle
condizioni giuridico-fattuale per l'accoglimento della
richiesta; obbligo che, ovviamente, può essere assolto in
qualunque forma, e dunque non necessariamente con un
sopralluogo, che in ogni caso Re. avrebbe potuto svolgere
nell'esercizio dei poteri di ufficio. E dalla circostanza
che egli non abbia ritenuto di svolgere alcuna verifica, i
giudici hanno coerentemente tratto ulteriori conferme del
fatto che egli fosse partecipe della complessiva operazione
illecita.
Per quanto, infine, concerne le censure mosse con
riferimento al dolo dell'abuso di ufficio, deve ribadirsi
che i giudici di merito hanno esplicitato, con motivazione
congrua e logicamente ineccepibile, e quindi incensurabile
in sede di legittimità, le ragioni sulla base delle quali
hanno ritenuto ravvisarlo.
Infatti,
una volta affermata l'avvenuta commissione del
delitto di falso, le due sentenze hanno posto in luce come,
pur in assenza di documentati contatti tra Re. e i due
coimputati, potesse affermarsi l'esistenza, oltre che della
consapevolezza delle condotte illegittime accertate
-costituite, sia dalla falsità in atto pubblico, sia dalla
violazione, non contestata ricorso per cassazione,
dell'obbligo, sancito dall'art. 23 del d.p.r. n. 380 del
2001, di ordinare alla committenza di non effettuare il
richiesto intervento edilizio- di un deliberato intento di
far conseguire ad An.Vi.Qu. l'ingiusto profitto patrimoniale
(per la tesi secondo cui il vantaggio patrimoniale di cui
all'art. 323 cod. proc. pen., va riferito al complesso dei
rapporti giuridici a carattere patrimoniale e quindi non
solo quando l'abuso sia volto a procurare beni materiali o
altro, ma anche quando sia volto a creare un accrescimento
della situazione giuridica soggettiva, cfr. Sez. 3, n. 10810
del 17/01/2014, Altieri e altri, Rv. 258894; Sez. 6, n.
12370 del 30/01/2013, P.C. e Baccherini, Rv. 256004; Sez. 6,
n. 43302 del 27/10/2009, Rocca, Rv. 244945; Sez. 6, n. 49554
del 22/10/2003, Cianflone e altri, Rv. 227204, relativo al
caso del rilascio di una concessione edilizia; in questi
ultimi termini v. anche Sez. 6, n. 37531 del 14/06/2007,
Serione e altri, Rv. 238028) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 06.10.2016 n. 42064). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Il delitto ex
art. 480 cp si articola sotto il profilo
oggettivo su due presupposti fondamentali: che gli
atti compiuti dal pubblico ufficiale siano certificati o
autorizzazioni amministrative e che la falsa attestazione
riguardi fatti dei quali l'atto è destinato a provare la
verità.
---------------
Dagli atti si ricava che
con l'illegittima autorizzazione paesaggistica
l'imputato pose in essere le condizioni affinché il
proprietario
realizzasse l'intervento edilizio illecito, essendo,
pertanto, l'atto di per sé perfezionato -salvo l'intervento
successivo della Sovrintendenza di annullamento- e quindi
pienamente in grado di produrre gli effetti costitutivi ed
ampliativi della sfera patrimoniale e giuridica del
coimputato derivanti dall'illecita costruzione del
manufatto.
Tali caratteristiche consentono di inquadrare il
provvedimento incriminato nella categoria degli atti
pubblici ex art. 476-479 cp, riguardo ai quali deve
ricordarsi l'antico ma consolidato orientamento di questa
Corte, per cui il possibile contenuto
dell'atto pubblico può essere diretto a documentare attività
compiute dal pubblico ufficiale o comunque da lui percepite;
sotto un secondo profilo, verificabile in via congiuntiva o
anche solo alternativa al precedente, l'atto pubblico
contemplato dagli artt.
476,
479 cp è quello caratterizzato
dalla produttività di effetti costitutivi,
traslativi, dispositivi, modificativi od estintivi rispetto a
situazioni giuridiche di rilevanza pubblicistica.
Alla luce di tali principi appare chiaro che
il provvedimento di autorizzazione paesaggistica
deve essere sussunto nella categoria degli atti pubblici,
comprovando l'attività di esame dei documenti prodotti dal
richiedente svolta dal dirigente dell'Ufficio tecnico,
esprimendo la sua valutazione tecnica e producendo il
consistente effetto ampliativo della sfera
giuridico-patrimoniale del proprietario a costruire il
manufatto, senza attivare la procedura per ottenere il
permesso a costruire, che nel caso in esame non era
rilasciabile, a causa della destinazione agricola del
terreno.
---------------
Il ricorso è infondato.
1. Occorre premettere che, secondo le sentenze di merito,
Re., in qualità di dirigente l'ufficio tecnico comunale,
aveva attestato falsamente che l'intervento edilizio
illustrato negli atti tecnici presentati dai coimputati, Le.
e Ba. il primo proprietario del terreno ed il secondo
suo tecnico di fiducia- riguardava il recupero di un volume
già esistente, allo scopo di consentirne la realizzazione in
zona sottoposta a vincolo, mediante presentazione di sola
DIA e non del necessario permesso di costruire, mentre il
manufatto era in sostanza inesistente.
2. Quanto ai motivi di ricorso, va osservato che il primo
ha proposto un nuovo apprezzamento del merito del
ragionamento decisorio, non confrontandosi con la congrua
motivazione, che ha logicamente desunto l'elemento
psicologico del reato dall'evidenza delle falsificazioni
propinate a Re. dai coimputati e, pertanto, da questi
agevolmente rilevabili dagli atti prodotti; dalle foto
allegate alla pratica, che l'imputato aveva necessariamente
visionato, emergeva in modo evidente l'epoca recente della
costruzione, anche per i modi dì costruzione dei muri, che
era stata creata ad arte al solo scopo di eludere la
necessità della richiesta di permesso a costruire; tale
conclusione è stata adeguatamente giustificata anche
attraverso il richiamo alle deposizioni conformi del CT
della difesa e del tenente dei Vigili urbani, che
avvalendosi di aerofotogrammetrie, ha testimoniato
dell'inesistenza del manufatto appena due anni prima
dell'istruzione della pratica;la situazione falsamente
rappresentata nella relazione tecnica e nella relazione
paesaggistica ed attestata dal ricorrente
nell'autorizzazione paesaggistica a sua firma faceva,
invece, riferimento ad un antico rudere crollato,
addirittura costruito secondo tecniche tradizionali
dell'architettura rurale salentina.
3. La critica sulla qualificazione giuridica del
provvedimento di autorizzazione paesaggistica, secondo il
ricorrente qualificabile ai sensi dell'art. 480 cp, non è
fondata.
3.1 In linea generale deve ricordarsi che
il delitto ex
art. 480 cp si articola sotto il profilo
oggettivo su due presupposti fondamentali: che gli
atti compiuti dal pubblico ufficiale siano certificati o
autorizzazioni amministrative e che la falsa attestazione
riguardi fatti dei quali l'atto è destinato a provare la
verità (Sez. 6,
21.01.2004 n. 22396 RV 229394).
3.2 Nella fattispecie concreta, la funzione del
provvedimento non fu quella di provare la verità dei fatti
attestati.
Invero, dagli atti a disposizione della Corte, si ricava che
con l'illegittima autorizzazione paesaggistica
l'imputato pose in essere le condizioni affinché il
proprietario Le.
realizzasse l'intervento edilizio illecito, essendo,
pertanto, l'atto di per sé perfezionato -salvo l'intervento
successivo della Sovrintendenza di annullamento- e quindi
pienamente in grado di produrre gli effetti costitutivi ed
ampliativi della sfera patrimoniale e giuridica del
coimputato derivanti dall'illecita costruzione del
manufatto.
3.3 Tali caratteristiche consentono di inquadrare il
provvedimento incriminato nella categoria degli atti
pubblici ex art. 476-479 cp, riguardo ai quali deve
ricordarsi l'antico ma consolidato orientamento di questa
Corte, per cui il possibile contenuto
dell'atto pubblico può essere diretto a documentare attività
compiute dal pubblico ufficiale o comunque da lui percepite;
sotto un secondo profilo, verificabile in via congiuntiva o
anche solo alternativa al precedente, l'atto pubblico
contemplato dagli artt.
476,
479 cp è quello caratterizzato
dalla produttività di effetti costitutivi,
traslativi, dispositivi, modificativi od estintivi rispetto a
situazioni giuridiche di rilevanza pubblicistica
(Cass. SU n 10929/1981; conformi Cass. 5 n. 10149 del 1984;
Cass. 17.06.1987, Iorio).
3.4 Alla luce di tali principi appare chiaro che
il provvedimento di autorizzazione paesaggistica
deve essere sussunto nella categoria degli atti pubblici,
comprovando l'attività di esame dei documenti prodotti dal
richiedente svolta dal dirigente dell'Ufficio tecnico,
esprimendo la sua valutazione tecnica e producendo il
consistente effetto ampliativo della sfera
giuridico-patrimoniale del proprietario a costruire il
manufatto, senza attivare la procedura per ottenere il
permesso a costruire, che nel caso in esame non era
rilasciabile, a causa della destinazione agricola del
terreno (Corte di
Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 26.08.2016 n. 35556). |
IN EVIDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La resurrezione di un provvedimento
amministrativo fatto oggetto di sostituzione mediante un
nuovo provvedimento successivo non è l'automatico effetto
dell'annullamento del secondo provvedimento, giacché in tal
caso altro non residua che la potestà amministrativa di
riprovvedere, se del caso, sull'intera vicenda: dovendosi
peraltro tener conto altresì del c.d. effetto conformativo
eventualmente scaturente dal giudicato di annullamento.
Il fenomeno della reviviscenza della norma abrogata a
seguito di annullamento della norma abrogativa riguarda la
successione di norme nel tempo ed è ammessa in via
eccezionale dalla giurisprudenza costituzionale per evitare
che si crei un vuoto normativo.
Nel caso di provvedimenti amministrativi, invece, non v’è
tale esigenza, poiché non si crea mai un insolubile vuoto
normativo o di disciplina, trovandosi il provvedimento
amministrativo, anche se a carattere generale o normativo,
pur sempre a valle della gerarchia delle fonti; fermo
restando che nel caso di specie le ordinanze in esame sono
proprio prive dei requisiti formali degli atti
regolamentari.
Peraltro, come giustamente evidenziato dalla giurisprudenza
appena richiamata, tale supposto effetto di reviviscenza non
potrebbe mai operare in contrasto con un giudicato
vanificandone l’effettività e costringendo il ricorrente
vittorioso a impugnare, man mano, a ritroso nel tempo, tutti
i provvedimenti che hanno preceduto quello annullato, e per
i quali emergerebbe di volta in volta l’interesse al gravame
in virtù della caducazione del successivo.
---------------
Nel merito, il ricorso è fondato.
E’ tra l’altro la stessa difesa dell’Amministrazione a
citare la giurisprudenza, che il Collegio condivide, secondo
cui “la resurrezione di un provvedimento amministrativo
fatto oggetto di sostituzione mediante un nuovo
provvedimento successivo non è l'automatico effetto
dell'annullamento del secondo provvedimento, giacché in tal
caso altro non residua che la potestà amministrativa di
riprovvedere, se del caso, sull'intera vicenda: dovendosi
peraltro tener conto altresì del c.d. effetto conformativo
eventualmente scaturente dal giudicato di annullamento”
(cfr. CGA sentenza n. 371 del 2015).
Il fenomeno della reviviscenza della norma abrogata a
seguito di annullamento della norma abrogativa riguarda la
successione di norme nel tempo ed è ammessa in via
eccezionale dalla giurisprudenza costituzionale per evitare
che si crei un vuoto normativo (cfr. Corte costituzionale
sentenza n. 13 del 2012).
Nel caso di provvedimenti amministrativi, invece, non v’è
tale esigenza, poiché non si crea mai un insolubile vuoto
normativo o di disciplina, trovandosi il provvedimento
amministrativo, anche se a carattere generale o normativo,
pur sempre a valle della gerarchia delle fonti; fermo
restando che nel caso di specie le ordinanze in esame sono
proprio prive dei requisiti formali degli atti
regolamentari.
Peraltro, come giustamente evidenziato dalla giurisprudenza
appena richiamata (cfr. CGA sentenza n. 371 del 2015), tale
supposto effetto di reviviscenza non potrebbe mai operare in
contrasto con un giudicato vanificandone l’effettività e
costringendo il ricorrente vittorioso a impugnare, man mano,
a ritroso nel tempo, tutti i provvedimenti che hanno
preceduto quello annullato, e per i quali emergerebbe di
volta in volta l’interesse al gravame in virtù della
caducazione del successivo.
Ne consegue che l’annullamento dell’ordinanza del 2015 non
ha comportato il riespandersi degli effetti di quella del
2014, sostituita a suo tempo dalla successiva.
Con la conseguenza ulteriore che, come correttamente
evidenziato dalla parte ricorrente, la nota del 02.08.2017
del Comune di San Salvo deve essere considerata nulla, per
violazione dei giudicati di cui alla sentenza n. 145 del
2016 del Tar Pescara e 2799 del 2017 del Consiglio di Stato,
nella parte in cui afferma nei confronti della stessa
ricorrente la vigenza dell’ordinanza del 2014, di identico
contenuto e emessa dalla medesima Autorità di quella del
2015 già impugnata e annullata, e ciò poiché, viceversa, per
le ragioni sopra indicate, detta ordinanza del 2014 deve
ritenersi ormai definitivamente priva di efficacia.
Questa nota del 02.08.2017, nella parte in cui mira
autoritativamente a riaffermare tra le parti la
sopravvenienza di una disciplina pregiudizievole per la
ricorrente, ha un indubbio effetto conformativo delle sue
posizioni giuridiche e quindi valenza provvedimentale.
In ogni caso, ad avviso del Collegio, nella domanda
dichiarativa di nullità della succitata nota è contenuta
anche la domanda tesa a ottenere una sentenza dichiarativa
della inefficacia definitiva dell’ordinanza sindacale del
2014, e v’è un interesse concreto e attuale a una pronuncia
dichiarativa di accertamento, in presenza di una potestà
amministrativa che è stata già esercitata contestando i
limiti e la valenza di un giudicato favorevole alla parte
ricorrente (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 04.06.2018 n. 186 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Deve escludersi l’automatica reviviscenza di un
precedente provvedimento quale automatico effetto
dell'annullamento, in sede giurisdizionale, di un successivo
provvedimento che sia stato adottato dall’Amministrazione in
luogo ed in sostituzione del primo.
Invero, siffatto effetto automatico (di resurrezione di un
atto non più esistente) non si verifica neppure,
nell'ipotesi -comunque più opinabile e maggiormente
problematica- di successione di leggi nel tempo, in presenza
dell'abrogazione di una norma che a, sua volta, avesse
abrogato un'altra norma previgente.
A fortiori, la resurrezione di un provvedimento
amministrativo fatto oggetto di sostituzione mediante un
nuovo provvedimento successivo non è l'automatico effetto
dell'annullamento del secondo provvedimento, giacché in tal
caso altro non residua che la potestà amministrativa di
riprovvedere, se del caso, sull'intera vicenda: dovendosi
peraltro tener conto altresì del c.d. effetto conformativo
eventualmente scaturente dal giudicato di annullamento.
---------------
La sentenza appellata ha dichiarato l’originario ricorso
inammissibile per difetto di interesse, rilevando –sulla
premessa che “parte ricorrente impugna le determinazioni
in epigrafe, con cui il Comune resistente ha disposto in
ordine alle autorizzazioni a suo tempo concesse ad altre
società operanti nel settore della gestione degli spazi
pubblicitari”– che “un eventuale annullamento dei
provvedimenti impugnati farebbe … rivivere le precedenti
autorizzazioni, risultando così privo di alcun effetto utile
per la società ricorrente. Né tali precedenti
autorizzazioni, pur formalmente impugnate, in disparte
profili di tempestività di tale impugnativa, sono state
assoggettate ad alcuna censura nel corpo del ricorso”.
Il primo motivo di appello deduce che avrebbe “errato
il Tribunale laddove ha pronunciato la inammissibilità del
ricorso in violazione ed in totale assenza dei presupposti
indicati dall’art. 35, comma 1, lett. b), c.p.a.”.
Secondo un primo argomento, il giudice amministrativo
dovrebbe annullare i provvedimenti illegittimi senza curarsi
delle relative conseguenze, e dunque ripristinando una
situazione di legittimità senza dover verificare che il
ricorrente abbia interesse a realizzare quest’ultima.
La palese infondatezza di siffatto assunto consegue
direttamente dalla natura soggettiva della giurisdizione
amministrativa, in forza della quale nessuna domanda può
essere proposta al giudice (ex art. 100 c.p.c.,
pacificamente applicabile al processo amministrativo proprio
in base al carattere soggettivo della relativa
giurisdizione) se il ricorrente non abbia concreto interesse
a ottenerne l’accoglimento; conseguentemente, risulterebbe
del tutto corretta la declaratoria di inammissibilità resa
dal primo giudice se fosse vero il relativo assunto, ossia
se davvero l’annullamento di un provvedimento sostitutivo
facesse rivivere automaticamente il precedente provvedimento
sostituito.
Viceversa, la declaratoria resa in primo grado merita
riforma in questo giudizio di appello, proprio in ragione
del fatto che questo Collegio non condivide la tesi
dell’automatica reviviscenza di un precedente provvedimento
(nella specie si tratta di autorizzazioni ad affissioni
pubblicitarie) quale automatico effetto dell’annullamento,
in sede giurisdizionale, di un successivo provvedimento che
sia stato adottato dall’Amministrazione in luogo ed in
sostituzione del primo.
Invero, siffatto effetto automatico (di resurrezione di un
atto non più esistente) non si verifica neppure, secondo il
prevalente insegnamento di dottrina e giurisprudenza,
nell’ipotesi –comunque più opinabile e maggiormente
problematica di quella qui in esame– di successione di leggi
nel tempo, in presenza dell’abrogazione di una norma che a,
sua volta, avesse abrogato un’altra norma previgente.
Certamente, ed a fortiori, la resurrezione di un
provvedimento amministrativo fatto oggetto di sostituzione
mediante un nuovo provvedimento successivo non è
l’automatico effetto dell’annullamento del secondo
provvedimento, giacché in tal caso altro non residua che la
potestà amministrativa di riprovvedere, se del caso,
sull’intera vicenda: dovendosi peraltro tener conto altresì
del c.d. effetto conformativo eventualmente scaturente dal
giudicato di annullamento (CGARS,
sentenza 08.05.2015 n. 371 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Costituisce principio consolidato in
giurisprudenza quello secondo il quale la proroga dei
termini di efficacia di un atto amministrativo presuppone
necessariamente che il termine da prorogare non sia ancora
scaduto.
Il principio è applicabile in relazione ad ogni
provvedimento amministrativo che sia stato sottoposto ad un
termine finale di efficacia atteso che, un conto è
disporre la prosecuzione dell'efficacia nel tempo di un
originario provvedimento, altra cosa è consentire
nuovamente lo svolgimento di una attività in precedenza
preclusa per sopravvenuta inefficacia dell'atto abilitativo,
occorrendo, in questo secondo caso, una nuova e più
approfondita valutazione che tenga conto della situazione di
fatto e delle regole giuridiche sopravvenute.
E’ opinione del Collegio che questo principio valga anche
per le proroghe disposte con atti normativi.
Invero, in assenza di disposizioni contrarie, si deve
ritenere che il legislatore, quando emana norme che hanno il
solo fine di estendere la validità temporale di un
provvedimento, intenda incidere solo sull’efficacia
temporale della disciplina di regolazione dell’interesse
pubblico ancora vigente e non sostituirsi alle
amministrazioni nelle valutazioni riguardanti la possibilità
e l’opportunità di reintrodurre una regolazione
dell’interesse pubblico ormai priva di efficacia (in
proposito si veda anche quanto illustrato nel prosieguo).
Inoltre, in assenza di disposizioni specifiche contrarie,
non può che valere la regola di irretroattività degli
effetti della legge, regola che impedisce l’intervento su
fattispecie ormai esaurite.
---------------
... per l’annullamento della
delibera 17.10.2016 n. 215 della Giunta del Comune di Carate
Brianza, trasmessa con nota del Responsabile del
Settore Tecnico Urbanistica del Comune del 19.10.2016 e
ricevuta dai ricorrenti il 24-25.10.2016, con la quale è
stata dichiarata inaccoglibile la proposta di Piano
attuativo relativa all’ambito A7 presentata dai ricorrenti
medesimi l’11.07.2016;
...
FATTO
Con ricorso notificato in data 16.12.2016 e depositato il
10.01.2017, i ricorrenti hanno impugnato la
delibera 17.10.2016 n. 215 della Giunta del Comune di Carate
Brianza, trasmessa con nota del Responsabile del
Settore Tecnico Urbanistica del Comune del 19.10.2016 e
ricevuta il 24-25.10.2016, con la quale è stata dichiarata
inaccoglibile la proposta di Piano attuativo relativa
all’ambito A7 presentata in data 11.07.2016.
I ricorrenti sono comproprietari di alcune aree del tutto
inedificate, aventi una superficie territoriale di mq.
9.600,00, site nel Comune di Carate Brianza e identificate
catastalmente al foglio 15, mappali 84 e 85, limitrofe alle
Vie Milano, Brianza e Bergamo.
Tali aree sono inserite nell’Allegato A “Modalità di
attuazione della Città da trasformare” del documento di
piano del P.G.T. nella scheda n. 6 relativa all’Ambito di
trasformazione n. A7, dove sono specificati i parametri per
l’edificazione, le superfici da destinare a parcheggi, le
destinazioni d’uso ammesse (residenziale, commerciale di
vicinato e di media struttura di vendita, direzionale,
ricettivo, servizi di interesse generale, artigianale di
servizio, produttivo a ridotto impianto e le direttive da
seguire), lasciando ampia discrezionalità di intervento ai
privati proponenti.
In data 11.07.2016 i ricorrenti hanno presentato una
proposta di Piano attuativo redatta in conformità alla
scheda dell’Ambito, allegando cinque tavole, lo schema di
convenzione, la relazione tecnica, il computo metrico, il
cronoprogramma e gli atti di proprietà.
Con la
delibera 17.10.2016 n. 215 della Giunta del Comune di Carate
Brianza è stata dichiarata inaccoglibile la
proposta di Piano attuativo relativa all’ambito A7
presentata dai ricorrenti.
Assumendo l’illegittimità della predetta determinazione, i
ricorrenti l’hanno impugnata, eccependo la violazione e
falsa applicazione dell’art.
5, comma 5, della legge regionale n. 31 del 2014
e l’eccesso di potere per difetto di motivazione.
Si è costituito in giudizio il Comune di Carate Brianza, che
ha chiesto il rigetto del ricorso.
In prossimità dell’udienza di trattazione del merito della
controversia, i difensori delle parti hanno depositato
memorie e documentazione a sostegno delle rispettive
posizioni.
Alla pubblica udienza del 31.01.2018, su conforme richiesta
dei difensori delle parti, la controversia è stata
trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
2. Con l’unica censura del ricorso si assume l’illegittimità
della delibera della Giunta comunale che ha ritenuto
inapplicabile la proroga prevista dall’art.
5 della legge regionale n. 31 del 2014 anche ai
documenti di piano scaduti –disattendendo quindi il parere
contenuto nel
comunicato regionale 25.03.2015 n. 50 e ponendosi
in contrasto anche quanto affermato nella sentenza del
Consiglio di Stato, IV, 14.05.2015, n. 2424– con la
conseguenza di ritenere inefficace il documento di piano del
P.G.T. e pertanto non accoglibile la proposta di Piano
attuativo presentata dai ricorrenti.
2.1. La doglianza è infondata.
Il Collegio, con riguardo all’applicabilità della proroga
prevista dall’art.
5 della legge regionale n. 31 del 2014 anche ai
documenti di piano scaduti, sostenuta con il
comunicato regionale 25.03.2015 n. 50, pur prendendo atto anche della
sentenza del Consiglio di Stato, IV, 14.05.2015, n. 2424,
che ha ritenuto “corretta l’interpretazione secondo cui
la proroga valga anche [per] i documenti scaduti prima
dell’entrata in vigore della nuova legge, per non rendere
altrimenti monca la pianificazione comunale”, ritiene di
aderire al consolidato orientamento espresso dalla Sezione
(sentenza 17.10.2017, n. 1985; in precedenza, 07.06.2017, n.
1272), all’esito di una articolata e convincente
motivazione.
Come noto, in base all’art.
8, quarto comma, della legge della Regione Lombardia
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio) il documento di piano ha efficacia quinquennale.
Scaduto questo termine le statuizioni in esso contenute non
possono più essere attuate.
Il legislatore regionale ha poi previsto due ipotesi di
proroga.
La prima è quella contenuta nel successivo comma
cinque, nel quale si prevede che i consigli comunali hanno
<<… la facoltà di prorogare sino al 31.12.2014 la
validità dei documenti di piano approvati entro il
31.12.2009>>. Altra eccezione è contenuta nell’art.
5, comma 5, della legge regionale n. 31 del 2014,
invocato da parte dei ricorrenti.
La
legge regionale n. 31 del 2014 ha l’obiettivo di
contenere il consumo di suolo e, a tal fine, prevede che gli
strumenti di governo del territorio orientino gli interventi
edilizi prioritariamente verso le aree già urbanizzate,
degradate o dismesse.
L’art. 5, commi 1, 2 e 3, stabilisce che la Regione, le
province, le città metropolitane ed i comuni devono
adeguare, entro i termini ivi stabiliti, i propri strumenti
di governo del territorio alle nuove disposizioni ed ai
nuovi principi contenuti nella legge stessa. Per quanto
riguarda in particolare i comuni, il comma 3 dell’art. 5
prevede che questi debbano adeguare i propri piani di
governo del territorio in occasione della prima scadenza del
documento di piano successiva agli atti di adeguamento
regionali e provinciali.
L’ultimo periodo del comma 5 stabilisce poi che <<La
validità dei documenti comunali di piano, la cui scadenza
intercorra prima dell’adeguamento della pianificazione
provinciale e metropolitana di cui al comma 2, è prorogata
di dodici mesi successivi al citato adeguamento>>.
Come anticipato, secondo i ricorrenti, questa disposizione
si applicherebbe anche ai documenti di piano scaduti prima
dell’entrata in vigore della
legge regionale n. 31 del 2014.
Ritiene il Collegio che questa conclusione non sia
condivisibile per tre ordini di ragioni.
Innanzitutto per motivi di carattere dogmatico, in
quanto, come noto, costituisce principio consolidato in
giurisprudenza quello secondo il quale la proroga dei
termini di efficacia di un atto amministrativo presuppone
necessariamente che il termine da prorogare non sia ancora
scaduto.
Il principio è applicabile in relazione ad ogni
provvedimento amministrativo che sia stato sottoposto ad un
termine finale di efficacia atteso che, un conto è disporre
la prosecuzione dell'efficacia nel tempo di un originario
provvedimento, altra cosa è consentire nuovamente lo
svolgimento di una attività in precedenza preclusa per
sopravvenuta inefficacia dell'atto abilitativo, occorrendo,
in questo secondo caso, una nuova e più approfondita
valutazione che tenga conto della situazione di fatto e
delle regole giuridiche sopravvenute (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 27.08.2014, n. 4384; id., sez. IV,
22.05.2006, n. 3025; id., 22.12.2003, n. 8462; id.,
25.03.2003, n. 1545; id., sez. VI, 10.10.2002, n. 5443).
E’ opinione del Collegio che questo principio valga anche
per le proroghe disposte con atti normativi.
Invero, in assenza di disposizioni contrarie, si deve
ritenere che il legislatore, quando emana norme che hanno il
solo fine di estendere la validità temporale di un
provvedimento, intenda incidere solo sull’efficacia
temporale della disciplina di regolazione dell’interesse
pubblico ancora vigente e non sostituirsi alle
amministrazioni nelle valutazioni riguardanti la possibilità
e l’opportunità di reintrodurre una regolazione
dell’interesse pubblico ormai priva di efficacia (in
proposito si veda anche quanto illustrato nel prosieguo).
Inoltre, in assenza di disposizioni specifiche contrarie,
non può che valere la regola di irretroattività degli
effetti della legge, regola che impedisce l’intervento su
fattispecie ormai esaurite.
In secondo luogo, la conclusione dei ricorrenti non
può essere condivisa per ragioni di carattere testuale,
posto che l’utilizzo del termine “intercorra”,
contenuto nell’art.
5, comma 5, della legge regionale n. 31 del 2014,
lascia chiaramente intendere che legislatore regionale ha
voluto disporre la proroga dei documenti di piano che
vengano a scadenza in un arco temporale delimitato e
successivo a quello di entrata in vigore della norma.
In terzo luogo, la conclusione dei ricorrenti non può
essere condivisa per ragioni di carattere teleologico.
La finalità della norma è, infatti, quella di intervenire in
favore dei comuni che –proprio perché aventi documenti di
piano che vengono a scadenza dopo l’entrata in vigore della
legge ma prima dell’approvazione degli atti di adeguamento
provinciale– verrebbero forzatamente privati di tale atto di
pianificazione: tali comuni, invero, non potrebbero
approvarne uno nuovo fino all’approvazione dell’atto di
adeguamento provinciale.
L’intervento non è invece giustificato nei casi in cui i
comuni abbiano liberamente deciso di lasciar scadere il
documento di piano prima dell’entrata in vigore della
legge regionale n. 31 del 2014. Si tratterebbe
invero di intervento in contrasto con la loro volontà, dato
che a questi enti verrebbe imposta la vigenza di un atto che
(proprio perché lasciato liberamente scadere) è ormai
evidentemente ritenuto non più rispondente all’interesse
pubblico.
Né si può opporre che la soluzione qui seguita pregiudichi
eccessivamente gli interessi dei privati, atteso che questi
hanno comunque avuto a disposizione un periodo di cinque
anni per presentare proposte di piani attuativi.
Si deve pertanto ritenere che l’art.
5, comma 5, della legge regionale n. 31 del 2014
non si riferisca ai documenti di piano già scaduti e che,
quindi, non possa far rivivere la disciplina contenuta nel
previgente documento di piano, ormai definitivamente privo
di efficacia (TAR Lombardia, Milano, II, 17.10.2017, n.
1985; altresì, 07.06.2017, n. 1272).
2.2. Va aggiunto, inoltre, che con la
legge regionale n. 16
del 2017 è stato altresì modificato il secondo periodo dell’art.
5, comma 5, della legge regionale n. 31 del 2014,
attribuendo al Consiglio comunale la facoltà di scelta in
ordine alla proroga della validità dei documenti di piano
già scaduti [‘La validità dei documenti di piano dei PGT
comunali la cui scadenza è già intercorsa può essere
prorogata di dodici mesi successivi all’adeguamento della
pianificazione provinciale e metropolitana di cui al comma
2, con deliberazione motivata del consiglio comunale, da
assumersi entro dodici mesi dall’entrata in vigore della
legge regionale recante “Modifiche all’articolo 5 della
legge regionale 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la
riduzione del consumo di suolo e per lo riqualificazione del
suolo degradato)”, ferma restando la possibilità di
applicare quanto previsto al comma 4’].
Pur volendo ritenere, non senza qualche dubbio, la
disposizione priva di efficacia retroattiva, dalla stessa si
ricava comunque la conferma dell’indirizzo seguito dalla
Sezione anche nel presente contenzioso.
2.3. Ciò conduce al rigetto della censura e quindi
dell’intero ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.03.2018 n. 734 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
Prevenzione incendi, online i nuovi modelli che entreranno
in vigore l'11.06.2018.
Modificata parte della modulistica relativa alla
presentazione delle istanze, delle segnalazioni e delle
dichiarazioni concernenti i procedimenti di prevenzione
incendi
Come previsto dall' articolo 11, comma 2, del decreto del
Ministro dell'interno 07.08.2012, con decreto del Direttore
Centrale per la Prevenzione e la Sicurezza Tecnica, è stata
modificata parte della modulistica relativa alla
presentazione delle istanze, delle segnalazioni e delle
dichiarazioni concernenti i procedimenti di prevenzione
incendi.
I nuovi modelli, riportati in allegato al decreto DCPST n.
72, entreranno in vigore il prossimo 11 giugno sostituendo,
contestualmente, la corrispondente modulistica attualmente
in uso (29.05.2018 - commento tratto da www.casaeclima.com). |
SICUREZZA LAVORO:
Il
D.Lgs. 09.04.2008 n. 81
-noto come Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul
lavoro- in materia di tutela della salute e della sicurezza
nei luoghi di lavoro, integrato con circolari, accordi Stato
Regioni, interpelli ed altre fonti normative ed
amministrative (aggiornato nell'edizione maggio 2018
- tratto da
www.ispettorato.gov.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Linee guida sulle procedure concorsuali
(direttiva
24.04.2018 n. 3/2018). |
SINDACATI & ARAN |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
NUOVE ALIQUOTE DELLO STRAORDINARIO DALL'01.04.2018 E
DIFFERENZE DALL'01.01.2016 AL 30.4.2018 (CSA-Milano,
08.06.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del comparto
FUNZIONI LOCALI - periodo 2016-2018 - Raccolta sistematica
delle disposizioni non disapplicate
(CGIL-FP di Bergamo, 22.05.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Aran e Organizzazioni sindacali hanno firmato in via
definitiva il contratto collettivo nazionale di lavoro
2016-2018 del comparto Funzioni Locali (21.05.2018
- link a www.aranagenzia.it).
---------------
Contratto Collettivo Nazionale di
Lavoro del comparto FUNZIONI LOCALI - Periodo 2016-2018
(ARAN, 21.05.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO:
FIRMATO IL CONTRATTO NAZIONALE FUNZIONI LOCALI - Partono gli
aumenti, arrivano gli arretrati (CGIL-FP,
21.05.2018). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Indicazioni applicative in merito alle
tolleranze costruttive, alla verifica dello stato legittimo
degli edifici da demolire, alla sanatoria di immobili
soggetti a vincolo paesaggistico e al divieto di modificare
la Modulistica Unificata Edilizia e di richiedere altra
documentazione
(Regione Emilia Romagna,
nota
05.06.2018 n. 410371 di prot.).
---------------
La Circolare fornisce indicazioni applicative in merito
alla tolleranza costruttiva disciplinata dall’art. 19-bis,
della L.R. n. 23 del 2004 sulla vigilanza in materia
edilizia.
In seguito alle importanti modifiche apportate dalla L.R. n.
12 del 2017 e dalla L.R. n. 24 del 2017, si distinguono
quattro fattispecie di opere edilizie realizzate in parziale
difformità dal titolo abilitativo che non sono considerate
violazioni edilizie e non comportano l’applicazione delle
relative sanzioni amministrative.
La circolare chiarisce le modalità per accertare e
rappresentare nelle pratiche edilizie le difformità
tollerate.
Sono trattate, inoltre, la verifica dello stato legittimo
degli edifici interessati da demolizione e ricostruzione, la
sanatoria degli abusi commessi in immobili soggetti a
vincolo paesaggistico e il divieto di modificare la
Modulistica Unificata Edilizia regionale e di richiedere
altra documentazione”. |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Ricorso al TAR Lazio-Roma per l'annullamento del
decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti,
di concerto con il Ministero dell'Interno e il Capo
Dipartimento della Protezione Civile, del 17.01.2018
(Consiglio Nazionale dei Geologi,
circolare 01.06.2018 n. 428).
---------------
Con la presente si conferma che, come già reso ampiamente
noto per le vie brevi, in data 20 aprile u.s., è stato
promosso, mediante notifica, il ricorso in oggetto,
avvalendosi della co-difesa del Prof. Avv. An.Cl. e
dell'Avv. Ot.Em..
La domanda di annullamento, previe misure cautelari, si
riferisce ai paragrafi 2.2.6, 5.1, 6.1.1, 6.2.1, 6.2.2,
6.10, 6.12, 7.11.2, 8.2, 8.3, 8.4, 10.1 e 12, nonché ai
paragrafi 3.2.2, 6.4.3.1.1, 7.11.3.4.3. e di quelli
contenenti previsioni similari, delle «Norme Tecniche per le
Co-struzioni» (pubblicate sul S.O. alla G.U. n. 42 del
20.02.2018 – Serie generale), oltre che ad ogni altro atto
presupposto, istruttorio, prodromico, connesso e
conseguenziale, ove lesivo ed an-corché non conosciuto.
(...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Ausiliari del commercio – disposizione
introdotta dalla legge di bilancio 2018 per i mediatori
immobiliari (Ministero dello Sviluppo Economico,
circolare 21.05.2018 n. 3705/C - prot.
n. 164140).
---------------
Si fa riferimento alla legge 27.12.2017, n. 205, recante
“Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario
2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020”,
entrata in vigore il 01.01.2018 ed in particolare alle
disposizioni dettate dall’articolo 1, comma 993, con le
quali è stata introdotta per la prima volta una specifica
sanzione pecuniaria a carico degli agenti di affari in
mediazione immobiliare.
In proposito, si riporta il predetto Art. 1, comma 993 della
legge finanziaria in questione, che testualmente recita:
(...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Applicazione artt. 71 e 72 della L.r. 12/2005,
come modificati dalla L.r. 2/2015. Principi per la
pianificazione delle attrezzature per i servizi religiosi
(Regione Lombardia,
nota 16.05.2018 n. 5870 di prot.). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Privacy - Regolamento Europeo 2016/679 -
Fac-simile informative (ANCE di Bergamo,
circolare 14.05.2018 n. 126). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Interpello art. 11, legge 27.07.2000, n.212-
Riconducibilità degli interventi di demolizione e
ricostruzione tra gli interventi relativi alla adozione di
misure antisismiche per le quali è possibile fruire della
detrazione di imposta ai sensi dell’art. 16 del Decreto
Legge 04.06.2013, n. 63 (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 27.04.2018 n. 34/E). |
URBANISTICA:
OGGETTO: Trattamento fiscale dei corrispettivi ricevuti a
seguito di costituzione e cessione di diritto reale di
superficie (Agenzia delle Entrate,
circolare 20.04.2018 n. 6/E).
---------------
Premessa
Con la circolare 19.12.2013, n. 36/E sono stati forniti
chiarimenti in merito al trattamento fiscale dei
corrispettivi percepiti a seguito di costituzione di un
diritto reale di superficie su un terreno al fine di
consentire l’installazione di impianti di produzione di
energia alternativa.
In tale documento di prassi si precisa che il trattamento
fiscale di tali corrispettivi si differenzia in base alle
modalità di acquisizione del diritto reale di superficie.
In particolare, nell’ipotesi in cui il diritto reale di
superficie sia stato acquistato a titolo oneroso da un
precedente titolare, la plusvalenza realizzata va
considerata reddito diverso ai sensi dell’articolo 67, comma
1, lettera b), del Testo Unico delle Imposte sui Redditi,
approvato con decreto del Presidente della Repubblica
22.12.1986, n. 917 (TUIR) e, dunque, soggetta a tassazione
esclusivamente se realizzata entro cinque anni dal momento
in cui si era verificata l’acquisizione del medesimo
diritto.
Diversamente, nell’ipotesi in cui ... (...continua). |
PATRIMONIO:
Oggetto: DM 21.03.2018. Attività scolastiche e asili
nido. Controlli in materia di salute e sicurezza sul lavoro
(Ministero dell'Interno,
nota 18.04.2018 n. 5264 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Nuove Istruzioni CNR per strutture in legno
(Consiglio Nazionale Ingegneri,
circolare 12.04.2018 n. 226). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Aggiornamento delle Norme Tecniche per le
Costruzioni (NTC 2018) - fase transitoria ed entrata in
vigore - richiesta di proroga della entrata in vigore delle
norme tecniche - riscontro
(Consiglio Nazionale Ingegneri,
circolare 21.03.2018 n. 214). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Aggiornamento delle Norme Tecniche per le
Costruzioni (NTC 2018) - DM 17.01.2018 - ambito di
applicazione, fase transitoria ed entrata in vigore - primi
chiarimenti e considerazioni
(Consiglio Nazionale Ingegneri,
circolare 14.03.2018 n. 206). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Nuove Norme Tecniche 2018 - pubblicazione
(Consiglio Nazionale Ingegneri,
circolare 23.02.2018 n. 203). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Inquadramento dell’attività “parco avventura”-
Riscontro (Ministero dell'Interno,
nota 18.01.2018 n. 717 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: Vigilanza
cantieri 2018 - ATS di Bergamo (A.T.S. di Bergamo,
nota 21.12.2017 n. 118396 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI
LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 14.06.2018, "Determinazione
per l’anno 2018 della percentuale di maggiorazione del
contributo base ex art. 6, C. 1, lett. I) e C. 10 del r.r.
27.07.2009, n. 2 e s.m.i., attuativo della l.r. 27.06.2008,
n. 19 al fine dell’erogazione del contributo ordinario per
il medesimo anno alle unioni di comuni lombarde per la
gestione associata di funzioni e servizi comunali" (decreto
D.S. 05.06.2018 n. 8215). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 dell'11.06.2018, "Determinazioni
in merito ai corsi di aggiornamento professionale per
tecnici competenti in acustica" (decreto
D.U.O. 07.06.2018 n. 8330). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 dell'11.06.2018, "Approvazione
di indicazioni per i corsi abilitanti alla professione di
tecnico competente in acustica di cui al d.lgs. 42/2017"
(decreto
D.U.O. 07.06.2018 n. 8327). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 dell'11.06.2018, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 31.05.2018, in attuazione
della legge 26.10.1995, n. 447 e del decreto legislativo
17.02.2017, n. 42" (comunicato
regionale 07.06.2018 n. 96). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 05.06.2018, "D.lgs.
42/2017. Iscrizione nell’elenco nazionale dei tecnici
competenti in acustica ai sensi dell’articolo 21, comma 5.
determinazioni regionali a seguito della comunicazione del
ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del
mare – direzione generale per i rifiuti e l’inquinamento
protocollo 8753 del 29.05.2018" (comunicato
regionale 31.05.2018 n. 93). |
ENTI
LOCALI
- LAVORI PUBBLICI: G.U.
31.05.2018 n. 125 "Criteri ambientali minimi per la
fornitura di calzature da lavoro non dpi e dpi, articoli e
accessori di pelle" (Ministero dell'Ambiente e
della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 17.05.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
28.05.2018 n. 122 "Trasferimento di talune funzioni
all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca
ambientale (ISPRA)" (Ministero dell'Ambiente ed
ella Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 01.03.2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: G.U.
24.05.2018 n. 119 "Attuazione della direttiva (UE)
2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del
27.04.2016, relativa alla protezione delle persone fisiche
con riguardo al trattamento dei dati personali da parte
delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine,
accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di
sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali
dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del
Consiglio" (D.Lgs.
18.05.2018 n. 51). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Disposizioni sull’applicazione dei principi
dell'invarianza idraulica ed idrologica. Modifica
dell’articolo 17 del regolamento regionale 23.11.2017, n. 7
(Regolamento recante criteri e metodi per il rispetto del
principio dell'invarianza idraulica ed idrologica ai sensi
dell'articolo 58-bis della legge regionale 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio) (deliberazione
G.R. 21.05.2018 n. 128). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Linee
di indirizzo per la predisposizione dei piani dei fabbisogni
di personale da parte delle pubbliche amministrazioni
(Dipartimento Funzione Pubblica,
decreto 08.05.2018). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA: Infrastrutture
e impianti di comunicazioni elettroniche - REPERTORIO DI
GIURISPRUDENZA (07.06.2018 - tratto
da
www.dirittopa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
V. Lippolis,
Appalti privati: responsabilità solidale anche per i liberi
professionisti (06.06.2018 - tratto da
www.ipsoa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: I.
A. Nicotra,
Dall’accesso generalizzato
in materia ambientale al Freedom of information act (06.06.2018 -
tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa - 2. La Convenzione di
Aarhus: diritto alla trasparenza e partecipazione ai
processi decisionali sulle tematiche ambientali - 3. Il
diritto all’informazione ambientale nella Direttiva del
Parlamento Europeo e del Consiglio del 28.01.2003 n. 4 - 4.
L’accesso generalizzato in materia ambientale secondo il
d.lgs. n. 195 del 2005 - 5. Pubblicazione e accesso alle
informazioni ambientali: il nuovo paradigma del d.lgs. n. 33
del 2013 - 6. Freedom of informatiom act di fronte agli
interessi pubblici e privati di rilevanza costituzionale:
alla ricerca di un delicato bilanciamento, le Linee Guida
dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. |
EDILIZIA PRIVATA:
APPALTI PRIVATI: Responsabilità
dell’appaltatore - Approfondimento normativo e casistica
giurisprudenziale (ANCE, 30.05.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Ecobonus
e sismabonus - Guida operativa
(ANCE, 30.05.2018). |
APPALTI:
G. Guzzo,
I criteri di selezione delle offerte negli appalti pubblici:
sistemi a confronto (28.05.2018 - tratto
da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa. 2. Aspetti generali. 3. La
ponderazione dei “pesi” o “punteggi”. 3.1. La valutazione
degli elementi quantitativi. 3.2. La valutazione degli
elementi quantitativi ed i criteri motivazionali. 3.3. La
formazione della graduatoria. 4. La struttura del criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa. 5.
L’elencazione dei criteri di valutazione nel caso di
aggiudicazione dell'appalto con il sistema dell'offerta
economicamente più vantaggiosa. 6. La posizione
dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici. 7. Le
“Linee Guida” n. 2 ANAC del 16.10.2016. 8. I criteri di
valutazione ed il rating di legalità. 9. La ponderazione dei
punteggi. 10. la valutazione degli elementi quantitativi.
11. La valutazione degli elementi qualitativi ed i criteri
motivazionali. 12. I casi in cui in una gara da affidare con
il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa il
punteggio numerico può essere sufficiente ad aggiudicare il
contratto. 13. La strutturazione del criterio di
aggiudicazione dell'offerta denominato “del prezzo più
basso”. 14. Il regolamento di attuazione del vecchio Codice
degli appalti. 15. Il problema delle offerte anomale e
dell'esclusione dalle gare. 16. Le scansioni del
procedimento di verifica. 17. Considerazioni finali. |
APPALTI:
A. Berti Suman,
L’immediata impugnazione delle clausole del bando di gara e
il ruolo dell’interesse strumentale nel (nuovo) contenzioso
appalti - A margine della Adunanza Plenaria n. 4/2018
(28.05.2018 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa - 2. La distinzione tra
clausole immediatamente lesive e non: l’arresto
dell’Adunanza Plenaria n. 3/2001– 3. Le correnti successive
tese ad ampliare il novero delle clausole immediatamente
impugnabili – 4. La terza sezione sull’impugnabilità
immediata della clausola del bando relativa al criterio di
aggiudicazione – 4.1 Il “blocco normativo” indice della
vocazione generale e autonoma del bene della vita
rappresentato dalla competizione secondo il miglior rapporto
qualità/prezzo - 4.2 La necessità (o meno) della domanda di
partecipazione alla gara quale condizione di impugnabilità
del bando – 4.3 L’influenza del diritto europeo: la logica
pro-concorrenziale e l’anticipazione della tutela. Il
problema dell’overruling – 5. La giurisprudenza di primo
grado sulla impugnazione immediata del criterio di
aggiudicazione. Le pronunce “contrarie” all’indirizzo
evolutivo - 5.1 Segue: Le pronunce “favorevoli”
all’indirizzo evolutivo - 6. La Plenaria n.4/2018 conferma
l’impostazione tradizionale – 6.1 L’assenza di
legittimazione dell’impresa non partecipante (o
definitivamente esclusa) dalla gara ad impugnare le clausole
non escludenti – 6.2 La postergazione della tutela avverso
il bando non immediatamente lesivo - 7. Conclusioni: il
“ridimensionamento” del ruolo dell’interesse strumentale nel
(nuovo) contenzioso appalti. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
V. Parisio,
La tutela dei diritti di
accesso ai documenti amministrativi e alle informazioni
nella prospettiva giurisdizionale (23.05.2018
- tratto da www.federalismi.it).
---------------
Abstract [It]: L’Autrice analizza alcuni profili concernenti
la protezione giurisdizionale riconosciuta alle diverse
forme di accesso ai documenti amministrativi dagli artt. 116
e 133 del c.p.a. (d.lgs. n. 104 del 2010). I diversi tipi di
accesso ai documenti e alle informazioni sono descritti nei
loro principali elementi di differenziazione, sebbene il
legislatore abbia stabilito lo stesso tipo di protezione
giurisdizionale. Con particolare riferimento al diritto di
accesso civico nelle sue due forme: semplice e
generalizzato, viene evidenziato che l’ampia legittimazione
riconosciuta in fase procedimentale non trova
corrispondenza, in considerazione dei caratteri del processo
amministrativo italiano, in quella prevista nella fase
processuale davanti al giudice amministrativo, con la
conseguenza che l’accesso civico rischia di perdere una gran
parte della sua rilevanza e incisività.
---------------
Sommario: 1. Introduzione - 2. I diritti di accesso
davanti al giudice amministrativo - 2.1. Il rapporto tra
diritto di accesso documentale e diritto di accesso civico -
2.2. Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e
modelli processuali a confronto - 2.2.1. Un giudizio ibrido
3. Art. 116 c.p.a. e poteri del giudice amministrativo –
3.1. I poteri di accertamento e condanna del giudice tra
accelerazioni e semplificazioni - 4. Diritti di accesso e
azione popolare - 5. La tutela nei confronti del diniego e/o
del silenzio nelle ipotesi di accesso civico – 6.
Conclusioni. |
EDILIZIA PRIVATA:
E. Tatì,
La sentenza TAR Toscana, Sez.
III, 28.07.2017 n. 1009: un’occasione per riflettere
sull’evoluzione dei regimi edilizi all’indomani del d.lgs.
n. 222/2016 e sulla rigenerazione urbana (23.05.2018
- tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Il fatto. 2. Il quadro normativo e i
precedenti giurisprudenziali. 2.1. I regimi edilizi e le
recenti modifiche. 2.2. Le categorie degli interventi
edilizi e le interpretazioni giurisprudenziali. 2.3. La zona
omogenea A e i centri storici. 2.4. La legislazione della
Regione Toscana sul governo del territorio: regimi,
interventi e valorizzazione dell’esistente. 2.5. Gli
sviluppi recenti della regolazione urbanistica ed edilizia
del Comune di Firenze: verso la rigenerazione e la
valorizzazione dell’esistente. 3. La sentenza. 4.
Conclusioni: l’evoluzione continua dei regimi edilizi e la
rigenerazione urbana. |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Regolamento per gli incentivi per funzioni tecniche di
cui all’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, come modificato
dall’art. 76 del D.Lgs. 19.04.2017, n. 56 - Istruzioni
tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI,
quaderno n. 12 del maggio 2018).
---------------
Ecco il
fac-simile di regolamento in formato .doc
compilabile/modificabile a piacimento. |
EDILIZIA PRIVATA:
Sismabonus: la detrazione spetta anche in caso di
demolizione e fedele ricostruzione (27.04.2018
- tratto da www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Spallino,
Impianti fotovoltaici e autorizzazione paesaggistica
(07.04.2018 - link a www.dirittopa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA:
A. Galbiati,
Codice dell'ambiente: tabella riepilogativa dei termini nei
procedimenti di VAS e VIA (05.04.2018 -
link a www.dirittopa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Spallino,
Codice dei beni paesaggistici: tabella riepilogativa dei
termini (04.04.2018 - link a
www.dirittopa.it). |
URBANISTICA:
L. Spallino,
Consumo di suolo: l.r.
Lombardia n. 31/2014 e proroga della validità dei
Documenti di Piano (03.04.2018 -
link a www.dirittopa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
V. Riello,
L’agente provocatore tra esigenze politico-criminali e
diritti inviolabili (De Iustitia n. 2/2018
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Evoluzione dell’agente
provocatore fino alla sua tipizzazione. - 3. Il dibattito
dottrinale sulla punibilità dell’agente provocatore. - 3.1
Il reato impossibile. - 3.2. Cause di esclusione
dell’antigiuridicità: a) art. 50 c.p.: il consenso
dell’avente diritto; b) art. 51 c.p.: l’adempimento del
dovere; c) art. 52 c.p.: la legittima difesa; d) scriminante
atipica: l’azione socialmente adeguata. - 3.3. Assenza di
colpevolezza. - 4. La posizione della giurisprudenza
nazionale. - 5. La posizione della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo. La responsabilità del provocato. - 6. Le figure
specifiche di agente provocatore: il fictus emptor e il
soggetto passivo del reato. - 7. Riflessioni conclusive. |
APPALTI:
A. Foglia,
La disciplina dei contratti misti alla luce del nuovo codice
dei contratti pubblici: il global service (De
Iustitia n. 2/2018 - tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: Premessa. 1. I contratti misti stipulati
dalla Pubblica Amministrazione. - 2. Il contratto di global
service. - 3. Brevi conclusioni. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
N. Durante,
Qualificazione giuridica e
rilevanza sociale dell’incarico tecnico-professionale
affidato dalla stazione appaltante in assenza di
corrispettivo economico (22.03.2018 - tratto
da www.giustizia-amminitrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Spallino – A. Galbiati – F. Donegani,
Le fasce di rispetto cimiteriali, inedificabilità assoluta o
derogabilità? I piani cimiteriali e i PGT (02.03.2018
- tratto da www.dirittopa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
L’attuazione negli Enti Locali del nuovo Regolamento UE
n. 679/2016 sulla protezione dei dati personali - Istruzioni
tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI,
quaderno n. 11 del gennaio 2018). |
A.N.AC. |
LAVORI PUBBLICI:
Livello di progettazione necessario per l’affidamento di
una concessione di lavori (delibera
09.05.2018 n. 437 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Linee guida art. 84, comma 12, del codice dei contratti
pubblici. Possibili sistemi alternativi per la
qualificazione degli operatori economici (Comunicato
del Presidente 09.05.2018 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Linee Guida n. 2, di attuazione del D.lgs. 18.04.2016, n.
50, recanti “Offerta economicamente più vantaggiosa” -
Approvate dal Consiglio dell’Autorità con Delibera n. 1005,
del 21.09.2016. Aggiornate al D.lgs 19.04.2017, n. 56 con
Delibera del Consiglio n. 424 del 02.05.2018 (delibera
02.05.2018 n. 424 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Rassegna ragionata delle massime di precontenzioso in tema
di “avvalimento” e “soccorso istruttorio” anno 2017
(aprile 2018). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Triennio
riferimento per calcolo resti assunzionali.
Domanda
Qual è il giusto periodo da prendere a riferimento per
calcolare il triennio precedente ai fini del turn-over?
Risposta
Come noto, l’art. 3, comma 5, del D.L. 90/2014 consente di
cumulare il budget assunzionale non utilizzato per un arco
di tre anni rispetto all’anno in cui tale capacità cumulata
viene spesa. Detto x l’anno in cui si vuole spendere un
budget assunzionale formato nell’anno x-3 sulla base delle
cessazioni avvenute nell’anno x-4, si tratta di chiarire se,
per non perdere tale capacità assunzionale, sia sufficiente
programmare il reclutamento nell’anno x, oppure sia invece
necessario che in tale anno sia bandito il concorso, oppure
anche assunto il vincitore.
Con deliberazione n. 18/2018/PAR del 23.05.2018, la
Corte dei Conti – Sezione regionale di controllo per la
Sardegna ha chiarito che per individuare il “triennio
precedente” ai fini della determinazione dei resti delle
capacità assunzionali ancora utilizzabili si deve fare
riferimento alla programmazione dei fabbisogni di personale.
È infatti in tale contesto che l’ente verifica le esigenze
di personale, la ricorrenza dei presupposti per procedere a
nuove assunzioni e il rispetto dei vincoli di spesa. Per
individuare il triennio di provvista del budget assunzionale
bisognerà fare riferimento al primo anno considerato dal
piano dei fabbisogni, e risalire a ritroso fino al terzo
anno antecedente tale anno.
Per utilizzare la capacità
derivante dai resti assunzionali di tre anni prima è quindi
sufficiente che un’assunzione sia programmata nel primo anno
del piano dei fabbisogni, anche se poi, in concreto,
l’assunzione si perfeziona in un momento successivo
(14.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI: Rotazione
e numero minimo di appaltatori.
Domanda
Considerato quanto previsto dall’articolo 36 del codice dei
contratti e dalle Linee Guida ANAC n. 4 circa il numero
minimo di soggetti da invitare ai procedimenti di gara (in
particolare stiamo predisponendo l’avviso pubblico per
l’aggiudicazione di una fornitura (…) di importo di 60 mila
euro, IVA esclusa) ci siamo posti questo problema: qualora
ad un avviso di indagine di mercato senza limitazione di
partecipazione manifestino interesse in numero inferiore
rispetto al minimo previsto dalla normativa, come si deve
comportare la Stazione appaltante?
Il RUP può invitare soli i soggetti manifestanti? Oppure è
opportuno e corretto indicare nell’avviso tale scelta? E nel
caso di avviso nel quale era previsto il sorteggio la
situazione è diversa?
Risposta
La problematica posta nel quesito, oggettivamente, è attuale
e richiede una risposta articolata anche perché, a ben
valutare, non è dato rinvenire un sicuro approdo
chiarificatore né nella norma del codice ma neppure nelle
linee di guida (che a questo avrebbero dovuto tendere).
Le recenti linee guida ANAC n. 4 (in tema di acquisizione
degli appalti sotto la soglia comunitaria), adeguate alle
modifiche apportate con il decreto legislativo correttivo n.
56/2017 prevedono la possibilità di predisporre un avviso a
manifestare interesse senza che il RUP si ponga il problema
della rotazione.
Nel senso che, se pubblica un avviso “aperto” chiarendo che
tutti gli operatori che manifestassero interesse verranno
invitati al procedimento, allo stesso potranno presentare
offerta sia il pregresso affidatario sia i soggetti già
invitati al pregresso procedimento (avente lo stesso oggetto
od oggetto riconducibile alla stessa categoria, settore,
servizio).
Se l’avviso è “aperto” è opportuno che il RUP lo chiarisca
immediatamente non potendo successivamente applicare la
rotazione (in questo senso il Tar Sardegna, Cagliari,
sentenza n. 492/2018).
Allo stesso modo, se il RUP –perché magari ciò è previsto
in un regolamento interno della stazione appaltante o in un
indirizzo di tipo generale, ad esempio fissato dal
dirigente/responsabile del servizio o dal piano di
prevenzione della corruzione– intendesse utilizzare la
rotazione, naturalmente, dovrà specificare nell’avviso che
il pregresso affidatario non verrà invitato né verranno
invitati i soggetti che siano già stati invitati al
pregresso procedimento (sempre che il contratto da affidare
sia “uguale” e si tratti di evitare, in sostanza, una
scorretta continuità di affidamenti).
Correttamente, nel quesito si pone l’ulteriore questione –non disciplinata da norme (ma come si vedrà già affrontata
in giurisprudenza)– del caso in cui manifestino interesse a
partecipare alla gara un numero esiguo di operatori
economici (e magari lo stesso pregresso affidatario).
Il problema, in questo caso, è comprendere se il RUP debba
estendere ulteriori inviti fino a giungere al numero minimo
di appaltatori imposto dalla norma (nel caso del quesito)
fino a 5 operatori o se un numero esiguo possa ritenersi
sufficiente con conseguente invito solamente ai soggetti che
hanno aderito alla richiesta di manifestazione di interesse.
La prima considerazione che occorre esprimere è quella di
verificare in che modo ci si sia auto- vincolati con
l’avviso pubblico.
E’ chiaro che se il RUP avesse scritto nell’avviso che a
fronte di un numero esiguo di manifestazioni di interesse si
sarebbe proceduto con ulteriori inviti in modo da impiguare
la partecipazione fino al numero minimo degli appaltatori
fissati dalla legge, a questo occorrerà attenersi.
Se invece il RUP nulla ha specificato, la stessa
giurisprudenza ha chiarito che l’appalto semplificato si può
svolgere con i soli soggetti che abbiano manifestato
interesse anche se sono in numero inferiore al minimo
fissato dalla norma (la sentenza del Tar Cagliari sopra
citata).
In sostanza, è come se il mercato avesse espresso solamente
quei soggetti e non risulta possibile reperirne ulteriori
(sempre che l’avviso sia stato pubblico per un termine
congruo e siano stati rispettati i principi di trasparenza e
pubblicità).
Pertanto, salvo limitazioni interne (poste nell’avviso o in
specifici regolamenti), qualora un numero minimo di
appaltatori abbia manifestato interesse (meno di 5)
l’appalto potrà essere svolto invitando solo questi
soggetti.
Se il RUP avesse indicato nell’avviso l’intendimento di
applicare il principio di rotazione si pone il problema del
rispetto di tale indicazione in presenza di un numero
irrisorio di partecipanti.
Anche in questo caso la giurisprudenza ha chiarito che in
presenza di un numero minimo di operatori il RUP può non
applicare la rotazione e non estromettere, ad esempio, il
pregresso affidatario che abbia manifestato interesse a
partecipare alla gara semplificata. Le ragioni che
legittimano questo comportamento poggiano sul fatto che
estromettendo la pregressa affidataria viene meno il
principio della concorrenza.
Alla luce di quanto evidenziato, sotto il profilo pratico,
si ritiene che nell’avviso debba essere precisato, in caso
si ritenesse di applicare il principio della rotazione, che
l’alternanza verrà applicata solo se il numero dei soggetti
che manifestassero interesse a partecipare alla competizione
è superiore a 5. Precisando anche che nel caso di un numero
inferiore non si darà seguito –per ragioni di concorrenza–
alla rotazione
(13.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Pubblicazione
dati spese rappresentanza.
Domanda
In quale sotto-sezione di Amministrazione trasparente vanno
pubblicate le spese di rappresentanza sostenute dagli organi
di governo, del comune?
Risposta
Nel decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, anche nella
versione ampiamente modificata e integrata dal d.gs. 25.05.2016, n. 97, non compare mai la locuzione “spese di
rappresentanza”, né la medesima voce è presente nel
cosiddetto Albero della trasparenza, approvato, da ultimo,
dall’ANAC, come allegato 1, alla deliberazione n. 1310 del
28.12.2016.
L’obbligo di pubblicare le spese di rappresentanza,
sostenute dagli organi di governo degli enti locali, è
previsto all’articolo 16, comma 26, del decreto legge 13.08.2011, convertito, con modificazioni ed integrazioni,
dalla legge 14.09.2011, n. 148.
Il testo della disposizione recita: "26. Le spese di rappresentanza sostenute dagli organi di
governo degli enti locali sono elencate, per ciascun anno,
in apposito prospetto allegato al rendiconto di cui
all’articolo 227 del citato testo unico di cui al decreto
legislativo n. 267 del 2000. Tale prospetto è trasmesso alla
sezione regionale di controllo della Corte dei conti ed è
pubblicato, entro dieci giorni dall’approvazione del
rendiconto, nel sito internet dell’ente locale. Con atto di
natura non regolamentare, adottato d’intesa con la
Conferenza Stato-città ed autonomie locali ai sensi
dell’articolo 3 del decreto legislativo 28.08.1997, n.
281, il Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze, entro novanta giorni dalla
data di entrata in vigore del presente decreto, adotta uno
schema tipo del prospetto di cui al primo periodo.".
In pratica, il prospetto delle spese sostenute deve
risultare nel rendiconto di gestione, approvato entro il 30
aprile dell’anno successivo, dal Consiglio comunale. Il
prospetto deve essere trasmesso alla Sezione regionale della
Corte dei conti e pubblicato entro dieci giorni
dall’approvazione, su: Amministrazione trasparente > Bilanci >
Bilancio preventivo e consuntivo.
Il già citato allegato 1,
alla delibera ANAC n. 130/2016, per tale sezione prevede
l’obbligo di pubblicare “Documenti e allegati del bilancio
consuntivo, nonché dati relativi al bilancio consuntivo di
ciascun anno in forma sintetica, aggregata e semplificata,
anche con il ricorso a rappresentazioni grafiche” (art. 29,
comma 1, d.lgs. 33/2013) ed anche “Dati relativi alle
entrate e alla spesa dei bilanci consuntivi in formato
tabellare aperto in modo da consentire l’esportazione, il
trattamento e l’utilizzo” (art. 29, comma 1-bis, d.lgs.
33/2013).
Per completezza di informazione, si fa presente che in
attuazione dell’art. 29, comma 1-bis, del d.lgs. 33/2013, è
stato adottato il DPCM 22.09.2014, successivamente
modificato dal DPCM 29.04.2016, recante “Definizione
degli schemi e delle modalità per la pubblicazione su
internet dei dati relativi alle entrate e alla spesa dei
bilanci preventivi e consuntivi e dell’indicatore annuale di
tempestività dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni”.
In ultimo, si evidenzia che alcuni enti, oltre all’obbligo
sopra meglio ricordato, hanno previsto la pubblicazione del
prospetto delle spese di rappresentanza anche nella sezione
Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Dati
ulteriori. L’obbligo è sempre relativo ai dati degli ultimi
cinque anni
(12.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Gli acquisti.
DOMANDA:
Dalle tabelle consip emerge che per gli acquisti informatici
degli enti locali è possibile utilizzare il Mepa (strumenti
di acquisto messi a disposizione da Consip ecc.).
Si chiede se sia sufficiente procedere con rdo o gara
secondo gli importi sul Mepa.
Per quanto riguarda le convenzioni Consip su prodotti
diversi da forniture specifiche (carburanti, energia ecc) ad
esempio efficientamento pubblica illuminazione si chiede se
sia possibile aderire con eventuale personalizzazione senza
procedere a nuova gara.
RISPOSTA:
- Va ricordato che sul Mercato Elettronico della PA (MEPA) le
Amministrazioni possono acquistare beni o servizi di valore
inferiore alla soglia comunitaria tramite due alternativi
canali d’acquisto e cioè o tramite Ordini Diretti d’Acquisto
(ODA) o tramite Richieste di Offerta (RDO);
- Con gli ODA, l’Amministrazione acquista il bene/servizio
direttamente dal Catalogo del fornitore abilitato,
compilando e firmando digitalmente l’apposito modulo
d’ordine presente sul Portale;
- Se procede con l’Ordine Diretto questo ha l’efficacia di
accettazione dell’offerta contenuta nel Catalogo del
fornitore, e quindi il contratto di fornitura si perfeziona
nel momento in cui l’Ordine viene ricevuto e registrato nel
sistema dall’Amministrazione;
- La trattativa diretta si configura in sostanza come una modalità
di negoziazione, semplificata rispetto alla tradizionale RDO,
rivolta ad un unico operatore economico;
- Tale trattativa può essere peraltro avviata da un’offerta a
catalogo o da un oggetto generico di fornitura (metaprodotto)
presente nella vetrina della specifica iniziativa
merceologica;
- Quindi non sussistendo l’esigenza di garantire pluralità di
partecipazione, tale sistema non presenta le usuali e
tipiche richieste di informative (criterio di
aggiudicazione, parametri di peso/punteggio, invito dei
fornitori, gestione dei chiarimenti, gestione delle Buste di
Offerta, fasi di aggiudicazione), essendo indirizzata ad un
unico Fornitore (dal punto di vista normativo il fondamento
va individuato nella disciplina dell’affidamento diretto,
con procedura negoziata di cui ai sensi dell’art. 36, comma
2, lettera A) del codice dei contratti pubblici e della
procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando,
con un solo operatore economico, di cui all’art. 63 d.lgs.
50/2016 (per importi fino al limite della soglia comunitaria
nel caso di beni e servizi, per importi fino a 1 milione di
€ nel caso di lavori di manutenzione);
- Con le Richieste d’Offerta (RDO), invece, l’Amministrazione
individua e descrive i beni/servizi che intende acquistare,
invitando i fornitori abilitati a presentare le specifiche
offerte che saranno oggetto di confronto concorrenziale;
- Il sistema predispone automaticamente una graduatoria delle
offerte ricevute sulla base dei criteri di valutazione
scelti dall'Amministrazione appaltante, che aggiudicherà la
fornitura all'offerta risultata prima in graduatoria (in
particolare ai sensi dell’art. 52 delle Regole di
E-procurement della PA (disponibili sul Portale
www.acquistinretepa.it), il Contratto di fornitura che segue
ad una RDO si intende validamente perfezionato nel momento
in cui il Documento di Accettazione dell’Offerta,
sottoscritto digitalmente, risulta caricato a sistema
dall’ente aggiudicatore;
- Per quanto attiene all'altra problematica posta relativa all'efficientamento
del servizio di pubblica illuminazione si rileva che, come
osservato dall'ANAC, con il Comunicato del Presidente del
14.12.2016, trattasi di un servizio pubblico locale avente
rilevanza economica ed il cui affidamento, come tale,
risulta assoggettato alla disciplina comunitaria, mediante
procedure ad evidenza pubblica (cd. esternalizzazione),
attraverso l’appalto di lavori e/o servizi, la concessione
di servizi con la componente lavori, il project financing
ovvero il finanziamento tramite terzi (FTT);
- Resta salvo l’affidamento ad una società mista pubblico-privata,
nonché l’affidamento diretto a società a totale capitale
pubblico corrispondente al modello cd. in house providing;
- Inoltre, la scelta sulla gestione del servizio di pubblica
illuminazione deve essere preceduta dalla pubblicazione
della relazione di cui all’art. 34, comma 20, del D.L.
179/2012, da cui risultino le ragioni della sussistenza dei
requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di
affidamento prescelta (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Riproporzionamento
permessi.
Domanda
Come vanno riproporzionate nei part-time verticali le 18 ore
annue di permesso retribuito disciplinato all’art. 32 del
CCNL del 21.05.2018?
Risposta
L’articolo 32 del contratto sottoscritto il 21 maggio
scorso, disciplina i permessi orari per particolari motivi
personali o familiari, fruibili complessivamente nel tetto
massimo delle 18 ore annue. La norma precisa che questi
permessi non possono essere cumulati con altri permessi
orari disciplinati da fonte legale e/o contrattuale;
tuttavia, possono essere utilizzati anche per coprire
l’assenza dell’intera giornata lavorativa. In questo caso,
l’incidenza dell’assenza sul monte ore a disposizione del
dipendente è convenzionalmente pari a 6, prescindendo quindi
dal numero delle ore teoriche che il lavoratore avrebbe
dovuto rendere in caso di presenza in servizio.
Dettando le istruzioni di applicazione dell’istituto il
contratto precisa che detti permessi orari, in caso di
rapporto di lavoro a tempo parziale devono essere
riproporzionati.
Il contatto, nel definire la regola del riproporzionamento,
non opera alcuna distinzione tra rapporto di lavoro in
regime di part-time orizzontale e verticale. L’ipotesi
interpretativa volge a ritenere che il riproporzionamento
vada fatto non soltanto sul montante complessivo delle ore a
disposizione (se il part time è al 50% le ore di permesso
sono 9) ma anche sulla durata convenzionale della giornata
di lavoro di un part-time verticale, qualora venissero
fruiti per coprire l’assenza di una intera giornata
lavorativa.
Meno plausibile appare l’ipotesi interpretativa del
riproporzionamento dei corrispondenti tre giorni derivanti
dall’equivalenza 6h per 3 gg = 18h.
Questo in ragione del fatto che i permessi nascono come
permessi orari e non come permessi giornalieri
(07.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Dati
Comitato Unico di Garanzia CUG.
Domanda
Nel nostro Ente è stato da poco nominato il Comitato Unico
di Garanzia (CUG). In quale sezione di Amministrazione
Trasparente deve essere pubblicato il provvedimento di
nomina?
Risposta
Il “Comitato Unico di Garanzia per le pari opportunità,
la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le
discriminazioni” (acronimo: C.U.G.) opera all’interno
delle Amministrazioni al fine di garantire parità e pari
opportunità tra uomini e donne, oltre a verificare l’assenza
di ogni forma di discriminazione e di violenza, diretta e
indiretta, nell’accesso al lavoro, nel trattamento e nelle
condizioni di lavoro, nella formazione professionale, nelle
promozioni e nella sicurezza sul lavoro.
La normativa di riferimento (legge 04.11.2010, n. 183)
prevede che ciascuna Amministrazione istituisca –senza nuovi
o maggiori oneri per la finanza pubblica– il C.U.G. che
assume tutte le funzioni dei comitati per le pari
opportunità e dei comitati paritetici sul fenomeno del
mobbing, costituiti in applicazione della contrattazione
collettiva, sostituendoli ed unificando le competenze in un
solo organismo.
Analizzando il provvedimento di nomina del C.U.G.
–nell’ambito della disciplina sulla Trasparenza– ci si trova
di fronte ad un “dato residuale”, rispetto al novero
dei contenuti soggetti a precisi obblighi di pubblicazione,
definiti nel Decreto Trasparenza (decreto legislativo
33/2013).
Le modificazioni introdotte dal Decreto Legislativo 97/2017
hanno, infatti, rimosso una sotto sezione dedicata proprio a
questa tipologia di informazioni, denominata > BENESSERE
ORGANIZZATIVO.
In assenza di una sottosezione specifica, pertanto, il
provvedimento di nomina del C.U.G. può essere,
opportunamente, collocato in Amministrazione trasparente>
Altri contenuti > Dati ulteriori.
L’ANAC, sul punto, consiglia ad ogni Amministrazione di
pubblicare dati ulteriori oltre a quelli espressamente
indicati e richiesti dalla legge, in una logica di piena
apertura verso l’esterno. Tali contenuti ulteriori
dovrebbero essere previsti nell’ambito del Piano Triennale
per la Prevenzione della Corruzione e la Trasparenza (PTPCT)
(05.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Mancata
convocazione consiglio comunale straordinario. Applicazione
dell’art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000.
Sintesi/Massima
Convocazione consiglio comunale ex art.
39 del decreto legislativo n. 267/2000.
Il diritto ex art. 39, comma 2, " ... è tutelato in modo specifico dalla
legge con la previsione severa ed eccezionale della
modificazione dell'ordine delle competenze mediante
intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata
convocazione del consiglio comunale in un termine
emblematicamente breve di venti giorni” (TAR Puglia, Sez. 1,
25.07.2001, n. 4278).
Qualora l’intenzione dei proponenti non sia diretta a
provocare una delibera in merito del Consiglio comunale,
bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si
potrebbe ipotizzare, ai sensi dell’art. 42, comma 1, del
decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella
competenza del Consiglio comunale in qualità di “ … organo
di indirizzo e di controllo politico-amministrativo” anche
la trattazione di “questioni” che, pur non rientrando
nell’elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono
comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di “questioni” e
non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel
ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti
nella previsione del citato comma 2, dell’art. 42, non debba
necessariamente essere subordinata alla successiva adozione
di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Testo
E’ stato chiesto un parere in ordine all’applicazione
dell’art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000.
Alcuni consiglieri del comune in oggetto, in numero
superiore a un quinto, hanno segnalato la mancata
convocazione del consiglio da parte del vicesindaco, nella
veste di Presidente del consiglio comunale, malgrado fosse
stata presentata apposita istanza ai sensi del citato art.
39, comma 2.
Il presidente del consiglio ha riferito di non aver
provveduto alla convocazione dell’assemblea in quanto la
relativa istanza non risultava essere corredata da una
proposta di delibera, come richiesto dall’art. 24 del
regolamento per il funzionamento del consiglio comunale.
Al riguardo va rilevato che il diritto ex art. 39, comma 2,
"... è tutelato in modo specifico dalla legge con la
previsione severa ed eccezionale della modificazione
dell'ordine delle competenze mediante intervento
sostitutorio del Prefetto in caso di mancata convocazione
del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve
di venti giorni” (TAR Puglia, Sez. 1, 25.07.2001, n.
4278).
L'orientamento che vede riconosciuto e definito “... il
potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del
Consiglio medesimo” come “diritto” dal
legislatore è, quindi, ormai ampiamente consolidato
(sentenza TAR Puglia, Lecce, Sez. I del 04.02.2004, n. 124).
La questione sulla sindacabilità dei motivi che determinano
i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria
dell'assemblea, si è orientata nel senso che al Presidente
del Consiglio spetti solo la verifica formale della
richiesta prescritto numero di consiglieri, non potendo
comunque sindacarne l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è da tempo espressa
affermando che, in caso di richiesta di convocazione del
consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, “al
presidente del consiglio comunale spetta soltanto la
verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto
numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne
l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua
totalità la verifica circa la legalità della convocazione e
l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non
si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o
per legge manifestamente estraneo alle competenze
dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto
all'ordine del giorno” (TAR Piemonte, n. 268/1996, Tar
Sardegna, n. 718 del 2003 ).
Si soggiunge che il TAR Sardegna, con la sentenza n. 718 del
2003, ha respinto un ricorso avverso un provvedimento
prefettizio ex art. 39, comma 5, del citato decreto
legislativo in quanto, ad avviso del giudice amministrativo,
il Prefetto non poteva esimersi dal convocare d’autorità il
Consiglio Comunale, “essendosi verificata l’ipotesi di
cui all’art. 39 del T.U.O.E.L. n. 267/2000”.
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani
dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato
argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere
discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne debba
rinviare la discussione (questione sospensiva) (TAR Puglia,
Lecce, Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre TAR Puglia,
Lecce, Sez. 1, 04.02.2004,n.124).
Va peraltro rilevato che l’art. 43 del T.U.O.E.L. demanda
alla potestà statutaria e regolamentare dei Comuni e delle
province la disciplina delle modalità di presentazione delle
interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di
sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle
relative risposte, che devono comunque essere fornite entro
trenta giorni.
Con riguardo a quest’ultimo ambito, occorre osservare che,
qualora l’intenzione dei proponenti non sia diretta a
provocare una delibera in merito del Consiglio comunale,
bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si
potrebbe ipotizzare, ai sensi dell’art. 42, comma 1, del
decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella
competenza del Consiglio comunale in qualità di “…
organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo”
anche la trattazione di “questioni” che, pur non
rientrando nell’elencazione del comma 2 del medesimo art.
42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo. Del
resto, la dizione legislativa che parla di “questioni”
e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel
ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti
nella previsione del citato comma 2, dell’art. 42, non debba
necessariamente essere subordinata alla successiva adozione
di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Sulla base di tali argomentazioni, si ritiene, pertanto, che
il Prefetto sia tenuto alla applicazione della normativa
prevista dall’art. 39, comma 5, del decreto legislativo n.
267/2000, invitando il presidente del consiglio comunale a
voler provvedere alla convocazione dell’assemblea.
Si soggiunge, per completezza, che l’ente potrebbe valutare
l’opportunità di modificare l’art. 24 del regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale nella parte in cui
prevede che la richiesta di convocazione sia corredata da
uno “schema di deliberazione”. Ciò in quanto la
normativa in parola, limitando all’esame delle “deliberazioni”
la possibilità di accedere all’istituto previsto dall’art.
39, comma 2, citato, restringe il perimetro dei diritti
riconosciuti ai consiglieri comunali dalla legge statale.
Infine, si precisa che l’adozione da parte dell’ente locale
di una specifica normativa regolamentare in materia di atti
di sindacato ispettivo non impatta in alcun modo sul diverso
istituto disciplinato dall’art. 39 citato dal momento che
quest’ultimo riguarda atti esercitabili da un quinto dei
consiglieri mentre il diritto di presentare interrogazioni,
mozioni o ordini del giorno è riconosciuto al consigliere
comunale anche singolarmente
(01.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Previsione
turno spezzato.
Domanda
Nell’ambito di un’organizzazione del lavoro per turni, può
essere istituito un turno spezzato?
Risposta
Le modalità di turnazione dei dipendenti degli enti locali
sono contenute nell’art. 22 del CCNL del 14.09.2000 ed i
primi quattro commi ne disciplinano l’effettiva ricorrenza:
“1. Gli enti, in relazione alle proprie esigenze
organizzative o di servizio funzionali, possono istituire
turni giornalieri di lavoro. Il turno consiste in
un’effettiva rotazione del personale in prestabilite
articolazioni giornaliere.
2. Le prestazioni lavorative svolte in turnazione, ai fini
della corresponsione della relativa indennità, devono essere
distribuite nell’arco del mese in modo tale da far risultare
una distribuzione equilibrata e avvicendata dei turni
effettuati in orario antimeridiano, pomeridiano e, se
previsto, notturno, in relazione alla articolazione adottata
nell’ente.
3. I turni diurni, antimeridiani e pomeridiani, possono
essere attuati in strutture operative che prevedano un
orario di servizio giornaliero di almeno 10 ore.
4. I turni notturni non possono essere superiori a 10 nel
mese, facendo comunque salve le eventuali esigenze
eccezionali o quelle derivanti da calamità o eventi
naturali. Per turno notturno si intende il periodo
lavorativo ricompreso tra le 22 e le 6 del mattino”.
Il turno consiste perciò in un’effettiva rotazione del
personale in prestabilite articolazioni giornaliere
dell’orario di lavoro, che presuppongono l’esistenza di una
programmazione dei turni di lavoro.
Tali articolazioni giornaliere dell’orario di lavoro,
secondo una sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza n.
8254/2010), per dar luogo all’erogazione della relativa
indennità devono avere le seguenti caratteristiche generali,
contemporaneamente ricorrenti:
a) un orario di servizio di almeno 10 ore;
b) l’orario di servizio deve essere continuativo e non può
prevedere interruzioni;
c) distribuzione equilibrata e avvicendata dei turni nell’arco del
mese.
La condizione di cui alla lettera b) –un orario di servizio
continuativo che non può prevedere interruzioni– contenuta
nella citata sentenza della Corte Cassazione, non è
rinvenibile nella lettera dell’art. 22 del CCNL del
14.09.2000, ed è possibile desumerla solo in via
interpretativa.
Di recente l’ARAN ha pubblicato un parere (RAL_1968)
confermando l’orientamento della Cassazione, ripercorrendo
le condizioni legittimanti la corresponsione dell’indennità
di turno, e ribadendo l’impossibilità di ricondurre alla
disciplina del turno la fattispecie del cosiddetto “turno
spezzato” sulla base del presupposto che l’effettiva
rotazione tra i turni è garantita a condizione che non via
sia soluzione di continuità tra un turno e l’altro e che gli
stessi siano continuativi.
Disciplina peraltro confermata nell’art. 23, comma 3, lett.
b), del contratto collettivo la cui ipotesi è stata
sottoscritta il 21.02.2018
(31.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Diritto
di accesso dei consiglieri comunali.
Sintesi/Massima
Al consigliere comunale che abbia
difficoltà di accesso alla strumentazione informatica non
potrebbe negarsi il rilascio anche di copie cartacee
(conforme, parere C.d.S. 02183/2014 del 27/06/2014) di atti
che non siano complessi e voluminosi.
E’ legittima l’eventuale previsione di disposizioni che
consentono l’utilizzo da parte dei consiglieri di
apparecchiature di proprietà dell’Ente, al fine proprio di
agevolare il corretto svolgimento delle funzioni
istituzionali.
Testo
Due consiglieri del Comune di …, lamentando la presunta
illegittimità delle modifiche introdotte nel nuovo
regolamento del Consiglio comunale in materia di diritto al
rilascio di copie di atti e documenti in favore dei
consiglieri, hanno chiesto un parere da parte di questa
Direzione Centrale sia in ordine alla legittimità del
rifiuto dell’Amministrazione di consegnare i documenti in
formato cartaceo e sia all’obbligo per l’Ente di fornire la
strumentazione informatica al consigliere che ne faccia
richiesta.
Al riguardo, si evidenzia che il “diritto di accesso”
dei consiglieri comunali riconosciuto dall’art. 43 del
decreto legislativo n. 267/2000, deve avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici
comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono
fissate nel regolamento dell’ente) e non deve sostanziarsi
in richieste assolutamente generiche ovvero meramente
emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di
tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente
vagliata in concreto al fine di non introdurre
surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso
(Consiglio di Stato, sez. V, n. 6963/2010).
Proprio al fine di evitare che le continue richieste di
accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria
attività amministrativa dell'ente locale, la Commissione per
l’accesso ai documenti amministrativi ha riconosciuto la
possibilità per il consigliere comunale di avere accesso
diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del
Comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr.
parere del 29.11.2009). Inoltre, appare utile segnalare che
il Tribunale Amministrativo Regionale della Sardegna con la
sentenza n. 29/2007 ha ritenuto che “la notevole mole
della documentazione da consegnare può, nel caso,
giustificare la distribuzione nel tempo del rilascio delle
copie richieste”.
Qualora si tratti di esibire documentazione complessa e
voluminosa, appare, altresì, legittimo il rilascio di
supporti informatici al consigliere, o la trasmissione
mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee
(v. C.d.S. n. 6742/07 del 28/12/2007).
Tale modalità è conforme alla vigente normativa in materia
di digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto
legislativo n. 82 del 07.03.2005), che all'art. 2, prevede
che anche “le autonomie locali assicurano la
disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la
conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità
digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine
utilizzando con le modalità più appropriate e nel modo più
adeguato al soddisfacimento degli interessi degli utenti le
tecnologie dell'informazione e della comunicazione”.
Rilevata, dunque, la legittimità delle norme regolamentari
che dispongono il rilascio di copie degli atti in formato
digitale, parimenti, dovendosi garantire il diritto ad
esercitare la propria funzione, al consigliere comunale che
abbia difficoltà di accesso alla strumentazione informatica
non potrebbe negarsi il rilascio anche di copie cartacee
(conforme, parere C.d.S. 2183/2014 del 27/06/2014) di atti
che, comunque, ad avviso di questa Direzione Centrale, non
siano complessi e voluminosi.
Parimenti, in virtù dell’art. 38, comma 2 del d.lgs. n.
267/2000 che, tra l’altro, riconosce autonomia funzionale e
organizzativa ai consigli, i quali con norme regolamentari
fissano le modalità per acquisire servizi, attrezzature e
risorse finanziarie, anche in favore dei gruppi consiliari
regolarmente costituiti, appare legittima l’eventuale
previsione di disposizioni che consentono l’utilizzo da
parte dei consiglieri di apparecchiature di proprietà
dell’Ente, al fine proprio di agevolare il corretto
svolgimento delle funzioni istituzionali
(30.05.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
APPALTI: Rotazione
e appalto quantitativamente diverso.
Domanda
Come RUP sto predisponendo un avviso a manifestare interesse
per l’aggiudicazione di un appalto di servizi ed ora sto
affrontando la questione della rotazione. L’appalto, tengo a
precisare, non è identico al precedente, nel senso che pur
avendo lo stesso oggetto in questo caso sarà triennale (e
non più annuale).
Studiando la recente giurisprudenza, alcuni commenti e,
soprattutto le linee guida n. 4 –come recentemente
modificate– ho qualche dubbio sull’applicazione “integrale”
della rotazione. In sostanza, vorrei capire se posso
effettivamente escludere anche dalla partecipazione a
manifestare interesse l’attuale affidataria (l’appalto scade
tra qualche settimana) o se, con una debita motivazione
posso ammetterne la partecipazione.
Risposta
Effettivamente, la questione della rotazione o
dell’alternanza dell’affidatario e degli inviti è tutt’altro
che chiarita anche con le nuove linee guida n. 4 (adeguate
con la recente deliberazione ANAC n. 206/2018).
Le deroghe, infatti ed a ben vedere, sembrano comunque
rimesse alla necessità di adottare un regolamento (o al
limite un indirizzo generale) o alla formalizzazione delle
cc.dd. fasce di importo (nel caso di appalti uguali o
riconducibili allo stesso settore).
Al netto di queste ipotesi sembra farsi strada in
giurisprudenza –in particolare quella recentissima– una
importante indicazione operativa desumibile dalle stesse
linee guida ma anche dal dato esperienziale pratico.
Se il procedimento contrattuale si atteggia come aperto
senza limitazione alcuna (e quindi senza riferimento alla
rotazione) e tutti i soggetti che abbiano manifestato
interesse vengano invitati a partecipare alla competizione,
motivando quindi anche l’invito al pregresso affidatario
(con riferimento alla struttura del mercato) la competizione
può svolgersi anche con il precedente appaltatore e questi
–se presenta una offerta migliore– può anche aggiudicarsi
l’appalto.
Il RUP, e questo è fondamentale, se non stabilisce a monte
del procedimento (già in fase di avviso o di inviti) alcun
vincolo circa l’alternanza non potrà sollevarla
successivamente in fase di aggiudicazione (di recente il Tar
Sardegna, Cagliari, sezione I, con la sentenza del
22.05.2018 n. 492).
Venendo al caso specifico di un mutamento di tipo “quantitativo”
ovvero un nuovo appalto triennale (mentre quello precedente
era di durata annuale), ovviamente di diverso importo,
l’ipotesi sembrerebbe rientrare nella deroga delle fasce di
importo che, a leggere dalle linee guida sembrano esigere un
atto “generale” della stazione appaltante (declinate
in un regolamento ad esempio).
E questa posizione sembra anche condivisibile perché non si
può pensare che ogni RUP decida discrezionalmente come
atteggiare la competizione e quindi, a piacimento applicare
o disattendere la rotazione.
Anche in questo caso sopravviene, però, recente
giurisprudenza che sembra considerare il nuovo appalto, che
differisca sotto il profilo “quantitativo” rispetto
al precedente a stesso oggetto, come un gara diversa
circostanza che di per sé finisce per rendere illegittima
l’eventuale inibizione alla partecipazione del pregresso
appaltatore. In questo senso si è espresso il Tar Friuli
Venezia Giulia, sez. I, con la sentenza n. 166/2018.
Nel caso di specie, si trattava di appalto (ex art. 36 del
codice) per la “concessione biennale del servizio di
somministrazione bevande/merende a favore dei dipendenti
INPS FVG e di uso dello spazio pubblico presso alcune Sedi
INPS FVG, mediante acquisizione in comodato d’uso di
molteplici distributori automatici”. Il precedente
appalto riguardava solo alcune sedi regionali (con 7
distributori) mentre il nuovo appalto, relativo ad un
territorio più ampio prevedeva il servizio con 22
distributori.
La stazione appaltante non ha ammesso in gara il precedente
appaltatore ed il giudica ha annullato tale decisione
fondandola proprio sulla differenza tra i due contratti.
In sostanza, dalla sentenza emergono nuovi limiti
all’attività istruttoria del RUP che può applicare
integralmente la rotazione solo per evitare la continuità di
affidamenti che si pongano come una costante “rinnovazione”
dello stesso contratto.
Nel caso di specie, pertanto, a sommesso parere si può
ritenere che l’inibizione alla partecipazione alla gara del
pregresso appaltatore possa ritenersi non corretta. Sempre
che venga assicurata la totale partecipazione di ogni
soggetto che possa avere interesse a partecipare all’appalto
semplificato
(30.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
PATRIMONIO: Devoluzione
del patrimonio sociale a scopi di pubblica utilità.
Le società espressione del
“cooperativismo sociale” hanno l’obbligo di prevedere nei
propri statuti la devoluzione, in caso di scioglimento della
società, dell’intero patrimonio sociale –dedotto soltanto il
capitale versato e i dividendi eventualmente maturati– a
scopi di pubblica utilità conformi allo spirito
mutualistico.
Il Comune, nel riferire di essere proprietario di un
immobile allo stesso trasferito da una società in
liquidazione, chiede un parere circa la destinazione a
pubblica utilità del bene stesso, atteso l’onere posto
nell’atto di trasferimento della proprietà immobiliare in
riferimento.
Più in particolare, ai fini di chiarire la situazione in
essere, precisa di avere ricevuto, nell’anno 1997, da una
società “latteria sociale turnaria”, ormai sciolta e
posta in liquidazione, a titolo di devoluzione del
patrimonio sociale, un immobile con l’obbligo, espressamente
indicato nel contratto di cessione, “di destinare il bene
a pubblica utilità e in particolare a sede delle varie
associazioni culturali, sportive, ricreative e simili”.
Tanto premesso, l’Ente riferisce di aver concesso una parte
dell’indicato fabbricato in favore delle associazioni
culturali, sportive e ricreative locali e che ulteriori sale
del medesimo immobile sono state destinate ad uso civico e
centro di aggregazione giovanile attrezzato, nonché
all’occorrenza, quale luogo per seggi elettorali.
Nel precisare di aver soddisfatto “tutte le richieste di
locali per gli scopi sociali di cui sopra”, l’Ente
avrebbe intenzione di locare una unità abitativa del
fabbricato in riferimento, utilizzando le somme che
percepirebbe a titolo di canone per “recuperare almeno in
parte i costi di gestione e manutenzione che l’immobile
richiede”. Desidera, a tal fine, sapere se una tale
volontà contrasti o meno con l’onere apposto nell’atto di
devoluzione.
In via preliminare, si osserva che i pareri espressi da
questo Ufficio in materia giuridico-amministrativa sono
privi di qualsiasi efficacia vincolante. In particolare, con
riferimento alla fattispecie in essere giova da subito
precisare che, ferme le considerazioni che nel prosieguo
verranno espresse, l’interpretazione delle clausole
contrattuali compete unicamente alle parti contraenti o, in
caso di contestazione, all’autorità giudiziaria
eventualmente adita.
Tutto ciò premesso, si osserva che le società espressione
del “cooperativismo sociale” hanno l’obbligo di
prevedere nei propri statuti la “devoluzione, in caso di
scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale
–dedotto soltanto il capitale versato e i dividendi
eventualmente maturati– a scopi di pubblica utilità conformi
allo spirito mutualistico” [1].
La finalità delle norme volte a porre tale vincolo di
destinazione al patrimonio residuo di tali società è stata
concordemente identificata in quella di “garantire che i
benefici conseguiti grazie alle agevolazioni previste per
incentivare lo scopo mutualistico non siano destinati allo
svolgimento di un’attività priva di tale carattere e,
comunque, non siano fatti propri da coloro che ne hanno
fruito” [2].
Al contenuto dell’obbligo di devoluzione è stata fornita una
interpretazione ampia “comprensiva di tutti i casi nei
quali sussisteva l’esigenza di evitare che benefici
conseguiti grazie alle agevolazioni stabilite in favore
dell’attività mutualistica fossero eterodestinati rispetto a
questo scopo” [3].
Ciò premesso, pare che la finalità -di destinazione a
pubblica utilità del bene- che la disposizione contrattuale,
attuativa di norme di legge, mira a realizzare possa
considerarsi non disattesa qualora una parte dell’immobile
venga concessa in locazione col vincolo della destinazione
delle somme riscosse a titolo di canone locatizio per
sopperire alle spese di gestione e manutenzione del
fabbricato medesimo.
Infatti, una volta che l’Ente abbia concesso i locali a
vantaggio delle associazioni indicate, in modo tale da
soddisfare pienamente le esigenze delle stesse per gli scopi
sociali in argomento, si è dell’avviso che la destinazione a
pubblica utilità delle rimanenti parti dell’immobile in
oggetto possa avvenire anche indirettamente, consentendo,
con i proventi della locazione, di mantenere i locali
medesimi in uno stato di funzionalità e di decoro tali da
migliorarne l’utilizzo da parte delle associazioni stesse.
Si consideri, altresì, che la disposizione contrattuale che
impone l’onere all’atto di devoluzione del bene in
riferimento [4]
utilizza una formulazione ampia, atteso che la stessa,
nell’individuare le possibili forme di utilizzo del bene per
pubblica utilità, individua in termini meramente
esemplificativi e non tassativi –come è confermato
dall’utilizzo dell’inciso “in particolare”
[5]– le
possibili modalità di utilizzo dei locali in oggetto.
---------------
[1] In questo senso si veda l’articolo 26 del D.Lgs.
C.P.S. 14.12.1947, n. 1577.
[2] Corte Costituzionale, sentenza 19-23.05.2008, n. 170.
[3] Corte Cost., sentenza n. 170 del 2008.
[4] La quale, si ribadisce, prevede l’obbligo di “destinare
il bene a pubblica utilità e in particolare a sede delle
varie associazioni culturali, sportive, ricreative e
simili”.
[5] Tale espressione linguistica viene usata di norma nei
casi in cui si voglia fornire un’elencazione meramente
esemplificativa e non tassativa delle fattispecie da
ricomprendere. Si veda, ad esempio, “Regole e suggerimenti
per la redazione dei testi normativi”, Manuale per le
Regioni promosso dalla Conferenza dei Presidenti delle
Assemblee legislative delle Regioni e delle Province
autonome, dicembre 2007, pag. 26 ove si afferma che «il
carattere esemplificativo di un’enumerazione si esprime
attraverso l’uso di locuzioni quali “in particolare”, “tra
l’altro”»
(29.05.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Adempimenti
nuovo CCNL.
Domanda
A seguito della stipula definitiva del CCNL Funzioni locali,
ci sono obblighi particolari di pubblicazione di qualche
documento, nel sito web dell’ente, nella sezione
Amministrazione trasparente?
Risposta
In ordine di tempo, il primo obbligo a cui l’ente deve dare
adempimento è la pubblicazione nella sezione Amministrazione
trasparente > Disposizioni generali > Atti generali, del
codice disciplinare, composto dagli articoli da 55 a
55-novies, del d.lgs. 165/2001, integrato dagli articoli da
57 a 63 del CCNL Funzioni locali del 21.05.2018.
L’obbligo deve essere assolto entro 15 giorni dalla data di
stipulazione del CCNL ed è previsto dalle seguenti
disposizioni:
• articolo 55, comma 2, ultimo periodo, del d.lgs. 30.03.2001, n.
165;
• articolo 59, commi 11 e 12, del CCNL;
• articolo 12, comma 1, del d.lgs. 14.03.2013, n. 33.
In aggiunta –ma senza imposizione di legge– potrebbe essere
opportuno consegnare copia del codice disciplinare anche al
personale dipendente dell’ente, utilizzando, ove possibile,
la casella e-mail dell’ufficio di appartenenza.
Si ricorda, infine, che la pubblicazione sul sito
istituzionale dell’amministrazione del codice disciplinare,
con l’indicazione delle infrazioni e relative sanzioni,
equivale a tutti gli effetti alla sua affissione
all’ingresso della sede di lavoro
(29.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Oggetto: Codice antimafia. Richiesta di informazioni ai
sensi dell’art. 91 del d.lgs. 06.09.2011, n. 159. Quesito
(Ministero dell'Interno,
nota
25.05.2018 n. 11001/119/20(8)-A di prot.). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Retribuzione posizione e convenzione tra enti.
Domanda
Con il nuovo CCNL sono cambiate le regole per il calcolo
della retribuzione di posizione in caso di convenzione tra
enti. Potreste riassumerci lo stato attuale delle cose, con
particolare riferimento ai limiti esistenti?
Risposta
L’istituto del cosiddetto “scavalco condiviso” è
disciplinato dall’art. 14 del CCNL 22.01.2004 e ad esso
occorre riferirsi, in modo scrupoloso, per una corretta
applicazione dei vari istituti in esso contemplati. Nel CCNL
per il comparto Funzioni locali, firmato il 21/05/2018
(consultabile nel sito web dell’ARAN) la questione viene
trattata –con conferma delle disposizioni sopra meglio
richiamate– nell’art. 17, commi 6 e 7, relativamente al
personale incarico di Posizione organizzativa.
Premesso quanto segue, si ricorda che:
• in caso di convenzione tra enti, ex art. 14 CCNL 2004, occorre
acquisire, in via preventiva l’assenso del dipendente. La
convenzione deve essere approvata, nel medesimo testo, da
parte di tutti gli enti aderenti all’accordo e stipulata
dopo la formale approvazione delle deliberazioni;
• ogni ente (comma 1, secondo periodo) è tenuto a coprire la spesa
relativa alle ore di utilizzo del dipendente per le proprie
finalità.
• l’ente di provenienza “A” continua a corrispondere, per intero,
al suo dipendente il trattamento economico spettante in base
alla categoria e livello retributivo (Progressioni
economiche, RIA, eccetera), incamerando le somme rimborsate
da ciascuno dei comuni convenzionati;
• per ciò che riguarda il trattamento accessorio del dipendente, si
applicano i commi 4, 5 e 7, dell’art. 14, laddove si
specifica che ogni ente dovrà far fronte alla somma di
spettanza, rimborsando all’ente “A” –che eroga le somme– la
propria quota. E’ chiaro che –in via preventiva– potrà
essere rivista la “pesatura” della Posizione
organizzativa, secondo quanto previsto dall’art. 10, comma
2, del CCNL 31/03/1999 e dall’articolo 15, comma 2, del CCNL
2018.
Per quanto riguarda, inoltre, il calcolo della spesa del
salario accessorio, ai fini del rispetto dell’art. 23, comma
2, del d.lgs. 75/2017, per un principio di logica e
razionalità, si ritiene che la quota di retribuzione di
posizione e di risultato, “rimborsata” dai comuni, non vada
calcolata nel “tetto di spesa” dell’ente “A”, mentre
dovrà essere calcolata dai comuni “utilizzatori” nel
proprio tetto, riferito all’anno 2016.
Si specifica, infine, che la quota rimborsata va conteggiata
come aggregato di spesa di personale e non va conteggiata
come tetto per il lavoro flessibile, ex art. 9, comma 28,
d.l. 78/2010 (24.05.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Cartellini marcatempo e tutela privacy.
Domanda
Il nostro comune ha autorizzato un proprio dipendente a
prestare dodici ore settimanali di lavoro aggiuntive, presso
un ente piccolo, ex art. 1, comma 557, legge 311/2004.
Ai fini della verifica del rispetto delle 48 ore di lavoro,
abbiamo richiesto i cartellini marcatempo del nostro
dipendente, al secondo ente, il quale ci ha comunicato
l’impossibilità di fornirceli, per ragioni di “privacy”.
È corretto il diniego?
Risposta
Il rifiuto teso a non far acquisire dei documenti detenuti
da un ente locale ad un’altra PA, per lo svolgimento di
attività di verifica e controllo che riguardano l’utilizzo
congiunto di un dipendente che risulta giuridicamente
inquadrato nel primo ente, dovrebbe essere sempre
debitamente motivato, facendo riferimento alle norme in
materia di tutela dei dati personali delle persone fisiche
(d.lgs. 196/2003 – sino al 24.05.2018) e a norme, anche di
natura regolamentare, presenti nell’ente.
Non basta, infatti, invocare genericamente “ragioni di
privacy” per sottrarsi, negandolo, al diritto di
accesso.
Nel caso di specie, il comune “A” (titolare del rapporto)
chiedeva all’ente “B” di acquisire i cartellini marcatempo,
onde verificare il rispetto della durata media dell’orario
di lavoro, fissato in 48 ore settimanali, così come previsto
dall’art. 4, del d.lgs. 66/2003.
I dati richiesti (le timbrature da cui desumere l’orario di
lavoro settimanale) possono classificarsi come dati
personali “comuni”, non rinvenendosi in essi elementi
aventi natura di dato “sensibile” o dato “giudiziario”
che ne reclamano una diffusione limitata.
A parere di chi scrive, il comune “B” (ente utilizzatore)
avrebbe dovuto, accogliere la richiesta dell’ente “A”,
trasmettendo la documentazione richiesta, che sarebbe stata
utilizzata solamente per finalità “interne”, nel
rispetto delle norme in materia di segreto d’ufficio.
In aggiunta, va specificato che l’istituto utilizzato
(cosiddetto “scavalco di eccedenza”) prevede,
comunque, un raccordo tra i due enti, per ciò che concerne
la verifica sui giorni di riposo settimanale (art. 7, d.lgs.
66/2003); il godimento delle ferie (art. 10); la durata
massima dell’orario settimanale e le pause (art. 8): tutti
istituti a cui il lavoratore ha diritto, a prescindere dal
fatto che, il medesimo, svolga i suoi compiti presso due
enti locali (22.05.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
APPALTI:
Appalto di servizi. Costo del lavoro. Congruità dell’offerta
economica.
Secondo la giurisprudenza prevalente,
poiché le tabelle ministeriali riportano un costo del lavoro
medio, ricostruito su basi statistiche, i valori ivi
contenuti (eccezion fatta per i “minimi salariali
retributivi” o “trattamenti salariali minimi”, inderogabili
ex lege ai sensi dell’art. 97, commi 5 e 6, del D.Lgs.
50/2016) rappresentano solo un parametro di congruità
dell’offerta e non un limite inderogabile, e come tali sono
suscettibili di scostamento, in relazione a valutazioni
statistiche ed analisi aziendali evidenzianti una
particolare organizzazione in grado di giustificare la
sostenibilità di costi inferiori.
Il Comune rappresenta di aver indetto –per il tramite della
Centrale Unica di Committenza cui aderisce– una procedura
negoziata per l’affidamento del servizio di organizzazione e
gestione dei centri estivi comunali, di valore stimato
inferiore alla soglia di rilievo comunitario, da aggiudicare
con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo.
Poiché nel calcolo del costo orario del personale un
operatore economico avrebbe presumibilmente utilizzato la “media
effettiva di ore lavorate in base allo storico della propria
azienda” [1],
anziché –come indicato dalle altre ditte partecipanti alla
gara– le ore mediamente lavorate indicate nella tabella
ministeriale del pertinente settore di attività
[2], il
Comune, al fine di verificare la congruità dell’offerta
economica, chiede di conoscere se il ricorso a tale
parametro possa ritenersi corretto [3].
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa
Direzione centrale si esprimono le seguenti considerazioni.
Per risolvere la questione posta occorre, anzitutto,
richiamare il contenuto delle previsioni normative di
riferimento, tutte recate dal decreto legislativo
18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici).
L’art. 30, comma 3, stabilisce che nell’esecuzione degli
appalti pubblici gli operatori economici sono tenuti al
rispetto degli obblighi in materia sociale e del lavoro
stabiliti dalla normativa europea e nazionale, dai contratti
collettivi o da disposizioni internazionali
[4].
L’art. 95, comma 10, dispone che:
- nell’offerta economica l’operatore deve indicare i propri costi
della manodopera e gli oneri aziendali per l’adempimento
delle prescrizioni in materia di salute e sicurezza sui
luoghi di lavoro;
- relativamente ai costi della manodopera, le stazioni appaltanti,
prima di procedere all’aggiudicazione, verificano il
rispetto di quanto previsto dall’art. 97, comma 5, lett. d),
vale a dire che il costo del personale non sia inferiore ai
minimi salariali retributivi indicati nelle tabelle
richiamate dall’art. 23, comma 16.
Il predetto art. 23, comma 16, prevede –per quanto qui
rileva– che:
- il costo del lavoro è stabilito annualmente, in apposite tabelle,
dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sulla
scorta dei valori economici definiti dalla contrattazione
collettiva nazionale tra le organizzazioni sindacali e le
organizzazioni datoriali comparativamente più
rappresentative, delle disposizioni in materia previdenziale
ed assistenziale, dei vari settori merceologici e delle
diverse aree territoriali;
- in assenza di contratto collettivo applicabile, il costo del
lavoro è fissato facendo riferimento al contratto collettivo
del settore merceologico più vicino a quello considerato;
- fino all’adozione delle predette tabelle, continuano ad
applicarsi le disposizioni contenute nei decreti
ministeriali già emanati in materia;
- per determinare l’importo da porre a base di gara (dal cui ambito
vanno esclusi i costi della sicurezza, non essendo questi
assoggettabili a ribasso [5])
la stazione appaltante individua i costi della manodopera
sulla scorta delle predette indicazioni.
L’art. 97, comma 5, stabilisce che l’offerta è anormalmente
bassa –e deve, perciò, essere esclusa– qualora venga
accertato il mancato rispetto degli obblighi di cui all’art.
30, comma 3 o qualora il costo del personale risulti
inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle
tabelle richiamate dall’art. 23, comma 16.
L’art. 97, comma 6, chiarisce che non sono ammesse
giustificazioni volte a superare il sospetto di anomalia
dell’offerta in relazione a trattamenti salariali minimi
inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate
dalla legge.
Ciò posto si rappresenta che, sulla questione
dell’inderogabilità, o meno, dei valori contenuti nelle
tabelle ministeriali sul costo del lavoro (eccezion fatta
per i “minimi salariali retributivi” o “trattamenti
salariali minimi”, inderogabili ex lege ai sensi
del predetto art. 97, commi 5 e 6, del D.Lgs. 50/2016
[6]), la
giustizia amministrativa ha reso innumerevoli pronunce
(prevalentemente riferite alle analoghe disposizioni recate
dall’art. 86, comma 3-bis [7]
e dall’art. 87, commi 2, lett. g) [8]
e 3 [9]
del previgente decreto legislativo 12.04.2006, n. 163
[10]),
dalle quali si evincono posizioni non univoche.
Secondo un orientamento, che risulta minoritario, lo
scostamento dalle tabelle ministeriali costituisce un
indicatore automatico di anomalia [11],
o perlomeno un importante indice di anomalia dell’offerta,
che dovrà comunque essere verificata attraverso un giudizio
complessivo di rimuneratività [12].
Detto filone sostiene, in particolare, che «il costo del
lavoro è ritenuto indice di anomalia dell’offerta quando non
risultino rispettati i livelli salariali che la normativa
vigente –anche a base pattizia– rende obbligatori. Una
determinazione complessiva dei costi basata su un costo del
lavoro inferiore ai livelli economici minimi fissati
normativamente (o in sede di contrattazione collettiva) per
i lavoratori del settore può costituire, infatti, indice di
inattendibilità economica dell’offerta e di lesione del
principio della par condicio dei concorrenti ed è fonte di
pregiudizio per le altre imprese partecipanti alla gara che
abbiano correttamente valutato i costi delle retribuzioni da
erogare» [13].
Pertanto, in base a detta impostazione, un’offerta che si
discosti dai dati contenuti nelle tabelle ministeriali è
ammissibile solo se lo scostamento è minimo e debitamente
motivato in sede di verifica dell’anomalia
[14].
A tale orientamento si contrappone quello maggioritario, che
fonda il proprio convincimento sulla constatazione che le
tabelle ministeriali riportano un costo del lavoro medio,
ricostruito su basi statistiche, cosicché i valori ivi
contenuti rappresentano solo un parametro di congruità
dell’offerta e non un limite inderogabile.
L’indirizzo prevalente afferma, infatti, che «un’offerta
non può ritenersi anomala ed essere esclusa da una gara per
il solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato
secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle
ministeriali o dai contratti collettivi, occorrendo, perché
possa dubitarsi della sua congruità, che la discordanza sia
considerevole e palesemente ingiustificata»
[15].
Va, poi, segnalato che la giustizia amministrativa rileva
che:
- il costo del lavoro non è un costo standardizzato e uguale per
tutte le imprese, potendo esso variare in relazione
all’organizzazione del lavoro dell’impresa e all’efficienza
della stessa [16];
- una possibile differenza del costo del lavoro può essere
concretamente giustificata dalle diverse e particolari
situazioni aziendali e territoriali e dalla capacità
organizzativa dell’impresa che possono rendere possibile, in
determinati contesti particolarmente virtuosi, anche una
riduzione dei costi del lavoro [17].
Esaminando più propriamente l’elemento delle ore mediamente
lavorate, che costituisce l’oggetto del quesito che si
riscontra, si segnala che la giurisprudenza, dopo aver
evidenziato che nell’ambito di tale elemento sono compresi
eventi (quali malattie, infortuni e maternità) che non
rientrano nella disponibilità dell’impresa e che quindi, per
definizione, necessitano di stima di carattere prudenziale
[18],
afferma che:
- l’offerta contenente un numero di assenze del personale inferiore
a quello indicato nelle tabelle ministeriali, per essere
reputata affidabile, deve essere accompagnata da univoci
dati probatori [19];
- a fronte di un’offerta che espone una riduzione delle assenze dal
lavoro al di sotto della media prevista dalle tabelle
ministeriali, la stazione appaltante deve operare un’attenta
verifica di sostenibilità, alla luce, in particolare, delle
giustificazioni fornite dall’offerente [20];
- le tabelle ministeriali sul costo del lavoro esprimono soltanto
il costo medio della manodopera quale parametro di
riferimento né assoluto né inderogabile cosicché, svolgendo
esso una funzione meramente indicativa, suscettibile di
scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed
analisi aziendali evidenzianti una particolare
organizzazione in grado di giustificare la sostenibilità di
costi inferiori, è ben possibile discostarsi da tali valori,
in sede di giustificazioni dell’anomalia, sulla scorta di
una dimostrazione puntuale e rigorosa [21].
Secondo un Tribunale amministrativo regionale
[22],
invece, il monte delle ore annue mediamente non lavorate,
indicato nelle tabelle ministeriali, va interamente
computato.
Infatti –osserva quel giudice– poiché tali ore annue
mediamente non lavorate sono calcolate in base a dati
statistici a livello nazionale, in parte non suscettibili di
oscillazione [23]
ed in parte suscettibili di oscillazione
[24], il relativo
costo del lavoro non può essere ridotto facendo riferimento
alle statistiche della propria azienda, «in quanto tutte
le Tabelle Ministeriali prevedono la possibilità di ridurre
il costo del lavoro determinato soltanto in base ai benefici
contributivi e/o fiscali previsti dalla legge, ai benefici o
minori oneri derivanti dalla contrattazione collettiva ed
agli investimenti derivanti dall’applicazione della
normativa in materia di sicurezza del lavoro».
[25]
E, comunque –prosegue il TAR– anche se le componenti del
costo del lavoro indicate nelle tabelle ministeriali, che
esprimono valori medi (e non valori minimi inderogabili),
possono teoricamente essere stimate in riduzione, tali
operazioni non riescono a garantire in modo certo il
rispetto degli stessi valori minimi inderogabili stabiliti
dalla contrattazione collettiva e dalla normativa
previdenziale e/o assistenziale, atteso che la riduzione in
base alla statistica aziendale del costo del lavoro, con
riferimento sia all’andamento aziendale degli infortuni, sia
alle predette ore mediamente non lavorate, non poggerebbe su
dati che analizzano i vari fenomeni in modo complessivo e,
perciò, si presterebbe ad una più probabile variazione nel
breve periodo, che esporrebbe l’impresa offerente ad un
possibile aumento del costo del lavoro anche durante
l’esecuzione dell’appalto.
Occorre ora evidenziare che dalle già citate previsioni
dell’art. 97, commi 5 [26]
e 6 [27],
del D.Lgs. 50/2016 si ricava l’assoluta impossibilità, per
l’operatore economico, di formulare un’offerta che vada ad
intaccare i “minimi salariali retributivi” o “trattamenti
salariali minimi inderogabili”, stabiliti dalla legge o
da fonti autorizzate dalla legge.
L’art. 97, comma 5, del D.Lgs. 50/2016 dispone, infatti, che
la stazione appaltante –dopo aver ottenuto le spiegazioni
richieste al concorrente la cui offerta appare anomala–
esclude l’offerta medesima se ha accertato che questa «è
anormalmente bassa in quanto: […] d) il costo del personale
è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle
apposite tabelle di cui all’articolo 23, comma 16».
L’effetto espulsivo dalla gara di una siffatta offerta
[28], che
–si ribadisce– è anomala ex lege, è confermato dal
comma 6 del medesimo art. 97, secondo il quale sono
inammissibili giustificazioni aventi ad oggetto trattamenti
salariali minimi inderogabili previsti dalla legge o da
fonti autorizzate dalla legge.
Si segnala che la pluralità delle sentenze esaminate
[29] non
si sofferma su tale elemento o si limita a sostenere che
esso non è ricavabile dalle tabelle ministeriali
[30].
Invero, si ritiene che detto elemento sia rinvenibile al
primo rigo delle tabelle medesime, alla voce “minimi
contrattuali conglobati mensili”.
Ciò posto occorre, infine, osservare che il numero di ore
mediamente lavorate indicato nell’offerta cui il quesito fa
riferimento (1976) coincide con il numero di “Ore
teoriche (38 ore x 52 settimane)” di lavoro indicato
nella tabella allegata al decreto del Ministro del lavoro e
delle politiche sociali 02.10.2013.
Tale coincidenza consente di ipotizzare che l’offerta
potrebbe essere stata formulata non in considerazione della
media effettiva di ore lavorate in base allo storico
dell’azienda, bensì del predetto monte ore teorico.
Anche con riferimento al parametro da utilizzare per
elaborare correttamente l’offerta la giurisprudenza esprime
una posizione costante e consolidata, in base alla quale il
costo del lavoro a tal fine rilevante è solo quello medio ed
effettivo.
Viene, infatti, evidenziato che il costo orario medio
distinto per livelli e categorie è dato dal rapporto fra
costo annuo medio e ore annue mediamente lavorate e non dal
rapporto fra detto costo annuo e ore annue teoriche, giacché
non vi è corrispondenza biunivoca fra la determinazione del
trattamento economico (che deve tenere conto delle ore annue
teoriche, comprensive delle cause di assenza legittima dal
lavoro) e la determinazione del costo –per il datore di
lavoro– di un’ora effettivamente lavorata, che deve
includere, al proprio interno, anche la frazione di
retribuzione spettante per le ore annue mediamente non
lavorate, in quanto già preso in considerazione nel
trattamento annuo complessivo di ciascun lavoratore,
calcolato per categoria e livello [31].
Ne consegue che per il costo orario del personale, da
dimostrare in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta,
non va assunto a criterio di calcolo il “monte-ore
teorico”, comprensivo cioè anche delle ore medie annue
non lavorate (per ferie, festività, assemblee, studio,
malattia, formazione, etc.) di un lavoratore che presti
servizio per tutto l’anno, ma va considerato il “costo
reale” (o costo ore lavorate effettive, comprensive dei
costi delle sostituzioni), atteso che il costo tabellare
medio è indicativo di quello “effettivo”, che include
i costi delle sostituzioni cui il datore di lavoro deve
provvedere per ferie, malattie e tutte le altre cause di
legittima assenza del lavoratore [32].
Come si evince da una recente pronuncia
[33], la regola
trova applicazione anche nell’ipotesi in cui –come nel caso
oggetto di quesito– il servizio da affidare abbia durata
inferiore all’anno solare.
Trattando di un servizio da svolgere nel corso dell’anno
scolastico, il Consiglio di Stato afferma che «In sede di
gara pubblica, il costo orario del lavoro stimato a livello
ministeriale è quello sostenuto in via ordinaria
dall’impresa e, sulla base di un divisore ottenuto
sottraendo il tasso di assenza medio dal lavoro (per ferie,
festività, malattia, infortunio, gravidanza, ecc.),
rappresenta il costo reale per il datore di lavoro, benché
esso non coincida con le ore lavorate dal dipendente; si
tratta in altri termini del costo effettivo del lavoro, che
ingloba le ore comunque retribuite, anche se il dipendente
sia materialmente assente».
Il supremo giudice amministrativo precisa che anche
dall’esame della struttura della tabella ministeriale
risulta evidente che il costo sostenuto dal datore di lavoro
per determinate assenze del lavoratore, quali ferie e
festività, è comunque un costo ordinario e non, invece,
aggiuntivo per sostituzioni, in quanto tali assenze sono
comunque obbligatoriamente fruibili dal dipendente, mentre
per quanto riguarda altre cause (in particolare malattia,
infortunio, gravidanza) l’onere economico è assunto
dall’ente previdenziale competente [34].
Ma ciò –prosegue il giudice– non implica necessariamente che
il dato ministeriale sia immodificabile e vada applicato in
modo indistinto con riguardo a qualunque tipologia di realtà
imprenditoriale o di contratto: è dunque astrattamente
possibile la realizzazione di economie sul costo del lavoro,
ove si abbia riguardo al costo della specifica “commessa”.
Poiché, nella fattispecie esaminata dal Consiglio di Stato,
la realizzazione di economie sul costo del lavoro
deriverebbe dalla concentrazione del monte ferie annuo dei
dipendenti nei periodi di chiusura della scuola presso il
quale il servizio deve essere prestato, il giudice osserva
che tale organizzazione del lavoro, consentita dalla natura
del servizio da eseguire, si traduce in una riduzione
dell’onere economico imputabile a detta voce di spesa,
rispetto al dato medio previsto a livello ministeriale.
Pertanto –precisa il Consiglio di Stato– a fronte di un
servizio che deve essere prestato in un periodo non
coincidente sul piano temporale con l’anno solare, invece
preso a base dalla tabella ministeriale, il tasso medio di
assenza dal lavoro, ed in particolare per ferie, è
suscettibile di riduzione, senza alcun pregiudizio per i
diritti inviolabili del dipendente.
---------------
[1] Che dalla documentazione integrativa fornita
dall’Ente risulta essere pari a 1976 ore.
[2] Nel caso di specie, vedasi la tabella allegata al
decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali
02.10.2013 (Determinazione del costo orario del lavoro per
le lavoratrici ed i lavoratori delle cooperative del settore
socio-sanitario-assistenziale-educativo e di inserimento
lavorativo - Cooperative sociali).
[3] Il par. 17 del disciplinare di gara, dopo aver disposto
che la busta C contiene, oltre all’offerta economica, alcuni
elementi, tra i quali «la stima dei costi della manodopera,
ai sensi dell’art. 95, comma 10 del Codice» (dei contratti
pubblici), prevede, a mero titolo collaborativo, che alla
predetta offerta debbano essere allegati i prospetti
analitici del costo del personale (anche per le attività
retribuite a corpo) nei quali, «tenuto conto delle tabelle
pubblicate dal Ministero del lavoro e delle politiche
sociali, delle agevolazioni fiscali locali e/o della
contrattazione di secondo livello», viene esplicitato come è
stato ricavato il costo contrattuale del lavoro.
[4] Si veda l’Allegato X (Elenco delle convenzioni
internazionali in materia sociale e ambientale) al D.Lgs.
50/2016.
[5] Come dispone lo stesso art. 23, comma 16, all’ultimo
periodo.
[6] Di cui si tratterà più puntualmente in seguito.
[7] «Nella predisposizione delle gare di appalto e nella
valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di
affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di
forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che
il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al
costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il
quale deve essere specificamente indicato e risultare
congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei
lavori, dei servizi o delle forniture. Ai fini del presente
comma il costo del lavoro è determinato periodicamente, in
apposite tabelle, dal Ministro del lavoro e della previdenza
sociale, sulla base dei valori economici previsti dalla
contrattazione collettiva stipulata dai sindacati
comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia
previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori
merceologici e delle differenti aree territoriali. In
mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del
lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo
del settore merceologico più vicino a quello preso in
considerazione.».
[8] «Le giustificazioni possono riguardare, a titolo
esemplificativo: […] g) il costo del lavoro come determinato
periodicamente in apposite tabelle dal Ministro del lavoro e
delle politiche sociali, sulla base dei valori economici
previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai
sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme
in materia previdenziale e assistenziale, dei diversi
settori merceologici e delle differenti aree territoriali;
in mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo
del lavoro è determinato in relazione al contratto
collettivo del settore merceologico più vicino a quello
preso in considerazione.».
[9] «Non sono ammesse giustificazioni in relazione a
trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla
legge o da fonti autorizzate dalla legge.».
[10] «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE
e 2004/18/CE».
[11] Cfr. Cons. Stato – Sez. III, 13.10.2015, n. 4699.
[12] Cfr. Cons. Stato – Sez. VI, 21.07.2010, n. 4783.
[13] Così Cons. Stato – Sez. III, n. 4699/2015, cit..
[14] Cfr. Cons. Stato – Sez. IV, 05.08.2005, n. 4196; Sez.
V, 07.10.2008, n. 4847; Sez. VI, n. 4783/2010, cit..
[15] Così Cons. Stato – Sez. V, 30.03.2017 n. 1465. In senso
conforme: Sez. III, 02.03.2015, n. 1020, 03.07.2015, n.
3329, 19.10.2015, n. 4789, 09.12.2015, n. 5597, 17.06.2016,
n. 2685, 25.11.2016, n. 4989, 21.07.2017, n. 3623 e
13.03.2018, n. 1609; Sez. IV 22.03.2013, n. 1633 e
29.02.2016, n. 854; Sez. V 14.06.2013, n. 3314, 13.03.2014,
n. 1176, 24.07.2014, n. 3937, 18.06.2015, n. 3105,
06.02.2017, n. 501, 25.10.2017, n. 4916 e 18.12.2017, n.
5939; Sez. VI, 31.03.2017, n. 1495.
[16] Cfr. Cons. Stato – Sez. III, 10.02.2016, n. 589; Sez.
V, 12.06.2017, n. 2844.
[17] Cfr. Cons. Stato – Sez. III, 15.05.2017, n. 2252.
[18] Cfr. Cons. Stato – Sez. V, n. 1465/2017, cit..
[19] Cfr. Cons. Stato – Sez. V, 09.04.2015, n. 1813, il
quale precisa che si rende necessaria una doverosa verifica
in ordine al rispetto del vincolo di coerenza con le tabelle
anzidette, mediante la ricerca di una giustificazione
specifica e adeguata dello scostamento delle voci di costo
individuali dai relativi parametri.
[20] Cfr. Cons. Stato – Sez. V, n. 4916/2017, cit..
[21] Cfr. TAR Lazio–Roma, Sez. I-ter, 30.12.2016, n. 12873;
Sez. III-quater, 19.03.2018, n. 3081.
[22] Cfr. TAR Basilicata – Sez. I, 19.10.2005, n. 957,
05.03.2010, n. 104 e 04.07.2017, n. 457.
[23] Ferie, festività, riduzione orario contrattuale.
[24] Assemblee e permessi sindacali, diritto allo studio,
malattia, infortuni, maternità, ecc..
[25] Il D.M. 02.10.2013 stabilisce, all’art. 2, che: «La
tabella prescinde:
a) da eventuali benefici previsti da norme di legge di cui
l’impresa può usufruire;
b) dagli oneri derivanti dalla gestione aziendale e accordi di
secondo livello;
c) dagli oneri derivanti da specifici adempimenti connessi alla
normativa sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro
(Decreto legislativo 09.04.2008, n.81 e s.m.).».
[26] «La stazione appaltante richiede per iscritto,
assegnando al concorrente un termine non inferiore a
quindici giorni, la presentazione, per iscritto, delle
spiegazioni. Essa esclude l’offerta solo se la prova fornita
non giustifica sufficientemente il basso livello di prezzi o
di costi proposti, tenendo conto degli elementi di cui al
comma 4 o se ha accertato, con le modalità di cui al primo
periodo, che l’offerta è anormalmente bassa in quanto: […]
d) il costo del personale è inferiore ai minimi salariali
retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui
all’articolo 23, comma 16.».
[27] «Non sono ammesse giustificazioni in relazione a
trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla
legge o da fonti autorizzate dalla legge. […]».
[28] E ciò indipendentemente dalla congruità della stessa,
valutata nel suo complesso (cfr. TAR Calabria–Reggio
Calabria, 15.12.2016, n. 1315).
[29] Alcune delle quali sembrano impropriamente utilizzare
come sinonimi i termini riferiti a trattamenti salariali
minimi obbligatori e quelli concernenti valori previsti
dalle tabelle ministeriali.
[30] Cfr. TAR Lazio–Roma, Sez. I-ter, n. 12873/2016, cit.;
TAR Trentino Alto Adige–Bolzano, 30.10.2017, n. 299.
[31] Cfr. Cons. Stato – Sez. III, 13.12.2013, n. 5984; Sez.
V, 24.08.2006, n. 4969.
[32] Cfr. Cons. Stato – Sez. III, n. 1020/2015, cit.; Sez.
V, 12.06.2017, n. 2815; TAR Emilia Romagna–Bologna, Sez. I,
19.12.2017, n. 854; TAR Lombardia–Milano, Sez. IV,
23.01.2018, n. 185. Il TAR Lombardia puntualizza che occorre
fare riferimento al costo medio effettivo, corrispondente al
costo realmente sostenuto dal datore di lavoro e non ad un
costo meramente teorico, rilevando che il ricorso a
quest’ultimo parametro «consente la formulazione di
un’offerta economica apparentemente più competitiva, ma in
realtà totalmente sviata ed anomala».
[33] V. Cons. Stato – Sez. V, 04.12.2017, n. 5700.
[34] Cfr. Cons. Stato – Sez. III, 02.03.2017, n. 974 e n.
3623/2017, cit. (18.05.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Composizione
delle Commissioni consiliari permanenti. Impossibilità
insediamento.
Sintesi/Massima
Commissioni consiliari permanenti.
E’ stato chiesto un parere in merito alla impossibilità di
insediamento delle commissioni consiliari a causa della
mancata designazione dei rappresentanti di uno dei due
gruppi di minoranza presenti in consiglio.
Al riguardo, si fa presente che le commissioni consiliari
non sono organi necessari dell’ente locale, bensì organi
strumentali dei consigli ed, in quanto tali, costituiscono
componenti interne dell’organo assembleare, prive di una
competenza autonoma e distinta da quella ad esso attribuita.
A fronte della oggettiva impossibilità di insediare
validamente le commissioni a causa della indisponibilità
manifestata da alcuni consiglieri di minoranza, la
situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in
ragione del principio della continuità amministrativa, il
riespandersi della competenza piena del consiglio comunale.
Testo
E’ stato prospettato un quesito in materia di commissioni
consiliari permanenti.
A seguito delle elezioni amministrative dello scorso giugno,
il consiglio comunale risulta composto da un gruppo di
maggioranza formato da 11 consiglieri, da un gruppo di
minoranza di 4 consiglieri e da un secondo gruppo di
minoranza a cui appartiene un solo consigliere.
Ai sensi del regolamento del funzionamento del consiglio del
Comune in oggetto sono previste tre commissioni consiliari
permanenti a cui sono assegnate funzioni consultive. Il
Consiglio ha fissato il numero complessivo dei componenti
delle tre commissioni permanenti e indicato il numero di
rappresentanti da designarsi da parte di ciascun gruppo
presente in consiglio.
Tuttavia il gruppo di minoranza composto da 4 consiglieri
non ha provveduto a nominare i propri rappresentanti in seno
alle citate commissioni adducendo presunte illegittimità
nell’iter amministrativo seguito dal comune.
Nella seduta di insediamento delle commissioni si è
proceduto alla nomina dei rispettivi Presidenti e Vice
Presidenti ma gli organi in parola non hanno ancora iniziato
a svolgere le attività di competenza loro assegnate dalle
fonti di autonomia locale.
Attesa la mancata designazione dei rappresentanti di uno dei
due gruppi di minoranza presenti in consiglio, si chiede un
parere in merito all’operatività delle Commissioni
consiliari permanenti.
Al riguardo si osserva, in via preliminare, che in base a
quanto disposto dall’articolo 38, comma 6, del decreto
legislativo n. 267/2000, le commissioni consiliari, una
volta istituite sulla base di una facoltativa previsione
statutaria, sono disciplinate dall’apposito regolamento
comunale con l’inderogabile limite, posto dal legislatore,
riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella
composizione. Le forze politiche presenti in consiglio
devono, pertanto, essere il più possibile rappresentate
anche nelle commissioni.
Ai sensi dell’art. 22, comma 2, lett. c), del regolamento
sul funzionamento del consiglio del comune in oggetto è
previsto che “ogni gruppo, in linea di principio,
partecipa alla composizione delle commissioni in proporzione
alla sua rappresentanza consiliare. Deve essere comunque
garantita la presenza di tutti i gruppi in ciascuna
commissione….”.
In base al principio consolidato in materia di organi
collegiali, secondo il quale all’atto del primo insediamento
l’organo deve essere completo in tutte le sue componenti per
potersi dire legittimamente costituito e poter validamente
operare, e alla luce di quanto riferito dal sindaco, si
ritiene che la mancata designazione dei rappresentanti di
uno dei due gruppi di minoranza abbia impedito, di fatto, la
costituzione delle commissione in argomento.
In assenza di specifiche previsioni recate dalle fonti di
autonomia locale la questione deve essere esaminata alla
luce di quei principi generali dai quali trarre utili
orientamenti nel caso di specie.
Al riguardo, rileva anzitutto la natura delle commissioni
consiliari. Esse non sono organi necessari dell’ente locale,
cioè non sono componenti indispensabili della sua struttura
organizzative, bensì organi strumentali dei consigli ed, in
quanto tali, costituiscono componenti interne dell’organo
assembleare, prive di una competenza autonoma e distinta da
quella ad esso attribuita. In altri termini, le commissioni
consiliari operano sempre e comunque nell’ambito della
competenza dei consigli.
A fronte della oggettiva impossibilità di insediare
validamente le commissioni a causa della indisponibilità
manifestata da alcuni consiglieri di minoranza, la
situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in
ragione del principio della continuità amministrativa, il
riespandersi della competenza piena del consiglio comunale.
Ovviamente ciò non esclude che l’argomento della
ricostituzione delle commissioni comunali possa essere
iscritto all’ordine del giorno delle sedute consiliari fino
alla sua positiva trattazione
(24.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: Attribuzione
al Commissario straordinario della responsabilità degli
Uffici e servizi.
Sintesi/Massima
L’affidamento dei poteri gestionali ai
componenti dell'organo esecutivo trova fondamento nel comma
23 dell'art. 53 della legge 23.12.2000, n. 388 poi
modificato dall’ art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001,
n. 448 (legge finanziaria 2002) che introduce una deroga al
principio generale della separazione dei poteri (in
particolare, rispetto alle competenze dirigenziali di cui
all’art. 107 del T.U.O.E.L. e all’art. 4 del decreto
legislativo n. 165/2001) nell'ambito delle amministrazioni
pubbliche, rimanendo esclusi i compiti meramente esecutivi o
operativi.
Le disposizioni legislative predette non necessariamente
indicano l’approvazione di un regolamento, essendo
sufficiente che il relativo provvedimento sia deliberato
dalla Giunta comunale, quale organo competente in materia di
adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei
servizi (cfr. Consiglio di Stato, IV, 23.02.2009, n. 1070;
V, 06.03.2007, n. 1052; TAR Lombardia, Milano, II,
18.05.2011, n. 1278; TAR Lazio, Roma, II-ter, 22.03.2011, n.
2534).
Nella fattispecie di comune con popolazione inferiore ai
5.000 abitanti, fatte salve eventuali espresse limitazioni
scaturenti dallo Statuto comunale, il Commissario
straordinario può legittimamente attribuire a sé, con i
poteri della Giunta comunale, la facoltà di gestione di un
settore dell’Amministrazione.
Testo
E’ stato chiesto un parere in ordine alla possibilità
dell’assunzione diretta della responsabilità degli uffici e
dei servizi, con il potere di adottare atti anche di natura
tecnico- gestionale, in sostituzione di un responsabile di
servizio, che ha chiesto un lungo periodo di aspettativa.
Ciò alla luce dell’articolo 53, comma 23, della legge n.
388/2000 come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge
n. 448/2001.
Al riguardo, si osserva che il citato comma 23 dell'art. 53
della legge 23.12.2000, n. 388 (legge finanziaria 2001)
consentiva agli “enti locali” con popolazione
inferiore ai 3.000 abitanti, in mancanza di figure
professionali idonee nell'ambito dei dipendenti, di adottare
disposizioni regolamentari organizzative, anche in deroga
all'art. 107 del decreto legislativo n. 267/2000, mirate ad
attribuire ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale.
Detta disposizione, com'è noto, è stata poi modificata
sempre dal citato art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001,
n. 448 (legge finanziaria 2002), che ha ribadito la predetta
facoltà, estendendola agli enti fino a 5.000 abitanti, senza
necessità di dimostrare la mancanza non rimediabile di
figure professionali idonee, con la conseguenza che risulta
irrilevante anche la presenza all’interno
dell’Amministrazione di tali figure professionali (conforme,
TAR Lombardia n. 1644/2017 del 18/07/2017).
L'applicazione della norma deve essere finalizzata,
tuttavia, al contenimento della spesa, la quale deve essere
documentata ogni anno, con apposita deliberazione, in sede
di approvazione di bilancio (art. 53, comma 23, l.
388/2000).
Quindi l'affidamento dei poteri gestionali ai componenti
dell'organo esecutivo trova fondamento nella succitata
disposizione che introduce una deroga al principio generale
della separazione dei poteri (in particolare, rispetto alle
competenze dirigenziali di cui all’art. 107 del T.U.O.E.L. e
all’art. 4 del decreto legislativo n. 165/2001) nell'ambito
delle amministrazioni pubbliche, rimanendo esclusi i compiti
meramente esecutivi o operativi.
Nella fattispecie, si segnala la decisione n. 4688 del
2.10.2006 con la quale il TAR Puglia–Lecce, ha precisato che
tale facoltà può essere esercitata previe “disposizioni
regolamentari organizzative”.
Tuttavia, più recentemente il TAR Lombardia con la già
citata sentenza n. 1644/2017 del 18/07/2017, ha stabilito,
altresì, che alla luce del consolidato orientamento
giurisprudenziale, la disposizione legislativa non
necessariamente indica l’approvazione di un regolamento,
essendo sufficiente che il relativo provvedimento sia
deliberato dalla Giunta comunale, quale organo competente in
materia di adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli
uffici e dei servizi (cfr. Consiglio di Stato, IV,
23.02.2009, n. 1070; V, 06.03.2007, n. 1052; TAR Lombardia,
Milano, II, 18.05.2011, n. 1278; TAR Lazio, Roma, II-ter,
22.03.2011, n. 2534).
Trattandosi di comune con popolazione inferiore ai 5.000
abitanti e sembrando sussistere anche le altre condizioni
per l’applicazione della norma (fatte salve eventuali
espresse limitazioni scaturenti dallo Statuto comunale), si
ritiene, pertanto, che il Commissario straordinario possa
legittimamente attribuire a sé, con i poteri della Giunta
comunale, la facoltà di gestione di un settore
dell’Amministrazione
(10.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Deleghe
ai consiglieri.
Sintesi/Massima
Il conferimento di deleghe ai
consiglieri comunali ed al Presidente del Consiglio comunale
da parte del sindaco, fatta salva una ristrettissima serie
di funzioni sindacali delegabile in virtù di specifiche
previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal
sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di
Governo), sono ammissibili sulla base di norme statutarie
dell'ente locale, che stabiliscano il riparto di
attribuzioni tra gli organi di governo dell'ente, integrando
ma non derogando alle vigenti norme di legge.
Pertanto, potrebbe essere configurabile la mancata
conformità dell’atto di delega alle disposizioni specifiche
dettate in materia dagli articoli 42 e 48 del T.U.O.E.L. n.
267/2000 solo in carenza di una espressa indicazione dei
limiti in ordine all’esercizio delle predette deleghe che
escludano compiti di amministrazione attiva.
Testo
E’ stato chiesto un parere in ordine alla legittimità dei
decreti con cui il Sindaco ha conferito deleghe ai
consiglieri comunali ed al Presidente del Consiglio
comunale.
In merito, ribadendo quanto sostenuto dall’esponente nelle
premesse della propria nota –il quale ha fatto proprie
alcune considerazioni già espresse da questo Ufficio in
ordine alla disciplina delle deleghe interorganiche- va
detto, altresì, che una ristrettissima serie di funzioni
sindacali può essere delegabile in virtù di specifiche
previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal
sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di
Governo).
Va osservato, ancora, che il TAR Toscana, con decisione n.
1248/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma
statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni
sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che
potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva,
tali da comportare “l'inammissibile confusione in capo al
medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato”.
Il Consiglio di Stato, con parere n. 4883/2011 (4992/2012)
in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un ricorso
straordinario al Presidente della Repubblica in quanto
l'atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai
consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva,
determinava “una situazione, per lo meno potenziale, di
conflitto di interesse”.
Pertanto, la normativa statutaria dell'ente locale, nel
disciplinare la materia de qua, potrebbe prevedere
disposizioni che stabiliscano il riparto di attribuzioni tra
gli organi di governo dell'ente, integrando ma non derogando
alle vigenti norme di legge.
Nel caso specifico, anche secondo quanto riferito
dall’esponente, il vigente statuto del comune di … prevede
la possibilità di conferire anche ai consiglieri incarichi
per attività di istruzione e di studio per determinati
problemi e progetti… che non costituiscono delega di
competenza ... e che non siano conclusi con un atto
amministrativo ad efficacia esterna.
Al riguardo, premesso che il decreto n. 2453/2017 è stato
revocato dal decreto n. 2627/2017, si osserva che con il
successivo decreto n. 2629 il sindaco ha puntualizzato che
l’incarico non costituisce delega di funzioni e deve
intendersi esclusa l’adozione di atti a rilevanza (esterna)
o atti di gestione spettanti agli organi burocratici e che
il consigliere comunale incaricato non ha poteri decisionali
di alcun tipo diversi o ulteriori rispetto a quelli che
derivano dallo status di consigliere.
Ciò posto, ad avviso di questa Direzione Centrale, potrebbe
essere configurabile la mancata conformità dell’atto alle
disposizioni specifiche dettate in materia dagli articoli 42
e 48 del TUEL n. 267/2000 solo in carenza di una espressa
indicazione dei limiti in ordine all’esercizio delle
predette deleghe.
Tali limiti, nel caso specifico sembrano invece esplicitati
chiaramente nell’ambito del decreto sindacale n. 2629 del
17.07.2017 di conferimento delle deleghe ai consiglieri
comunali
(05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Deleghe
ai consiglieri.
Sintesi/Massima
Deleghe ai consiglieri.
Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale,
sancita dall'art. 6 del citato decreto legislativo n.
267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe
interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia
coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si
riferisce.
Occorre considerare che il consigliere può essere incaricato
di studi su determinate materie e di compiti di
collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di
situazioni particolari, che non implichino la possibilità di
assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di
gestione spettanti agli organi burocratici.
Testo
E’ stato formulato un quesito in ordine alla attuazione
dell’art. 22, comma 10, dello statuto del comune di ….
recante il potere del Sindaco di attribuire ai singoli
consiglieri “incarichi temporanei per affari determinati”.
In particolare è stato rappresentato che il sindaco, ai
sensi della citata normativa, ha assegnato a diversi
consiglieri incarichi di collaborazione in ordine a
specifiche materie. Nel decreto è precisato che gli
incarichi in questione non costituiscono delega di funzione,
non attribuiscono alcun potere a rilevanza esterna né
comportano incarichi gestionali. Ciò posto, si chiede di
conoscere se siffatto decreto sia compatibile con la
disciplina dettata in materia dal decreto legislativo n.
267/2000.
Al riguardo si rappresenta che nell'ambito dell'autonomia
statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del citato
decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina
di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse
sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui
si riferisce. Occorre considerare che il consigliere può
essere incaricato di studi su determinate materie e di
compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura
di situazioni particolari, che non implichino la possibilità
di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di
gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività
istituzionale, in qualità di componente di un organo
collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei
compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo
statuto.
Atteso che il consiglio svolge attività di indirizzo e
controllo politico-amministrativo, partecipando "…alla
verifica periodica dell'attuazione delle linee
programmatiche da parte del Sindaco … e dei singoli
assessori" (art. 42, comma 3, del T.U.O.E.L.), ne
scaturisce l'esigenza di evitare una incongrua commistione
nell'ambito dell'attività di controllo.
In proposito, va osservato che il TAR Toscana, con decisione
n. 1284/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma
statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni
sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che
potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva,
tali da comportare “…l’inammissibile confusione in capo
al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di
controllato…”.
Si aggiunge, altresì, che il Consiglio di Stato, con parere
n. 4883/2011 reso in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un
ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in
quanto l’atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega
ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione
attiva, determinava “…una situazione, per lo meno
potenziale, di conflitto di interesse.”.
Tanto premesso, il decreto sindacale in questione
sembrerebbe essere stato adottato in coerenza con la
normativa vigente nonché con le elaborazioni
giurisprudenziali in materia
(05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Mancata
attuazione normativa in tema di parità di genere nelle
giunte comunali.
Sintesi/Massima
Parità di genere nelle giunte comunali.
Il comma 137, dell’art. 1 della legge n. 56/2014 dispone che
“nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3000
abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in
misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico”.
Al riguardo, si osserva che il Consiglio di Stato, sez. V,
n. 4626 del 05/10/2015, ha precisato che tutti gli atti
adottati nella vigenza dell’art. 1, comma 137, citato
trovano in esso “un ineludibile parametro di legittimità” e,
pertanto, un’interpretazione che riferisse l’applicazione
della norma alle sole nomine assessorili effettuate
all’indomani delle elezioni e non anche a quelle adottate in
corso di consiliatura consentirebbe un facile aggiramento
della suddetta normativa.
Circa l’adeguatezza dell’istruttoria effettuata dal sindaco
e del corredo motivazionale addotto quale giustificazione
del mancato rispetto della normativa in questione, appare
utile richiamare la sentenza n. 1 del 2015 con la quale il
Tar Calabria, Sez. Catanzaro, nel pronunciarsi per
l’annullamento del decreto di nomina della giunta, ha
ritenuto che l’atto impugnato fosse sprovvisto di adeguata
istruttoria finalizzata al reperimento di “… idonee
personalità di sesso femminile nella società civile,
nell’ambito del bacino territoriale di riferimento,
limitandosi a comprovare soltanto la rinuncia di due
consigliere.”. (cfr Tar Calabria sentenze nn. 2, 3 e 4 del
2015).
Testo
E’ stato chiesto l’intervento della scrivente
amministrazione in merito alla mancata attuazione della
vigente normativa in tema di parità di genere nella
composizione delle giunte.
In particolare, è stato segnalato che il sindaco del Comune
in oggetto, nel prendere atto delle dimissioni di un
assessore di genere femminile, ha provveduto alla nomina di
un assessore uomo. Tale sostituzione, non corredata da
alcuna motivazione in ordine alla difficoltà riscontrata
nell’attuazione della normativa in parola, ha alterato
l’equilibrio di genere della compagine giuntale, riducendo
la rappresentanza del genere femminile ad un solo
componente.
Come noto, il comma 137, dell’art. 1 della legge n. 56/2014
dispone che “nelle giunte dei comuni con popolazione
superiore a 3000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere
rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento
aritmetico”.
Al riguardo, si osserva che il Consiglio di Stato, sez. V,
n. 4626 del 5/10/2015, ha precisato che tutti gli atti
adottati nella vigenza dell’art. 1, comma 137, citato
trovano in esso “un ineludibile parametro di legittimità”
e, pertanto, un’interpretazione che riferisse l’applicazione
della norma alle sole nomine assessorili effettuate
all’indomani delle elezioni e non anche a quelle adottate in
corso di consiliatura consentirebbe un facile aggiramento
della suddetta normativa.
Circa l’adeguatezza dell’istruttoria effettuata dal sindaco
e del corredo motivazionale addotto quale giustificazione
del mancato rispetto della normativa in questione, appare
utile richiamare la sentenza n. 1 del 2015 con la quale il
Tar Calabria, Sez. Catanzaro, nel pronunciarsi per
l’annullamento del decreto di nomina della giunta, ha
ritenuto che l’atto impugnato fosse sprovvisto di adeguata
istruttoria finalizzata al reperimento di “… idonee
personalità di sesso femminile nella società civile,
nell’ambito del bacino territoriale di riferimento,
limitandosi a comprovare soltanto la rinuncia di due
consigliere.”. (cfr Tar Calabria sentenze nn. 2, 3 e 4
del 2015).
Da ultimo, il Consiglio di Stato, con sentenza n. 406/2016,
ha osservato che l’effettiva impossibilità di assicurare
nella composizione della giunta comunale la presenza dei due
generi nella misura stabilita dalla legge deve essere “adeguatamente
provata”.
Nella citata pronuncia, il Supremo Consesso Amministrativo
ha, inoltre, dato conto della ragionevolezza delle
indicazioni fornite dalla scrivente amministrazione nella
circolare n. 6508 del 24.04.2014 laddove si fa presente che
occorre lo svolgimento di una preventiva e necessaria
attività istruttoria preordinata ad acquisire la
disponibilità dello svolgimento delle funzioni assessorili
da parte di persone di entrambi i generi e di fornire
un’adeguata motivazione sulle ragioni della mancata
applicabilità del principio di pari opportunità.
Tanto premesso, si osserva che, come noto, il vigente
ordinamento non prevede poteri di controllo di legittimità
sugli atti degli enti locali in capo a questa
Amministrazione e, pertanto, gli eventuali vizi di
legittimità degli atti adottati potranno essere fatti valere
nelle competenti sedi
(05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Richiesta
di parere sui locali di seduta del Consiglio comunale.
Sintesi/Massima
Previa disciplina regolamentare di
dettaglio, nell’ambito delle previsioni statutarie, non
sussiste un impedimento in ordine allo svolgimento delle
adunanze del consiglio comunale anche in locali diversi
rispetto alla ordinaria aula sita presso la sede comunale.
Tuttavia, ferma restando la verifica dell’opportunità di
sostenere i relativi costi aggiuntivi, è necessario non
arrecare disagi ai consiglieri partecipanti e che anche la
non ordinaria sala sia fornita della dotazione
tecnico-logistica occorrente per il corretto svolgimento
delle riunioni consiliari.
Testo
E’ stato posto un quesito in ordine alla legittimità dello
svolgimento delle sedute consiliari all’interno di una
villa, di proprietà di un consorzio di cui l’Ente fa parte
con quota non di maggioranza, ubicata nel territorio del
Comune ma distante dalla sede comunale.
Al riguardo, si osserva che secondo quanto stabilito
dall’articolo 3, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000, “i
comuni hanno autonomia statutaria, normativa, organizzativa
e amministrativa”.
Secondo la previsione dell’articolo 6 del citato d.lgs. n.
267/2000, lo statuto stabilisce anche “i criteri generali
in materia di organizzazione dell’Ente”.
L’articolo 7, infine, conferisce al comune, nel rispetto dei
principi fissati dalla legge e dallo statuto, la potestà
regolamentare “in particolare per l’organizzazione e il
funzionamento delle istituzioni… per il funzionamento degli
organi…”.
La materia è, dunque soggetta all’autorganizzazione
dell’ente.
Lo statuto comunale prevede all’articolo 3, comma 4, che le
adunanze degli organi collegiali si svolgono normalmente
nella sede del Comune di …, lasciando altresì la possibilità
di riunione in luoghi diversi in caso di necessità o per
particolare esigenze.
Ciò posto, ferma restando l’opportunità dell’adozione di una
disciplina regolamentare di dettaglio, alla luce del
disposto statutario non sembra che vi sia un impedimento
assoluto in ordine allo svolgimento delle adunanze del
consiglio comunale anche in locali diversi rispetto alla
ordinaria aula sita presso la sede comunale.
Tuttavia, resta ferma la necessità di non arrecare disagi ai
consiglieri partecipanti e che anche la non ordinaria sala
sia fornita della dotazione tecnico-logistica occorrente per
il corretto svolgimento delle riunioni consiliari.
Ritenendo, altresì che debbano osservarsi anche i principi
generali relativi al contenimento della spesa pubblica, si
demanda alla valutazione diretta del Comune –che andrà a
verificare i relativi costi aggiuntivi- l’opportunità del
mantenimento della duplicazione della sede consiliare
(05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Procedura
approvazione modifiche statutarie.
Sintesi/Massima
Procedura approvazione modifiche
statutarie.
L'approvazione dello statuto, attesa la natura di atto
normativo "fondamentale" sua propria, comporta che su di
esso converga il più elevato numero di consensi attraverso
un'ampia discussione e comparazione d'interessi da parte
della maggioranza e dell'opposizione consiliare. Tale
particolare esigenza ha determinato, conseguentemente, la
previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum,
rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano
ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta dei
consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto
e delle sue modifiche comporta che in sede di prima
votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole
dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il
sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi
dell'art. 37 del citato testo unico. Si osserva, infatti,
che nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso
computare il sindaco, o il presidente della provincia, nel
quorum richiesto per la validità di una seduta, lo ha
indicato espressamente usando la formula “senza computare a
tal fine il sindaco ed il presidente della provincia".
Ove tale quorum non venga raggiunto, si apre un’ulteriore
fase procedimentale per la quale lo statuto è approvato “se
ottiene per due volte il voto favorevole dalla maggioranza
assoluta dei consiglieri assegnati”. Si precisa che,
nell’ipotesi in cui lo statuto non sia approvato alla prima
votazione con il voto favorevole dei due terzi dei
consiglieri assegnati, è sempre necessario procedere alle
previste ulteriori due votazioni a “maggioranza assoluta”,
con la conseguenza che, complessivamente, le votazioni
assommeranno al numero di tre.
Circa il rispetto del termine di trenta giorni previsto dal
citato art. 6, comma 4, giova richiamare il contenuto del
parere n. 291 del 2010 reso dal Consiglio di Stato su
ricorso Straordinario al Capo dello Stato, laddove è stato
osservato che “…la non perentorietà del termine sopra detto
vanificherebbe la finalità della norma che è diretta a
prevedere un tempo determinato entro il quale deve
concludersi la procedura di approvazione dello statuto”.
Testo
Un consigliere comunale ha lamentato asserite irregolarità
concernenti la procedura di approvazione delle modifiche
dello statuto del comune in oggetto.
In particolare, l’esponente ha rappresentato che il
consiglio comunale, con deliberazione n. 56 del 28.07.2017,
ha approvato, con il voto favorevole di 11 consiglieri su 15
presenti, una modifica allo statuto comunale. Tale
deliberazione è stata considerata quale approvazione delle
modifiche statutarie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del
decreto legislativo n. 267/2000, in base al criterio
dell’arrotondamento per difetto della cifra decimale.
Il consiglio, con deliberazione n. 67 del 30.09.2017,
ritenendo il criterio dell’arrotondamento per difetto non
aderente al dettato legislativo, ha approvato l’annullamento
parziale della precedente deliberazione nella parte in cui
aveva proclamato l’avvenuta modifica statutaria. Con la
medesima delibera ha inoltre convalidato la votazione
tenutasi in data 28.07.2017 avente ad oggetto “approvazione
modifica allo statuto comunale” per mancato
raggiungimento del quorum richiesto in prima votazione.
Sempre in data 30.9.2017, durante la medesima seduta
consiliare, è stata adottata la seconda delibera di
approvazione della modifica statutaria mentre in data
31.10.2017, è stata adottata la terza ed ultima delibera.
Entrambe le deliberazioni, identificate rispettivamente con
i numeri 68 e 79, risultano adottate a maggioranza assoluta
dei componenti, avendo ottenuto il voto favorevole di 10
consiglieri.
Ad avviso del consigliere esponente, la procedura seguita
per l’approvazione delle modifiche statutarie sarebbe
viziata atteso che la delibera n. 68 del 2017 sarebbe
intervenuta il 30.09.2017, ovvero nello stesso giorno della
delibera n. 67, violando il consolidato indirizzo
giurisprudenziale in base al quale le eventuali ulteriori
votazioni successive alla prima devono intervenire in sedute
diverse. Inoltre, la deliberazione n. 79 del 31.10.2017
sarebbe stata adottata oltre il termine di trenta giorni
previsto dall’art 6, comma 4, del decreto legislativo n.
267/2000.
Al riguardo, si rappresenta che la normativa in esame ha
previsto un “procedimento aggravato" per
l'approvazione delle norme statutarie, nonché delle relative
modifiche, sia disponendo che, in caso di mancata
approvazione dei due terzi dell'assemblea si debba ripetere
la votazione entro 30 giorni, che prescrivendo che lo
statuto sia approvato se ottiene per due volte - in sedute
successive - il voto favorevole della maggioranza assoluta
dei membri assegnati al collegio.
L'approvazione dello statuto, pertanto, attesa la natura di
atto normativo "fondamentale" sua propria, comporta
che su di esso converga il più elevato numero di consensi
attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi
da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare.
Tale particolare esigenza ha determinato, conseguentemente,
la previsione di maggioranze speciali disponendo che i
quorum, rispettivamente della prima e delle altre
votazioni, siano ragguagliati ai due terzi o alla
maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto
e delle sue modifiche comporta che in sede di prima
votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole
dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il
sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi
dell'art. 37 del citato testo unico.
Si osserva, infatti, che nelle ipotesi in cui l'ordinamento
non ha inteso computare il sindaco, o il presidente della
provincia, nel quorum richiesto per la validità di una
seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula “senza
computare a tal fine il sindaco ed il presidente della
provincia". Ove tale quorum non venga raggiunto,
si apre un’ulteriore fase procedimentale per la quale lo
statuto è approvato “se ottiene per due volte il voto
favorevole dalla maggioranza assoluta dei consiglieri
assegnati”. Si precisa che, nell’ipotesi in cui lo
statuto non sia approvato alla prima votazione con il voto
favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati, è sempre
necessario procedere alle previste ulteriori due votazioni a
“maggioranza assoluta”, con la conseguenza che,
complessivamente, le votazioni assommeranno al numero di
tre.
Con riferimento alla doglianza concernente la contestualità
dell’approvazione delle deliberazioni n. 67 e n. 68,
entrambe adottate il 30.9.2017, si osserva che la data a cui
occorre fare riferimento per computare il termine di inizio
della procedura di approvazione delle modifiche statutarie è
il 28.07.2017 e non il 30.09.2017. Ciò in quanto la
convalida operata con la deliberazione n. 67 dell’atto
consiliare n. 56 del 28.07.2017 configura un provvedimento
nuovo ma che si collega all’atto convalidato al fine di
mantenerne fermi gli effetti fin dal momento in cui questo
venne emanato (efficacia ex tunc).
Circa il rispetto del termine di trenta giorni previsto dal
citato art. 6, comma 4, giova richiamare il contenuto del
parere n. 291 del 2010 reso dal Consiglio di Stato su
ricorso Straordinario al Capo dello Stato, laddove è stato
osservato che “…la non perentorietà del termine sopra
detto vanificherebbe la finalità della norma che è diretta a
prevedere un tempo determinato entro il quale deve
concludersi la procedura di approvazione dello statuto”
(05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
NEWS |
APPALTI: Appalti,
obbligo di contabilità digitale. Professionisti tecnici: in cantiere più responsabilità sui materiali.
Contratti pubblici. Entrano in vigore domani le nuove regole sull’esecuzione
di lavori, servizi e forniture.
Un nuovo decreto di riferimento per la fase esecutiva di tutti gli appalti
pubblici di lavori, servizi e forniture. Con una novità che spicca sulle
altre: l’adozione di strumenti elettronici nella contabilità diventa
obbligatori.
Parte domani il percorso del Dm del ministero delle
Infrastrutture 49 del 2018, il provvedimento destinato a sostituire il
vecchio regolamento appalti (Dpr 207/2010) sulla scrivania degli operatori.
Un provvedimento che, rispetto al passato, dà un peso molto rilevante
proprio ai servizi e alle forniture, diventati nel tempo un pezzo
fondamentale del mercato.
In generale, se l’elenco dei documenti contabili con il nuovo provvedimento
resta invariato, cambia sostanzialmente l’infrastruttura della quale sarà
necessario dotarsi: finora, infatti, l’utilizzo di programmi contabili
computerizzati era una semplice facoltà. Adesso, in caso di mancato
utilizzo, la pubblica amministrazione dovrà dare una motivazione, comunicare
l’inadempimento all’Anac e, poi, adeguarsi in tempi rapidi. La
digitalizzazione diventa, insomma, obbligatoria.
Gli strumenti elettronici devono essere in grado di garantire autenticità,
sicurezza dei dati inseriti e provenienza dei dati dai soggetti competenti.
Uniformando i linguaggi, sarà possibile condividere e verificare più
facilmente le informazioni relative alla contabilità dei lavori, dei servizi
e delle forniture.
È evidente che questa novità amplia il mercato a disposizione dei produttori
di software. Così, il testo specifica che le piattaforme telematiche
dovranno essere «interoperabili» e funzionare «a mezzo di formati aperti non
proprietari», per evitare limitazioni alla concorrenza tramite la creazione
di situazioni di monopolio. Solo per i lavori di importo minimo, al di sotto
della soglia di 40mila euro, sarà possibile tenere una contabilità
semplificata.
Non si tratta della sola novità contenuta nel decreto. Un altro aspetto
decisivo riguarda il tema delle riserve: sono, in sostanza, le richieste di
maggiori compensi che, tramite iscrizione nei documenti contabili, vengono
effettuate in fase di esecuzione di un appalto, per effetto di fatti
sopravvenuti che rendono necessario riequilibrare il contratto.
Nel vecchio sistema le riserve venivano regolate per legge. Adesso cambia
tutto: il Dm, infatti, rimanda alle regole previste dalla singola
amministrazione nel capitolato. In pratica, ogni appalto avrà una storia
diversa. Un approccio che, secondo i costruttori dell’Ance, è forierio «di
possibile aumento del contenzioso», perché mette nelle mani di una delle
parti uno degli istituti chiave per fissare il punto ottimale di equilibrio
nel contratto.
Guardando ai soli lavori, vengono reintrodotte nel sistema le cosiddette
«varianti non varianti», modifiche di dettaglio che possono essere disposte
con una semplice comunicazione al responsabile unico del procedimento, a
condizione che non comportino «aumento o diminuzione dell’importo
contrattuale». Resta ferma la regola del quinto dell’importo del contratto:
se non si sfora questo tetto, l’impresa non potrà chiedere la risoluzione
del rapporto.
Sono, infine, più responsabilizzati i professionisti che si occupano di
direzione lavori. L’articolo 6 del provvedimento, infatti, rafforza di molto
gli oneri a loro carico, in fase di accettazione dei materiali in cantiere.
C’è, allora, l’obbligo (e non più la facoltà) per il direttore di disporre
prove e analisi ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge per
stabilire l’idoneità dei materiali. Ma non solo.
C’è anche l’obbligo di rifiutare i materiali che risultano deperiti dopo
l’introduzione in cantiere. E, a completare il quadro delle responsabilità a
carico dei professionisti, c’è l’obbligo di verificare il rispetto delle
norme in materia di sostenibilità ambientale. I criteri ambientali minimi
diventano, così, un pezzo strategico dell’esecuzione dei contratti
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.05.2018 -
tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Le
posizioni organizzative hanno la proroga automatica. Funzionari. Gli
incarichi proseguono senza atto esplicito.
Il contratto delle funzioni locali salva le posizioni organizzative in
corso. Ogni ente dovrà rivedere i criteri per nomina e revoca degli
incarichi e per l’attribuzione della retribuzione di posizione e di
risultato. Nel frattempo le nomine in essere possono continuare, ma al
massimo per un anno.
Il contratto rivede a fondo l’istituto delle posizioni organizzative e
riscrive i confini in cui possono muoversi gli enti locali. L’articolo 14
afferma che la nomina e la revoca degli incarichi deve avvenire con criteri
predeterminati dall’ente, e questo vale sia per la scelta dei soggetti sia
per la quantificazione della retribuzione di posizione e di risultato. I
tempi di adeguamento non potranno però essere immediati perché comportano
sempre precise relazioni sindacali.
I criteri per nomina e revoca e per la graduazione della retribuzione sono
oggetto di confronto, mentre quelli per l’erogazione delle indennità di
risultato vanno al tavolo della contrattazione integrativa.
Ma nel frattempo cosa accade agli attuali responsabili di posizione
organizzativa? L’articolo 13, comma 3, disciplina il regime transitorio.
Ogni ente dovrà definire i criteri generali e, dopo, dovrà definire il nuovo
assetto delle posizioni organizzative. L’ipotesi di contratto prevedeva che
si potessero prorogare gli incarichi già conferiti e ancora in atto alla
data dal 21 maggio. La stipula definitiva però aggiunge una sola parola:
«proseguono». Intervento provvidenziale, in quanto, nella precedente
versione, sembrava comunque necessario un atto di proroga, mentre con la
versione definitiva si crea un automatismo per gli incarichi in essere fino
alla definizione del nuovo assetto organizzativo e, comunque, al massimo
fino al 20.05.2019.
Ma non finisce qui. Le amministrazioni devono subito riflettere anche su due
ulteriori aspetti: il primo riguarda la retribuzione di posizione che il
nuovo contratto definisce nel valore massimo per la categoria D, fino a
16mila euro. Va però ricordato che l’eventuale incremento, oltre ad essere
quantificato con criteri oggettivi, deve tener conto del limite complessivo
al trattamento accessorio (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017) che vieta
di superare il livello del 2016.
L’altra novità riguarda l’individuazione della retribuzione di risultato.
Mentre prima ogni posizione organizzativa poteva contare su un valore dal 10
al 25% della propria retribuzione di posizione, oggi si crea un budget
complessivo per tutte le posizioni e, quindi, saranno necessari nuovi
criteri per erogare gli importi. Il contratto definitivo conferma quanto già
previsto nell’errata corrige, per cui il valore della retribuzione di
risultato complessiva per tutti le posizioni deve essere almeno il 15% della
somma di quanto destinato a retribuzione di posizione e risultato.
Si crea un meccanismo simile a quello che già c’è per il fondo dei
dirigenti, per il quale i criteri di riparto diventano innovativi (articolo
Il Sole 24 Ore del 28.05.2018). |
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
tecnici, prima va individuato il «gruppo di lavoro». La somma comprende
contributi e Irap. Le istruzioni Anci/1. Regolamento-tipo sui premi ai
dipendenti.
Dopo i chiarimenti contenuti nella
deliberazione 26.04.2018 n. 6
della sezione Autonomie della Corte dei Conti, la corsa alla liquidazione
degli incentivi per le funzioni tecniche registra un’accelerazione, più che
giustificata dopo due anni di stallo.
Ovviamente, prima di procedere è necessario adottare il regolamento,
partendo dai criteri e dalle modalità di riparto decisi con la
contrattazione decentrata.
Un utile contributo al tema viene proposto dall’Anci, che ha elaborato un
quaderno tecnico (n. 12 - maggio 2018) con istruzioni, linee
guida, note e modulistica (si veda anche il
fac-simile di regolamento in formato .doc
compilabile/modificabile a piacimento).
In questo documento, in primo luogo, si disegna il quadro normativo di
riferimento. Oltre ai richiami di legge, opportunamente vengono evidenziati
gli orientamenti prevalenti delle Corte dei Conti. Da segnalare, fra questi,
il richiamo alla la
deliberazione 13.05.2016 n. 18 della sezione
Autonomie, in cui si identificano le caratteristiche necessarie al
dipendente per assumere la qualità di collaboratore ai fini della
liquidazione dei compensi.
L’Anci propone uno schema di regolamento, che può rappresentare un valido
strumento guida per le amministrazioni. Queste, però, dovranno adattarne il
contenuto alle proprie caratteristiche. Alcuni suggerimenti presenti nello
schema di regolamento meritano di essere segnalati.
Innanzitutto, la formalizzazione del gruppo di lavoro prevista dall’articolo
3. Spesso, nelle realtà medio-grandi e talvolta anche nei piccoli Comuni,
non sono chiaramente individuati i dipendenti che hanno svolto le funzioni
oggetto di incentivazione. La costituzione del gruppo di lavoro, con
provvedimento del dirigente o del responsabile del servizio, toglie ogni
dubbio fin dall’origine. Con questa operazione, il personale che ne fa parte
assume la responsabilità del procedimento o di parte di esso, e si pongono
le basi per il diritto al compenso.
Interessante la modulazione del fondo, contenuta nell’articolo 5. Viene
chiarito che le somme destinate agli incentivi sono comprensive «degli
oneri previdenziali, assistenziali e del contributo fiscale Irap a carico
dell’amministrazione». Finalmente viene presa una posizione chiara
sull’argomento. In verità, la Corte dei Conti già si è espressa in tal senso
(sezioni Riunite,
deliberazione 30.06.2010 n. 33), ma alcune
letture della stessa delibera dubitano ancora oggi sulla portata di quanto
affermato dai magistrati contabili. La previsione regolamentare potrebbe
mettere fine ad ogni discussione. Un altro punto di forza dello schema di
regolamento proposto dall’Anci è rappresentato dalle ipotesi di «esclusione
dalla disciplina di costituzione del fondo».
Oltre ai lavori in amministrazione diretta e ai contratti a cui non si
applica il Codice appalti, è opportuna la previsione di un importo minimo
dei lavori e degli acquisti di beni e servizi, al di sotto del quale nessun
compenso compete a titolo di incentivazione. Si ritiene che, in questa sede,
fra le ulteriori ipotesi individuate dall’amministrazione, possa essere
affrontato anche il problema delle manutenzioni, ordinarie e straordinarie,
per chiarire se i lavori sono incentivabili o meno.
La posizione della Corte dei Conti non è univoca, quindi possono essere
portati validi argomenti sia per l’inclusione sia per l’esclusione.
Condivisibile la graduazione del fondo incentivante suddivisa fra lavori,
all’interno dei quali sono distinte le opere puntuali da quelle di rete, e
servizi e forniture. L’Anci non si spinge a formulare una proposta di
percentuali da destinare alle singole funzioni. È la parte più delicata del
regolamento, in cui le singole amministrazioni devono contemperare i diversi
interessi in gioco: quelli dei dipendenti destinatari dei compensi rispetto
al restante personale e le disponibilità finanziarie a disposizione (che
possono assumere importi rilevanti) rispetto a una gestione dell’intero
bilancio.
Infine, da evidenziare la disciplina transitoria, che chiarisce sia le
attività alle quali si applica il regolamento sia come trattare le funzioni
svolte fra l’emanazione del codice degli appalti e l’adozione dello stesso
regolamento.
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I punti chiave
01 GRUPPO DI LAVORO
Per erogare gli incentivi è necessario prima adottare il regolamento
comunale. L’Anci propone uno schema-tipo di regolamento, che parte
dall’individuazione dei dipendenti che svolgono le funzioni oggetto
dell’incentivo. La previsione vale per i Comuni medio-grandi, ma è utile
anche per quelli più piccoli. La base per il diritto al compenso risiede
nella responsabilità del procedimento assunta dal personale che fa parte del
gruppo.
02 ONERI A CARICO
Secondo le istruzioni dell’Anci, le somme complessive comprendono contributi
e Irap.
03 LE ESCLUSIONI
Sono esclusi dall’incentivazione i lavori in amministrazione diretta e i
contratti a cui non si applica il Codice appalti. Il regolamento tipo chiede
anche di indicare una soglia minima delle opere “incentivate” (articolo
Il Sole 24 Ore del 21.05.2018). |
INCARICHI PROGETTUALI: Ingegneri
e architetti in gara solo se c’è l’assicurazione.
Affidamenti. Linee guida Anac in consultazione fino al 13 giugno.
Gli enti devono affidare i servizi di ingegneria e di architettura sulla
base di un articolato quadro di criteri, e, per concorrere, gli operatori
economici devono avere un’assicurazione professionale.
L’Anac ha posto in consultazione (con scadenza al 13 giugno) lo schema di
bando-tipo per l’affidamento di servizi di ingegneria e architettura sopra i
100mila euro, fornendo molti elementi di dettaglio per la valutazione delle
offerte e per la regolazione del rapporto con gli affidatari.
Il disciplinare di gara segue l’impostazione del bando generale per servizi
e forniture (n. 1/2017), proponendo molte differenze legate alla natura dei
servizi tecnici: ad esempio, essendo servizi intellettuali, non è prevista
l’applicazione della clausola sociale.
Lo schema e la nota illustrativa chiariscono le modalità di specificazione
dell’importo dell’appalto e del metodo di calcolo dei compensi in base al Dm
Giustizia del 17.06.2016, specificando le tabelle per le categorie e le
tariffe che le stazioni appaltanti devono compilare fornendo il dettaglio
degli elementi utilizzati per il calcolo, in relazione al tipo di incarico.
All’esito di queste operazioni, il disciplinare riporta l’importo a base di
gara al netto dell’Iva e oneri previdenziali e assistenziali.
L’Anac evidenzia anche l’importanza di alcune innovazioni determinate dal
Codice appalti, focalizzando l’attenzione sull’obbligo di applicazione dei
criteri ambientali minimi sia alle specifiche tecniche sia, in relazione
alla gara, al sistema criteriale. Proprio l’impostazione dei criteri per la
valutazione con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa è
l’elemento di maggior interesse del bando.
Anche se formulato in chiave dimostrativa, il sistema dei criteri
discrezionali e tabellari è molto articolato e replica in forma operativa
gli elementi elaborati dall’Anac nelle linee-guida n. 1, strutturandoli in
tre gruppi relativi alla professionalità e all’adeguatezza dell’offerta,
alle caratteristiche metodologiche e ai criteri ambientali minimi.
Sulla copertura assicurativa per l’attività professionale, lo schema fa
riferimento all’articolo 3, comma 5, lettera e), della legge 148/2011, che
prevede, per tutti i professionisti, l’obbligo di stipulare un’assicurazione
per la copertura della responsabilità civile professionale, e a quanto
previsto dall’articolo 24, comma 4 del Codice, che impone ai professionisti
di munirsi di copertura assicurativa contro i rischi professionali.
Tenuto conto della responsabilità del progettista (articolo 106, del Codice)
la polizza deve coprire anche i rischi derivanti da errori e omissioni nella
redazione del progetto esecutivo o definitivo che abbiano determinato, a
carico della stazione appaltante, nuove spese di progettazione o maggiori
costi: la copertura di questi rischi va verificata dalle stazioni appaltanti
al momento della stipula del contratto
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2018 -
tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Dal
condizionatore al prato, più semplici i lavori dell'estate. Effetto
combinato di «sconti» e liberalizzazione. Ma sui titoli abilitativi
valutazione caso per caso.
Difendersi dal calore, raffrescare gli ambienti interni,
rendere più "fruibile" uno spazio outdoor, con opere di riqualificazione del
verde o grazie all'inserimento di gazebo e pergolati.
Sono molti i lavori che -con l'arrivo della stagione estiva- possono essere
affrontati in casa. Piccole e (in alcuni casi) anche più corpose
manutenzioni che da una parte -dopo il 22 aprile- fruiscono di una corsia
preferenziale sotto l'aspetto autorizzativo e dall'altra possono talora
essere agevolate grazie a detrazioni fiscali. A seconda dell'intervento che
si affronta, il percorso è diverso.
Con un denominatore comune.
Che sia un pergolato, una schermatura solare o l'inserimento di un impianto
di raffrescamento, quest'anno sarà più semplice (almeno sulla carta)
procedere. Perché dallo scorso 22 aprile, con l'entrata in vigore del
glossario dell'edilizia libera (Dm Infrastrutture 02.03.2018), molte fra
queste opere rientrano nelle 58 che possono essere realizzate senza titolo
abilitativo, in edilizia libera. Facciamo qualche esempio.
Prendiamo la realizzazione di un pergolato: la norma specifica che sedi
limitate dimensioni o non stabilmente infisso al suolo, il manufatto non
necessita di uno specifico permesso. Ciò non significa che si possa agire
senza limiti.
Lo stesso glossario, infatti, precisa chele opere devono essere effettuate «nel
rispetto delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e di tutte
le normative di settore». Dunque se esistono vincoli e norme
antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico- sanitarie, relative
all'efficienza energetica, di tutela dal rischio idrogeologico, o
prescrizioni paesaggistiche vanno rispettate e potrebbe essere necessario un
permesso o un nulla osta (si veda il Sole 24 Ore del 7 maggio). Così come va
salvaguardato l'eventuale diritto di terzi e, in condominio, l'osservanza di
ciò che è prescritto dal regolamento.
Da aggiungere che una recente sentenza del Consiglio di Stato (2715 del 7
maggio) precisa come per alcuni manufatti (in questo caso una tettoia a
tenda) vada valutato caso per caso e spetti ai Comuni più in generale
disegnare i confini di azione. Altro aspetto è quello delle agevolazioni
fiscali. Prima premessa: laddove i lavori non sono soggetti a titolo
abilitativo, poter chiedere l'accesso al bonus, è necessario dotarsi di
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, in cui va indicata la data
di inizio dei lavori e deve essere attestata la conformità urbanistica. In
pratica, un'autocertificazione da conservare in caso di controlli.
Entrando nel merito, non tutti i lavori godono di bonus fiscali. Ad esempio,
la tinteggiatura nelle singole unità edilizie, da sola, è esclusa in quanto
manutenzione ordinaria. Diversi bonus sono invece possibili per l'impianto
di condizionamento: l'iter da seguire dipende dal contesto. Se l'impianto è
a pompa di calore è possibile fruire della detrazione del Sodo per le
ristrutturazioni (anche per installazione ex novo), nel capitolo
degli interventi finalizzati al risparmio energetico. In alternativa, scatta
l'ecobonus al 65% se si sostituisce un impianto preesistente di
riscaldamento con un sistema per il caldo e il freddo. In questo caso,
occorre inviare all'Enea, entro 90 giorni dalla fine lavori, la scheda
informativa prescritta.
Sempre per il condizionamento, se l'impianto è alimentato da fonte
rinnovabile è possibile anche chiedere un contributo diretto (non una
detrazione) a valere sul conto termico.
Da quest'anno, per effetto del cosiddetto bonus verde, sono infine agevolate
molte piccole e grandi opere di restyling di giardini e spazi verdi: è il
caso della risistemazione delle aree verdi o della installazione di sistemi
di irrigazione. L'agevolazione prevista è del 36% fino a un tetto di spesa
di 5mila curo (articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2018
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Stipendi illegittimi. Danno erariale e obblighi di recupero.
Compensi,
l’ok dei dirigenti non cancella la responsabilità.
La violazione delle norme contrattuali che dettano le modalità di erogazione
del salario accessorio può determinare di per sé, anche se si tratta di
risorse quantificate in modo legittimo, la maturazione di responsabilità
amministrativa, e quindi le amministrazioni devono procedere al recupero di
queste somme. La responsabilità può nascere anche in capo agli
amministratori, e non li esime la circostanza che la deliberazione sia stata
assunta con il parere positivo dei dirigenti. Di questi elementi gli enti
devono tenere conto nelle decisioni sulla sanatoria della contrattazione
decentrata illegittima. Una materia sulla quale le norme offrono una
risposta parziale, limitata al recupero per le illegittimità commesse nella
quantificazione dei fondi, non prevedendo nulla sulle modalità di recupero
direttamente a carico dei percettori dei compensi illegittimi.
Le disposizioni sono dettate dal Dl 16/2014 e dal Dlgs 75/2017; esse
dispongono per tutte le Pa l’obbligo di recupero delle somme
illegittimamente o erroneamente inserite in aumento nei fondi per la
contrattazione decentrata. Queste somme vanno recuperate entro un numero di
anni non superiore a quello in cui le illegittimità hanno prodotto effetti:
l’arco temporale va allungato se il recupero annualmente incide per oltre il
25% del fondo.
Regioni ed enti locali possono inoltre allungare il periodo
per altri cinque anni se dimostrano di aver attivato i recuperi e di dar
corso alla razionalizzazione delle partecipate. Tutte le Pa effettuano il
recupero destinando una parte dei fondi a questo fine, quindi attraverso una
reversale, anziché dare corso alla loro erogazione.
Regioni ed enti locali
possono inoltre effettuare il recupero dando corso al collocamento di
personale o dirigenti in eccedenza, destinando a questo scopo fino al 100%
dei proventi derivanti dai piani di razionalizzazione, attraverso i risparmi
conseguiti con il non integrale utilizzo delle proprie capacità assunzionali.
Non ci sono disposizioni sul recupero del salario accessorio
illegittimamente erogato, quanto meno per i compensi erogati dopo il
31.12.2012. Per quelli erogati fino a quella data ci sono letture
discordanti sull’applicazione di una “sanatoria tombale” e sulla sua
estensione a tutti gli enti o solo a quelli virtuosi.
La giurisprudenza
della Corte dei Conti, da ultimo con la sentenza
00.00.2018 n. 137 della sezione
giurisdizionale della Campania, con riferimento alla produttività conferma
che l’erogazione illegittima, nel caso specifico per obiettivi assegnati
tardivamente che non hanno determinato miglioramenti e senza la valutazione
dei loro effetti, determina di per sé la maturazione di responsabilità.
La
responsabilità non matura solo sui dirigenti, ma si allarga agli
amministratori: l’esimente della buona fede non può essere invocata sulla
base della considerazione che il provvedimento è stato adottato con i pareri
positivi dei dirigenti, perché il compito della giunta non è quello di dar
corso alla «mera ratifica di decisioni assunte da chi esprime il parere
tecnico o contabile».
Non si deve considerare in alcun modo acquisita la possibilità di calcolare
la prescrizione quinquennale della responsabilità amministrativa non dal
momento del pagamento, ma dal quello della “scoperta”
dell’illegittimità da parte della Corte dei Conti: è una lettura che, se si
consolidasse, circoscriverebbe non poco gli ambiti di maturazione della
responsabilità amministrativa
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.05.2018). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Sul
tetto al fondo accessorio l’incognita degli incarichi.
Integrativi. Il punto dopo l’esclusione degli incentivi di progettazione.
È il momento di tirare le fila sulle limitazioni al trattamento accessorio
degli enti locali. Dopo le ultime interpretazioni della Corte dei conti è
possibile ricostruire il riassunto delle tipologie lavorative che rientrano
nel campo di applicazione dell’articolo 23, comma 2, del decreto legislativo
75/2017, cioè della norma che impone di non far superare al fondo accessorio
il livello raggiunto nel 2016.
La disposizione prevede che il vincolo si applichi «all’ammontare
complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio
del personale, anche di livello dirigenziale». Questo aggregato, in
principio, era stato riferito al concetto di “fondo”. Successivamente è però
emerso che non tutti i trattamenti accessori transitano dal fondo delle
risorse decentrate. Si pensi ad esempio alla retribuzione dei dipendenti o
dei dirigenti per gli incarichi ex articolo 110 del Tuel, o alla
maggiorazione della retribuzione di posizione eventualmente corrisposta ai segretari
comunali. Quali sono, quindi, oltre ai trattamenti accessori dei dipendenti,
i compensi delle altre tipologie lavorative che vanno conteggiate nel
limite?
La pietra miliare nell’esaminare la questione è costituita dalla
Deliberazione 26/2014 della sezione Autonomie della Corte dei conti, in cui
si afferma il principio generale per il quale il limite non vale solo sui
“fondi”, ma per ogni tipologia di trattamento accessorio. In questo
contesto, assume particolare rilievo la retribuzione di posizione e di
risultato dei dipendenti incaricati di posizione organizzativa, per la quale
i magistrati contabili affermano sicuramente l’assoggettabilità ai paletti
delle norme che si sono succedute sui compensi accessori.
Ma c’è un altro caso, “irrisolto”. Ai dirigenti o ai responsabili incaricati
a contratto in base all’articolo 110 del Tuel è possibile riconoscere, come
prevede il comma 3, un assegno ad personam. Dal punto di vista della
retribuzione (busta paga) si tratta certamente di un trattamento accessorio
ma, in questo caso, le sezioni regionali della Corte dei conti sono spaccate
sull’applicabilità o meno dell’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017. I
magistrati del Piemonte, con la delibera 144/2017, fanno capire che rientra
tutto nel limite; quelli della Basilicata, con la delibera 69/2017, pensano
il contrario.
È poi emerso il problema della maggiorazione della retribuzione di posizione
che può essere corrisposta, in determinate situazioni, ai segretari
comunali. L’incremento, che è discrezionale, è stato ritenuto dalla Corte
dei conti della Lombardia, nella delibera 116/2018, rilevante ai fini del
rispetto del tetto del trattamento accessorio.
C’è infine un’ultima esclusione dal tetto introdotta con la circolare 2/2018
del Dipartimento della Funzione pubblica, ovvero la possibilità di aumentare
il limite fissato dall’articolo 23, comma 2, di «un valore pari alla misura
già percepita a titolo di trattamento accessorio» dal personale a tempo
determinato che viene stabilizzato, ma solo se questi compensi erano posti
in precedenza a carico del bilancio e non del fondo.
Quello che risulta è, quindi, un quadro dai contorni ancora sfocati al quale
è impossibile apporre una cornice definitiva
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.05.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi,
regolamenti da adeguare.
Personale. Le istruzioni vincolano la Pa centrale, ma le altre
amministrazioni devono «correggere» le regole su requisiti e procedure.
Gli effetti per gli enti locali delle Linee guida della Funzione pubblica
sul reclutamento.
Obbligo per le amministrazioni statali ed invito a quelle regionali e locali
a concorsi unici, ad aderire al portale nazionale e a formare albi dei
componenti delle commissioni tra cui scegliere con sorteggio.
Sono queste le scelte di maggiore rilievo contenute nelle Linee Guida sui
concorsi che sono state predisposte dal ministro per la Semplificazione e la
Pubblica amministrazione e che, avendo ottenuto il parere positivo della
Conferenza Unificata, stanno per essere emanate dopo l’ultimo passaggio in
Corte dei conti.
Occorre ricordare che non è definito se e quanto questo documento sia
vincolante per le amministrazioni non statali. In ogni caso, tutte le
Pubbliche amministrazioni devono adeguare i propri regolamenti, soprattutto
per gli aspetti principali. In primo luogo, va rilevata la necessità di
trovare un punto di incontro ragionevole tra i requisiti, la preferenza per
procedure semplici anche automatizzate e la procedura concorsuale (esami,
titoli, titoli ed esami, corso concorso o selezione per l'accertamento della
professionalità richiesta).
Il documento impone alle amministrazioni statali e suggerisce a quelle non
statali (quindi a regioni, enti locali e sanità) il ricorso, soprattutto per
la dirigenza e per i profili comuni, a concorsi unici indetti dalla Funzione
pubblica, che si avvale al riguardo della Commissione Ripam e
dell'associazione Formez Pa.
Alle amministrazioni regionali e locali viene inoltre suggerito di dare
corso a esperienze di gestione associata delle procedure concorsuali, per
evitare la “polverizzazione” del reclutamento.
Allo stesso scopo risponde un’altra indicazione presente nelle istruzioni,
vale a dire lo stimolo a realizzare procedure unificate per parti comuni
delle procedure concorsuali, a partire dalle preselezioni. Viene dettato il
vincolo per le amministrazioni statali, che si trasforma in un suggerimento
per gli altri enti, di aderire al portale nazionale del reclutamento, che
dovrà contenere le informazioni sia sui concorsi che vengono indetti sia su
quelli già espletati.
Nell’individuazione dei requisiti che i candidati devono possedere, viene
suggerito di tener conto sia del collegamento con la professionalità sia
della platea dei soggetti che ne sono in possesso, così da evitare di
ridurre eccessivamente il numero dei partecipanti.
Gli enti possono prevedere per le figure apicali anche non dirigenti, il
possesso del requisito del dottorato di ricerca, oltre alla sua
valorizzazione in termini di punteggio.
Nella scelta dei titoli, da bilanciare tra quelli di servizio (che
privilegiano chi è già un dipendente pubblico) e gli altri, si devono il più
possibile evitare discriminazioni nei confronti dei più giovani e dei
candidati esterni.
Le prove concorsuali, siano esse scritte, orali o pratiche, si devono
caratterizzare soprattutto per l'accertamento della capacità di mettere in
pratica le conoscenze possedute e, in questo modo, di risolvere i problemi
aperti, evitando quindi gli eccessi di nozionismo.
Già nelle eventuali preselezioni, la riduzione della platea dei candidati
deve essere perseguita privilegiando soprattutto il merito, le competenze
professionali e le capacità operative.
La Funzione pubblica per i concorsi unici per le amministrazioni statali
attiverà un albo dei commissari tra cui scegliere sulla base di sorteggi: lo
stesso metodo viene suggerito a tutte le Pubbliche amministrazioni, ferma
restando la necessità di dare applicazione ai vincoli dettati dalla
normativa anticorruzione e di rispettare i tetti di spesa previsti per ogni
comparto
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.04.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Deroghe
ai concorsi pubblici, torna a vincere il «fai-da-te».
Pa. Niente portale e modello unico per Regioni, sanità ed enti locali.
Regioni, sanità ed enti locali potranno evitare di aderire al Portale
nazionale del reclutamento e al “modello unico” dei concorsi che la riforma
della Pa ha messo in campo nel tentativo di cambiare modi e procedure del
reclutamento nel pubblico impiego. E potranno decidere in base alla propria
«autonomia organizzativa» come utilizzare le istruzioni per definire i
«fabbisogni di personale», alla base dell’impianto che la stessa riforma ha
indicato per superare le vecchie, e rigide, dotazioni organiche; il tutto
con l’idea di concentrare le assunzioni sul personale impegnato nelle
«funzioni fondamentali» dei vari enti, nei servizi ai cittadini e nello
sviluppo digitale delle amministrazioni.
I testi delle Linee guida sui concorsi pubblici e del decreto con le
istruzioni sui fabbisogni di personale, nelle versioni finali rivedute e
corrette per accogliere le condizioni poste dalle amministrazioni locali per
dare il proprio via libera, vanno ora alla Corte dei conti (le Linee guida)
e al ministero dell’Economia (il decreto sui fabbisogni) per gli ultimi
passaggi. E nel loro testo finale mostrano che anche in fatto di assunzioni,
come accaduto per molti capitoli della riforma Madia, quello attraverso
l’intesa obbligata con Regioni ed enti locali è stato un passaggio
tutt’altro che formale.
La filosofia dei due provvedimenti è chiara. Alla vigilia di una gobba di
pensionamenti che in quattro anni farà uscire dalla Pa almeno 500mila
persone, la riforma ha provato a mettere ordine nei nuovi ingressi con tre
ingredienti: una modifica delle prove di concorso, per introdurre prove
pratiche come «la redazione di note, di pareri, di atti, di grafici, la
soluzione di problemi di calcolo o progettazione» e verificare le «capacità»
oltre alle conoscenze teoriche dei candidati; una dose di trasparenza,
attraverso concorsi unificati anche a livello territoriale e un portale
nazionale con un censimento in tempo reale delle prove e dei loro esiti;
l’addio alla pianta organica, per modulare i nuovi ingressi in base ai
bisogni effettivi e non a fotografie sgranate delle organizzazioni.
Dalla filosofia alla pratica, però, la strada è lunga, e complicata dal
confronto serrato necessario a ottenere l’accordo con gli enti territoriali.
E il risultato finale indica che concorsi unici e portale nazionale
riguarderanno in via diretta solo le assunzioni nei ministeri e nella Pa
centrale, che peraltro in genere passano già attraverso decreti di Palazzo
Chigi: per gli enti territoriali sarà tutto facoltativo.
La prima deroga importante colpisce proprio il portale nazionale: a dare
valore a un censimento di questo tipo è la sua completezza ma, come si legge
nelle Linee guida finali, «l’adesione e la conseguente trasmissione delle
informazioni alla banca dati da parte degli enti territoriali è rimessa alla
determinazione degli stessi in merito a modalità e oggetti». In pratica,
solo chi vorrà aderire al nuovo sistema manderà bandi, valutazioni e
graduatorie al portale nazionale, mentre gli altri continueranno come oggi.
E tutti, compresi gli enti più piccoli, potranno mantenersi autonomi anche
nei mini-concorsi, perché di correttivo in correttivo l’adesione alle
selezioni uniche a livello territoriale è stata degradata a «opportunità
comunque consigliata».
Per non coglierla non servirà nemmeno una motivazione
esplicita, che rimane obbligatoria solo per le articolazioni territoriali
della Pa centrale che vorranno avviare concorsi in autonomia. In questo
quadro, l’obiettivo di Funzione pubblica diventa quello di attrarre le
amministrazioni tramite i servizi del portale, dalla modulistica alla
raccolta delle candidature, per ottenere con gli incentivi l’adesione che
non si riesce a garantire per via normativa.
Simile l’evoluzione della direttiva sui fabbisogni che fin dalle premesse,
nel definire l’ambito di applicazione, richiamano l’«autonomia
organizzativa» di Regioni ed enti locali nell’applicare le nuove regole. In
questo caso, l’impatto è meno rilevante perché gli enti locali già da tempo
programmano il reclutamento in termini di fabbisogni. Le novità più
importanti dovrebbero invece arrivare per la sanità, che dall’intesa ha
spuntato il via libera a una revisione dei parametri sulla spesa di
personale
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.04.2018). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI: Mail
aziendali da conservare, private da distruggere.
Il datore di lavoro deve distinguere le mail scambiate tramite le caselle in
uso ai dipendenti per scopi aziendali e conservare solo quelle.
Ci vuole, infatti, un sistema di gestione dei flussi documentali, altrimenti
la posta elettronica e anche la conservazione totale ed indiscriminata delle
comunicazioni elettroniche diventano un controllo a distanza (vietato).
La necessità di fare una cernita delle e-mail da tenere è stata dichiarata
dal Garante della privacy in un articolato provvedimento, che ha accolto la
tesi di un lavoratore (provvedimento
01.02.2018 n. 53).
Nel caso in questione ad una società è stata contestata la conservazione di
tutta la posta elettronica (anche quella privata) scambiata da un dipendente
e parte della quale (relativa a un biennio) è stata usata per contestazioni
disciplinari.
La società ha dichiarato di tenere tutte le mail per un periodo amplissimo e
cioè un anno oltre la cessazione del rapporto di lavoro; questo per esigenze
lavorative e anche per conservare eventuali prove da utilizzare a propria
difesa. Il Garante ha bocciato tale operato e ha formulato tre principi.
Il primo dice che la conservazione integrale di tutte le mail, per un tempo
amplissimo, anche in vista di possibili contenziosi, viola la disciplina del
trattamento dei dati.
Non basta una generica finalità difensiva, perché la conservazione è
legittima se riferita a contenziosi in atto o a situazioni precontenziose e
non a ipotesi astratte. Inoltre, il datore di lavoro non può accedere alle
mail individuali dopo il licenziamento del lavoratore: al cessare del
rapporto di lavoro la casella di posta elettronica deve essere disattivata e
al suo posto di devono attivare account alternativi.
Il secondo principio afferma che i sistemi di posta elettronica, in quanto
tali, non garantiscono la archiviazione selezionata e la reperibilità delle
e-mail necessarie all'efficiente svolgimento e alla continuità dell'attività
aziendale.
Il terzo principio riferisce che la raccolta massiva, prolungata ed
indiscriminata delle mail contrasta con il divieto di controllo a distanza,
anche dopo la modifica dell'articolo 4 dello statuto dei lavoratori ad opera
del Jobs Act.
Fin qui la parte che sottolinea che cosa non deve essere fatto. Il Garante,
però, indica anche i rimedi per essere in regola con la privacy. In
particolare il datore di lavoro deve predisporre sistemi di gestione
documentale in grado di individuare selettivamente i documenti che devono
essere via via archiviati. Altro accorgimento, se del caso, è quello di
individuare limiti temporali di conservazione delle e-mail, anche
diversificati in base alle funzioni svolte e coerenti con i limiti di spazio
a disposizione e/o fornendo indicazioni sulla necessità di effettuare
periodicamente la selezione e cancellazione dei messaggi conservati, al fine
di evitare eccessivi appesantimenti del sistema di gestione della posta
elettronica.
Altri adempimenti riguardano le informazioni da dare ai dipendenti, che
devono dettagliare se ci sia o meno accesso ai contenuti delle e-mail da
parte di eventuali amministratori di sistema (articolo
ItaliaOggi del 30.03.2018). |
GIURISPRUDENZA |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO DEL SUOLO – Prevenzione, riparazione
e bonifica dei siti contaminati – Disciplina – Attività di
tutela ambientale – Compressione delle attribuzioni
regionali – Diretta conseguenza delle esigenze di tutela
ambientale – Forme di coinvolgimento degli enti locali.
Spetta allo Stato disciplinare, pure con disposizioni di
dettaglio e anche in sede regolamentare, le procedure
amministrative dirette alla prevenzione, riparazione e
bonifica dei siti contaminati. È evidente che le relative
attività e i conseguenti interventi sono strettamente
condizionati alla definizione di un adeguato e puntuale
programma di rigenerazione urbana, che postula l’esercizio
di funzioni propriamente programmatorie a livello
urbanistico. Tuttavia, l’attività di tutela dell’ambiente
può implicare anche il coinvolgimento delle funzioni
appartenenti ad altre materie, limitando in tal modo le
competenze regionali.
D’altronde, la disciplina in tema di bonifica dei siti
contaminati (artt. da 239 a 253 del d.lgs. n. 152 del 2006)
tiene conto della necessaria incidenza sul «governo del
territorio», poiché gli interventi ivi previsti sono
strettamente connessi alla destinazione urbanistica delle
singole aree da bonificare. In particolare, per i siti
d’interesse nazionale si stabilisce la competenza
dell’amministrazione statale alla bonifica, qualora a ciò
non provvedano il responsabile dell’inquinamento (o lo
stesso non sia individuabile), il proprietario o altro
soggetto interessato. Ed in base a tale disciplina
l’autorizzazione del progetto e dei relativi interventi
costituisce esplicitamente variante urbanistica e comporta
dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed
indifferibilità dei lavori (art. 252, comma 6).
Dunque, per tutti gli aspetti concernenti la bonifica
dell’area interessata, la compressione delle attribuzioni
regionali in materia urbanistica è diretta conseguenza delle
esigenze di tutela ambientale, di competenza esclusiva
statale, senza che possa profilarsi una violazione delle
disposizioni costituzionali sul riparto di competenze.
Nell’allocare in capo allo Stato le varie funzioni, il
legislatore statale ha tuttavia previsto varie forme di
coinvolgimento della Regione e del Comune. Tali enti,
infatti, partecipano alla cabina di regia, alla quale è
demandata la definizione degli indirizzi strategici per
l’elaborazione del programma di risanamento ambientale e
rigenerazione urbana.
Il Soggetto attuatore, inoltre, deve acquisire ed esaminare
le proposte del Comune ai fini della predisposizione del
programma e le stesse, ove non accolte, devono essere
necessariamente rivalutate nella Conferenza di servizi. È in
tale sede, a cui partecipano Comune e Regione, che le
amministrazioni coinvolte devono raggiungere un accordo sul
programma e solo nel caso in cui ciò non avvenga la
decisione può essere rimessa ad una deliberazione del
Consiglio dei ministri, adottata però con la necessaria
partecipazione alla relativa seduta del Presidente della
Regione interessata.
Il superamento del dissenso delle amministrazioni coinvolte,
dunque, non può avvenire in via unilaterale da parte dello
Stato, ma è frutto di una complessa attività istruttoria,
articolata secondo numerosi meccanismi di raccordo, i quali,
pur disegnando un procedimento diverso dall’intesa,
assicurano una costante e adeguata cooperazione
istituzionale. Anzi, in caso di mancato accordo, il
procedimento si conclude proprio con le stesse modalità
previste per il superamento del dissenso in assenza
d’intesa, ossia con una deliberazione del Consiglio dei
ministri adottata in una seduta a cui deve necessariamente
partecipare il Presidente della Regione interessata (Corte
Costituzionale,
sentenza 13.06.2018 n. 126 -
massima tratta da
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Smaltimento rifiuti di plastica provenienti da utenze
domestiche.
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Rifiuti – Plastica – Smaltimento – Operatore privato che
non gestisce il servizio pubblico dei rifiuti –
Autorizzazione – Diniego – Legittimità.
E’ legittimo il provvedimento con il
quale un Comune nega la possibilità ad un operatore privato,
che non sia gestore del servizio pubblico dei rifiuti, di
raccogliere presso esercizi commerciali, che hanno messo a
disposizione proprie aree private, i rifiuti di plastica
provenienti da utenze domestiche (verso corrispettivo
premiale) da avviare al recupero attraverso la cessione alle
aziende specializzate (1).
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(1)
Ha chiarito il Tribunale che alla luce del quadro
regolatorio vigente in materia, la plastica consegnata dal
cittadino agli eco-conferitori non trasformata e non ancora
recuperata costituisce rifiuto di imballaggio ai sensi
dell’art. 218, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 152 del 2006.
Si tratta, in particolare, di rifiuti che derivano da
imballaggi primari ovvero quelli concepiti in modo da
costituire, nel punto di vendita, un’unità di vendita per
l’utente finale o per il consumatore (art. 218, lett. b,
d.lgs. n. 152 del 2006); essi costituiscono, pertanto,
rifiuti domestici ai sensi dell’art. 184, comma 2, lett. a),
d.lgs. n. 152 del 2006 in quanto provenienti da locali e
luoghi adibiti ad uso di civile abitazione ed in particolare
rifiuti domestici destinati al recupero;
Ha aggiunto il Tar che ai sensi dell’art. 198, comma 1,
d.lgs. n. 152 del 2006, i Comuni continuano la gestione dei
rifiuti in regime di privativa relativamente a due categorie
di rifiuti ossia i rifiuti urbani e i rifiuti assimilati
agli urbani avviati allo smaltimento; non è condivisibile la
tesi del Comune, secondo cui la dicitura di cui all’art.
198, d.lgs. n. 152 del 2006 “avviati allo smaltimento”
si riferirebbe non ai “rifiuti urbani” ma solo ai “rifiuti
assimilati”, sicché il regime di privativa sarebbe
escluso solo per questi ultimi ove non avviati allo
smaltimento ma al recupero; ergo tale regime sarebbe
riferibile “a due categorie di rifiuti: a) i rifiuti
urbani ( tutti i rifiuti urbani ); b) rifiuti assimilati
(agli urbani) avviati allo smaltimento”.
In realtà, oltre alla formulazione letterale dell’art. 198,
è l’intenzione del legislatore quale già espressa nell’art.
21, d.lgs. n. 22 del 1997 e poi nell’art. 23, l. n. 179 del
2002, a indurre a ritenere che la dicitura avviati allo
smaltimento faccia riferimento sia al rifiuto che agli
assimilati.
La norma in questione, quindi, costituisce conferma di una
volontà che il legislatore ha già esplicitato (da ultimo)
nell’art. 23, comma 1, lett. e), l. n. 179 del 2002, secondo
cui “La privativa comunale non si applica alle attività
di recupero dei rifiuti urbani e assimilati a far data dal
01.01.2003”, ponendosi l’art. 198 in questione in linea
con tale ultima norma.
Conseguentemente, l’attività disimpegnata dalla società
ricorrente, volta al recupero e non allo smaltimento, non
rientra nella privativa comunale nella gestione dei rifiuti.
La liberalizzazione dell’attività di recupero e nello
specifico dell’attività svolta dalla ricorrente
–qualificabile come attività di pubblico interesse ai sensi
dell’art. 177, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006– non comporta
che la stessa possa svolgersi al di fuori di qualsivoglia
programmazione con l’ente pubblico e al di fuori di un
convenzionamento con il Comune (artt. 199 e segg., d.lgs. n.
152 del 2006).
In caso contrario, in presenza di attività private autonoma,
ancorché autorizzate, l’attività di monitoraggio della
raccolta potrebbe subire menomazioni, potenzialmente
determinando una alterazione della percentuale di raccolta
rilevata rispetto a quella effettiva ed esponendo di contro
il Comune al rischio di penali qualora la percentuale
rilevata sia inferiore all’obiettivo minimo sancito dalla
legge.
In particolare, per quel che rileva, l’attività di raccolta
della plastica svolta da soggetti privati, al di fuori di
convenzioni con i Comuni, sfuggirebbe quindi al controllo
della P.A., con pregiudizio per l’attività di gestione dei
rifiuti. Ai detti fini non può considerarsi sufficiente né
il possesso dell’autorizzazione in capo alla società
(prevista all’art. 212, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006) né
la mera disponibilità della stessa a fornire al Comune tutti
i dati relativi alla raccolta.
In assenza di un preciso accordo giuridicamente vincolante
che regolamenti i rapporti tra impresa privata e comune
l’attività di raccolta di rifiuti di plastica tramite
ecoconferitori svolta dalla ricorrente, deve quindi
considerarsi illegittima in quanto al di fuori del sistema
integrato, come previsto dal d.lgs. n. 152 del 2006
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 12.06.2018 n. 1253
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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1. La controversia in esame mira ad accertare la legittimità
del provvedimento impugnato con il quale il Comune nega la
possibilità ad un operatore privato, che non sia gestore del
servizio pubblico dei rifiuti, di raccogliere presso
esercizi commerciali, che hanno messo a disposizione proprie
aree private, i rifiuti di plastica provenienti da utenze
domestiche (verso corrispettivo premiale) da avviare al
recupero attraverso la cessione alle aziende specializzate.
In particolare, tra le parti i punti controversi
sostanzialmente afferiscono alla natura di “rifiuto” del
materiale plastico raccolto dalla ricorrente (sostenendo
l’amministrazione che trattasi di rifiuto e parte ricorrente
di risorsa) ed alla sussistenza del regime di privativa o
meno con riferimento all’attività de qua (sostenendo parte
ricorrente, contrariamente al Comune, che trattasi di
attività liberalizzata).
La società ricorrente assume che nella gestione dei rifiuti
sussisterebbe una netta distinzione tra i rifiuti da avviare
allo smaltimento e quelli da avviare al recupero, essendo i
primi soggetti ad un regime di privativa, regime che,
invece, sarebbe escluso per i secondi, soggetti al libero
mercato aperto anche agli operatori privati dotati delle
relative autorizzazioni e iscrizioni previste dalla legge.
Fonda le proprie deduzioni sull’art. 21, comma 7, del D.lgs.
22/1997, così come confluito negli artt. 198, 217 e 218, lett.
m), del D.lgs. 152/2006.
Assume, altresì, che la fase del “recupero”, oggetto di
liberalizzazione, secondo un criterio teleologico,
comprenderebbe l’intera catena delle operazioni preliminari
e intermedie (e quindi anche raccolta e trasporto),
contrariamente a quanto ritenuto dal Comune resistente; tale
assunto si fonderebbe sull’art. 183, comma 1, lett. t), del
D.lgs. n.152/2006.
2. Il ricorso è infondato.
2.1. Occorre, preliminarmente, affrontare la tematica della
qualifica del bene in questione per accertare se esso
rientri o meno nella nozione di rifiuto, per poi esaminare
la conseguente questione della modalità della sua gestione.
Ai sensi dell’art. 183 del D.lgs. n. 152/2006, comma 1, lett. a),
è “rifiuto”: “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il
detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di
disfarsi”.
In relazione alla nozione di “rifiuto” la giurisprudenza
ritiene che in essa rientri qualsiasi sostanza o oggetto di
cui il detentore si disfi, in qualsiasi maniera detta
operazione sia compiuta (Corte di Giustizia, sez. V, 15.06.2000; TAR Lombardia Milano sez. IV, 27.02.2014, n. 534).
In particolare, la nozione di rifiuto non dipende dalla
natura del materiale (che abbia o meno valore economico, che
sia riutilizzabile o meno), né dall’uso che terzi faranno
del materiale stesso una volta che questo sia uscito dalla
sfera di controllo del produttore/detentore, ma
esclusivamente dalla volontà di quest’ultimo di non voler
più utilizzare il materiale stesso, secondo la sua funzione
economica di origine (Cass. Pen. Sez. III, 20.01.2015,
n.29069).
A supporto di quanto appena detto, l’art. 184-ter del D.Lgs.
n. 152/2006 stabilisce, al primo comma, che un rifiuto cessa
di essere tale, quando è sottoposto ad un’operazione di
recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il
riutilizzo (ma non prima).
Il successivo comma 5 dello stesso art. 184-ter prevede che
“la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica
fino alla cessazione della qualifica di rifiuto”.
È stato, altresì, affermato che "Rientrano nella nozione di
"rifiuto", ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 22 del 1997 (come risultante dalla interpretazione
autentica effettuata dall'art. 14 della L. n. 187 del 2002)
tutti i materiali e i beni di cui il soggetto produttore "si
disfi", con ciò intendendo qualsiasi comportamento
attraverso il quale, in modo diretto o indiretto, una
sostanza un materiale o un bene siano avviati e sottoposti
ad attività di smaltimento o anche di "recupero", e che sia
da altri recuperato e messo in riserva, con esclusione del
solo deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in
cui i materiali o beni sono prodotti, non rilevando ad
escludere la natura di rifiuto del bene l'intenzione di chi
effettua il recupero, o anche la reale possibilità di
reimpiego dei materiali nel ciclo produttivo (Cassazione
civile sez. II 13.09.2006 n. 1964): nella
fattispecie decisa dalla sentenza citata, la Corte Suprema
ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto
costituissero rifiuti i materiali ferrosi stoccati presso
una ditta di recupero e destinati parzialmente a recupero
previa separazione” (TAR Torino sez. II,
04.12.2012,
n. 1303).
2.2. Alla luce della superiore ricostruzione,
ritiene il
Collegio che la plastica consegnata dal cittadino agli eco-conferitori non trasformata e non ancora recuperata
costituisca rifiuto.
Quelli in questione, in particolare, costituiscono rifiuti
di imballaggio ai sensi dell’art. 218, comma 1, lettera f),
del d.lgs. n. 152/2006. Si tratta, nella specie, di rifiuti che
derivano da imballaggi primari ovvero quelli concepiti in
modo da costituire, nel punto di vendita, un’unità di
vendita per l’utente finale o per il consumatore (art. 218, lett. b, del D.Lgs. cit.).
Essi costituiscono, pertanto, rifiuti domestici ai sensi
dell’art. 184, comma 2, lettera a), del d.lgs. n.152/06, in
quanto provenienti da locali e luoghi adibiti ad uso di
civile abitazione ed in particolare rifiuti domestici
destinati al recupero.
3. Occorre a questo punto esaminare la contestazione mossa
da parte ricorrente al Comune, secondo il quale,
indipendentemente dall’avvio al recupero, la gestione di
tutti i rifiuti, ai sensi dell’art. 198 del D.Lgs.
n. 152/2006, sarebbe soggetta a privativa.
Parte ricorrente ritiene, invece, che, ai sensi dell’art. 198
e dell’art. 217 del testo unico, l’attività in questione,
avviata al recupero e non allo smaltimento, sarebbe stata
liberalizzata.
3.1. La tesi di parte ricorrente, al riguardo, va accolta.
Infatti, ai sensi dell’art. 198, comma 1, del D.lgs.
152/2006, i Comuni continuano la gestione dei rifiuti in
regime di privativa relativamente a due categorie di rifiuti
ossia i rifiuti urbani e i rifiuti assimilati agli urbani
avviati allo smaltimento.
In particolare: “1. I comuni concorrono, nell'ambito delle
attività svolte a livello degli ambiti territoriali ottimali
di cui all'articolo 200 e con le modalità ivi previste, alla
gestione dei rifiuti urbani ed assimilati. Sino all'inizio
delle attività del soggetto aggiudicatario della gara ad
evidenza pubblica indetta dall'Autorità d'ambito ai sensi
dell'articolo 202, i comuni continuano la gestione dei
rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo
smaltimento in regime di privativa nelle forme di cui
all'articolo 113, comma 5, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.”.
Inoltre, a mente dell’art. 217, comma primo, ultimo periodo,
del D.Lgs. 152/2006 (Testo Unico Ambientale) “I sistemi di
gestione (degli imballaggi) devono essere aperti alla
partecipazione degli operatori economici interessati”. Tale
regola di mercato, continua il secondo comma, riguarda: “la
gestione di tutti gli imballaggi immessi sul mercato
dell’Unione europea e di tutti i rifiuti di imballaggio
derivanti dal loro impiego, utilizzati o prodotto da
industrie, esercizi commerciali, uffici, negozi, servizi,
nuclei domestici o da qualunque altro soggetto che produce o
utilizza imballaggi o rifiuti di imballaggio, qualunque
siano i materiali che li compongono”.
Ai sensi della normativa citata, non è, invece,
condivisibile la tesi del Comune, secondo cui la dicitura
dell’art. 198 “avviati allo smaltimento” si riferirebbe non
ai “rifiuti urbani” ma solo ai “rifiuti assimilati”, sicché
il regime di privativa sarebbe escluso solo per questi
ultimi ove non avviati allo smaltimento ma al recupero; ergo
tale regime sarebbe riferibile “a due categorie di rifiuti:
a) i rifiuti urbani ( tutti i rifiuti urbani );
b) rifiuti assimilati ( agli urbani ) avviati allo
smaltimento”.
Invero, oltre alla formulazione letterale dell’art. 198 cit,,
è anche l’intenzione del legislatore, quale già espressa
nell’art. 21, del D.lgs. n. 22/1997 e poi nell’art. 23 della
legge 179/2002, a indurre a ritenere che la dicitura
“avviati allo smaltimento” faccia riferimento sia al rifiuto
che agli assimilati (TAR Brescia, sez. II, 30.01.2018, n. 138).
L’art. 198 in questione, quindi, costituisce conferma di una
volontà che il legislatore ha già esplicitato (da ultimo)
nell’art. 23, comma 1, lett. e), della legge n. 179/2002,
secondo cui “La privativa comunale non si applica alle
attività di recupero dei rifiuti urbani e assimilati a far
data dal 01.01.2003”, ponendosi in linea con tale
ultima norma.
Conseguentemente, l’attività disimpegnata dalla società
ricorrente –volta al recupero e non allo smaltimento- non
rientra nella privativa comunale della gestione dei rifiuti.
4. Tuttavia, la nota impugnata fonda il diniego, oltre che
sull’argomentazione della privativa nella gestione del
servizio dei rifiuti urbani, anche sulla tesi per cui
l’eventuale venir meno della privativa, comunque, non
sottrarrebbe l’attività di recupero all’attività di
pianificazione regionale e provinciale, ciò in quanto:
- la gestione dei rifiuti urbani, complessivamente intesa, è
da intendersi come servizio pubblico essenziale (art. 1 L.
n. 146/1990), che anche indipendentemente dal diritto di
privativa è comunque soggetta a disciplina pubblica
specifica nonché a regime tariffario;
- l’eventuale restituzione al mercato dell’attività non
influisce sulla disciplina complessiva della gestione dei
rifiuti urbani e nello specifico sulle competenze di
pianificazione come definite dal d.lgs. 152/2006 e LL.RR.
successive, che riguarderebbero la gestione dei rifiuti
urbani nel suo complesso;
- il principio dell’autosufficienza impiantistica
nell’ambito territoriale ottimale permane pienamente;
- solo in assenza di impianti pubblici già in esercizio in
territorio provinciale, che possano soddisfare l’intero
fabbisogno, è ipotizzabile che la pianificazione possa
prevedere la realizzazione di nuovi impianti o soluzioni
alternative di gestione.
4.1. Il Collegio ritiene che il provvedimento impugnato, in
tale parte motivazionale, resista alle censure sollevate da
parte ricorrente nei termini che seguono.
Superato il diritto di privativa, viene introdotto, con
riferimento alle attività di recupero, il possibile
esercizio di attività di pubblico interesse aperta al
mercato e, quindi, agli operatori privati.
L’apertura al mercato per l’attività de qua –qualificabile
come attività di pubblico interesse ai sensi dell’art. 177, co. 1, del D.Lgs. n. 152/2006– non esclude, però, alla luce
dell’attuale sistema normativo, le competenze programmatorie
e pianificatorie regionali, provinciali e comunali quali
previste dal d.lgs. 152/2006 (art. 199 e segg.), che
riguardano la gestione dei rifiuti urbani nel suo complesso.
Per quel che qui interessa, in base alla normativa vigente,
riutilizzare, riciclare e recuperare materie prime dai
rifiuti costituiscono sì azioni prioritarie, ma in un
organico sistema di gestione integrata.
A tal riguardo, il titolo II del codice ambientale (art.
205) -così come l’art. 9 della L.R. 9/2010- fissa gli
obiettivi minimi di recupero e di riciclaggio e indica che
la gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai princìpi di responsabilizzazione e cooperazione di tutti i
soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione,
nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i
rifiuti.
In particolare, l’art. 205 cit. prescrive che ogni Comune
debba assicurare la raccolta differenziata nelle percentuali
indicate e, a tali fini, è indispensabile che il Comune
abbia il completo monitoraggio dell’attività di raccolta dei
rifiuti svolta sul territorio.
In presenza di attività private autonome, ancorché
autorizzate, l’attività di monitoraggio della raccolta
potrebbe subire menomazioni, potenzialmente determinando
un’alterazione della percentuale di raccolta rilevata
rispetto a quella effettiva ed esponendo, di contro, il
Comune al rischio di penali qualora la percentuale rilevata
sia inferiore all’obiettivo minimo sancito dalla legge.
Per quel che rileva, l’attività di raccolta della plastica
svolta da soggetti privati, al di fuori di convenzioni con i
Comuni, sfuggirebbe al controllo della P.A., con pregiudizio
per l’attività di gestione dei rifiuti.
Né ai detti fini può considerarsi sufficiente il possesso
dell’autorizzazione in capo alla società (prevista all’art.
212, c. 5, d.lgs. 152/2006) o la mera disponibilità della
stessa a fornire al Comune tutti i dati relativi alla
raccolta, non potendo la gestione di tali essenziali dati
essere lasciata alla mera volontà dell’operatore privato.
Ne consegue che, in assenza di un preciso accordo
giuridicamente vincolante che regolamenti i rapporti tra
impresa privata e Comune, l’attività di raccolta di rifiuti
di plastica tramite eco-conferitori svolta dalla ricorrente
deve considerarsi illegittima, in quanto svolta al di fuori
del sistema integrato, come previsto dal D.Lgs. 152/2006 e
della programmazione allo stesso relativa.
4.2. Nondimeno, occorre dare atto che, il Piano di Gestione
Rifiuti Regionale del giugno 2012, allegato al ricorso,
recita che: “E’ importante sottolineare il valore
dell’iniziativa privata ad integrazione e supporto
dell’azione pubblica. Tale principio deve governare: da un
lato, la possibilità di accogliere e sostenere iniziative di
istituzione di Ecopunti o altri circuiti di prelievo di
materiali suscettibili di valorizzazione (cenciaioli,
associazioni di carità) tipicamente fondati sulla iniziativa
imprenditoriale ed associativa; dall’altro la collaborazione
tra Amministrazioni e operatori del servizio nella
definizione di dettaglio dei sistemi a livello locale, e nel
feedback di sistema allo scopo di individuare adattamenti e
campagne di informazione”.
Alla luce dei superiori principi, espressi nel piano
regionale, quindi, l’attività del privato di intercettazione
del rifiuto con gli eco-compattatori è possibile ed anzi da
incentivare; tuttavia essa deve inserirsi all’interno del
circuito complessivo di gestione del RU delle attività in
questione, quale iniziativa che si ponga ad integrazione e
supporto dell’attività dell’ente pubblico e dell’attività programmatoria dello stesso nei termini di cui si è detto;
essa, pertanto, ai fini della sua ammissibilità, va
previamente regolamentata e fatta oggetto di
convenzionamento con il comune, alla luce della logica del
sistema integrato voluto dal D.Lgs. n. 152/2006.
Da un punto di vista pratico, del resto, un’iniziativa del
genere, al di fuori di una programmazione dell’ente (e
quindi “fuori convenzione”), oltre alle dette problematiche
in termini di certezza del dato relativo alla percentuale di
raccolta differenziata raggiunta, potrebbe comportare
conseguenze anche nell’ambito dei rapporti con il gestore
del servizio di igiene ambientale, alla luce delle
previsioni del capitolato elaborato sulla base di
valutazioni pianificatorie che non tengono conto di simili
iniziative.
5. Da quanto esposto deriva la legittimità del provvedimento
impugnato nella parte in cui fonda il diniego sulla
necessità di una programmazione dell’ente pubblico per
l’esercizio dell’attività in questione, esimendo ciò il
Collegio dall’esame delle ulteriori censure sin qui non
esaminate, per difetto di interesse (Cons. di St., sez. III,
05.12.2017, n. 5739).
Rimane salva l’ulteriore attività del Comune in materia alla
luce dei suesposti principi e della normativa vigente,
nonché delle indicazioni e delle sollecitazioni fornite
dalla relativa programmazione regionale sul tema.
6. Dall’infondatezza del ricorso discende il rigetto della
domanda risarcitoria. |
PATRIMONIO: Sulla
legittimità del disposto annullamento d’ufficio di una
convenzione avente ad oggetto la concessione di un bene
pubblico (ndr: campi da tennis comunali), il cui avvenuto
affidamento s'è verificato al di fuori di un’apposita
procedura ad evidenza pubblica.
Com’è noto un’ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, che trae origine dai principi di
concorrenzialità di derivazione eurounitaria, impone che le
concessioni demaniali, in quanto concernenti beni
economicamente contendibili, siano affidate mediante
procedura di gara.
---------------
Quando il vizio che inficia l’atto amministrativo è
significativamente grave, in quanto implica la violazione di
regole e principi posti a presidio di beni di particolare
rilevanza, il potere di autotutela, pur non assumendo natura
meramente vincolata, si caratterizza per una più intensa
considerazione dell’interesse pubblico rispetto a quello
privato con la conseguenza che il giudizio di prevalenza del
primo sul secondo richiede una motivazione meno pregnante.
E’ stato, infatti, affermato che “che l'onere motivazionale
gravante sull'amministrazione risulterà attenuato in ragione
della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici
tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo,
esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle
pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle
disposizioni di tutela che risultano in concreto violate,
che normalmente possano integrare, ove necessario, le
ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso
dell'esercizio del ius poenitendi”.
Nel caso di specie l’amministrazione ha correttamente
rilevato che:
a) l’impianto sportivo era stato affidato in via diretta e quindi
con grave violazione delle norme e dei principi che
impongono, a tutela sia della concorrenza, sia
dell’interesse pubblico al più conveniente sfruttamento
della risorsa, l’assegnazione mediante procedure ad evidenza
pubblica;
b) l’annullamento in autotutela non avrebbe arrecato alcun danno
all’interessato non essendo stata la struttura mai
consegnata.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR Campania–Napoli,
Sezione VIII, n. 3898/2016, resa tra le parti, concernente
l’annullamento in autotutela di una convenzione avente ad
oggetto la concessione di un bene pubblico.
...
9.3. I due mezzi di gravame, così sinteticamente riassunti,
si prestano ad una trattazione congiunta e meritano
accoglimento.
Invero l’appellante ha condivisibilmente rilevato che il
giudice di prime cure non ha adeguatamente considerato la
principale ragione posta a base del disposto annullamento
d’ufficio, ovvero l’avvenuto affidamento della concessione
al di fuori di un’apposita procedura ad evidenza pubblica.
Com’è noto un’ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, che trae origine dai principi di
concorrenzialità di derivazione eurounitaria, impone che le
concessioni demaniali, in quanto concernenti beni
economicamente contendibili, siano affidate mediante
procedura di gara (Cons. Stato, A.P. 25/02/2013, n. 5; Sez.
V, 23/11/2016, n. 4911 e 05/12/2014, n. 6029; Sez. VI
31/01/2017 n. 394; 04/04/2011 n. 2097; 30/10/2010 n. 7239 e
17/02/2009, n. 902, in veda anche Corte Giust. UE, Sez. V,
14/07/2016, in C-458/14, che ha ritenuto contraria al
diritto dell’Unione la proroga automatica delle suddette
concessioni).
Orbene, ritiene la Sezione che quando il vizio che inficia
l’atto amministrativo è significativamente grave, in quanto
implica la violazione di regole e principi posti a presidio
di beni di particolare rilevanza, il potere di autotutela,
pur non assumendo natura meramente vincolata, si
caratterizza per una più intensa considerazione
dell’interesse pubblico rispetto a quello privato con la
conseguenza che il giudizio di prevalenza del primo sul
secondo richiede una motivazione meno pregnante.
E’ stato, infatti, affermato che “che l'onere
motivazionale gravante sull'amministrazione risulterà
attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli
interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di
maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il
richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio
alle disposizioni di tutela che risultano in concreto
violate, che normalmente possano integrare, ove necessario,
le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso
dell'esercizio del ius poenitendi” (Cons. Stato, A.P.
17/10/2017, n. 8).
Nel caso di specie l’amministrazione ha correttamente
rilevato che:
a) l’impianto sportivo era stato affidato in via diretta e quindi
con grave violazione delle norme e dei principi che
impongono, a tutela sia della concorrenza, sia
dell’interesse pubblico al più conveniente sfruttamento
della risorsa, l’assegnazione mediante procedure ad evidenza
pubblica;
b) l’annullamento in autotutela non avrebbe arrecato alcun danno
all’interessato non essendo stata la struttura mai
consegnata.
Vero è che l’omessa consegna è dipesa dall’inadempimento di
uno specifico obbligo assunto dal comune con la concessione
e la stipula della relativa convenzione.
Ma ciò, se da un lato può assumere rilevanza ai fini
di un eventuale responsabilità per danni, esclude,
dall’altro, il radicarsi, in capo al privato, di un
interesse alla conservazione del bene attenuandone la
posizione di affidamento.
A ciò aggiungasi che il primo annullamento d’ufficio è
intervenuto entro un arco di tempo non eccessivamente lungo
(6 mesi) dall’adozione del provvedimento di primo grado.
Alla luce delle esposte considerazioni deve ritenersi che
l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione sia
stato nella specie adeguatamente soddisfatto.
10. L’appello va, in definitiva, accolto (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 11.06.2018 n. 3588 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla Corte di Giustizia i limiti del ricorso al subappalto
ex art. 118, d.lgs. n. 163 del 2006.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Subappalto –
Quote - Limiti exart. 118, d.lgs. n. 163 del 2006 –
Conformità alla disciplina europea – rimessione alla Corte
di Giustizia Ue.
Deve essere rimessa alla corte di
giustizia la questione se i principi di libertà di
stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli
artt. 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione
Europea (TFUE), gli artt. 25 della Direttiva 2004/18 del
Parlamento Europeo e del Consiglio del 31.03.2004 e 71 della
Direttiva 2014/24 del Parlamento Europeo e del Consiglio del
26.02.2014, che non contemplano limitazioni per quanto
concerne la quota subappaltatrice ed il ribasso da applicare
ai subappaltatori, nonché il principio eurounitario di
proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa
nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella
italiana contenuta nell’art. 118, commi 2 e 4, d.lgs.
12.04.2006, n. 163, secondo la quale il subappalto non può
superare la quota del trenta per cento dell’importo
complessivo del contratto e l’affidatario deve praticare,
per le prestazioni affidate in subappalto, gli stessi prezzi
unitari risultanti dall’aggiudicazione, con un ribasso non
superiore al venti per cento (1).
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(1)
Ad avviso della Sezione la previsione, contenuta nell’art.
118, commi 2 e 4, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, dei limiti
generali dettati dai due commi dell’art. 118 in questione
(contenenti rispettivamente un limite generale del 30% per
il subappalto, con riferimento all’importo complessivo del
contratto, impedendo agli operatori economici di
subappaltare a terzi una parte cospicua delle opere, pari al
70%, nonché un limite del 20% al ribasso da applicare ai
subappaltatori), può rendere più difficoltoso l’accesso
delle imprese, in particolar modo di quelle di piccole e
medie dimensioni, agli appalti pubblici, così ostacolando
l’esercizio della libertà di stabilimento e della libera
prestazione dei servizi e precludendo, peraltro, agli stessi
acquirenti pubblici l’opportunità di ricevere offerte più
numerose e diversificate; tale limite, non previsto dalla
direttiva 2004/18, impone una restrizione alla facoltà di
ricorrere al subappalto per una parte del contratto fissata
in maniera astratta in una determinata percentuale dello
stesso, e ciò a prescindere dalla possibilità di verificare
le capacità di eventuali subappaltatori e senza menzione
alcuna del carattere essenziale degli incarichi di cui si
tratterebbe, in contrasto con gli obiettivi di apertura alla
concorrenza e di favore per l’accesso delle piccole e medie
imprese agli appalti pubblici
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
ordinanza 11.06.2018 n. 3553 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Avvalimento per il possesso di requisiti integranti la
capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Avvalimento -
Possesso di requisiti integranti la capacità
tecnico-professionale ed economico-finanziaria – Indicazione
referente tecnico con riferimento ai requisiti esperienziali
– Sufficienza.
E’ legittimo il contratto di
avvalimento per il possesso di requisiti integranti la
capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria che,
con riferimento ai requisiti esperienziali caratterizzati da
astrattezza, indichi un referente tecnico, non essendo
necessaria la messa a disposizione di mezzi e attrezzature
(1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che la giurisprudenza ha in più occasioni
affrontato la distinzione tra avvalimento c.d. di garanzia e
avvalimento c.d. tecnico od operativo, sulla quale si sono
diffusamente soffermate le parti nelle rispettive memorie.
Il Tar ha richiamato Cons.
St., sez. V, 28.02.2018, n. 1216 secondo cui l’avvalimento
c.d. di garanzia «ricorre nel caso in cui l’ausiliaria
metta a disposizione dell’ausiliata la propria solidità
economica e finanziaria, rassicurando la stazione appaltante
sulle sue capacità di far fronte agli impegni economici
conseguenti al contratto d’appalto, anche in caso di
inadempimento: tale è l’avvalimento che abbia ad oggetto i
requisiti di carattere economico-finanziario e, in
particolare, il fatturato globale o specifico», mentre
l’avvalimento c.d. tecnico od operativo «ricorre, per
contro, nel caso in cui l’ausiliaria si impegni a mettere a
disposizione dell’ausiliata le proprie risorse
tecnico-organizzative indispensabili per l’esecuzione del
contratto di appalto: tale è l’avvalimento che abbia ad
oggetto i requisiti di capacità tecnico-professionale tra i
quali, ad esempio, la dotazione di personale».
Il giudice di appello ha poi ribadito che «nel primo caso
(in cui l’impresa ausiliaria si limita a “mettere a
disposizione” il suo valore aggiunto in termini di
solidità finanziaria e di acclarata esperienza di settore),
non è, in via di principio, necessario che la dichiarazione
negoziale costitutiva dell’impegno contrattuale si riferisca
a specifici beni patrimoniali o ad indici materiali atti ad
esprimere una certa e determinata consistenza patrimoniale
e, dunque, alla messa a disposizione di beni da descrivere
ed individuare con precisione, ma è sufficiente che dalla
ridetta dichiarazione emerga l’impegno contrattuale a
prestare ed a mettere a disposizione dell’ausiliata la
complessiva solidità finanziaria ed il patrimonio
esperienziale, così garantendo una determinata affidabilità
e un concreto supplemento di responsabilità»; di converso «nel
caso di avvalimento c.d. tecnico od operativo (che ha ad
oggetto requisiti diversi rispetto a quelli di capacità
economico-finanziaria) sussiste sempre l’esigenza di una
messa a disposizione in modo specifico di risorse
determinate: onde è imposto alle parti di indicare con
precisione i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata
per eseguire l’appalto».
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche il Consiglio di
Stato ha concluso (con riferimento al caso sottoposto al suo
esame) che «per la messa a disposizione dell’esperienza
professionale, nella specie, per giunta, correlata a servizi
di natura intellettuale, come tali ad esecuzione
necessariamente personale, quali la progettazione o la
direzione dei lavori, la vigilanza e controllo
sull’esecuzione del contratto di servizio» era
necessario «che nel contratto fossero puntualmente
indicati (e messi quindi, come tali, effettivamente e
concretamente a disposizione dell’impresa ausiliata) i
mezzi, gli strumenti e le competenze adeguati. E ciò anche
al fine di consentire alla stazione appaltante la puntuale
ed obiettiva verifica della effettività ed utilità
dell’impegno promesso. In realtà, nei contratti di
avvalimento per cui è causa risulta omessa l’indicazione del
professionista che aveva maturato l’esperienza nei settori
in questione (vigilanza e controllo sull’esecuzione del
contratto di servizio; progettazione e direzione dei lavori)
e che avrebbe fatto parte del gruppo di professionisti
incaricati di svolgere le attività concretamente oggetto di
appalto» (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 11.06.2018 n. 128
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
All’Adunanza plenaria la corretta applicazione del computo
del cd. ”fattore di correzione”.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte - Cd.
”fattore di correzione” – Computo - Art. 97, comma 2, lett.
b), secondo alinea, d.lgs. n. 50 del 2016 – Criterio – Dubbi
in giurisprudenza – Rimessione all’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato.
Deve essere rimessa all’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato la questione relativa alla
corretta interpretazione dell’art. 97, comma 2, lett. b),
secondo alinea, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, nella parte in cui
si richiamano i “concorrenti ammessi” per il computo del cd.
”fattore di correzione”, per stabilire se vi rientrano anche
i concorrenti le cui offerte sono state escluse dal punto di
vista aritmetico per il calcolo del cd. taglio delle ali
(1).
---------------
(1)
Ha ricordato la Sezione che secondo una prima tesi, alla
quale aderisce, dalla lettera del disposto di cui all’art.
97, comma 2, lett. b), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, si
evidenzia la necessità di procedere al c.d. “taglio delle
ali” per la determinazione della media aritmetica dei
ribassi, senza precisare alcunché quanto al calcolo della
somma dei ribassi offerti, necessario ai fini del calcolo
del fattore di correzione.
Se il legislatore avesse voluto escludere le offerte che
residuano dopo il taglio delle ali, oltre che nel calcolo
della media, anche nella determinazione del fattore di
correzione della media stessa, lo avrebbe esplicitato,
anziché fare genericamente riferimento ai “ribassi
offerti dai concorrenti ammessi”.
Pertanto, l’operazione di somma dei ribassi è diversa dalla
media aritmetica prevista dalla prima parte dell’art. 97,
comma 2, lett. b).
Secondo un’altra tesi, condivisa da una parte della
giurisprudenza amministrativa sia di appello che di primo
grado (cfr., per il grado di appello, le recenti sentenze
sez. V, 23.01.2018, n. 435 e 17.05.2018, n. 2959), per il
calcolo della media aritmetica non vanno considerate le
offerte previamente escluse in virtù del taglio delle ali,
non ritenendosi che il legislatore abbia inteso applicare il
calcolo della media limitatamente ai ribassi ammessi dopo il
taglio delle ali per poi successivamente calcolare,
all’opposto, la somma dei ribassi prendendo in
considerazione tutti i ribassi originali, seppur già
esclusi.
Ha ricordato la Sezione che l'Adunanza plenaria si è già
occupata del tema (ma non del caso di specie), già chiarendo
il criterio di calcolo delle offerte da accantonare nel c.d.
taglio delle ali (Cons.
St., A.P., 19.09.2017, n. 5, su remissione della
Sezione III con ord. 13.03.2017, n. 1151,
stabilendo che, avuto riguardo al criterio di calcolo delle
offerte da accantonare nel c.d. taglio delle ali, quando il
criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso,
devono applicarsi i seguenti principi di diritto:
a) il comma 1 dell’art. 86, d.lgs. n. 163 del 2006 deve essere
interpretato nel senso che, nel determinare il dieci per
cento delle offerte con maggiore e con minore ribasso (da
escludere ai fini dell’individuazione di quelle utilizzate
per il computo delle medie di gara), la stazione appaltante
deve considerare come ‘unica offerta’ tutte le
offerte caratterizzate dal medesimo valore, e ciò sia se le
offerte uguali si collochino ‘al margine delle ali’,
sia se si collochino ‘all’interno’ di esse;
b) il secondo periodo del comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010 (secondo
cui “qualora nell'effettuare il calcolo del dieci per
cento di cui all'art. 86, comma 1, del codice siano presenti
una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da
accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai
fini del successivo calcolo della soglia di anomalia”)
deve a propria volta essere interpretato nel senso che
l’operazione di accantonamento deve essere effettuata
considerando le offerte di eguale valore come ‘unica
offerta’ sia nel caso in cui esse si collochino ‘al
margine delle ali’, sia se si collochino ‘all’interno’
di esse.
Tale pronuncia conferma l’importanza di massima della
questione del corretto criterio di calcolo delle soglie di
anomalia, a valle delle incertezze (e delle conseguenti
divergenti pronunce giurisprudenziali, specie di primo
grado) derivanti dalla infelice formulazione lessicale delle
relative norme, essenziale per garantire la correttezza
degli appalti pubblici e la sostenibilità delle relative
offerte (Consiglio
di Stato, Sez. V,
ordinanza 08.06.2018 n. 3472 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: VAS:
nozione di piani e programmi.
Il Conseil d’État belga ha sottoposto alla Corte di
Giustizia UE la seguente questione relativa alla nozione di
piani e programmi sottoposti alla direttiva VAS:
«Se l’articolo 2, lettera a), della direttiva VAS debba
essere interpretato nel senso che è compreso nella nozione
di “piani e programmi” un regolamento urbanistico adottato
da un’autorità regionale il quale:
– contiene una cartografia che ne fissa il perimetro di
applicazione, limitato a un solo quartiere, e che individua
all’interno di tale perimetro diversi isolati per i quali
valgono norme distinte in materia di tracciamento e di
altezza degli edifici;
– prevede anche disposizioni specifiche di pianificazione per aree
adiacenti agli immobili, nonché indicazioni precise
sull’applicazione spaziale di talune norme da esso stesso
stabilite prendendo in considerazione le strade, linee
dritte tracciate perpendicolarmente alle strade e distanze
rispetto all’allineamento delle strade;
– persegue l’obiettivo di trasformare il quartiere interessato; e
– istituisce regole per la presentazione delle domande di
autorizzazione urbanistica soggette a valutazione ambientale
in detto quartiere».
La Corte di Giustizia UE, rispondendo alla questione
sottoposta, ha così statuito:
«L’articolo
2, lettera a), l’articolo 3, paragrafo 1, e l’articolo 3,
paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2001/42/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.06.2001,
concernente la valutazione degli effetti di determinati
piani e programmi sull’ambiente, devono essere interpretati
nel senso che un regolamento urbanistico regionale, come
quello di cui al procedimento principale, che contiene
determinate prescrizioni per l’esecuzione di progetti
urbanistici, rientra nella nozione di «piani e programmi»
che possono avere effetti significativi sull’ambiente, ai
sensi di detta direttiva, e va, di conseguenza, sottoposto
ad una valutazione ambientale»
(Corte di Giustizia UE, Sez. II,
sentenza 07.06.2018 - causa C-671/16) (commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it). |
URBANISTICA: VAS:
nozione di piani e programmi.
Il Conseil d’État belga ha sottoposto alla Corte di
Giustizia UE anche l'ulteriore questione relativa alla
nozione di piani e programmi sottoposti alla direttiva VAS:
«Se l’articolo 2, lettera a), della direttiva VAS debba
essere interpretato nel senso che è compreso nella nozione
di “piano o programma” un perimetro previsto da una
disposizione di natura legislativa e adottato da un’autorità
regionale il quale:
– abbia per oggetto unicamente la definizione dei contorni di
un’area geografica in cui potrebbe essere realizzato un
progetto di urbanizzazione, fermo restando che detto
progetto, che dovrà perseguire un obiettivo determinato
–vertente, nella specie, sulla riqualificazione e sullo
sviluppo di funzioni urbane e necessitante la creazione, la
modifica, l’ampliamento, la soppressione o il rifacimento
della rete stradale e degli spazi pubblici–, costituisce il
fondamento dell’adozione del perimetro, la quale implica
dunque l’accoglimento del relativo principio, ma dovrà
essere oggetto di ulteriore rilascio di permessi soggetti ad
una valutazione degli effetti;
– abbia per effetto, sul piano procedurale, che le richieste di
permessi per opere o lavori da effettuare nell’ambito del
perimetro beneficino di una procedura in deroga, fermo
restando che le prescrizioni urbanistiche applicabili ai
suoli interessati prima dell’adozione del perimetro
continuano ad applicarsi, ma diventa più facile derogarvi;
– e benefici di una presunzione di pubblica utilità per le
espropriazioni da eseguire nel quadro del piano di
espropriazione ad esso allegato».
La Corte di Giustizia UE, rispondendo alla questione
sottoposta, ha così statuito:
«L’articolo 2, lettera a), l’articolo 3,
paragrafo 1, e l’articolo 3, paragrafo 2, lettera a), della
direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 27.06.2001, concernente la valutazione degli effetti di
determinati piani e programmi sull’ambiente, devono essere
interpretati nel senso che un decreto che adotta un
perimetro di consolidamento urbano, che ha l’unico obiettivo
di definire un’area geografica all’interno della quale potrà
essere realizzato un progetto urbanistico di
riqualificazione e sviluppo delle funzioni urbane che
necessiti la creazione, la modifica, la soppressione o il
rifacimento della rete stradale e degli spazi pubblici, per
la realizzazione del quale sarà consentito derogare a talune
disposizioni urbanistiche, rientra, in ragione di tale
facoltà di deroga, nella nozione di «piani o programmi» che
possono avere effetti significativi sull’ambiente, ai sensi
di detta direttiva, e richiede una valutazione ambientale»
(Corte di
Giustizia UE, Sez. II,
sentenza
07.06.2018 - causa C-160/17)
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ noto al Collegio il consolidato orientamento
giurisprudenziale per cui la struttura costituita da due pali
poggiati sul pavimento di un terrazzo a livello e da quattro
traverse con binario di scorrimento a telo in pvc, ancorata
al sovrastante balcone e munita di copertura rigida a riparo
del telo retraibile (c.d. pergotenda) non configura né un
aumento del volume e della superficie coperta, né la
creazione o la modificazione di un organismo edilizio, né
l'alterazione del prospetto o della sagoma dell'edificio cui
è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la
destinazione d'uso degli spazi interni interessati, della
sua facile e completa rimovibilità, dell'assenza di
tamponature verticali e della facile rimovibilità della
copertura orizzontale.
La stessa va, pertanto, qualificata
come arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla
migliore fruizione temporanea dello spazio esterno
all'appartamento cui accede ed è riconducibile agli
interventi manutentivi liberi, ossia non subordinati ad
alcun titolo abilitativo ai sensi dell'art. 6, comma 1, d.P.R.
06.06.2001 n. 380.
---------------
Nella fattispecie non sono ravvisabili i presupposti per
ricondurre la struttura realizzata dalla ricorrente alla
categoria dell’edilizia libera, per la presenza di
tamponature verticali, costituite da pannelli di vetro
scorrevole richiudibili a pacchetto.
Per aversi una costruzione definibile come pergotenda
occorre che l'opera principale sia costituita non dalla
struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di
protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata
ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'immobile
al cui servizio è posta, con la conseguenza che la struttura
deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio,
necessario al sostegno e all'estensione della tenda.
Nella fattispecie, quindi, è stata realizzata un’opera che
non rientra nella nozione di pergotenda e configura
un'ipotesi di intervento di ristrutturazione edilizia,
avendo una consistenza ben più rilevante di una mera tenda,
alterando il prospetto e la sagoma dell'edificio, risultando
ancorata stabilmente al suolo ed essendo di conseguenza non
qualificabile alla stregua di una facile rimovibilità.
---------------
Con il provvedimento impugnato è ordinata la demolizione degli interventi
di ristrutturazione edilizia abusivi consistenti nella
realizzazione di una pergotenda ritraibile di m 9 per m 4,30
di altezza variabile da m 2,60 a m 2,25 circa, comandata
elettricamente, tamponata su due lati con pannelli di vetro
scorrevole richiudibili a pacchetto; il terrazzo risulta
arredato con tavoli e sedie da giardino e sono stati
installati due climatizzatori.
...
Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente sostiene
che la pergotenda non costituirebbe intervento di
ristrutturazione edilizia bensì edilizia libera, in base
all’articolo 6 del d.p.r. numero 380 del 2001, laddove alla
lettera “e-quinquies” vengono richiamati gli elementi di
arredo delle aree pertinenziali degli edifici.
Il motivo è infondato.
E’ noto al Collegio il consolidato orientamento
giurisprudenziale (Consiglio di Stato sez. VI 11.04.2014
n. 1777) per cui la struttura costituita da due pali
poggiati sul pavimento di un terrazzo a livello e da quattro
traverse con binario di scorrimento a telo in pvc, ancorata
al sovrastante balcone e munita di copertura rigida a riparo
del telo retraibile (c.d. pergotenda) non configura né un
aumento del volume e della superficie coperta, né la
creazione o la modificazione di un organismo edilizio, né
l'alterazione del prospetto o della sagoma dell'edificio cui
è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la
destinazione d'uso degli spazi interni interessati, della
sua facile e completa rimovibilità, dell'assenza di
tamponature verticali e della facile rimovibilità della
copertura orizzontale: la stessa va pertanto qualificata
come arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla
migliore fruizione temporanea dello spazio esterno
all'appartamento cui accede ed è riconducibile agli
interventi manutentivi liberi, ossia non subordinati ad
alcun titolo abilitativo ai sensi dell'art. 6, comma 1,
d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
Nella fattispecie, peraltro, non sono ravvisabili i
presupposti per ricondurre la struttura realizzata dalla
ricorrente alla categoria dell’edilizia libera, per la
presenza di tamponature verticali, costituite da pannelli di
vetro scorrevole richiudibili a pacchetto.
Per aversi una costruzione definibile come pergotenda
occorre che l'opera principale sia costituita non dalla
struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di
protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata
ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'immobile
al cui servizio è posta, con la conseguenza che la struttura
deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio,
necessario al sostegno e all'estensione della tenda (TAR
Lazio, sez. II, 22.12.2017, n. 12632).
Nella fattispecie, quindi, a giudizio del Collegio, è stata
realizzata un’opera che non rientra nella nozione di
pergotenda e configura un'ipotesi di intervento di
ristrutturazione edilizia, avendo una consistenza ben più
rilevante di una mera tenda, alterando il prospetto e la
sagoma dell'edificio, risultando ancorata stabilmente al
suolo ed essendo di conseguenza non qualificabile alla
stregua di una facile rimovibilità (TAR Liguria, 12.02.2015 n. 177).
Ne consegue l’infondatezza del primo motivo (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 06.06.2018 n. 6319 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione è sufficientemente motivato con la
qualificazione dell’intervento edilizio in termini di
ristrutturazione abusiva, rinviando implicitamente alla
definizione della suddetta categoria edilizia, alla quale
sono riconducibili le opere modificative del prospetto e
della sagoma dell’edificio preesistente, tra le quali ricade
quella oggetto del provvedimento impugnato.
Sotto il profilo della istruttoria, nessuna ulteriore
accertamento è richiesto qualora sia stata verificata la
consistenza dell’opera edilizia realizzata in assenza del
titolo abilitativo e la stessa sia stata esattamente
individuata, come nel caso concreto.
---------------
Con il 2º motivo, la ricorrente lamenta difetto di
istruttoria e di motivazione.
A suo avviso, il provvedimento impugnato non sarebbe
motivato correttamente, non essendo qualificata in termini
giuridici l’opera abusiva, non essendo specificato sotto
quale profilo l’intervento sarebbe riconducibile alla
fattispecie della ristrutturazione edilizia; inoltre, sotto
il profilo istruttorio, sarebbe carente uno specifico
accertamento da cui desumere la riconducibilità della
pergotenda agli interventi di ristrutturazione edilizia
determinanti un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente, determinanti modifiche della
volumetria complessiva dell’edificio o del prospetto.
Anche il 2º motivo è da ritenersi infondato.
L’ordine di demolizione è sufficientemente motivato con la
qualificazione dell’intervento edilizio in termini di
ristrutturazione abusiva, rinviando implicitamente alla
definizione della suddetta categoria edilizia, alla quale
sono riconducibili le opere modificative del prospetto e
della sagoma dell’edificio preesistente, tra le quali ricade
quella oggetto del provvedimento impugnato.
Sotto il profilo della istruttoria, nessuna ulteriore
accertamento è richiesto qualora sia stata verificata la
consistenza dell’opera edilizia realizzata in assenza del
titolo abilitativo e la stessa sia stata esattamente
individuata, come nel caso concreto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 06.06.2018 n. 6319 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve essere richiamato l’indirizzo, costantemente
affermato dalla giurisprudenza, secondo cui il rilascio del
permesso di costruire in sanatoria impone “l'accertamento
della conformità alle prescrizioni urbanistiche
dell'intervento edilizio realizzato senza titolo
abilitativo, vale a dire di opere che, pur essendo
effettuate senza il preventivo rilascio del titolo
abilitativo edilizio, risultino ammissibili sotto l'aspetto
urbanistico.
Tale istituto è dunque finalizzato a sanare violazione di
carattere puramente formale, laddove un intervento edilizio
è comunque abusivo per effetto della mera mancanza del
prescritto titolo abilitativo, anche se per ipotesi le opere
siano assentibili, nel qual caso l'interessato ha l'onere di
chiedere tempestivamente la sanatoria, per il cui rilascio
la normativa richiede la cd. ‘doppia conformità’.
Infatti, le opere abusive possono essere sanate solo se sia
provata la conformità dell'intervento alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda.
La doppia conformità è condicio sine qua non della sanatoria
ed investe entrambi i segmenti temporali, cioè il tempo
della realizzazione dell'illecito ed il tempo della
presentazione dell'istanza”.
Il provvedimento possiede pertanto carattere oggettivo e
vincolato, risultando del tutto scevro da apprezzamenti
discrezionali. L'Amministrazione è infatti tenuta ad
accertare i requisiti di assentibilità dell'intervento
edilizio sulla base della normativa urbanistica ed edilizia
vigente in relazione ad entrambi i momenti considerati
dall’art. 49, L.R. n. 19 del 2009, conducendo, a tal fine,
una valutazione essenzialmente doverosa, rigidamente
ancorata alle prescrizioni fissate dalla strumentazione
applicabile.
---------------
La contrarietà originaria dell’intervento, rispetto alla
strumentazione urbanistica, esclude il prescritto requisito
della doppia conformità.
Né tale conclusione può essere contraddetta, in ragione
della modesta consistenza materiale degli abusi, ovvero
della loro riferibilità alla sola dotazione degli standard
urbanistici richiesti, essendo preclusa, per le
considerazioni anzidette, qualsiasi valutazione
discrezionale afferente l’importanza della violazione
oggetto della sanatoria, la quale, come visto, può essere
rilasciata solo se l’intervento risulta conforme e dunque
assentibile sulla base sia della strumentazione urbanistica
vigente sia di quella in essere all’epoca della sua
realizzazione.
---------------
3. Il ricorso è infondato e come tale merita di essere
respinto.
3.1 Deve essere richiamato in proposito l’indirizzo,
costantemente affermato dalla giurisprudenza, secondo cui il
rilascio del permesso di costruire in sanatoria impone
“l'accertamento della conformità alle prescrizioni
urbanistiche dell'intervento edilizio realizzato senza
titolo abilitativo, vale a dire di opere che, pur essendo
effettuate senza il preventivo rilascio del titolo
abilitativo edilizio, risultino ammissibili sotto l'aspetto
urbanistico.
Tale istituto è dunque finalizzato a sanare violazione di
carattere puramente formale, laddove un intervento edilizio
è comunque abusivo per effetto della mera mancanza del
prescritto titolo abilitativo, anche se per ipotesi le opere
siano assentibili, nel qual caso l'interessato ha l'onere di
chiedere tempestivamente la sanatoria, per il cui rilascio
la normativa richiede la cd. ‘doppia conformità’.
Infatti, le opere abusive possono essere sanate solo se sia
provata la conformità dell'intervento alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda.
La doppia conformità è condicio sine qua non della sanatoria
ed investe entrambi i segmenti temporali, cioè il tempo
della realizzazione dell'illecito ed il tempo della
presentazione dell'istanza” (da ultimo: TAR Campania,
Sez, III, n. 4249 del 2017).
Il provvedimento possiede pertanto carattere oggettivo e
vincolato, risultando del tutto scevro da apprezzamenti
discrezionali. L'Amministrazione è infatti tenuta ad
accertare i requisiti di assentibilità dell'intervento
edilizio sulla base della normativa urbanistica ed edilizia
vigente in relazione ad entrambi i momenti considerati
dall’art. 49, L.R. n.19 del 2009, conducendo, a tal fine,
una valutazione essenzialmente doverosa, rigidamente
ancorata alle prescrizioni fissate dalla strumentazione
applicabile (così TAR Campania, Napoli, sez. III, n. 6305
del 2014).
3.2 Deve così essere osservato che, nel caso di specie,
l’intervento edilizio non avrebbe potuto essere eseguito
sulla base della disciplina urbanistica vigente all’epoca
della sua realizzazione, il che è sufficiente a precludere
il rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
Tale rilievo prescinde del tutto dalla valutazione a
posteriori della natura o della consistenza dell’abuso,
sollecitata dal ricorrente, dovendosi considerare, specie in
ragione del carattere rigidamente vincolato del potere
esercitato dall’Amministrazione, che la contrarietà
originaria dell’intervento, rispetto alla strumentazione
urbanistica, esclude il prescritto requisito della doppia
conformità.
Né tale conclusione può essere contraddetta, in ragione
della modesta consistenza materiale degli abusi, ovvero
della loro riferibilità alla sola dotazione degli standard
urbanistici richiesti, essendo preclusa, per le
considerazioni anzidette, qualsiasi valutazione
discrezionale afferente l’importanza della violazione
oggetto della sanatoria, la quale, come visto, può essere
rilasciata solo se l’intervento risulta conforme e dunque
assentibile sulla base sia della strumentazione urbanistica
vigente sia di quella in essere all’epoca della sua
realizzazione.
Requisito, quest’ultimo, che non può certo essere ravvisato
nella vicenda oggetto del giudizio, salvo soggiungere che
l’attuale congruità dell’immobile rispetto al complesso
della disciplina urbanistica ed edilizia, ora in vigore,
potrà se del caso essere valutata dall’Amministrazione in
sede di esecuzione dell’ordinanza di demolizione, già
notificata al ricorrente, anche disponendo, specie in
relazione ai principi di proporzionalità e di leale
collaborazione, e pur sempre secondo il proprio
apprezzamento discrezionale, l’eventuale conversione in
sanzioni di minore gravità.
Nondimeno, per le ragioni sopra esposte, il ricorso deve
essere respinto (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 06.06.2018 n. 187 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
È sempre vigente ed applicabile, non contrastando con il
diritto comunitario, la normativa nazionale secondo cui la
progettazione e la direzione lavori su beni di interesse
storico e/o artistico è riservata agli architetti.
La riserva di competenza degli
architetti sussiste per ogni tipologia di intervento su
immobili gravati da vincolo storico-artistico, ad eccezione
delle attività propriamente tecniche di edilizia civile per
le quali il citato art. 52 prevede la competenza anche degli
ingegneri.
La competenza degli architetti, poi, si estende anche agli
interventi realizzati su immobili non assoggettati a vincolo
quando presentino “rilevante interesse artistico”.
---------------
Il Consiglio di Stato, richiamando anche giurisprudenza
comunitaria, ha chiarito come non sia esatto affermare che
l’ordinamento comunitario riconosca a tutti gli ingegneri di
Paesi dell’U.E. diversi dall’Italia (con esclusione dei soli
ingegneri italiani) l’indiscriminato esercizio delle
attività tipiche della professione di architetto (tra cui le
attività relative ad immobili di interesse
storico-artistico); al contrario, giusta la normativa
comunitaria, si è ritenuto che l’esercizio di tali attività
-in regime di mutuo riconoscimento– è consentito ai soli
professionisti che (al di là del nomen iuris del titolo
posseduto) possano vantare un percorso formativo
adeguatamente finalizzato all’esercizio delle attività
tipiche della professione di architetto.
In altri termini, è sempre vigente ed applicabile, non
contrastando con il diritto comunitario, la su citata
normativa nazionale secondo cui la progettazione e la
direzione lavori su beni di interesse storico e/o artistico
è riservata agli architetti, ovvero a coloro che hanno
compiuto un percorso formativo equiparabile a quello che in
Italia è necessario per conseguire tale titolo.
Quindi, la giurisprudenza amministrativa ha concluso sul
punto che la norma in questione, nella misura in cui vuole
garantire che a progettare interventi edilizi su immobili di
interesse storico-artistico siano professionisti forniti di
una specifica preparazione nel campo delle arti, e
segnatamente di una adeguata formazione umanistica, deve
ritenersi tuttora vigente.
---------------
Nel merito, il ricorso è infondato per i motivi di seguito
riportati.
E’ stata prodotta agli atti di causa la nota della
Soprintendenza BB.AA.CC. di Caserta e Benevento prot. n.
20145 del 10.10.2013 recante parere favorevole ex art. 21
del D.Lgs. n. 42/2004 in ordine ai lavori di “riqualificazione
ed adeguamento della struttura comunale adiacente al palazzo
Sant’Antonio” (cfr. doc. 1 depositato il 06.05.2015) con
cui l’amministrazione preposta alla tutela dei beni
culturali rappresenta l’opportunità di affidare i lavori
de quibus ad impresa qualificata per la categoria del
restauro (OG2), dato l’interesse storico–artistico
dell’immobile.
Alla luce di tale situazione di fatto, non si appalesa
illegittima la scelta dell’amministrazione comunale
resistente di riservare la direzione dei lavori ad un
professionista in possesso della qualifica di architetto.
Tanto in virtù dell’art. 52 del R.D. n. 2537/1925 recante il
regolamento per le professioni di ingegnere e di architetto,
secondo cui “le opere di edilizia civile che presentano
rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino
degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per
l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della
professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere
compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”.
A tale proposito, non è condivisibile la tesi di parte
ricorrente che riconduce l’intervento a meri lavori a
carattere edile di completamento e di natura impiantistica;
invero, la deduzione collide con le risultanze di causa e,
segnatamente, con il descritto parere della Soprintendenza
che, come si è visto, ha ritenuto imprescindibile la
qualificazione della impresa incaricata per la categoria OG2
che, come noto, attiene più in generale al restauro e
manutenzione dei beni immobili sottoposti a tutela ai sensi
delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali
(quindi ad un complesso di interventi più ampio rispetto
alla mera attività di impiantistica e di completamento edile
prospettato dalla parte istante).
Ciò posto, secondo l’indirizzo espresso dalla giurisprudenza
amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, n. 21/2014; TAR
Lazio, Roma, n. 7997/2011 e TAR Campania, Salerno, n.
149/2015) la riserva di competenza degli architetti sussiste
per ogni tipologia di intervento su immobili gravati da
vincolo storico-artistico, ad eccezione delle attività
propriamente tecniche di edilizia civile per le quali il
citato art. 52 prevede la competenza anche degli ingegneri;
la competenza degli architetti, poi, si estende anche agli
interventi realizzati su immobili non assoggettati a vincolo
quando presentino “rilevante interesse artistico”
(cfr. TAR Lazio, Roma, n. 7997/2011), come nel caso in
trattazione.
Nel dettaglio, con sentenza n. 21/2014 (richiamata nella
pronuncia del TAR Veneto n. 743/2014, a sua volta citata nel
provvedimento impugnato) il Consiglio di Stato, richiamando
anche giurisprudenza comunitaria, ha chiarito come non sia
esatto affermare che l’ordinamento comunitario riconosca a
tutti gli ingegneri di Paesi dell’U.E. diversi dall’Italia
(con esclusione dei soli ingegneri italiani)
l’indiscriminato esercizio delle attività tipiche della
professione di architetto (tra cui le attività relative ad
immobili di interesse storico-artistico); al contrario,
giusta la normativa comunitaria, si è ritenuto che
l’esercizio di tali attività -in regime di mutuo
riconoscimento– è consentito ai soli professionisti che (al
di là del nomen iuris del titolo posseduto) possano
vantare un percorso formativo adeguatamente finalizzato
all’esercizio delle attività tipiche della professione di
architetto.
In altri termini, è sempre vigente ed applicabile, non
contrastando con il diritto comunitario, la su citata
normativa nazionale secondo cui la progettazione e la
direzione lavori su beni di interesse storico e/o artistico
è riservata agli architetti, ovvero a coloro che hanno
compiuto un percorso formativo equiparabile a quello che in
Italia è necessario per conseguire tale titolo.
Quindi, la giurisprudenza amministrativa ha concluso sul
punto che la norma in questione, nella misura in cui vuole
garantire che a progettare interventi edilizi su immobili di
interesse storico-artistico siano professionisti forniti di
una specifica preparazione nel campo delle arti, e
segnatamente di una adeguata formazione umanistica, deve
ritenersi tuttora vigente (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 05.06.2018 n. 3718 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Requisiti soggettivi nella fase di interpello conseguente a
scorrimento della graduatoria.
---------------
Contratti della pubblica amministrazione – Requisiti di
partecipazione – Momento del possesso – Scorrimento della
graduatoria ex art. 140, d.lgs. n. 163 del 2006 –
Individuazione.
E’ legittimo il mancato affidamento,
per carenza di requisiti, di un appalto ad un concorrente,
interpellato con scorrimento della graduatoria ex art. 140,
d.lgs. 12.04.2006, n. 163 a seguito di riscontrata
impossibilità di aggiudicare al primo classificato, dovendo
tali requisiti sussistere anche al momento dell’interpello e
della stipula del contratto (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che la giurisprudenza pronunciatasi
sull’art. 140, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 ha affermato,
dapprima, che “la fase procedimentale disciplinata
dall'art. 140 d.lgs. cit.…… si configura come un segmento di
un'unica procedura di affidamento, avviata con la
pubblicazione del bando, con la conseguenza, per quanto qui
rileva, che i requisiti di partecipazione, attesa l'unicità
e l'inscindibilità del procedimento selettivo, devono essere
ininterrottamente posseduti dal suo avvio (e, cioè, dalla
pubblicazione dell'avviso pubblico) fino alla sua
conclusione (e, cioè, alla data dell'affidamento
dell'appalto in esito all'interpello)” (Cons.
St., sez. III, 13.01.2016, n. 76).
Successivamente, con la
sentenza 06.03.2017, n. 1050, la stessa Sezione
ha diversamente opinato che nell’ambito della procedura di “scorrimento
della graduatoria” è irragionevole pretendere
dall’offerente non aggiudicatario il possesso continuo dei
requisiti per il periodo nel quale venga disposta
l’aggiudicazione in favore di un terzo, essendo dunque
sufficiente, ai fini del rispetto del principio di
continuità nel possesso dei requisiti sancito dalla
decisione dell’Adunanza
Plenaria n. 8 del 2015, che il concorrente
possieda i requisiti al momento della presentazione
dell’offerta originaria nonché all’atto della conferma di
quest’ultima nella fase di interpello ex art. 140, d.lgs. n.
163 del 2006.
Ciò in quanto, nella citata pronunzia della Plenaria, il
possesso dei requisiti di ammissione si impone a partire
dall'atto di presentazione della domanda di partecipazione,
e per tutta la durata della procedura di evidenza pubblica,
non in virtù di un astratto e vacuo formalismo
procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza
della serietà e della volontà dell'impresa di presentare
un'offerta credibile e dunque della sicurezza per la
stazione appaltante dell'instaurazione di un rapporto con un
soggetto, che, dalla candidatura in sede di gara fino alla
stipula del contratto e poi ancora fino all'adempimento
dell'obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i
requisiti di ordine generale e speciale per contrattare con
la P.A.
La più recente decisione, tuttavia, nell’affermare che “nelle
ipotesi in cui l'amministrazione decida legittimamente di
scorrere la graduatoria non vi è l'indizione di una nuova
selezione concorsuale, né formulazione di nuove offerte”,
in merito alla natura del procedimento in esame non ha
modificato l’orientamento già espresso dalla precedente
sentenza del 2016, da ritenersi pertanto non superato.
Si tratta, quindi, di un'attività amministrativa vincolata
dalla legge in un duplice senso: soggettivo ed oggettivo (Cons.
St., sez. VI, 14 novembre 2012, n. 5747) atteso
che sotto il primo profilo, la stazione appaltante, se
decide di esercitare la facoltà riconosciutale dall'art. 140
d.lgs. cit., resta tenuta ad indirizzare la proposta alle
(sole) imprese che seguono quella appaltatrice nella
graduatoria che si è consolidata in esito alla gara già
svolta, mentre, sotto il secondo profilo, le condizioni del
nuovo contratto devono coincidere con quelle "già
proposte dall'originario aggiudicatario in sede di offerta”
e che “sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo,
dunque, l'azione amministrativa preordinata alla scelta
dell'impresa alla quale affidare il completamento dei lavori
in seguito alla risoluzione del contratto d'appalto per uno
degli eventi tassativamente elencati nella disposizione in
esame risulta vincolata dal rispetto delle risultanze della
gara inizialmente bandita, restando preclusi sia
l'interpello di imprese diverse da quelle utilmente
classificatesi all'esito della selezione già svolta, sia la
modificazione delle condizioni del contratto"
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 05.06.2018 n. 318 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
6. Il ricorso deve, tuttavia, essere respinto perché
infondato.
6.1. L’art. 140 commi 1 e 2 del D.Lgs. n. 163/2006,
pacificamente applicabile ratione temporis al
procedimento in esame, prevede che: “1. Le stazioni
appaltanti, in caso di fallimento dell'appaltatore o di
liquidazione coatta e concordato preventivo dello stesso o
di risoluzione del contratto ai sensi degli articoli 135 e
136 o di recesso dal contratto ai sensi dell'articolo 11,
comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica
03.06.1998, n. 252, potranno interpellare progressivamente i
soggetti che hanno partecipato all'originaria procedura di
gara, risultanti dalla relativa graduatoria, al fine di
stipulare un nuovo contratto per l'affidamento del
completamento dei lavori. Si procede all'interpello a
partire dal soggetto che ha formulato la prima migliore
offerta, fino al quinto migliore offerente escluso
l'originario aggiudicatario.
2. L'affidamento avviene alle medesime condizioni già
proposte dall'originario aggiudicatario in sede in offerta.”
6.2. La giurisprudenza pronunciatasi sulla norma in esame ha
affermato, dapprima, che “la fase
procedimentale disciplinata dall'art. 140 d.lgs. cit.…… si
configura come un segmento di un'unica procedura di
affidamento, avviata con la pubblicazione del bando, con la
conseguenza, per quanto qui rileva, che i requisiti di
partecipazione, attesa l'unicità e l'inscindibilità del
procedimento selettivo, devono essere ininterrottamente
posseduti dal suo avvio (e, cioè, dalla pubblicazione
dell'avviso pubblico) fino alla sua conclusione (e, cioè,
alla data dell'affidamento dell'appalto in esito
all'interpello)”
(Consiglio di Stato sez. III, 13.01.2016 n. 76).
6.3. Successivamente, con la sentenza del 06.03.2017 n.
1050, la medesima Sezione ha diversamente
opinato che nell’ambito della procedura di “scorrimento
della graduatoria” è irragionevole pretendere
dall’offerente non aggiudicatario il possesso continuo dei
requisiti per il periodo nel quale venga disposta
l’aggiudicazione in favore di un terzo, essendo dunque
sufficiente, ai fini del rispetto del principio di
continuità nel possesso dei requisiti sancito dalla
decisione dell’Adunanza Plenaria n. 8/2015, che il
concorrente possieda i requisiti al momento della
presentazione dell’offerta originaria nonché all’atto della
conferma di quest’ultima nella fase di interpello ex art.
140 del più volte citato D.Lgs. n. 163/2006.
Ciò in quanto, nella citata pronunzia della Plenaria, il
possesso dei requisiti di ammissione “si
impone a partire dall'atto di presentazione della domanda di
partecipazione, e per tutta la durata della procedura di
evidenza pubblica, non in virtù di un astratto e vacuo
formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della
permanenza della serietà e della volontà dell'impresa di
presentare un'offerta credibile e dunque della sicurezza per
la stazione appaltante dell'instaurazione di un rapporto con
un soggetto, che, dalla candidatura in sede di gara fino
alla stipula del contratto e poi ancora fino all'adempimento
dell'obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i
requisiti di ordine generale e speciale per contrattare con
la P.A.”
(C.d.S., sent. n. 1050 cit.).
6.4. La più recente decisione, tuttavia,
nell’affermare che “nelle ipotesi in cui
l'amministrazione decida legittimamente di scorrere la
graduatoria non vi è l'indizione di una nuova selezione
concorsuale, né formulazione di nuove offerte”, in
merito alla natura del procedimento in esame non ha
modificato l’orientamento già espresso dalla precedente
sentenza del 2016, da ritenersi pertanto non superato.
Ribadisce, infatti, la III sezione del Consiglio di Stato
che “si tratta, quindi, di un'attività
amministrativa vincolata dalla legge in un duplice senso:
soggettivo ed oggettivo
(Cons. St., sez. VI, 14.11.2012, n. 5747)”
atteso che “sotto il primo profilo, la
stazione appaltante, se decide di esercitare la facoltà
riconosciutale dall'art. 140 d.lgs. cit., resta tenuta ad
indirizzare la proposta alle (sole) imprese che seguono
quella appaltatrice nella graduatoria che si è consolidata
in esito alla gara già svolta", mentre, sotto il
secondo profilo, le condizioni del nuovo contratto
devono coincidere con quelle "già proposte
dall'originario aggiudicatario in sede di offerta” e che
“sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo,
dunque, l'azione amministrativa preordinata alla scelta
dell'impresa alla quale affidare il completamento dei lavori
in seguito alla risoluzione del contratto d'appalto per uno
degli eventi tassativamente elencati nella disposizione in
esame risulta vincolata dal rispetto delle risultanze della
gara inizialmente bandita, restando preclusi sia
l'interpello di imprese diverse da quelle utilmente
classificatesi all'esito della selezione già svolta, sia la
modificazione delle condizioni del contratto”.
6.5. Precisato quanto sopra in merito al procedimento ex
art. 140 D.Lgs. n. 163/2006, i motivi di impugnazione,
finalizzati a sostenere la legittimità del ricorso all’avvalimento
–non previsto in fase di presentazione dell’originaria
offerta– nell’ambito dello stesso, non sono fondati.
6.6 Va, infatti, evidenziato che l’impresa, al momento della
manifestazione di disponibilità alla stipulazione del
contratto, avvenuta in data 15.09.2017, non possedeva i
requisiti per la stipulazione del contratto di appalto,
essendo venuta meno successivamente all’espletamento
dell’originaria procedura di gara l’attestazione SOA nella
categoria OG1 classifica VI e OG11 classifica III ed avendo
stipulato il contrato di avvalimento, avente ad oggetto le
citate attestazioni SOA, solo il successivo 16.10.2017.
Pertanto, pur volendo accedere al più recente orientamento
prima richiamato, il ricorso è infondato in quanto il
concorrente possedeva i requisiti al momento della
presentazione dell’offerta originaria, ma ne era sprovvisto
all’atto della conferma di quest’ultima nella fase di
interpello ex art. 140.
7. Rileva inoltre il Collegio come per il caso in esame si
debba considerare pure la normativa in materia di
avvalimento di cui all’art. 49 del D.Lgs. n. 163/2006 ed
agli artt. 47 e 48 della Direttiva 2004/18/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio del 31.03.2004, relativa al
coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi.
7.1.. Secondo quanto affermato dalla Corte di Giustizia,
l'articolo 48, paragrafo 3, della Direttiva 2004/18 citata è
formulato “in termini generali, e non indica
espressamente le modalità con cui un operatore economico
possa fare affidamento sulle capacità di altri soggetti
nell'ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto
pubblico” (Corte di Giustizia UE sez. I, 14.09.2017
nella causa C-223/16, che richiama sul punto la precedente
sentenza del 07.04.2016, Partner Apelski Dariusz, C-324/14,
EU:C:2016:214, punti 87 e 88).
La stessa sentenza della Corte UE –sebbene a proposito della
possibilità di sostituire l’impresa ausiliaria che abbia
perso i requisiti nel corso del procedimento di evidenza
pubblica, ma comunque esprimendo principi del tutto
confacenti al caso oggetto del presente ricorso– ha avuto
modo di precisare che “conformemente al considerando 46 e
all'articolo 2 della direttiva 2004/18, le amministrazioni
aggiudicatrici devono trattare gli operatori economici su un
piano di parità, in modo non discriminatorio e trasparente
(sentenze del 07.04.2016, Partner Apelski Dariusz, C-324/14,
EU:C:2016:214, punto 60, e del 04.05.2017, Esaprojekt,
C-387/14, EU:C:2017:338, punto 35)” e che pertanto “i
principi di parità di trattamento e di non discriminazione
nonché l'obbligo di trasparenza ostano a qualsiasi
trattativa tra l'amministrazione aggiudicatrice e un
offerente nell'ambito di una procedura di aggiudicazione di
appalti pubblici, il che implica che, in linea di principio,
un'offerta non può essere modificata dopo il suo deposito su
iniziativa dell'amministrazione aggiudicatrice o
dell'offerente”.
7.2. La Corte ha pertanto stabilito che,
nel vigore della direttiva 2004/18, la sostituzione
dell’impresa ausiliaria che abbia perduto i requisiti
configura una modificazione dell’offerta, la quale
obbligherebbe l'amministrazione aggiudicatrice a procedere a
nuovi controlli procurando, inoltre, un vantaggio
competitivo al partecipante, il quale potrebbe tentare di
ottimizzare la sua offerta per meglio far fronte alle
offerte dei suoi concorrenti nella procedura di
aggiudicazione dell'appalto in questione, precisando che “una
tale situazione sarebbe contraria al principio di parità di
trattamento, che impone che i concorrenti dispongano delle
medesime possibilità nella formulazione dei termini della
loro offerta e che implica che tali offerte siano soggette
alle medesime condizioni per tutti i concorrenti, e
costituirebbe una distorsione della concorrenza sana ed
effettiva tra imprese che partecipano a un appalto pubblico”.
7.3. Il contesto oggetto della pronuncia
della Corte UE è equiparabile, in quanto accomunato da
identica ratio, a quello presupposto al presente
ricorso, riguardante l’introduzione di una impresa
ausiliaria in fase di scorrimento della graduatoria ex art.
140 D.Lgs. n. 163/2006, con conseguente piana applicabilità
dei principi nella stessa espressi.
7.4. A tali considerazioni deve aggiungersi che secondo la
giurisprudenza amministrativa l’istituto
dell’avvalimento, in relazione alle gare disciplinate dalle
direttive del 2004 e dal D.Lgs. n. 163/2006, non può porsi
in contrasto con il principio generale di sostanziale
immodificabilità soggettiva del concorrente
(Consiglio di Stato, sez. V, 21.02.2018, n. 1101; TAR Roma,
(Lazio), sez. II, 10.01.2018, n. 226).
Pertanto nella fase di interpello ex art.
140 D.Lgs. n. 163/2006, costituente appendice
dell’originaria procedura di gara, non possono essere
effettuate modificazioni dell’offerta né in senso oggettivo
né in termini soggettivi, con la conseguenza che
l’introduzione dell’avvalimento in tale ambito, nonostante
l’ampia portata dell’istituto e la sua finalizzazione a
consentire la massima partecipazione alle procedure di
affidamento dei pubblici appalti, si porrebbe in contrasto
con il principio generale di parità di trattamento, come
evidenziato dalla Corte di Giustizia.
8. Il provvedimento impugnato è pertanto esente dalle prime
due censure avverso lo stesso sollevate dall’impresa
ricorrente.
9. Né, infine, può determinare illegittimità alcuna dello
stesso l’avere la stazione appaltante richiesto un parere
all’ANAC per poi determinarsi autonomamente, considerato sia
che il parere non è stato reso, sia la facoltatività della
richiesta.
10. Quanto, poi, alla differente motivazione dei
provvedimenti del 12.03.2018 e del 06.04.2018 la stessa è
dovuta al contraddittorio procedimentale con la ricorrente e
non può, pertanto, in alcun modo viziare il provvedimento
impugnato.
11. In conclusione, il ricorso deve, per quanto esposto,
essere respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
La legittimazione alla presentazione della domanda di
condono, ai sensi dell'art. 31 della l. n. 47 del 1985, deve
essere riconosciuta, oltre che a coloro che hanno titolo per
richiedere la concessione edilizia (oggi permesso di
costruire), anche ad "ogni altro soggetto interessato" al
conseguimento della sanatoria.
La giurisprudenza ha, in particolare, rilevato che tale
legittimazione compete anche al responsabile dell'abuso, per
tale dovendosi intendere lo stesso esecutore materiale,
ovvero chi abbia la disponibilità del bene, al momento
dell'emissione della misura repressiva; ciò
in quanto, la relativa maggiore ampiezza della
legittimazione a richiedere la sanatoria, rispetto al
preventivo permesso di costruire, trova giustificazione
nella possibilità da accordare al predetto responsabile -ove coincidente con l'esecutore materiale delle opere
abusive- di evitare le conseguenze penali dell'illecito
commesso, ferma restando la salvezza dei diritti di terzi.
---------------
Nel caso di specie si tratta invece di un diniego, sia pure
adottato a distanza di un notevole lasso di tempo
dall’inoltro dell’istanza –circostanza che di per sé però
non è motivo di illegittimità dell’atto– ad una istanza di
condono edilizio, con la quale viene esercitato un potere
vincolato, in cui non vi alcuna ponderazione di interessi da
compiere, ma solo la verifica della sussistenza, in
concreto, dei presupposti predeterminati dalla legge per il
riconoscimento del bene giuridico preteso.
---------------
7. Il ricorso è fondato.
8. La questione dirimente sollevata con il primo motivo di
ricorso non è quella –civilistica e controversa tra le parti– circa la titolarità del diritto di proprietà del suolo e,
per accessione, dell’immobile nel quale sono stati
realizzati gli interventi in difformità dall’originaria
concessione edilizia (risalente al 1981), ma quella
concernente la legittimazione a richiedere il titolo in
sanatoria; ovvero se, come indicato dal Comune nel
provvedimento gravato, la mancata prova documentale della
titolarità del diritto di proprietà del bene, in capo al
richiedente (e, per di più, come nel caso di specie, in
assenza del consenso del terzo che si affermi proprietario
del suolo) giustifichi il diniego del rilascio del titolo
edilizio.
9. Ritiene il Collegio che, come già osservato dalla Sezione
in precedenti analoghi (TAR Napoli, sez. II, 12.01.2016, n. 119) alla questione debba darsi soluzione negativa.
La legittimazione alla presentazione della domanda di
condono, ai sensi dell'art. 31 della l. n. 47 del 1985, deve
essere riconosciuta, oltre che a coloro che hanno titolo per
richiedere la concessione edilizia (oggi permesso di
costruire), anche ad "ogni altro soggetto interessato" al
conseguimento della sanatoria.
La giurisprudenza ha, in particolare, rilevato che tale
legittimazione compete anche al responsabile dell'abuso, per
tale dovendosi intendere lo stesso esecutore materiale,
ovvero chi abbia la disponibilità del bene, al momento
dell'emissione della misura repressiva (cfr. Cons. St., sez.
V, 08.06.1994, n. 614; Consiglio Giust. Amm. Sic. 29.07.1992,
n. 229; Cons. St., sez. V, 23.11.2006, n. 6906); ciò
in quanto, la relativa maggiore ampiezza della
legittimazione a richiedere la sanatoria, rispetto al
preventivo permesso di costruire, trova giustificazione
nella possibilità da accordare al predetto responsabile -ove coincidente con l'esecutore materiale delle opere
abusive- di evitare le conseguenze penali dell'illecito
commesso, ferma restando la salvezza dei diritti di terzi.
10. Nel caso di specie, parte ricorrente ha comprovato la
sussistenza di un interesse specifico all’ottenimento del
titolo in sanatoria, avendo formulato l’istanza mentre
risiedeva con il proprio nucleo familiare presso l’immobile;
ha, in ogni caso, allegato documenti (quali la scrittura
privata stipulata tra la propria dante causa e Ar.Ch., dante causa del terzo che oggi si oppone alla
conclusione favorevole del procedimento) circa la natura
tuttora controversa del titolo di proprietà sul bene.
11. Né, ad avviso del Collegio, è applicabile la condizione
prevista dall’art. 32 della L. 47/1985, ovvero il necessario
consenso dell’ente proprietario a concedere l’uso del suolo,
riguardando essa solo le ipotesi in cui il suolo appartenga
ad ente pubblico territoriale, come indicato chiaramente
dalla norma, cui corrisponde anche il modello di domanda
predisposto per l’inoltro della richiesta di condono, in cui
è previsto uno spazio destinato alla indicazione sul se
l’opera è stata realizzata “su aree di proprietà dello Stato
o di altri enti pubblici territoriali”; fattispecie non
ricorrente nel caso in esame.
12. Ne consegue la fondatezza del primo motivo di ricorso,
con conseguente annullamento del provvedimento impugnato.
13. Non possono invece condividersi le doglianze dedotte
sulla presupposta qualificazione dell’atto gravato come
annullamento in autotutela: nel caso di specie si tratta
invece di un diniego, sia pure adottato a distanza di un
notevole lasso di tempo dall’inoltro dell’istanza –circostanza che di per sé però non è motivo di illegittimità
dell’atto– ad una istanza di condono edilizio, con la quale
viene esercitato un potere vincolato, in cui non vi alcuna
ponderazione di interessi da compiere, ma solo la verifica
della sussistenza, in concreto, dei presupposti
predeterminati dalla legge per il riconoscimento del bene
giuridico preteso.
14. In conclusione il ricorso va accolto (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 04.06.2018 n. 3666 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abuso edilizio – Risalenza nel tempo –
Affidamento ingeneratosi in conseguenza del rilascio del
titolo edilizio – Misura ripristinatoria – Motivazione
rafforzata.
La risalenza
nel tempo dell’abuso contestato, l’affidamento ingeneratosi
in conseguenza del rilascio del titolo edilizio del locale
(nella specie, locale tecnico-deposito poi utilizzato come
garage), integrano, complessivamente considerati, parametri
oggettivi di riferimento da valutare, decorsi oltre quaranta
anni dalla realizzazione dell’abuso, prima d’adottare la
misura ripristinatoria ovvero da dover indurre il Comune a
fornire adeguata motivazione sull’interesse pubblico attuale
al ripristino dello stato dei luoghi (cfr., in termini, da
ultimo, Cons. Stato, ad plen n. 9 del 2017) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.06.2018 n. 3372
- link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordinanza di demolizione di un manufatto
abusivo non richiede una particolare motivazione in ordine
alla sussistenza di uno specifico interesse pubblico al
ripristino della legittimità violata, e ciò nonostante sia
decorso un considerevole lasso di tempo dalla commissione
dell'abuso.
In base all'orientamento in parola deve infatti escludersi
la configurabilità di un legittimo affidamento in capo al
responsabile dell'abuso o al suo avente causa nonostante il
decorso del tempo dal commesso abuso.
Si è osservato al riguardo che l'ordine di demolizione, come
tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è
atto vincolato che non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né -ancora- una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare.
Si è inoltre osservato al riguardo che, laddove si
annettesse rilievo in siffatte ipotesi al decorso del tempo
-sia pure, al solo fine di incidere sul quantum di
motivazione richiesto all'amministrazione-, si perverrebbe
in via pretoria a delineare una sorta di 'sanatoria extra ordinem', la quale opererebbe anche nelle ipotesi in cui il
soggetto interessato non abbia potuto -o voluto- avvalersi
delle disposizioni normative in tema di sanatoria di abusi
edilizi.
Peraltro, in caso di abusi edilizi, l’ordine di demolizione,
come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia,
è atto vincolato che non richiede una valutazione specifica
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né –ancora– una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto e attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di
un affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare.
Difatti, una giurisprudenza ormai costante ha riconosciuto
all’illecito edilizio natura di illecito permanente in
quanto un immobile interessato da un intervento illegittimo
conserva nel tempo la sua natura abusiva tale per cui
l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata è
“in re ipsa”, quindi l’interesse del privato deve intendersi
necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico
all'osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al
corretto governo del territorio.
---------------
La mera inerzia da parte
dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere
finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse
pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che
(l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare
un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al
proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto
amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa
giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio)
il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione
dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere
al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la
sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo
edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura
l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo
oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una
siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere
sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione,
deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di
demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata
sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e
attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è
del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia
adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato
carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano
sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel
diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura
la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto
il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza
degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata
conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire
meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio
gli atti previsti a salvaguardia del territorio.
---------------
Ritiene la Sezione che l’appello sia fondato e vada accolto, sicché –in
riforma della sentenza del TAR– il ricorso di primo grado
va respinto.
Al riguardo, vanno richiamati i principi più volte affermati
dal Consiglio di Stato, circa le conseguenze derivanti dalla
commissione di abusi edilizi e l’indefettibile applicazione
in materia del principio di legalità, ribaditi anche
dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, con la sentenza
n. 9 del 2017.
“L'ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo non
richiede una particolare motivazione in ordine alla
sussistenza di uno specifico interesse pubblico al
ripristino della legittimità violata, e ciò nonostante sia
decorso un considerevole lasso di tempo dalla commissione
dell'abuso. In base all'orientamento in parola deve infatti
escludersi la configurabilità di un legittimo affidamento in
capo al responsabile dell'abuso o al suo avente causa
nonostante il decorso del tempo dal commesso abuso (in tal
senso -ex multis-: Cons. Stato, VI, 10.05.2016, n.
1774; id., VI, 23.10.2015, n. 4880; id., VI, 11.12.2013, n. 5943).
Si è osservato al riguardo che l'ordine di demolizione, come
tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è
atto vincolato che non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né -ancora- una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare (in tal senso: Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908).
Si è inoltre osservato al riguardo che, laddove si
annettesse rilievo in siffatte ipotesi al decorso del tempo
-sia pure, al solo fine di incidere sul quantum di
motivazione richiesto all'amministrazione-, si perverrebbe
in via pretoria a delineare una sorta di 'sanatoria extra ordinem', la quale opererebbe anche nelle ipotesi in cui il
soggetto interessato non abbia potuto -o voluto- avvalersi
delle disposizioni normative in tema di sanatoria di abusi
edilizi (in tal senso: Cons. Stato, VI, 15.01.2015, n.
13)” (cfr. Ad. plen., n. 9/2017 cit.).
Peraltro, in caso di abusi edilizi, l’ordine di demolizione,
come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia,
è atto vincolato che non richiede una valutazione specifica
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né –ancora– una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto e attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di
un affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare (in tal senso, v. Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908).
Difatti, una giurisprudenza ormai costante ha riconosciuto
all’illecito edilizio natura di illecito permanente in
quanto un immobile interessato da un intervento illegittimo
conserva nel tempo la sua natura abusiva tale per cui
l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata è
“in re ipsa”, quindi l’interesse del privato deve intendersi
necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico
all'osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al
corretto governo del territorio (v., ex plurimis, Cons.
Stato, VI, n. 474/2015, IV, n. 3182/2013, VI, n. 6072/2012 e
IV, nn. 4403/2011, 79/2011, 5509/2009 e 2529/2004).
Ciò posto, alla luce della menzionata sentenza dell’Adunanza
plenaria n. 9 del 2017, emerge che “la mera inerzia da parte
dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere
finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse
pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che
(l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare
un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al
proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto
amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa
giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio)
il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione
dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere
al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la
sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo
edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura
l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo
oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una
siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere
sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione,
deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di
demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata
sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e
attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è
del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia
adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato
carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano
sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel
diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura
la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto
il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza
degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata
conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire
meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio
gli atti previsti a salvaguardia del territorio…” (conf.
Cons. Stato, sez. VI, n. 1893 del 2018).
Nella specie, emerge la fondatezza della impugnazione nella
parte in cui il Comune sottolinea la insussistenza –o
comunque la irrilevanza- di un legittimo affidamento sulla
liceità dell’intervento.
Non sono cioè individuabili atti o comportamenti
dell’Amministrazione comunale dai quali possa desumersi
l’avvenuta formazione di un affidamento legittimo in capo al
responsabile dell’abuso.
Difatti, il periodo di tempo intercorrente tra la
realizzazione dell’opera abusiva e il provvedimento
repressivo non può assurgere a circostanza legittimante
l’intervento abusivo, sia in rapporto al preteso affidamento
circa la legittimità dell’opera che il protrarsi del
comportamento inerte del Comune avrebbe ingenerato nel
responsabile dell’abuso, sia in relazione a un ipotizzato
ulteriore obbligo, per l’Amministrazione emanante, di
motivare in maniera specifica il provvedimento in ordine
alla sussistenza dell’interesse pubblico attuale a far
demolire il manufatto, posto che il permanere nel tempo
dell’opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza
solo il suo carattere abusivo.
Fermo quanto rilevato, l’ordinanza di demolizione impugnata
in primo grado risulta comunque adeguatamente motivata e
sorretta da indicazioni adeguate su un bilanciamento tra i
diversi interessi coinvolti, pubblico e privato.
Le considerazioni esposte sono risolutive ai fini
dell’accoglimento dell’appello e, in riforma della sentenza
impugnata, per respingere il ricorso di primo grado.
Non rileva quanto osservato dal TAR, secondo cui dagli atti
di causa la realizzazione del manufatto risulterebbe
comprovata, con ragionevole probabilità, negli anni Sessanta
(più che negli anni Settanta), e comunque prima della
nascita del Parco nazionale dei Monti Sibillini, potendo il
Collegio considerarsi esonerato dall’obbligo di verificare
quale possa essere stata la data di realizzazione del
manufatto abusivo.
Peraltro, come rilevato al p. 1, il Comune ha dato prova del
fatto che sin dal 1935, e indipendentemente quindi
dall’epoca –comunque successiva- alla quale risale la
costruzione del manufatto su cui si controverte, esistevano
norme locali volte a regolare e controllare gli interventi
edilizi, così obbligando il privato a dotarsi di una licenza
edilizia per poter realizzare un immobile.
Ugualmente, si può prescindere dal rimarcare che il
manufatto in questione si trova all’interno del Parco
nazionale dei Monti Sibillini, zona entro la quale le norme
del Piano territoriale di coordinamento provinciale (cfr.
art. 38) consentono solo interventi che non alterino le
caratteristiche peculiari del luogo, la sua immagine e le
prospettive panoramiche e dei punti di affaccio.
L’appello va dunque accolto e, in riforma della sentenza
impugnata, il ricorso di primo grado va respinto (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.06.2018 n. 3351 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI:
Come noto, in materia ambientale ai fini della
legittimazione va seguito un approccio necessariamente non
restrittivo nell'individuazione della lesione che potrebbe
astrattamente fondare l'interesse all'impugnazione, essendo
sul punto sufficiente rammentare come -anche sotto la spinta
del diritto europeo- la materia della tutela dell'ambiente
si connoti per una peculiare ampiezza del riconoscimento
della legittimazione partecipativa e del coinvolgimento dei
soggetti potenzialmente interessati, come è dimostrato dalle
scelte legislative in materia, in specie in tema di
valorizzazione degli interessi “diffusi”.
Pacificamente, nel processo amministrativo la legittimazione
al ricorso in materia ambientale va riconosciuta alle
persone fisiche anche in base al criterio della "prossimità
dei luoghi interessati" ovvero della sussistenza di uno
"stabile collegamento" ambientale, come per la materia
edilizia.
---------------
Il rito del silenzio, come noto, è azionabile ogni qual
volta la condotta inerte della P.A. non assuma valenza
provvedimentale, di accoglimento o di diniego dell’istanza
del privato, e quando l’iniziativa dell’istante sia idonea a
generare l’obbligo -in capo all’Amministrazione- di adottare
un provvedimento espresso.
Non può ritenersi idoneo a definire il procedimento un atto
qualificabile quale “soprassessorio”, che, rinviando il
soddisfacimento dell’interesse pretensivo ad un accadimento
futuro ed incerto nel quando, determina un arresto a tempo
indeterminato del procedimento amministrativo generando
un’immediata lesione della posizione giuridica
dell’interessato.
Siffatto atto, in quanto soprassiede sull’istanza del
privato, non può costituire un provvedimento terminativo del
procedimento –che l’Amministrazione ha l’obbligo di emanare
in forza dell’articolo 2 della legge 07.08.1990, n. 241,
quale che sia il contenuto– ma un rinvio sine die della
conclusione del procedimento in violazione dell’obbligo di
concluderlo entro il termine fissato. L’Amministrazione ha
l’obbligo di emanare il provvedimento finale, senza che
siffatto obbligo possa essere vanificato dalla
configurazione di un provvedimento fittizio, pena altrimenti
la deminutio di tutela a danno del ricorrente.
L’instaurazione del giudizio in tal caso è quindi
strumentale all’emanazione di una pronuncia che, verificata
la natura dell’atto impugnato, dichiari la permanenza in
capo alla P.A. dell’obbligo di provvedere e la condanni
all’emanazione dell’atto terminativo del procedimento (o
all’emanazione di un atto di contenuto predeterminato
qualora l’attività sia –o sia divenuta– vincolata).
L’adozione dell’atto soprassessorio non determina pertanto
la declaratoria di inammissibilità del ricorso per carenza
di interesse ad agire, stante la permanenza di una
“situazione di inerzia colpevole (e, dunque, il
corrispondente interesse ad agire ex art. 117 c.p.a.) se
l’amministrazione adotta un atto soprassessorio; tanto nel
decisivo presupposto che una tale attività non dà vita ad un
autentico provvedimento ultimativo del procedimento che
l’amministrazione ha l’obbligo di concludere, ma ad un
rinvio sine die”.
---------------
2.1 Il ricorso è fondato e merita accoglimento
Preliminarmente va riconosciuta la legittimazione dei
ricorrenti, quali cittadini proprietari di immobili e
residenti, che si trovano in situazione di stabile
collegamento ambientale con una zona del territorio comunale
interessata da fenomeni di inquinamento acustico, e
lamentino un pregiudizio dalla mancata adozione da parte del
Comune di misure di riduzione e contenimento dell’impatto
acustico derivante dal traffico veicolare, nonché il
deprezzamento degli immobili di rispettiva proprietà.
Come noto, in materia ambientale ai fini della
legittimazione va seguito un approccio necessariamente non
restrittivo nell'individuazione della lesione che potrebbe
astrattamente fondare l'interesse all'impugnazione, essendo
sul punto sufficiente rammentare come -anche sotto la spinta
del diritto europeo- la materia della tutela dell'ambiente
si connoti per una peculiare ampiezza del riconoscimento
della legittimazione partecipativa e del coinvolgimento dei
soggetti potenzialmente interessati, come è dimostrato dalle
scelte legislative in materia, in specie in tema di
valorizzazione degli interessi “diffusi”.
Pacificamente, nel processo amministrativo la legittimazione
al ricorso in materia ambientale va riconosciuta alle
persone fisiche anche in base al criterio della "prossimità
dei luoghi interessati" ovvero della sussistenza di uno
"stabile collegamento" ambientale, come per la
materia edilizia (cfr. ex plurimis Cons. St. sez. III,
15.02.2012 n. 784).
2.2 Sussiste nella specie l’inerzia dell’amministrazione
rispetto agli atti di diffida inoltrati, il primo dal
ricorrente D’Agnese Mauro anche per conto dei propri
familiari in data 16.06.2017 ed il secondo in data
08.01.2018, di cui solo il primo è stato riscontrato con una
sola nota “soprassessoria” del Servizio Patrimonio
prot. n. 40781/2017 con cui l’amministrazione comunale non
si è pronunciata in maniera espressa sulle richieste dei
ricorrenti.
Con la nota predetta il Comune si è limitato a rimandare
sine die la soluzione delle problematiche di
inquinamento rappresentate in vista della realizzazione di
una nuova rotatoria ancora in fase di programmazione, ed ha
dato atto dell’apertura al traffico di una nuova bretella
per convogliare il traffico dalla galleria della variante
Anas verso via Chiarini senza tuttavia aver esperito nessun
previo accertamento teso a verificare, sui luoghi in
oggetto, l’attuale compatibilità dei rumori provenienti dal
traffico veicolare con i limiti massimi prescritti ex
lege per le immissioni acustiche.
Trattasi evidentemente di una nota con cui l’amministrazione
non si è pronunciata sulla sussistenza o meno dei
presupposti per intervenire con le misure di riduzione
richieste dal ricorrente che aveva sollecitato l’adozione di
interventi di risanamento acustico, l’apposizione di
barriere di contenimento del rumore o comunque l’adozione di
ogni altro accorgimento utile a preservare l’area dai disagi
registrati.
La nota in questione si appalesa pertanto assolutamente
inidonea a definire in modo espresso il procedimento, ed è
evidentemente elusiva dell’obbligo di provvedere.
Il rito del silenzio, come noto, è azionabile ogni qual
volta la condotta inerte della P.A. non assuma valenza
provvedimentale, di accoglimento o di diniego dell’istanza
del privato, e quando l’iniziativa dell’istante sia idonea a
generare l’obbligo -in capo all’Amministrazione- di adottare
un provvedimento espresso. Non può ritenersi idoneo a
definire il procedimento un atto qualificabile quale “soprassessorio”,
che, rinviando il soddisfacimento dell’interesse pretensivo
ad un accadimento futuro ed incerto nel quando, determina un
arresto a tempo indeterminato del procedimento
amministrativo generando un’immediata lesione della
posizione giuridica dell’interessato.
Siffatto atto, in quanto soprassiede sull’istanza del
privato, non può costituire un provvedimento terminativo del
procedimento –che l’Amministrazione ha l’obbligo di emanare
in forza dell’articolo 2 della legge 07.08.1990, n. 241,
quale che sia il contenuto– ma un rinvio sine die
della conclusione del procedimento in violazione
dell’obbligo di concluderlo entro il termine fissato.
L’Amministrazione ha l’obbligo di emanare il provvedimento
finale, senza che siffatto obbligo possa essere vanificato
dalla configurazione di un provvedimento fittizio, pena
altrimenti la deminutio di tutela a danno del
ricorrente.
L’instaurazione del giudizio in tal caso è quindi
strumentale all’emanazione di una pronuncia che, verificata
la natura dell’atto impugnato, dichiari la permanenza in
capo alla P.A. dell’obbligo di provvedere e la condanni
all’emanazione dell’atto terminativo del procedimento (o
all’emanazione di un atto di contenuto predeterminato
qualora l’attività sia –o sia divenuta– vincolata).
L’adozione dell’atto soprassessorio non determina pertanto
la declaratoria di inammissibilità del ricorso per carenza
di interesse ad agire, stante la permanenza di una “situazione
di inerzia colpevole (e, dunque, il corrispondente interesse
ad agire ex art. 117 c.p.a.) se l’amministrazione adotta un
atto soprassessorio; tanto nel decisivo presupposto che una
tale attività non dà vita ad un autentico provvedimento
ultimativo del procedimento che l’amministrazione ha
l’obbligo di concludere, ma ad un rinvio sine die”.
3. Nel merito occorre evidenziare che con la diffida
dell’08.01.2018 parte ricorrente insisteva per porre fine
alla grave situazione di inquinamento acustico dell’area con
l’adozione degli interventi più opportuni per il
contenimento delle immissioni rumorose derivanti dal
traffico veicolare.
Pertanto, la conclusione del procedimento instaurato dai
ricorrenti richiede, come ben evidenziato in fatto,
l’espletamento di specifici accertamenti onde valutare la
situazione delle immissioni acustiche all’attualità e porre
in essere gli interventi adeguati nell’ambito delle proprie
competenze, come delineate dalla legislazione vigente,
ampiamente richiamata in fatto.
Pertanto, accertata la inerzia del Comune intimato per
l’inutile decorso dei termini di conclusione del
procedimento in assenza di un provvedimento espresso, può
quindi accogliersi la domanda con assegnazione al Comune del
termine di sessanta giorni per definire il procedimento con
un provvedimento espresso (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 04.06.2018 n. 188 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il ricorso amministrativo contro
l’esclusione da una gara pubblica, proposto prima del
provvedimento finale di aggiudicazione dell’appalto, non
comporta l’onere di notifica ai controinteressati, sia
perché a tale stadio del procedimento di gara non sussiste
un interesse protetto in capo agli altri concorrenti che
potrebbe essere leso dall’eventuale accoglimento del
ricorso, sia perché comunque il loro interesse non emerge
direttamente dal provvedimento impugnato.
---------------
Considerato che:
1. Va innanzitutto rigettata la sollevata eccezione di
inammissibilità dal momento che, per giurisprudenza
pressoché costante, “il ricorso amministrativo contro
l’esclusione da una gara pubblica, proposto prima del
provvedimento finale di aggiudicazione dell’appalto, non
comporta l’onere di notifica ai controinteressati, sia
perché a tale stadio del procedimento di gara non sussiste
un interesse protetto in capo agli altri concorrenti che
potrebbe essere leso dall’eventuale accoglimento del
ricorso, sia perché comunque il loro interesse non emerge
direttamente dal provvedimento impugnato” (cfr. TAR
Umbria, sez. I, 31.05.2017, n. 429. Si veda altresì, in
questa stessa direzione, TAR L’Aquila, sez. I, 09.01.2017, n. 17; TAR Molise, sez. I, 24.11.2016, n.
486; TAR Bari, sez. I, 09.06.2016, n. 766; TAR
Lazio, sez. III, 08.06.2016, n. 6616) (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater,
sentenza 01.06.2018 n. 6148 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: a) fatte salve le ipotesi in
cui la lex specialis preveda una espressa comminatoria di
esclusione, l’omesso versamento del contributo Anac non
comporta in linea di principio l’estromissione dalla gara;
b) ciò anche in linea con la giurisprudenza della Corte di
giustizia UE (cfr. sentenza 02.06.2016, C 27/15) nella
parte in cui è stato affermato “che i principi di tutela del
legittimo affidamento, certezza del diritto e
proporzionalità ostano ad una regola dell’ordinamento di uno
Stato membro che consenta di escludere da una procedura di
affidamento di un contratto pubblico l’operatore economico
non avvedutosi di una simile conseguenza, perché non
espressamente indicata dagli atti di gara”;
c) di
conseguenza, in presenza di una siffatta omissione ben
dovrebbe innescarsi il meccanismo del soccorso istruttorio
di cui all’art. 83, comma 9, del decreto legislativo n. 50
del 2016, trattandosi di adempimento (si ripete: versamento
contributo ANAC) sicuramente estraneo all’alveo dell’offerta
economica e di quella tecnica: di qui la possibile
regolarizzazione della connessa posizione da parte
dell’impresa partecipante;
3) una simile impostazione era stata peraltro già anticipata
da diverse decisioni di primo grado, tutte opportunamente
richiamate dalla difesa di parte ricorrente;
4) orbene, poiché nel caso di specie la
suddetta esclusione è stata disposta proprio per il mancato
versamento del contributo di cui all’art. 1, comma 67, della
legge n. 266 del 2005, ed appurato che la disciplina di gara
non prevedeva in modo espresso l’esclusione per il caso di
mancato versamento di tale somma, ne consegue che la gravata
determinazione con cui è stata disposta l’estromissione
dalla gara della odierna ricorrente (con particolare
riguardo ai lotti sopra evidenziati) deve necessariamente
essere reputata come illegittimamente adottata.
---------------
2. Nel merito il ricorso è peraltro fondato in quanto, come
anche di recente affermato dalla Sezione V del Consiglio di
Stato 19.04.2018, n. 2386:
a) fatte salve le ipotesi in
cui la lex specialis preveda una espressa comminatoria di
esclusione, l’omesso versamento del contributo Anac non
comporta in linea di principio l’estromissione dalla gara;
b) ciò anche in linea con la giurisprudenza della Corte di
giustizia UE (cfr. sentenza 02.06.2016, C 27/15) nella
parte in cui è stato affermato “che i principi di tutela del
legittimo affidamento, certezza del diritto e
proporzionalità ostano ad una regola dell’ordinamento di uno
Stato membro che consenta di escludere da una procedura di
affidamento di un contratto pubblico l’operatore economico
non avvedutosi di una simile conseguenza, perché non
espressamente indicata dagli atti di gara”;
c) di
conseguenza, in presenza di una siffatta omissione ben
dovrebbe innescarsi il meccanismo del soccorso istruttorio
di cui all’art. 83, comma 9, del decreto legislativo n. 50
del 2016, trattandosi di adempimento (si ripete: versamento
contributo ANAC) sicuramente estraneo all’alveo dell’offerta
economica e di quella tecnica: di qui la possibile
regolarizzazione della connessa posizione da parte
dell’impresa partecipante;
3) una simile impostazione era stata peraltro già anticipata
da diverse decisioni di primo grado, tutte opportunamente
richiamate dalla difesa di parte ricorrente (cfr. TAR
Lazio, sez. III-bis, 06.11.2017, n. 11031; TAR Bari,
sez. III, 04.122017, n. 1240; TAR Veneto, sez. I,
15.06.2017, n. 563);
4) orbene, poiché nel caso di specie la suddetta esclusione
è stata disposta proprio per il mancato versamento del
contributo di cui all’art. 1, comma 67, della legge n. 266
del 2005, ed appurato che la disciplina di gara non
prevedeva in modo espresso l’esclusione per il caso di
mancato versamento di tale somma, ne consegue che la gravata
determinazione con cui è stata disposta l’estromissione
dalla gara della odierna ricorrente (con particolare
riguardo ai lotti sopra evidenziati) deve necessariamente
essere reputata come illegittimamente adottata (TAR
Lazio-Roma, Sez. III-quater,
sentenza 01.06.2018 n. 6148 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non è necessaria l’indicazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione delle opere abusive
anche se il provvedimento è adottato a distanza di tempo
dalla loro realizzazione.
Il decorso del tempo non può, infatti, incidere
sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l'illecito attraverso l'adozione della relativa sanzione.
Deve, quindi, conseguentemente essere escluso che
l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba
essere motivata in ordine alla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità
violata.
D’altra parte, l'attività sanzionatoria dell’Amministrazione
concernente l'attività edilizia abusiva è caratterizzata dal
carattere vincolato e non discrezionale.
Il giudizio di difformità dell'intervento edilizio rispetto
al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il
presupposto dell'irrogazione delle sanzioni, non è connotato
da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento
di fatto e, pertanto, l'ordine di demolizione di opere
abusive non richiede una specifica valutazione delle ragioni
di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può mai legittimare.
In definitiva, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è quindi un atto dovuto e vincolato e non necessita
di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei
presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione
degli abusi edilizi.
Trattandosi di attività doverosa e
vincolata, certamente non occorre, per giustificare
l'adozione dell'ingiunzione di ripristino, una motivazione
ulteriore rispetto all'indicazione delle norme violate e al
riferimento per relationem ai presupposti di fatto contenuti
nei verbali accertativi.
---------------
24. In ordine, poi, all’omessa esplicitazione delle ragioni
di interesse pubblico alla demolizione delle opere abusive,
va rilevato che non è necessaria l’indicazione delle stesse
anche se il provvedimento è adottato a distanza di tempo
dalla loro realizzazione.
Il decorso del tempo non può, infatti, incidere
sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l'illecito attraverso l'adozione della relativa sanzione.
Deve, quindi, conseguentemente essere escluso che
l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba
essere motivata in ordine alla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità
violata (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 26.03.2018, n. 1893;
Ad. Plen. 17.10.2017, n. 9).
D’altra parte, l'attività sanzionatoria dell’Amministrazione
concernente l'attività edilizia abusiva è caratterizzata dal
carattere vincolato e non discrezionale. Il giudizio di
difformità dell'intervento edilizio rispetto al titolo
abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto
dell'irrogazione delle sanzioni, non è connotato da
discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di
fatto e, pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive
non richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può mai legittimare (Cons. Stato, sez. VI, 06.09.2017, n. 4243).
In definitiva, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è quindi un atto dovuto e vincolato e non necessita
di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei
presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione
degli abusi edilizi. Trattandosi di attività doverosa e
vincolata, certamente non occorre, per giustificare
l'adozione dell'ingiunzione di ripristino, una motivazione
ulteriore rispetto all'indicazione delle norme violate e al
riferimento per relationem ai presupposti di fatto
contenuti nei verbali accertativi (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 01.06.2018 n. 3309 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’Adunanza Plenaria ha richiamato la consolidata
giurisprudenza del Consiglio che ha enucleato “le ipotesi”
delle “clausole immediatamente escludenti” e cioè:
“a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri
manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati
per eccesso rispetto ai contenuti della procedura
concorsuale;
b) regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa
o addirittura impossibile;
c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il
calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della
partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni
irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta;
d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale
eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente;
e) clausole impositive di obblighi contra ius (es. cauzione
definitiva pari all'intero importo dell'appalto);
f) bandi contenenti gravi carenze nell'indicazione di dati
essenziali per la formulazione dell'offerta (come ad esempio
quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli
retributivi e anzianità del personale destinato ad essere
assorbiti dall'aggiudicatario), ovvero che presentino
formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui
tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di "0"
pt.);
g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel
bando di gara dei costi della sicurezza "non soggetti a
ribasso”.
Per converso, ha ricordato che “è stato ribadito il
principio generale secondo il quale le rimanenti clausole,
in quanto non immediatamente lesive, devono essere impugnate
insieme con l'atto di approvazione della graduatoria
definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed
identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento,
rendendo attuale e concreta la lesione della situazione
soggettiva e postulano la preventiva partecipazione alla
gara”.
Pertanto, sul punto di interesse, ha affermato che: “le
clausole del bando di gara che non rivestano portata
escludente devono essere impugnate unitamente al
provvedimento lesivo e possono essere impugnate unicamente
dall’operatore economico che abbia partecipato alla gara o
manifestato formalmente il proprio interesse alla
procedura”.
---------------
I – Osserva il Collegio che viene all’esame della Sezione
nuovamente un tema largamente dibattuto, ovvero quello
attinente alla portata escludente delle clausole di bando ed
alla loro immediata lesività ai fini della conseguente
necessità di immediata impugnazione delle stesse.
Non si può prescindere, nella decisione sul punto, che forma
oggetto di appello, dal prendere le mosse dai principi
riaffermati recentemente dall’Adunanza Plenaria n. 4 del
26.04.2018.
L’Adunanza Plenaria ha richiamato la consolidata
giurisprudenza del Consiglio che ha enucleato “le ipotesi”
delle “clausole immediatamente escludenti”:
“a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri
manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati
per eccesso rispetto ai contenuti della procedura
concorsuale (si veda Cons. Stato sez. IV, 07.11.2012, n.
5671);
b) regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa
o addirittura impossibile (così l’Adunanza plenaria n. 3 del
2001);
c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il
calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della
partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni
irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta
(cfr. Cons. Stato sez. V, 24.02.2003, n. 980);
d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale
eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2011 n. 6135; Cons. Stato,
sez. III, 23.01.2015 n. 293);
e) clausole impositive di obblighi contra ius (es. cauzione
definitiva pari all'intero importo dell'appalto: Cons.
Stato, sez. II, 19.02.2003, n. 2222);
f) bandi contenenti gravi carenze nell'indicazione di dati
essenziali per la formulazione dell'offerta (come ad esempio
quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli
retributivi e anzianità del personale destinato ad essere
assorbiti dall'aggiudicatario), ovvero che presentino
formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui
tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di "0"
pt.);
g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel
bando di gara dei costi della sicurezza "non soggetti a
ribasso" (cfr. Cons. Stato, sez. III, 03.10.2011 n. 5421)”.
Per converso, ha ricordato che “è stato ribadito il
principio generale secondo il quale le rimanenti clausole,
in quanto non immediatamente lesive, devono essere impugnate
insieme con l'atto di approvazione della graduatoria
definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed
identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento,
rendendo attuale e concreta la lesione della situazione
soggettiva (Cons. Stato, sez. V, 27.10.2014, n. 5282) e
postulano la preventiva partecipazione alla gara”.
Pertanto, sul punto di interesse, ha affermato che: “le
clausole del bando di gara che non rivestano portata
escludente devono essere impugnate unitamente al
provvedimento lesivo e possono essere impugnate unicamente
dall’operatore economico che abbia partecipato alla gara o
manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura”
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 01.06.2018 n. 3299 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli apprezzamenti in ordine alla idoneità o alla
inidoneità tecnica delle offerte dei vari partecipanti alla
gara pubblica, in quanto espressione di un potere di natura
tecnico-discrezionale a carattere complesso, sono
sindacabili in sede giurisdizionale solo se affetti da
macroscopici vizi logici, disparità di trattamento, errore
manifesto, contraddittorietà ictu oculi rilevabile,
rientrando tipicamente nel potere valutativo quello di
ritenere migliore un’offerta rispetto ad un’altra.
----------------
È costante la
giurisprudenza di questo Consiglio nell’affermare che gli
apprezzamenti in ordine alla idoneità o alla inidoneità
tecnica delle offerte dei vari partecipanti alla gara
pubblica, in quanto espressione di un potere di natura
tecnico-discrezionale a carattere complesso, sono
sindacabili in sede giurisdizionale solo se affetti da
macroscopici vizi logici, disparità di trattamento, errore
manifesto, contraddittorietà ictu oculi rilevabile,
rientrando tipicamente nel potere valutativo quello di
ritenere migliore un’offerta rispetto ad un’altra (v., ex
plurimis, Cons. St., sez. III, 26.01.2012, n. 249)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 01.06.2018 n. 3299 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sia il responsabile dell’abuso edilizio che il
proprietario della res (qualora le due qualità non si
identifichino nella stessa persona) possono divenire
destinatari della sanzione reale contemplata dall’art. 31,
co. 2, d.P.R. 380/2001.
Invero, ai sensi dell'art. 31, comma 2, del D.P.R. n.
380/2001, affinché il proprietario di una costruzione
abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di
demolizione non occorre stabilire se egli sia responsabile
dell'abuso, poiché la stessa disposizione nazionale si
limita a prevedere la legittimazione passiva del
proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di
demolizione, senza richiedere l'effettivo accertamento di
una qualche responsabilità. Il presupposto per l'adozione di
un'ordinanza di ripristino non è l'accertamento di
responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma
l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con
quella codificata nella normativa urbanistica ed edilizia e
l'individuazione di un soggetto che abbia la titolarità ad
eseguire l'ordine ripristinatorio e, quindi, il proprietario
in virtù del suo diritto dominicale. In considerazione di
ciò, la misura ripristinatoria è posta a carico non solo
dell'autore dell'illecito, ma anche del proprietario del
bene e dei suoi aventi causa.
Ed ancora: <<L'ordinanza di demolizione di opere abusive è
legittimamente adottata nei confronti del proprietario
dell'immobile sia estraneo alla realizzazione delle stesse,
venendo in rilievo la sua posizione di estraneità
all'esecuzione dell'abuso, nella fase successiva
dell'acquisizione gratuita delle stesse al patrimonio
comunale, conseguente alla inottemperanza dell'ordine
demolitorio>>.
Tale ultima affermazione è astrattamente corretta, al
riguardo rilevandosi in giurisprudenza che se è vero che il
proprietario del fabbricato deve ritenersi passivamente
legittimato rispetto al provvedimento di demolizione,
indipendentemente dall'essere o meno estraneo alla
realizzazione dell'abuso, <<è altrettanto vero che qualora
egli dimostri la sua assoluta estraneità all'abuso edilizio
commesso da altri e manifesti il suo attivo interessamento,
con i mezzi consentitigli dall'ordinamento per la rimozione
dell'opera abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso
sia stato impossibilitato ad eseguire; in altri termini,
l'estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi
sul bene da un soggetto -che ne abbia la piena ed esclusiva
disponibilità- non implica l'illegittimità dell'ordinanza di
demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei
luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l'inidoneità del
provvedimento repressivo a costituire titolo per
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di
sedime sulla quale insiste il bene>>.
---------------
Tutti i motivi di ricorso sono infondati.
Con il primo motivo parte ricorrente contesta la
legittimità dell’ordine di ripristino, in quanto adottato
nei confronti di un proprietario che pacificamente non
detiene da oltre un decennio la disponibilità materiale
dell’area oggetto del provvedimento.
Al riguardo il Collegio condivide l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui sia il responsabile dell’abuso
edilizio che il proprietario della res (qualora le
due qualità non si identifichino nella stessa persona)
possono divenire destinatari della sanzione reale
contemplata dall’art. 31, co. 2, d.P.R. 380/2001.
Al riguardo si rileva in giurisprudenza che, ai sensi
dell'art. 31, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, affinché il
proprietario di una costruzione abusiva possa essere
destinatario dell'ordinanza di demolizione non occorre
stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la
stessa disposizione nazionale si limita a prevedere la
legittimazione passiva del proprietario non responsabile
all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere
l'effettivo accertamento di una qualche responsabilità. Il
presupposto per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non
è l'accertamento di responsabilità storiche nella
commissione dell'illecito, ma l'esistenza di una situazione
dei luoghi contrastante con quella codificata nella
normativa urbanistica ed edilizia e l'individuazione di un
soggetto che abbia la titolarità ad eseguire l'ordine
ripristinatorio e, quindi, il proprietario in virtù del suo
diritto dominicale. In considerazione di ciò, la misura
ripristinatoria è posta a carico non solo dell'autore
dell'illecito, ma anche del proprietario del bene e dei suoi
aventi causa (cfr. TAR Firenze (Toscana), sez. III,
28/02/2017, n. 313); ed, ancora: <<L'ordinanza di
demolizione di opere abusive è legittimamente adottata nei
confronti del proprietario dell'immobile sia estraneo alla
realizzazione delle stesse, venendo in rilievo la sua
posizione di estraneità all'esecuzione dell'abuso, nella
fase successiva dell'acquisizione gratuita delle stesse al
patrimonio comunale, conseguente alla inottemperanza
dell'ordine demolitorio>> (TAR Campania, Salerno, sez.
I, 05/01/2017, n. 29).
Tale ultima affermazione è astrattamente corretta (salvo
quanto si dirà in occasione della disamina della successiva
censura), al riguardo rilevandosi in giurisprudenza che se è
vero che il proprietario del fabbricato deve ritenersi
passivamente legittimato rispetto al provvedimento di
demolizione, indipendentemente dall'essere o meno estraneo
alla realizzazione dell'abuso, <<è altrettanto vero che
qualora egli dimostri la sua assoluta estraneità all'abuso
edilizio commesso da altri e manifesti il suo attivo
interessamento, con i mezzi consentitigli dall'ordinamento
per la rimozione dell'opera abusiva, resta salva la sua
tutela dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di
demolizione che lo stesso sia stato impossibilitato ad
eseguire; in altri termini, l'estraneità del proprietario
agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto -che ne
abbia la piena ed esclusiva disponibilità- non implica
l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione
in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi
confronti, ma solo l'inidoneità del provvedimento repressivo
a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste
il bene>> (TAR Potenza, (Basilicata), sez. I,
24/10/2017, n. 653) (TAR Molise,
sentenza 01.06.2018 n. 326 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ noto che in materia
edilizia il carattere vincolato della determinazione
sanzionatoria, dipendente unicamente dall’accertamento
dell’abuso compiuto, esclude la necessità di una specifica
valutazione delle ragioni d'interesse pubblico concreto ed
attuale o di una comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto non è
configurabile alcun affidamento giuridicamente tutelabile
alla conservazione di una situazione di illecito permanente
che non può di norma essere sanata dal mero trascorrere del
tempo.
Peraltro, l'esercizio del potere repressivo delle opere
edilizie realizzate in assenza del titolo edilizio mediante
l'applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto
dovuto e tale atto può ritenersi sufficientemente motivato
per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato,
presupposto giustificativo necessario e sufficiente a
fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
---------------
Nel concetto di abuso rientra pacificamente anche
l’alterazione della destinazione d’uso, atteso che essa
incide profondamente sul carico urbanistico e sulla relativa
pianificazione oltre che sulle previsioni antisismiche.
---------------
Con il secondo articolato motivo di ricorso parte
ricorrente si duole, in primo luogo, che il provvedimento
impugnato non indicherebbe l’interesse pubblico sotteso
all’ordinanza, laddove sarebbe stato necessario tenuto conto
del lungo lasso di tempo trascorso tra il momento in cui il
Comune ha acquisito consapevolezza della situazione e
l’intervento repressivo.
Tale profilo di censura non merita positiva considerazione.
E’ noto, infatti, che in materia edilizia il carattere
vincolato della determinazione sanzionatoria, dipendente
unicamente dall’accertamento dell’abuso compiuto, esclude la
necessità di una specifica valutazione delle ragioni
d'interesse pubblico concreto ed attuale o di una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, in quanto non è configurabile alcun
affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di
una situazione di illecito permanente che non può di norma
essere sanata dal mero trascorrere del tempo (cfr. Cons.
St., sez. IV, 29/04/2014, n. 2228; TAR Napoli Campania, sez.
IV, n. 3614/2016; TAR Campania, Salerno, sez. II,
13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n.
770); inoltre (TAR Napoli sez. VI, 20/03/2014, n. 1616).
Peraltro, confutandosi così anche la censura sul difetto di
motivazione, secondo condivisa giurisprudenza, l'esercizio
del potere repressivo delle opere edilizie realizzate in
assenza del titolo edilizio mediante l'applicazione della
misura ripristinatoria costituisce atto dovuto e tale atto
può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della
stessa descrizione dell'abuso accertato (nella specie, come
rilevasi dalla relazione tecnica redatta dal Servizio
Antiabusivismo edilizio prot. 80273/2011 del 09.12.2011),
presupposto giustificativo necessario e sufficiente a
fondare la spedizione della misura sanzionatoria (cfr. TAR
Napoli, (Campania), sez. VI, 03/08/2016, n. 4017 e C. di S.,
sez. V, 11.06.2013, n. 3235).
Nel concetto di abuso rientra poi pacificamente anche
l’alterazione della destinazione d’uso, atteso che essa
incide profondamente sul carico urbanistico e sulla relativa
pianificazione oltre che sulle previsioni antisismiche.
Peraltro nel caso di specie sono state rilevate violazioni
che attengono anche alla realizzazione di manufatti abusivi
che non possono non incidere sugli interessi a cui risultano
preordinati i vincoli di cui al d.lgs. n. 42/2004 insistenti
sulla zona così come anche sulle previsioni antisismiche.
Anche sotto questo profilo il provvedimento si rileva immune
dai vizi denunciati e tanto meno dal lamentato eccesso di
potere, avendo il comune correttamente e doverosamente
esercitato il proprio potere di vigilanza e repressione
degli abusi edilizi, dapprima a monte con riguardo alla
proposta SCIA e, successivamente, a valle dopo aver eseguito
il sopralluogo e constatato la commissione dei segnalati
abusi.
In definitiva il ricorso deve essere respinto. Le spese
seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo
(TAR Molise,
sentenza 01.06.2018 n. 326 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La lettera di invito alla procedura negoziata
conseguente ad una gara pubblica andata deserta, nel caso
non contenga una disciplina compiuta, deve ritenersi
integrata dalle disposizioni prescritte nella precedente lex
specialis.
Pur costituendo la procedura negoziata ex art. 125, co. 1,
lett. a), d.lgs. 50/2016, un segmento procedimentale
autonomo rispetto alla originaria gara pubblica, nel caso in
cui la lettera di invito alla stessa procedura non contenga
una disciplina compiuta ed autosufficiente avente ad oggetto
la puntuale regolamentazione dei relativi adempimenti
concorsuali, ma è strutturata quale appendice della gara
pubblica che è richiamata nelle premesse e di cui
sostanzialmente viene rinnovata la disciplina, si deve
ritenere reiterativa dell'integrale disciplina della gara
pubblica.
Altrimenti, la lettera di invito rappresenterebbe un guscio
vuoto e non consentirebbe la presentazione di un'offerta
consapevole, né tanto meno lo svolgimento delle operazioni
concorsuali (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 31.05.2018 n. 1132 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Gara andata deserta e procedura negoziata.
----------------
Contratti pubblici – Procedura negoziata – Conseguente a
gara bandita deserta - Art. 125, comma 1, lett. a), d.lgs.
n. 50 del 2018 - Lettera di invito - Integrazione con le
disposizioni prescritte nella precedente lex specialis -
Necessità - Limiti
In materia di contratti pubblici, la
lettera di invito alla procedura negoziata indetta ai sensi
dell’art. 125, comma 1, lett.a), d.lgs. 18.04.2016, n. 50,
dopo l’originaria gara pubblica andata deserta, deve
ritenersi integrata dalle disposizioni prescritte nella
precedente lex specialis, ove essa non contenga una
disciplina compiuta (1).
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(1)
Ha chiarito il Tar che, pur costituendo la procedura
negoziata un segmento procedimentale autonomo rispetto
all’originaria gara pubblica andata deserta, i concorrenti
restano comunque vincolati al necessario rispetto delle
prescrizioni della lex specialis della gara pubblica e,
pertanto, la lettera di invito alla stessa procedura, ove
non contenga un sistema di regole compiuto ed
autosufficiente avente ad oggetto la puntuale
regolamentazione dei relativi adempimenti concorsuali, deve
ritenersi reiterativa dell’integrale disciplina della gara
pubblica. Diversamente, la lettera di invito
rappresenterebbe un guscio vuoto e non consentirebbe la
presentazione di un’offerta consapevole né lo svolgimento
delle operazioni concorsuali
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 31.05.2018 n. 1132
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
3. Ciò premesso, si osserva che,
pur costituendo la
procedura negoziata un segmento procedimentale autonomo
rispetto alla originaria gara pubblica, nel concreto caso di
specie la lettera di invito alla stessa procedura non
contiene una disciplina compiuta ed autosufficiente avente
ad oggetto la puntuale regolamentazione dei relativi
adempimenti concorsuali, ma è strutturata quale appendice
della gara pubblica che è richiamata nelle premesse e di cui
sostanzialmente viene rinnovata la disciplina.
Vero è che nella lettera di invito alla procedura negoziata
è esplicitamente richiamato soltanto il capitolato speciale
della gara pubblica, ma è anche vero che la stessa lettera
di invito è chiaramente concepita quale rinnovazione
integrale della disciplina della gara pubblica, dal momento
che, diversamente opinando, la stessa lettera di invito
costituirebbe una sorta di “guscio vuoto” e non
consentirebbe la presentazione di una offerta consapevole,
né tanto meno lo svolgimento dello operazioni concorsuali.
In particolare, la lettera di invito sollecita i concorrenti
a presentare un'offerta tecnica ed un'offerta prezzo, ma non
precisa esplicitamente quali siano i relativi criteri di
valutazione, di talché sul punto è evidente l'implicito
richiamo alla disciplina di cui alla presupposta gara
pubblica.
Lo stesso dicasi con riferimento al tempo di consegna, la
cui indicazione è richiesta dalla lettera di invito, in
mancanza di ulteriori precisazioni in ordine alla relativa
rilevanza, ciò che inevitabilmente vale a richiamare la
statuizione del disciplinare della gara pubblica in ordine
all'obbligo di provvedere alla consegna dei mezzi entro
cento venti giorni dalla stipulazione del contratto (art. 7,
norma a sua volta coerente con la prescrizione del bando che
prevedeva il completamento dell'appalto al 30.10.2018, e con
i vincoli imposti dalla DGR 392/2017 per la concessione del
finanziamento).
In buona sostanza,
l'unico modo per attribuire un senso
compiuto alla disciplina di cui alla lettera di invito,
secondo un criterio di buona fede volto alla individuazione
di una soluzione interpretativa logicamente sostenibile e
del significato che il destinatario può ragionevolmente
intendere (art. 1366 c.c.), è di ritenere che essa, in
ossequio al criterio di cui all’art. 125, co. 1, lett. a),
d.lgs. 50/2016, sia pedissequamente reiterativa delle
condizioni essenziali delle lex specialis della gara
pubblica indicata nelle premesse della stessa lettera di
invito, prima fra tutte quella volta alla conservazione del
finanziamento, mediante la fissazione di un termine
essenziale per il completamento della fornitura, che pur non
essendo precisato nel capitolato speciale, era puntualmente
indicato nel bando di gara e nel disciplinare della gara
pubblica, che com’è noto, per costante giurisprudenza,
prevalgono sulle norme del capitolato, essendo questo
chiamato ad integrare, e non a modificare, il bando
(TAR
Lazio, Sez. III, 27.11.2017 n. 11746).
Di qui l'infondatezza della censura in esame.
4. Per vero la stessa ricorrente è consapevole del fatto che
la lettera di invito non contiene un sistema di regole
compiuto ed autosufficiente che possa risultare autonomo
rispetto alla (e sostitutivo della) disciplina di cui alla
gara pubblica, tant'è che, senza considerare la possibilità
di coordinarne i contenuti con quelli della originaria lex
specialis, ne censura in via gradata l'illegittimità sotto
il profilo della carenza regolamentare in merito ai criteri
di valutazione delle offerte ed alle ulteriori condizioni di
partecipazione (cfr motivo sub A, punto. 3, pag. 9 del
ricorso).
La censura, essendo volta a contestare la carenza dei
presupposti per la formulazione di un'offerta consapevole e
puntuale, avrebbe dovuto essere proposta immediatamente
avverso la lettera di invito, senza attendere l'esito della
procedura negoziata, ed è quindi tardiva per violazione del
termine di cui all'art. 120, co. 5, c.p.a., dal momento che
il ricorso è stato notificato in data 12.05.2018, nel
mentre la lettera di invito era stata inviata a mezzo pec
sin dal 30.03.2018. |
APPALTI:
Profili di incompatibilità del Presidente di Commissione di
gara pubblica.
---------------
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Impugnazione atti
di gara – Legittimazione passiva – Commissione di gara – Non
è legittimata passiva.
●
Contratti della Pubblica
amministrazione – Commissione di gara – Incompatibilità –
Presidente della Commissione nominato Direttore della UOC
Acquisizione Beni e Servizi durante la gara – Art. 77, comma
4, d.lgs. n. 50 del 2016 – Non è incompatibile - Condizione.
●
Il Presidente della commissione di gara non è
controinteressato nel giudizio proposto avverso la procedura
di gara, con la conseguenza che allo stesso non va
notificato il ricorso, e ciò in quanto la Commissione è un
organo tecnico, privo di rilevanza esterna, la cui attività
viene trasfusa – previa apposita approvazione – nel
provvedimento finale della procedura di gara, e cioè
l’aggiudicazione, adottata dalla stazione appaltante (1).
●
Ai
sensi dell’art. 77, comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, non
sussiste un profilo di incompatibilità nel Presidente della
Commissione di Gara che, durante il corso della procedura,
sia stato nominato Direttore della UOC Acquisizione Beni e
Servizi, avente funzioni di amministrazione attiva (stipula
dei contratti, controllo della esecuzione del servizio,
richiesta dei servizi, pagamento dei corrispettivi) su tutti
i contratti di fornitura di beni e servizi della stazione
appaltante se non ha partecipato alla stesura del bando (2).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che l'onere di immediata impugnativa è
circoscritto alle clausole del bando di gara impeditive
della partecipazione alla procedura o impositive di oneri
manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati
per eccesso rispetto ai contenuti della procedura
concorsuale, e, pertanto, immediatamente lesive sotto questi
profili, mentre ogni altra questione, ivi compresa la
legittima composizione della Commissione di gara, è rimessa
all'impugnazione contro l'altrui aggiudicazione, perché è
solo in tale momento che si concretizza la lesione —e quindi
l'interesse al ricorso— per gli altri partecipanti alla
procedura e può conseguentemente ritenersi sorto l'onere di
impugnazione.
(2) Il Tar ha evidenziato come l’art. 77, comma 4, d.lgs.
18.04.2018, n. 50 ha il duplice scopo di garantire la
libertà di elaborazione delle offerte e l'imparzialità della
valutazione delle stesse, a garanzia tanto dei concorrenti
quanto della Stazione appaltante, impedendo che i medesimi
soggetti possano influire sul contenuto del servizio da
aggiudicare e sul risultato della procedura di gara. Ha
aggiunto che il principio di imparzialità dei componenti del
seggio di gara va declinato nel senso di garantire loro la
c.d. virgin mind, ossia la totale mancanza di un
pregiudizio nei riguardi dei partecipanti alla gara stessa
che nell’ipotesi di specie non appare messa in discussione,
non avendo il Presidente della Commissione, solo
successivamente nominato quale Direttore della UOC
Acquisizione Beni e Servizi, partecipato alla
predisposizione della lex specialis.
Il Tar ha quindi aderito all’interpretazione del disposto
dell’art. 77, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016, fatta proprio
dall’ANAC con delibera n. 436 del 27.04.2017, secondo cui
occorre comunque tenere presente, al fine di evitare forme
di automatica incompatibilità a carico del RUP,
quell’approccio interpretativo di minor rigore della norma
fornito nel tempo dalla giurisprudenza amministrativa circa,
ad esempio, la previsione di cui all’art. 84, d.lgs.
12.04.2006, n. 163 che non comporta, di per sé,
l’incompatibilità a far parte della Commissione giudicatrice
di tutti i soggetti che, in quanto dipendenti della stazione
appaltante, siano in qualche misura coinvolti, per obbligo
di ufficio, nello specifico lavoro, servizio o fornitura che
è oggetto dell’appalto
(TAR
Camania-Napoli, Sez. V,
sentenza 30.05.2018 n. 3587
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
8. In via preliminare vanno vagliate le eccezioni di
inammissibilità del ricorso sollevate da parte resistente.
9. Le stesse sono infondate alla stregua dei seguenti
rilievi.
10. Quanto all’eccezione di inammissibilità (rectius di
irricevibilità) del ricorso per tardiva impugnazione del
provvedimento di nomina della Commissione di gara, il
Collegio aderisce al costante orientamento
giurisprudenziale, di cui al noto arresto dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato 1/2003 che ha escluso
l’onere di immediata impugnazione delle clausole del bando
riguardanti la composizione ed il funzionamento del seggio
di gara sulla base dei seguenti rilievi “Non può, altresì,
essere condivisa quella tesi volta ad imporre l’onere di
immediata impugnazione delle clausole del bando riguardanti
la composizione ed il funzionamento del seggio di gara. Non
può, infatti, essere configurato un autonomo interesse del
ricorrente ad una certa composizione del seggio di gara ed a
certe sue modalità di funzionamento, diverso dall’interesse
(sostanziale) all’aggiudicazione, e cioè al conseguimento di
quell’assetto degli interessi in gioco a lui favorevole che
è lo scopo che l’interessato intende perseguire con la
presentazione della domanda di partecipazione. D’altra
parte, una lesione concreta ed attuale della situazione
soggettiva del partecipante alla procedura concorsuale potrà
derivare soltanto dal diniego di aggiudicazione, dal momento
che soltanto con esso diviene effettiva la potenziale
illegittimità connessa con la sua composizione e con le sue
regole di funzionamento. E’ solo, infatti, con il diniego di
aggiudicazione che si verifica l’evento lesivo, e con esso,
quel fenomeno in base al quale la possibile anomalia della
composizione e del funzionamento del seggio di gara si
traduce in una certa ed effettiva anomalia dell’intera
procedura concorsuale e del suo esito”.
10.1. Detto orientamento giurisprudenziale è da condividersi
anche alla luce della più recente giurisprudenza (ex multis
Cons. Stato 06/12/2016 n. 5154) secondo la quale
nelle
procedure concorsuali per costante orientamento
giurisprudenziale “l’onere di impugnazione immediata
riguarda le sole clausole che concernono i requisiti
soggettivi di partecipazione, ovvero quelle che impediscono
la stessa formulazione dell’offerta.
Esso non si estende, invece, alle modalità di valutazione
delle offerte o di svolgimento della gara in cui rientra
anche la formazione e la nomina della Commissione di gara,
la quale com’è noto, deve avvenire dopo la presentazione
delle offerte”.
Anche questo Tar con la sentenza sez. VIII, 31/10/2017, n.
5100 si è espresso in tal senso affermando che “l'onere di
immediata impugnativa è circoscritto alle clausole del bando
di gara impeditive della partecipazione alla procedura o
impositive di oneri manifestamente incomprensibili o del
tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della
procedura concorsuale, e, pertanto, immediatamente lesive
sotto questi profili, mentre ogni altra questione, ivi
compresa la legittima composizione della Commissione di
gara, è rimessa all'impugnazione contro l'altrui
aggiudicazione, perché è solo in tale momento che si
concretizza la lesione —e quindi l'interesse al ricorso—
per gli altri partecipanti alla procedura e può
conseguentemente ritenersi sorto l'onere di impugnazione
(cfr. Cons. di Stato sez. sez. V, n. 61 del 18.01.1996; TAR
Lazio Roma n. 5063 del 04.05.2016)".
In senso analogo è del resto la costante giurisprudenza (ex multis Consiglio di Stato, sez. III, 18.06.2012, n.
3550; id. sez. V 07.10.2002, n. 5279; TAR Reggio
Calabria 23.10.2008 n. 542).
11. Parimenti da disattendere è l’eccezione di
inammissibilità del ricorso fondata sul rilievo della
mancata notifica al Presidente della Commissione di gara, da
considerarsi, nella prospettazione dalla Asl resistente,
quale controinteressata, stante la questione di
incompatibilità formulata avverso la medesima.
11.1 In primo luogo va evidenziato che ai fini
dell’ammissibilità del ricorso è sufficiente la notifica del
ricorso ad un solo controinteressato ex art. 41, comma 2, c.p.a., nell’ipotesi di specie evocato in giudizio
(l’aggiudicataria So.Ge.Si. S.r.l.), essendo per contro
obbligo dell’adito Tar disporre ex art. 49, comma 1, c.p.a.
l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti
gli altri controinteressati.
11.2. Peraltro deve escludersi che il Presidente della
commissione di gara sia controinteressato rispetto
all’impugnativa della procedura di gara o comunque soggetto
cui va notificato quale parte resistente il ricorso in
quanto come noto “la Commissione è un organo tecnico, privo
di rilevanza esterna, la cui attività viene trasfusa –previa
apposita approvazione– nel provvedimento finale della
procedura di gara, e cioè l’aggiudicazione, adottata dalla
stazione appaltante”.
Pertanto la legittimazione processuale
non spetta alla commissione, essendo l’amministrazione
l’unico soggetto legittimato a contraddire (ex multis
Consiglio di Stato Sez. III 12.04.2012 n. 2082; in senso
analogo Consiglio di Stato, sez. IV, 30.12.2003, n.
9189; TAR Palermo, sez. I 09.11.2005 n. 4992; TAR
Catanzaro, sez. II, 09/12/2003, n. 3442; TAR Lazio, Sez. II
07.11.2001, n. 9049).
11.3. Né appare applicabile all’ipotesi di specie il
precedente di cui alla sentenza del Consiglio di Stato n.
1775/2016, citato da parte resistente, che ha evidenziato la
qualità di controinteressato in capo al Presidente della
Commissione di gara di cui era stata dedotta
l’incompatibilità in ragione del rapporto di parentela con
l’(ex) collaboratrice della società divenuta aggiudicataria,
comportante obbligo di astensione ex art. 51 c.p.c. ex art.
84, comma 7, dlgs. 163, comma 6, e 77, comma 6, dlgs. 50/2016, in
quanto detta decisione è fondata sul rilievo dell’interesse
del Presidente della Commissione non solo alla conservazione
degli atti della procedura oggetto di impugnativa ma anche
alla tutela della propria onorabilità e correttezza (...)
posti in dubbio dal principale ed unico motivo
d’impugnazione, laddove nell’ipotesi di specie in ragione
della dedotta causa di incompatibilità del Presidente –tra
l’altro sopravvenuta- fondata su una ragione
“istituzionale” e non personale, ovvero sulla nomina dello
stesso quale Direttore della UOC Acquisizione Beni e
Servizi, non sussiste(va) detto interesse- comportante
l’obbligo di astensione - autonomo ed indipendente rispetto
all’interesse della stazione appaltante.
12. Nel merito peraltro il ricorso è infondato.
13. Quanto al
primo motivo di ricorso, fondato sulla
violazione del disposto dell’art. 77, comma 4, Dlgs. 50/2016,
vale la pena ricordare quanto già evidenziato in sede
cautelare in ordine alla ratio di siffatto disposto che
definisce le regole in tema di composizione della
Commissione giudicatrice.
Lo stesso ha infatti il duplice scopo di garantire la
libertà di elaborazione delle offerte e l'imparzialità della
valutazione delle stesse, a garanzia tanto dei concorrenti
quanto della Stazione Appaltante, impedendo che i medesimi
soggetti possano influire sul contenuto del servizio da
aggiudicare e sul risultato della procedura di gara (cfr.
Tar Lombardia Brescia, sez. I, 28.08.2017 n. 1073).
Nell’ipotesi di specie la censura relativa alla dedotta
incompatibilità del Presidente della Commissione
giudicatrice non è assistita da elementi di fondatezza,
atteso che la dott.ssa Co. non ha partecipato alla
stesura della lex specialis di gara né è allegato in ricorso
dalla società ricorrente alcun elemento concreto che
consenta di ravvisare (in questa fase) nella nomina del
Presidente della Commissione, in ragione delle funzioni solo
successivamente svolte come Direttore dell’UOC Acquisizione
Beni e Servizi, un pericolo per i due obiettivi perseguiti
dalla norma sopra richiamata (imparzialità della gara;
limitazione della libertà nella formulazione delle offerte),
(cfr in tal senso TAR Puglia–Lecce Sez. II 29.06.2017
n. 1074 secondo cui “E’ infatti evidente la finalità,
perseguita dall’art. 77, comma 4 citato, di evitare che uno
dei componenti della Commissione, proprio per il fatto di
avere svolto in precedenza attività strettamente correlata
al contratto del cui affidamento si tratta, non sia in grado
di esercitare la delicatissima funzione di giudice della
gara in condizione di effettiva imparzialità e di terzietà
rispetto agli operatori economici in competizione tra di
loro…Tale pregiudizio può essere agevolmente rintracciato in
un caso come quello qui in esame, posto che la
predisposizione, da parte del Presidente della Commissione
di gara, addirittura delle c.d. regole del gioco può
influenzare la successiva attività di arbitro della gara.”).
Ed infatti il principio di imparzialità dei componenti del
seggio di gara va declinato nel senso di garantire loro la
cd virgin mind, ossia la totale mancanza di un pregiudizio
nei riguardi dei partecipanti alla gara stessa che
nell’ipotesi di specie non appare messa in discussione, non
avendo la dott.ssa Co., solo successivamente nominata
quale Direttore della UOC Acquisizione Beni e Servizi,
partecipato alla predisposizione della lex specialis.
13.1. Ritiene al riguardo il Collegio di aderire al riguardo
a quella interpretazione del disposto dell’art. 77, comma 4,
fatta proprio dall’ANAC con delibera 436 del 27.04.2017
secondo cui occorre comunque tenere presente, al fine di
evitare forme di automatica incompatibilità a carico del RUP,
quell’approccio interpretativo di minor rigore della norma
fornito nel tempo dalla giurisprudenza amministrativa circa,
ad esempio, la previsione di cui all’art. 84, che non
comporta, di per sé, l’incompatibilità a far parte della
Commissione giudicatrice di tutti i soggetti che, in quanto
dipendenti della stazione appaltante, siano in qualche
misura coinvolti, per obbligo di ufficio, nello specifico
lavoro, servizio o fornitura che è oggetto dell’appalto
(TAR Lazio, Roma, sez. III, 07.02.2011, n. 1172), (cfr.
Cons. Stato, sez. V, sentenza n. 1565/2015; Cons. Stato,
parere n. 1767 del 02.08.2016). <<L’articolo in questione
prevede l’incompatibilità, quale componente della
commissione giudicatrice, soltanto di coloro che hanno
svolto funzione decisorie autonome, nella predisposizione
degli atti di gara e non è sufficiente un mero ausilio
tecnico o esecutivo nella predisposizione del capitolato in
quanto in quest’ultima ipotesi non vi sarebbe alcun pericolo
effettivo di effetti disfunzionali nella valutazione delle
offerte» (cfr. TAR Emilia Romagna–Bologna, sez. II,
sentenza 13.7.2015, n. 675)>>.
Infatti, in base alle coordinate ermeneutiche fornite dalla
consolidata giurisprudenza amministrativa, la previgente
disposizione, dettata a garanzia della trasparenza e
imparzialità amministrative nella gara, impediva la presenza
nella commissione di gara di soggetti che avessero svolto
un’attività idonea a interferire con il giudizio di merito
sull’appalto di che trattasi (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21.07.2011, n. 4438; parere n. 46 del 21.03.2012).
Pertanto in base alla citata delibera ANAC “al fine di
evitare forme di automatica incompatibilità a carico del RUP,
l’eventuale situazione di incompatibilità con riferimento
alla funzione di commissario di gara e presidente della
commissione giudicatrice, deve essere valutata in concreto
verificando la capacità di incidere sul processo formativo
della volontà tesa alla valutazione delle offerte, potendone
condizionare l’esito”.
Quindi laddove, come nell’ipotesi di specie, in ragione
della sopravvenienza della nomina detto giudizio di merito
non appaia inficiato non è predicabile la dedotta
illegittimità della procedura di gara, avuto tra l’altro
riguardo alla circostanza che in ricorso non è dedotto alcun
specifico rilievo circa la tipologia di (pre)giudizio
espresso quale presidente della commissione di gara che
sarebbe stata influenzata dalla nomina di Direttore della
UOC Acquisizione Beni e Servizi.
14. Parimenti destituito di fondamento è il
secondo motivo
di ricorso, relativo alla dedotta inidoneità dei componenti
della Commissione di gara.
Al riguardo occorre applicare quell’orientamento
giurisprudenziale formatosi sotto il vigore del codice
previgente secondo il quale il requisito generale
dell'esperienza “nello specifico settore cui si riferisce
l’oggetto del contratto”, previsto dall’art. 84, comma 2,
d.lgs. n. 163 del 2006 per i componenti della Commissione
giudicatrice di una gara per l’affidamento di un appalto
pubblico, deve essere inteso gradatamente ed in modo
coerente con la poliedricità delle competenze di volta in
volta richieste in relazione alla complessiva prestazione da
affidare, non essendo pertanto necessario che l’esperienza
professionale di ciascun componente copra tutti i possibili
ambiti oggetto di gara, con la conseguenza che la competenza
nello specifico settore al quale si riferisce l’oggetto
dell’appalto e del relativo contratto va valutata
compatibilmente con la struttura degli enti appaltanti,
senza esigere, necessariamente, che l’esperienza
professionale copra tutti gli aspetti oggetto della gara"
(cfr. Tar Lazio, Roma, sez. III, 13.06.2016 n. 6761).
Nell’ipotesi di specie occorre in primo luogo evidenziare
che l’appalto per cui è causa concerne l’affidamento di
servizi di sorveglianza non armata, la valutazione delle cui
caratteristiche non comporta la necessità di complesse
conoscenze tecniche; da ciò la piena idoneità dei membri
della commissione, avuto riguardo alla loro esperienza,
quale evincibile dai rispettivi curriculum vitae.
La dott.ssa Co., presidente della Commissione, ha sempre
svolto funzioni di direzione amministrativa, e come
evincibile anche dai convegni e corsi cui ha preso parte, è
esperta di spending review, nonché di economia e gestione
aziendale ed ha perfezionato la propria formazione anche nel
campo della sicurezza e lavoro negli uffici pubblici.
L’avv. Gi.Ra.Pe., componente della
commissione, è il dirigente della UOC Affari Legali dell’ASL
resistente e, per il passato, ha ricoperto analogo incarico
presso la fondazione G. Pascale I.R.C.C.S. e ha conseguito
un master di secondo livello in politiche e sistemi
socio-sanitari.
Il dott. Ma.Es., componente della commissione, è un
esperto nel settore specifico della “gestione beni e
servizi”, avendo svolto attività continuativa per un
quindicennio presso la U.O.S. Economato dell’istituto G.
Pascale, sostituendo anche il Dirigente in caso di assenza
e/o impedimento; lo stesso vanta inoltre particolari
competenze in materia informatica; ha inoltre curato
l’istruttoria e la gestione di contratti per la manutenzione
di apparecchiature elettro-medicali ad alto contenuto
tecnologico; ha seguito specifici percorsi formativi in
materia di Codice dei contratti pubblici e nel settore della
“gestione ed organizzazione delle aziende sanitarie”; ha
infine partecipato ad un apposito corso in “Criminologia,
investigazione e security” ed ha conseguito un Master di II
livello in Politiche e Sistemi Sociosanitari.
15. In considerazione della infondatezza di tutte le censure
il ricorso va dunque rigettato. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Sul diritto di accesso, o meno, ai verbali dell'Ispettorato
del lavoro.
Secondo il disposto dell’art. 2 del D.M. 04.11.1994, n. 757
sono sottratti all’accesso, in quanto coperti da esigenze di
riservatezza, i «documenti contenenti notizie acquisite nel
corso delle attività ispettive, quando dalla loro
divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o
indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di
terzi» (lett. c) nonché quelli «...riguardanti il lavoratore
e contenenti notizie sulla sua situazione familiare,
sanitaria, professionale, finanziaria, sindacale o di altra
natura, sempreché dalla loro conoscenza possa derivare
effettivo pregiudizio al diritto alla riservatezza».
Tuttavia, la predetta norma non pone un divieto assoluto e
generalizzato di accesso ai verbali ispettivi ed ai
presupposti atti istruttori, ma prevede un limite alla
diretta conoscibilità delle notizie acquisite nel corso
dell'attività ispettiva, “quando dalla loro divulgazione
possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni
o pregiudizi a carico dei lavoratori o di terzi”, con la
conseguenza che la sua applicazione presuppone un “effettivo
pericolo di pregiudizio per i lavoratori o per i terzi,
sulla base di elementi di fatto concreti, e non per
presunzione assoluta”; pericolo che ai sensi dell’art. 3 del
medesimo decreto deve ritenersi insussistente allorché il
rapporto di lavoro dei soggetti che hanno reso le
dichiarazioni riportate nel verbale venga a cessare.
Nelle predette ipotesi, non essendovi esigenze di
riservatezza da tutelare mediante la deroga all’obbligo di
trasparenza, il diritto di accesso si riespande nella sua
pienezza con la conseguenza che l’interesse che giustifica
l’istanza non deve necessariamente basarsi su una specifica
esigenza difensiva (con ciò superandosi la presunta assenza
di tale requisito dedotta dalla avvocatura).
---------------
A De.Cl. s.p.a. è stato notificato tramite raccomandata
dell’11.01.2018 il “Verbale unico di accertamento e
notificazione n. PI00000/2018-049-01 del 10.1.2018”
dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro di Livorno- Pisa,
relativo ad accertamenti eseguiti dallo stesso a partire dal
30.06.2016 circa la regolarità della posizione lavorativa e
contributiva di alcuni ex-collaboratori che hanno svolto in
passato prestazioni lavorative presso le sedi operative
della società.
Poiché nel verbale di accertamento sono state contestate
all’odierna ricorrente alcune presunte violazioni della
normativa in materia di lavoro, con comunicazione inviata
tramiate PEC in data 22.01.2018 essa ha presentato
all’Ispettorato un’istanza di accesso agli atti ai sensi
della L. 241/1990, con specifica richiesta di visionare ed
ottenere copia di tutti i documenti e degli atti di
istruttoria menzionati nel verbale dell’Ispettorato o
comunque posti a base delle determinazioni in esso
contenute.
Essendosi protratto il silenzio della p.a. per oltre 30
giorni sulla istanza si è formato il silenzio-diniego che
viene in questa sede impugnato.
DIRITTO
La difesa dell’amministrazione è tutta impostata sul
disposto dell’art. 2 del D.M. 04.11.1994, n. 757 in base al
quale sono sottratti all’accesso, in quanto coperti da
esigenze di riservatezza, i «documenti contenenti notizie
acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla
loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o
indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di
terzi» (lett. c) nonché quelli «...riguardanti il
lavoratore e contenenti notizie sulla sua situazione
familiare, sanitaria, professionale, finanziaria, sindacale
o di altra natura, sempreché dalla loro conoscenza possa
derivare effettivo pregiudizio al diritto alla riservatezza».
Tuttavia, come questa Sezione ha già avuto modo di
stabilire, in conformità alla giurisprudenza del giudice
d’Appello, la predetta norma non pone un divieto assoluto e
generalizzato di accesso ai verbali ispettivi ed ai
presupposti atti istruttori, ma prevede un limite alla
diretta conoscibilità delle notizie acquisite nel corso
dell'attività ispettiva, “quando dalla loro divulgazione
possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni
o pregiudizi a carico dei lavoratori o di terzi”, con la
conseguenza che la sua applicazione presuppone un “effettivo
pericolo di pregiudizio per i lavoratori o per i terzi,
sulla base di elementi di fatto concreti, e non per
presunzione assoluta”; pericolo che ai sensi dell’art. 3
del medesimo decreto deve ritenersi insussistente allorché
il rapporto di lavoro dei soggetti che hanno reso le
dichiarazioni riportate nel verbale venga a cessare (Cons.
Stato, III, n. 2500/2016; TAR Toscana, Sez. I, n.
1374/2017), così come accade nel caso di specie.
Nelle predette ipotesi, non essendovi esigenze di
riservatezza da tutelare mediante la deroga all’obbligo di
trasparenza, il diritto di accesso si riespande nella sua
pienezza con la conseguenza che l’interesse che giustifica
l’istanza non deve necessariamente basarsi su una specifica
esigenza difensiva (con ciò superandosi la presunta assenza
di tale requisito dedotta dalla avvocatura).
Il ricorso deve pertanto essere accolto pur con la
precisazione che eventuali riferimenti a dati sensibili di
soggetti terzi contenuti nella documentazione da ostendere
potranno essere oscurati ed omessi (TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 30.05.2018 n. 770 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
FAUNA E FLORA - Collisione tra un auto e un
animale selvatico - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - RISARCIMENTO
DANNI - Responsabilità aquiliana per i danni a terzi
(Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione,
ecc.) - Omissione di qualsivoglia cautela atta ad impedire
il vagare incontrollato di animali selvatici - Danni causati
dagli animali randagi Artt. 2043 e 2052 cc. - D.Lgs.
18.08.2000 n. 267.
La responsabilità aquiliana per i danni a terzi debba essere
imputata all'ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco,
Federazione o Associazione, ecc., a cui siano stati
concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di
amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi
insediata, con autonomia decisionale sufficiente a
consentire loro di svolgere l'attività in modo da poter
amministrare i rischi di danni a terzi che da tali attività
derivino.
Tuttavia, la responsabilità per i danni causati dagli
animali randagi deve ritenersi disciplinata dalle regole
generali di cui all'art. 2043 c.c. e non dalle regole di cui
all'art. 2052 c.c.; non è quindi possibile riconoscere una
siffatta responsabilità semplicemente sulla base della
individuazione dell'ente cui le leggi nazionali e regionali
affidano in generale il compito di controllo e gestione del
fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di
provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali
randagi, occorrendo la puntuale allegazione e la prova, il
cui onere spetta all'attore danneggiato in base alle regole
generali, di una concreta condotta colposa ascrivibile
all'ente, e della riconducibilità dell'evento dannoso, in
base ai principi sulla causalità omissiva, al mancato
adempimento di tale condotta obbligatoria (ad esempio perché
vi erano state specifiche segnalazioni della presenza
abituale dell'animale in un determinato luogo, rientrante
nel territorio di competenza dell'ente preposto, e ciò
nonostante quest'ultimo non si era adeguatamente attivato
per la sua cattura (Cass. 18954/2017).
Nella specie, individuata la responsabilità
dell'Amministrazione provinciale, per il risarcimento dei
danni derivanti dalla collisione dell'auto con un cinghiale
che improvvisamente gli attraversava la strada, riportando
dallo scontro danni meccanici e di carrozzeria, la fonte
dell'obbligazione risarcitoria in capo alla stessa è
rinvenibile dalle regole generali di cui all'art. 2043 c.c.
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 29.05.2018 n. 13488 - link a
www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza
costante, anche in caso di omesso preavviso di diniego è
applicabile l'art. 21-octies comma 2 l. n. 241/1990; sicché
qualora violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo, la trasgressione delle
disposizioni sul procedimento o sulla forma dell'atto,
risulta irrilevante, allorché il contenuto dispositivo
dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato.
La
giurisprudenza ha evidenziato in argomento che la violazione
dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 non produce ex se
l'illegittimità del provvedimento finale, dovendosi
interpretare la disposizione sul cosiddetto preavviso di
diniego alla luce del successivo art. 21-octies, della
medesima legge, in base al quale, laddove sia dedotto un
vizio di natura formale, è imposto al giudice di valutare il
contenuto sostanziale del provvedimento e, conseguentemente,
di non annullare l'atto nell'ipotesi in cui la dedotta
violazione formale non abbia inciso sulla legittimità
sostanziale dei provvedimenti impugnati.
---------------
1.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce che la P.A. non
può fondare il provvedimento definitivo su ragioni diverse
rispetto a quelle enunciate nel preavviso di diniego,
frustrando l’esigenza di assicurare la partecipazione
dell’interessato.
Nella specie, con la comunicazione dei motivi ostativi
veniva rappresentato che l’istanza di condono era stata
registrata al protocollo comunale oltre il termine di legge
del 31/03/1995, mentre il diniego si fonda sulla
impossibilità di conseguire la sanatoria, per opere ultimate
“successivamente al termine del 31/03/1995”.
La censura va disattesa.
Pur non trascurandosi, in generale, la tutela delle garanzie
partecipative a cui è preordinato l’art. 10-bis della legge
n. 241 del 1990 nei procedimenti ad istanza di parte (come
rimarcato in giurisprudenza, anche di recente: cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 01/03/2018 n. 1269 e sez. IV, 18/04/2018 n.
2330), deve escludersi che nel caso di specie il vizio
denunciato assuma carattere invalidante.
Invero, deve farsi applicazione della regola dettata
dall’art. 21-octies della stessa legge, il cui comma 2
dispone che: “Non è annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli
atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia
palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato”.
Detta regola ha trovato costante applicazione nella
giurisprudenza, anche di questo Tribunale, evidenziando che,
sia pure laddove il preavviso manchi del tutto, non può
essere pronunciata l’illegittimità del provvedimento che non
avrebbe potuto avere diverso contenuto dispositivo, per cui
la partecipazione dell’interessato si sarebbe comunque
mostrata irrilevante (cfr., tra le altre, la sentenza della
Sez. VII del 28/12/2017 n. 6112: “per giurisprudenza
costante, anche in caso di omesso preavviso di diniego è
applicabile l'art. 21-octies comma 2 l. n. 241/1990; sicché
qualora violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo, la trasgressione delle
disposizioni sul procedimento o sulla forma dell'atto,
risulta irrilevante, allorché il contenuto dispositivo
dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato (Cons. Stato, Sez. III, 04-09-2017, n.
4184; Cons. Stato Sez. III, 03.11.2017, n. 5086)”; cfr.,
altresì, la sentenza della Sez. VI del 06/06/2017 n. 2999: “la
giurisprudenza ha evidenziato in argomento che la violazione
dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 non produce ex se
l'illegittimità del provvedimento finale, dovendosi
interpretare la disposizione sul cosiddetto preavviso di
diniego alla luce del successivo art. 21-octies, della
medesima legge, in base al quale, laddove sia dedotto un
vizio di natura formale, è imposto al giudice di valutare il
contenuto sostanziale del provvedimento e, conseguentemente,
di non annullare l'atto nell'ipotesi in cui la dedotta
violazione formale non abbia inciso sulla legittimità
sostanziale dei provvedimenti impugnati”) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 29.05.2018 n. 3542 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il termine di presentazione della domanda
di condono edilizio ha carattere perentorio,
trattandosi di un istituto a carattere eccezionale (a
differenza della sanatoria ex art. 36 T.U. edilizia, che
prevede termini la cui perentorietà è controversa in
giurisprudenza): dato, questo, che trova conferma nel tenore
letterale della disposizione dell'art. 39, comma 4, della L.
n. 724/1994 (come modificato dall'art. 14, d.l. 23.02.1995, n. 41, conv. in l. 22.03.1995, n. 85), il quale
contiene l'inciso "a pena di decadenza".
La medesima
disposizione prevede che entro il termine di decadenza
debbano essere effettuate sia la presentazione della domanda
di concessione o di autorizzazione in sanatoria sia la
presentazione della prova del pagamento dell'oblazione, con
ciò escludendo che quest'ultimo adempimento possa surrogare
il primo.
Ciò è comprensibile alla luce del fatto che
l'istanza di parte, completa dei requisiti previsti, ha il
carattere di esplicita, formale e inequivoca manifestazione
di volontà idonea ad attivare il procedimento in questione
su basi di ragionevole certezza giuridica. In assenza di una
formale e tempestiva attivazione del procedimento nel
termine di decadenza, sono quindi irrilevanti le altre
possibili considerazioni in ordine alla sussistenza degli
altri presupposti di legge.
---------------
Per quanto si dirà, si palesa legittima la motivazione di
diniego fondata sull’epoca di realizzazione delle opere
(contenuta nel provvedimento finale), determinando per tale
ragione la sostanziale irrilevanza dell’omissione della fase
partecipativa.
Peraltro, per completezza di analisi e sebbene tale
motivazione non confluisca nel provvedimento finale, non può
sottacersi che è incontestato che la domanda di condono era
stata presentata oltre il termine del 31/03/1995, fissato
dall’art. 39, comma 4, della legge n. 724 del 1994 a pena di
decadenza.
Da ciò sarebbe derivato in ogni caso il rigetto
dell’istanza, in base a quanto indicato nel preavviso di
diniego, non potendo trovare favorevole ingresso la pretesa
del ricorrente (cfr. pag. 8 del ricorso), secondo cui
sarebbe equivalente il versamento degli oneri nel termine,
desumendosi per facta concludentia la volontà di condonare
l’opera (cfr., in identica fattispecie, TAR Lazio, sez. II,
06/06/2011 n. 5030: “Il termine di presentazione della domanda
di condono edilizio ha infatti carattere perentorio (TAR
Calabria-Catanzaro, sez. II, 04.12.2008, n. 1558),
trattandosi di un istituto a carattere eccezionale (a
differenza della sanatoria ex art. 36 T.U. edilizia, che
prevede termini la cui perentorietà è controversa in
giurisprudenza): dato, questo, che trova conferma nel tenore
letterale della disposizione dell'art. 39, comma 4, della L.
n. 724/1994 (come modificato dall'art. 14, d.l. 23.02.1995, n. 41, conv. in l. 22.03.1995, n. 85), il quale
contiene l'inciso "a pena di decadenza". La medesima
disposizione prevede che entro il termine di decadenza
debbano essere effettuate sia la presentazione della domanda
di concessione o di autorizzazione in sanatoria sia la
presentazione della prova del pagamento dell'oblazione, con
ciò escludendo che quest'ultimo adempimento possa surrogare
il primo. Ciò è comprensibile alla luce del fatto che
l'istanza di parte, completa dei requisiti previsti, ha il
carattere di esplicita, formale e inequivoca manifestazione
di volontà idonea ad attivare il procedimento in questione
su basi di ragionevole certezza giuridica. In assenza di una
formale e tempestiva attivazione del procedimento nel
termine di decadenza, sono quindi irrilevanti le altre
possibili considerazioni in ordine alla sussistenza degli
altri presupposti di legge”) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 29.05.2018 n. 3542 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Incombe sulla parte che adduce un rilievo a sé favorevole
l’onere di fornire adeguata dimostrazione del proprio
assunto, avendo la condivisibile giurisprudenza chiarito che
le prove sulla data di realizzazione delle opere debbono
risultare “obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e
documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi
probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di
realizzazione del manufatto”.
In mancanza, non può darsi credito all’affermazione che si
palesa in contrasto con l’accertamento condotto dai pubblici
ufficiali, attestante lo stato dei luoghi e le innovazioni
arrecate rispetto alla situazione preesistente laddove: "il verbale redatto e
sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del Comune a seguito
di sopralluogo, attestante l'esistenza di manufatti abusivi,
costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di
falso, ai sensi dell’art. 2700 c.c., delle circostanze di
fatto in esse accertate sia relativamente allo stato di
fatto e sia rispetto allo status quo ante”.
---------------
Il ricorso è infondato.
1.1. In primo luogo, nessuna valida prova è fornita dalla
parte sulla preesistenza del fabbricato e della
pavimentazione, genericamente addotta riferendosi
all’allegato titolo di proprietà (il quale descrive una
consistenza immobiliare composta da cantinato, tre unità
immobiliari al piano terra e due appartamenti
rispettivamente al primo e secondo piano).
Incombe sulla parte che adduce un rilievo a sé favorevole
l’onere di fornire adeguata dimostrazione del proprio
assunto, avendo la condivisibile giurisprudenza chiarito che
le prove sulla data di realizzazione delle opere debbono
risultare “obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e
documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi
probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di
realizzazione del manufatto” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
02/10/2013 n. 814).
In mancanza, non può darsi credito all’affermazione che si
palesa in contrasto con l’accertamento condotto dai pubblici
ufficiali, attestante lo stato dei luoghi e le innovazioni
arrecate rispetto alla situazione preesistente (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 14/12/2016 n. 5262: “il verbale redatto e
sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del Comune a seguito
di sopralluogo, attestante l'esistenza di manufatti abusivi,
costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di
falso, ai sensi dell’art. 2700 c.c., delle circostanze di
fatto in esse accertate sia relativamente allo stato di
fatto e sia rispetto allo status quo ante”).
Nel caso di specie, risulta che il piano rialzato e il primo
piano erano al momento dell’accertamento “ancora in corso di
costruzione”, smentendo così l’affermazione della ricorrente
secondo cui si sarebbe trattato della manutenzione
straordinaria dei manufatti preesistenti.
Si palesa pertanto l’avvenuta realizzazione di un nuovo
fabbricato, le cui parti neppure corrispondono alla
descrizione del titolo di proprietà (che non comprende alcun
piano rialzato).
Si tratta quindi di una nuova costruzione, per la cui
realizzazione è richiesto il permesso di costruire dall’art.
10 del D.P.R. n. 380 del 2001, sanzionabile in mancanza con
la demolizione di cui al successivo art. 31 (TAR Campania-Napoli,
Sez. III,
sentenza 29.05.2018 n. 3532 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non è prospettabile una valutazione atomistica
degli interventi edilizi, allorché gli stessi facciano parte
di un disegno sostanzialmente unitario di realizzazione di
una determinata complessiva opera, risultante priva di
titolo.
Invero, è stato affermato: “Ne
consegue che non è ammissibile una loro considerazione
astratta ed atomistica, ma deve necessariamente predicarsene
una valutazione unitaria sintetica e complessiva, in quanto
divenute parti di un più ampio quadro di illecito
sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo
regime giuridico di illegittimità”.
---------------
1.2. Per quanto riguarda le restanti opere, preme al
Collegio innanzitutto precisare che, come a più riprese
affermato nella giurisprudenza di questa Sezione, non è
prospettabile una valutazione atomistica degli interventi
edilizi, allorché gli stessi facciano parte di un disegno
sostanzialmente unitario di realizzazione di una determinata
complessiva opera, risultante priva di titolo (cfr. di
recente, per tutte, la sentenza dell’11/01/2018 n. 194: “Ne
consegue che non è ammissibile una loro considerazione
astratta ed atomistica, ma deve necessariamente predicarsene
una valutazione unitaria sintetica e complessiva, in quanto
divenute parti di un più ampio quadro di illecito
sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo
regime giuridico di illegittimità”) (TAR Campania-Napoli,
Sez. III,
sentenza 29.05.2018 n. 3532 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una piscina (nella specie, per la
superficie nient’affatto modesta di mq. 70) costituisce un
intervento di nuova costruzione su suolo inedificato,
comportando la trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio ed occorrendo pertanto il permesso di costruire,
come già sancito da questa Sezione.
---------------
Analoga considerazione vale per il gazebo, di cui non
può predicarsi la natura meramente accessoria, ove si abbia
riguardo al suo stabile insediamento nel territorio, alle
modalità costruttive (struttura in legno lamellare) e alle
non trascurabili dimensioni (mq. 16).
---------------
La nozione di pertinenza postula un
oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa
accessoria e quella principale (sicché la prima non è
suscettibile di autonoma e separata utilizzazione),
sempreché l’opera secondaria non comporti alcun maggiore
carico urbanistico ed un apprezzabile aumento di volumetria,
incidente anche sulla protezione dei luoghi accordata dalla
tutela paesaggistica.
---------------
È da escludere che il muro di recinzione in questione
(di 60 ml. e 1,20 mt. di altezza, rivestito in pietra
vesuviana e con pannellatura metallica sovrastante) potesse
essere realizzato senza permesso di costruire, bastando
riportarsi all’uniforme e condivisa giurisprudenza con la
quale, anche di recente, è stato ribadito che: "la
valutazione in ordine alla necessità del titolo abilitativo
edilizio per la realizzazione di opere di recinzione va
effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e
dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione.
Di
conseguenza, si ritengono esenti dal regime del permesso di
costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera
edilizia permanente, bensì manufatti di precaria
installazione e di immediata asportazione (quali, ad
esempio, recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti
in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto
entro tali limiti la posa in essere di una recinzione
rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che
comprende lo ius excludendi alios o, comunque, la
delimitazione delle singole proprietà.
Viceversa, è
necessario il titolo abilitativo quando la recinzione
costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo
durevole e non precario sull'assetto edilizio del
territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di
sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da
opera muraria".
---------------
Posta questa premessa, va in ogni caso osservato che le
censure sono destituite di fondamento.
1.2.1. La realizzazione di una piscina (nella specie, per la
superficie nient’affatto modesta di mq. 70) costituisce un
intervento di nuova costruzione su suolo inedificato,
comportando la trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio ed occorrendo pertanto il permesso di costruire,
come già sancito da questa Sezione (cfr. le sentenze del
14/02/2017 n. 920 e dell’08/06/2016 n. 2916).
1.2.2. Analoga considerazione vale per il gazebo, di cui non
può predicarsi la natura meramente accessoria, ove si abbia
riguardo al suo stabile insediamento nel territorio, alle
modalità costruttive (struttura in legno lamellare) e alle
non trascurabili dimensioni (mq. 16).
Per altro verso, la nozione di pertinenza postula un
oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa
accessoria e quella principale (sicché la prima non è
suscettibile di autonoma e separata utilizzazione),
sempreché l’opera secondaria non comporti alcun maggiore
carico urbanistico ed un apprezzabile aumento di volumetria,
incidente anche sulla protezione dei luoghi accordata dalla
tutela paesaggistica.
1.2.3. È da escludere che il muro di recinzione in questione
(di 60 ml. e 1,20 mt. di altezza, rivestito in pietra
vesuviana e con pannellatura metallica sovrastante) potesse
essere realizzato senza permesso di costruire, bastando
riportarsi all’uniforme e condivisa giurisprudenza con la
quale, anche di recente, è stato ribadito che: "la
valutazione in ordine alla necessità del titolo abilitativo
edilizio per la realizzazione di opere di recinzione va
effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e
dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione. Di
conseguenza, si ritengono esenti dal regime del permesso di
costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera
edilizia permanente, bensì manufatti di precaria
installazione e di immediata asportazione (quali, ad
esempio, recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti
in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto
entro tali limiti la posa in essere di una recinzione
rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che
comprende lo ius excludendi alios o, comunque, la
delimitazione delle singole proprietà. Viceversa, è
necessario il titolo abilitativo quando la recinzione
costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo
durevole e non precario sull'assetto edilizio del
territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di
sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da
opera muraria" (TAR Lazio, sez. II-quater, 04/09/2017 n. 9529,
con ulteriori richiami).
1.2. In conclusione, è ravvisabile nella specie l’avvenuta
realizzazione di un complesso di interventi (di cui si
impone la valutazione unitaria, come detto) che hanno
comportato aumenti volumetrici, realizzazione di nuove opere
e la complessiva trasformazione dello stato dei luoghi,
necessitanti in ragione di ciò del permesso di costruire e
che, anche isolatamente considerati, sono sanzionabili in
mancanza con la demolizione.
2. - Il ricorso va dunque respinto (TAR Campania-Napoli,
Sez. III,
sentenza 29.05.2018 n. 3532 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La trasformazione
permanente del suolo inedificato per adibire l’area ad una
diversa destinazione d’uso e, più in generale, ogni
intervento che determini una perdurante modifica dello stato
dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di
opera in muratura, richiedono il previo rilascio del titolo
edilizio.
Nella specie, ciò è avvenuto mediante la pavimentazione di
un’area agricola al fine di mutarne la destinazione d’uso in
deposito di autovetture (nello specifico, soggette a
sequestro giudiziario).
Il parcheggio così realizzato, oltre a modificare in maniera
significativa lo stato dei luoghi ed incidere sul carico
urbanistico in termini di dotazioni infrastrutturali, è,
indubitabilmente, suscettibile di autonoma utilizzazione,
nonché munito di un proprio valore, e, perciò, non può
essere qualificato come una mera pertinenza edilizia dei due
richiamati corpi di fabbrica, diversamente da quanto opinato
dalla ricorrente, alla stregua dei pacifici criteri
elaborati in materia dalla giurisprudenza.
---------------
Il ricorso è infondato.
Per consolidato indirizzo interpretativo, la trasformazione
permanente del suolo inedificato per adibire l’area ad una
diversa destinazione d’uso e, più in generale, ogni
intervento che determini una perdurante modifica dello stato
dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di
opera in muratura, richiedono il previo rilascio del titolo
edilizio (C.d.S., sez. V, 27.04.2012, n. 2450, con ultt.
citt.; C.d.S., sez. V, 21.10.2003, n. 6519).
Nella specie, ciò è avvenuto mediante la pavimentazione di
un’area agricola al fine di mutarne la destinazione d’uso in
deposito di autovetture (nello specifico, soggette a
sequestro giudiziario).
Il parcheggio così realizzato, oltre a modificare in maniera
significativa lo stato dei luoghi ed incidere sul carico
urbanistico in termini di dotazioni infrastrutturali, è,
indubitabilmente, suscettibile di autonoma utilizzazione,
nonché munito di un proprio valore, e, perciò, non può
essere qualificato come una mera pertinenza edilizia dei due
richiamati corpi di fabbrica, diversamente da quanto opinato
dalla ricorrente, alla stregua dei pacifici criteri
elaborati in materia dalla giurisprudenza (ex ceteris, cfr.
C.d.S., sez. V, 14.10.2013, n. 4997).
Il provvedimento impugnato indica chiaramente, a proprio
fondamento, la necessità di tener conto di quelle superfici
nel calcolo della oblazione e degli oneri concessori e
specifica le modalità con cui si è pervenuti alla
quantificazione del dovuto.
Che la questione fosse quella del computo anche dell’area
asfaltata e pavimentata, d’altronde, era ben chiaro alla
ricorrente anche in sede di contraddittorio procedimentale.
Vanno, perciò, complessivamente disattesi i primi due motivi
di ricorso (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 29.05.2018 n. 3524 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il dovere di corrispondere
le somme dovute per oneri concessori si prescrive nel
termine decennale e decorre dalla data del rilascio del
titolo edilizio o della eventuale formazione del
silenzio-assenso.
---------------
Va respinto, infine, anche il terzo motivo di censura,
anch’esso inidoneo a dimostrare l’illegittimità del diniego
e a provocarne, quindi, l’annullamento giurisdizionale.
Al riguardo, va rilevato che è soltanto con la nota
acquisita al protocollo comunale il 28.05.2008, al n.
12044, che la ricorrente ha integrato la pratica di condono
producendo buona parte della documentazione necessaria alla
valutazione dell’istanza (perizia giurata, elaborati
grafici, relazione fotografica ed altro).
A fronte di ciò, con il preavviso di rigetto del 26.03.2013, prot. 2026, le è stata espressamente contestata la
necessità di integrare le somme versate col pagamento di €
671.472,78 a titolo di oblazione e di € 1.052.991,40 a
titolo di oneri concessori, ricevendo, in risposta, l’atto
di diffida del 30.04.2013 (doc. 4 di parte ricorrente)
che sostanzia la dichiarazione scritta di non voler
adempiere di cui all’art. 1219 c.c.
Sostiene la ricorrente, col motivo in esame, che decorsi i
36 mesi previsti dall’art. 35, comma 18, della legge n.
47/1985 per l’esercizio del diritto al conguaglio, la pretesa
dell'amministrazione al pagamento dell'importo per
l'oblazione calcolato e richiesto per la prima volta con il
provvedimento prot. 2026 del 26.03.2013 sarebbe
prescritta.
Il provvedimento di diniego, tuttavia, è retto anche dal
rifiuto della ricorrente di corrispondere, oltre a quelle
somme, quelle ulteriori dovute per oneri concessori, il cui
termine di prescrizione è decennale e decorre dalla data del
rilascio del titolo edilizio o della eventuale formazione
del silenzio-assenso (C.d.S., sez. V, 30.04.2014 n.
2264; TAR Campania, Napoli, sez. II, 21.02.2013, n.
969), cosicché non si vede come, secondo la tesi della
ricorrente, la prescrizione del diritto dell’amministrazione
a chiedere il conguaglio dell’oblazione debba comportare
l’illegittimità ed il conseguente annullamento
dell’impugnato provvedimento di diniego.
Per queste ragioni, in conclusione, il ricorso deve essere
respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 29.05.2018 n. 3524 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione dell’istanza di accertamento di
conformità, ai sensi dell’articolo 36 del D.P.R. n.
380/2001, successivamente all’emanazione dell’ordinanza di
demolizione, produce l’effetto di rendere inefficace il
pregresso provvedimento di demolizione, in quanto il
necessario riesame dell’abusività o meno dell’opera in
seguito alla menzionata richiesta ex articolo 36 del D.P.R.
n. 380/2001 obbliga l’Amministrazione ad una nuova
valutazione della situazione di abusività che, logicamente,
impatta sulla precedente ordinanza di demolizione (emanata,
appunto, sul presupposto dell’illegittimità dell’opera),
rendendola inefficace.
Pertanto, anche nel caso in cui l’accertamento ex articolo
36 D.P.R. 380/2001 si concludesse negativamente, la P.A.
sarà comunque tenuta ad emanare una nuova ordinanza di
demolizione, con l’assegnazione di un nuovo termine per
adempiere; da ciò consegue che l’interesse a ricorrere del
privato proprietario viene traslato, innanzitutto, sugli
eventuali provvedimenti di rigetto della domanda di
sanatoria e, successivamente, sulla nuova ordinanza di
demolizione adottata dall’amministrazione in conseguenza al
rigetto dell’istanza ex articolo 36 D.P.R. n. 380/2001.
---------------
Mentre la presentazione dell’istanza di accertamento di
conformità ai sensi del più volte menzionato art. 36 del
D.P.R. n. 380/2001 successivamente alla proposizione del
ricorso avverso l’ordine di demolizione produce l’effetto di
rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di
interesse, la presentazione della predetta domanda di
accertamento di conformità dopo l’adozione dell’ordinanza di
demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla
proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile,
non essendovi alcun interesse a ricorrere, posto che, stante
quanto detto sopra, l’atto impugnato è divenuto inefficace a
seguito della presentazione dell’istanza di sanatoria e,
pertanto, non è idoneo a ledere l’interesse della parte
ricorrente.
---------------
Osserva il Collegio che il ricorso introduttivo del presente
giudizio va dichiarato inammissibile per difetto di
interesse.
Difatti, come evidenziato da parte ricorrente nel quinto
motivo di impugnazione, i ricorrenti, dopo aver ricevuto
la notifica, in data 22.02.2011, dell’ordinanza di
demolizione impugnata, ritenendo le opere da essi costruite
legittime, hanno presentato al Comune di Porto Cesareo, in
data 14.03.2011, apposita istanza ex art. 36 D.P.R.
06.06.2001 n. 380 di accertamento di conformità per le
predette opere, già oggetto dell’ordinanza di demolizione
impugnata.
Orbene, secondo il consolidato orientamento di questa
Sezione, la presentazione dell’istanza di accertamento di
conformità, ai sensi dell’articolo 36 del D.P.R. n.
380/2001, successivamente all’emanazione dell’ordinanza di
demolizione, produce l’effetto di rendere inefficace il
pregresso provvedimento di demolizione, in quanto il
necessario riesame dell’abusività o meno dell’opera in
seguito alla menzionata richiesta ex articolo 36 del D.P.R.
n. 380/2001 obbliga l’Amministrazione ad una nuova
valutazione della situazione di abusività che, logicamente,
impatta sulla precedente ordinanza di demolizione (emanata,
appunto, sul presupposto dell’illegittimità dell’opera),
rendendola inefficace.
Pertanto, anche nel caso in cui l’accertamento ex articolo
36 D.P.R. 380/2001 si concludesse negativamente, la P.A.
sarà comunque tenuta ad emanare una nuova ordinanza di
demolizione, con l’assegnazione di un nuovo termine per
adempiere; da ciò consegue che l’interesse a ricorrere del
privato proprietario viene traslato, innanzitutto, sugli
eventuali provvedimenti di rigetto della domanda di
sanatoria e, successivamente, sulla nuova ordinanza di
demolizione adottata dall’amministrazione in conseguenza al
rigetto dell’istanza ex articolo 36 D.P.R. n. 380/2001 (ex
multis, TAR Puglia-Lecce, n. 1454/2013, n. 1956/2017, n.
1388/2017, n. 69/2018, n. 706/2018).
In considerazione di quanto sopra, la Sezione ritiene
altresì che, mentre la presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità ai sensi del più volte menzionato
art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente alla
proposizione del ricorso avverso l’ordine di demolizione
produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione
stessa per carenza di interesse (come nei precedenti di
questa Sezione sopra citati), la presentazione della
predetta domanda di accertamento di conformità dopo
l’adozione dell’ordinanza di demolizione delle opere
abusive, ma antecedentemente alla proposizione del ricorso,
rende quest’ultimo inammissibile, non essendovi alcun
interesse a ricorrere, posto che, stante quanto detto sopra,
l’atto impugnato è divenuto inefficace a seguito della
presentazione dell’istanza di sanatoria e, pertanto, non è
idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente (ex
multis, TAR Puglia-Lecce, n. 1938/2013, n. 534/2017, n.
572/2018, n. 628/2018).
Pertanto, nel caso di specie, il ricorso va dichiarato
inammissibile, attesa l’insussistenza, già al momento della
notifica dello stesso, avvenuta in data 20.04.2011,
dell’interesse a ricorrere, posto che l’impugnato atto,
emanato in data 10.02.2011, era divenuto inefficace a
seguito della presentazione, avvenuta in data 14.03.2011,
dell’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R.
n. 380/2001, e, dunque, non era già più idoneo a ledere
l’interesse dei ricorrenti al momento della presentazione
del ricorso (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 29.05.2018 n. 918 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’attività di ricostruzione di ruderi è stata
concordemente considerata, a tutti gli effetti,
realizzazione di una nuova costruzione, avendo questi
perduto i caratteri dell’entità urbanistico-edilizia
originaria sia in termini strutturali che funzionali e non
potendo i ruderi medesimi essere considerati come edifici
allo stato esistenti.
---------------
2.1.1 - Ed invero, la Relazione tecnico-sanitaria del marzo
2010 espressamente (nonché genericamente) afferma che <<il
fabbricato “B” è stato recuperato su un vecchio rudere
esistente “Pagliaro o trullo” …., utilizzati per il ricovero
di campagna>>.
Orbene: per un verso, dall’esame della documentazione in
atti, risulta evidente che il manufatto de quo,
composto da due unità abitative,è stato realizzato anche
ex novo; e, per altro verso, trattasi, in ogni caso, di
nuova costruzione.
Ed invero, “L’attività di ricostruzione di ruderi è stata
… concordemente considerata, a tutti gli effetti,
realizzazione di una nuova costruzione (cfr. Cass. pen.
20.02.2001, n. 13982; Cons. Stato, V, 01.12.1999, n. 2021),
avendo questi perduto i caratteri dell’entità
urbanistico-edilizia originaria sia in termini strutturali
che funzionali” (ex multis, Consiglio di Stato,
Sezione Sesta, 05.12.2016, n. 5106) e non potendo i ruderi
medesimi essere considerati come edifici allo stato
esistenti (TAR Toscana, Firenze, Sezione Prima, 16.05.2017,
n. 692; TAR Campania, Salerno, Sezione Prima, 16.02.2012, n.
240)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 29.05.2018 n. 917 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla luce
del vigente ordinamento giuridico, non è ammissibile il
rilascio di un permesso di costruire in sanatoria
subordinato alla esecuzione di ulteriori opere edilizie,
anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il
manufatto nell’alveo della legalità: tanto “contrasterebbe
ontologicamente con gli elementi essenziali
dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la
già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale
conformità alla disciplina urbanistica.
E’ evidente, infatti, che <<un permesso di costruire in
sanatoria soggetto a prescrizioni è in palese contrasto con
l’art. 36 del D.P.R. 380/2001, poiché postulerebbe non già
la doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla
disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post,
condizionata all’esecuzione delle prescrizioni, quindi non
esistente al tempo della presentazione della domanda di
sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed
incerta in cui il richiedente avrò ottemperato alle
prescrizioni.
La cosiddetta sanatoria ordinaria, peraltro, è finalizzata
alla regolarizzazione degli abusi meramente formali –vale a
dire degli interventi che, pur effettuati senza il
preventivo rilascio del titolo abilitativo edilizio,
risultano ammissibili sotto l’aspetto urbanistico– e non può
riguardare, in conseguenza, gli interventi abusivi che
necessitino di ulteriori lavori di regolarizzazione, salvo
che si tratti…..di semplice completamento dei lavori già
intrapresi”.
---------------
2.1.3 - Con
riferimento alla dedotta omessa considerazione, da parte
della P.A., delle “precisazioni” relative alla
esecuzione di ulteriori interventi (sostanzialmente)
finalizzati al conseguimento della conformità
edilizio-urbanistica dell’immobile in parola (ripristino del
corretto rapporto di aerazione e di luminosità, nonché dei
rapporti tra la quota di pavimento interno e il piano di
campagna esterno, onde sanare le relative difformità pure
poste a fondamento del gravato diniego), rileva la Sezione
che, <<alla luce del vigente ordinamento giuridico, non è
ammissibile il rilascio di un permesso di costruire in
sanatoria subordinato alla esecuzione di ulteriori opere
edilizie, anche se tali interventi sono finalizzati a
ricondurre il manufatto nell’alveo della legalità: tanto
“contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali
dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la
già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale
conformità alla disciplina urbanistica” (Consiglio di Stato,
IV, 08.09.2015, n. 4176)>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione
Terza, 30.01.2018, n. 126).
E’ evidente, infatti, che <<un permesso di costruire in
sanatoria soggetto a prescrizioni è in palese contrasto con
l’art. 36 del D.P.R. 380/2001, poiché postulerebbe non già
la doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla
disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post,
condizionata all’esecuzione delle prescrizioni, quindi non
esistente al tempo della presentazione della domanda di
sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed
incerta in cui il richiedente avrò ottemperato alle
prescrizioni (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza del
28/05/2014 n 1017). La cosiddetta sanatoria ordinaria,
peraltro, è finalizzata alla regolarizzazione degli abusi
meramente formali –vale a dire degli interventi che, pur
effettuati senza il preventivo rilascio del titolo
abilitativo edilizio, risultano ammissibili sotto l’aspetto
urbanistico– e non può riguardare, in conseguenza, gli
interventi abusivi che necessitino di ulteriori lavori di
regolarizzazione, salvo che si tratti…..di semplice
completamento dei lavori già intrapresi” (TAR Liguria, Sez.
I, sentenza n. 1003 del 16/12/2015>> (TAR Piemonte,
Sezione Prima, 04.11.2016, n. 1372)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 29.05.2018 n. 917 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Vendita edilizia
residenziale convenzionata - Cessione di immobili realizzati
nell'ambito dell'edilizia economica e popolare - P.E.E.P. -
Clausola sul prezzo convenuta dalle parti esorbitante i
limiti di legge - Nullità parziale - Contratto
eterointegrato (ex art. 1339 c.c.) con il prezzo imposto
dalla legge - Art. 35 L. n. 865/1971.
Il vincolo
attinente al prezzo massimo di cessione di immobili,
realizzati nell'ambito dell'edilizia economica e popolare ai
sensi dell'art. 35 della citata legge n. 865/1971, non è
affatto limitato alla sola vendita intervenuta tra il
costruttore e il primo acquirente, ma segue il bene, a
titolo di onere (rectius: vincolo) reale, in tutti i
successivi passaggi di proprietà, persistendo fino a quando
non sia stato rimosso mediante la stipula di un'apposita
convenzione con il Comune.
Tale soluzione, oltre che rispondente al dato normativo, si
pone in sintonia anche con la stessa ratio della
legge. Il permanere del vincolo di prezzo, infatti, evita
che le agevolazioni concesse si trasformino in uno strumento
di speculazione non solo in relazione alla prima vendita, ma
anche con riguardo a quelle successive, consentendo di far
raggiungere all'immobile lo scopo pubblico a cui esso è
preordinato dalla legge in occasione di tutti i successivi
passaggi di proprietà.
Pertanto, la clausola sul prezzo convenuta dalle parti,
esorbitante i limiti di legge, costituisce una pattuizione
nulla; tuttavia, trattandosi di una nullità parziale, il
contratto deve essere eterointegrato (ex art. 1339 c.c.) con
il prezzo imposto dalla legge.
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA -
Cessione degli alloggi di edilizia residenziale
convenzionata - Clausola negoziale contenente un prezzo
difforme da quello vincolato - Fattispecie.
Il vincolo del prezzo massimo di cessione degli alloggi
costruiti, ex art. 35 della legge n. 865 del 1971, sulla
base di convenzioni per la cessione di aree in diritto di
superficie, ovvero per la cessione del diritto di proprietà
se stipulate, quest'ultime, precedentemente all'entrata in
vigore della l. n. 179 del 1992, qualora non sia intervenuta
la convenzione di rimozione, ex art. 31, comma 49-bis, della
l. n. 448 del 1998, segue il bene, a titolo di onere reale,
in tutti i successivi passaggi di proprietà, attesa la "ratio
legis" di garantire la casa ai meno abbienti ed impedire
operazioni speculative di rivendita; in tal caso, pertanto,
la clausola negoziale contenente un prezzo difforme da
quello vincolato è affetta da nullità parziale e sostituita
di diritto, ex artt. 1419, comma 2, e 1339 c.c., con altra
contemplante il prezzo massimo determinato in forza della
originaria convenzione di cessione.
Nella fattispecie oggetto del giudizio è incontestato che
non sia intervenuta un'apposita convenzione di rimozione del
vincolo del prezzo quantificato in base a quella originaria
ai sensi del richiamato art. 31, comma 49-bis, della legge
n.448/1998, come deve ritenersi pacifico che detta nullità
parziale -operante per violazione di una norma imperativa-
sia rilevabile d'ufficio e, ovviamente, anche su eccezione
del cessionario dell'alloggio, con tutte le conseguenze che
ne derivano ai fini del riconoscimento del diritto degli
acquirenti ad ottenere la restituzione del maggior prezzo
versato rispetto a quello massimo di cessione scaturito
dall'applicazione dei criteri stabiliti dalla presupposta
convenzione (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 28.05.2018 n. 13345 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il giudice d'appello della giustizia
amministrativa ha evidenziato in rapporto alla cd. "pergotenda":
1) che essa è una struttura destinata a rendere meglio
vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o
giardini) e installabile al fine, quindi, di soddisfare
esigenze non precarie non connotandosi, pertanto, per la
temporaneità della loro utilizzazione, ma costituiscono un
elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile
e duraturo;
2) che, sotto il profilo normativo la realizzazione di tale
costruzione, tenuto conto della sua consistenza, delle
caratteristiche costruttive e della suindicata funzione che
la caratterizza, essa non costituisce un'opera edilizia
soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo atteso
che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10
del DPR n. 380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso
di costruire gli "interventi di nuova costruzione", che
determinano una "trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio", mentre una struttura leggera, secondo la
configurazione standard che caratterizza tali manufatti
nella loro generalità, destinata ad ospitare tende
retrattili in materiale plastico non integra tali
caratteristiche;
3) che per aversi una costruzione definibile come tale (c.d.
pergotenda), occorre che l'opera principale sia costituita
non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di
protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata
ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità
abitativa, con la conseguenza che la struttura (per aversi
realmente una pergotenda e non una costruzione edilizia
necessitante di titolo abilitativo) deve qualificarsi in
termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno
e all'estensione della tenda;
4) che la tenda poi, che costituisce la caratteristica
fondamentale per effetto della quale un manufatto può
definirsi "pergotenda" e non considerarsi una "nuova
costruzione", deve essere in materiale plastico e
retrattile, onde non presentare caratteristiche tali da
costituire un organismo edilizio rilevante, comportante
trasformazione del territorio. Infatti la copertura e la
chiusura perimetrale che essa realizza non debbono
presentare elementi di fissità, stabilità e permanenza,
proprio per il carattere retrattile della tenda, "onde, in
ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente
configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie";
5) che, inoltre l'elemento di copertura e di chiusura deve
essere costituito da una tenda in materiale plastico, privo
di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che
possano connotarlo in termini di componenti edilizie di
copertura o di tamponatura di una costruzione.
---------------
Tali argomentazioni non possono, però, essere
condivise.
In particolare è bene rammentare che, in punto di
interpretazione giurisprudenziale cui si ritiene di aderire
pienamente, il Consiglio di Stato in numerosi arresti (cfr.,
da ultimo, la sentenza della Sesta sezione 25.01.2017
n. 306, in linea con i precedenti della medesima sezione 27.04.2016 n. 1619 e 11.04.2014 n. 1777) ha
puntualmente perimetrato l'ambito di riconoscibilità della
c.d. attività edilizia libera, soprattutto con riferimento
alle c.d. strutture amovibili.
In sintesi il giudice d'appello della giustizia
amministrativa ha evidenziato in rapporto alla cd. "pergotenda":
1) che essa è una struttura destinata a rendere meglio
vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o
giardini) e installabile al fine, quindi, di soddisfare
esigenze non precarie non connotandosi, pertanto, per la
temporaneità della loro utilizzazione, ma costituiscono un
elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile
e duraturo;
2) che, sotto il profilo normativo la realizzazione di tale
costruzione, tenuto conto della sua consistenza, delle
caratteristiche costruttive e della suindicata funzione che
la caratterizza, essa non costituisce un'opera edilizia
soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo atteso
che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10
del DPR n. 380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso
di costruire gli "interventi di nuova costruzione", che
determinano una "trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio", mentre una struttura leggera, secondo la
configurazione standard che caratterizza tali manufatti
nella loro generalità, destinata ad ospitare tende
retrattili in materiale plastico non integra tali
caratteristiche;
3) che per aversi una costruzione definibile come tale (c.d.
pergotenda), occorre che l'opera principale sia costituita
non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di
protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata
ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità
abitativa, con la conseguenza che la struttura (per aversi
realmente una pergotenda e non una costruzione edilizia
necessitante di titolo abilitativo) deve qualificarsi in
termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno
e all'estensione della tenda;
4) che la tenda poi, che costituisce la caratteristica
fondamentale per effetto della quale un manufatto può
definirsi "pergotenda" e non considerarsi una "nuova
costruzione", deve essere in materiale plastico e
retrattile, onde non presentare caratteristiche tali da
costituire un organismo edilizio rilevante, comportante
trasformazione del territorio. Infatti la copertura e la
chiusura perimetrale che essa realizza non debbono
presentare elementi di fissità, stabilità e permanenza,
proprio per il carattere retrattile della tenda, "onde, in
ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente
configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie";
5) che, inoltre l'elemento di copertura e di chiusura deve
essere costituito da una tenda in materiale plastico, privo
di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che
possano connotarlo in termini di componenti edilizie di
copertura o di tamponatura di una costruzione.
Sulla base di tali considerazioni, tratte dall'orientamento
giurisprudenziale richiamato, le cui conclusioni convincono
pienamente il Collegio e tenuto conto degli accertamenti
effettuati dal Verificatore nella relazione depositata agli
atti, può concludersi che, nel caso di specie, non ci si
trova al cospetto di una semplice pergotenda, bensì di una
struttura complessa “solida e permanente”, priva, quindi,
del carattere della precarietà e, soprattutto, tale “da
determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto
dell’edificio”, come emerge in modo palese anche dalla
documentazione fotografica allegata alla relazione di
verificazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 28.05.2018 n. 5951 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Il principio di rotazione si applica anche alle
procedure di convenzionamento ex art. 5 della l. n.
381/1991.
Il principio di rotazione costituisce un corollario del
principio di non discriminazione ed ha carattere oggettivo,
in quanto è diretto a garantire una concorrenza effettiva,
onde evitare situazioni di esclusiva o monopolio
nell'esecuzione dell'appalto.
Quale corollario del principio di non discriminazione, esso
si applica, quindi, anche alle procedure di convenzionamento
ex art. 5 della l. n. 381/1991.
La circostanza che il principio di rotazione non abbia
valenza precettiva assoluta, ma solo tendenziale, non sta a
significare che esso non abbia portata generale, cosicché
pure da questo punti di vista lo stesso risulta applicabile
alle procedure ex art. 5 cit. (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 28.05.2018 n. 583 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento di ingiunzione di
demolizione (i cui requisiti essenziali sono l'accertata
esecuzione di opere abusive ed il conseguente ordine di
demolizione) è distinto dal successivo ed eventuale
provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è
necessario che sia puntualmente specificata la portata delle
sanzioni irrogate.
---------------
9.3. Non convince quanto denunciato col quarto mezzo,
circa la mancata “indicazione in concreto dell’area che
andrà acquisita di diritto” (cfr. pagina 8 del ricorso di
primo grado), in quanto “il provvedimento di ingiunzione di
demolizione (i cui requisiti essenziali sono l'accertata
esecuzione di opere abusive ed il conseguente ordine di
demolizione) è distinto dal successivo ed eventuale
provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è
necessario che sia puntualmente specificata la portata delle
sanzioni irrogate” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.02.2018,
n. 755) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.05.2018 n. 3147 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato
esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non
richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del
concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso.
In
sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi,
l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la
relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello
privato compiuta a monte dal legislatore.
In ragione della
natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto
necessaria la preventiva comunicazione di avvio del
procedimento, né un'ampia motivazione.
---------------
9.4. Nemmeno può dirsi fondata la censura, articolata con il
quinto motivo (pagina 8 del ricorso di primo grado),
con la quale si deduce il difetto di comunicazione di avviso
di avvio del procedimento nonché di motivazione.
Come ha
avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio
(in particolare la recente Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 9; successivamente si veda la prima applicazione
fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n. 5595),
“l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato
esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non
richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del
concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In
sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi,
l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la
relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello
privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della
natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto
necessaria la preventiva comunicazione di avvio del
procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né un'ampia motivazione”.
9.5. Per quanto attiene all’ordinanza (prot. n. 2195 del
10.11.2006) impugnata con i motivi aggiunti stante il suo
tenore del tutto coincidente con il precedente ordine
demolitorio –cioè “senza alcuna rivalutazione degli
interessi, né nuovo apprezzamento dei fatti” (Cons.
Stato, sez. V, 27.11.2017 n. 5547)– essa assume carattere
meramente confermativo che la rende non suscettibile di
impugnativa.
Le relative censure vanno pertanto dichiarate inammissibili
per difetto di interesse (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.05.2018 n. 3147 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
a) atteso che, in base all'art. 11, comma primo,
del t.u. edilizia, il permesso di costruire è rilasciato al
proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere il rilascio
di un titolo abilitativo edilizio si configura in capo non
solo al proprietario del terreno, ma pure al soggetto
titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo
autorizzi a disporne al riguardo;
b) v'è il contestuale onere della P.A. di accertare con serietà e
rigore siffatta legittimazione a chiedere il titolo edilizio,
dovendo pertanto la P.A. accertare che l’istante sia il
proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento
costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di
disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria.
---------------
6.1. L’appello è infondato e non può trovare accoglimento.
6.2.1. In primo luogo, deve essere respinta la censura
attinente alla violazione del principio di corrispondenza
tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c. da parte del
giudice di primo grado, in quanto l’accertamento della
proprietà comunale del vicolo Battisti risulta essere
funzionale all’accertamento della proprietà del suolo su cui
sorge il muro e, conseguentemente, del muro stesso, oggetto
del provvedimento impugnato.
6.2.2. Al riguardo, il Collegio ricorda che:
a) atteso che, in base all'art. 11, comma primo, del t.u. edilizia,
il permesso di costruire è rilasciato al proprietario
dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, la
legittimazione attiva a chiedere il rilascio di un titolo
abilitativo edilizio si configura in capo non solo al
proprietario del terreno, ma pure al soggetto titolare di
altro diritto di godimento del fondo, che lo autorizzi a
disporne al riguardo (cfr. Cons. St., sez. VI, 15.07.2010, n. 4557; id., sez. IV,
02.09.2011, n. 4968);
b) v'è il contestuale onere della P.A. di accertare con serietà e
rigore siffatta legittimazione a chiedere il titolo edilizio
(arg. ex Cons. Stato, sez. IV, 07.09.2016, n. 3823),
dovendo pertanto la P.A. accertare che l’istante sia il
proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento
costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di
disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria (cfr. Cons. Stato, sez. V, 04.04.2012, n.
1990) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.05.2018 n. 3143 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
E' costante la giurisprudenza del Consiglio di
Stato nell’affermare l’inutilizzabilità della dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà nell’ambito del processo
amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un mezzo
surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non
possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un
mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi,
precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività
istruttoria dell'amministrazione.
D’altro canto, “l'attitudine certificativa e probatoria
della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà e
delle autocertificazioni o auto dichiarazioni è limitata a
specifici status o situazioni rilevanti in determinate
attività o procedure amministrative e non vale a superare
quanto attestato dall'amministrazione, sino a querela di
falso, dall'esame obiettivo delle risultanze documentali”.
---------------
Ai fini dell’accertamento della proprietà pubblica giova la
presunzione di appartenenza al demanio stradale comunale
delle aree che sono in comunicazione diretta col suolo
pubblico in modo da consentire l’accesso ad esse, ai sensi
dell’art. 22 l. n. 2248/1865.
---------------
La giurisprudenza limitativa sviluppatasi in materia,
ponendosi in maniera critica verso il riconoscimento della
generica ammissibilità della sdemanializzazione tacita,
ritiene la stessa ravvisabile solo in presenza di atti e/o
fatti che mostrino inequivocabilmente la volontà
dell’amministrazione di sottrarre il bene medesimo a detta
destinazione e di rinunciare definitivamente al suo
ripristino, non potendosi ciò desumere dalla pura e semplice
circostanza che il bene non sia più adibito, anche da lungo
tempo, all’uso pubblico.
---------------
6.3. Ciò premesso, al fine di dimostrare la proprietà del
muro in questione, alcuna rilevanza può essere attribuita,
come correttamente ritenuto dall’amministrazione procedente,
alla dichiarazione sostitutiva di atto notorio presentata,
ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. 28.12.2000, n. 445,
dal ricorrente nel corso del procedimento dinanzi al Comune
di Andria.
Al riguardo è costante la giurisprudenza del Consiglio di
Stato nell’affermare l’inutilizzabilità della dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà nell’ambito del processo
amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un mezzo
surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non
possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un
mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi,
precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività
istruttoria dell'amministrazione (ex multis Cons. Stato,
sez. IV, 07.08.2012, n. 4527; id., sez. VI, 08.05.2012, n. 2648; id., sez. IV,
03.08.2011, n. 4641; id.,
sez. IV, 03.05.2005, n. 2094; id., sez. IV, 29.04.2002, n. 2270).
D’altro canto, “l'attitudine certificativa e probatoria
della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà e
delle autocertificazioni o auto dichiarazioni è limitata a
specifici status o situazioni rilevanti in determinate
attività o procedure amministrative e non vale a superare
quanto attestato dall'amministrazione, sino a querela di
falso, dall'esame obiettivo delle risultanze documentali”
(Cons. Stato, sez. V, 20.05.2008, n. 2352).
6.4. Pertanto, ai fini dell’accertamento incidentale in
ordine alla proprietà del muro oggetto del richiesto titolo
edilizio, occorre considerare che il vicolo Cesare Battisti
sul quale lo stesso insiste risulta essere pacificamente di
proprietà comunale, in primo luogo non ravvisandosi nessuna
contestazione al riguardo.
Peraltro, ai fini dell’accertamento della proprietà pubblica
sul vicolo giova la presunzione di appartenenza al demanio
stradale comunale delle aree che sono in comunicazione
diretta col suolo pubblico in modo da consentire l’accesso
ad esse, ai sensi dell’art. 22 l. n. 2248/1865, come per
l’appunto avviene nel caso di specie, atteso il collegamento
del vicolo Battisti con la strada comunale via Orsini.
In
senso opposto, del resto, non è stata addotta alcuna prova
contraria, non potendo ritenersi sufficiente a tal fine, per
le sopra esposte motivazioni, la dichiarazione sostitutiva
di atto notorio.
6.5. Da ciò consegue, in primo luogo, l’applicabilità al
caso di specie dell’art. 881 c.c., che pone una presunzione
di proprietà sui muri divisori in favore del proprietario
del fondo verso il quale esiste lo spiovente ed in ragione
dello spiovente medesimo. Il muro in questione, per
l’appunto, presenta una struttura, qualificabile come
spiovente (sono presenti, in particolare, delle tegole sulla
sommità del muro), che, senza dubbio, è rivolta verso
l’esterno, ossia verso il citato vicolo Battisti.
Del resto, in senso contrario, a differenza di quanto
sostenuto dall’appellante, non si riscontra alcuna
disomogeneità tra le due entità prediali confinanti, dovendo
essere entrambe qualificate alla stregua di cortili.
Invero,
se con riferimento al cortile del privato ricorrente non
sussistono dubbi in tal senso, il Collegio rileva che anche
il vicolo C. Battisti possiede gli elementi per essere
qualificato in questi termini. Il vicolo, infatti, per un
estremo, risulta chiuso proprio dal muro divisorio, mentre,
dalla parte opposta, sebbene collegato alla via Orsini, non
risulta agevolmente transitabile, in quanto per accedere
allo stesso da via Orsini è necessario scendere alcuni
gradini.
In conclusione, il vicolo, essendo idoneo allo stazionamento
pedonale e all’accesso pedonale alle altre proprietà private
che da esso hanno ingresso, presenta chiaramente la natura
di cortile e, di conseguenza, avendo carattere omogeneo al
fondo privato presente al di là del muro, non pone ostacoli
all’applicabilità del ridetto
art. 881 c.c.
(ndr: Presunzione di proprietà esclusiva del muro
divisorio), in linea con la
giurisprudenza in materia (Cass. Civ., sez. II, 10.03.2006, n. 5258; id., sez. II, 24.02.2000, n. 2102; id.,
sez. II, 24.12.1994, n. 11162; id., sez. II, 11.01.1989, n. 78).
6.6. Peraltro, ad ulteriore conferma della proprietà
comunale sul muro, va considerato che dall’accertamento
della proprietà comunale del suolo su cui è stato costruito
il muro discende l’applicazione del principio
dell’accessione di cui all’art. 934 c.c., secondo cui
qualunque costruzione od opera esistente sopra o sotto il
suolo appartiene al proprietario di questo.
6.7. In senso contrario, deve essere ritenuta infondata, per
carenza di prova, la censura volta ad affermare l’avvenuta
sdemanializzazione tacita della citata porzione di suolo,
risultando, per l’effetto, inusucapibile il bene medesimo.
Parte ricorrente, invero, non introduce sufficienti elementi
dimostrativi della sussistenza di atti del Comune
incompatibili con la volontà di conservare la destinazione
della porzione di suolo ad uso pubblico, come del disuso
prolungato da parte della collettività unitamente
all’inerzia dell’amministrazione nella cura del bene.
Tale carenza probatoria, peraltro, va considerata alla luce
della giurisprudenza limitativa sviluppatasi in materia,
che, ponendosi in maniera critica verso il riconoscimento
della generica ammissibilità della sdemanializzazione
tacita, ritiene la stessa ravvisabile solo in presenza di
atti e/o fatti che mostrino inequivocabilmente la volontà
dell’amministrazione di sottrarre il bene medesimo a detta
destinazione e di rinunciare definitivamente al suo
ripristino (Cons. Stato, sez. IV, 20.01.2015, n. 138),
non potendosi ciò desumere dalla pura e semplice circostanza
che il bene non sia più adibito, anche da lungo tempo,
all’uso pubblico (Cass. Civ., sez. un., 29.05.2014, n.
12062).
7. Risulta infine destituito di fondamento anche l’autonomo
motivo di appello con cui il ricorrente torna a censurare
l’ordinanza impugnata in quanto non supportata dal
necessario interesse pubblico al ripristino del muro.
Invero, in considerazione dell’accertata proprietà comunale
del muro in questione, l’interesse pubblico al ripristino
sotteso all’ordinanza comunale deve in effetti essere
individuato proprio nella tutela delle proprietà comunali
per consentire la loro adibizione all’uso della collettività
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.05.2018 n. 3143 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Non è configurabile una automatica configurabilità di
tentativo di infiltrazione mafiosa nel caso di assunzione di
dipendenti controindicati.
---------------
Informativa antimafia – Presupposti - Presenza di
dipendenti controindicati – Automatica configurabilità di
tentativo di infiltrazione mafiosa – Esclusione.
Ai fini dell’adozione di una
informativa antimafia, non sussiste alcun automatismo fra
presenza di dipendenti controindicati e tentativo di
infiltrazione mafiosa (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che a rilevare non è il dato in sé
che un’impresa possa avere alle proprie dipendenze soggetti
pregiudicati oppure sospettati di essere contigui ad
ambienti mafiosi, quanto piuttosto che la presenza degli
stessi possa essere ritenuta indicativa, alla luce di una
quadro indiziario complessivo, del potere della criminalità
organizzata di incidere sulle politiche assunzionali
dell’impresa e, mediante ciò, di inquinarne la gestione a
propri fini.
Se si adotta questa prospettiva risulta chiaro perché la
stessa Sezione terza del Consiglio di Stato, in alcuni
propri precedenti, abbia annoverato fra gli elementi
indiziari del tentativo di infiltrazione mafiosa “l’assunzione
esclusiva o prevalente, da parte di imprese medio-piccole,
di personale avente precedenti penali gravi o comunque
contiguo ad associazioni criminali” (sentenza
n. 1743 del 03.05.2016, richiamata anche dalla
sentenza n. 3299 del 20.07.2016).
Non può dunque sussistere alcun automatismo fra presenza di
dipendenti controindicati e tentativo di infiltrazione
mafiosa.
Del resto, se così non fosse, se ne ricaverebbe che un
soggetto pregiudicato non possa mai essere assunto da alcuna
impresa, non solo se attiva nel mercato delle commesse
pubbliche (e, più in generale, dell’economia pubblica), ma
anche se operante nell’economia privata. Ma così
evidentemente non è.
Se ne ricaverebbe, altresì, che il dipendente controindicato
possa essere, qualora già assunto, immediatamente e
legittimamente licenziato, ma ciò non sembra in linea con i
più recenti approdi ermeneutici del giudice del lavoro, che
invece sembrano inclinare per una maggior cautela prima di
risolvere il rapporto (Cass. civ., s.l., 10.01.2018, n.
331).
Giova, inoltre, osservare che il giudizio sulla permeabilità
dell’impresa non può prescindere dalla disamina degli
strumenti che l’ordinamento mette ordinariamente e
concretamente a disposizione degli operatori economici per
evitare di assumere soggetti controindicati (essenzialmente,
certificato del casellario e dei carichi penali pendenti).
Si vuole cioè dire che la circostanza che un'impresa abbia
assunto persone controindicate, nell’assenza di ulteriori
elementi, può assumere in sé valore sintomatico della
contiguità con gli ambienti della criminalità organizzata a
condizione che gli operatori economici -soprattutto nei
settori “a rischio” di cui all’art. 1, comma 52, l.
06.11.2012, n. 190 in cui la pervasività del fenomeno
mafioso è statisticamente più evidente- siano dotati dal
legislatore di adeguati meccanismi preventivi per venire a
conoscenza della possibile sussistenza di ragioni di
controindicazione a fini antimafia, pur genericamente
formulate, viepiù nell’ipotesi in cui l’imprenditore sia già
iscritto alla c.d. white list di cui al d.P.C.M.
18.04.2013 (equipollente all’informativa antimafia
liberatoria) e le plurime e contestuali nuove assunzioni
conseguano all’adempimento di un obbligo giuridico, come nel
caso della cd clausola sociale.
E’ noto che la clausola sociale volta a promuovere la
stabilità occupazionale del personale impiegato presso il
gestore uscente, è imposta, nella formulazione dei bandi di
gara, dall’art. 50 del vigente codice dei contratti pubblici
“per gli affidamenti dei contratti di concessione e di
appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura
intellettuale, con particolare riguardo a quelli relativi a
contratti ad alta intensità di manodopera…”. Essa deve
essere incondizionatamente accettata dal subentrante, pena
l’esclusione dalla gara, salva la possibilità di
quest’ultimo di armonizzare l’indiscriminato dovere di
assorbimento del personale dell’impresa uscente con il
fabbisogno richiesto dall’esecuzione del nuovo contratto e
con la pianificazione e l’organizzazione del lavoro propria
del subentrante (Cons.
St., sez. III, 05.05.2017, n. 2078).
Dinanzi a questo obbligo giuridico, temperato -all’attuale
stato della giurisprudenza– dai soli aspetti organizzativi e
oggettivi peculiari del subentrante, non è seriamente
esigibile dall’imprenditore un controllo personale, e un
giudizio, altrettanto personale, sull’esistenza e influenza
delle parentele dell’assumendo, sulle sue frequentazioni, o
sulle indagini non ancora giunte ad un rinvio a giudizio
(evento a seguito del quale la notizia è evincibile dal
certificato dei carichi penali pendenti), e soprattutto, non
è esigibile che esso imprenditore si sottragga agli obblighi
assunzionali per ragioni soggettive (e non oggettive) in
assenza di previsioni di legge che vietino l’instaurazione o
la prosecuzione del rapporto, o comunque di informazioni
qualificate, in quanto provenienti dalla Prefettura o dagli
organi di Polizia, che rendano verosimile la sussistenza del
rischio che l’assumendo possa essere un “cavallo di Troia”
delle associazioni mafiose o anche semplicemente un soggetto
“controindicato” ai fini antimafia, avuto riguardo al
tipo di attività e al luogo di svolgimento della stessa
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 25.05.2018 n. 3138 - commento tratto da
e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
2. Nel merito, l’appello è fondato.
2.1. Giova premettere che, come recentemente ribadito da
questa Sezione, “la valutazione
prefettizia [...] deve fondarsi su elementi gravi, precisi e
concordanti che, alla stregua della «logica del più
probabile che non», consentano di ritenere razionalmente
credibile il pericolo di infiltrazione mafiosa in base ad un
complessivo, oggettivo, e sempre sindacabile in sede
giurisdizionale, apprezzamento dei fatti nel loro valore
sintomatico” e
che “l’equilibrata ponderazione dei
contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di
impresa, da un lato, e la tutela dei fondamentali beni che
presidiano il principio di legalità sostanziale sopra
richiamati, richiedono alla Prefettura un’attenta
valutazione di tali elementi, che devono offrire un quadro
chiaro, completo e convincente del pericolo di infiltrazione
mafiosa, e a sua volta impongono al giudice amministrativo
un altrettanto approfondito esame di tali elementi,
singolarmente e nella loro intima connessione, per
assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva
contro ogni eventuale eccesso di potere da parte del
Prefetto nell’esercizio di tale ampio, ma non indeterminato,
potere discrezionale”
(Cons. Stato, Sez. III, 09.02.2017, n. 565).
...
4.
Quanto all’assunzione dei dipendenti controindicati,
ritiene, anzitutto, il Collegio che debbano essere forniti
alcuni chiarimenti sulla rilevanza di tale circostanza come
sintomatica del tentativo di infiltrazione mafiosa da parte
della criminalità organizzata.
A rilevare non è il dato in sé che un’impresa possa avere
alle proprie dipendenze soggetti pregiudicati oppure
sospettati di essere contigui ad ambienti mafiosi, quanto
piuttosto che la presenza degli stessi possa essere ritenuta
indicativa, alla luce di una quadro indiziario complessivo,
del potere della criminalità organizzata di incidere sulle
politiche assunzionali dell’impresa e, mediante ciò, di
inquinarne la gestione a propri fini.
Se si adotta questa prospettiva risulta
chiaro perché questa Sezione, in alcuni propri precedenti,
abbia annoverato fra gli elementi indiziari del tentativo di
infiltrazione mafiosa “l’assunzione esclusiva o
prevalente, da parte di imprese medio-piccole, di personale
avente precedenti penali gravi o comunque contiguo ad
associazioni criminali”
(sentenza n. 1743 del 03.05.2016, richiamata anche dalla
sentenza n. 3299 del 20.07.2016).
Non può dunque sussistere alcun automatismo
fra presenza di dipendenti controindicati e tentativo di
infiltrazione mafiosa.
Del resto, se così non fosse, se ne
ricaverebbe che un soggetto pregiudicato non possa mai
essere assunto da alcuna impresa, non solo se attiva nel
mercato delle commesse pubbliche (e, più in generale,
dell’economia pubblica), ma anche se operante nell’economia
privata, stanti i più recenti approdi di questo Consiglio in
ordine all’-OMISSIS- di applicazione dell’informativa
antimafia (Cons.
Stato, Sez. III, 09.02.2017, n. 565). Ma così evidentemente
non è.
Se ne ricaverebbe, altresì, che il dipendente controindicato
possa essere, qualora già assunto, immediatamente e
legittimamente licenziato, ma ciò non sembra in linea con i
più recenti approdi ermeneutici del giudice del lavoro, che
invece sembrano inclinare per una maggior cautela prima di
risolvere il rapporto (Corte di Cassazione, Sez. L.,
10.01.2018, n. 331).
Giova, inoltre, osservare che il giudizio sulla permeabilità
dell’impresa non può prescindere dalla disamina degli
strumenti che l’ordinamento mette ordinariamente e
concretamente a disposizione degli operatori economici per
evitare di assumere soggetti controindicati (essenzialmente,
certificato del casellario e dei carichi penali pendenti).
Si vuole cioè dire che la circostanza che un'impresa abbia
assunto persone controindicate, nell’assenza di ulteriori
elementi, può assumere in sé valore sintomatico della
contiguità con gli ambienti della criminalità organizzata a
condizione che gli operatori economici -soprattutto nei
settori “a rischio” di cui all’articolo 1, comma 52,
della legge 06.11.2012, n. 190 in cui la pervasività del
fenomeno mafioso è statisticamente più evidente- siano
dotati dal legislatore di adeguati meccanismi preventivi per
venire a conoscenza della possibile sussistenza di ragioni
di controindicazione a fini antimafia, pur genericamente
formulate, viepiù nell’ipotesi in cui l’imprenditore sia già
iscritto alla cd white list di cui al D.P.C.M.
18.04.2013 (equipollente all’informativa antimafia
liberatoria) e le plurime e contestuali nuove assunzioni
conseguano all’adempimento di un obbligo giuridico, come nel
caso della cd clausola sociale.
E’ noto che la clausola sociale volta a promuovere la
stabilità occupazionale del personale impiegato presso il
gestore uscente, è imposta, nella formulazione dei bandi di
gara, dall’art. 50 del vigente codice dei contratti pubblici
“per gli affidamenti dei contratti di concessione e di
appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura
intellettuale, con particolare riguardo a quelli relativi a
contratti ad alta intensità di manodopera…”. Essa deve
essere incondizionatamente accettata dal subentrante, pena
l’esclusione dalla gara, salva la possibilità di
quest’ultimo di armonizzare l’indiscriminato dovere di
assorbimento del personale dell’impresa uscente con il
fabbisogno richiesto dall’esecuzione del nuovo contratto e
con la pianificazione e l’organizzazione del lavoro propria
del subentrante (cfr. da ultimo, Consiglio di Stato Sez. III,
05.05.2017, n. 2078).
Dinanzi a questo obbligo giuridico, temperato -all’attuale
stato della giurisprudenza– dai soli aspetti organizzativi e
oggettivi peculiari del subentrante, non è seriamente
esigibile dall’imprenditore un controllo personale, e un
giudizio, altrettanto personale, sull’esistenza e influenza
delle parentele dell’assumendo, sulle sue frequentazioni, o
sulle indagini non ancora giunte ad un rinvio a giudizio
(evento a seguito del quale la notizia è evincibile dal
certificato dei carichi penali pendenti), e soprattutto, non
è esigibile che esso imprenditore si sottragga agli obblighi assunzionali per ragioni soggettive (e non oggettive) in
assenza di previsioni di legge che vietino l’instaurazione o
la prosecuzione del rapporto, o comunque di informazioni
qualificate, in quanto provenienti dalla Prefettura o dagli
organi di Polizia, che rendano verosimile la sussistenza del
rischio che l’assumendo possa essere un “cavallo di Troia”
delle associazioni mafiose o anche semplicemente un soggetto
“controindicato” ai fini antimafia, avuto riguardo al
tipo di attività e al luogo di svolgimento della stessa.
Nel caso di specie, in assenza di meccanismi informativi
predisposti dall’ordinamento, deve ritenersi secondo la
logica del più probabile che non, e salvo quanto appresso si
dirà in ordine alle singole posizioni lavorative, che è ben
più probabile che l’assunzione di soggetti controindicati
tra quelli già in servizio presso l’uscente, sia avvenuto in
un quadro di inconsapevolezza delle ragioni di
controindicazioni (diverse da quelle evincibili dalla
certificazione penale).
Né, del resto l’amministrazione ha fornito una prova
contraria, ossia che le assunzioni siano avvenute per
compiacenza o sottomissione agli ambienti malavitosi. |
APPALTI SERVIZI:
Sull'inconfigurabilità di un obbligo, a carico
del comune di aderire alla convenzione Consip per assicurare
il servizio pubblico locale di illuminazione pubblica.
La giurisprudenza riconosce pacificamente la natura di
servizio pubblico locale (di natura economica)
dell'illuminazione pubblica e ritiene legittimo il suo
affidamento secondo il modulo della concessione tramite
project financing (quest'ultimo, peraltro, costituisce
un modello ormai consolidato che si sta sostituendo alla
vecchia prassi degli enti locali di affidare, peraltro senza
gara, detto servizio a ENEL SOLE spa -società del gruppo
ENEL dedicata all'illuminazione pubblica), al quale l'ente
locale può ricorrere tra le varie modalità alternative
possibili (assieme a appalto di lavori/servizi; ovvero
finanziamento tramite terzi) oltre alla amministrazione
diretta, inclusa l'amministrazione in economia, che
costituiscono un ventaglio di opzioni tutte possibili e
lecite.
La scelta di assicurare l'espletamento del servizio pubblico
locale (a rete) in questione attraverso l'affidamento in
concessione a seguito di un'ordinaria procedura ad evidenza
pubblica, rispetto alle alternative modalità di gestione
sopraindicate, o rispetto alla possibilità di aderire alla
Convenzione Consip Servizio Luce 3, costituisce una facoltà
discrezionale del Comune, sottratta al sindacato
giurisdizionale di legittimità, salvo il caso in cui sia
manifestamente inficiata da illogicità, irrazionalità,
arbitrarietà od irragionevolezza, ovvero non sia fondata su
di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti (che,
però, non appaiono ravvisabili nel caso di specie) (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 24.05.2018 n. 5781 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Differenza tra Soggetti accentratori e Centrali di
committenza - Servizio pubblico locale di illuminazione e
Convenzione Consip.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Soggetti
aggiudicatori - Soggetti accentratori e Centrali di
committenza – Differenza – Individuazione.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi -
Servizio pubblico locale di illuminazione – Convenzione
Consip – Adesione – Obbligo – Esclusione.
●
I Soggetti accentratori di cui all’art. 9, d.l. 24.04.2014,
n. 66 sono figure diverse dalle Centrali di Committenza
costituite da Comuni non Capoluogo di Provincia che sono,
invece, riconducibili figura della Stazione Unica Appaltante
di cui all’art. 13, l. 13.08.2010, n. 136 (d.P.C.M.
30.06.2011) (1).
●
Il Comune non è obbligato ad aderire alla
Convenzione Consip per assicurare il servizio pubblico
locale di illuminazione (inclusivo di manutenzione e
adattamento tecnologico degli impianti), non risultando
questo espressamente menzionato nell’elenco dei settori
merceologici e di servizi contemplati dal d.P.C.M.
24.12.2015 (2).
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar che i Soggetti accentratori di cui
all’art. 9, d.l. 24.04.2014, n. 66 hanno in comune con le
Centrali di Committenza costituite da Comuni non Capoluogo
di Provincia la funzione di aggregazione della domanda
(operando entrambi come Centrali di Committenza), il
Soggetto Aggregatore costituisce una Centrale di Committenza
“qualificata” ed iscritta ex lege all’apposito elenco
tenuto dall’ANAC.
A sua volta le Centrali di committenza costituite per
iniziative dei Comuni non capoluogo, che pure costituiscono
una species del genus della Centrale di
committenza, presentano un quid pluris, in quanto
costituiscono espressione diretta dell’autonomia negoziale
dell’Ente esponenziale della Comunità locale, che risponde a
principi e valori che superano il mero compito (tecnico) di
aggregare la domanda, per conseguire risparmi di spese.
Ai sensi degli artt. 37, 38 e 216, comma 10, d.lgs.
18.04.2016, n. 80, nel regime transitorio, la mera
iscrizione quale Centrale di committenza nell’Anagrafe Unica
delle Stazioni appaltanti, di cui all’art. 33-ter d.l.
18.10.2012, n. 179 costituisce condizione sufficiente per
operare come Centrale di committenza.
(2) Ha ricordato il Tar che l’obbligo per i Comuni di avvalersi
delle Convenzioni Consip ha natura diversa rispetto
all’obbligo di tenere conto delle condizioni più vantaggiose
da questa offerte (cd. benchmark) ai sensi dall’art.
26, l. n. 499 del 1988 e dall’art. 1, comma 449, l.
27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria 2007). In quest’ultimo
caso, l’obbligatorietà non investe l’intero contenuto della
Convenzione CONSIP, ma solo i parametri “di
prezzo-qualità”, che operano come “limiti massimi del
prezzo per l'acquisto di beni e servizi”.
L’obbligo di aderire alle Convenzioni Consip, fatta salva la
possibilità di procurarsi in autonomia beni e servizi, a
condizione di motivare la relativa scelta, ove più
vantaggiosa economicamente, esteso anche ai Comuni dall’art.
59, comma 5, l. n. 388 del 2000, poi abrogato dall’art. 1,
comma 458, l. n. 297 del 2007, e successivamente
reintrodotto dall’art. 9, d.l. n. 66 del 2014, sia aggiunge,
e non sostituisce, altri obblighi posti da leggi settoriali
e di contenimento della spesa pubblica (cd. spending
review) preesistenti, (in particolare quelle) che sono
espressamente richiamate dalla stessa legge.
Ha aggiunto il Tar -con riferimento all’inconfigurabilità di
un obbligo, a carico del Comune di aderire alla Convenzione
Consip per assicurare il servizio pubblico locale di
illuminazione pubblica– che la scelta del Comune di
assicurare l’espletamento del servizio pubblico locale (a
rete) in questione attraverso l’affidamento in concessione a
seguito di un'ordinaria procedura ad evidenza pubblica,
rispetto alle alternative modalità di gestione
sopraindicate, o rispetto alla possibilità di aderire alla
Convenzione Consip Servizio Luce 3, costituisce una facoltà
discrezionale del Comune, sottratta al sindacato
giurisdizionale di legittimità, salvo il caso in cui sia
manifestamente inficiata da illogicità, irrazionalità,
arbitrarietà od irragionevolezza, ovvero non sia fondata su
di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti.
Non si può configurare alcun obbligo, in tal senso, dal
favor delle norme vigenti per le convenzioni della Consip,
da cui può farsi discendere, semmai, solo “una peculiare
presunzione di convenienza” delle convenzioni in parola
(Cons.
St., sez. V, n. 2194 del 2015) che comporta solo
l’onere del Comune di motivare le relative scelte e di farle
precedere da adeguata istruttoria
(TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 24.05.2018 n. 5781
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
L’eccezione va disattesa.
Nel caso in esame, le delibere del 2015 non avevano
immediata efficacia lesiva, in quanto si incaricava il
competente Ufficio comunale ad elaborare lo studio di
fattibilità (ed, in caso, predisporre l’eventuale
documentazione di gara) verifica che si sarebbe potuta anche
concludere con esito negativo.
Si pone ancora il problema dell’inammissibilità/irricevibilità
del ricorso per omessa o tardiva impugnazione della
determinazione a contrarre n. 259 del 28.12.2017, sollevato
dal Comune resistente, che eccepisce, oltre alla mancata
impugnativa di detta Determinazione (non ritenendo a tal
fine sufficiente il generico riferimento, “alla
determinazione a contrarre, di data ignota”, nell’epigrafe
del ricorso), in ogni caso, l’irricevibilità
dell’impugnativa della stessa per tardività.
La questione dell’inammissibilità dei ricorsi avverso il
bando di gara proposti senza impugnare la determinazione a
contrarre è già stata affrontata recentemente da questo
Tribunale (si veda, in tal senso, Tar Lazio, sez. II-bis, n.
4374/2018, secondo cui la delibera avrebbe dovuto essere
impugnata immediatamente, senza attendere l’adozione del
successivo bando, che, relativamente alla predetta scelta
risulta meramente confermativo).
Si tratta tuttavia di principi che non possono trovare
applicazione nel caso in esame, in cui la predetta
determinazione non risulta essere mai stata pubblicata,
sicché risulta sufficiente la cautelativa e generica
menzione nell’indicazione degli atti impugnati contenuta
nell’epigrafe del ricorso.
L’Amministrazione ha formulato in
modo labiale l’eccezione, limitandosi ad asserire in via del
tutto generica l’avvenuta rituale pubblicazione della
predetta determinazione, senza tuttavia fornire alcuna prova
di tale circostanza, non avendo depositato il relativo
attestato di pubblicazione, a differenza di quanto fatto con
le altre delibere. Né dagli atti di causa è desumibile alcun
elemento indicativo dell’avvenuto adempimento.
Ne consegue
che non avendo il Comune soddisfatto l’onere della prova
della pubblicazione di tale deliberazione su cui fondava
l’eccezione di tardività, questa va disattesa.
Si passa, pertanto, ad esaminare il merito del ricorso.
Con il primo motivo di censura il ricorrente contesta la
qualificazione della Centrale Unica di Committenza della XI
Comunità Montana dei Castelli Romani e Prenestini ad agire
ai sensi dell’art. 37 D.Lgs. n. 50/2016; doglianza alla
quale l’Amministrazione resistente replica che la predetta
risultava invece legittimata ad operare ai sensi dell’art.
216, comma 10, del d.lgs. n. 50/2016.
Come si è ricordato sopra, la scelta di affidare la
procedura di gara in contestazione alla Centrale Unica di
Committenza - Comunità Montana dei Castelli Romani e
Prenestini, ai sensi dell’art. 37, co. 3 (rectius 4), D.Lgs.
n. 50/2016 risale alla determinazione a contrarre n. 259 del
28.12.2017, con cui è stata approvata la legge di gara
(bando e disciplinare), affidandone lo svolgimento alla
Centrale di Committenza in contestazione.
Ad essa il Comune
aveva aderito con delibera del C.C. n. 2 del 28.01.2015,
sottoscrivendo in data 03.02.2015 la relativa convenzione ai
sensi dell’art. 33, co. 3-bis, D.Lgs. n. 153/2006. Detta
Comunità montana aveva presentato richiesta di iscrizione
all’elenco dei Soggetti Aggregatori che però è stata
respinta dall’ANAC con delibera n. 23.07.2015 perché ritenuta
carente dei requisiti oggettivi prescritti dall’art. 2, co.
2, DPCM 11.11.2014.
Tale circostanza è invocata dalla società ricorrente nel
primo motivo di ricorso ove lamenta la violazione degli
artt. 37 e 38 del Codice appalti per difetto di
qualificazione della stazione appaltante.
La doglianza non è condivisibile.
Per meglio comprendere i termini della controversia,
giova
premettere un breve richiamo alla normativa in tema di
soggetti accentratori, rinviando, per il resto all’analisi
degli istituti effettuata dalla giurisprudenza in materia
(TAR Lazio, Sez. III, n. 2339/2016).
L'art. 33-ter del d.l. 18.10.2012, n. 179, convertito, con
modificazioni, dalla l. 17.12.2012, n. 221, aveva istituito
l'Anagrafe unica delle stazioni appaltanti (AUSA), presso l'AVCP,
obbligando le stazioni appaltanti a richiedere l'iscrizione
ai sensi dell'art. 62-bis d.lgs. 07.03.2005, n. 82.
L'art. 9 del D.L. n. 66/2014 (conv. in legge 89/2014), commi
1 e 2, ha istituto, nell’ambito della predetta Anagrafe, un
ulteriore elenco, quello dei «soggetti aggregatori», al
quale sono iscritti “di diritto” Consip S.p.A. e una
centrale di committenza per ogni Regione (ove costituita ai
sensi dell'articolo 1, comma 455, della legge 27.12.2006, n. 296) e, previa valutazione del possesso di
specifici requisiti individuati con DPCM (11.11.2014), anche
«i soggetti diversi da quelli di cui al comma 1 che
svolgono attività di centrale di committenza ai sensi
dell’art. 33 del decreto legislativo 12.04.2006, n.
163», fino ad un massimo di 35 soggetti. Il sistema è stato
confermato anche dal nuovo Codice del 2016 che all’art. 213, co. 16, ha affidato all’ANAC il compito di gestire tale
elenco.
In effetti, nel nuovo elenco, compilato dall’ANAC a seguito
della riapertura dei termini per la presentazione delle
domande, risulta iscritta solo la Città Metropolitana di
Roma Capitale, unitamente a qualche altra Provincia
(Delibera n. 31 del 17.01.2018) e non risulta inserita la
Centrale di Committenza della Comunità Montana in parola.
Però, tra i 35 soggetti aggregatori non risulta inserita
nessun’altra entità analoga. Inoltre dalla Delibera n. 31
del 17.01.2018 non risulta nemmeno che la Centrale in
questione abbia ripresentato la domanda e che questa sia
stata respinta (come invece riportato nella delibera n.
23.07.2015).
E non a caso, vista la diversità delle figure in questione.
Infatti il medesimo art. 9 del D.L. n. 66/2014 (conv. in
legge n. 89/2014) soprarichiamato, oltre ad istituire ai
commi 1 e 2 l’elenco dei Soggetti Accentratori, stabilendone
il numero massimo (35 operatori), al successivo comma 4,
modifica l’allora vigente Codice, disponendo all’art. 33,
comma 3-bis, per i Comuni non capoluogo di provincia che
essi procedono all’acquisizione di lavori, beni e servizi
nell’ambito delle unioni dei Comuni di cui all’articolo 32
del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, ove
esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile
tra i Comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici
anche delle Province, ovvero ricorrendo ad un soggetto
aggregatore o alle Province, ai sensi della legge 07.04.2014, n. 56. In alternativa, gli stessi Comuni possono
acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti
elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro
soggetto aggregatore di riferimento.
La mancata inclusione della Centrale di Committenza della
Comunità Montana in questione nell’elenco dei 35 “Soggetti
Aggregatori” soprarichiamati, pertanto, non comporta le
conseguenze ipotizzate dalla società ricorrente dato che si
tratta di figure diverse.
La censura è frutto di un equivoco scaturito dal problema
del complesso intreccio di normative che non ha trovato
sistemazione nel vigente Codice, come rilevato già dai primi
commentatori. In particolare è stato osservato che “la
previsione legale di un numero massimo di 35 soggetti
aggregatori non affronta però il problema della perdurante
esistenza di altre centrali di committenza, che possono
continuare ad operare, sia pure fuori dall’ambito dei casi
in cui le varie leggi che si sono succedute, nel prevedere
obblighi di ricorso a centrali di committenza, facciano
riferimento solo ai soggetti aggregatori”.
Inoltre viene
precisato che “La legislazione esterna al codice, quando
prevede obblighi di ricorso a centrali di committenza, fa in
genere riferimento a CONSIP, alle Centrali di Committenza
regionali o alla nuova tipologia di Soggetti Aggregatori,
prevista dal D.L. n. 66/14. Diversamente, il Codice, per i
Comuni non Capoluogo di Provincia, contempla la possibilità
di avvalersi anche di centrali di committenza diverse”.
Mentre i Soggetti Aggregatori sopraindicati sono Centrali di
Committenza “qualificate” mediante l’iscrizione nell’elenco
predetto, la Centrale di Committenza costituita dai Comuni
non Capoluogo è riconducibile alla Stazione Unica Appaltante
di cui all’art. 13 della legge n. 136/2010 (DPCM 30.06.2011)
-che dà attuazione all’art. 33 del Codice Appalti del 2006- come chiarito dall’ANAC con Determinazione n. 3 del
25.02.2015 (nonché Determinazione n. 11 del 23.09.2015), che
ha in tal modo risolto lo spinoso problema del rapporto tra
le Stazioni Uniche Appaltanti di cui all’art. 13 della legge
n. 136/2010 ed i Soggetti Aggregatori previsti dall’art. 9
del D.L. n. 66/2014 (conv. in legge n. 89/2014), chiarendo
che i due istituti hanno in comune la natura di centrale di
committenza, alla quale, tuttavia, il Soggetto Aggregatore
unisce un’ulteriore qualità, consistente nell’abilitazione
derivante dalla “qualificazione” conseguita ex lege o previa
valutazione e iscrizione nell’elenco ANAC.
Tale impostazione
ha trovato favorevole seguito nella dottrina, che ha
evidenziato che anche il nuovo Codice, seppure senza farvi
espresso riferimento, consente ai Comuni non capoluogo di
ricorrere alle SUA ex art. 13 (a condizione che siano
iscritte nell’AUSA e, in futuro, che conseguano la
qualificazione richiesta alle stazioni appaltanti), in
quanto costituiscono una “species del genus” della Centrale
di Committenza.
Inoltre va osservato che, a loro volta, le
stesse Centrali di Committenza formate dall’iniziativa
comunale, presentano un quid pluris, in quanto costituiscono
espressione diretta dell’autonomia negoziale dell’Ente
esponenziale della Comunità locale, che risponde a principi
e valori che superano il mero compito (tecnico) di aggregare
la domanda, per conseguire risparmi di spese, che è comune
anche ai Soggetti aggregatori (cioè di fungere da “centrale
di acquisto”, in modo di ottenere «economie di scala»,
aumentare la conoscenza dello specifico settore, riducendo
le asimmetrie informative, incrementando la competenza e
l’efficienza della parte contrattuale pubblica), che però
risultano “neutri” sotto il profilo sopraevidenziato.
Ne discende che dal mancato inserimento della Comunità
Montana dei Castelli Romani e Prenestini nell’elenco dei
soggetti aggregatori deriva solo l’incapacità dell’Ente in
parola di operare come Soggetto Aggregatore della Domanda,
ma non anche la sua incapacità di operare come Centrale di
Committenza per l’Unione dei Comune che ne fanno parte.
A tal fine è infatti sufficiente, come previsto dall’art.
216, co. 10, del Codice, richiamato anche dall’art. 38, co.
8, la mera iscrizione quale Centrale di Committenza
nell’Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti, di cui
all’articolo 33-ter del decreto legge 18.10.2012, n.
179 (conv. in legge n. 221/2012); questa costituisce
condizione necessaria e sufficiente per consentire alla
Comunità Montana in parola di operare come Centrale di
Committenza almeno nel regime transitorio delineato
dall’art. 216, co. 10, del Codice, fino all’entrata a regime
del sistema di qualificazione di cui all’art. 38 del Codice,
come ribadito anche dalla Delibera ANAC n. 911 del
31.08.2016.
Si passa pertanto ad esaminare la seconda censura, relativa
alla scelta del Comune di Montecompatri di avvalersi della
procedura in contestazione, anziché aderire alla Convenzione
Consip LUCE 3, senza tener conto delle condizioni più
vantaggiose da questa offerte.
Come ammesso dalla stessa ricorrente, la normativa generale
sulla centralizzazione degli acquisti in funzione del
risparmio da economia di scala è questione complicata, dato
l’intreccio di svariate disposizioni contenute nelle leggi
sul contenimento della spesa pubblica centrale e locale (spending
review), sulle leggi di stabilità, nonché, in varie leggi
settoriali, che pongono problemi di individuazione, ancor
prima che di interpretazione e coordinamento, della norma
applicabile. Si tratta di un coacervo di norme che il Codice
ha rinunciato a “sistematizzare”, limitandosi ad un generico
rinvio alle “vigenti disposizioni in materia di contenimento
di spesa”, le quali finiscono per costituire un “sistema
parallelo”, come evidenziato già dai primi Commentatori.
Sulla questione dell’obbligatorietà, per gli Enti Locali, di
avvalersi della Convenzione CONSIP (e poi di analoghe
convenzioni predisposte da Soggetti Aggregatori)
l’evoluzione normativa è stata ondivaga, alternando
facoltatività ed obbligatorietà dell’adesione alle
Convenzioni CONSIP per determinate Amministrazioni, passando
per l’imposizione di parametri di prezzi e costi, non
superabili dalle Amministrazioni ove autorizzate ad
acquisire beni e servizi autonomamente, attraverso
un'ordinaria procedura a evidenza pubblica, oppure
condizionando tale autonomia negoziale alla dimostrazione
del conseguimento di un vantaggio in termini di spesa.
Anche in questo caso giova premettere un breve richiamo alla
ricostruzione della normativa in materia, come operato dalla
dottrina e giurisprudenza maggioritaria.
L’art. 26 della legge n. 499/1988 non obbliga le
amministrazioni pubbliche ad avvalersi delle convenzioni
CONSIP, ma prevede solo che queste ne “utilizzano i
parametri di prezzo-qualità, come limiti massimi, per
l'acquisto di beni e servizi comparabili oggetto delle
stesse anche utilizzando procedure telematiche per
l'acquisizione di beni e servizi ai sensi del decreto del
Presidente della Repubblica 04.04.2002, n. 101”
(quest’ultimo era stato abrogato dalla lettera g del comma 1
dell'art. 358, D.P.R. 05.10.2010, n. 207, a decorrere
dall'08.06.2011; lo stesso articolo 26 della legge n.
488/1999 in esame, che ad esso faceva riferimento, era stato
abrogato dal comma 209 dell'art. 1, L. 27.12.2006, n.
296, ma l'abrogazione non è stata confermata nella versione
del comma 209, come modificato dal comma 6-bis dell'art.
15, D.L. 02.07.2007, n. 81, aggiunto dalla relativa legge
di conversione).
L’ambito applicativo di tale previsione è chiarito dall’art.
58, co. 1, della legge n. 388/2000 -legge finanziaria 2001-
precisando che “ai sensi di quanto previsto dall'articolo
26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488, per
pubbliche amministrazioni si intendono quelle definite
dall'articolo 1 del decreto legislativo 03.02.1993, n.
29” -quindi inclusi gli enti locali– e che “le convenzioni
di cui al citato articolo 26 sono stipulate dalla
Concessionaria servizi informatici pubblici CONSIP Spa”.
Una norma analoga a quella ricavabile dall’art. 26 della
legge n. 499/1988 è riportata all’art. 1, co. 449, della
legge n. 296/2006 (legge finanziaria 2007), che, da un lato,
obbliga le sole amministrazioni statali ad approvvigionarsi
utilizzando le convenzioni-quadro, dall’altro, conferma, per
le restanti amministrazioni, inclusi quindi gli enti locali,
la mera facoltatività del ricorso alle convenzioni CONSIP,
ribadendo, tuttavia, l’obbligo ad utilizzarne i parametri di
prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei
contratti.
L'art. 1, comma 458, della legge n. 296 in
parola, peraltro, dispone l’abrogazione dell’art. 59 della
legge finanziaria per il 2001 soprariportata, che prevedeva
l’aggregazione degli acquisti di beni e servizi a rilevanza
regionale, specificando che “agli enti locali e alle
università che non aderiscono alle convenzioni si applicano
le disposizioni di cui al comma 3 dell'articolo 26 della
legge 23.12.1999, n. 488” precisando che “Gli enti
devono motivare i provvedimenti con cui procedono
all'acquisto di beni e servizi a prezzi e a condizioni meno
vantaggiosi di quelli stabiliti nelle convenzioni suddette e
in quelle di cui all'articolo 26 della citata legge n. 488
del 1999”.
In sostanza, l’obbligatorietà non investe l’intero contenuto
della Convenzione CONSIP, dato che la scelta di agire in
autonomia dell’Ente viene salvaguardata (anche se sottoposta
ad un rigoroso procedimento aggravato, nonché ad un regime
di controlli, di pubblicità e di responsabilità delle
relative decisioni, come specificato nel ripetuto art. 26 ai
commi 3 e seguenti), ma semmai “i parametri di
prezzo-qualità, come limiti massimi, per l'acquisto di beni
e servizi” individuati in tale convenzione.
L’art. 59, co. 5, della legge n. 388/2000 prevedeva
l’obbligo, anche per i Comuni, di aderire alle Convenzioni
Consip, fatta salva la possibilità di procurarsi in
autonomia beni e servizi, a condizione di motivare la
relativa scelta, ove più vantaggiosa economicamente. Tale
disposizione è stata successivamente abrogata dall’art. 1,
co. 458, della legge n. 297/2007.
Un analogo onere è stato reintrodotto dall’art. 9 del D. L.
n. 66/2014 (già richiamato sopra con riferimento
all’istituzione nell'ambito dell'Anagrafe unica delle
stazioni appaltanti dell'elenco dei Soggetti Aggregatori) il
cui comma 3 stabilisce che “Fermo restando quanto previsto
all'articolo 1, commi 449, 450 e 455, della legge 27.12.2006, n. 296, all'articolo 2, comma 574, della
legge 24.12.2007, n. 244, all'articolo 1, comma 7,
all'articolo 4, comma 3-quater e all'articolo 15, comma 13,
lettera d), del decreto-legge 06.07.2012, n. 95,
convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n.
135, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
(….) entro il 31 dicembre di ogni anno, sulla base di
analisi del Tavolo dei soggetti aggregatori e in ragione
delle risorse messe a disposizione ai sensi del comma 9,
sono individuate le categorie di beni e di servizi nonché le
soglie al superamento delle quali le amministrazioni statali
(….) nonché le regioni, gli enti regionali, gli enti locali
di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nonché loro consorzi e associazioni, e gli
enti del servizio sanitario nazionale ricorrono a Consip
S.p.A. o agli altri soggetti aggregatori di cui ai commi 1 e
2 per lo svolgimento delle relative procedure. Per le
categorie di beni e servizi individuate dal decreto di cui
al periodo precedente, l'Autorità nazionale anticorruzione
non rilascia il codice identificativo gara (CIG) alle
stazioni appaltanti che, in violazione degli adempimenti
previsti dal presente comma, non ricorrano a Consip S.p.A. o
ad altro soggetto aggregatore”.
In attuazione di tale disposizione il D.P.C.M. 24.12.2015 individua un elenco di beni e servizi standardizzati
per i quali tutte le Amministrazioni pubbliche, inclusi gli
Enti Locali, non possono effettuare acquisti con procedure
autonome, ma sono costrette ad avvalersi della Convenzione Consip.
Ove questa non sia disponibile, invece, resta salva
l’autonomia negoziale dell’Istituzione, che però è tenuta al
rispetto di parametri di prezzo e costo, prefissati nel
limite massimo dall’ANAC, a pena di nullità dei contratti
conclusi in violazione di essi (violazione che è altresì
causa di responsabilità erariale), come sancito dal
successivo comma 7 dell’art. 9 del DL 66/1994. Quest’ultimo
comma prevede che “I prezzi di riferimento pubblicati
dall'Autorità e dalla stessa aggiornati entro il 1° ottobre
di ogni anno, sono utilizzati per la programmazione
dell'attività contrattuale della pubblica amministrazione e
costituiscono prezzo massimo di aggiudicazione, anche per le
procedure di gara aggiudicate all'offerta più vantaggiosa,
in tutti i casi in cui non è presente una convenzione
stipulata ai sensi dell'articolo 26, comma 1, della legge 23.12.1999, n. 488, in ambito nazionale ovvero
nell'ambito territoriale di riferimento. I contratti
stipulati in violazione di tale prezzo massimo sono nulli”.
Nel caso in esame la previsione di obbligatoria adesione
alla Convenzione Consip sancita dall’art. 9, co. 3, non trova
applicazione in quanto il servizio pubblico locale di
illuminazione pubblica non risulta espressamente menzionato
nell’elenco dei settori merceologici e di servizi
contemplati dal DPCM del 24.12.2015 (adottato in
attuazione dell’art. 9, co. 3, in parola). E non a caso, dato
che il suddetto decreto include categorie di beni
(soprattutto prodotti sanitari, farmaci, vaccini) e servizi
standardizzati (quali pulizie, vigilanza etc.) che non sono
equiparabili a quello in esame.
Non solo, ma l’art. 9, co. 3, in parola fa comunque salve le
specifiche previsioni di aggregazione delle commesse a fini
di contenimento della spesa contenute nelle disposizioni
espressamente richiamate, in particolare l’art. 1, comma 7,
del decreto-legge n. 95/2012 (conv. in legge n. 135/2012),
che, a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 1, comma
494, L. 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità) e
dall'art. 1, comma 417, L. 27.12.2017, n. 205, così
recita: “Fermo restando quanto previsto all'articolo 1,
commi 449 e 450, della legge 27.12.2006, n. 296, e
all'articolo 2, comma 574, della legge 24.12.2007, n.
244, quale misura di coordinamento della finanza pubblica,
le amministrazioni pubbliche (…) relativamente alle seguenti
categorie merceologiche: energia elettrica, gas, carburanti
rete e carburanti extra-rete, combustibili per
riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile, sono
tenute ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni o gli
accordi quadro messi a disposizione da Consip S.p.A. e dalle
centrali di committenza regionali di riferimento costituite
ai sensi dell'articolo 1, comma 455, della legge 27.12.2006, n. 296, ovvero ad esperire proprie autonome procedure
nel rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi
telematici di negoziazione messi a disposizione dai soggetti
sopra indicati. (….) È fatta salva la possibilità di
procedere ad affidamenti, nelle indicate categorie
merceologiche, anche al di fuori delle predette modalità, a
condizione che gli stessi conseguano ad approvvigionamenti
da altre centrali di committenza o a procedure di evidenza
pubblica, e prevedano corrispettivi inferiori almeno (….)
del 3 per cento per le categorie merceologiche carburanti
extra-rete, carburanti rete, energia elettrica, gas e
combustibili per il riscaldamento rispetto ai migliori
corrispettivi indicati nelle convenzioni e accordi quadro
messi a disposizione da Consip SpA e dalle centrali di
committenza regionali”.
Però, il servizio di illuminazione pubblica non è
riconducibile al servizio di mera fornitura di energia, come
chiarito dalla giurisprudenza in materia.
Risulta decisivo, al riguardo, quanto osservato dal Supremo
Consesso, secondo cui il servizio di illuminazione pubblica
non forma oggetto dell’obbligo di adesione alle Convenzioni
Consip, neppure ai sensi dell'art. 1, comma 7, del d.l. n.
95/2012, relativa alla fornitura di energia, nonché le
attività finalizzate al conseguimento del risparmio
energetico ai sensi dell’art. 153, commi 1-19, del D.Lgs. n.
163 del 2006, in quanto l’ambito applicativo della normativa
citata riguarda “esclusivamente i contratti aventi ad
oggetto la sola fornitura di energia elettrica e non quelli
(…) di concessione di lavori e servizi in cui l’oggetto è
costituito da attività complessa, con affidamento di
servizi/lavori per la gestione integrata del servizio di
illuminazione stradale, ivi compresa la progettazione ed
esecuzione degli interventi di messa a norma dell'impianto
con sostituzione dei pali e delle armature e di
ammodernamento tecnologico e funzionale dello stesso, etc.”
(si veda, da ultimo, Cons. Stato, sez. V, n. 2392/2018;
cfr., in precedenza, Cons. Stato, sez. V, n. 2194/2015;
cfr., TAR Sicilia, Palermo, sez. II, n. 1007/2006, che si
pone altresì il problema dell’applicabilità della disciplina
sui settori esclusi, poi risolto evidenziando che una cosa è
la manutenzione delle reti fisse ed altra è la produzione,
trasporto e distribuzione di energia e alimentazione delle
suddette reti).
Va inoltre ricordato, sul piano del raggiungimento
dell’obiettivo prefissato dalla previsione della spending
review in parola, che la modalità centralizzata di acquisto
della fornitura di energia mediante Convenzione Consip non è
risultata neppure in assoluto più o meno conveniente
rispetto alle condizioni spuntate da diversi Comuni, anche
di piccole dimensioni, che “sono apparsi tecnicamente
preparati per affrontare le gare fuori convenzione”,
sfruttando i margini di flessibilità per l’adeguamento ai
rapidi cambiamenti di mercato ed adeguando il servizio alle
specifiche esigenze dell’ente (Analisi degli Affidamenti in
deroga alle Convenzioni Consip di energia elettrica ed altre
forniture di materie prime combustibili, Comunicato ANAC 04.11.2015).
Comunque anche il Collegio ritiene che l’attività che si
intende affidare con la procedura in contestazione non sia
affatto riconducibile al mero servizio energia, ma rientri,
invece, tra servizi pubblici locali a rete di rilevanza
economica di cui all’art. 3-bis del D.L. 13/08/2011, n. 138
(conv. in legge n. 148/2011), per i quali la predetta
disposizione prevede criteri di organizzazione, demandando
espressamente “le funzioni di organizzazione degli stessi,
di scelta della forma di gestione, di affidamento della
gestione e relativo controllo agli enti di governo degli
ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei (….)”;
precisando che la motivazione sulla forma di affidamento
prescelta nell’apposita relazione da pubblicare sul sito
internet degli organi di governo interessati ai sensi
dell'art. 34, co. 20, DL n. 179/2012, come ricordato anche
dall’ANAC nel Comunicato del Presidente del 14.09.2016 che,
oltre a ribadire l’illegittimità dell’affidamento del
servizio a ENEL Sole, al di fuori di ogni procedura
pubblica, invita gli Enti Locali a utilizzare gli altri
strumenti disponibili, soprarichiamati, nel rispetto del
Codice e del DL 179/2012 cit.).
Ne consegue che, alla luce degli elementi sopraindicati,
vanno dissipati i dubbi della ricorrente –su cui è
incentrato il terzo motivo di ricorso che conviene esaminare
nell’ambito della trattazione del secondo motivo- sulla
correttezza della ricostruzione in termini concessori
dell’appalto di lavori e servizi in contestazione.
La ricorrente, infatti, ripropone questioni già da tempo
risolte dalla giurisprudenza, che riconosce pacificamente la
natura di servizio pubblico locale (di natura economica)
dell’illuminazione pubblica (cfr. Cons. St., sez. V, n.
8090/2004 e n. 8232/2010) e ritiene legittimo il suo
affidamento secondo il modulo della concessione tramite
project financing (quest’ultimo, peraltro, costituisce un
modello ormai consolidato che si sta sostituendo alla
vecchia prassi degli enti locali di affidare, peraltro senza
gara, detto servizio a ENEL SOLE spa -società del gruppo
ENEL dedicata all’illuminazione pubblica), al quale l’ente
locale può ricorrere tra le varie modalità alternative
possibili (assieme a appalto di lavori/servizi; ovvero
finanziamento tramite terzi) oltre alla amministrazione
diretta, inclusa l’amministrazione in economia, che
costituiscono un ventaglio di opzioni tutte possibili e
lecite (come ricordato nella stessa Comunicazione ANAC; si
veda, in giurisprudenza, TAR Emilia Romagna, Parma, n.
148/2012).
La scelta di assicurare l’espletamento del servizio pubblico
locale (a rete) in questione attraverso l’affidamento in
concessione a seguito di un'ordinaria procedura ad evidenza
pubblica, rispetto alle alternative modalità di gestione
sopraindicate, o rispetto alla possibilità di aderire alla
Convenzione Consip Servizio Luce 3, costituisce una facoltà
discrezionale del Comune, sottratta al sindacato
giurisdizionale di legittimità, salvo il caso in cui sia
manifestamente inficiata da illogicità, irrazionalità,
arbitrarietà od irragionevolezza, ovvero non sia fondata su
di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti (cfr.,
tra tante, da ultimo, TAR Veneto, sez. I, n. 811/2017) che,
però, non appaiono ravvisabili nel caso di specie.
Non convince nemmeno il richiamo al favor delle norme
vigenti per le convenzioni della Consip -anche quando la
relativa adesione non sia obbligatoria- desumibile anche
dal fatto che queste, in difetto di adesione, rilevano
comunque come parametri di prezzo-qualità fungenti da limiti
massimi per la stipulazione dei contratti, in quanto da essi
può farsi discendere, semmai, solo “una peculiare
presunzione di convenienza” delle convenzioni in parola,
alla quale “corrisponde pertanto, per le Amministrazioni,
una sorta di regola di azione” (Cons. Stato, sez. V, n.
2194/2015) che comporta solo di motivare le relative scelte,
facendole precedere da adeguata istruttoria (cfr. TAR
Sicilia, Palermo, sez. III n. 2033/2017).
Ma, appunto, come
osservato in via preliminare, è in sede di programmazione
dell’intervento che il Comune resistente ha svolto
l’attività di indagine per stabilire se convenisse o meno
procedere autonomamente all’affidamento del servizio
pubblico locale di illuminazione stradale (studio di
fattibilità del progetto per la gestione e riqualificazione
energetica degli impianti di illuminazione del territorio
comunale, da porre a base di gara, con relativi studi
economici) che ha indotto la GM ad approvare il progetto
preliminare (sulla base della relazione preliminare e
analisi economica allegata al progetto) con deliberazione
della Giunta Municipale n. 147 del 22.10.2015 –intervento
successivamente inserito nel Programma Triennale con
Delibera n. 145/2017 e validato con DD 258/2017- di cui si
dà atto nella determinazione a contrarre n. 259 del
28.12.2017, e che costituisce la motivazione della scelta
finale (cioè questa è data, principalmente, mediante rinvio,
per relationem, della determinazione predetta agli atti
preparatori sopraindicati, che contengono le valutazioni di
opportunità e convenienza della scelta di indire una gara ad
hoc di competenza degli organi di governo dell’Ente Locale).
Nella sostanza, invece, la scelta in contestazione può
essere sindacata solo nei limiti soprarichiamati del
riscontro dell’eventuale palese irragionevolezza della
decisione; ipotesi che, però, non è ravvisabile nel caso in
esame alla luce delle specifiche esigenze di manutenzione e
gestione d’esercizio della rete degli impianti di
illuminazione e semaforici rappresentate dalla Stazione
appaltante, in considerazione della vetustà, della
localizzazione e caratteristiche degli impianti stessi,
dell’incapacità tecnico-organizzativa e finanziaria
dell’Ente a provvedere altrimenti.
In sostanza la decisione
di ricorrere al modello della concessione in project financing è stata assunta per sfruttare il
know how e le
disponibilità finanziare dell’impresa aggiudicataria,
scaricando su di essa i costi per la progettazione ed
esecuzione dei complessi interventi richiesti, da questa
assunti a fronte del diritto di gestione funzionale e
sfruttamento economico delle opere realizzate.
Si tratta di
ragioni che hanno già indotto numerosi enti locali ad
avvalersi di tale possibilità anziché aderire alla
Convenzione SERVIZIO LUCE 3, anche in considerazione delle
criticità della stessa rilevate in sede di consultazione
ANCI (in particolare si fa riferimento alla rigidità dello
strumento ed alla difficoltà di prendere adeguatamente in
considerazione le esigenze delle varie realtà locali; delle
conseguenze economico-sociali, nonché degli effetti sulla
concorrenza e la possibilità di accesso al mercato per le
PMI e delle ricadute in termini di innovazione tecnologica
etc.).
Per il resto, si tratta di scelte basate su “valutazioni di
convenienza ed opportunità” che sono solo limitatamente
apprezzabili in questa sede, in cui si deve solo verificare
che l’Amministrazione non abbia superato i limiti posti dal
canone di ragionevolezza e proporzionalità; evenienza che
non pare essersi verificata, almeno allo stato degli atti e
sulla base degli elementi di valutazione evidenziati in
questa sede.
Non può, pertanto, essere seguita la prospettazione della
parte ricorrente, ove si addentra nel cuore delle
valutazioni contabili dell’operazione per dimostrarne
l’antieconomicità, rispetto alla Convenzione, in particolare
sotto il profilo del valore del canone annuale (€ 167.258,26
€/anno, per un importo complessivo della convenzione pari a:
€ 1.505.324,34); della durata più vantaggiosa (9 anni
anziché 20: secondo la ricorrente prima gli impianti tornano
nella proprietà del Comune, prima questo potrà beneficiare
di tutti i risparmi derivanti dagli interventi di messa in
efficienza che, invece, in corso della concessione sono a
beneficio del fornitore); della minore incidenza degli
investimenti (quelli per la riqualificazione energetica e
normativa degli impianti a carico del fornitore si attestano
sulla quota del 45%-50% dell’importo complessivo del canone
per circa 720.000,00 €); del tetto massimo per gli interventi
extra canone (nella convenzione Consip gli enti possono
impegnare una quota massima del 20% del complessivo a canone
per ulteriori interventi, mentre nell’appalto in
contestazione tale quota è di circa: 300.000,00 €; la quota
extracanone deve essere anticipata dal fornitore nel 1° anno
contrattuale e finanziata a tasso zero per tutti gli anni di
convenzione; per un investimento sull’impiantistica per
1.020.000,00 € la Convenzione Consip richiede un importo
annuale massimo di 200.591,59 €/anno (somma del canone
ordinario e di quello extra), mentre nell’affidamento
comunale per lo stesso sono preventivati 210.728,57 €/anno
risultato IVA esclusa.
Si tratta di rilievi di natura contabile ai quali il Comune
ha replicato eccependo innanzitutto che i servizi non sono
comparabili, attesa la maggior complessità dell’attività
oggetto di appalto (lavori e servizi complessi), che i
prezzi nemmeno sono confrontabili in quanto il prezzo di
circa 210 mila euro per annualità previsto dal Comune
costituisce solo la base d'asta (quindi non è confrontabile
con i 200 mila previsti nella Convenzione Luce 3 che invece
sono prefissati ed insuscettibili di essere abbassati, a
seguito di offerte migliorative).
Rappresenta inoltre che la
Convenzione Consip non comprende attività migliorative che
vanno pagate a parte; inoltre nel capitolato del Comune di
Monte Compatri sono previsti investimenti per 1.636.948,00
euro (per l’adeguamento normativo e l’efficientamento
energetico degli impianti nonché il miglioramento
tecnologico e della gestione degli stessi) che non
potrebbero essere coperti mediante il ricorso alla
Convenzione Consip (l’importo presupposto per l’intero
servizio richiesto valutato in euro 1.505.324,34, nell’arco
del periodo temporale dei nove anni); inoltre nel capitolato
Consip i costi di manutenzione straordinaria sono previsti
nella misura massima del 10% dell’intero appalto, che
comporta investimenti previsti per soli 150.532,43 €.
Infine
il Comune rappresenta che i prezzi per gli interventi
straordinari previsti nel disciplinare della Consip sono più
alti rispetto al prezzario regionale così come i costi
manutentivi per punto luce della convenzione sono in media
superiori del 25% a quelli del bando proposto dal Comune. In
conclusione difende il proprio operato affermando di aver
rispettato i parametri della Convenzione che “non impongono
un prezzo identico, ma un prezzo proporzionale a quanto
ottenuto dall'Ente in relazione ai benefici ottenuti”.
In ogni caso, anche a ritenere minore il prezzo previsto
dalla Consip per un servizio “standardizzato” non può essere
assunto a confronto con quello previsto per un servizio
“personalizzato”, più complesso, progettato proprio per
rispondere meglio alle esigenze dell’ente locale in parola,
per cui vi è comunque una convenienza economica per il
Comune a bandire una procedura specifica sulla base della
relazione tecnica presentata (Cons. Stato, sez. V, 28.03.2018, n. 1937).
Il Collegio osserva che le questioni di opportunità e
valutazioni di convenienza economica dell’operazione in
questione non possono essere utilmente prospettate dalla
ricorrente in questa sede di giudizio di legittimità
(semmai, avrebbero potuto essere prospettate dalla
ricorrente all’ANAC, sollecitandone il parere precontenzioso),
eventualmente rientrando –laddove comportanti fattispecie
di danno erariale- nell’ambito della giurisdizione di
responsabilità del giudice contabile.
Quanto alla durata della concessione, peraltro, va ricordato
che l’art. 168 prevede che essa debba essere proporzionata
al periodo di tempo necessario al recupero degli
investimenti e sufficientemente ampio da non scoraggiare gli
operatori ad intervenire in un settore di mercato che non
rende prevedibili prospettive di reddittività in tempi
brevi.
Come evidenziato dalla stessa CONSIP anche nel corso
delle consultazioni con gli operatori di settore, il
servizio pubblico locale di illuminazione comporta
interventi con caratteristiche tecniche complesse, su
impianti vetusti, in mancanza di risorse economiche, con
ampi margini di incertezza sulla redditività, che espone
l’operatore ad elevati rischi, e necessità di predisporre di
piani di intervento per adeguarli a nuove esigenze, etc.
Per
tale ragione la maggior parte delle amministrazioni locali
si è orientata su periodo analogo a quello della gara
oggetto di contestazione. In tale quadro di elementi, le
considerazioni della ricorrente non sono sufficienti per
considerare l’arco temporale indicato dal Comune resistente
“irragionevole”, non essendo stato dimostrato che la durata
ventennale risulta ingiustificata, tenuto conto anche delle
particolari caratteristiche del servizio locale in questione
e della specifiche condizioni tecnologiche degli impianti e
dell’impegno finanziario necessario al loro adeguamento.
Con l’ultimo motivo di censura, infine, la ricorrente
lamenta l’eccessiva brevità del termine per proporre
l’offerta stabilita dalla lex specialis. Successivamente
alla proposizione del ricorso, tuttavia, la resistente ha
disposto una proroga del termine di scadenza al 18.6.2018,
sicché è venuto meno l’interesse all’esame delle doglianze
in parola.
In conclusione, il ricorso è infondato e deve essere
respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Priva di pregio risulta la censura incentrata
sulla omissione della fase partecipativa al procedimento
(violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990), in
quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non
devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del
procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e
vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico
sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non
assentito delle medesime.
D’altro canto, anche a voler ammettere in subiecta materia
la predicabilità degli adempimenti in questione, deve
rilevarsi come, venendo in rilievo atti dovuti, le
violazioni procedimentali denunciate dequotano –secondo il
costrutto normativo di cui all’articolo 21-octies della
legge n. 241/1990– a mere irregolarità.
---------------
I provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono atti
vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione.
---------------
La realizzazione di opere in mancanza dei prescritti titoli
abilitativi, di per se stessa, fonda la reazione repressiva
dell’organo di vigilanza.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è
spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che
l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto: l’atto
può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della
stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria.
---------------
3.1.1 - Priva di pregio risulta, poi, la censura incentrata
sulla omissione della fase partecipativa al procedimento
(violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990), in
quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non
devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del
procedimento (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez.
IV 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi
di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un
mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
D’altro canto, anche a voler ammettere in subiecta
materia la predicabilità degli adempimenti in questione,
deve rilevarsi come, venendo in rilievo atti dovuti, le
violazioni procedimentali denunciate dequotano –secondo il
costrutto normativo di cui all’articolo 21-octies della
legge n. 241/1990– a mere irregolarità.
3.2 - Infondato è pure il secondo motivo relativo
alla carente motivazione dell’ingiunzione, alla luce del
consolidato orientamento giurisprudenziale a mente del quale
“i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono
atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione” (da ultimo, questa Sezione, con sent.
10/05/2018 n. 720).
3.3 - Parimenti infondata si rivela l’ulteriore censura
con cui parte ricorrente lamenta l’insufficienza del corredo
motivazionale dell’atto impugnato con particolare
riferimento alla astratta sanabilità dell’intervento.
Vale, infatti, ribadire che la realizzazione delle opere in
questione, in mancanza dei prescritti titoli abilitativi, di
per se stessa, fonda la reazione repressiva dell’organo di
vigilanza.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è
spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che
l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto: l’atto
può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della
stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria (TAR Campania-Salerno,
Sez. II,
sentenza 24.05.2018 n. 821 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’attività del Comune mira
a reprimere l’abuso complessivamente considerato ovvero
l’edificazione di un manufatto abusivo con le relative
pertinenze, da considerarsi autonoma unità immobiliare.
Nel caso di specie, stante l’evidente unitarietà funzionale
delle opere contestate, l'Amministrazione è obbligata ad
effettuare, evitando artificiose frammentazioni, una
valutazione complessiva e non atomistica dell'intervento
edilizio, giacché il pregiudizio recato al regolare assetto
del territorio deriva non dal singolo intervento ma
dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale
impatto edilizio.
---------------
6 - Anche il terzo ed ultimo ricorso per motivi
aggiunti è infondato.
6.1 - Generico si rivela il primo motivo, nel quale il
ricorrente non specifica chiaramente in cosa si sia
sostanziata la violazione delle garanzie partecipative,
tenuto conto che nell’atto si menziona il preavviso di
rigetto inoltrato, senza seguito, al ricorrente.
6.2 - Quanto all’incompetenza del funzionario, all’omessa
acquisizione del parere della Soprintendenza ed alla
rilevanza della sanabilità dei manufatti di cui
all’ingiunzione n. 69/12 si rinvia a quanto argomentato ai
precedenti punti 3.1, 3.3 e 4.2.
6.3 - Non ha, infine, pregio la doglianza secondo cui il
Comune avrebbe erroneamente applicato la medesima sanzione
(demolizione) ad opere minori non esprimenti nuova
volumetria (quali gradini di accesso all’abitazione, con
pianerottolo e sovrastante tettoia).
L’attività del Comune mira a reprimere l’abuso
complessivamente considerato ovvero l’edificazione di un
manufatto abusivo con le relative pertinenze, da
considerarsi autonoma unità immobiliare; nel caso di specie,
stante l’evidente unitarietà funzionale delle opere
contestate, l'Amministrazione è obbligata ad effettuare,
evitando artificiose frammentazioni, una valutazione
complessiva e non atomistica dell'intervento edilizio,
giacché il pregiudizio recato al regolare assetto del
territorio deriva non dal singolo intervento ma dall'insieme
delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio
(TAR Campania, Napoli, sez. VII, sent. 26/02/2018 n. 1231)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 24.05.2018 n. 821 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Imposizione di oneri economici per l’installazione di un
impianto eolico.
---------------
Energia elettrica – Fonti rinnovabili – Parchi eolici –
Installazione del Comune – Imposizione di oneri economici –
Esclusione.
Ai fini dell’installazione dei cd.
parchi eolici nel territorio comunale, il Comune non possa
imporre alcun onere a carattere meramente
economico-patrimoniale a carico del titolare dell’impianto,
in quanto solo lo Stato e le regioni possono semmai
prevedere misure compensative, mai meramente economiche, e
solo di carattere ambientale e territoriale, tenendo conto
sia delle caratteristiche precipue che delle dimensioni
dell’impianto eolico, sia del suo impatto ambientale e
territoriale (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che le cd. energie alternative rinnovabili,
inesauribili e tendenzialmente prive di immissioni nocive
nell’ambiente, tra le quali è da annoverarsi l’energia
eolica, rappresentano forme di energia “pulita” che,
per caratteristiche intrinseche, si rigenerano alla stessa
velocità con cui vengono consumate o che non sono esauribili
nella scala dei tempi umani e questo diversamente dalle cd.
energie tradizionali fossili (petrolio, gas, carbone), che
invece sono non rinnovabili, esauribili e producono
notoriamente immissioni nocive nell’ambiente, con ricadute a
cd. esternalità negativa.
Ha aggiunto che la normativa comunitaria, nazionale e
finanche regionale manifesta un evidente favor per le
fonti energetiche rinnovabili, agevolando le condizioni per
un adeguato incremento dei relativi impianti, anche al fine
di contenere, se non eliminare, la dipendenza del sistema
produttivo nazionale dai carburanti fossili, peraltro di
quasi totale importazione estera.
Sul punto, va inoltre considerato che la produzione di
energia da fonti rinnovabili è da qualificarsi come attività
libera (Tar Bari, sez. I, 08.03.2008, n. 530), soggetta ad
una procedura semplificata (art. 12, d.lgs. n. 387 del 2003
s.m.i.) di autorizzazione unica (non già di concessione),
che quindi ha la funzione di rimuove un limite legale,
previa valutazione della esistenza dei presupposti previsti
dalla legge, all’esercizio dell’attività di costruzione ed
esercizio degli impianti di produzione di energia
rinnovabile.
La competenza ad emanare detta autorizzazione unica è
affidata alle Regioni, che vi provvedono attraverso lo
strumento della conferenza di servizi, appositamente
prevista dalla legislazione speciale ambientale (d.lgs. n.
387 del 2003). Sul punto, la conferenza di servizi coinvolge
tutte le amministrazioni e gli enti portatori di interessi
pubblici correlati alla realizzazione degli impianti di
energia.
L’autorizzazione unica alla costruzione ed all’esercizio di
impianti di produzione di energia rinnovabile, in base alla
disciplina tracciata dal d.lgs. n. 387 del 2003, non è
subordinata al pagamento di alcun corrispettivo, canone, o
altro emolumento, o peso economico, salvo le imposte in
materia previste dalla legislazione fiscale
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 24.05.2018 n. 737
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incandidabilità alle elezioni amministrative se c’è stata
sentenza di condanna patteggiata.
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Elezioni – Incandidabilità - Sentenza di condanna
patteggiata – E’ motivo di incandidabilità.
Ai sensi dell’art. 12, comma 3, del
D.Lgs. n. 235 del 2012 l’unica causa di estinzione della
condizione di incandidabilità dovuta a reati commessi è la
sentenza di riabilitazione; ad essa non può essere
equiparata la causa di estinzione del reato di cui all’art.
445, ultimo comma, c.p.p., giacché è correlata alla
condizione oggettiva del mero decorso del tempo, mentre la
riabilitazione è preceduta da una valutazione del giudice in
ordine al ravvedimento del reo che abbia dato prove
effettive e costanti di buona condotta (1)
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(1)
In termini v.
Cons. St., sez. III, 22.05.2018, n. 3067.
Ha chiarito il Tar che le due figure della riabilitazione e
dell’estinzione del reato e degli effetti penali possono
ritenersi equivalenti sotto il profilo sostanziale, dal
momento che l’estinzione del reato e degli effetti penali
della condanna di cui all’art. 445 c.p.p. discende dal mero
decorso del tempo ove il condannato non commetta altro reato
della stessa indole nel termine di cinque anni, mentre nel
caso della riabilitazione l’effetto estintivo si verifica
solo se il condannato ha dato prove effettive e costanti di
buona condotta, rilevando il profilo soggettivo rilevato
ex post dal giudice.
Ai fini della riabilitazione non è, difatti, sufficiente la
mancata commissione di altri reati, come nel caso
dell’estinzione conseguente al patteggiamento ai sensi
dell’art. 445 c.p.p., ma occorre l’accertamento del “completo
ravvedimento dispiegato nel tempo e mantenuto sino al
momento della decisione, e tradotto anche nella eliminazione
(ove possibile) delle conseguenze civili del reato”
(Cass. pen., sez. I, 18.06.2009, n. 31089).
Mentre, infatti, l’estinzione della pena patteggiata si
produce con il solo mancato avveramento della condizione
risolutiva nel previsto arco temporale, la riabilitazione
viene pronunziata all’esito di un effettivo approdo
rieducativo del reo, così emergendo la diversità degli
istituti dell'estinzione del reato e della riabilitazione
per presupposti e modalità di funzionamento atteso che:
l'estinzione del reato è istituto che si fonda, ai sensi
dell'art. 167, comma 1, c.p., sul decorso dei termini
stabiliti unitamente ad ulteriori elementi (il condannato
non commetta entro tali termini un delitto, ovvero una
contravvenzione della stessa indole, e adempia gli obblighi
impostigli); la riabilitazione è un beneficio che può essere
concesso solo a seguito di una pronuncia del Tribunale di
sorveglianza con cui si riscontri che è decorso il termine
fissato dalla legge “ dal giorno in cui la pena
principale è stata eseguita o si è in altro modo estinta, e
il condannato ha dato prove effettive e costanti di buona
condotta ” ex art. 179, comma 1, c.p. (Cons.
St., sez. V, 31.01.2017, n. 386).
La Corte di Cassazione ha difatti riconosciuto al
condannato, la cui pena sia stata medio tempore estinta ex
art. 445, comma 2, c.p.c., l’interesse a chiedere la
riabilitazione, in quanto correlato ad una completa
valutazione post factum, non irrilevante sul piano dei
diritti della persona (Cass. pen., sez. I, 18.06.2009, n.
31089).
Ne consegue che sebbene entrambi gli istituti –della
riabilitazione e dell’estinzione della pena patteggiata-
assicurino al condannato la cessazione degli effetti penali
della condanna, non possono ritenersi sovrapponibili ed
equiparabili, in quanto solo con la riabilitazione si
acquista la certezza dell’effettiva rieducazione del reo,
poiché l’estinzione ex art. 445 c.p.p. deriva dal solo dato
fattuale del mero decorso del tempo
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 24.05.2018 n. 278
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Così dato atto dell’oggetto del ricorso, incentrato sulla
affermata parificazione, agli effetti del venir meno delle
cause di incandidabilità, della riabilitazione e
dell’estinzione del reato di cui all’art. 445 c.p.p., ne
rileva il Collegio l’infondatezza.
La materia della incandidabilità per le cariche elettive è
attualmente disciplinata dal D.lgs. n. 235 del 2012 il quale
nel disporre, all’art. 15, che l’incandidabilità opera anche
nel caso di sentenza definitiva che disponga l’applicazione
della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p.,
prevede, al comma 3, che “la sentenza di riabilitazione,
ai sensi dell’art. 178 e seguenti del codice penale, è
l’unica causa di estinzione anticipata dell’incandidabilità”.
Stante il chiaro tenore della norma, inserita in un testo
normativo recante il testo unico in materia di
incandidabilità, non può aversi estinzione della situazione
di incandidabilità al di fuori dei casi in cui sia
intervenuta una sentenza di riabilitazione, adottata ai
sensi degli artt. 178 e seguenti c.p.p., non potendo
conseguentemente essere equiparate alla riabilitazione –agli specifici fini della estinzione della incandidabilità–
diverse ipotesi in cui si verifichi l’estinzione del reato o
degli effetti penali della condanna, come avviene nei casi
di estinzione del reato e dei relativi effetti ai sensi
dell’art. 445 c.p.p..
In tale direzione depone, invero, l’espressione ‘unica’
riferita alla riabilitazione come causa di estinzione della
situazione di incandidabilità.
Né le due figure della riabilitazione e dell’estinzione del
reato e degli effetti penali possono ritenersi equivalenti
sotto il profilo sostanziale, dal momento che l’estinzione
del reato e degli effetti penali della condanna di cui
all’art. 445 c.p.p. discende dal mero decorso del tempo ove
il condannato non commetta altro reato della stessa indole
nel termine di cinque anni, mentre nel caso della
riabilitazione l’effetto estintivo si verifica solo se il
condannato ha dato prove effettive e costanti di buona
condotta, rilevando il profilo soggettivo rilevato ex post
dal giudice.
Ai fini della riabilitazione non è, difatti, sufficiente la
mancata commissione di altri reati, come nel caso
dell’estinzione conseguente al patteggiamento ai sensi
dell’art. 445 c.p.p., ma occorre l’accertamento del
“completo ravvedimento dispiegato nel tempo e mantenuto sino
al momento della decisione, e tradotto anche nella
eliminazione (ove possibile) delle conseguenze civili del
reato” (Cassazione Penale, Sezione I, 18.06.2009, n.
31089).
Mentre, infatti, l’estinzione della pena patteggiata si
produce con il solo mancato avveramento della condizione
risolutiva nel previsto arco temporale, la riabilitazione
viene pronunziata all’esito di un effettivo approdo
rieducativo del reo, così emergendo la diversità degli
istituti dell'estinzione del reato e della riabilitazione
per presupposti e modalità di funzionamento atteso che:
l'estinzione del reato è istituto che si fonda, ai sensi
dell'art. 167 comma 1 c.p., sul decorso dei termini
stabiliti unitamente ad ulteriori elementi (il condannato
non commetta entro tali termini un delitto, ovvero una
contravvenzione della stessa indole, e adempia gli obblighi
impostigli); la riabilitazione è un beneficio che può essere
concesso solo a seguito di una pronuncia del Tribunale di
sorveglianza con cui si riscontri che è decorso il termine
fissato dalla legge “dal giorno in cui la pena principale è
stata eseguita o si è in altro modo estinta, e il condannato
ha dato prove effettive e costanti di buona condotta” ex
art. 179, comma 1, c.p. (Consiglio di Stato, sez. V, 31.01.2017, n. 386).
La Corte di Cassazione ha difatti riconosciuto al
condannato, la cui pena sia stata medio tempore estinta ex
art. 445 c. 2 c.p.a., l’interesse a chiedere la
riabilitazione, in quanto correlato ad una completa
valutazione post factum, non irrilevante sul piano dei
diritti della persona (ex plurimis: Cass. Pen. Sez. I, 18.06.2009, n. 31089 citata).
Ne consegue che sebbene entrambi gli istituti –della
riabilitazione e dell’estinzione della pena patteggiata-
assicurino al condannato la cessazione degli effetti penali
della condanna, non possono ritenersi sovrapponibili ed
equiparabili, in quanto solo con la riabilitazione si
acquista la certezza dell’effettiva rieducazione del reo,
poiché l’estinzione ex art. 445 c.p.p. deriva dal solo dato
fattuale del mero decorso del tempo.
Dalle differenze sostanziali tra i due istituti emerge la
ratio della scelta rigorosa del Legislatore il quale,
nell’ambito della propria discrezionalità, non ha ritenuto –nel dettare la norma di cui all’art. 15, comma 3, del d.lgs.
n. 235 del 2012– di dover ancorare la cessazione della
situazione di incandidabilità al venir meno degli effetti
penali della condanna, richiedendo invece espressamente la
prova dell’effettiva rieducazione del reo, come attestata
attraverso la sentenza di riabilitazione, quale elemento
indefettibile per il riacquisto dei requisiti di onorabilità
richiesti dall’art. 54, comma 2, della Costituzione, per
l’accesso alle funzioni pubbliche, ben potendo il
Legislatore, nel disciplinare i requisiti per l'accesso e il
mantenimento delle cariche elettive, ricercare un
bilanciamento tra gli interessi in gioco, ossia tra il
diritto di elettorato passivo, da un lato, e il buon
andamento e l'imparzialità dell'amministrazione (Corte
Costituzionale, 19.11.2015, n. 236).
Deve, inoltre, precisarsi –a fini di completezza nella
ricostruzione del quadro normativo applicabile- che in
ragione della data 10.04.2007 in cui è divenuta irrevocabile
la sentenza di condanna del ricorrente con pena patteggiata
per uno dei reati in materia di sostanze stupefacenti o
psicotrope di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1999,
trova applicazione l’art. 16 del D.Lgs. n. 235 del 2012, ai
sensi del cui comma 1 è prevista l’incandidabilità alle
elezioni, se già rinvenibile nella disciplina previgente,
per le sentenze di patteggiamento ex art. 444 c.p.p.
pronunciate successivamente alla data della sua entrata in
vigore, da cui consegue che può essere candidato in
un'elezione solo chi ha patteggiato una condanna penale
prima dell'entrata in vigore della normativa sui requisiti
morali per l'accesso alle cariche amministrative e
politiche, e ciò in base alla ricostruzione del quadro
normativo stratificatosi nel tempo.
Difatti, la normativa precedente, individuata nell’art. 15
della legge n. 55 del 1990, come modificato dall’art. 1,
comma 2, della legge 13.12.1999 n. 475, prevedeva, al
comma 1-bis, l’equiparazione, agli effetti della disciplina
ivi prevista, delle sentenze ex art. 444 c.p.p. alle
sentenze di condanna, contemplando quale causa di
incandidabilità i reati di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309
del 1990.
Inoltre, il comma 3, del citato art. 1 della legge n. 475
del 1999 –la cui vigenza è stata fatta salva dal d.lgs. n.
267 del 2000 che ha abrogato la legge n. 375 del 1999 ad
eccezione proprio dell'art. 1, comma 3- al fine di regolare
gli effetti temporali della predetta equiparazione, ha
espressamente previsto che “la disposizione del comma 1-bis
dell’art. 15 della legge 19.03.1990 n. 55, introdotto dal
comma 2 del presente articolo, si applica alle sentenze
previste dall’articolo 444 del codice di procedura penale
pronunciate successivamente alla data di entrata in vigore
della presente legge” (01.01.2000).
Sotto il profilo della ricostruzione del quadro normativo,
deve ancora rilevarsi che l’art. 58 del d.lgs. n. 267 del
2000 –poi abrogato con il D.lgs. n. 235 del 2012– prevede
anch’esso la incandidabilità nei casi di condanne per i
reati di cui all'art. 73 del testo unico approvato con
d.P.R. 09.10.990, n. 309, emergendo quindi una
continuità normativa nella previsione della incandidabilità
per siffatta tipologia di reati perseguiti con sentenze di
patteggiamento.
Né può assumere rilievo la distinzione –invocata da parte
ricorrente soprattutto nella discussione orale– tra le
diverse ipotesi incriminatorie previste dall’art. 73 del
D.P.R. n. 309 del 1990, cui l’art. 10, comma 1, lettera a),
del d.lgs. n. 235 del 2012 ricollega l’incandidabilità alle
elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali.
Come già rilevato dalla giurisprudenza amministrativa
(Consiglio di Stato, Sezione III, 19.05.2016, n. 2103),
la circostanza che il citato art. 10, nell’operare il
richiamo all’art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, ne riassume
solo in parte il contenuto, non consente una lettura
restrittiva dell’ambito di operatività delle cause di incandidabilità, trattandosi di una mera indicazione
esemplificativa non idonea a limitare il richiamo alle sole
parti dell’art. 73 indicate ed a legittimare una lettura
riduttiva della norma basata sul livello di gravità delle
diverse fattispecie di reato, non emergendo dal tenore di
tale norma alcuna volontà del Legislatore di operare
siffatta distinzione.
In applicazione delle illustrate coordinate ermeneutiche,
assume quindi carattere dirimente la circostanza che, nella
fattispecie in esame, viene in rilievo una condanna ex art.
444 c.p.p. adottata nel 2007, ovvero allorquando era già
operante l'equiparazione delle sentenze di patteggiamento a
quelle di condanna sulla base della previsione di cui
all’art. 15 della legge n. 55 del 1990, poi modificato
dall’art. 1, comma 2, della legge 13.12.1999 n. 475,
che prevedeva l’equiparazione, ai fini della incandidabilità,
delle sentenze ex art. 444 c.p.p. alle sentenze di condanna,
tenuto conto degli effetti intertemporali regolati dal comma
3 dell’art. 1 della legge n. 475 del 1999, sopra citato, e
della norma di cui all’art. 58 del d.lgs. n. 267 del 2000.
Le considerazioni sopra illustrate conducono,
conseguentemente, al rigetto del ricorso. |
EDILIZIA PRIVATA:
Sospensione condizionale della pena subordinata
alla demolizione dell’abuso edilizio - Natura di
provvedimento accessorio alla condanna - Motivazione
implicita - Artt. 29, 44, lett. e), 93, 94, 95 d.PR 380/2001
e 181 d.lgs. 42/2004.
In caso di sospensione condizionale della pena subordinata
alla demolizione dell’abuso edilizio, l'obbligo di specifica
motivazione deve essere espressamente escluso, ricordando
come detta motivazione debba ritenersi implicita nella
stessa emanazione dell'ordine di demolizione contenuto nella
sentenza.
Detto ordine ha natura di provvedimento accessorio alla
condanna ed è emesso sulla base dell'accertamento della
persistente offensività dell'opera nei confronti
dell'interesse tutelato, con la conseguenza che, quando il
giudice del merito subordina la concessione della
sospensione condizionale della pena alla demolizione
dell'opera abusiva, egli non fa altro che rafforzare il
contenuto della statuizione accessoria, esaltando
contemporaneamente la funzione sottesa alla ratio
dell'articolo 165 del codice penale finalizzata
all'eliminazione delle conseguenze dannose del reato,
persistenti nel caso di ostinata inottemperanza
all'esecuzione dell'ordine di demolizione, circostanza che
rende perciò il condannato immeritevole della sospensione
condizionale della pena (Cass. Sez. 7, n. 9847 del
25/11/2016 (dep.2017), Palma; Conf. Sez. 3 n. 7283 del
09/02/2018, Mistretta).
Pertanto, in caso di subordinazione della sospensione
condizionale alla demolizione delle opere abusive, sussiste
la possibilità di motivazione implicita richiamando la
necessità di una giustificazione da effettuarsi "alla
luce del giudizio prognostico di cui all'art. 164, cod. pen.
che deve "coniugarsi con la funzione special-preventiva
dell'istituto" (Cass. sentenza 17729/2016).
Demolizione dell'opera abusiva - Subordine della
concessione della sospensione condizionale della pena -
Gravità del reato e capacità a delinquere dell’imputato -
Criteri specificati dall’art. 133 cod. pen..
In materia urbanistica, il giudice può subordinare la
concessione della sospensione condizionale della pena alla
demolizione dell'opera abusiva, in questi casi la
motivazione oltre a poter essere implicitamente espressa,
può anche ricavarsi aliunde nella complessiva
motivazione della sentenza, laddove questi abbia comunque
espresso un giudizio di gravità del reato e di capacità a
delinquere dell’imputato desunta attraverso i criteri
specificati dall’art. 133 cod. pen. che l’art. 164 cod. pen.
richiama (Corte d Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.05.2018 n. 23189 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Norme sull'attività urbanistico-edilizia -
Titolare del permesso di costruire, committente e
proprietario dell'area - Diverse qualificazioni - Soggetti
responsabili - Disponibilità di indizi e presunzioni gravi -
Disponibilità giuridica e di fatto della superficie
edificata e dell'interesse specifico - Opere realizzate da
terzi - Onere della prova - Disconoscimento del concorso del
proprietario del terreno non committente - Presupposti -
Giurisprudenza.
Tra i soggetti responsabili ai fini e per gli effetti delle
norme sull'attività urbanistico-edilizia contemplati
dall'articolo 29 del TU, quelle del titolare del permesso di
costruire, del committente e del proprietario dell'area
possono, in alcuni casi, essere in tutto o in parte
sovrapponibili, nel senso che le diverse qualificazioni di
titolare del permesso, committente e proprietario dell'area
edificata abusivamente possono riguardare la stessa persona.
Sicché, la disponibilità di indizi e presunzioni gravi,
precise e concordanti è richiesta con riferimento al
proprietario (o comproprietario) dell'area non formalmente
committente e tali indizi sono stati individuati, ad
esempio, nella piena disponibilità, giuridica e di fatto,
della superficie edificata e dell'interesse specifico ad
effettuare la nuova costruzione (principio del "cui
prodest"); nei rapporti di parentela o di affinità tra
l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario,
nell'eventuale presenza "in loco" del proprietario
dell'area durante l'effettuazione dei lavori; nello
svolgimento di attività di materiale vigilanza
sull'esecuzione dei lavori; nella richiesta di provvedimenti
abilitativi anche in sanatoria; nel particolare regime
patrimoniale fra coniugi o comproprietari; nella fruizione
dell'opera secondo le norme civilistiche dell'accessione ed
in tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o
negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della
colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale,
all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la
destinazione finale della stessa.
Grava inoltre sull'interessato l'onere di allegare
circostanze utili a convalidare la tesi che, nella specie,
si tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e
senza la sua volontà.
Inoltre, ai fini del disconoscimento del concorso del
proprietario del terreno non committente dei lavori nel
reato urbanistico occorre escludere l'interesse o il suo
consenso alla commissione dell'abuso edilizio, ovvero
dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di
impedirne l'esecuzione (Sez. 3, n. 33540 del 19/06/2012,
Grilli) (Corte d Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.05.2018 n. 23189 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di difformità totale dal titolo edilizio
- Opere non rientranti tra quelle consentite o mutamento
della destinazione d'uso di un immobile o di parte di esso -
Riferimento alla "autonoma utilizzabilità" - Artt. 2, 31,
44, lett. b) d.P.R. 380/2001.
La difformità totale si verifica allorché si costruisca "aliud
pro alio"' e ciò è riscontrabile allorché i lavori
eseguiti tendano a realizzare opere non rientranti tra
quelle consentite, che abbiano una loro autonomia e novità,
oltre che sul piano costruttivo, anche su quello della
valutazione economico-sociale.
Inoltre, difformità totale può aversi anche nel caso di
mutamento della destinazione d'uso di un immobile o di parte
di esso, realizzato attraverso opere implicanti una totale
modificazione rispetto al previsto.
Il riferimento alla "autonoma utilizzabilità" non
impone che il corpo difforme sia fisicamente separato
dall'organismo edilizio complessivamente autorizzato, ma ben
può riguardare anche opere realizzate con una difformità
quantitativa tale da acquistare una sostanziale autonomia
rispetto al progetto approvato.
Nozione di organismo edilizio e
difformità totale - Unità immobiliare e pluralità di
porzioni volumetriche - Aumento del c.d. "carico
urbanistico".
In materia urbanistica, l'espressione "organismo edilizio"
indica sia una sola unità immobiliare, sia una pluralità di
porzioni volumetriche e la difformità totale può
riconnettersi tanto alla costruzione di un corpo autonomo,
quanto all'effettuazione di modificazioni con opere, anche
soltanto interne, tali da comportare un intervento che abbia
rilevanza urbanistica in quanto incidente sull'assetto del
territorio attraverso l'aumento del c.d. "carico
urbanistico" (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.05.2018 n. 23186 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di pergolato - Assenza dei necessari
titoli abilitativi - Zona sismica e soggetta a vincolo
paesaggistico - Intervento edilizio eseguito in assenza dei
necessari titoli abilitativi - Artt. 44, lett. e), 93, 95
d.P.R. n. 380/2001 e 181, c. 1-bis d.lgs. n. 42/2004.
Si intende per pergolato una struttura aperta sia nei lati
esterni che nella parte superiore, realizzata con materiali
leggeri, senza fondazioni, di modeste dimensioni e di facile
rimozione, la cui finalità è quella di creare ombra mediante
piante rampicanti o teli cui offrono sostegno.
Fattispecie: frazionamento in due appartamenti indipendenti
di un fabbricato, la realizzazione di più manufatti
(pensiline, deposito, ripostiglio, pollaio, pergolato,
baracca) e la sistemazione della corte esterna previa
pavimentazione in ceramica.
Nozione e differenze tra "pergolato",
"tettoia" e "pensilina" - Titoli abilitativi - Natura
precaria o pertinenziale dell'intervento - Casi di
esclusione - Giurisprudenza (amministrativa e di merito).
La diversità strutturale delle due opere (pergolato e
tettoia) è rilevabile dal fatto che, mentre il pergolato
costituisce una struttura aperta sia nei lati esterni che
nella parte superiore ed è destinato a creare ombra, la
tettoia può essere utilizzata anche come riparo ed aumenta
l'abitabilità dell'immobile (Cass. Sez. 3, n. 19973 del
16/04/2008, Lus; Conf. Sez. 3, n. 10534 del 25/02/2009,
Accongiagioco).
Tali definizioni sono state peraltro ribadite prendendo in
considerazione le nozioni di "tettoia" e "pensilina",
rilevandone la sostanziale identità ricavabile dalle
medesime finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli
agenti atmosferici e riconoscendo la necessità del permesso
di costruire nei casi in cui sia da escludere la natura
precaria o pertinenziale dell'intervento (Cass. Sez. F, n.
33267 del 15/07/2011, De Paola).
Anche la giurisprudenza amministrativa si è, in più
occasioni, interrogata sulla nozione di "pergolato".
Il Consiglio di Stato, in particolare, dando atto
dell'assenza di una definizione normativa, ha affermato che
tale opera si caratterizza come manufatto avente natura
ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o
altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in
quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante
rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o
ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni (Cons.
Stato Sez. 4, n. 5409 del 29/09/2011. Conf. Consiglio di
Stato, Sez. 6, n. 2134 del 27/04/2015. V. anche Cons. di
Stato, Sez. 6, n. 306 del 25/01/2017).
Considerando tali caratteristiche, ha pure escluso che possa
rientrare nella nozione di "pergolato" una struttura
realizzata mediante pilastri e travi in legno di
significative dimensioni, tali da renderla solida e robusta
facendone presumere una permanenza prolungata nel tempo
(Cons. Stato Sez. 4, n. 4793 del 02/10/2008), diversamente
da quanto ritenuto riguardo ad un manufatto precario,
facilmente rimovibile, costituito da una intelaiatura in
legno non infissa al pavimento né alla parete dell'immobile
(cui è solo addossata), non chiusa in alcun lato, compreso
quello di copertura (Cons. Stato Sez. 5, n. 6193 del
7/11/2005).
E' stata altresì posta in evidenza anche la differenza tra "pergolato"
e "tettoia", in termini analoghi a quelli indicati
dalla giurisprudenza di questa Corte, facendo ricorso al
linguaggio comune ed evidenziando che la tettoia si
caratterizza come struttura pensile, addossata al muro o
interamente sorretta da pilastri, di possibile maggiore
consistenza e impatto visivo rispetto al pergolato, il quale
è normalmente costituito da una serie parallela di pali
collegati da un'intelaiatura leggera, idonea a sostenere
piante rampicanti o a costituire struttura ombreggiante,
senza chiusure laterali (Cons. Stato Sez. 6, n. 825, del
18/02/2015) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.05.2018 n. 23183 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Suddivisione dell'attività edificatoria finale -
Regime dei titoli abilitativi edilizi - Interventi su
preesistente opera abusiva - Complesso e valore unitario
delle opere.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere
eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria
finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla,
astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo
più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto
territoriale. L'opera deve essere infatti apprezzata
unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito
scindere e considerare separatamente i suoi singoli
componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su
preesistente opera abusiva (Sez. 3, n. 30147 del 19/04/2017,
Tomasulo; Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Pmt in proc.
Casciato; Sez. 3, n. 15442 del 26/11/2014 (dep. 2015),
Prevosto e altri; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011 (dep.2012),
Forte; Sez. 3 n. 34585 del 22/4/2010, Tulipani, non
massimata; Sez. 3, n. 20363 del 16/03/2010, Marrella; Sez.
3, n. 4048 del 06/11/2002 (dep. 2003), Tucci).
Pertanto, se può, in astratto, ritenersi suscettibile di
valutazione una situazione riferita ad interventi aventi una
loro individualità, tra loro del tutto autonomi ed eseguiti
in tempi diversi, tale possibilità deve invece
immediatamente escludersi quando riferita ad un insieme di
opere, realizzate anche in tempi diversi, le quali pur non
essendo parte integrante o costitutiva di un altro
fabbricato, costituiscano, di fatto, un complesso unitario
rispetto al quale ciascuna componente contribuisce a
realizzarne la destinazione (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 23.05.2018 n. 23183 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il concetto di variazione essenziale, che attiene alla
modalità di esecuzione delle opere, va distinto dalle
"varianti" che invece riguardano la richiesta di una
variazione del titolo autorizzativo (art. 22, comma 2, del
TUE).
Mentre le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni
qualitative o quantitative di non rilevante consistenza
rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un
sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato
rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al
rilascio di permesso in variante, complementare ed
accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa
operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le
varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate da
incompatibilità quali-quantitativa con il progetto
edificatorio originario rispetto ai parametri indicati
dall'art. 32 del d. P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al
rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo
rispetto a quello originario e per il quale valgono le
disposizioni vigenti al momento di realizzazione della
variante.
In particolare, gli elementi da prendere in considerazione
al fine di ritenere la sussistenza di una variante
essenziale sono le modifiche di rilievo apportate
all'originario progetto e relative alla superficie coperta,
al perimetro, al numero dei piani, alla volumetria, alla
distanza dalle proprietà limitrofe, nonché alle
caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed
esterne, del fabbricato.
---------------
Integra nuovo permesso e non mera variante l’autorizzazione
di modifiche consistenti nella diminuzione della volumetria
distribuita su maggior superficie e nella diminuzione
dell’altezza oltreché nella variazione delle caratteristiche
esterne del fabbricato.
Nel caso in esame il progetto in variante prevede il
“ridimensionamento” della capacità volumetrica del lotto e
il “ridimensionamento" del fabbricato sia in termini di
superficie sia in termini di cubatura rispetto al PDC
originario.
Tali modifiche, dunque, hanno comportato una diversa sagoma,
diversa volumetria, diversa altezza, diversa area di sedime,
diversa sistemazione degli spazi esterni e quindi la
realizzazione di un quid novi rispetto all'edificio
originariamente assentito.
Ne consegue che, trattandosi di varianti essenziali,
caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il
progetto edificatorio originario, sono soggette al rilascio
di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto
a quello originario e per il quale valgono le disposizioni
vigenti al momento di realizzazione della variante.
---------------
La censura è fondata.
Indici ermeneutici sulla nozione di variante essenziale
possono trarsi innanzitutto dall’art. 32 DPR 380/2001.
La determinazione dei casi di variazione essenziale,
infatti, è affidata alle regioni nel rispetto di alcuni
criteri di massima.
In particolare, ai sensi dell'art. 32,
comma 1, del TUE, sussiste variazione essenziale
esclusivamente in presenza di una o più delle seguenti
condizioni: a) mutamento di destinazione d'uso che implichi
variazione degli standards previsti dal D.M. 02.04.1968;
b) aumento consistente della cubatura o della superficie di
solaio da valutare in relazione al progetto approvato; c)
modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del
progetto approvato, ovvero della localizzazione
dell'edificio sull'area di pertinenza; d) il mutamento delle
caratteristiche dell'intervento edilizio assentite; e) la
violazione della normativa edilizia antisismica.
Il concetto di variazione essenziale, che attiene alla
modalità di esecuzione delle opere, va distinto dalle
"varianti" che invece riguardano la richiesta di una
variazione del titolo autorizzativo (art. 22, comma 2, del
TUE).
Mentre le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni
qualitative o quantitative di non rilevante consistenza
rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un
sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato
rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al
rilascio di permesso in variante, complementare ed
accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa
operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le
varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate da
incompatibilità quali-quantitativa con il progetto
edificatorio originario rispetto ai parametri indicati
dall'art. 32 del d. P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al
rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo
rispetto a quello originario e per il quale valgono le
disposizioni vigenti al momento di realizzazione della
variante (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. VI,
30/03/2017, n. 1484; TAR Catania, (Sicilia), sez. II,
11/10/2016, n. 2545; TAR Catanzaro, (Calabria), sez. II,
01/02/2016, (ud. 13/01/2016, dep.01/02/2016), n. 150).
In particolare, gli elementi da prendere in considerazione
al fine di ritenere la sussistenza di una variante
essenziale sono le modifiche di rilievo apportate
all'originario progetto e relative alla superficie coperta,
al perimetro, al numero dei piani, alla volumetria, alla
distanza dalle proprietà limitrofe, nonché alle
caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed
esterne, del fabbricato.
Ciò premesso, il Collegio ritiene integra nuovo permesso e
non mera variante l’autorizzazione di modifiche consistenti
nella diminuzione della volumetria distribuita su maggior
superficie e nella diminuzione dell’altezza oltreché nella
variazione delle caratteristiche esterne del fabbricato
(Cons. Stato, 07.05.1991 n. 772).
Nel caso in esame il progetto in variante prevede il
“ridimensionamento” della capacità volumetrica del lotto e
il “ridimensionamento" del fabbricato sia in termini di
superficie sia in termini di cubatura rispetto al PDC
originario.
Tali modifiche, dunque, hanno comportato una diversa sagoma,
diversa volumetria, diversa altezza, diversa area di sedime,
diversa sistemazione degli spazi esterni e quindi la
realizzazione di un quid novi rispetto all'edificio
originariamente assentito.
Ne consegue che, trattandosi di varianti essenziali,
caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il
progetto edificatorio originario, sono soggette al rilascio
di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto
a quello originario e per il quale valgono le disposizioni
vigenti al momento di realizzazione della variante.
Il Comune, dunque, avrebbe dovuto procedere ad una
rinnovazione dell’istruttoria sulla scorta delle
disposizioni urbanistiche e tecnico-edilizie vigenti
all’epoca di realizzazione della variante.
La natura assorbente del motivo accolto si ritiene che possa
esimere il Collegio dallo scrutinare gli altri motivi di
gravame fatto salvo il secondo (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 22.05.2018 n. 1082 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell’acquisizione gratuita dell’immobile
abusivo:
- la regola generale prevede che la sanzione amministrativa
sia applicata al responsabile dell’abuso edilizio
contestato, mentre il proprietario, non autore dell’abuso e
non committente delle opere, può ritenersi corresponsabile
solo ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella
realizzazione dell’abuso edilizio stesso, considerato che
egli non è nella condizione di avere la materiale detenzione
del bene;
- nondimeno, ricade sul proprietario l’onere di attivarsi
per il ripristino della situazione originaria dei luoghi una
volta venuto a conoscenza dell’abuso;
- ne consegue che ai fini dell’esenzione del proprietario
dalla responsabilità dell’abuso, si richiede la prova di
iniziative dimostrative di un comportamento attivo, da
esprimere in diffide o altre iniziative di carattere
ultimativo, anche sul piano della risoluzione contrattuale,
nei confronti del conduttore (o detentore ad altro titolo)
autore dell’illecito edilizio;
- al contrario, un comportamento passivo di adesione alle
iniziative comunali, con mere dichiarazioni o affermazioni
solo di dissociazione o manifestazioni di intenti, senza
alcuna attività materiale o almeno giuridica di attivazione
diretta ad eliminare l’abuso (come ad es., risoluzione
giudiziaria per inadempimento, diffida ad eliminare l’abuso,
attività di ripristino, a maggior ragione se l’ordine non
viene contestato), non sono sufficienti a dimostrare
l’estraneità del proprietario.
---------------
La sanzione della perdita della proprietà per inottemperanza
all’ordine di remissione in pristino, pur se definita come
una conseguenza di diritto dall’art. 31, comma 3, del d.P.R.
n. 380 cit., richiede, in ogni caso, un provvedimento
amministrativo che definisca l’oggetto dell’acquisizione al
patrimonio comunale attraverso la quantificazione e la
perimetrazione dell’area sottratta al privato.
Inoltre, all’acquisizione gratuita al patrimonio comunale
segue un ulteriore sub-procedimento, in cui la P.A. effettua
la valutazione discrezionale tra la scelta di procedere alla
demolizione, a spese del responsabile, delle opere
abusivamente costruite sull’area acquisita, e quella di
conservarle, previa deliberazione consiliare, in presenza di
prevalenti interessi pubblici.
---------------
Secondo un orientamento più rigoroso l’acquisizione del bene
al patrimonio pubblico farebbe venir meno la legittimazione
a proporre l’istanza di definizione dell’illecito edilizio.
La giurisprudenza prevalente ritiene, invece, che
l’acquisizione gratuita al patrimonio del Comune di un
manufatto abusivo determini una situazione inconciliabile
con la sanatoria soltanto quando all’immissione nel possesso
sia seguita una delle due ipotesi previste dall’art.
43 della l. n. 47/1985 cioè la demolizione dell’immobile
abusivo, o la sua utilizzazione a fini pubblici: ciò, perché
ai sensi dell’art. 43 cit., il condono non è precluso dal
provvedimento di acquisizione dell’immobile abusivo al
patrimonio del Comune, né dall’avvenuta trascrizione del
provvedimento sanzionatorio e neppure dalla presa di
possesso del bene, senza modificazioni della sua consistenza
e destinazione, da parte del Comune.
---------------
Sul punto si richiama l’insegnamento della giurisprudenza
consolidata (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 11.01.2018, n. 147; id.,
07.08.2015, n. 3897; id., 04.05.2015, n. 2211; id., Sez. V, 11.07.2014, n. 3565) secondo
cui, ai fini dell’acquisizione gratuita dell’immobile:
- la regola generale prevede che la sanzione amministrativa
sia applicata al responsabile dell’abuso edilizio
contestato, mentre il proprietario, non autore dell’abuso e
non committente delle opere, può ritenersi corresponsabile
solo ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella
realizzazione dell’abuso edilizio stesso, considerato che
egli non è nella condizione di avere la materiale detenzione
del bene;
- nondimeno, ricade sul proprietario l’onere di attivarsi
per il ripristino della situazione originaria dei luoghi una
volta venuto a conoscenza dell’abuso;
- ne consegue che ai fini dell’esenzione del proprietario
dalla responsabilità dell’abuso, si richiede la prova di
iniziative dimostrative di un comportamento attivo, da
esprimere in diffide o altre iniziative di carattere
ultimativo, anche sul piano della risoluzione contrattuale,
nei confronti del conduttore (o detentore ad altro titolo)
autore dell’illecito edilizio;
- al contrario, un comportamento passivo di adesione alle
iniziative comunali, con mere dichiarazioni o affermazioni
solo di dissociazione o manifestazioni di intenti, senza
alcuna attività materiale o almeno giuridica di attivazione
diretta ad eliminare l’abuso (come ad es., risoluzione
giudiziaria per inadempimento, diffida ad eliminare l’abuso,
attività di ripristino, a maggior ragione se l’ordine non
viene contestato), non sono sufficienti a dimostrare
l’estraneità del proprietario.
...
Nel medesimo
senso è, del resto, l’omologa previsione della legge
nazionale (ora art. 31, comma 5, del d.P.R. n. 380/2001).
Ed invero, la sanzione della perdita della proprietà per
inottemperanza all’ordine di remissione in pristino, pur se
definita come una conseguenza di diritto dall’art. 31, comma
3, del d.P.R. n. 380 cit., richiede, in ogni caso, un
provvedimento amministrativo che definisca l’oggetto
dell’acquisizione al patrimonio comunale attraverso la
quantificazione e la perimetrazione dell’area sottratta al
privato (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 11.10.2011, n.
1540).
Inoltre, all’acquisizione gratuita al patrimonio
comunale segue un ulteriore sub-procedimento, in cui la P.A.
effettua la valutazione discrezionale tra la scelta di
procedere alla demolizione, a spese del responsabile, delle
opere abusivamente costruite sull’area acquisita, e quella
di conservarle, previa deliberazione consiliare, in presenza
di prevalenti interessi pubblici (v. TAR Lazio, Latina,
Sez. I, 06.12.2012, n. 946; TAR Abruzzo, Pescara
Sez. I, 19.11.2010, n. 1235).
...
Passando a
questo punto al secondo gruppo di motivi aggiunti (aventi ad
oggetto l’ordine di sgombero dell’opera abusiva e la
deliberazione con cui il Consiglio Comunale di Costermano si
è determinato nel senso della sua demolizione), il primo
motivo ivi contenuto –sopra rubricato al n. 8)– censura
l’ora visto ordine di sgombero per violazione dell’art. 44
della l. n. 47/1985.
Sostiene, in particolare, la sig.ra Sa.Ca. che, in
base a detta disposizione, richiamata dall’art. 32, comma
25, del d.l. n. 269/2003 (conv. con l. n. 326/2003),
l’Amministrazione comunale avrebbe dovuto sospendere il
procedimento sanzionatorio, astenendosi dal compiere atti
fino al 30.03.2004, al fine di permetterle di presentare
domanda di condono del manufatto abusivo, ai sensi dell’ora
visto art. 32.
A tal proposito si osserva che, nel caso di specie, il nuovo
condono di cui all’art. 32, comma 25, del d.l. n. 269/2003 è
intervenuto in epoca ben successiva all’emanazione sia del
decreto di acquisizione gratuita dell’area (datato 24.01.2000 e gravato con il ricorso originario), sia del
provvedimento di conferma della suddetta acquisizione
(datato 29.01.2002 ed impugnato con il primo ricorso
per motivi aggiunti).
Tanto premesso, secondo un orientamento più rigoroso
l’acquisizione del bene al patrimonio pubblico farebbe venir
meno la legittimazione a proporre l’istanza di definizione
dell’illecito edilizio (C.d.S., Sez. VI, 11.03.2013, n.
1470; id., Sez. V, 13.08.2007, n. 4441; id., Sez. IV, 10.05.2007, n. 2218).
La giurisprudenza prevalente ritiene,
invece, che l’acquisizione gratuita al patrimonio del Comune
di un manufatto abusivo determini una situazione
inconciliabile con la sanatoria soltanto quando
all’immissione nel possesso sia seguita una delle due
ipotesi previste dall’art. 43 della l. n. 47/1985 cioè la
demolizione dell’immobile abusivo, o la sua utilizzazione a
fini pubblici: ciò, perché ai sensi dell’art. 43 cit., il
condono non è precluso dal provvedimento di acquisizione
dell’immobile abusivo al patrimonio del Comune, né
dall’avvenuta trascrizione del provvedimento sanzionatorio e
neppure dalla presa di possesso del bene, senza
modificazioni della sua consistenza e destinazione, da parte
del Comune (cfr. C.d.S., Sez. IV, 11.04.2014, n. 1756;
TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 08.01.2015, n. 54;
TAR Lazio, Roma, Sez. II, 04.11.2014, n. 11033;
TAR Campania, Napoli, Sez. III, 14.05.2013, n. 2499).
Nella fattispecie ora all’esame si controverte della
legittimità dell’ordine di sgombero di un’area già acquisita
–si ripete– al patrimonio comunale: a tale fattispecie,
pertanto, si applica l’ora menzionato art. 43 della l. n.
47/1985 (richiamato anch’esso dall’art. 32, comma 25, del
d.l. n. 269/2003), il cui primo comma stabilisce che
“l’esistenza di provvedimenti sanzionatori non ancora
eseguiti, ovvero ancora impugnabili o nei cui confronti
pende l’impugnazione, non impedisce il conseguimento della
sanatoria”. Ci si trova dinanzi, infatti, ad un
provvedimento sanzionatorio (acquisizione gratuita) già
emesso, ma ancora sub judice, stante la pendenza del ricorso
proposto contro di esso; e la stessa cosa vale, ovviamente,
per la conferma gravata con i motivi aggiunti.
Il richiamo all’art. 44 della l. n. 47/1985 appare, invece,
incongruo, perché tale disposizione comporta la sospensione
dei procedimenti amministrativi e della loro esecuzione, ma
–come si è già ricordato– qui l’acquisizione gratuita è
stata adottata ben prima dell’entrata in vigore del d.l. n.
269/2003 e non certo in pendenza della domanda di condono
(come nella vicenda esaminata da TAR Lazio, Roma, Sez. II,
30.01.2015, n. 1806).
Ma allora, anche a voler aderire all’orientamento più
favorevole al privato, proprio l’art. 43, primo comma, cit.
dimostra come né la già intervenuta adozione del
provvedimento di acquisizione gratuita dell’area, né la
pendenza dell’ordine di sgombero della stessa, potessero
considerarsi preclusivi del condono edilizio: la deducente,
in altre parole, avrebbe ben potuto presentare istanza di
condono del manufatto abusivo nonostante la sua acquisizione
al patrimonio del Comune e nonostante l’ordine di sgombero
del medesimo.
Sul punto è chiarissima la giurisprudenza
sopra riportata, la quale evidenzia come la sanatoria non
venga preclusa neppure dalla presa di possesso del bene ad
opera del Comune (ovviamente non seguita da modifiche della
sua consistenza e destinazione).
Sennonché, non risulta né allegato, né documentato in atti
che la sig.ra Sa.Ca. abbia presentato istanza di
condono ex d.l. n. 269/2003 per il manufatto in parola, pur
non essendovi ostacoli alla sua proposizione: donde, in
conclusione, l’infondatezza del motivo ora analizzato.
Né ha maggior pregio l’ulteriore motivo dedotto dalla
ricorrente, più sopra rubricato al n. 9), con cui si lamenta
l’incompetenza del Comune ad adottare l’ordine di sgombero
della costruzione abusiva: ordine che, secondo la deducente,
avrebbe dovuto essere adottato dal Prefetto, ai sensi
dell’art. 41 del d.P.R. n. 380/2001, come sostituito
dall’art. 32, comma 49-ter, del d.l. n. 269/2003.
Ma sul
punto è agevole rammentare che il suddetto comma 49-ter
dell’art. 32 cit. è stato dichiarato illegittimo dalla Corte
costituzionale con la nota sentenza n. 196 del 28.06.2004
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 22.05.2018 n. 560 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Applicazione del principio di rotazione negli appalti sotto
soglia.
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Contratti della P.A. – Appalti sotto soglia – Principio
di rotazione – Art. 36, d.lgs. n. 50 del 2016 – Modalità di
applicazione.
Ai sensi dell’art. 36, d.lgs.
18.04.2018, n. 50, se l’affidamento “sotto soglia” si svolge
previa procedura comparativa, l’applicazione del principio
di rotazione è anticipata al momento della scelta dei
soggetti da invitare (1).
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(1) Ha chiarito il Tar che il principio di rotazione degli inviti
non è dotato di portata precettiva assoluta e perciò
sopporta alcune limitate deroghe, come espressamente
chiarito dalle Linee Guida n. 4 A.N.A.C. sugli affidamenti
sotto soglia approvate con deliberazione 26.10.2016, n.
1097, nelle quali è stata espressamente consentita una
motivata deroga al principio di rotazione in caso di “riscontrata
effettiva assenza di alternative ovvero del grado di
soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto
contrattuale (esecuzione a regola d’arte, nel rispetto dei
tempi e dei costi pattuiti)” e negli stessi termini si è
pronunciata anche la Commissione speciale del Consiglio di
Stato con parere 12.02.2018, n. 361, chiarendo che “il
principio di rotazione comporta in linea generale che
l’invito all’affidatario uscente rivesta carattere
eccezionale e debba essere adeguatamente motivato, avuto
riguardo al numero ridotto di operatori presenti sul
mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione
del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto ed
alle caratteristiche del mercato di riferimento”.
Nel caso all’esame del Tar, la decisione “a monte” di
invitare alla gara (anche) il gestore uscente è stata
espressamente ricollegata tanto all’elevato “grado di
soddisfazione” riscontrato nella sua precedente
gestione, quanto all’assenza di un numero sufficiente di
offerte alternative. In tal modo, l’Amministrazione ha,
quindi, correttamente motivato la propria decisione di
invitare il gestore uscente proprio in relazione alle due
sopra descritte evenienze che in via generale consentono una
deroga al generale “divieto di invito” del gestore uscente
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 22.05.2018 n. 492
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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Giova premettere che già il precedente Codice dei contratti
pubblici (approvato con d.lgs. 12.04.2006, n. 163) -dopo
aver indicato i casi tassativi in cui era possibile
ricorrere alla procedura negoziata senza previa
pubblicazione di un bando di gara- all'art. 57, comma 6,
stabiliva che: “A) nella fase preliminare di selezione degli
operatori economici da consultare, la stazione appaltante
ove possibile individua tali soggetti sulla base di
informazioni riguardanti le caratteristiche di
qualificazione economico finanziaria e tecnico organizzativa
desunte dal mercato, nel rispetto dei principi di
trasparenza, concorrenza, rotazione, e seleziona almeno tre
operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti
idonei; B) nella fase della partecipazione alla gara, gli
operatori economici selezionati sono quindi
contemporaneamente invitati a presentare le offerte oggetto
della negoziazione, con lettera contenente gli elementi
essenziali della prestazione richiesta”; inoltre per
l’affidamento di lavori “in economia” l’art. 125, comma 8,
dello stesso “vecchio” Codice dei contratti statuiva che
“Per lavori di importo pari superiore a 40.000 euro e fino a
200.000 euro, l'affidamento mediante cottimo fiduciario
avviene nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione,
parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque
operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti
idonei, individuati sulla base di indagini di mercato ovvero
tramite elenchi di operatori economici predisposti dalla
stazione appaltante. Per lavori di importo inferiore a
quarantamila euro è consentito l'affidamento diretto da
parte del responsabile del procedimento” e analoga
disciplina era prevista, al successivo comma 11, per
l’affidamento “in economia” di servizi e forniture.
Pertanto può osservarsi che l’art. 36 del nuovo Codice dei
contratti pubblici, lungi dall’introdurre un istituto
completamente nuovo, ha semplicemente riaffermato e
valorizzato un canone da tempo immanente nell’ordinamento,
la cui ratio è facilmente identificabile: il principio di
rotazione è funzionale a evitare indebite “posizioni di
favore” e inaccettabili “chiusure surrettizie” del mercato.
Va, peraltro, precisato che, nella vigenza del “vecchio”
Codice dei contratti pubblici, non era stata attribuita al
principio di rotazione portata “precettiva assoluta”, con la
conseguenza che l'aggiudicazione a impresa già in precedenza
invitata a selezioni analoghe e/o affidataria dello stesso
servizio, non era considerata per ciò solo illegittima,
sempre che la gara si fosse svolta nel rispetto delle regole
di legge e si fosse conclusa con la scelta dell'offerta più
vantaggiosa, soprattutto laddove nel relativo giudizio di
comparazione non avesse direttamente inciso la pregressa
esperienza specifica maturata dall’aggiudicatario in veste
di partner contrattuale della stazione appaltante (in tal
senso si era consolidata la giurisprudenza: tra le tante si
può citare la convincente pronuncia del TAR Lazio, Roma,
Sez. II, 20.04.2015, n. 5771).
Con l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti
pubblici la portata del principio di rotazione sugli appalti
cc.dd. sotto soglia è ora affidata alla disciplina dell’art.
36, secondo cui “1. L'affidamento e l'esecuzione di lavori,
servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui
all'articolo 35 avvengono nel rispetto dei principi di cui
agli articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del
principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in
modo da assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione
delle microimprese, piccole e medie imprese. Le stazioni
appaltanti possono, altresì, applicare le disposizioni di
cui all'articolo 50.
2. Fermo restando quanto previsto dagli
articoli 37 e 38 e salva la possibilità di ricorrere alle
procedure ordinarie, le stazioni appaltanti procedono
all'affidamento di lavori, servizi e forniture di importo
inferiore alle soglie di cui all'articolo 35, secondo le
seguenti modalità: a) per affidamenti di importo inferiore a
40.000 euro, mediante affidamento diretto anche senza previa
consultazione di due o più operatori economici o per i
lavori in amministrazione diretta; b) per affidamenti di
importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000
euro per i lavori, o alle soglie di cui all'articolo 35 per
le forniture e i servizi, mediante procedura negoziata
previa consultazione, ove esistenti, di almeno dieci
operatori economici per i lavori, e, per i servizi e le
forniture di almeno cinque operatori economici individuati
sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di
operatori economici, nel rispetto di un criterio di
rotazione degli inviti…”.
Orbene questa nuova disciplina, se per un verso rafforza
certamente la precettività del principio di rotazione, per
altro verso continua a declinarlo in termini variegati in
relazione al tipo di procedura concretamente utilizzata,
consentendo, altresì, (limitate e motivate) deroghe allo
stesso.
Prima di tutto emerge dall’esame testuale dell’art. 36 che
-se l’affidamento “sotto soglia” si svolge previa procedura
comparativa- l’applicazione del principio di rotazione è
anticipata al momento della scelta dei soggetti da invitare:
in questo senso si esprime chiaramente l’art. 36, comma 2,
lett. b), del d.lgs. n. 50/2016, secondo cui “per
affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro e
inferiore a 150.000 euro per i lavori, o alle soglie di cui
all'articolo 35 per le forniture e i servizi, mediante
procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di
almeno dieci operatori economici per i lavori, e, per i
servizi e le forniture di almeno cinque operatori economici
individuati sulla base di indagini di mercato o tramite
elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio
di rotazione degli inviti”.
Ciò trova conferma nel confronto tra il secondo comma, ove
appunto si parla di “rotazione degli inviti”, e il primo
comma, ove, invece, si parla di “rotazione degli inviti e
degli affidamenti”: questo diverso modo di operare del
principio si spiega considerando che, nel suo complesso,
l’art. 36 disciplina sia le procedure caratterizzate dal
confronto tra più imprese invitate dalla stazione appaltante
(al comma 2, lett. b), sia quelle con “affidamento diretto”
(al comma 2, lett. a), cioè non precedute da alcun confronto
concorrenziale (consentite per importi inferiori o pari a
40.000 euro), nelle quali la rotazione è, ovviamente,
concepibile solo in relazione all’affidamento della commessa
e non in relazione alla fase degli inviti, la quale,
semplicemente, non esiste.
In sostanza la disciplina complessiva dettata dall’art. 36
del d.lgs. n. 50/2016 è riassumibile nei termini seguenti:
-
se la commessa è di valore pari o inferiore ai 40.000 il
contratto può essere affidato senza alcun confronto
concorrenziale e se ciò effettivamente accade il principio
di rotazione non potrà che essere applicato in relazione
all’aggiudicazione (art. 36, comma 2, lett. a);
-
se, invece, la commessa è di valore superiore ai 40.000 (e
sino a 150.000 euro), è necessario operare un confronto
concorrenziale tra più ditte invitate dalla stazione
appaltante (almeno cinque in caso di servizi e forniture,
almeno dieci in caso di lavori) e, in questo caso, il
principio di rotazione opera (esclusivamente) con
riferimento alla fase degli inviti, il che, peraltro, è
conforme a evidenti esigenze di corretto esercizio
dell’azione amministrativa e di tutela dell’affidamento
(aspetto sul quale si tornerà successivamente, nella parte
finale della trattazione).
Inoltre deve osservarsi come il principio di rotazione degli
inviti non sia dotato di portata precettiva assoluta e
perciò sopporti alcune limitate deroghe, come espressamente
chiarito dalle Linee Guida n. 4 A.N.A.C. sugli affidamenti
sotto soglia approvate (ai sensi dell’art. 36, comma 7, del
Codice) con deliberazione 26.10.2016, n. 1097,
applicabili ratione temporis alla vicenda in esame e dalle
quali, peraltro, non si discostano significativamente,
almeno sotto il profilo ora in esame, le successive Linee
Guida recentemente entrate in vigore (sulle quali vedi infra).
Già nelle prime Linee guida, infatti, è stata espressamente
consentita una motivata deroga al principio di rotazione in
caso di “riscontrata effettiva assenza di alternative ovvero
del grado di soddisfazione maturato a conclusione del
precedente rapporto contrattuale (esecuzione a regola
d’arte, nel rispetto dei tempi e dei costi pattuiti)” e
negli stessi termini si è pronunciata anche la Commissione
speciale del Consiglio di Stato con parere 12.02.2018,
n. 361, espresso nell’ambito dell’istruttoria per
l’aggiornamento delle Linee Guida ANAC, chiarendo che “il
principio di rotazione comporta in linea generale che
l’invito all’affidatario uscente rivesta carattere
eccezionale e debba essere adeguatamente motivato, avuto
riguardo al numero ridotto di operatori presenti sul
mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione
del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto ed
alle caratteristiche del mercato di riferimento (in tal
senso, cfr. Cons. St., VI, 31.08.2017, n. 4125; Cons.
St., V, 31.08.2017, n. 4142)”.
Ciò posto, passando alla fattispecie ora sottoposta
all’esame del Collegio, deve innanzitutto osservarsi come,
pur vertendosi in una procedura di importo inferiore ai
40.000 euro, la stazione appaltante abbia inteso procedere
al confronto concorrenziale, in tal modo sostanzialmente
“sottoponendosi” alla disciplina dettata dall’art. 36, comma
2, lett. b), che come si visto impone di invitare almeno
cinque imprese per l’affidamento di una prestazione di
servizi, come quella ora in esame.
Tanto è vero che, coerentemente con tale scelta di base, il
Comune ha:
-
pubblicato una manifestazione di interesse;
-
invitato tutte le imprese che detto interesse avevano
manifestato;
-
esaminato le offerte concretamente presentate, nel caso
specifico solo due, quella del gestore uscente (cioè la
Si., odierna ricorrente) e quella dell’impresa
controinteressata nel presente giudizio (cioè la So.).
Dalla lettura degli atti procedimentali emerge, inoltre, che
la decisione “a monte” di invitare alla gara (anche) il
gestore uscente (odierna ricorrente) è stata espressamente
ricollegata tanto all’elevato “grado di soddisfazione”
riscontrato nella sua precedente gestione (si vedano le
deliberazioni 14.11.2017 n. 150, e 28.12.2017,
n. 242), quanto all’assenza di un numero sufficiente di
offerte alternative (si veda la determinazione 20.01.2018, n. 16): l’Amministrazione ha, quindi, correttamente
motivato la propria decisione di invitare la Si. proprio
in relazione alle due sopra descritte evenienze che in via
generale consentono una deroga al generale “divieto di
invito” del gestore uscente (si veda, al riguardo, TAR
Firenze, Sez. II, 12.06.2017, n. 816, secondo cui “Il
principio di rotazione è servente e strumentale rispetto a
quello di concorrenza e deve quindi trovare applicazione nei
limiti in cui non incida su quest'ultimo; nella specie,
poiché all'avviso esplorativo avevano fornito riscontro due
operatori di cui uno era il gestore uscente, l'esclusione di
quest'ultimo avrebbe limitato e non promosso la concorrenza
nel mercato”).
In tale contesto di fondo il Collegio reputa meritevoli di
accoglimento le censure mosse dalla ricorrente avverso la
successiva decisione del Comune di affidare il servizio alla
controinteressata pur avendo ritenuto l’offerta
dell’uscente, ancorché di poco, più conveniente.
In questo modo, infatti, il Comune resistente ha
sostanzialmente violato l’art. 36, comma 2, lett. b), del
Codice dei contratti pubblici -come detto applicabile al
caso in esame per effetto della scelta autovincolante di
procedere al confronto tra offerte- sotto i seguenti
profili:
-
la rotazione è stata operata, invece che sugli inviti come
prevede la lett. b) dell’art. 36, in relazione
all’affidamento del servizio;
-
è stata, nella sostanza, “scavalcata” la necessità,
normativamente imposta, di prendere in esame l’offerta del
gestore uscente, così da (quanto meno) “avvicinarsi” al
numero minimo di cinque offerte previsto dalla disposizione
sopra richiamata.
Inoltre il Comune ha assunto una decisione contraddittoria
rispetto alla propria scelta “a monte” di invitare alla gara
il gestore uscente, ponendosi in contrasto con i criteri
operativi dettati dalle Linee Guida A.N.A.C. che, come si è
visto, consentivano di derogare al principio di rotazione
degli inviti proprio per la necessità di raggiungere il
numero minimo di offerte da sottoporre a selezione e per
l’elevato grado di soddisfazione maturato in ordine alla
pregressa gestione dell’uscente, evenienze entrambe
riscontrabili nel caso ora in esame per espressa
affermazione dello stesso Comune, che proprio su di esse
aveva motivato la propria (corretta) decisione di invitare
al confronto anche Si..
Si osserva, infine, a ulteriore fondamento di quanto sin qui
esposto, che il modus operandi della stazione appaltante si
pone in evidente contrasto con l’esigenza di tutelare
l’affidamento maturato dalla ricorrente, la quale era stata
formalmente invitata alla selezione dopo avere manifestato
il proprio interesse a seguito di un “avviso aperto” proprio
a questo finalizzato, il che, peraltro, costituiva una
significativa garanzia di trasparenza e apertura del
mercato, di per sé idonea a limitare l’operatività del
principio di rotazione: si vedano, al riguardo, le Linee
Guida recentemente approvate dall’A.N.A.C. con deliberazione
01.03.2018, n. 206, le quali -seppur non direttamente
applicabili al caso specifico ratione temporis-
costituiscono significativo indice del modo in cui deve
essere correttamente applicato il canone di rotazione, così
da renderlo compatibile con altri valori di ordinamentali
certamente significativi; si legge, infatti, in queste
ultime Linee Guida, che il principio di rotazione “non si
applica laddove il nuovo affidamento avvenga tramite
procedure ordinarie o comunque aperte al mercato, nelle
quali la stazione appaltante, in virtù di regole
prestabilite dal Codice dei contratti pubblici ovvero dalla
stessa in caso di indagini di mercato o consultazione di
elenchi, non operi alcuna limitazione in ordine al numero di
operatori economici tra i quali effettuare la selezione”.
Per quanto premesso il ricorso va accolto, con il
conseguente annullamento degli atti impugnati, la
dichiarazione di inefficacia del contratto medio tempore
stipulato con la controinteressata e il subentro della
ricorrente nel relativo rapporto contrattuale.
Sussistono, comunque, giusti motivi per l’integrale
compensazione delle spese di lite, in ragione della
particolare novità e peculiarità della questione giuridica
implicata. |
APPALTI:
Illegittimità dell'archiviazione del procedimento di
autotutela se l'aggiudicazione è stata disposta sulla base
di documenti falsi.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
della gara - Per falsa documentazione - Archiviazione
dell’autotutela e conferma implicita dell’aggiudicazione –
Illegittimità.
In presenza delle condizioni della
sicura rilevanza negativa del documento falso ai fini
dell’ammissione alla gara e dell’inescusabilità del contegno
colpevole della controinteressata, la Stazione appaltante
deve sanzionare l’episodio con l’annullamento d’ufficio
dell’aggiudicazione e con l’esclusione dalla gara, con la
conseguenza che è illegittima la conferma implicita
dell’aggiudicazione, contenuta nel provvedimento di
archiviazione dell’autotutela (1).
---------------
(1)
Il Tar ha preliminarmente affermato la propria
giurisdizione, anche se si tratta di una gara indetta da un
ente pubblico economico per la distribuzione del gas in
un’area industriale, sul rilievo che:
1) il Consorzio per l’area industriale è Ente aggiudicatore;
2) investito di tale qualità, esso è tenuto al rispetto
della disciplina delle procedure degli appalti nei settori
speciali;
3) in applicazione della disciplina dei settori speciali, il
Codice si applica esclusivamente agli appalti aggiudicati
per scopi strumentali all’esercizio delle attività nei
settori considerati dalla norma e l’attività in oggetto è in
effetti strumentale al “core business” del Consorzio
appaltante;
4) non si tratta di un servizio di natura meramente
commerciale, né di un appalto estraneo.
Il Tar ha quindi chiarito che il provvedimento di
archiviazione dell’autotutela contiene una conferma
implicita dell’aggiudicazione dell’appalto, pur prendendo
atto dell’assenza in capo all’aggiudicataria di un documento
imprescindibile, quale l’impegno del fideiussore e della sua
non reintegrabilità neppure in via di soccorso istruttorio.
Il falso documento proveniente dal terzo -ma che involge
l’impegno che la società concorrente, per mezzo del
fideiussore, assume nei confronti della Stazione appaltante-
presentato in gara come elaborato essenziale, con il
concorso colpevole della concorrente, può e deve essere
sanzionato con l’esclusione dalla gara: l’esclusione invero
è riconducibile alla “presentazione di falsa
dichiarazione o falsa documentazione” (art. 80, commi 12
e 5, lett. f-bis, del Codice), senza distinzioni tra
documenti e dichiarazioni redatti dal concorrente o,
nell’interesse di quest’ultimo, da un terzo.
L’impegno del fideiussore a rilasciare la garanzia per
l’esecuzione del contratto è un documento facente parte
integrante e sostanziale dell’offerta, come del resto
risulta prescritto anche nel disciplinare di gara e la sua
mancanza non costituisce irregolarità sanabile o carenza
formale, passibile di soccorso istruttorio, bensì
un’omissione essenziale da sanzionare con l’esclusione dalla
gara.
Non ha rilievo, in presenza di un falso documento “non
irrilevante” e “colpevolmente” prodotto dalla
concorrente, il principio del “superamento” della
garanzia provvisoria con quella definitiva, posto che, a
monte, v’è stata una violazione della normativa di settore
che comporta l’esclusione dalla gara, senza che siffatta
sanzione possa essere elusa o sanata sulla base di approcci
sostanzialistici che non si attagliano al peculiare caso di
specie.
Quel che più rileva è che la produzione di falsa
documentazione (come caso distinto dalla falsa dichiarazione
della concorrente) è sanzionata, ai sensi dell’art. 80,
comma 12, del Codice (D.Lgs. n. 50/2016) con “l’esclusione
e la revoca dell’aggiudicazione…” (TAR
Molise,
sentenza 22.05.2018 n. 302
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul diritto di accesso, o meno,
ai documenti inerenti l’attività della Polizia Municipale
a seguito dell’accertamento effettuato (abuso edilizio) e
l’attività del Comune riguardante la regolarità edilizia.
Per quanto riguarda l'accesso
ai documenti inerenti
l’attività della Polizia Municipale è da ritenere che questi sono
sottratti all’accesso sino alla definizione del procedimento
penale.
Infatti, la giurisprudenza ha
precisato che “l'art. 24 della L. n. 241/1990, nella
versione riformulata dalla L. 11.02.2005, n. 15 ha
sancito, elevando a rango superiore un principio già
introdotto a livello regolamentare: l'esclusione
dell'esibizione di atti utilizzati nel corso dell'attività
giudiziaria o di polizia. Orbene, essendo stata sancita con
legge ordinaria la sottrazione di tali categorie di
documenti alla conoscibilità degli stessi interessati, in
tale prospettiva non sono ostensibili, ex artt. 114 e 329 c.p.p., gli atti afferenti ad informative penali inoltrate
nei confronti degli istanti, ad eventuali indagini in corso,
in quanto relative ad un (eventuale) procedimento penale e
rientranti perciò nella esclusiva disponibilità dell'organo
requirente procedente. La previsione in esame è infatti
chiaramente finalizzata ad escludere la piena ostensibilità
delle relazioni di servizio che non costituiscono atti
presupposti volti all'adozione di un provvedimento
amministrativo, ma piuttosto atti volti a sollecitare
l'iniziativa penale da parte dell'autorità giudiziaria, e
quindi atti inerenti non allo svolgimento dell'attività
amministrativa, quanto alla (diversa) attività di promozione
e collaborazione dell'attività di prevenzione e repressione
della criminalità”.
Nel caso in esame, deve ritenersi che l’ostensione di tutti
gli atti della Polizia Municipale, deve essere differita
alla conclusione del procedimento, in quanto atti di natura
ispettiva, connessi direttamente e immediatamente
all’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria, sottratti
alla visione ai sensi dell’art. 329 c.p.p. fino alla
conclusione del procedimento medesimo.
---------------
È da accogliere, invece, il ricorso per quanto riguarda la
richiesta di accesso agli “atti relativi alla verifica
istruttoria di regolarità edilizia del pergolato …” nonché a
“qualsivoglia ordine e/o provvedimento conclusivo emesso dal
Comune all’esito di tale procedimento di verifica
di regolarità edilizia ex art. 27 D.P.R. 380/2001”.
Infatti, ai sensi dell’art. 22 l. 241/1990, per diritto di
accesso si intende il diritto degli interessati di prendere
visione e di estrarre copia di documenti amministrativi, e
per interessati si intendono tutti i soggetti privati,
compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi,
che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento in relazione al quale è chiesto
l’accesso.
Nel caso in esame, è da riconoscere in capo al ricorrente un
interesse diretto, concreto e attuale a prendere visione e
ottenere copia della documentazione riguardante gli atti
relativi alla regolarità edilizia atteso che i documenti di
cui si chiede l’ostensione sono direttamente inerenti al
ricorrente stesso.
---------------
I ricorrenti sono proprietari di un appartamento sito nel comune di
Salve.
L’11.09.2012, il Comando della Polizia Municipale, ha
eseguito un accertamento sull’immobile in questione in
relazione a un pergolato in legno posizionato sulla terrazza
esterna di pertinenza.
Con contratto del 15.04.2014 i ricorrenti hanno venduto
l’immobile.
Il 09.02.2015, il Tribunale di Lecce, sezione GIP, ha
notificato ai ricorrenti un decreto penale di condanna per
aver realizzato il detto pergolato.
Con sentenza del 06.10.2017, la Corte di Appello di
Lecce, ha confermato la sentenza del Tribunale di Lecce con
la quale i ricorrenti sono stati dichiarati colpevoli del
contestato reato edilizio.
I ricorrenti, con istanza del 13.09.2017, hanno
quindi chiesto al Comune l’accesso per ottenere “copia di
tutti gli atti e i documenti del procedimento di verifica di
regolarità edilizia ex art. 27 D.P.R. 380/2001, avviato
dallo stesso a seguito dell’accertamento eseguito dal
Comando della Polizia Municipale del medesimo Comune, in
data 11.09.2012 sull’immobile (allora in proprietà
degli stessi) sito in Vasco del Gama, piano 2, interno B,
identificato al Catasto Fabbricati del Comune di Salve al
Foglio 24, Particella 343. E precisamente:
a. del verbale di
accertamento del Comando della Polizia Municipale di Salve
redatto a seguito dell’intervento in data 11.09.2012
sull’immobile (allora in proprietà degli stessi) sito in
Vasco De Gama, piano 2, interno B, identificato al Catasto
Fabbricati del Comune di Salve al Foglio 24, Particella 343;
b. delle comunicazioni e/o informative effettuate dal Comune
di Salve e/o dallo stesso ricevute ex art. 27 D.P.R.
380/2001, a seguito di detto accertamento del Comando della
Polizia Municipale del 11.09.2012; c. degli atti
relativi alla verifica istruttoria di regolarità edilizia
del pergolato sito sul terrazzino di pertinenza
dell’immobile sito in Via Vasco del Gama, paino 2, interno
B, identificato al Catasto Fabbricati del Comune di Salve al
Foglio 24, Particella 343, oggetto di accertamento; d. di
qualsivoglia ordine e/o provvedimento conclusivo emesso dal
Comune di Salve all’esito di tale procedimento di verifica
di regolarità edilizia ex art. 27 D.P.R. 380/2001”.
In riscontro a tale istanza il Comando della Polizia Locale
ha inviato una nota con la quale si è rilevato che “in
merito agli atti di accertamento, gli stessi sono documenti
di polizia giudiziaria soggetti alla disciplina dell’art.
329 c.p.p. reperibili presso gli uffici giudiziari. Per
quanto riguarda gli atti amministrativi posti in essere
successivamente la comunicazione è di competenza
dell’Ufficio Tecnico”.
I ricorrenti, con il presente ricorso, hanno chiesto
l’annullamento “del silenzio-rifiuto ex art. 25, comma 4,
Legge 241/1990, formatosi in data 18.10.2017, in
relazione all’istanza di accesso ex art. 25 Legge 241/1990”.
...
L’istanza di accesso in esame è volta all’acquisizione di
documenti inerenti l’attività della Polizia Municipale a
seguito dell’accertamento effettuato e l’attività del Comune
riguardante la regolarità edilizia.
Per quanto riguarda i primi è da ritenere che questi sono
sottratti all’accesso sino alla definizione del procedimento
penale.
Infatti, la giurisprudenza alla quale si aderisce ha
precisato che “l'art. 24 della L. n. 241/1990, nella
versione riformulata dalla L. 11.02.2005, n. 15 ha
sancito, elevando a rango superiore un principio già
introdotto a livello regolamentare: l'esclusione
dell'esibizione di atti utilizzati nel corso dell'attività
giudiziaria o di polizia. Orbene, essendo stata sancita con
legge ordinaria la sottrazione di tali categorie di
documenti alla conoscibilità degli stessi interessati, in
tale prospettiva non sono ostensibili, ex artt. 114 e 329 c.p.p., gli atti afferenti ad informative penali inoltrate
nei confronti degli istanti, ad eventuali indagini in corso,
in quanto relative ad un (eventuale) procedimento penale e
rientranti perciò nella esclusiva disponibilità dell'organo
requirente procedente. La previsione in esame è infatti
chiaramente finalizzata ad escludere la piena ostensibilità
delle relazioni di servizio che non costituiscono atti
presupposti volti all'adozione di un provvedimento
amministrativo, ma piuttosto atti volti a sollecitare
l'iniziativa penale da parte dell'autorità giudiziaria, e
quindi atti inerenti non allo svolgimento dell'attività
amministrativa, quanto alla (diversa) attività di promozione
e collaborazione dell'attività di prevenzione e repressione
della criminalità” (Tar Aquila, sez. I, 27.10.2017, n.
454).
Nel caso in esame, deve ritenersi che l’ostensione di tutti
gli atti della Polizia Municipale, deve essere differita
alla conclusione del procedimento, in quanto atti di natura
ispettiva, connessi direttamente e immediatamente
all’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria, sottratti
alla visione ai sensi dell’art. 329 c.p.p. fino alla
conclusione del procedimento medesimo (cfr. Tar Lazio, sez.
II, 01.02.2017, n. 1644).
È da accogliere, invece, il ricorso per quanto riguarda la
richiesta di accesso agli “atti relativi alla verifica
istruttoria di regolarità edilizia del pergolato …” nonché a
“qualsivoglia ordine e/o provvedimento conclusivo emesso dal
Comune di Salve all’esito di tale procedimento di verifica
di regolarità edilizia ex art. 27 D.P.R. 380/2001”.
Infatti, ai sensi dell’art. 22 l. 241/1990, per diritto di
accesso si intende il diritto degli interessati di prendere
visione e di estrarre copia di documenti amministrativi, e
per interessati si intendono tutti i soggetti privati,
compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi,
che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento in relazione al quale è chiesto
l’accesso.
Nel caso in esame, è da riconoscere in capo al ricorrente un
interesse diretto, concreto e attuale a prendere visione e
ottenere copia della documentazione riguardante gli atti
relativi alla regolarità edilizia atteso che i documenti di
cui si chiede l’ostensione sono direttamente inerenti al
ricorrente stesso (TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 21.05.2018 n. 840 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La ricostruzione di
edificio accidentalmente crollato, che non ha modificato né
la volumetria né la destinazione d’uso, non deve scontare il
versamento degli oneri di urbanizzazione.
In giurisprudenza viene pacificamente
individuata quale ratio fondamentale e
giustificatrice della corresponsione degli oneri di
urbanizzazione il carico urbanistico, con connessa
esigenza di realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria.
Se pure suddetta ratio giustificatrice non trasforma
l’onere in una imposta di scopo (non vi è la necessità che
gli oneri di urbanizzazione incassati in una determinata
area siano devoluti alle opere di urbanizzazione ivi
realizzate e/o necessarie) né il rapporto tra carico
urbanistico ed oneri di urbanizzazione è rigoroso al punto
da non ammettere la modulazione degli oneri stessi anche in
funzione di diverse finalità (ad esempio scoraggiare
l’espansione in determinate aree ovvero incentivarla in
altre), la giustificazione sostanziale di tale forma di
imposizione resta il carico urbanistico ingenerato da un
nuovo insediamento o da un mutamento di destinazione d’uso.
Per la fisiologica connessione tra aumento del carico
urbanistico e oneri di urbanizzazione è stato statuito,
invero, che: “riguardo alla
differenza tra oneri di urbanizzazione e costi di
costruzione, la giurisprudenza concordemente ritiene che i
primi espletino la funzione di compensare la collettività
per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa
sulla zona a causa della consentita attività edificatoria,
mentre i secondi si configurino quale compartecipazione
comunale all'incremento di valore della proprietà
immobiliare del costruttore”.
---------------
Quanto agli interessi ed alla rivalutazione del contributo
indebitamente versato, è condivisibile la difesa
dell’amministrazione là dove evidenzia che la decorrenza
degli interessi deve essere individuata nel giorno della
domanda e non in quello del pagamento (trattandosi di
percezione di indebito intervenuta in buona fede, che si
presume) e che non può essere riconosciuta la rivalutazione
monetaria, non avendo parte ricorrente dimostrato un maggior
danno che resterebbe non compensato dalla corresponsione
degli interessi.
---------------
L’edificio sito in Torino via ... n. 12 è parzialmente
crollato in seguito a scoppio dovuto ad un fuga di gas; in
data 06.04.2012 il condominio ha presentato domanda di
permesso di costruire per la ricostruzione della struttura.
Con nota in data 28.11.2013 il Comune ha quantificato
l’ammontare degli oneri di urbanizzazione dovuti in €
35.762,54, che il condominio ha versato al solo fine di
ottenere il titolo edilizio.
Lamenta parte ricorrente la violazione dell’art. 16 del
d.p.r. n. 380/2001 e l’eccesso di potere per difetto di
istruttoria ed insufficiente motivazione, oltre che il
travisamento dei fatti; gli oneri di urbanizzazione sono parametrati al beneficio tratto dall’intervento
dall’esistenza di opere di urbanizzazione con l’obiettivo di
ridistribuire i costi sociali dell’aggravamento del carico
urbanistico; nel caso di specie la ricostruzione è avvenuta
con la stessa volumetria e destinazione d’uso precedenti il
crollo, sicché il versamento di tali oneri non sarebbe
giustificato.
Ha chiesto quindi la condanna del Comune di Torino alla
rifusione di quanto indebitamente versato, oltre interessi e
rivalutazione monetaria dal giorno del pagamento al saldo.
...
Ritiene il collegio che il ricorso debba trovare
accoglimento.
Non vi è contestazione tra le parti sulle circostanze di
fatto; è dunque pacifico che l’edificio oggetto di
ricostruzione è crollato accidentalmente e che la
ricostruzione non ha modificato né la volumetria né la
destinazione d’uso.
L’abile difesa di parte resistente propone una lettura
letterale della normativa applicabile, senza tuttavia
valorizzare quella che in giurisprudenza viene pacificamente
individuata quale ratio fondamentale e
giustificatrice della corresponsione degli oneri di
urbanizzazione, ossia il carico urbanistico, con connessa
esigenza di realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria.
Se pure suddetta ratio giustificatrice non trasforma
l’onere in una imposta di scopo (non vi è la necessità che
gli oneri di urbanizzazione incassati in una determinata
area siano devoluti alle opere di urbanizzazione ivi
realizzate e/o necessarie) né il rapporto tra carico
urbanistico ed oneri di urbanizzazione è rigoroso al punto
da non ammettere la modulazione degli oneri stessi anche in
funzione di diverse finalità (ad esempio scoraggiare
l’espansione in determinate aree ovvero incentivarla in
altre), la giustificazione sostanziale di tale forma di
imposizione resta il carico urbanistico ingenerato da un
nuovo insediamento o da un mutamento di destinazione d’uso.
Per la fisiologica connessione tra aumento del carico
urbanistico e oneri di urbanizzazione, ex pluribus,
si veda Cons. St., sez. IV, n. 1187/2018; ancora si legge in
Cons. St., sez. IV, n. 2915/2016 che: “riguardo alla
differenza tra oneri di urbanizzazione e costi di
costruzione, la giurisprudenza concordemente ritiene che i
primi espletino la funzione di compensare la collettività
per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa
sulla zona a causa della consentita attività edificatoria,
mentre i secondi si configurino quale compartecipazione
comunale all'incremento di valore della proprietà
immobiliare del costruttore”.
Alla luce di tali principi, e considerato che l’intervento
per cui è causa pacificamente non comporta alcun aumento di
carico urbanistico, deve essere accolta la domanda di parte
ricorrente volta alla restituzione degli oneri, in quanto
indebitamente corrisposti.
Quanto agli interessi ed alla rivalutazione, è condivisibile
la difesa dell’amministrazione là dove evidenzia che la
decorrenza degli interessi deve essere individuata nel
giorno della domanda e non in quello del pagamento
(trattandosi di percezione di indebito intervenuta in buona
fede, che si presume) e che non può essere riconosciuta la
rivalutazione monetaria, non avendo parte ricorrente
dimostrato un maggior danno che resterebbe non compensato
dalla corresponsione degli interessi (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 21.05.2018 n. 630 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO DEMANIALE – Ordinanza di demolizione di
opera edilizia abusiva - Opere realizzate senza titolo su
area demaniale - Destinatario - Proprietario attuale –
Soggetto avente la disponibilità dell’opera abusiva.
Fermo restando, in linea generale, l'obbligo di emanare le
ordinanze di demolizione di opera edilizia abusiva nei
confronti del proprietario attuale, indipendentemente
dall'essere o non responsabile delle opere abusive, detto
ordine deve comunque essere rivolto anche nei confronti di
chi utilizzi o abbia la disponibilità dell'opera abusiva
quale soggetto in grado di porre fine alla situazione
antigiuridica, indipendentemente dal coinvolgimento o meno
nella realizzazione dell'abuso, in considerazione del
carattere ripristinatorio della disposta demolizione; ciò
vale anche nelle ipotesi di opere realizzate senza titolo
abilitativo su area demaniale, dovendo i provvedimenti
repressivi, adottati dall'Amministrazione pubblica, essere
rivolti nei confronti di chi abbia in concreto una relazione
giuridica o anche materiale con il bene (TAR Puglia, Lecce,
I, 28.07.2017, n. 1304; negli stessi termini, TAR Campania,
Napoli, VIII, 24.05.2016 n. 2638; TAR Calabria, Reggio
Calabria, I, 04.02.2016, n. 127; TAR Umbria, Perugia, I,
29.01.2014, n. 66; TAR Trentino-Alto Adige, Trento, I,
17.04.2013, n. 119).
DIRITTO DEMANIALE – Occupazione sine
titulo di un bene demaniale – Pretesa indennitaria –
Prescrizione decennale.
La pretesa indennitaria dovuta all’occupazione sine
titulo di un bene demaniale è soggetta alla prescrizione
decennale e non a quella quinquennale, non trattandosi del
pagamento di canoni relativi a una concessione, da
effettuarsi periodicamente ad anno, bensì del pagamento di
una somma, in un'unica soluzione, a titolo di reintegrazione
per la subita diminuzione patrimoniale (Cass. Civ., Sez.
Unite, 18.11.1992, n. 12313; Tribunale civile di Bari, I,
29.09.2015, n. 4084) (TAR Marche,
sentenza 21.05.2018 n. 388 - link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI:
E' illegittima l'ordinanza comunale circa
l'abbattimento di un cipresso ritenuto pericoloso per la
pubblica incolumità laddove la stessa si basi su un "mero
esame visivo dello stesso traendone conclusioni piuttosto
semplicistiche" anziché fondarsi su accertamenti preliminari
«con
la necessaria strumentazione tecnica e, segnatamente, quella
di cui alla “metodologia SIM (Static Integrated Method),
unica tecnica strumentale oggi disponibile promossa dalla
scuola di Stoccarda, con la quale si rilevano determinati
parametri indicativi della resistenza dell’albero sottoposto
ad un carico controllato e misurando le corrispondenti
reazioni con strumenti di precisione”».
---------------
1. Con atto di ricorso notificato il 30.07.2015, il sig.
Gu.He.De. ha impugnato, chiedendone l’annullamento,
l’ordinanza del Corpo di Polizia Municipale dei Comuni di
Fabro, Monteleone d’Orvieto e Parrano n. 13/2015 del
28.05.2015, avente ad oggetto l’abbattimento di una pianta
di cipresso che insiste sulla sua proprietà, in quanto
ritenuta pericolosa per pubblica incolumità.
...
11. Nel merito il ricorso è fondato.
12. Dirimente appare sul punto al Collegio la relazione del
c.t.u. depositata in data 22.11.2017, secondo cui “le
indagini a trazione controllata [con calcolo del vento di
(25 m/s) 90 Km/h e raffiche di 110-130 Km/h] unitamente
all’analisi vegetativa e sanitaria effettuata sul cipresso
oggetto di contenzioso permettono di esprimere un giudizio
complessivo di mantenimento dell’albero” (cfr. pag. 10
della relazione), sia per la parte epigea (fusto e chioma)
che per quella ipogea (apparato radicale).
13. Ciò consente di concludere per l’assenza del paventato
pericolo per la pubblica incolumità derivante dall’asserita
debolezza dell’apparato radicale della pianta in questione,
emergendo al contrario che “al momento l’ancoraggio
dell’albero risulta idoneo e/o adeguatamente proporzionato
al sostegno dell’attuale porzione epigea (parte fuori terra)”
(cfr. pag 11 della relazione).
14. Le considerazioni che precedono impongono l’accoglimento
del gravame (TAR Umbria,
sentenza 21.05.2018 n. 366 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza in tema di condono edilizio ha
precisato che la formazione del silenzio-assenso sulla
domanda di sanatoria richiede quale presupposto essenziale,
oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di
oblazione, quello che sia stato integralmente dimostrato
-tra l'altro- l'ulteriore requisito sostanziale relativo al
tempo di ultimazione dei lavori, che è elemento rilevante
affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di
verifica dell'Amministrazione comunale.
Pertanto, è inutile il decorso del termine biennale qualora
la domanda sia carente della prova della preesistenza del
manufatto alla data prevista dalla normativa in materia. E
anche la non veritiera data di ultimazione dell'opera
abusiva, configurando l'ipotesi di domanda dolosamente
infedele, impedisce il formarsi del c.d. silenzio-assenso.
Anche questo Consiglio ha del resto recentemente affermato
che l’istituto del silenzio-assenso, “previsto dall’art. 32,
comma 37, del D.L. 269/2003 (convertito in L. 326/2003), non
opera per le costruzioni realizzate abusivamente in data
posteriore a quella indicata dalla legge.”
La formazione della fattispecie silenziosa favorevole
presuppone, inoltre, in via di principio, la completezza
della domanda di sanatoria.
---------------
8 Il Collegio deve infine scrutinare il rilievo del privato
circa l’avvenuta formazione del silenzio-assenso
sull’istanza di sanatoria (pagg. 5 e 22 dell’appello) ai
sensi dell’art. 32, comma 37, del d.l. n. 269/2003
(convertito con la legge n. 326/2003), per essere decorso il
termine di 24 mesi dalla presentazione della domanda e dal
pagamento degli oneri concessori senza che il Comune si
esprimesse.
Anche questo mezzo è infondato.
La giurisprudenza in tema di condono edilizio ha precisato
che la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di
sanatoria richiede quale presupposto essenziale, oltre al
completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione,
quello che sia stato integralmente dimostrato -tra l'altro-
l'ulteriore requisito sostanziale relativo al tempo di
ultimazione dei lavori, che è elemento rilevante affinché
possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica
dell'Amministrazione comunale (C.d.S., Sez. V, 08.11.2011,
n. 5894; 15.07.2013, n. 3844; 20.08.2013, n. 4182; Sez. VI,
27.07.2015, n. 3661).
Pertanto, è inutile il decorso del termine biennale qualora
la domanda sia carente della prova della preesistenza del
manufatto alla data prevista dalla normativa in materia
(Consiglio di Stato, sez. V, 14.10.1998, n. 1468; Sez. V,
17.10.1995, n. 1440; Cons. giust. amm. sic., sez. giurisdiz.,
21.11.1997, n. 509). E anche la non veritiera data di
ultimazione dell'opera abusiva, configurando l'ipotesi di
domanda dolosamente infedele, impedisce il formarsi del c.d.
silenzio-assenso (Consiglio di Stato, sez. V, 15/07/2013, n.
3844; IV, 30.06.2010, n. 4174; sez. V, 04.10.2007, n. 5153;
Sezione V, 04.05.1998, n. 500).
Anche questo Consiglio ha del resto recentemente affermato
(sentenza n. 531 del 04.12.2017, n. 531) che l’istituto del
silenzio-assenso, “previsto dall’art. 32, comma 37, del
D.L. 269/2003 (convertito in L. 326/2003), non opera per le
costruzioni realizzate abusivamente in data posteriore a
quella indicata dalla legge.”
La formazione della fattispecie silenziosa favorevole
presuppone, inoltre, in via di principio, la completezza
della domanda di sanatoria (cfr. ad es. C.d.S., Sez. V,
02.02.2012, n. 578).
E poiché la stessa nella specie mancava degli elementi
indicati dalla difesa comunale (memoria del 10.05.2017, pag.
8), anche tali lacune impedivano il formarsi dell’affermato
silenzio-assenso (CGARS,
sentenza 21.05.2018 n. 296 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il certificato di conformità edilizia e di
agibilità non può essere subordinato dal Comune al pagamento
delle somme richieste ai privati, in quanto le norme che ne
regolano il rilascio non prevedono tale pagamento
–sostitutivo, come detto, dell’onere urbanistico imposto–
tra le condizioni che il privato stesso deve rispettare.
Più nello specifico, posto che il certificato in questione è
ricognitivo della conformità edilizia (intesa come
conformità dell’opera al progetto assentito) e della
sussistenza delle condizioni igieniche, sanitarie e di
sicurezza per l'utilizzazione di un edificio, deve essere
escluso che il suo rilascio possa essere legittimamente
subordinato al pagamento di oneri di monetizzazione del
verde, che svolgono una diversa funzione e che non incidono
sugli aspetti e sulle finalità avuti di mira dal certificato
de quo.
In altri termini, l’amministrazione ha introdotto un onere
non previsto dalla normativa di settore e riguardante la
riscossione di una somma di denaro che, pur essendo
indirettamente connessa al complessivo progetto edilizio
attuato, deriva da altro titolo obbligatorio e può al
massimo essere riscossa tramite gli strumenti ordinari di
recupero del credito.
Non vi è pertanto alcun nesso di presupposizione tra il
versamento di tale somma di denaro e il rilascio del
certificato di conformità edilizia e di agibilità.
Ne deriva che il vincolo di subordinazione imposto dal
Comune deve considerarsi, in quanto privo di alcun supporto
normativo, alla stregua di una pretesa indebita ed
illegittima.
---------------
Con ricorso depositato in data 02.11.2017 Fr.Gr. e Fr. Di
Do., in qualità di comproprietari dell’immobile sito nel
Comune di Parma meglio descritto in epigrafe, chiedevano
l'accertamento del diritto ad ottenere il certificato di
conformità edilizia e agibilità relativo al predetto
immobile, indipendentemente dal pagamento dell'importo
dovuto a titolo di monetizzazione degli oneri di
sostituzione connessi alla sostituzione delle alberature
abbattute in forza di precedente autorizzazione; chiedevano
altresì la rideterminazione, in diminuzione, di tale
importo.
...
Quanto al terzo motivo di ricorso, lo stesso è da
accogliere sulle base delle considerazioni che si vanno ad
esporre.
Il certificato di conformità edilizia e di agibilità non può
essere subordinato dal Comune resistente al pagamento delle
somme richieste ai privati, in quanto le norme che ne
regolano il rilascio non prevedono tale pagamento
–sostitutivo, come detto, dell’onere urbanistico imposto–
tra le condizioni che il privato stesso deve rispettare.
Più nello specifico, posto che il certificato in questione è
ricognitivo della conformità edilizia (intesa come
conformità dell’opera al progetto assentito) e della
sussistenza delle condizioni igieniche, sanitarie e di
sicurezza per l'utilizzazione di un edificio, deve essere
escluso che il suo rilascio possa essere legittimamente
subordinato al pagamento di oneri di monetizzazione del
verde, che svolgono una diversa funzione e che non incidono
sugli aspetti e sulle finalità avuti di mira dal certificato
de quo.
In altri termini, l’amministrazione ha introdotto un onere
non previsto dalla normativa di settore e riguardante la
riscossione di una somma di denaro che, pur essendo
indirettamente connessa al complessivo progetto edilizio
attuato, deriva da altro titolo obbligatorio e può al
massimo essere riscossa tramite gli strumenti ordinari di
recupero del credito.
Non vi è pertanto alcun nesso di presupposizione tra il
versamento di tale somma di denaro e il rilascio del
certificato di conformità edilizia e di agibilità.
Ne deriva che il vincolo di subordinazione imposto dal
Comune di Parma deve considerarsi, in quanto privo di alcun
supporto normativo, alla stregua di una pretesa indebita ed
illegittima.
Il ricorso deve dunque essere accolto limitatamente al su
esposto profilo, dovendo per il resto essere respinto (TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 21.05.2018 n. 135 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
E' stata riconosciuta alle associazioni
ambientali la legittimazione ad impugnare atti
amministrativi ritenuti illegittimi e lesivi degli interessi
sostanziali degli associati, incidenti sull'ambiente, per
profili relativi a questi ultimi aspetti: quindi non solo il
provvedimento impugnato deve avere una diretta e immediata
rilevanza ambientale, ma devono essere dedotte censure che
concernono l'assetto normativo di tutela dell'ambiente o la
violazione di norme poste a salvaguardia dell'ambiente.
Ciò porta ad escludere la possibilità per una associazione
ambientale, già titolare di una legittimazione ex lege per
la tutela dell'ambiente, di poter fare valere profili di
illegittimità degli atti impugnati che non attengano appunto
al profilo ambientale.
Va dunque richiamato il consolidato principio per cui le
associazioni ambientalistiche hanno sì titolo ad impugnare
qualsiasi atto amministrativo, ma la specialità della loro
legittimazione a ricorrere, condizionata a monte dagli scopi
da esse perseguiti, consente loro unicamente la deduzione di
censure funzionali al soddisfacimento di interessi
ambientali e impedisce invece la proposizione di doglianze
relative a violazioni di altra natura, le quali solo in via
strumentale ed indiretta -e non in ragione della violazione
dell'assetto normativo di tutela dell'ambiente- potrebbero
semmai determinare un effetto utile ai fini della
salvaguardia dei valori ambientali.
Pertanto, i profili di gravame devono essere attinenti alla
sfera di interesse ambientale dell'associazione e, come
tali, devono essere intesi al conseguimento di una utilità
"direttamente rapportata" alla posizione legittimante.
---------------
2.- Osserva, in limine, il Collegio come si palesi evidente
l’inammissibilità di entrambi gli interventi spiegati stante
la carenza di legittimazione attiva sia dell’associazione “Fare
Ambiente MEE - Movimento Ecologista Europeo” che di
Be.Fe..
2.1. Quanto alla prima, l’Alto Consesso ha riconosciuto alle
associazioni ambientali la legittimazione ad impugnare atti
amministrativi ritenuti illegittimi e lesivi degli interessi
sostanziali degli associati, incidenti sull'ambiente, per
profili relativi a questi ultimi aspetti: quindi non solo il
provvedimento impugnato deve avere una diretta e immediata
rilevanza ambientale, ma devono essere dedotte censure che
concernono l'assetto normativo di tutela dell'ambiente o la
violazione di norme poste a salvaguardia dell'ambiente. Ciò
porta ad escludere la possibilità per una associazione
ambientale, già titolare di una legittimazione ex lege
per la tutela dell'ambiente, di poter fare valere profili di
illegittimità degli atti impugnati che non attengano appunto
al profilo ambientale (cfr.; Cons. St., sez. IV, 09.10.2002,
n. 5365; 14.04.2011, n. 2329).
Va dunque richiamato il consolidato principio per cui le
associazioni ambientalistiche hanno sì titolo ad impugnare
qualsiasi atto amministrativo, ma la specialità della loro
legittimazione a ricorrere, condizionata a monte dagli scopi
da esse perseguiti, consente loro unicamente la deduzione di
censure funzionali al soddisfacimento di interessi
ambientali e impedisce invece la proposizione di doglianze
relative a violazioni di altra natura, le quali solo in via
strumentale ed indiretta -e non in ragione della violazione
dell'assetto normativo di tutela dell'ambiente- potrebbero
semmai determinare un effetto utile ai fini della
salvaguardia dei valori ambientali (v. Cons. giust. amm.
Reg. Sic. 16.10.2012 n. 933).
Pertanto, i profili di gravame devono essere attinenti alla
sfera di interesse ambientale dell'associazione e, come
tali, devono essere intesi al conseguimento di una utilità "direttamente
rapportata" alla posizione legittimante (v. TAR Liguria,
Sez. I, 29.06.2012 n. 905).
Da tanto discende il difetto di legittimazione
dell’intervenuta associazione poiché quest’ultima, da un
lato, non ha dedotto alcunché in ordine al possibile
impatto del contestato progetto edilizio sul patrimonio
culturale ed ambientale e, dall’altro, ha sollevato
dei profili di illegittimità del predetto intervento che,
riguardando unicamente l’asserita violazione di norme
generali di piano ovvero di attuazione tecnica, potevano,
come tali, essere fatte valere dai soli proprietari
interessati dall'eventuale trasformazione dell’area in
questione (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 18.05.2018 n. 755 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Si registrano nella giurisprudenza posizioni che
riconoscono la vicinitas, intesa come situazione di stabile
collegamento giuridico con il fondo oggetto dell'intervento
contestato, come elemento di per sé sufficiente a sorreggere
l'interesse a ricorrere avverso l'abuso del vicino.
Tuttavia, non può sottacersi che la giurisprudenza ha,
altresì, riconosciuto in diversa circostanza che "il mero
criterio della vicinitas non può ex se radicare la
legittimazione al ricorso, dovendo pur sempre il ricorrente
fornire la prova concreta del pregiudizio specifico inferto
dagli atti impugnati".
Non mancano ancora posizioni intermedie che pur affermando
su di un piano generale la sufficienza della vicinitas
fondano nel concreto il giudizio di ammissibilità
dell'azione sulla concomitante presenza dell'elemento lesivo
sia pur diversamente declinato.
È stato, infatti, affermato che "il rapporto di vicinitas,
ossia di stabile collegamento con l'area interessata
dall'intervento edilizio contestato, è idoneo e sufficiente
a fondare la legittimazione a ricorrere in presenza di una
lesione concreta e attuale provocata dal provvedimento
amministrativo impugnato" con ciò richiedendo una lesione
qualificata in termini di attualità e concretezza.
In altra occasione, sempre premettendo l'adesione al "consolidato
orientamento giurisprudenziale che, in ipotesi simili
(stabile collegamento o vicinitas) ravvisa la legittimazione
attiva in capo ai soggetti titolari di immobili frontisti,
confinanti o limitrofi, nonché versanti in situazioni
differenziate tutelabili", si è giunti, con posizione meno
restrittiva, a riconoscere "la legittimazione attiva in capo
ai soggetti titolari di immobili frontisti, confinanti o
limitrofi, nonché versanti in situazioni differenziate
tutelabili" purché "suscettibili di essere incise
dall'adozione di un provvedimento autorizzativo in favore
altrui con ciò riconoscendo rilevanza ad una lesione meno
caratterizzata".
Riassunto nei suesposti (e sintetici) termini il più recente
contesto giurisprudenziale, il Collegio ritiene di
condividere l'affermata insufficienza del solo requisito
della vicinitas a radicare un concreto ed attuale
interesse all'impugnazione pur senza pervenire alla
posizione diametralmente opposta che richiedendo la prova di
una lesione eccessivamente caratterizzata, si risolverebbe
nei fatti in una irragionevole limitazione degli ambiti di
tutela in materia edilizia.
Ai fini della legittimazione ad agire in presenza di abusi
incombe, pertanto, sul ricorrente/interventore la
dimostrazione del duplice requisito dello stabile
collegamento con il luogo dell'intervento che si afferma
abusivo e la allegazione di una lesione che non potrà essere
riconosciuta come sussistente solo in ragione del carattere
abusivo dell'opera realizzata ma che dovrà essere allegata
(e comprovata) anche se come solo eventuale o potenziale ma
sulla base di puntuali allegazioni.
A sostegno della tesi espressa si richiama il principio già
affermato dal Consiglio di Stato laddove, pur non
condividendo la già richiamata posizione estrema di cui alla
decisione n. 383/2016, segnala "che con un'altra
sentenza, sempre del 2016, la n. 851 della IV Sezione, è
stato considerato attuale e concreto l'interesse di chi
vanti una posizione di "vicinitas" a che il vicino edifichi
regolarmente anche in presenza di una lesione potenziale o
eventuale".
---------------
2.2.- Analoga sorte compete anche all’intervento spiegato da
Fe.Be..
Nel caso di specie, affermano i ricorrenti che il predetto
interventore non potrebbe lamentare alcuna lesione in
conseguenza della pretesa abusività del manufatto poiché
realizzato in zona distinta (classificata come B1) rispetto
a quella in cui insisteva il fabbricato di proprietà del
Be..
L'eccezione come sollevata è fondata.
Osserva il Collegio che si registrano nella giurisprudenza
posizioni che riconoscono la vicinitas, intesa come
situazione di stabile collegamento giuridico con il fondo
oggetto dell'intervento contestato, come elemento di per sé
sufficiente a sorreggere l'interesse a ricorrere avverso
l'abuso del vicino (ex multis, TAR Basilicata,
28.11.2016, n. 1071; TAR Piemonte, Sez. I, 28.11.2016, n.
1071).
Tuttavia, non può sottacersi che la giurisprudenza ha,
altresì, riconosciuto in diversa circostanza che "il mero
criterio della vicinitas non può ex se radicare la
legittimazione al ricorso, dovendo pur sempre il ricorrente
fornire la prova concreta del pregiudizio specifico inferto
dagli atti impugnati" (cfr.: Cons. Stato, Sez. IV,
02.02.2016, n. 383).
Non mancano ancora posizioni intermedie che pur affermando
su di un piano generale la sufficienza della vicinitas
fondano nel concreto il giudizio di ammissibilità
dell'azione sulla concomitante presenza dell'elemento lesivo
sia pur diversamente declinato.
È stato, infatti, affermato che "il rapporto di vicinitas,
ossia di stabile collegamento con l'area interessata
dall'intervento edilizio contestato, è idoneo e sufficiente
a fondare la legittimazione a ricorrere in presenza di una
lesione concreta e attuale provocata dal provvedimento
amministrativo impugnato" (TAR Piemonte, Sez. I,
01.12.2016, n. 1477) con ciò richiedendo una lesione
qualificata in termini di attualità e concretezza.
In altra occasione, sempre premettendo l'adesione al "consolidato
orientamento giurisprudenziale che, in ipotesi simili
(stabile collegamento o vicinitas) ravvisa la legittimazione
attiva in capo ai soggetti titolari di immobili frontisti,
confinanti o limitrofi, nonché versanti in situazioni
differenziate tutelabili", si è giunti, con posizione meno
restrittiva, a riconoscere "la legittimazione attiva in capo
ai soggetti titolari di immobili frontisti, confinanti o
limitrofi, nonché versanti in situazioni differenziate
tutelabili" purché "suscettibili di essere incise
dall'adozione di un provvedimento autorizzativo in favore
altrui con ciò riconoscendo rilevanza ad una lesione meno
caratterizzata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 7245
del 05.11.2004; sez. V, sent. n. 3757 del 07.07.2005; sent.
354 del 31.01.2006; n. 2086 del 07.05.2008; sez IV, sent. n.
1315 del 12.03.2015)".
Riassunto nei suesposti (e sintetici) termini il più recente
contesto giurisprudenziale, il Collegio ritiene di
condividere l'affermata insufficienza del solo requisito
della vicinitas a radicare un concreto ed attuale
interesse all'impugnazione pur senza pervenire alla
posizione diametralmente opposta che richiedendo la prova di
una lesione eccessivamente caratterizzata, si risolverebbe
nei fatti in una irragionevole limitazione degli ambiti di
tutela in materia edilizia.
Ai fini della legittimazione ad agire in presenza di abusi
incombe, pertanto, sul ricorrente/interventore la
dimostrazione del duplice requisito dello stabile
collegamento con il luogo dell'intervento che si afferma
abusivo e la allegazione di una lesione che non potrà essere
riconosciuta come sussistente solo in ragione del carattere
abusivo dell'opera realizzata ma che dovrà essere allegata
(e comprovata) anche se come solo eventuale o potenziale ma
sulla base di puntuali allegazioni.
A sostegno della tesi espressa si richiama il principio già
affermato dal Consiglio di Stato laddove, pur non
condividendo la già richiamata posizione estrema di cui alla
decisione n. 383/2016, segnala "che con un'altra
sentenza, sempre del 2016, la n. 851 della IV Sezione, è
stato considerato attuale e concreto l'interesse di chi
vanti una posizione di "vicinitas" a che il vicino edifichi
regolarmente anche in presenza di una lesione potenziale o
eventuale" (cfr.: Cons. Stato Sez. VI, 09.05.2016, n.
1861).
Ciò premesso deve rilevarsi come nel caso di specie, l’interventore
non allega né comprova, nemmeno sotto il profilo potenziale,
alcun ragionevole profilo di pregiudizio.
A tal proposito, il Be. si è limitato ad affermare
genericamente che il contestato intervento edilizio avrebbe
comportato una riduzione, nell’ambito dell’area in cui
sorgeva l’immobile di sua proprietà, di spazi da destinare a
standard urbanistici nonché un deprezzamento dei valori
immobiliari.
Tali circostanze, oltre ad essere state esposte in modo del
tutto generico, appaiono anche del tutto prive del
necessario supporto sul piano dell’allegazione, prim’ancora
che su quello probatorio.
A ciò aggiungasi l’impossibilità di configurare in concreto
lo stesso requisito della vicinitas.
Non può, invero, sottacersi che, in analoga vicenda che
vedeva come interventore il Be., il Giudice di Appello,
premettendo che, per non trasformare le azioni impugnatorie
in azioni popolari o una giurisdizione a tutela di
situazioni soggettive di parte, quale quella amministrativa,
in una giurisdizione di diritto oggettivo, il requisito
della vicinitas va inteso in senso proprio e non
generico, ha osservato che le relative zone omogenee erano
comunque diverse (C2 Belmonte; B1 i ricorrenti e sono
separate dalla ferrovia che attraversa la città), cosicché
dalla descritta conformazione dei luoghi segue che il Be.
non aveva legittimazione e interesse a intervenire nel
giudizio
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 18.05.2018 n. 755 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La necessità della presentazione di un previo
piano attuativo si impone qualora si tratti di asservire per
la prima volta all'edificazione, mediante la costruzione di
uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate che
obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo col
preesistente aggregato abitativo, la realizzazione delle
opere di urbanizzazione primaria e secondaria. In tal caso
non può prescindersi dalla previa
predisposizione di un piano esecutivo (piano di
lottizzazione o piano particolareggiato) quale presupposto
per il rilascio della concessione edilizia.
In tale situazione, ove si impone la esigenza di non
infrangere l'integrità originaria del territorio, va
rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo,
dell'approvazione dello strumento urbanistico generale e
della susseguente predisposizione dello strumento
urbanistico d'attuazione, utile a garantire e una
pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del
territorio dal punto di vista urbanistico ed edilizio.
Diversamente, qualora si verta in presenza di un lotto
intercluso o in altri analoghi casi in cui la zona risulti
totalmente urbanizzata attraverso la realizzazione delle
opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni
della collettività -quali strade, spazi di sosta, fognature,
reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia
elettrica, scuole, etc.- lo strumento urbanistico esecutivo
non può ritenersi più necessario e non può, pertanto,
legittimarsi un rifiuto da parte del Comune che sia basato
sul solo argomento formale della mancata attuazione della
strumentazione urbanistica di dettaglio.
Vi sono tuttavia delle situazioni intermedie, non
necessariamente identificabili né sovrapponibili con le
fattispecie di "lotto intercluso" oppure con altre
similari, nelle quali l'area interessata dall'intervento può
risultare anche solo in parte, edificata, e, parallelamente,
può essere più o meno asservita da opere di urbanizzazione.
In tali casi, ove si è in presenza di una sostanziale, anche
se non completa urbanizzazione, si è affermata una soluzione
interpretativa, ispirata all'esigenza di assicurare un
equilibrato contemperamento dei diversi interessi in gioco,
volta a valorizzare e rendere più pregnante l'onere
motivazionale gravante a carico della amministrazione
interessata. In tali casi, si ritiene che la amministrazione
non possa, né debba, invocare a fondamento del diniego di
permesso di costruire la sola mancanza del piano attuativo,
ma sia tenuta altresì a verificare e valutare quale sia lo
stato di urbanizzazione già presente nella zona e che debba
congruamente evidenziare e motivare quali siano le concrete
e ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova
costruzione.
Si è osservato al riguardo che l'Ente locale, avendo la
disponibilità dei dati tecnici attestanti la reale
consistenza del reticolo connettivo del suo territorio, sia
per quanto concerne urbanizzazione primaria, sia per le
opere di urbanizzazione secondaria, è senza dubbio in grado
di stabilire se e in che misura un ulteriore ed eventuale
carico edilizio possa armonicamente inserirsi nell'assetto
del territorio già realizzato o in via di realizzazione.
Ed infatti l'esistenza delle opere di urbanizzazione,
rilevante ai fini della necessità o meno della previa
redazione di un piano di lottizzazione o di altro strumento
urbanistico attuativo prima del rilascio della concessione
edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza
delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale
valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione
di un'area -valutazione rimessa all'apprezzamento di merito
dell'amministrazione- non può che essere effettuata alla
stregua della normativa sugli "standards" urbanistici
di cui al combinato disposto del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e
art. 17 l. 06.08.1967 n. 765, onde l'equivalenza tra
pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione
non è configurabile quando non si riscontri l'esistenza di
opere di urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle
quantità minime prescritte.
Naturalmente, effettuata siffatta valutazione di congruità e
sufficienza rispetto agli standards previsti dalla normative
e dai bisogni della collettività locale, al Comune è
consentito rifiutare ulteriori assensi edilizi, purché
motivi adeguatamente le ragioni del diniego, in rapporto
alla situazione generale del comprensorio a quel momento
esistente.
---------------
Nelle zone già urbanizzate è consentito derogare all'obbligo
dello strumento attuativo nell'ipotesi, del tutto
eccezionale, che si sia già realizzata una situazione di
fatto che da quegli strumenti consenta con sicurezza di
prescindere, in quanto risultano oggettivamente non più
necessari, essendo stato pienamente raggiunto il risultato
cui sono finalizzati.
Vale aggiungere che la completezza del sistema
infrastrutturale di comparto trascende le dimensioni e
l'utilità urbanistica del singolo lotto edificabile, dovendo
inevitabilmente apprezzarsi in riferimento alle singole zone
e riguardare l'intero comprensorio.
In definitiva, sebbene il diniego di permesso di costruire
motivato sulla base di una previsione di p.r.g. che
subordini l'edificazione su una determinata area alla previa
predisposizione di un piano particolareggiato sia legittimo,
tale obbligo può venire meno nei casi in cui
l'amministrazione accerti la sufficienza delle opere di
urbanizzazione già esistenti, perché trattasi di lotto
"intercluso" o comunque di maglia già adeguatamente
urbanizzata.
---------------
3.- Delimitato l’ambito soggettivo del giudizio, il vaglio
del thema decidendum, in considerazione anche di
quanto emerso all’esito della espletata consulenza tecnica
(cfr. Relazione, depositata in data 13.03.2017 ed
integrazione del 21.03.2018), conduce ad affermare la
fondatezza dei motivi di ricorso, con il conseguente
annullamento di tutti gli atti impugnati.
3.1.- È innanzitutto fondato il motivo di impugnazione con
cui gli odierni ricorrenti hanno censurato il provvedimento
emesso dall’ente comunale di revoca del titolo edilizio
(provvedimento prot. 2192 del 27.11.2013) nella parte in cui
ha ritenuto preclusa, nell’area in cui insiste il fondo di
loro proprietà, l’edificazione diretta in assenza cioè della
pianificazione particolareggiata.
Osserva il Collegio che nella materia in esame costituisce
ormai principio pacifico ed acquisito che la necessità della
presentazione di un previo piano attuativo si impone qualora
si tratti di asservire per la prima volta all'edificazione,
mediante la costruzione di uno o più fabbricati, aree non
ancora urbanizzate che obiettivamente richiedano, per il
loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo,
la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria. In tal caso non può prescindersi dalla previa
predisposizione di un piano esecutivo (piano di
lottizzazione o piano particolareggiato) quale presupposto
per il rilascio della concessione edilizia (cfr., C.d.S.,
Ad. Plen., 20.05.1980 n. 18 e 06.12.1992 n. 12; V Sezione,
13.11.1990 n. 776; 06.04.1991 n. 446 e 07.01.1999 n. 1; TAR
Campania, IV Sezione, 02.03.2000 n. 596).
In tale situazione, ove si impone la esigenza di non
infrangere l'integrità originaria del territorio, va
rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo,
dell'approvazione dello strumento urbanistico generale e
della susseguente predisposizione dello strumento
urbanistico d'attuazione, utile a garantire e una
pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del
territorio dal punto di vista urbanistico ed edilizio.
Diversamente, qualora si verta in presenza di un lotto
intercluso o in altri analoghi casi in cui la zona risulti
totalmente urbanizzata attraverso la realizzazione delle
opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni
della collettività -quali strade, spazi di sosta, fognature,
reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia
elettrica, scuole, etc.- lo strumento urbanistico esecutivo
non può ritenersi più necessario e non può, pertanto,
legittimarsi un rifiuto da parte del Comune che sia basato
sul solo argomento formale della mancata attuazione della
strumentazione urbanistica di dettaglio (cfr., per tutte,
TAR Campania, IV Sezione, 06.06.2000 n. 1819).
Vi sono tuttavia delle situazioni intermedie, non
necessariamente identificabili né sovrapponibili con le
fattispecie di "lotto intercluso" oppure con altre
similari, nelle quali l'area interessata dall'intervento può
risultare anche solo in parte, edificata, e, parallelamente,
può essere più o meno asservita da opere di urbanizzazione.
In tali casi, ove si è in presenza di una sostanziale, anche
se non completa urbanizzazione, si è affermata una soluzione
interpretativa, ispirata all'esigenza di assicurare un
equilibrato contemperamento dei diversi interessi in gioco,
volta a valorizzare e rendere più pregnante l'onere
motivazionale gravante a carico della amministrazione
interessata. In tali casi, si ritiene che la amministrazione
non possa, né debba, invocare a fondamento del diniego di
permesso di costruire la sola mancanza del piano attuativo,
ma sia tenuta altresì a verificare e valutare quale sia lo
stato di urbanizzazione già presente nella zona e che debba
congruamente evidenziare e motivare quali siano le concrete
e ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova
costruzione (cfr., C.d.S., Ad. Plen., 06.10.1992 n. 12; V
Sezione, 03.10.1997 n. 1097, 25.10.1997 n. 1189 e 18.08.1998
n. 1273; TAR Lazio, II Sezione, 29.09.2000 n. 7649; TAR
Campania, IV Sezione, 02.03.2000 n. 596 e 18.05.2000 n.
1413).
Si è osservato al riguardo che l'Ente locale, avendo la
disponibilità dei dati tecnici attestanti la reale
consistenza del reticolo connettivo del suo territorio, sia
per quanto concerne urbanizzazione primaria, sia per le
opere di urbanizzazione secondaria, è senza dubbio in grado
di stabilire se e in che misura un ulteriore ed eventuale
carico edilizio possa armonicamente inserirsi nell'assetto
del territorio già realizzato o in via di realizzazione.
Ed infatti l'esistenza delle opere di urbanizzazione,
rilevante ai fini della necessità o meno della previa
redazione di un piano di lottizzazione o di altro strumento
urbanistico attuativo prima del rilascio della concessione
edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza
delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale
valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione
di un'area -valutazione rimessa all'apprezzamento di merito
dell'amministrazione- non può che essere effettuata alla
stregua della normativa sugli "standards" urbanistici
di cui al combinato disposto del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e
art. 17 l. 06.08.1967 n. 765, onde l'equivalenza tra
pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione
non è configurabile quando non si riscontri l'esistenza di
opere di urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle
quantità minime prescritte (cfr. Consiglio Stato sez. V,
29.04.2000, n. 2562).
Naturalmente, effettuata siffatta valutazione di congruità e
sufficienza rispetto agli standards previsti dalla normative
e dai bisogni della collettività locale, al Comune è
consentito rifiutare ulteriori assensi edilizi, purché
motivi adeguatamente le ragioni del diniego, in rapporto
alla situazione generale del comprensorio a quel momento
esistente.
Ciò premesso, alla luce dell'orientamento testé richiamato,
dall’espletato accertamento tecnico è emerso che il
programmato intervento edilizio è “situato in un’area del
territorio urbano di Battipaglia completamente interessata
dalla presenza di edifici di vario tipo (uso residenziale
e/o commerciale, ecc.), e sulla quale insistono opere di
urbanizzazione quali strade, parcheggi pubblici, condotti
elettrici e fognari, acquedotto, telecomunicazioni, per cui
si può senz’altro affermare che il grado di urbanizzazione
dell’area di interesse è tale da farla risultare
compiutamente e definitivamente collegata ed integrata con
le già esistenti opere di urbanizzazione, primarie e
secondarie, presenti e/o da eseguirsi sulla scorta di quanto
previsto dagli strumenti urbanistici vigenti”.
La mancanza del piano attuativo non poteva, dunque,
condizionare il rilascio del permesso di costruire,
essendosi riscontrata l’urbanizzazione dell'area che rendeva
superfluo ogni ulteriore adempimento nella definizione della
disciplina urbanistica di dettaglio.
Tale principio è affermato dalla giurisprudenza prevalente,
secondo cui nelle zone già urbanizzate è consentito derogare
all'obbligo dello strumento attuativo nell'ipotesi, del
tutto eccezionale, che si sia già realizzata una situazione
di fatto che da quegli strumenti consenta con sicurezza di
prescindere, in quanto risultano oggettivamente non più
necessari, essendo stato pienamente raggiunto il risultato
cui sono finalizzati. Vale aggiungere che la completezza del
sistema infrastrutturale di comparto trascende le dimensioni
e l'utilità urbanistica del singolo lotto edificabile,
dovendo inevitabilmente apprezzarsi in riferimento alle
singole zone e riguardare l'intero comprensorio.
In definitiva, sebbene il diniego di permesso di costruire
motivato sulla base di una previsione di p.r.g. che
subordini l'edificazione su una determinata area alla previa
predisposizione di un piano particolareggiato, sia
legittimo, tale obbligo può venire meno nei casi in cui
l'amministrazione accerti la sufficienza delle opere di
urbanizzazione già esistenti, perché trattasi di lotto
"intercluso" o comunque di maglia già adeguatamente
urbanizzata (cfr.: Consiglio di Stato, sez. IV, 27/04/2012,
n. 2470).
Nell’odierna fattispecie, l’impugnato provvedimento non
poteva fondarsi esclusivamente sull’asserita necessità del
piano particolareggiato, atteso che lo stato di
urbanizzazione accertato all’esito della espletata
consulenza imponeva all'amministrazione una valutazione più
approfondita dello stato di urbanizzazione dell'area, cui
conseguiva l'onere di dar conto nella motivazione delle
verifiche effettuate circa la sufficienza o insufficienza
della urbanizzazione esistente, nonché, nello specifico,
delle ragioni per cui la urbanizzazione, ove esistente non
fosse in grado di soddisfare i parametri minimi necessari
per il rilascio del permesso di costruire richiesto, e,
quindi, necessitasse della previa predisposizione del piano
attuativo.
Nella specie la motivazione opposta dalla amministrazione a
fondamento del diniego impugnato risultava limitata ad un
laconico richiamo della normativa urbanistica applicabile,
senza nulla precisare in ordine all'adeguatezza delle opere
di urbanizzazione esistenti, e senza riscontrare le
osservazioni ex art. 10-bis al riguardo prodotte dai
ricorrenti.
Tale motivazione, per le ragioni che si sono esposte in
precedenza e per la giurisprudenza sopra richiamata, deve
ritenersi del tutto insufficiente ed inadeguata rispetto
all'onere motivazionale richiesto per i casi sovrapponibili
a quello in esame
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 18.05.2018 n. 755 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce costante insegnamento della Corte di
Cassazione che la disciplina della prevenzione di cui
all'art. 875 c.c. implica che intanto esiste il diritto di
prevenzione, in quanto ciascuno dei due contrapposti
interessati possa costruire sul confine ovvero a distanza da
esso inferiore alla metà di quella legale o regolamentare e
che, corrispondentemente, intanto esiste il diritto del
prevenuto di costruire in appoggio o in aderenza,
nell'ipotesi di costruzione non a confine (art. 875 e 877
comma 2 c.c.), in quanto al preveniente sia consentito, a
sua volta, di optare per il prolungamento della sua
costruzione sino al confine.
Cosicché, quando gli strumenti urbanistici stabiliscano
determinate distanze dal confine ma prevedano anche la
possibilità di costruire in aderenza od in appoggio, si
versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata
dagli artt. 873 e ss. c.c., con la conseguenza che si
applica il criterio della prevenzione, in forza del quale è
consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo
così il vicino -che intenda a sua volta edificare-
nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di
costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni
previste dagli artt. 875 e 877, secondo comma, c.c.), ovvero
di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la
maggiore intera distanza imposta dallo strumento
urbanistico.
---------------
3.2.- Parimenti, l’espletata consulenza tecnica ha
consentito di confutare anche la seconda ragione su cui si
fonda il primigenio provvedimento impugnato.
Le Norme di Attuazione del vigente PRG, invero, prevedono la
fabbricazione in aderenza, ove possibile, su due lati nelle
zone omogenee B1, B2 e C3.
Costituisce costante insegnamento della Corte di Cassazione
che la disciplina della prevenzione di cui all'art. 875 c.c.
implica che intanto esiste il diritto di prevenzione, in
quanto ciascuno dei due contrapposti interessati possa
costruire sul confine ovvero a distanza da esso inferiore
alla metà di quella legale o regolamentare e che,
corrispondentemente, intanto esiste il diritto del prevenuto
di costruire in appoggio o in aderenza, nell'ipotesi di
costruzione non a confine (art. 875 e 877 comma 2 c.c.), in
quanto al preveniente sia consentito, a sua volta, di optare
per il prolungamento della sua costruzione sino al confine;
cosicché, quando gli strumenti urbanistici stabiliscano
determinate distanze dal confine ma prevedano anche la
possibilità di costruire in aderenza od in appoggio, si
versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata
dagli artt. 873 e ss. c.c., con la conseguenza che si
applica il criterio della prevenzione, in forza del quale è
consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo
così il vicino -che intenda a sua volta edificare-
nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di
costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni
previste dagli artt. 875 e 877, secondo comma, c.c.), ovvero
di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la
maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico
(cfr.: Cassazione civile, sez. II, 11/12/2015, n. 25032).
Nel caso di specie, il fabbricato che i ricorrenti intendono
realizzare, cosi come risulta dagli elaborati di progetto ed
accertato dal nominato esperto, prevede la costruzione della
scala “a confine”, nel rispetto di una eventuale
futura costruzione in aderenza da parte della proprietà
limitrofa.
Ne discende la fondatezza anche della censura all’uopo mossa
avverso la seconda ragione posta a fondamento dell’impugnato
provvedimento
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 18.05.2018 n. 755 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Giova richiamare la distinzione giurisprudenziale
tra "varianti essenziali" e "varianti
minori" o "leggere".
Costituisce, in particolare, variante essenziale ogni
modifica incompatibile col disegno globale ispiratore
dell'originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto
qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo.
Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto,
soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata
dall'art. 32 del D.P.R. 380/2011, la quale ricomprende il
mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione
degli standards, l'aumento consistente della cubatura o
della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle
caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la
violazione delle norme vigenti in materia antisismica,
mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature
accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative.
Ai fini, invece, dell'individuazione della categoria di
variante minore o leggera, l'art. 22, comma 2, del D.P.R.
380/2011 prevede che sono subordinate a SCIA (ex DIA) le
varianti a permessi di costruire che non incidono sui
parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la
destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la
sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi
del D.Lgs. 42/2004, non violano le prescrizioni
eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la SCIA (ex DIA) costituisce "parte
integrante del procedimento relativo al permesso di
costruzione dell'intervento principale" e può essere
presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei
lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la
possibilità di dare corso alle opere in difformità dal
permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei
lavori, purché si tratti -come si è visto- di varianti
leggere minori o leggere.
In definitiva, ai sensi dell'art. 3 comma 1, lett. d),
d.P.R. n. 380 del 2001, rientrano nell'ambito di interventi
di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella
demolizione e successiva ricostruzione, con la stessa
volumetria, del fabbricato preesistente. La norma è il
risultato di una recente modifica introdotta dall'art. 30
comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013 n. 69 convertito, con
modificazioni, dalla l. 09.08.2013 n. 98.
Prima di questa modifica, la disposizione specificava che,
per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli
interventi di demolizione e ricostruzione dovevano
rispettare il vincolo della sagoma. La nuova norma, a
differenza della precedente, non fa più menzione della
sagoma, sicché deve ritenersi che, attualmente, possono
considerarsi interventi di ristrutturazione anche quelli che
si limitano al rispetto della preesistente volumetria.
Sennonché l'ultimo periodo della disposizione specifica che
«rimane fermo che, con riferimento agli immobili
sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo
22.01.2004 n. 42 e successive modificazioni, gli interventi
di demolizione e ricostruzione... costituiscono interventi
di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la
medesima sagoma dell'edificio preesistente».
Pertanto, detta norma prevede un'eccezione alla regola
generale sancita dal primo periodo della lett. d); eccezione
che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree
sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali
e del paesaggio. Soltanto per questi immobili, dunque,
continua a permanere il vincolo della sagoma;
conseguentemente, qualora l'intervento di demolizione e
ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite
della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di un
intervento di ristrutturazione edilizia ma andrà ascritto
alla categoria della nuova costruzione.
---------------
3.3.- Infine, fondato è anche il ricorso per motivi
aggiunti con cui i ricorrenti hanno censurato il
provvedimento di cui alla nota prot. n. 36055 del
26.05.2015, recante “rigetto della s.c.i.a. in variante”,
contrassegnata prot. n. 33106 del 15.05.2015.
A tal fine, giova richiamare la distinzione
giurisprudenziale tra "varianti essenziali" e "varianti
minori" o "leggere" (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.04.2007 n. 1572; 21.05.2010, n. 3231; Cass. pen., sez. III,
24.03.2010 n. 24236; 25.09.2012 n. 49290).
Costituisce, in particolare, variante essenziale ogni
modifica incompatibile col disegno globale ispiratore
dell'originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto
qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo.
Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto,
soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata
dall'art. 32 del D.P.R. 380/2011, la quale ricomprende il
mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione
degli standards, l'aumento consistente della cubatura o
della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle
caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la
violazione delle norme vigenti in materia antisismica,
mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature
accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna
delle singole unità abitative.
Ai fini, invece, dell'individuazione della categoria di
variante minore o leggera, l'art. 22, comma 2, del D.P.R.
380/2011 prevede che sono subordinate a SCIA (ex DIA) le
varianti a permessi di costruire che non incidono sui
parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la
destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la
sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi
del D.Lgs. 42/2004, non violano le prescrizioni
eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la SCIA (ex DIA) costituisce "parte
integrante del procedimento relativo al permesso di
costruzione dell'intervento principale" e può essere
presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei
lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la
possibilità di dare corso alle opere in difformità dal
permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei
lavori, purché si tratti -come si è visto- di varianti
leggere minori o leggere.
In definitiva, ai sensi dell'art. 3 comma 1, lett. d),
d.P.R. n. 380 del 2001, rientrano nell'ambito di interventi
di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella
demolizione e successiva ricostruzione, con la stessa
volumetria, del fabbricato preesistente. La norma è il
risultato di una recente modifica introdotta dall'art. 30
comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013 n. 69 convertito, con
modificazioni, dalla l. 09.08.2013 n. 98.
Prima di questa modifica, la disposizione specificava che,
per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli
interventi di demolizione e ricostruzione dovevano
rispettare il vincolo della sagoma. La nuova norma, a
differenza della precedente, non fa più menzione della
sagoma, sicché deve ritenersi che, attualmente, possono
considerarsi interventi di ristrutturazione anche quelli che
si limitano al rispetto della preesistente volumetria.
Sennonché l'ultimo periodo della disposizione specifica che
«rimane fermo che, con riferimento agli immobili
sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo
22.01.2004 n. 42 e successive modificazioni, gli interventi
di demolizione e ricostruzione... costituiscono interventi
di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la
medesima sagoma dell'edificio preesistente».
Pertanto, detta norma prevede un'eccezione alla regola
generale sancita dal primo periodo della lett. d); eccezione
che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree
sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali
e del paesaggio. Soltanto per questi immobili, dunque,
continua a permanere il vincolo della sagoma;
conseguentemente, qualora l'intervento di demolizione e
ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite
della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di un
intervento di ristrutturazione edilizia ma andrà ascritto
alla categoria della nuova costruzione (cfr.: TAR Lombardia
Milano, sez. II, 30/11/2016, n. 2274).
Ebbene, nella fattispecie in esame, gli interventi
contestati -per come accertati dal nominato esperto-,
rispetto al progetto originario hanno comportato:
- la diversa distribuzione di parte della volumetria, dislocata
originariamente al piano terra, al piano sesto del
fabbricato di progetto, senza tuttavia alterare la cubatura
complessiva da realizzarsi;
- la modifica/alterazione della sagoma del fabbricato di progetto
originario, ossia della conformazione planovolumetrica della
costruzione e del suo perimetro considerato in senso
verticale ed orizzontale;
- la modifica delle facciate dell’edificio, con la previsione in
variante di nuove aperture di finestre e/o balconi o
chiusura/modifica di quelle previste nel progetto
originario.
Siccome l’edificio non insiste su un'area sottoposta a
vincolo ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42,
deve reputarsi l’intervento pienamente rientrante
nell'ambito applicativo dell’art. 22 D.P.R. 380/2001, tenuto
conto che non è consistito né nella trasformazione
(funzionale ovvero materiale) dei locali, né nella
realizzazione ex novo di superfici ulteriori rispetto a
quelle assentite con titolo edificatorio.
Alla stregua di tali coordinate emerge, dunque, la
fondatezza della censura rassegnata sul punto dal
ricorrente, con il conseguente definitivo accoglimento del
proposto gravame ed annullamento dei provvedimenti impugnati
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 18.05.2018 n. 755 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nella gara d’appalto svolta in forma aggregata il ricorso di
primo grado deve essere notificato nei soli confronti
dell’ente che ha emanato l’atto impugnato.
L’Adunanza plenaria, nello stabilire che in caso di gara
d’appalto svolta in forma aggregata la notificazione del
ricorso di primo grado avvenga solo nei confronti dell’ente
che ha emanato il provvedimento impugnato, arricchisce la
casistica sui poteri esercitabili dal medesimo consesso ex
art. 99 c.p.a.
---------------
●
Giustizia amministrativa – Consiglio di Stato – Adunanza
plenaria – Restituzione degli atti alla sezione –
Presupposti
●
Giustizia amministrativa – Consiglio di Stato – Adunanza
plenaria – Ordine di esame delle questioni rimesse – Ricorso
incidentale escludente – Priorità – In caso di difettosa
costituzione del rapporto processuale – Esclusione
●
Giustizia amministrativa – Appalti – Gara in forma aggregata
– Ricorso – Notificazione alla sola amministrazione capofila
– Sufficienza
●
Devono essere restituiti gli atti alla sezione se la
rimessione della questione è così contraddittoria da
impedire all’Adunanza plenaria di stabilire se la stessa sia
già stata decisa (nella specie, se, in caso di esecutori
plurisoggettivi costituiti in un RTI, possa ritenersi
necessario e sufficiente che siano garantite la loro
affidabilità e responsabilità attraverso la qualificazione
del RTI sulla base del complessivo fatturato conseguito
dalle singole imprese, mentre resterebbe viceversa
liberamente modulabile la ripartizione dell’esecuzione degli
obblighi fra le imprese partecipanti, essendo le stesse
legate da un accordo che impone ad ogni soggetto
partecipante di assolvere agli adempimenti assunti dal RTI,
e dovendosi quindi ritenere ogni membro del raggruppamento
in grado di garantire, nei limiti della propria
qualificazione, l’avvalimento nei confronti degli altri
partecipanti al RTI al fine di rispettare gli adempimenti
assunti mediante la ripartizione interna delle quote di
esecuzione del medesimo servizio) (1).
●
Premesso che spetta alla Adunanza plenaria stabilire la
tassonomia delle questioni rimesse, deve escludersi l’esame
prioritario del ricorso incidentale escludente se il
rapporto processuale in primo grado non si sia correttamente
costituito (nella specie, a causa della asserita erronea
individuazione dei soggetti destinatari della notificazione
del ricorso principale) (2)
●
Ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p.a., in caso
di impugnazione di una gara di appalto svolta in forma
aggregata da un soggetto per conto e nell’interesse anche di
altri enti, il ricorso deve essere notificato esclusivamente
alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto
impugnato. (3)
---------------
(1 - 2)
I.- La questione in relazione alla quale è stata
disposta la restituzione degli atti ex art. 99, comma 1,
ultimo periodo, c.p.a., era stata rimessa dalla III Sezione
del Consiglio di Stato con
ordinanza 21.09.2017, n. 4403
(oggetto della
News US in data 03.10.2017 cui si rinvia per ogni
riferimento di dottrina e giurisprudenza).
II.- La Plenaria perviene alla statuizione di cui
alla prima massima dopo aver preso atto della impossibilità
di stabilire, con certezza, se la questione rimessa fosse
stata o meno già decisa dalla III Sezione.
Si incrementa la scarsa casistica concernente i presupposti
della restituzione degli atti alla sezione rimettente (sul
punto si rinvia agli approfondimenti contenuti nella
News US in data 17.05.2018 avente ad oggetto
l’ordinanza della Adunanza plenaria 11.05.2018, n. 7).
III. – Per quanto concerne la seconda massima, si
evidenzia che la Plenaria si ritiene non vincolata
dall'ordine di esame suggerito dalla sezione rimettente,
riconoscendo a se medesima il potere di stabilire l'esatto
ordine di soluzione delle questioni.
Nel caso di specie la Plenaria ha ritenuto di non poter
seguire le indicazioni della Sezione rimettente: se è vero
infatti che, normalmente, il ricorso incidentale escludente
deve essere esaminato prima del ricorso principale, è
altresì vero che una regola del genere non può valere per la
(diversa) questione della corretta notificazione del ricorso
principale.
Dalla soluzione di tale problema dipende, infatti, la
corretta costituzione del rapporto giuridico processuale, ed
è palese che, in mancanza di essa, non può nemmeno passarsi
all'esame del ricorso incidentale, che, appunto, suppone la
regolare instaurazione del giudizio.
Rimane sullo sfondo il dubbio -non affrontato, stante la
peculiarità della vicenda contenziosa, sia in questo caso
che in quello deciso da Ad. plen., ordinanza 28.07.2017, n.
4 (in Foro it., 2018, III, 24, con nota di SIGISMONDI;
nonché oggetto della
News US in data 01.08.2017 cui si rinvia per ogni
approfondimento)– concernente la possibilità o meno che la
statuizione sulla tassonomia delle questioni sia
suscettibile di passare in giudicato (interno) e dunque, per
essere sindacata dal giudice di appello, necessiti di uno
specifico motivo di impugnazione.
IV. - Sull’ordine di esame delle questioni nel
giudizio di primo grado si veda Cons. Stato, Ad. plen.,
27.04.2015, n. 5 in Foro it., 2015, III, 265, con nota di
TRAVI; Foro amm., 2015, 1025; Riv. neldiritto, 2015, 1194;
Giurisdiz. amm., 2015, ant., 733; Urbanistica e appalti,
2015, 1177, con nota di VAIANO; Riv. neldiritto, 2015, 2084,
con nota di COLASCILLA NARDUCCI; Riv. dir. proc., 2015,
1256, con nota di FANELLI; Giur. it., 2015, 2192 (m), con
nota di FOLLIERI; Dir. proc. amm., 2016, 205, con nota di
PERFETTI, TROPEA; Dir. proc. amm., 2016, 830 (m), con nota
di BERTONAZZI.
Sul rapporto fra ricorso principale e incidentale di primo
grado, sulla natura giuridica di quest’ultimo, sull’indole
accessoria e condizionata, sui soggetti legittimati a
proporlo, sulle modalità e termini di proposizione:
1. in dottrina v. VILLATA – BERTONAZZI, in Il processo
amministrativo, a cura di QUARANTA e LOPILATO, Milano, 2011,
415 ss.; DE NICTOLIS, Codice del processo amministrativo,
Milano, 2017, 812 ss.;
2. in giurisprudenza, sulle regole che presiedono alla
esaminabilità del ricorso incidentale:
b1) Cons. Stato, sez. V,
17.02.2014, n. 755 (in Foro it., 2014, III, 219 cui si
rinvia per ogni approfondimento di dottrina e
giurisprudenza);
b2) Cons. Stato, Ad. plen.,
07.04.2011, n. 4 in Foro it., 2011, III, 306, con nota di
SIGISMONDI; Urbanistica e appalti, 2011, 674, con nota di
LAMBERTI; Corriere merito, 2011, 763 (m), con nota di RAIOLA;
Foro amm. - Cons. Stato, 2011, 1132; Giur. it., 2011, 1651
(m), con nota di TROPEA; Guida al dir., 2011, fasc. 19, 70,
con nota di PALLIGGIANO; Giurisdiz. amm., 2011, I, 513;
Giornale dir. amm., 2011, 1103 (m), con nota di GISONDI; Riv.
giur. edilizia, 2011, I, 570; Riv. neldiritto, 2011, 1530,
con nota di IZZO; Dir. proc. amm., 2011, 1035, con nota di
SQUAZZONI, GIANNELLI, FOLLIERI, MARINELLI; Arch. giur. oo.
pp., 2011, 404;
b3) il principio elaborato
dalla Plenaria in rassegna (per cui il ricorso incidentale
risente –per la sua teorica esaminabilità– in quanto
strutturalmente accessorio, della rituale proposizione della
causa in primo grado, principio estensibile ai motivi
aggiunti cd. propri), è declinato motivatamente da Cons.
Stato, sez. IV, 18.05.2018, n. 2999 secondo cui “… il
thema decidendum del giudizio di appello amministrativo è
costituito esclusivamente dalle domande e dai motivi
ritualmente introdotti in prime cure con atto
tempestivamente notificato e depositato secondo la
disciplina sua propria (ricorso principale, ricorso
incidentale, motivi aggiunti; cfr. sul punto Cons. Stato,
Ad. plen. n. 5 del 2015, § 6.3.)….”;
b4) sulla accessorietà dei
motivi aggiunti «impropri» in relazione al requisito della
connessione tra provvedimenti impugnati si veda:
• Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n. 5596 secondo cui la
connessione oggettiva sussiste “a) quando fra gli atti
impugnati esiste una connessione di tipo procedimentale o
infraprocedimentale, ossia un collegamento tra atti del
medesimo procedimento o di procedimenti collegati, avvinti
da un nesso di presupposizione giuridica o di carattere
logico, in quanto i diversi atti incidono sulla medesima
vicenda; b) se fra gli atti impugnati esiste una connessione
per reiterazione provvedimentale, che si verifica quando
l'amministrazione sostituisce l'atto impugnato, su cui pende
il ricorso, con un nuovo provvedimento, anch'esso non
satisfattivo per il destinatario (ad es. l'atto di conferma
con diversa motivazione); c) quando esiste connessione non
tra gli atti impugnati, perché si tratta di diversi
procedimenti, ma connessione con l'oggetto del giudizio; è
questa, l'ultima frontiera aperta dalla
legge n. 205/2000, tendente ad una concezione del
processo basata sulla valorizzazione del giudizio sul
rapporto piuttosto che sull'atto. In tal caso è ammessa la
proposizione di motivi aggiunti, anche non connessi agli
atti precedentemente impugnati, purché connessi all'oggetto
del giudizio già instaurato, ossia al medesimo bene della
vita cui aspira il ricorrente”;
• Cons. Stato, sez. IV, 06.02.2017, n. 482 secondo cui “Nel
processo amministrativo impugnatorio, la regola generale è
che il ricorso abbia ad oggetto un solo provvedimento e che
i vizi-motivi si correlino strettamente a quest'ultimo,
salvo che tra gli atti impugnati esista una connessione
procedimentale e funzionale (da accertarsi in modo rigoroso)
e ciò in relazione ai dati testuali rinvenibili nelle
disposizioni del c.p.a., quali: a) gli art. 40, comma 1,
lett. b), e 42, comma 2, c.p.a. che, nell'individuare il
contenuto del ricorso principale e incidentale, correlano
l'oggetto della domanda al singolo provvedimento impugnato;
b) l'art. 43, comma 1, c.p.a., che, nel recepire la
giustapposizione fra motivi aggiunti propri e impropri,
fonda la distinzione a seconda che sia impugnato un
provvedimento ulteriore e diverso rispetto a quello oggetto
del ricorso introduttivo e dell'eventuale ricorso
incidentale”;
b5) sul rapporto di autonomia
tra ricorso principale e motivi aggiunti «impropri»
si segnala:
• Cons. Stato, sez. VI, 21.01.2015, n. 175 secondo cui “I motivi
aggiunti di gravame, quando indirizzati avverso atti
successivi a quelli originariamente impugnati, equivalgono a
una nuova impugnativa, cui va riconosciuta autonomia
processuale, anche in caso di pronuncia che escluda, in
rito, l'ammissibilità o la persistenza di interesse, con
riferimento all'originario atto introduttivo del giudizio”;
• Cons. Stato, sez. IV, 22.09.2014, n. 4768 secondo cui “La
perenzione del ricorso principale non si riflette sui motivi
aggiunti c.d. impropri, atteso che essi sono dotati di
autonomia sostanziale, presentano i caratteri di un nuovo
rapporto processuale e non costituiscono il mero svolgimento
interno del rapporto processuale sul quale s'innestano”;
• Tar per la Sicilia-Palermo, sez. I, 15.05.2014, n. 1244 secondo
cui “Il ricorso per motivi aggiunti introdotto
irritualmente, perché notificato personalmente alla
controinteressata anziché presso il procuratore costituito,
come invece prescritto dal comb. disp. degli artt. 43, comma
2, c.p.a. e 170 c.p.c., non è necessariamente inammissibile.
Infatti, considerato che la domanda nuova potrebbe essere
proposta anche con ricorso separato, notificato
evidentemente alla parte personalmente, e potendo poi il
giudice provvedere alla riunione dei ricorsi ai sensi
dell'art. 70 c.p.a. (art. 43, comma 3, c.p.a.), risulterebbe
illogico dichiarare inammissibile un ricorso che, se
proposto in via autonoma, poteva essere riunito e deciso con
un'unica sentenza, con un esito, dunque, sostanzialmente
analogo a quello che si realizza, in termini di
concentrazione processuale, con la proposizione di motivi
aggiunti. Ne consegue che il ricorso per motivi aggiunti
potrebbe andare indenne dalla sanzione dell'inammissibilità
per omessa notifica al procuratore costituito, solo ove
presenti i requisiti per essere considerato quale autonomo
gravame (art. 40 c.p.a.), spettando sempre al giudice la
qualificazione dell'azione (art. 32 c.p.a.)”;
• Tar per il Lazio–Roma, sez. III, 26.01.2015 n. 1376 secondo cui “La
dichiarazione di inammissibilità del ricorso principale non
produce l'effetto di travolgere anche il ricorso per motivi
aggiunti, per cui resta ferma la validità della procura
conferita per la proposizione di motivi aggiunti nell'ambito
di un ricorso principale che è stato dichiarato
inammissibile”;
• Tar Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 25.05.2012, n. 183 secondo cui
“Specie dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 141 del
2011 che impone, per evidenti ragioni di concentrazione dei
giudizi, la proposizione di motivi aggiunti ove si intendano
impugnare atti nuovi o consequenziali a quello opposto con
il ricorso introduttivo — nessuno dubita dell'autonomia dei
singoli giudizi che si atteggiano quali autonomi ricorsi,
con la conseguenza che l'inammissibilità del ricorso
introduttivo non rende inammissibile, a cascata, anche i
motivi aggiunti (con l'unica eccezione che si tratti di
motivi nuovi avverso il medesimo provvedimento). Questa
conclusione risulta dal nuovo c.p.a. definitivamente
consacrata, che ha precisato essere la natura dei motivi
aggiunti una sorta di riunione ex lege di ricorsi connessi”;
• Tar per la Sicilia-Catania, sez. I, 13.06.2013 n. 1741 secondo
cui “Formalmente, un ricorso per motivi aggiunti è, a
tutti gli effetti, un ricorso del tutto autonomo e
svincolato dal ricorso principale, con esito potenzialmente
diverso; soprattutto quando con esso si impugnano nuovi e
diversi provvedimenti. Tanto è vera tale autonomia, che,
anziché con motivi aggiunti nell'ambito di un giudizio già
incardinato, tale ricorso potrebbe anche essere proposto
come ricorso indipendente, cioè con diverso numero di ruolo,
da riunire eventualmente al primo ad opera del giudice”.
(3)
I. – La Plenaria passa quindi ad esaminare il
quesito concernente la necessità, o meno, in caso di
procedura di aggiudicazione in forma aggregata, di
provvedere alla notificazione del ricorso introduttivo del
giudizio non solo al soggetto capofila che ha curato la
procedura e che ha adottato il provvedimento (o i
provvedimenti) impugnati ma anche a tutti i soggetti che
aderiscono alla procedura di aggiudicazione in forma
aggregata.
II.- Osserva al riguardo:
a) di ritenere
preferibile quell'orientamento giurisprudenziale del giudice
di appello (Cons. Stato, sez. III, 13.09.2013 n. 4541 in
Foro it., Rep. 2013, voce Contratti pubblici [1735], n. 612;
sez. V, 06.07.2012 n. 3966 in Foro it., Rep. 2012, voce
Impugnazioni civili [3460], n. 95; sez. V, 15.03.2010 n.
1500 in Foro it., Rep. 2010, voce Contratti pubblici [1735],
n. 743; Appalti & Contratti, 2010, fasc. 4, 95 (m); Dir. e
pratica amm., 2010, fasc. 4, 46 (m), con nota di ATELLI) che
ritiene sufficiente la notifica alla sola amministrazione
capofila, che abbia curato la procedura concorsuale
attraverso l'emanazione del bando, la costituzione della
Commissione giudicatrice l'adozione degli atti di gara e
l'emanazione del provvedimento di aggiudicazione;
b) che stando al disposto di cui all'art. 41 c.p.a., ai fini
della corretta instaurazione del contraddittorio appare
necessaria e sufficiente la notificazione dell'atto
introduttivo esclusivamente all'amministrazione che ha
emanato il provvedimento impugnato;
c) la disposizione di cui all'art. 41 c.p.a., nell'enunciare
la regola generale sopra ricordata, positivamente esclude
che l'atto introduttivo del giudizio debba essere notificato
anche ad amministrazioni od enti che a diverso titolo
abbiano avuto modo di partecipare al procedimento;
d) corollario di tale regola è che solo quando l'atto finale
sia imputabile a più amministrazioni la legittimazione
passiva riguarda tutte le amministrazioni interessate;
e) per converso, le partecipazioni al procedimento
giuridicamente qualificate (come quelle concernenti il
potere di iniziativa o di proposta, che abbia preceduto
l'adozione del provvedimento finale, ovvero gli atti
preparatori) non sono idonee ad estendere la veste di parte
necessaria a soggetti diversi dall'autorità emanante;
f) una diversa soluzione, volta ad estendere la
legittimazione processuale a soggetti diversi dall'autorità
che ha emanato l'atto, si risolverebbe in una oggettiva
violazione della norma che presidia la legittima
costituzione del rapporto giuridico processuale;
g) venendo al caso di specie osserva che si è di fronte ad
una unica amministrazione (capofila) che gestisce la
procedura e che di essa è responsabile, sicché soltanto ad
essa sono imputabili gli atti ed i provvedimenti della
medesima, divenendo così l'amministrazione cui notificare il
ricorso giurisdizionale per l'instaurazione del giudizio
(Cons. Stato, V, 15.03.2010, n. 1500 cit.); tutto ciò mentre
le altre amministrazioni, eventualmente interessate alla
procedura, sono tuttavia sfornite di os ad loquendum
sulle vicende della gara;
h) osserva che in senso contrario alla tesi accolta non può
essere invocato il disposto di cui all'art. 81 c.p.c.,
pacificamente applicabile al processo amministrativo,
secondo cui fuori dai casi previsti dalla legge, nessuno può
far valere in nome proprio un diritto altrui. Nella
fattispecie in esame, infatti, l'amministrazione capofila è
chiamata a far valere e tutelare una situazione giuridica
soggettiva propria (quella derivante dall'essere
l'amministrazione che ha posto in essere il procedimento ed
emanato il provvedimento di aggiudicazione). Non si verifica
pertanto alcuna forma di sostituzione processuale, con la
legittimazione straordinaria che a questa è connessa, mentre
l'eventuale rilevanza degli esiti della aggiudicazione nei
confronti del soggetto in unione di acquisto con
l'amministrazione procedente, ha luogo in forza dei rapporti
interni fra le due amministrazioni, privi, per le ragioni
già esposte, di rilevanza processuale;
III.- Per completezza si segnala:
i) sull’art. 41 c.p.a. in
dottrina v. VILLATA – BERTONAZZI, in Il processo
amministrativo, a cura di QUARANTA e LOPILATO, Milano, 2011,
396 ss..; DE NICTOLIS, Codice del processo amministrativo,
Milano, 2017, 802, secondo cui sono destinatarie del ricorso
di primo grado, oltre l’autorità emanante, anche quella
concertante e che agisce d’intesa con la regione (nello
stesso senso, Cons. Stato, sez. V, 06.07.2012 n. 3966; sez.
VI, 23.01.2006, n. 183 in Foro it., Rep. 2006, voce
Giustizia amministrativa [3340], n. 742; sez. VI,
07.06.2006, n. 3423, in relazione agli atti di concerto o
come può verificarsi per gli accordi di programma, gli atti
complessi o quelli da emanarsi previa intesa);
j) con riferimento alla
impugnazione degli atti endo procedimentali Cons. Stato,
sez. IV, 20.04.2016, n. 1558 (in Foro it., 2017, III, 155
con nota di TRAVI) afferma che “È inammissibile
l'impugnazione di un atto endoprocedimentale, se il ricorso
non sia stato notificato all'autorità che aveva emanato tale
atto” precisando tuttavia che “L'inammissibilità
dell'impugnazione di un atto endoprocedimentale in un
procedimento edilizio non travolge l'impugnazione proposta
nei confronti del titolo edilizio, fondata su ragioni
autonome e indipendenti.”; afferma TRAVI nella nota cit.
che “l’impugnazione del provvedimento finale non
esaurisce l’onere di impugnazione che grava sul ricorrente,
quando l’illegittimità di tale provvedimento sia determinata
da un atto endoprocedimentale. Il processo amministrativo
non accoglie, dunque, una logica «monistica» del
procedimento amministrativo, concentrata sul provvedimento
finale e sul rapporto sostanziale e processuale con
l’amministrazione che lo avesse emanato. Viene contemplata
piuttosto una concezione multipolare, che assegna rilevanza
processuale ad ogni singolo atto endoprocedimentale i cui
vizi abbiano condizionato il provvedimento finale: l’omessa
impugnazione di tale atto endoprocedimentale preclude anche
la deduzione del vizio di illegittimità derivata del
provvedimento finale. Corollario di questa concezione è
l’esigenza di notificare il ricorso, a pena di
inammissibilità, anche all’amministrazione che abbia assunto
l’atto endoprocedimentale impugnato (Cons. Stato, sez. IV,
03.05.2005, n. 2107, id., Rep. 2006, voce Atto
amministrativo, n. 238): come è ribadito dalla sentenza in
epigrafe, il contraddittorio va assicurato fin dall’inizio
anche rispetto alle amministrazioni cui siano imputabili gli
atti endoprocedimentali che siano oggetto di contestazione”;
nello stesso senso, Cons. Stato, sez. VI, 14.07.2014, n.
3623, in Foro it., Rep. 2015, voce Giustizia amministrativa,
nn. 622, 709; sez. IV, 14.07.2014, n. 3646, id., Rep. 2014,
voce cit., n. 714 avevano affermato che ciascuna autorità
emanante ha l’interesse tutelato dall’art. 24 Cost. alla
conservazione dei propri provvedimenti, sicché, ove
impugnati, è indispensabile la notificazione del ricorso nei
suoi confronti, risultando irrilevante, a tali fini, la
natura infraprocedimentale o non vincolante dell’atto;
k) con specifico riferimento
alla centrale unica di committenza la giurisprudenza
maggioritaria si era già orientata nel senso che “la
centrale di committenza unica è, a termini dell'art. 3,
commi 25 e 34, d.lgs. 163/2006, "amministrazione
aggiudicatrice" e, in quanto tale, necessaria destinataria
della notifica del ricorso avverso gli atti da essa emessi
(art. 41, comma 2, c. proc. amm.), in quanto soggetto
responsabile della gara. I soggetti che aderiscono alla
convenzione che istituisce la centrale unica di committenza
sono meri beneficiari della procedura indetta ed espletata
da quest'ultima e sono vincolati alle vicende anche
giudiziarie della gara, sicché, mentre gli effetti e i
risultati di questa sono loro imputati, l'imputazione
formale degli atti, rilevante ai fini della notifica del
ricorso impugnatorio, non può che ricadere sulla centrale di
committenza, contraddittore necessario dello stesso, in
quanto competente in via esclusiva all'indizione,
regolazione e gestione della gara e responsabile della
stessa” (in questo senso, Tar per il Molise, 21.02.2018,
n. 75; Consiglio di Stato sez. III 10.06.2016 n. 2497; Tar
per la Lombardia-Milano, sez. IV., 27.02.2015 n. 588; Tar
Abruzzo-L'Aquila, 16.10.2014 n. 721; Cons. Stato, sez. III,
30.07.2013, n. 3639); sulla irrilevanza della determina di
recepimento dei risultati della gara di appalto da parte
della amministrazione associata ai fini della decorrenza del
termine di impugnazione, rilevando a tal fine solo la
comunicazione della aggiudicazione da parte della
amministrazione cfr. Tar per il Molise, 21.02.2018, n. 75 e
Tar per la Campania-Napoli, sez. IV, 30.04.2015, n. 2456)
per i quali l’atto di recepimento degli esiti della gara
comunicati dalla centrale unica di committenza è un mero
atto interno privo di effetti sulla sequenza provvedimentale
relativa al procedimento di evidenza pubblica.
Nel senso che la centrale unica di committenza è priva di
autonoma soggettività giuridica rispetto alla Regione presso
cui è istituita con conseguente estensione alla difesa degli
atti della amministrazione del patrocinio dell’Avvocatura
dello Stato deliberato con legge regionale, trattandosi a
tutti gli effetti di provvedimenti regionali, cfr. Tar per
il Molise 21.02.2018 e Tar per il Friuli Venezia Giulia,
29.12.2016, n. 588 (che hanno dichiarato inammissibile il
ricorso a motivo della nullità della notifica erroneamente
eseguita presso la sede legale della Regione Molise anziché
presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato);
l) per quanto concerne la
legittimazione passiva delle amministrazioni centrali dello
Stato, la giurisprudenza ha anche precisato che l'evocazione
in giudizio di una amministrazione diversa rispetto a quella
cui sia imputabile il rapporto sostanziale dedotto in causa,
precludendo l'instaurazione del contraddittorio con il
soggetto destinatario della statuizione domandata al
giudice, implica l'inammissibilità della domanda, tenendo
conto che l'unitarietà e l'inscindibilità dello Stato,
nell'esercizio delle sue funzioni sovrane, non tocca
l'autonoma personalità giuridica (di diritto pubblico) delle
amministrazioni centrali, la separazione delle relative
attribuzioni e la riferibilità a ciascuna di esse degli atti
di rispettiva pertinenza e che rispetto al suddetto errore
non operano la preclusione e la sanatoria previste dall'art.
4, l. n. 260 del 1958; tale disposizione, in linea con le
regole generali poste dall'art. 291 c.p.c., contempla,
infatti, la diversa ipotesi in cui non sia stata
correttamente identificata la persona alla quale notificare
l'atto introduttivo e non già il caso in cui l'invalidità,
dipendente da difetto di legittimazione sostanziale
dell'amministrazione, investa la citazione a motivo della "vocatio
in ius" di soggetto diverso dal legittimo contraddittore
(Tar per la Campania-Napoli, sez. II, 07.05.2007 n. 4806;
Cass. civ., sez. I, 06.05.2011, n. 10010; Cass. civ., sez.
I, 19.06.2012 n. 10069);
m) in materia di sostituzione
amministrativa è stato precisato che:
m1) “È
inammissibile il ricorso proposto per l'annullamento del
piano regionale di rientro dei disavanzi del settore
sanitario, adottato dal Presidente della Giunta regionale
nella qualità di commissario ad acta nominato dal Consiglio
dei Ministri, che non sia stato notificato a detto
Presidente presso l'Avvocatura dello Stato in quanto organo
statale, atteso che la relazione intercorrente fra la
Regione e il Consiglio dei Ministri è intersoggettiva, e non
interorganica” (Cons. Stato, sez. III, 10.01.2014, n.
61);
m2) nello
stesso senso TAR per la Campania-Napoli, sez. I, 11.06.2014,
n. 3235 secondo cui “La relazione intercorrente tra la
Regione e il Commissario ad acta per l'attuazione del piano
di rientro dei disavanzi del settore sanitario deve essere
qualificata non come interorganica, ma come intersoggettiva.
Invero, nell'ambito della sostituzione amministrativa,
occorre nettamente distinguere le due diverse ipotesi. Nella
prima, il Commissario è nominato per la sostituzione,
nell'esercizio di una competenza generale, di un organo
ordinario venuto meno (ad esempio, per scioglimento) onde
assicurarne il funzionamento e svolgerne il complesso dei
compiti; in tal caso, il Commissario è organo straordinario
dell'ente sostituito ed a quest'ultimo si imputano gli
effetti degli atti commissariali, con la conseguenza che i
ricorsi avverso tali atti vanno notificati esclusivamente
all'ente sostituito. Nella seconda ipotesi, invece, la
nomina è -come nella fattispecie- finalizzata all'emanazione
di specifici atti e, dunque, la competenza del Commissario è
circoscritta sin dall'inizio al compimento degli stessi,
mentre l'ente sostituito conserva in generale la titolarità
dei propri poteri, salvo i singoli affari che gli sono stati
sottratti, sicché è privo di legittimazione passiva in sede
di giudizio di impugnazione degli atti commissariali (nel
caso di specie, il ricorso è stato notificato alla sola
Regione Campania, in persona del Presidente della G.R.,
donde l'inammissibilità del ricorso)”;
m3) secondo
Tar per il Molise, 15.02.2013, n. 119 comporta la
inammissibilità del ricorso “l’omessa notifica del
gravame al commissario ad acta per l’attuazione del piano di
rientro dai disavanzi del settore sanitario della Regione
Molise, quale organo adottante l’atto impugnato, trattandosi
dell’unico soggetto da ritenersi legittimato passivo in
quanto centro di imputazione autonomo sia rispetto alla
Regione Molise, i cui uffici operano a supporto
organizzativo della struttura commissariale in relazione di
mero avvalimento (cfr. TAR Molise 23.12.2010, n. 1565), sia
rispetto alla Presidenza del Consiglio dei ministri, stante
l’autonomia operativa, decisionale ed organizzativa di
siffatta struttura commissariale rispetto alla Presidenza
del Consiglio dei ministri cui compete il solo procedimento
di nomina e la prodromica attività istruttoria relativa
all’accertamento della sussistenza dei presupposti normativi
di cui all’art. 8 della legge n. 131 del 2001, di attuazione
dell’art. 120 Cost., per disporre l’intervento sostitutivo
(spunti sulla autonoma legittimazione del commissario ad
acta rispetto alla Presidenza del Consiglio dei ministri si
traggono anche da Cons. Stato, III, 03.10.2011, n. 5424 in
giudizio similare in cui la Presidenza non è stata infatti
evocata in giudizio)”;
n) per l’individuazione
dell’amministrazione legittimata passiva nel giudizio
avverso il silenzio della P.A. si veda Cons. Stato, sez. V,
15.06.2015 n. 2912 in Foro it., Rep. 2015, voce Giustizia
amministrativa [3340], n. 368 secondo cui “Nello speciale
rito sul silenzio rimane fermo l'accertamento delle
ordinarie condizioni dell'azione (interesse ad agire, titolo
o legittimazione al ricorso, legitimatio ad causam attiva e
passiva), e, pertanto, assume importanza centrale
l'individuazione dell'amministrazione su cui grava l'obbligo
di procedere: il presupposto per la condanna ai sensi
dell'art. 117 c.p.a. è il fatto che al momento della
pronuncia del giudice perduri l'inerzia dell'amministrazione
inadempiente unica legittimata passiva; pertanto, va
riformata la sentenza che ha condannato il comune a
concludere il procedimento di concessione del contributo
previsto per la ricostruzione di immobili danneggiati dal
sisma del 2009, considerato che, successivamente all'entrata
in vigore del d.l. n. 83 del 2012 e la consequenziale
costituzione dell'Usra (ente pubblico statale strumentale,
dotato di propria autonomia e distinto dall'amministrazione
comunale, che cura l'istruttoria finalizzata al rilascio
dell'autorizzazione alla concessione del contributo previsto
dal d.l. n. 39 del 2009 conv. con modif. dalla l. n. 77 del
2009), a quest'ultimo ente è stata attribuita in via
esclusiva la competenza a svolgere l'attività istruttoria ed
eventualmente ad autorizzare l'indennizzo previo
accertamento del danno, della sua entità e dei requisiti
soggettivi dei richiedenti; il procedimento in questione è
speciale rispetto al modello generale disciplinato dalla l.
n. 241 del 1990 e ad esso risulta estraneo il comune che non
può incidere, ovviamente, sulla relativa scansione
temporale; al comune è riservata, in via residuale, la sola
competenza a procedere alla liquidazione del contributo,
dovendo procacciarne la provvista finanziaria e stabilirne
le pertinenti priorità in ordine alla concreta erogazione”;
o) in materia di impugnazione
di accordi di programma è stato affermato che:
o1) l'accordo
di programma -consistente nel consenso unanime delle
amministrazioni o enti Locali interessati circa un quid
(opera o progetto) da realizzare- si configura come
espressione dei poteri pubblicistici facenti capo ai
soggetti medesimi, i quali tutti, in caso di impugnazione
dell'accordo di programma fra essi concluso e del
provvedimento amministrativo di approvazione dello stesso,
hanno diritto ed interesse a difendere la stabilità dei
rapporti che ne derivano (Cons. Stato, sez. IV, 17.06.2003,
n. 3403);
o2) in caso
di impugnazione di un accordo di programma avente al oggetto
la realizzazione di un'opera pubblica, ai sensi dell'art.
34, t.u. 18.08.2000 n. 267, il ricorso va notificato, a pena
di inammissibilità, a tutte le Amministrazioni firmatarie
dell'accordo, dovendosi considerare Amministrazioni emananti
tutte le Autorità che all'accordo stesso hanno partecipato
(così Cons. Stato, sez. IV, 26.03.2010, n. 1774);
o3) in caso
di impugnazione di un accordo di programma avente a oggetto
la realizzazione di un'opera pubblica, il ricorso va
notificato, a pena di inammissibilità, a tutte le Pubbliche
amministrazioni firmatarie dell'accordo, dovendo
considerarsi Amministrazioni emananti tutte quelle che
all'accordo stesso hanno partecipato; tale principio deve
ritenersi estensibile anche ai Patti territoriali i quali, a
norma dell'art. 2, comma 203, lett. d), l. 23.12.1996 n.
662, costituiscono una species del più ampio genus
degli accordi di programmazione negoziata, nel quale
rientrano anche gli accordi di programma, la cui disciplina
procedimentale peraltro condividono sulla scorta della
delibera del C.I.P.E. del 10.05.1995 (Cons. Stato, sez. IV,
02.12.2014, n. 5957).
p) in materia di impugnazione
delle risultanze della conferenza di servizi (per una
approfondita ricostruzione della disciplina di tale istituto
si veda la recente
News US del 09.05.2018 di commento a Cass. civ.,
sez. un., 16.04.2018, n. 9338, ivi gli ampi riferimenti di
dottrina) la giurisprudenza ha chiarito che:
p1) “La
conferenza di servizi costituisce un mero strumento
organizzatorio di semplificazione procedimentale, non
incidente sulla ripartizione delle competenze; ne deriva
l'imputabilità degli atti adottati in sede di conferenza o
alla singola amministrazione procedente che adotta il
provvedimento finale (nel caso della conferenza istruttoria)
o a tutte le amministrazioni che attraverso la conferenza
esprimono la propria volontà provvedimentale (nell'ipotesi
di conferenza decisoria); pertanto, la legittimazione
passiva in sede processuale compete solo all'amministrazione
o alle amministrazioni che abbiano adottato decisioni
rilevanti all'esterno, e non alla conferenza di servizi come
organo autonomo” (Cons. Stato, sez. II, 02.02.2013, n.
431/13 in Foro it., Rep. 2013, voce Giustizia amministrativa
[3340], n. 620);
p2) “Attesa
la natura di mero modulo di semplificazione sul versante
organizzatorio e procedimentale della conferenza di servizi
decisoria, in sede giurisdizionale la legittimazione passiva
non compete alla conferenza, priva di soggettività autonoma,
ma alle singole amministrazioni che per il tramite di detto
modulo abbiano adottato statuizioni di respiro
esoprocedimentale oggetto di aggressione processuale”
(Cons. Stato, sez. VI, 29.01.2002, n. 491 in Cons. Stato,
2002, I, 140; Appalti urbanistica edilizia, 2002, 118; Riv.
giur. edilizia, 2002, I, 710; Foro it., Rep. 2002, voce
Giustizia amministrativa [3340], n. 637);
p3) “La
conferenza dei servizi non è un organo in senso proprio, ma
piuttosto un luogo procedimentale in cui confluiscono
giudizi e pareri di uffici ed enti diversi, che non assumono
una consistenza soggettiva propria ed autonomia tale da
consentirne la qualificazione come organo, ancorché non
permanente e/o straordinario; pertanto, la detta conferenza
non ha legittimazione passiva nel ricorso proposto avverso
l'atto conclusivo del procedimento nel corso del quale essa
è intervenuta” (Tar per la Puglia, sez. I, 23.12.1996,
n. 714 in Foro it., Rep. 1998, voce Giustizia amministrativa
[3340], n. 456);
p4) “In
ipotesi di sostituzione di moduli procedimentali già
preesistenti, nella conferenza dei servizi, che non
costituisce organo amministrativo straordinario, ciascun
rappresentante imputa gli effetti giuridici degli atti che
compie all'Amministrazione rappresentata, competente in
forza alla normativa di settore; di conseguenza, la
legittimazione passiva in sede giurisdizionale non compete
alla Conferenza, priva di soggettività autonoma, ma alle
singole amministrazioni che per il tramite del loro
rappresentante abbiano adottato statuizioni di natura
esoprocedimentale già rientranti nella sfera di competenza
di ogni singola amministrazione” (TAR per le Marche,
05.08.2004, n. 976 in Foro amm. - Tar 2004, 2102) (Consiglio
di Stato, A.P.,
sentenza non definitiva e contestuale ordinanza 18.05.2018
n. 8 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il ricorso proposto contro gli atti di gara svolta in forma
aggregata va notificato al solo soggetto capofila.
---------------
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Rapporto tra
ricorso principale e ricorso incidentale escludente – Esame
prioritario del ricorso incidentale escludente – Limiti -
Corretta notificazione del ricorso principale – Esame
prioritario – Ratio.
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Ricorso –
Notificazione - Appalto svolta in forma aggregata –
Notificazione alla sola pubblica amministrazione che ha
emesso l’atto impugnato.
●
Se è vero che, normalmente, il ricorso incidentale
escludente deve essere esaminato prima del ricorso
principale, è altresì vero che una regola del genere non può
valere per la (diversa) questione della corretta
notificazione del ricorso principale atteso che dalla
soluzione di tale problema dipende, infatti, la corretta
costituzione del rapporto giuridico processuale, ed è palese
che, in mancanza di essa, non può nemmeno passarsi all'esame
del ricorso incidentale, che, appunto, suppone la regolare
instaurazione del giudizio.
●
Ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p.a., in caso
di impugnazione di una gara di appalto svolta in forma
aggregata da un soggetto per conto e nell’interesse anche di
altri enti, il ricorso deve essere notificato esclusivamente
alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato
(1).
---------------
(1)
La questione era stata rimessa da
Cons. St., sez. III, ord., 21.09.2017, n. 4403.
L’Alto Consenso ha aderito all’orientamento (Cons. St., sez.
III, 13.09.2013, n. 4541; id.,
sez. V, 06.07.2012, n. 3966; id.,
sez. V, 15.03.2010, n. 1500) che esclude la
necessità di notificare il ricorso anche a tutti i soggetti
che aderiscono alla procedura di aggiudicazione in forma
aggregata.
A tale esito appare, infatti, necessario pervenire
considerando il rilievo decisivo, ai fini della soluzione
del quesito, dell'art. 41 c.p.a., che identifica
l'amministrazione cui deve essere notificato il ricorso
introduttivo del giudizio esclusivamente in quella che ha
emesso l'atto impugnato. In virtù della disposizione di cui
all'art. 41 c.p.a., ai fini della corretta instaurazione del
contraddittorio appare necessaria e sufficiente la
notificazione dell'atto introduttivo esclusivamente
all'amministrazione che ha emanato il provvedimento
impugnato.
In altri termini, la disposizione di cui all'art. 41 c.p.a.,
nell'enunciare la regola generale sopra ricordata,
positivamente esclude che l'atto introduttivo del giudizio
debba essere notificato anche ad amministrazioni od enti che
a diverso titolo abbiano avuto modo di partecipare al
procedimento.
Corollario di tale regola -come è stato esattamente
affermato (Cons.
St., sez. V, 06.07.2012, n. 3966)– è che solo
quando l'atto finale sia imputabile a più amministrazioni,
come accade per gli atti di concerto o come può verificarsi
per gli accordi di programma, la legittimazione passiva
riguarda tutte le amministrazioni interessate.
Per converso, le partecipazioni al procedimento
giuridicamente qualificate (come quelle concernenti il
potere di iniziativa o di proposta, la partecipazione
all'intesa che abbia preceduto l'adozione del provvedimento
finale, ovvero gli atti preparatori) non sono idonee ad
estendere la veste di parte necessaria a soggetti diversi
dall'autorità emanante. A tal fine, infatti, sarebbe
necessaria una formale imputazione del provvedimento finale
ad una pluralità di amministrazioni (Cons.
St., sez. V, 06.07.2012, n. 3966).
Una diversa soluzione, volta ad estendere la legittimazione
processuale a soggetti diversi dall'autorità che ha emanato
l'atto, si risolverebbe in una oggettiva violazione della
norma che presidia la legittima costituzione del rapporto
giuridico processuale.
Nei casi sopra ricordati, d'altra parte, si è di fronte ad
una unica amministrazione (capofila) che gestisce la
procedura e che di essa è responsabile, sicché soltanto ad
essa sono imputabili gli atti ed i provvedimenti della
medesima, divenendo così l'amministrazione cui notificare il
ricorso giurisdizionale per l'instaurazione del giudizio (Cons.
St., sez. V, n. 1500 del 2010); tutto ciò mentre le
altre amministrazioni, eventualmente interessate alla
procedura, sono tuttavia sfornite di os ad loquendum
sulle vicende della gara.
Deve, infine, essere rilevato che alla prospettazione sopra
esposta non può essere opposta la disciplina di cui all'art.
81 c.p.c., pacificamente applicabile al processo
amministrativo, secondo cui fuori dai casi previsti dalla
legge, nessuno può far valere in nome proprio un diritto
altrui. Nelle fattispecie sopra ricordate, infatti,
l'amministrazione capofila è chiamata a far valere e
tutelare una situazione giuridica soggettiva propria (quella
derivante dall'essere l'amministrazione che ha posto in
essere il procedimento ed emanato il provvedimento di
aggiudicazione).
Non si verifica pertanto alcuna forma di sostituzione
processuale, con la legittimazione straordinaria che a
questa è connessa, mentre l'eventuale rilevanza degli esiti
della aggiudicazione nei confronti del soggetto in unione di
acquisto con l'amministrazione procedente, ha luogo in forza
dei rapporti interni fra le due amministrazioni, privi, per
le ragioni già esposte, di rilevanza processuale
(Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza non definitiva e contestuale ordinanza 18.05.2018
n. 8
-
commento tratto da e link a
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---------------
6. Con riferimento al primo quesito prospettato con
l'ordinanza di rimessione,
concernente la necessità, o meno,
in caso di procedura di aggiudicazione in forma aggregata,
di provvedere alla notificazione del ricorso introduttivo
del giudizio non solo al soggetto capofila che ha curato la
procedura e che ha adottato il provvedimento (o i
provvedimenti) impugnati ma anche a tutti i soggetti che
aderiscono alla procedura di aggiudicazione in forma
aggregata, il Collegio osserva che appare preferibile
quell'orientamento giurisprudenziale del giudice di appello
(Cons. Stato, Sez. III, 13.09.2013 n. 4541; Sez. V,
06.07.2012 n. 3966; Sez. V, 15.03.2010 n. 1500)
che ritiene
sufficiente la notifica alla sola amministrazione capofila,
che abbia curato la procedura concorsuale attraverso
l'emanazione del bando, la costituzione della Commissione
giudicatrice l'adozione degli atti di gara e l'emanazione
del provvedimento di aggiudicazione.
A tale esito appare, infatti, necessario pervenire
considerando il rilievo decisivo, ai fini della soluzione
del quesito, dell'art. 41 c.p.a, che identifica
l'amministrazione cui deve essere notificato il ricorso
introduttivo del giudizio esclusivamente in quella che ha
emesso l'atto impugnato.
In virtù della disposizione di cui all'art. 41 c.p.a., ai
fini della corretta instaurazione del contraddittorio appare
necessaria e sufficiente la notificazione dell'atto
introduttivo esclusivamente all'amministrazione che ha
emanato il provvedimento impugnato.
In altri termini, la disposizione di cui all'art. 41 c.p.a.,
nell'enunciare la regola generale sopra ricordata,
positivamente esclude che l'atto introduttivo del giudizio
debba essere notificato anche ad amministrazioni od enti che
a diverso titolo abbiano avuto modo di partecipare al
procedimento.
Corollario di tale regola -come è stato esattamente
affermato (Cons. Stato, sez. V, nr. 3966/2012, cit.)– è che
solo quando l'atto finale sia imputabile a più
amministrazioni, come accade per gli atti di concerto
(Cons.
Stato, nr. 183 del 2006)
o come può verificarsi per gli
accordi di programma (Cons. Stato, IV, nr. 3403 del 2006),
la legittimazione passiva riguarda tutte le amministrazioni
interessate.
Per converso,
le partecipazioni al procedimento
giuridicamente qualificate (come quelle concernenti il
potere di iniziativa o di proposta, la partecipazione
all'intesa che abbia preceduto l'adozione del provvedimento
finale, ovvero gli atti preparatori) non sono idonee ad
estendere la veste di parte necessaria a soggetti diversi
dall'autorità emanante. A tal fine, infatti, sarebbe
necessaria una formale imputazione del provvedimento finale
ad una pluralità di amministrazioni
(Cons. Stato, V, nr.
3966/2012 cit.).
Una diversa soluzione, volta ad estendere
la legittimazione processuale a soggetti diversi
dall'autorità che ha emanato l'atto, si risolverebbe in una
oggettiva violazione della norma che presidia la legittima
costituzione del rapporto giuridico processuale.
Nei casi sopra ricordati, d'altra parte,
si è di fronte ad
una unica amministrazione (capofila) che gestisce la
procedura e che di essa è responsabile, sicché soltanto ad
essa sono imputabili gli atti ed i provvedimenti della
medesima, divenendo così l'amministrazione cui notificare il
ricorso giurisdizionale per l'instaurazione del giudizio
(Cons. Stato, V, nr. 1500 del 2010);
tutto ciò mentre le
altre amministrazioni, eventualmente interessate alla
procedura, sono tuttavia sfornite di os ad loquendum
sulle vicende della gara.
Deve, infine, essere rilevato che alla prospettazione sopra
esposta non può essere opposta la disciplina di cui all'art.
81 c.p.c., pacificamente applicabile al processo
amministrativo, secondo cui fuori dai casi previsti dalla
legge, nessuno può far valere in nome proprio un diritto
altrui.
Nelle fattispecie sopra ricordate, infatti,
l'amministrazione capofila è chiamata a far valere e
tutelare una situazione giuridica soggettiva propria (quella
derivante dall'essere l'amministrazione che ha posto in
essere il procedimento ed emanato il provvedimento di
aggiudicazione).
Non si verifica pertanto alcuna forma di sostituzione
processuale, con la legittimazione straordinaria che a
questa è connessa, mentre l'eventuale rilevanza degli esiti
della aggiudicazione nei confronti del soggetto in unione di
acquisto con l'amministrazione procedente, ha luogo in forza
dei rapporti interni fra le due amministrazioni, privi, per
le ragioni già esposte, di rilevanza processuale.
6. Si deve dunque affermare il principio di diritto per cui,
ai sensi dell’art. 41 comma 2, c.p.a., in caso di
impugnazione di una gara di appalto svolta in forma
aggregata da un soggetto per conto e nell’interesse anche di
altri enti, il ricorso deve essere notificato esclusivamente
«… alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto
impugnato ...». |
ATTI AMMINISTRATIVI:
- Costituisce approdo consolidato in giurisprudenza quello secondo
cui “l'emanazione di un provvedimento espresso (sia positivo
che negativo) dopo la proposizione del ricorso
giurisdizionale contro il silenzio-rifiuto della P.A., non
può non avere effetti estintivi sulla materia del
contendere, in quanto il privato ha ottenuto il risultato al
quale mira il giudizio, ossia il superamento della
situazione di inerzia procedimentale e di
violazione/elusione dell'obbligo di concludere il
procedimento con un provvedimento espresso entro i termini
all'uopo previsti; nel caso in cui il provvedimento
sopravvenuto sia ritenuto illegittimo, per motivi
evidentemente diversi dalla mera tardività, il privato deve
proporre contro di esso una nuova impugnazione”;
- l’omessa attività dell'Amministrazione costituisce una condizione
dell'azione che deve persistere sino al momento della
decisione;
- pertanto, il ricorso diviene improcedibile laddove prima della
decisione della lite sopravvenga un provvedimento idoneo ad
interrompere l’inerzia dell’Amministrazione, come accaduto
nel caso di specie.
---------------
4.1. Osserva il Collegio che, diversamente da quanto
richiesto da parte ricorrente, il ricorso debba più
propriamente dichiararsi improcedibile per sopravvenuta
carenza di interesse atteso che:
- costituisce approdo consolidato in giurisprudenza quello secondo
cui “l'emanazione di un provvedimento espresso (sia positivo
che negativo) dopo la proposizione del ricorso
giurisdizionale contro il silenzio-rifiuto della P.A., non
può non avere effetti estintivi sulla materia del
contendere, in quanto il privato ha ottenuto il risultato al
quale mira il giudizio, ossia il superamento della
situazione di inerzia procedimentale e di
violazione/elusione dell'obbligo di concludere il
procedimento con un provvedimento espresso entro i termini
all'uopo previsti; nel caso in cui il provvedimento
sopravvenuto sia ritenuto illegittimo, per motivi
evidentemente diversi dalla mera tardività, il privato deve
proporre contro di esso una nuova impugnazione” (cfr.,
ex multis, Cons. Stato Sez. IV, 22.01.2013, n. 355).
- l’omessa attività dell'Amministrazione costituisce una condizione
dell'azione che deve persistere sino al momento della
decisione (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 20.02.2018, n.
1076);
- pertanto, il ricorso diviene improcedibile laddove prima della
decisione della lite sopravvenga un provvedimento idoneo ad
interrompere l’inerzia dell’Amministrazione, come accaduto
nel caso di specie (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1302 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Come noto, l’art. 445 c.p.p. equipara la sentenza emessa ai sensi
dell’art. 444 c.p.p. ad una sentenza di condanna e, anche se
non vi è stato un accertamento dei fatti in sede
dibattimentale, ciò non esclude che, ai fini di cui al
citato art. 38 del d.lgs n. 163 del 2006, possa essere
assimilata ad un accertamento di responsabilità.
Diversamente opinando e non potendo essere rimesso alla
stazione appaltante alcun onere (non essendo riconosciuto
alcun potere specifico in tal senso) di verificare in via
definitiva la sussistenza di tale infrazione, il ricorso a
tale strumento processuale (il c.d. “patteggiamento”)
costituirebbe una modalità per eludere le responsabilità,
ponendo peraltro nel nulla l’affermazione di principio
contenuta nel citato art. 445 c.p.p..
---------------
Il ricorso è palesemente infondato, sicché sussistono i
presupposti per la definizione del giudizio con sentenza in
forma semplificata.
Invero, l'art. 445 c.p.p. stabilisce l'equiparazione della
sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna.
Peraltro, è lo stesso art. 80 codice appalti a recepire
esplicitamente la detta equiparazione sia pure in
riferimento alla distinta ipotesi di cui al comma 1, che
tuttavia, sul piano della ratio di tutela, non
presenta sostanziali differenze rispetto al caso in esame: “dalla
sentenza di condanna del Tribunale di Ancona in data
-OMISSIS- per omicidio colposo, sebbene pronunciata ai sensi
dell’art. 444 c.p.p., emerge invero che l’allora -OMISSIS--OMISSIS-
era imputato di un reato connesso con la violazione degli
obblighi in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro ovvero
di una fattispecie che ricade nel campo di applicazione
dell’art. 38, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 163 del 2006.
Sul punto, la difesa di -OMISSIS- e del -OMISSIS- deducono
che, trattandosi di una sentenza di “patteggiamento”, non vi
è stato un definitivo accertamento delle infrazioni
contestate. Al riguardo, è sufficiente osservare che, come
noto, l’art. 445 c.p.p. equipara la sentenza emessa ai sensi
dell’art. 444 c.p.p. ad una sentenza di condanna e, anche se
non vi è stato un accertamento dei fatti in sede
dibattimentale, ciò non esclude che, ai fini di cui al
citato art. 38 del d.lgs n. 163 del 2006, possa essere
assimilata ad un accertamento di responsabilità.
Diversamente opinando e non potendo essere rimesso alla
stazione appaltante alcun onere (non essendo riconosciuto
alcun potere specifico in tal senso) di verificare in via
definitiva la sussistenza di tale infrazione, il ricorso a
tale strumento processuale (il c.d. “patteggiamento”)
costituirebbe una modalità per eludere le responsabilità,
ponendo peraltro nel nulla l’affermazione di principio
contenuta nel citato art. 445 c.p.p." (TAR Roma, Sez.
III, 02.11.2017 n. 10965).
Né le cose cambiano con riferimento alla specifica
prescrizione della lex specialis di gara che limita
la sanzione escludente alle circostanze conosciute dal
concorrente, posto che nella specie la sentenza di
patteggiamento era assolutamente univoca nel sanzionare
puntuali violazioni in materia di salute e sicurezza sul
lavoro, sicché tali violazioni non potevano essere ignorate
dalla ricorrente.
Lo stesso dicasi con riferimento alle misure di self
cleaning che evidentemente non potevano essere
apprezzate, a valle, dalla stazione appaltante in funzione “sanante”,
stante la dichiarazione non veritiera resa, a monte, dalla
ricorrente in ordine alla assenza di violazioni delle norme
in matteria di salute e sicurezza sul lavoro.
Quanto poi alla presunta rilevanza nella specie del punto
7.5. delle linee guida n. 6/2017 (nel testo risultante dal
recente aggiornamento del mese di ottobre 2017), si osserva
che le stesse linee guida disciplinano la specifica ipotesi
di cui all'art. 80, co. 5, lett. c), d.lgs. n. 50/2016, che
nella specie non ricorre, e che comunque l'interpretazione
corretta del punto 7.5. è nel senso che la relativa
disposizione, che prescrive un contraddittorio più rigoroso
in ordine alla valutazione delle misure di self cleaning,
si riferisce alla violazione del principio di leale
collaborazione in precedenti procedure concorsuali e non
alla dichiarazione non veritiera nella gara in corso,
viceversa espressamente regolata dal punto 4.2. delle linee
guida in termini di immediata (e necessaria) rilevanza
escludente della dichiarazione non veritiera in conformità
con quanto stabilito dall'art. 80, co. 5, lett. f)-bis,
d.lgs. 50/2016 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1065 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Esclusione dalla gara per condanna con sentenza patteggiata.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione - Esclusione
dalla gara – Condanna con sentenza di patteggiamento ex art.
444 c.p.p. – Conseguenza.
In materia di appalti pubblici, la
sentenza di applicazione della pena su richiesta ex art. 444
c.p.p. rileva quale debito accertamento delle condotte ivi
sanzionate ai sensi di quanto previsto dall'art. 80, comma
5, lett. a), d.lgs. 18.04.2016, n. 50; infatti, non solo
l'art. 445 c.p.p. stabilisce l'equiparazione della sentenza
di patteggiamento alla sentenza di condanna, ma è lo stesso
art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 a recepire esplicitamente la
detta equiparazione sia pure in riferimento alla distinta
ipotesi di cui al comma 1, che tuttavia, sul piano della
ratio di tutela, non presenta sostanziali differenze (1).
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar che le misure di self cleaning
non possono essere apprezzate dalla stazione appaltante in
funzione “sanante”, allorché vi sia una dichiarazione
non veritiera resa, a monte, dal concorrente in ordine alla
assenza di violazioni delle norme in matteria di salute e
sicurezza sul lavoro
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 17.05.2018 n. 1063
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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Il ricorso è palesemente infondato, sicché sussistono i
presupposti per la definizione del giudizio con sentenza in
forma semplificata.
Invero, l'art. 445 c.p.p. stabilisce l'equiparazione della
sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna.
Peraltro, è lo stesso art. 80 codice appalti a recepire
esplicitamente la detta equiparazione sia pure in
riferimento alla distinta ipotesi di cui al comma 1, che
tuttavia, sul piano della ratio di tutela, non
presenta sostanziali differenze rispetto al caso in esame: “dalla
sentenza di condanna del Tribunale di Ancona in data
-OMISSIS-per omicidio colposo, sebbene pronunciata ai sensi
dell’art. 444 c.p.p., emerge invero che l’allora -OMISSIS--OMISSIS-
era imputato di un reato connesso con la violazione degli
obblighi in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro ovvero
di una fattispecie che ricade nel campo di applicazione
dell’art. 38, comma 1, lett. e), del d.lgs n. 163 del 2006.
Sul punto, la difesa di -OMISSIS- e del -OMISSIS- deducono
che, trattandosi di una sentenza di “patteggiamento”, non vi
è stato un definitivo accertamento delle infrazioni
contestate.
Al riguardo, è sufficiente osservare che, come noto, l’art.
445 c.p.p. equipara la sentenza emessa ai sensi dell’art.
444 c.p.p. ad una sentenza di condanna e, anche se non vi è
stato un accertamento dei fatti in sede dibattimentale, ciò
non esclude che, ai fini di cui al citato art. 38 del d.lgs.
n. 163 del 2006, possa essere assimilata ad un accertamento
di responsabilità.
Diversamente opinando e non potendo essere rimesso alla
stazione appaltante alcun onere (non essendo riconosciuto
alcun potere specifico in tal senso) di verificare in via
definitiva la sussistenza di tale infrazione, il ricorso a
tale strumento processuale (il c.d. “patteggiamento”)
costituirebbe una modalità per eludere le responsabilità,
ponendo peraltro nel nulla l’affermazione di principio
contenuta nel citato art. 445 c.p.p." (TAR Roma, Sez.
III, 02.11.2017 n. 10965).
Né le cose cambiano con riferimento alla specifica
prescrizione della lex specialis di gara che limita
la sanzione escludente alle circostanze conosciute dal
concorrente, posto che nella specie la sentenza di
patteggiamento era assolutamente univoca nel sanzionare
puntuali violazioni in materia di salute e sicurezza sul
lavoro, sicché tali violazioni non potevano essere ignorate
dalla ricorrente.
Lo stesso dicasi con riferimento alle misure di self
cleaning che evidentemente non potevano essere
apprezzate, a valle, dalla stazione appaltante in funzione “sanante”,
stante la dichiarazione non veritiera resa, a monte, dalla
ricorrente in ordine alla assenza di violazioni delle norme
in matteria di salute e sicurezza sul lavoro.
Quanto poi alla presunta rilevanza nella specie del punto
7.5. delle linee guida n. 6/2017 (nel testo risultante dal
recente aggiornamento del mese di ottobre 2017), si osserva
che le stesse linee guida disciplinano la specifica ipotesi
di cui all'art. 80, co. 5, lett. c), d.lgs. n. 50/2016, che
nella specie non ricorre, e che comunque l'interpretazione
corretta del punto 7.5. è nel senso che la relativa
disposizione, che prescrive un contraddittorio più rigoroso
in ordine alla valutazione delle misure di self cleaning,
si riferisce alla violazione del principio di leale
collaborazione in precedenti procedure concorsuali e non
alla dichiarazione non veritiera nella gara in corso,
viceversa espressamente regolata dal punto 4.2. delle linee
guida in termini di immediata (e necessaria) rilevanza
escludente della dichiarazione non veritiera in conformità
con quanto stabilito dall'art. 80, co. 5, lett. f)-bis,
d.lgs. 50/2016. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il vizio di eccesso di potere per sviamento
consiste nell'effettiva e comprovata divergenza fra l'atto e
la sua funzione tipica, ovvero nell'esercizio del potere per
finalità diverse da quelle enunciate dal legislatore con la
norma attributiva dello stesso: ciò si verifica, in
particolare, allorquando l'atto posto in essere sia stato
determinato da un interesse diverso da quello pubblico.
Il vizio non sussiste allorquando l'atto risulta comunque
adottato nel rispetto delle norme che ne disciplinano la
forma e il contenuto e risulta in piena aderenza al fine
pubblico al quale è istituzionalmente preordinato anche se,
attraverso la sua emanazione, l'amministrazione ha
indirettamente consentito il perseguimento da parte di terzi
di ulteriori finalità secondarie, lecite e non in contrasto
con quella principale.
Inoltre, la censura di eccesso di potere per sviamento
deve essere supportata da precisi e concordanti elementi di
prova, idonei a dar conto delle divergenze dell'atto dalla
sua tipica funzione istituzionale, non essendo a tal fine
sufficienti semplici supposizioni o indizi che non si
traducano nella dimostrazione dell'illegittima finalità
perseguita in concreto dall'organo amministrativo.
Affinché la censura di sviamento possa ritenersi fondata
occorre, quindi, che gli elementi emersi rivelino in modo
indubbio il dissimulato scopo dell'atto.
---------------
4.3. L’esame della censura deve essere preceduto dalla premessa in base
alla quale il vizio di eccesso di potere per sviamento
consiste nell'effettiva e comprovata divergenza fra l'atto e
la sua funzione tipica, ovvero nell'esercizio del potere per
finalità diverse da quelle enunciate dal legislatore con la
norma attributiva dello stesso: ciò si verifica, in
particolare, allorquando l'atto posto in essere sia stato
determinato da un interesse diverso da quello pubblico (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 01.12.2014, n. 519; TAR
Lombardia, Brescia, sez. I, 01.03.2018, n. 248; TAR
Toscana, sez. I, 30.03.2016, n. 535).
Il vizio non sussiste allorquando l'atto risulta comunque
adottato nel rispetto delle norme che ne disciplinano la
forma e il contenuto e risulta in piena aderenza al fine
pubblico al quale è istituzionalmente preordinato (TAR
Piemonte, sez. I, 02.08.2016, n. 1102; TAR Emilia
Romagna, Bologna, sez. I, 30.07.2015, n. 701) anche se,
attraverso la sua emanazione, l'amministrazione ha
indirettamente consentito il perseguimento da parte di terzi
di ulteriori finalità secondarie, lecite e non in contrasto
con quella principale (Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2013,
n. 32; Cons. Stato, sez. IV, 17.12.2003, n. 8306;
TAR Lombardia, Milano, sez. II, 01.02.2016, n. 214).
Inoltre, secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, la censura di eccesso di potere per
sviamento deve essere supportata da precisi e concordanti
elementi di prova, idonei a dar conto delle divergenze
dell'atto dalla sua tipica funzione istituzionale, non
essendo a tal fine sufficienti semplici supposizioni o
indizi che non si traducano nella dimostrazione
dell'illegittima finalità perseguita in concreto dall'organo
amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2013, n. 32;
Cons. Stato, sez. V, 11.03.2010, n. 1418).
Affinché la
censura di sviamento possa ritenersi fondata occorre,
quindi, che gli elementi emersi rivelino in modo indubbio il
dissimulato scopo dell'atto (Cons. Stato, sez. IV, 21.09.2015, n. 4392; Id., Sez. IV, 27.04.2005,
n. 1947)
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 17.05.2018 n. 538 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Costituisce ius
receptum il principio che la corresponsione dell’indennizzo
previsto dall’art. 21-quinquies della legge 07.08.1990, n.
241 è sottoposta alla condizione dell'esistenza di
pregiudizi per il privato destinatario.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, la
mancata previsione di tale forma di ristoro non comporta
l'invalidità della determinazione assunta in autotutela, in
applicazione del principio di carattere generale utile per
inutile non vitiatur (art. 1419 c.c.).
In altri termini, la mancata previsione dell'indennizzo di
cui all'art. 21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241,
nel provvedimento di revoca, non ha efficacia viziante o
invalidante di quest'ultimo, ma legittima semplicemente il
privato ad azionare la pretesa patrimoniale innanzi al
giudice amministrativo che ne potrà scrutinare i
presupposti.
Inoltre, in apice la medesima disposizione impone al privato
leso dal provvedimento di revoca di allegare e provare
l'esistenza di pregiudizi di ordine patrimoniale
indennizzabili, e nulla di ciò la parte ricorrente ha fatto.
---------------
L'intenzione
di prestare acquiescenza ad un atto amministrativo deve
risultare in modo chiaro ed irrefutabile dal compimento di
atti ovvero da comportamenti assolutamente inconciliabili
con una volontà del tutto diversa.
Non deve poi dimenticarsi che la possibile configurazione di
acquiescenza al provvedimento lesivo deve essere sottoposta
ad uno stringente vaglio in sede giurisdizionale, onde
evitare l’elusione dei valori costituzionali tutelati dagli
artt. 24, comma 1, e 113, comma 1, Cost..
Devono, dunque, emergere una condotta (espressa o tacita)
univoca sulla irrefutabile volontà di accettare gli effetti
e l’operatività del provvedimento, una libera volizione,
successiva o contestuale all’emanazione del provvedimento
astrattamente lesivo, mentre è irrilevante la contingente
tolleranza manifestata anche attraverso il compimento di
attività necessarie per fronteggiare gli effetti del
provvedimento lesivo in una logica soggettiva di riduzione
del pregiudizio.
---------------
5.2. Infine,
costituisce ius receptum il principio che la
corresponsione dell’indennizzo previsto dall’art.
21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241 è sottoposta
alla condizione dell'esistenza di pregiudizi per il privato
destinatario.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, la
mancata previsione di tale forma di ristoro non comporta
l'invalidità della determinazione assunta in autotutela, in
applicazione del principio di carattere generale utile
per inutile non vitiatur (art. 1419 c.c.). In altri
termini, la mancata previsione dell'indennizzo di cui
all'art. 21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241, nel
provvedimento di revoca, non ha efficacia viziante o
invalidante di quest'ultimo, ma legittima semplicemente il
privato ad azionare la pretesa patrimoniale innanzi al
giudice amministrativo che ne potrà scrutinare i presupposti
(cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 08.03.2017, n. 1100;
TAR Sicilia, Catania, sez. III, 03.11.2017, n. 2514; TAR
Umbria, sez. I, 20.07.2017, n. 524).
Inoltre, in apice la medesima disposizione impone (cfr. TAR
Sardegna, sez. I, 30.01.2018, n. 59) al privato leso dal
provvedimento di revoca di allegare e provare l'esistenza di
pregiudizi di ordine patrimoniale indennizzabili, e nulla di
ciò la parte ricorrente ha fatto.
...
Né si può affermare che il riscontro operato dalla parte
ricorrente alla detta richiesta di integrazione documentale
costituisca acquiescenza in quanto, in base al consolidato
indirizzo interpretativo, l'intenzione di prestare
acquiescenza ad un atto amministrativo deve risultare in
modo chiaro ed irrefutabile dal compimento di atti ovvero da
comportamenti assolutamente inconciliabili con una volontà
del tutto diversa (Cons. Stato, sez. III, 10.06.2016, n.
2507; Cons. Stato, sez. IV, 20.08.2013, n. 4199).
Non deve poi dimenticarsi che la possibile configurazione di
acquiescenza al provvedimento lesivo deve essere sottoposta
ad uno stringente vaglio in sede giurisdizionale, onde
evitare l’elusione dei valori costituzionali tutelati dagli
artt. 24, comma 1, e 113, comma 1, Cost.; devono dunque
emergere una condotta (espressa o tacita) univoca sulla
irrefutabile volontà di accettare gli effetti e
l’operatività del provvedimento, una libera volizione,
successiva o contestuale all’emanazione del provvedimento
astrattamente lesivo, mentre è irrilevante la contingente
tolleranza manifestata anche attraverso il compimento di
attività necessarie per fronteggiare gli effetti del
provvedimento lesivo in una logica soggettiva di riduzione
del pregiudizio (Cons. Stato, sez. VI, 19.03.2015, n. 1417;
Cons. Stato, sez. V, 02.12.2015, n. 5441)
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 17.05.2018 n. 538 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’interesse
all’annullamento dell’atto impugnato deve sussistere non
solo al momento della proposizione del ricorso, ma anche in
epoca successiva, in base al principio per il quale le
condizioni dell'azione debbono permanere sino al momento del
passaggio in decisione della controversia.
---------------
E' onere della parte ricorrente, a fronte di sopravvenienze
che abbiano reso inutile l’annullamento, prospettare al
giudice, mediante una memoria depositata agli atti del
fascicolo, ma anche nel corso della discussione orale della
causa all’udienza pubblica, in termini dispositivi (cioè
impegnativi) ed inequivoci, il proprio perdurante interesse
ad avere comunque una decisione di merito sull’illegittimità
degli atti impugnati, fornendo in proposito un’adeguata
motivazione che consenta alle controparti di contraddire sul
punto e al giudice di formarsi in proposito un adeguato
convincimento, mentre, in difetto il giudice è senz’altro
autorizzato dalla legge a dichiarare l’improcedibilità del
gravame.
---------------
6.1. Venendo, come già anticipato (cfr. il punto 1),
all’esame della questione della procedibilità del ricorso
introduttivo del giudizio, il Collegio –premesso che
l’interesse all’annullamento dell’atto impugnato deve
sussistere non solo al momento della proposizione del
ricorso, ma anche in epoca successiva, in base al principio
per il quale le condizioni dell'azione debbono permanere
sino al momento del passaggio in decisione della
controversia (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 13.03.2018, n. 1591; Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2016,
n. 309)– deve evidenziare che nelle more della definizione
nel merito del ricorso si è verificato un mutamento della
situazione di fatto e di diritto –in virtù del decreto
della Regione Veneto n. 8 dell’11.01.2018, comunicato
con nota n. 11509 prot. dell’11.01.2018, con cui sono
state decise la revoca del decreto n. 57 del 23.03.2017 e
la ripetizione della gara mediante pubblicazione di nuovo
bando e del decreto della Regione Veneto n. 11 del 15.01.2018 di approvazione del nuovo «bando finalizzato
alla concessione d’uso, previa manutenzione straordinaria,
del pontile di proprietà regionale sul lago di Garda. loc.
Ronchi (Allegato A)», e del bando medesimo, pubblicati in B.u.R. n. 8 del 19.012018, che hanno resistito alle
contestazioni di legittimità veicolate con i motivi aggiunti
(cfr. supra)- tale da rendere certa la inutilità di una
decisione di merito sul gravame introduttivo del giudizio,
non potendo la parte ricorrente trarre alcuna utilità
dall'annullamento degli atti impugnati con il predetto
ricorso introduttivo ed alcun concreto vantaggio in
relazione alla sua posizione legittimante.
Inoltre, nel presente giudizio non è stata avanzata né una
domanda risarcitoria, né una domanda di accertamento
dell’illegittimità degli atti impugnati ai sensi dell’art.
34, comma 3, c.p.a.; il Collegio, sul punto, intende dare
continuità al consolidato orientamento giurisprudenziale
secondo cui è onere della parte ricorrente, a fronte di
sopravvenienze che abbiano reso inutile l’annullamento,
prospettare al giudice, mediante una memoria depositata agli
atti del fascicolo, ma anche nel corso della discussione
orale della causa all’udienza pubblica, in termini
dispositivi (cioè impegnativi) ed inequivoci, il proprio
perdurante interesse ad avere comunque una decisione di
merito sull’illegittimità degli atti impugnati, fornendo in
proposito un’adeguata motivazione che consenta alle
controparti di contraddire sul punto e al giudice di
formarsi in proposito un adeguato convincimento (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 28.03.2018, n.
3476; TAR Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 13.01.2017, n.
27; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 03.12.2015, n.
3126; TAR Campania, Napoli, sez. V, 20.03.2014, n.
1646), mentre, in difetto il giudice è senz’altro
autorizzato dalla legge a dichiarare l’improcedibilità del
gravame
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 17.05.2018 n. 538 - link a
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PATRIMONIO:
Nel caso di
concessione di un bene pubblico, stante la destinazione del
bene alla diretta realizzazione di interessi pubblici,
l’utilizzo da parte di un soggetto diverso dall'ente
titolare del bene stesso deve ritenersi “eccezionale”, e può ammettersi “entro certi limiti” e “per
alcune utilità”.
---------------
Orbene, è
consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui nel
caso di concessione di un bene pubblico, stante la
destinazione del bene alla diretta realizzazione di
interessi pubblici, l’utilizzo da parte di un soggetto
diverso dall'ente titolare del bene stesso deve ritenersi
“eccezionale”, e può ammettersi “entro certi limiti” e “per
alcune utilità” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 19.07.2013,
n. 3924; TRGA, Trento, sez. unica, 11.02.2015, n. 49)
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 17.05.2018 n. 538 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
ASSOCIAZIONI E COMITATI – PROCESSO AMMINISTRATIVO
– Ricorso giurisdizionale collettivo – Ammissibilità –
Presupposti – Requisito positivo - Requisito negativo.
Il ricorso giurisdizionale collettivo, presentato da una
pluralità di soggetti con un unico atto, è ammissibile nel
caso in cui sussistano, cumulativamente, i requisiti
dell'identità di situazioni sostanziali e processuali
-ossia, alla condizione che le domande giudiziali siano
identiche nell'oggetto e gli atti impugnati abbiano lo
stesso contenuto e vengano censurati per gli stessi motivi-
e l'assenza di un conflitto di interessi tra le parti
(Consiglio di Stato sez. III 10.08.2017 n. 3990; conf. id.,
sez. V, 27.07.2017 n. 3725; id., sez. IV 24.07.2017 n.
3638).
In altri termini, il ricorso collettivo è proponibile se, in
relazione al requisito positivo, le parti facciano valere
gli stessi vizi nei confronti dei medesimi provvedimenti e,
in relazione al requisito negativo, non sussista conflitto
di interessi in quanto l'eventuale accoglimento sarebbe
finalizzato esclusivamente a soddisfare l'interesse di
entrambe le ricorrenti (nella specie, interesse
all’annullamento del giudizio positivo di compatibilità
ambientale di un impianto eolico)
ASSOCIAZIONI AMBIENTALISTE – Ente
collettivo volto a perseguire la tutela ambientale –
Posizione processuale – Sostituzione processuale di enti
distinti – Esclusione – Fattispecie.
La natura di un’associazione ambientalista quale ente
collettivo volto a perseguire, sotto molteplici profili, la
tutela ambientale, porta ad escludere la qualificazione
della posizione processuale della stessa come un’ipotesi di
sostituzione processuale di enti distinti (nella specie,
l’Associazione, tutelando indirettamente l’interesse degli
Enti molisani alla informazione ed alla partecipazione al
procedimento di valutazione di impatto ambientale,
perseguiva il proprio fine statutario facendosi portatrice
di un interesse proprio) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.05.2018 n. 2910 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA:
VIA, VAS E AIA – Procedure di VAS, VIA e AIA
avviate precedentemente all’entrate in vigore del d.lgs. n.
128/2010 – Normativa applicabile – Varianti sostanziali
presentate in un secondo momento – Irrilevanza.
Ai sensi dell’art. 4, comma 5, d.lgs. 29.06.2010, n. 128, “Le
procedure di VAS, VIA ed AIA avviate precedentemente
all'entrata in vigore del presente decreto sono concluse ai
sensi delle norme vigenti al momento dell'avvio del
procedimento”.
Non può essere sostenuto che, ai fini dell’individuazione
della normativa applicabile, possa rilevare la circostanza
che la valutazione di impatto ambientale sia stata
conclusivamente adottata sulla variante sostanziale al
progetto presentata in un secondo momento. Ciò che conta,
secondo la disciplina transitoria summenzionata, è infatti
esclusivamente il “momento dell'avvio del procedimento".
VIA, VAS E AIA – Piani e programmi
soggetti a VAS e progetti di opere sottoposti a VIA –
Impatti rilevanti su regioni confinanti – Art. 30, c. 2
d.lgs. n. 152/2006, nella formulazione precedente alle
riforme del 2010 – Acquisizione del parere degli enti
interessati – Mera informativa – Insufficienza.
L’art. 30, comma 2, d.lgs. 152/2006 nella formulazione
precedente alla riforma dell’agosto 2010, nel caso di piani
e programmi soggetti a VAS e di progetti di interventi e di
opere sottoposti a VIA di competenza regionale che possano
avere impatti ambientali rilevanti su regioni confinanti,
richiedeva un duplice adempimento, non essendo sufficiente
la mera informazione degli enti interessati, bensì dovendo
essere richiesto agli stessi l’espressione di un parere sul
progetto in esame.
L’acquisizione del parere ai fini della valutazione di
impatto ambientale presuppone una distinta e specifica
richiesta, che, rappresentando autonomo adempimento, non può
ritenersi implicitamente insita nella mera trasmissione di
documentazione.
Ove, pertanto, l’unico adempimento effettuato nei confronti
degli enti confinanti interessati dagli impatti derivanti
dal progetto di un impianto eolico sia la mera informativa,
risulta violato il disposto normativo, in relazione al
difetto di istruttoria determinante il pregiudizio al
diritto di partecipazione dei soggetti direttamente
coinvolti dall’opera (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.05.2018 n. 2910 - link a
www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
INQUINAMENTO – DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA –
Destinazione di un’area del territorio a zona industriale –
Aprioristica ed astratta inibizione di particolari tipologie
di insediamenti produttivi (industrie insalubri di prima
classe) – Illegittimità.
Nell’ambito della destinazione di un’area del territorio
comunale a zona industriale non possono essere
aprioristicamente ed astrattamente inibite particolari
tipologie di insediamenti produttivi posto che una simile
scelta di PRG non rientrerebbe nell’ambito della disciplina
urbanistica, ma concreterebbe un illegittimo esercizio delle
ben diverse funzioni di igiene pubblica da parte del
Consiglio comunale, in luogo di altri soggetti
istituzionalmente competenti.
Non può, quindi, considerarsi legittima l’esclusione a
priori per tutto il territorio comunale della possibilità di
insediamento di nuove attività classificate insalubri di
prima classe dal D.M. 05.09.1994, in base ad una norma di
pianificazione generale (cfr. Cons. St. sez. IV, 4243/2011)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 16.05.2018 n. 603 - link a
www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Sul diritto di accesso, o meni, ai pareri legali.
La giurisprudenza costante del giudice amministrativo, con
riferimento alla richiesta di accesso dei pareri legali, ne
riconosce l’ostensione in accoglimento dell’istanza
d’accesso quando tale parere ha una funzione
endoprocedimentale ed è quindi correlato ad un procedimento
amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso
collegato anche solo in termini sostanziali e, quindi, pur
in assenza di un richiamo formale ad esso; nega invece
l’accesso quando il parere viene espresso al fine di
definire una strategia una volta insorto un determinato
contenzioso, ovvero una volta iniziate situazioni
potenzialmente idonee a sfociare in un giudizio.
---------------
Si deve ricordare che il diritto di accesso in funzione
difensiva è garantito dall’art. 24, comma 7, l. 07.08.1990,
n. 241 che, nel rispetto dell’art. 24 Cost., prevede, con
una formula di portata generale, che “deve comunque essere
garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
difendere i propri interessi giuridici”. Fermo restando che,
nel caso di documenti contenenti dati sensibili e
giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia
strettamente indispensabile.
Entro i predetti limiti deve essere, quindi, garantito
l’accesso agli atti, a fini difensionali, quando un soggetto
è coinvolto in un procedimento giurisdizionale da cui può
scaturire una decisione pregiudizievole a suo carico.
---------------
1. Come esposto in narrativa il dott. Co. ha impugnato
dinanzi al Tar Marche il diniego di ostensione del parere
legale -richiesto dall’Azienda Sanitaria Unica Regionale
Marche al Dirigente del proprio Servizio Legale designato
quale consulente dell'Ufficio procedimenti disciplinari– in
occasione del procedimento disciplinare avviato nei suoi
confronti e conclusosi con atto del 02.08.2016, che ha
disposto la sospensione cautelare dal servizio e la
sospensione del procedimento disciplinare in pendenza di un
provvedimento penale a suo carico.
L’adito Tar Marche ha respinto il ricorso sul rilievo che,
dalla motivazione della sospensione dal servizio, è dato
evincere che l’acquisito parere non ha concorso alla
determinazione assunta, che trova il presupposto nei fatti
contestati al dirigente.
L’appello proposto avverso detta sentenza è fondato.
La giurisprudenza costante del giudice amministrativo, con
riferimento alla richiesta di accesso dei pareri legali, ne
riconosce l’ostensione in accoglimento dell’istanza
d’accesso quando tale parere ha una funzione
endoprocedimentale ed è quindi correlato ad un procedimento
amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso
collegato anche solo in termini sostanziali e, quindi, pur
in assenza di un richiamo formale ad esso (Cons. St., ord.,
sez. VI, 24.08.2011, n. 4798); nega invece l’accesso
quando il parere viene espresso al fine di definire una
strategia una volta insorto un determinato contenzioso,
ovvero una volta iniziate situazioni potenzialmente idonee a
sfociare in un giudizio (Cons. St., sez. V, 05.05.2016,
n. 1761; id., sez. VI, 13.10.2003, n. 6200).
Ed invero, nel preambolo del provvedimento di sospensione si
dà atto:
a) di chiedere al consulente avv. Ma.Ba.
di formulare un parere scritto a miglior inquadramento
dell’intero procedimento (pag. 1);
b) di aver acquisito “il
parere legale del consulente avv. Ma.Ba.
protocollato al numero 88196/AV3 di pari data e si decideva
per l’adozione del presente provvedimento” (pag. 2).
L’assunto del giudice di primo grado, dunque, non trova
alcuna conferma nel tenore letterale della sospensione nella
quale, anzi, si precisa di aver acquisito il parere “a
miglior inquadramento dell’intero procedimento” e senza per
nulla chiarire che lo stesso non sarebbe stato utilizzato al
fine del decidere, con la conseguenza che, proprio in quanto
richiamato, non può che ritenersi, in mancanza di una
evidente prova fattuale contraria, che lo stesso non sia
entrato nel procedimento.
A tale rilievo, di per sé assorbente dell’ostensibilità del
parere richiesto, si aggiunge che il dott. Co. ha
motivato l’istanza di accesso con la necessità di una più
completa difesa delle proprie ragioni nel giudizio proposto
avverso la sospensione dal servizio, pendente dinanzi al
giudice del lavoro.
Sotto tale profilo è nota la particolare attenzione alle
ragioni dell’accesso, che deve essere riconosciuta quando il
rilascio di documentazione è richiesto in funzione
difensiva.
Si deve, infatti, ricordare che il diritto di accesso in
funzione difensiva è garantito dall’art. 24, comma 7, l. 07.08.1990, n. 241 che, nel rispetto dell’art. 24 Cost.,
prevede, con una formula di portata generale, che “deve
comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o difendere i propri interessi giuridici”. Fermo
restando che, nel caso di documenti contenenti dati
sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in
cui sia strettamente indispensabile.
Entro i predetti limiti deve essere, quindi, garantito
l’accesso agli atti, a fini difensionali, quando un soggetto
è coinvolto in un procedimento giurisdizionale da cui può
scaturire una decisione pregiudizievole a suo carico.
Facendo applicazione di tali principi non può certo negarsi
il diritto del dott. Co. a estrarre copia del parere
legale richiamato nel provvedimento che ha disposto la sua
sospensione dal servizio.
2. L’accoglimento dell’appello non trova certo ostacolo
nella disciplina regolamentare adottata dall’Azienda
Sanitaria Unica Regionale – ASUR Marche.
Non nel punto 10 del regolamento, atteso che
l’Amministrazione non ha affermato né tanto meno provato che
il parere in questione –che, come si è detto, è stato
acquisito nel corso del procedimento sfociato nella
sospensione dal servizio e non in occasione di un
contenzioso in atto– possa “compromettere l'esito del
giudizio o la cui diffusione potrebbe concretizzare
violazione dell'obbligo del segreto"; non nel punto 19,
atteso che il riferimento nello stesso contenuto, al fine di
individuare i parerei esclusi dall’accesso, non può che
riferirsi a quelli espressi al fine di definire una
strategia una volta insorto un determinato contenzioso,
ovvero una volta iniziate situazioni potenzialmente idonee a
sfociare in un giudizio; diversamente, infatti, si porrebbe
in contrasto con i principi dettati dall’art. 24, l. 07.08.1990, n. 241 che -pur contemplando la possibilità di
prevedere, mediante regolamento, “casi di sottrazione
all'accesso di documenti amministrativi (…) quando i
documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di
persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e
associazioni, con particolare riferimento agli interessi
epistolare, sanitario, professionale, finanziario,
industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari,
ancorché i relativi dati siano forniti all'amministrazione
dagli stessi soggetti cui si riferiscono”- dispone che
“deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
Una lettura diversa delle disposizioni regolamentari
porterebbe dunque a concludere per la loro illegittimità.
3. In conclusione, l’appello va accolto e l’impugnata
sentenza del Tar Marche n. 902 del 04.12.2017 va
annullata (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 15.05.2018 n. 2890 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Sono da tenere distinte la nozione di mera
miglioria rispetto al progetto posto a base di gara, da
quella di vera e propria variante.
Al riguardo, è stato affermato che, nelle procedure ad
evidenza pubblica finalizzate all'aggiudicazione di un
contratto pubblico, le soluzioni migliorative si
differenziano dalle varianti perché:
●
le prime possono liberamente esplicarsi su tutti gli
aspetti lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del
progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal
punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la
modificabilità delle caratteristiche progettuali già
stabilite dall'amministrazione;
●
le seconde, invece, si sostanziano in modifiche del
progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e
funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa
manifestazione di volontà della stazione appaltante,
mediante preventiva disposizione contenuta nella disciplina
di gara e individuazione dei relativi requisiti minimi, che
segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal
concorrente costituisce un aliud rispetto a quella
prefigurata dall’amministrazione.
Ne deriva che possono essere considerate proposte
migliorative tutte quelle precisazioni, integrazioni e
migliorie che sono finalizzate a rendere il progetto
prescelto più corrispondente alle esigenze della stazione
appaltante, senza tuttavia alterare i caratteri essenziali
delle prestazioni richieste.
Dunque, la Commissione non può premiare “varianti
progettuali” le quali implicano un’impostazione
incompatibile con il progetto posto a base della procedura
di gara, e che proprio per questo devono essere autorizzate
dalla lex specialis per garantire il rispetto della par
condicio tra le imprese partecipanti.
---------------
9.1 Occorre premettere che, in base a un consolidato e
condiviso orientamento giurisprudenziale, sono da tenere
distinte la nozione di mera miglioria rispetto al progetto
posto a base di gara, da quella di vera e propria variante.
Al riguardo, è stato affermato che, nelle procedure ad
evidenza pubblica finalizzate all'aggiudicazione di un
contratto pubblico, le soluzioni migliorative si
differenziano dalle varianti perché le prime possono
liberamente esplicarsi su tutti gli aspetti lasciati aperti
a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di
gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico,
rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle
caratteristiche progettuali già stabilite
dall'amministrazione; le seconde, invece, si sostanziano in
modifiche del progetto dal punto di vista tipologico,
strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è
necessaria una previa manifestazione di volontà della
stazione appaltante, mediante preventiva disposizione
contenuta nella disciplina di gara e individuazione dei
relativi requisiti minimi, che segnano i limiti entro i
quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un
aliud rispetto a quella prefigurata
dall’amministrazione.
Ne deriva che possono essere considerate proposte
migliorative tutte quelle precisazioni, integrazioni e
migliorie che sono finalizzate a rendere il progetto
prescelto più corrispondente alle esigenze della stazione
appaltante, senza tuttavia alterare i caratteri essenziali
delle prestazioni richieste (Consiglio di Stato, sez. V –
17/01/2018 n. 270; TAR Puglia Lecce, sez. III – 09/03/2018
n. 401 che evoca Consiglio di Stato, sez. V – 16/04/2014 n.
1923; Consiglio di Stato, sez. V – 10/01/2017 n. 42).
Dunque, la Commissione non può premiare “varianti
progettuali” le quali implicano un’impostazione
incompatibile con il progetto posto a base della procedura
di gara, e che proprio per questo devono essere autorizzate
dalla lex specialis per garantire il rispetto della
par condicio tra le imprese partecipanti (TAR Piemonte, sez.
I – 25/01/2018 n. 116) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.05.2018 n. 478 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull’installazione “di un ascensore
esterno per abbattimento barriere architettoniche ai sensi
dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001".
Risulta evidente il carattere dirimente
rivestito -per la definizione della controversia in
trattazione- dall’effettiva incidenza dell’intervento
oggetto della S.C.I.A. sui prospetti e sulla
sagoma dell’edificio, posto che è proprio la sussistenza di
tale incidenza a determinare e, dunque, supportare
l’operatività della disciplina su cui si fonda la decisione
adottata.
In ordine a tali aspetti, è da rilevare che:
- i concetti di “sagoma” e di “prospetto” di un edificio non
sono oggetto di esplicita regolamentazione da parte del
legislatore all’interno del D.P.R. n. 380 del 2001;
- al fine di individuare gli elementi che contraddistinguono
i su indicati termini, di chiaro ed inequivoco ausilio si
presentano le decisioni giurisprudenziali emesse in materia,
unitamente al “Regolamento Edilizio Tipo”, pubblicato nella
G.U. del 16.11.2016, n. 268 (in particolare, la
rubrica n. 18 dell’Allegato A);
- orbene, tali decisioni e il menzionato Regolamento
conducono a considerare la “sagoma” dell’edificio come la
“conformazione planovolumetrica della costruzione fuori
terra, considerato in senso verticale ed orizzontale”, ossia
il contorno che caratterizza quest’ultima, ivi comprese le
strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti, sicché
debbono essere coerentemente configurati in termini di
interventi edilizi incidenti sulla “sagoma” tutte le
modificazioni idonee ad apportare un’alterazione della
configurazione dell’edificio mediante un cambiamento della
sua volumetria totale o complessiva;
- per quanto attiene al “prospetto”, le stesse decisioni
inducono a identificare quest’ultimo come un quid pluris
rispetto alla sagoma, precipuamente riguardante il profilo
estetico-architettonico dell’edificio, ovvero l’aspetto
l’esterno di quest’ultimo.
---------------
2. Ciò detto, il ricorso è infondato e, pertanto, va
respinto.
2.1. Come esposto nella narrativa che precede, i ricorrenti
lamentano l’illegittimità del provvedimento con cui, in data
14.07.2016 ma successiva protocollazione in data 18.07.2016, Roma Capitale ha intimato di non effettuare i
lavori di cui alla S.C.I.A. presentata il precedente 19.04.2016, consistenti nell’installazione “di un ascensore
esterno per abbattimento barriere architettoniche ai sensi
dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, in via ... n. 89”, e della nota con cui, in data 29.09.2016, la già menzionata Amministrazione ha
respinto la richiesta di annullamento in autotutela del
provvedimento di cui sopra, inoltrata dall’arch. Si.Ga. il precedente 14.09.2016.
A tali fini i ricorrenti denunciano –in sintesi–
l’intervenuta adozione del provvedimento in trattazione
oltre il termine di 30 gg., prescritto dalla legge per
l’esercizio del potere inibitorio da parte
dell’Amministrazione, e, ancora, sostengono la violazione
della disciplina in materia di interventi edilizi diretti
alla rimozione delle barriere architettoniche, quali gli
“ascensori”, tenuto conto, tra l’altro, dell’assoluta
inidoneità dell’intervento oggetto della S.C.I.A. dai
predetti presentata ad incidere sul prospetto dell’immobile.
Tali motivi di diritto non sono meritevoli di positivo
riscontro.
3. Ai fini del decidere, appare opportuno ricordare che il
provvedimento gravato, riportante l’ordine “di non
effettuare gli interventi previsti nella S.C.I.A. con prot.
n. 41906 del 19/04/2016”, con l’ulteriore precisazione che
“tale ordine viene notificato in autotutela nel caso in cui
le trasformazioni dovessero aver avuto già inizio”, poggia
essenzialmente –in ragione dell’insistenza dell’immobile in
aree soggette a tutela paesaggistica e ambientale nonché “di
interesse archeologico”- sull’incidenza dell’intervento,
oggetto della S.C.I.A., sul prospetto dell’immobile e,
conseguentemente, sulla connessa violazione dell’obbligo
della previa acquisizione del parere paesaggistico nonché
dell’autorizzazione preventiva da parte della Regione Lazio.
3.1. Ciò detto, è doveroso rilevare che:
- come noto, l’art. 6 del D.P.R. n. 380 del 2001, rubricato
“Attività edilizia libera”, oggetto di numerose modifiche
normative nel corso del tempo, tra cui quella –per quanto
di rilevanza in questa sede– apportata dal D.Lgs. 25.11.2016, n. 222, prescrive che “sono eseguiti senza
alcun titolo abilitativo”, tra gli altri, “b) gli interventi
volti all’eliminazione di barriere architettoniche che non
comportino la realizzazione di ascensori esterni, ovvero di
manufatti che alterino la sagoma dell’edificio”;
- ai sensi, poi, dell’art. 149 del D.Lgs. 22.01.2004,
n. 42, titolato “Codice dei beni culturali e del paesaggio,
ai sensi dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n.
137”, l’autorizzazione paesaggistica –espressamente
indicata al precedente art. 146 come “atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l’intervento urbanistico edilizio”, la
cui previa acquisizione risulta imposta per apportare
“modificazioni” a “immobili ed aree di interesse
paesaggistico, tutelati dalla legge, a termini dell’articolo
142, o in base alla legge, a termini degli articoli 136,
143, comma 1, lett. d), e 157”– non è richiesta, tra gli
altri, “a) per gli interventi di manutenzione ordinaria,
straordinaria, di consolidamento statico e di restauro
conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e
l’aspetto esteriore degli edifici”;
- secondo il disposto dell’art. 22, comma 2, del D.P.R. n.
380 del 2001, “Sono, altresì, realizzabili mediante
segnalazione certificata di inizio attività le varianti a
permessi di costruire che non incidono sui parametri
urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la
destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterano la
sagoma dell’edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi
del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni….”, mentre il successivo art. 23, ai commi 3 e
4, prevede che, “nel caso di vincoli e delle materie oggetto
dell’esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l’immobile
oggetto dell’intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui
tutela compete, anche in via di delega, alla stessa
amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui
al comma 1,”, utile per dare avvio all’“effettivo inizio dei
lavori”, “decorre dal rilascio del relativo atto di assenso”
e, per i casi in cui non sussista la competenza
dell’Amministrazione comunale, lo stesso termine di trenta
giorni decorre dall’esito di una conferenza di servizi
appositamente convocata dal “competente ufficio comunale”;
- ove si tratti, ancora, di un’area di interesse
archeologico ai sensi dell’art. 41 del P.T.P.R., adottato
con DGR n. 556 del 25.07.2007, modificato ed integrato
con DGR 1025 del 21.12.2007, per le “nuove
costruzioni” e “gli ampliamenti al di fuori della sagoma
esistente compresi interventi pertinenziali inferiori al
20%” è previsto il preventivo parere della Soprintendenza
Archeologica.
3.2. Stante quanto in precedenza riportato, risulta evidente
il carattere dirimente rivestito -per la definizione della
controversia in trattazione- dall’effettiva incidenza
dell’intervento oggetto della S.C.I.A. sui prospetti e sulla
sagoma dell’edificio, posto che è proprio la sussistenza di
tale incidenza a determinare e, dunque, supportare
l’operatività della disciplina su cui si fonda la decisione
adottata.
In ordine a tali aspetti, è da rilevare che:
- i concetti di “sagoma” e di “prospetto” di un edificio non
sono oggetto di esplicita regolamentazione da parte del
legislatore all’interno del D.P.R. n. 380 del 2001;
- al fine di individuare gli elementi che contraddistinguono
i su indicati termini, di chiaro ed inequivoco ausilio si
presentano le decisioni giurisprudenziali emesse in materia,
unitamente al “Regolamento Edilizio Tipo”, pubblicato nella
G.U. del 16.11.2016, n. 268 (in particolare, la
rubrica n. 18 dell’Allegato A);
- orbene, tali decisioni e il menzionato Regolamento
conducono a considerare la “sagoma” dell’edificio come la
“conformazione planovolumetrica della costruzione fuori
terra, considerato in senso verticale ed orizzontale”, ossia
il contorno che caratterizza quest’ultima, ivi comprese le
strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti, sicché
debbono essere coerentemente configurati in termini di
interventi edilizi incidenti sulla “sagoma” tutte le
modificazioni idonee ad apportare un’alterazione della
configurazione dell’edificio mediante un cambiamento della
sua volumetria totale o complessiva (cfr., tra le altre, TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 25.05.2012, n. 1441);
- per quanto attiene al “prospetto”, le stesse decisioni
inducono a identificare quest’ultimo come un quid pluris
rispetto alla sagoma, precipuamente riguardante il profilo
estetico-architettonico dell’edificio, ovvero l’aspetto
l’esterno di quest’ultimo (cfr., tra le altre, Cass., Sez.
III Penale, 20.05.2015, n. 20846; TAR Campania, Napoli,
Sez. II, 26.10.2012, n. 4288).
Ciò detto e preso, comunque, atto che –come, peraltro,
affermato dalla giurisprudenza- le modificazioni normative
apportate nel tempo hanno sì introdotto una semplificazione
della disciplina vigente in materia, specie in relazione
agli interventi di “ristrutturazione”, ma che -in ogni caso– l’operatività delle stesse risulta esclusa in relazione ad
immobili soggetti a vincolo, il Collegio ritiene che le
censure formulate siano infondate per le seguenti ragioni:
- come si trae da quanto in precedenza riportato, il termine
di trenta giorni di cui agli artt. 22 e ss. del D.P.R. n.
380 del 2001 non può essere utilmente invocato per
contestare l’esercizio del potere “inibitorio” da parte
dell’Amministrazione in tutti i casi in cui –come quello in
trattazione– sussistano vincoli e non siano stati resi i
dovuti pareri e/o le prescritte autorizzazioni;
- la disamina dell’intervento oggetto della S.C.I.A.
presentata dai ricorrenti impone di riscontrare una
modificazione sicuramente incidente sul “prospetto”
dell’edificio esistente in quanto –comunque– idonea a
creare un nuovo ambiente “chiuso”, a livello del c.d. piano
pilotis (ordinariamente costituente un ambiente aperto, su
cui poggiano esclusivamente le mura portanti o, meglio, i
pilastri della struttura);
- quanto, poi, affermato circa la realizzazione di impianti
similari in carenza di rilievi da parte di Roma Capitale,
oltre a concretizzare una doglianza connotata da genericità,
non vale a supportare l’illegittimità denunciata, atteso che
eventuali carenze in relazione all’operato
dell’Amministrazione non valgono –in ogni caso– a
giustificare e, tanto meno, a imporre la commissione di
ulteriori carenze. Come pacificamente riconosciuto dalla
giurisprudenza, l’eccesso di potere per disparità di
trattamento costituisce –del resto– un vizio che bene si
rivolge all’ipotesi di discriminazioni nell’attribuzione di
un bene della vita che risulta dovuto (cfr., tra le altre,
TAR Piemonte, Sez. I, 01.08.2011, n. 938) e, pertanto,
non è affatto configurabile ove si tratti di ipotesi in cui
il richiedente non è in condizione di ottenere il titolo
richiesto, atteso che l’eventuale illegittimità commessa a
favore di altri non può essere in alcun modo invocata per
ottenere che la stessa illegittimità venga compiuta anche in
proprio favore (cfr. C.d.S., Sez. IV, 24.02.2011, n.
1235; TAR Liguria, Sez. I, n. 785 del 2012).
4. Per le ragioni illustrate, il ricorso va respinto (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 11.05.2018 n. 5255 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’operatore escluso
dalla gara non è legittimato ad impugnare il successivo
provvedimento di aggiudicazione della stessa.
E’ stato, invero, affermato che: “la disposta esclusione che
determinava la definitiva estromissione dalla gara di … si
atteggiava come atto conclusivo del procedimento. Ora se è
ipotizzabile, secondo i noti principi,
l'interesse strumentale del partecipante alla gara alla
riedizione della procedura, nel caso in esame, venuta meno,
per la inammissibilità del ricorso avverso la esclusione
(per mancata notifica al rti …), la posizione del rti … di
concorrente partecipante alla gara e ricondotta la sua
posizione a quella di concorrente legittimamente escluso, lo
stesso non poteva vantare alcuna legittimazione a contestare
con successivi motivi aggiunti la composizione della
commissione.
Ogni censura attinente alla nomina della commissione non
poteva che svolgersi unitamente alla estromissione dalla
gara, atto conclusivo del procedimento di partecipazione
alla gara.
Una volta escluso dalla gara, il rti … veniva a perdere ogni
posizione differenziata che lo potesse legittimare a
censurare la composizione della commissione”.
Inoltre: “…la situazione legittimante costituita dalla
partecipazione alla procedura costituisce la condizione
necessaria per acquisire la legittimazione al ricorso.
La posizione sostanziale differenziata che radica la
legittimazione al ricorso non è instaurata dal solo fatto
storico della iniziale partecipazione alla gara,
indipendentemente dalla successiva esclusione, oppure
dall'accertamento della sua illegittimità.
La legittimazione del concorrente che abbia partecipato alla
gara può quindi essere impedita dall'inoppugnabilità
dell'atto di esclusione perché non impugnato, o perché
giudicato immune dai vizi denunciati dalla parte
interessata.
Da ciò discende che la mera partecipazione di fatto alla
gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al
ricorso: la situazione legittimante costituita
dall'intervento nel procedimento selettivo deriva infatti,
secondo l'Adunanza Plenaria, da una
qualificazione di carattere normativo, che postula il
positivo esito del sindacato sulla ritualità dell'ammissione
del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto si deve concludere che non spetta alcuna
legittimazione a contestare gli esiti della gara o comunque
il suo svolgimento al concorrente escluso dalla gara, per il
quale l'atto di esclusione non sia stato in qualche modo
rimosso".
---------------
Riguardo, invece, al ricorso per motivi aggiunti, lo stesso
è inammissibile per carenza di legittimazione attiva.
Come risulta, invero, dall’ormai granitico orientamento
della giurisprudenza amministrativa, l’operatore escluso
dalla gara non è legittimato ad impugnare il successivo
provvedimento di aggiudicazione della stessa.
E’ stato, invero, affermato che: “la disposta esclusione che
determinava la definitiva estromissione dalla gara di … si
atteggiava come atto conclusivo del procedimento. Ora se è
ipotizzabile, secondo i noti principi (AP n. 4/2011),
l'interesse strumentale del partecipante alla gara alla
riedizione della procedura, nel caso in esame, venuta meno,
per la inammissibilità del ricorso avverso la esclusione
(per mancata notifica al rti …), la posizione del rti … di
concorrente partecipante alla gara e ricondotta la sua
posizione a quella di concorrente legittimamente escluso, lo
stesso non poteva vantare alcuna legittimazione a contestare
con successivi motivi aggiunti la composizione della
commissione.
Ogni censura attinente alla nomina della commissione non
poteva che svolgersi unitamente alla estromissione dalla
gara, atto conclusivo del procedimento di partecipazione
alla gara.
Una volta escluso dalla gara, il rti … veniva a perdere ogni
posizione differenziata che lo potesse legittimare a
censurare la composizione della commissione” (Cons. Stato,
sez. III, 18.06.2015, n. 3126).
Inoltre: “…la situazione legittimante costituita dalla
partecipazione alla procedura costituisce la condizione
necessaria per acquisire la legittimazione al ricorso.
La posizione sostanziale differenziata che radica la
legittimazione al ricorso non è instaurata dal solo fatto
storico della iniziale partecipazione alla gara,
indipendentemente dalla successiva esclusione, oppure
dall'accertamento della sua illegittimità.
La legittimazione del concorrente che abbia partecipato alla
gara può quindi essere impedita dall'inoppugnabilità
dell'atto di esclusione perché non impugnato, o perché
giudicato immune dai vizi denunciati dalla parte
interessata.
Da ciò discende che la mera partecipazione di fatto alla
gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al
ricorso: la situazione legittimante costituita
dall'intervento nel procedimento selettivo deriva infatti,
secondo l'Adunanza Plenaria (n. 4/2011), da una
qualificazione di carattere normativo, che postula il
positivo esito del sindacato sulla ritualità dell'ammissione
del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto si deve concludere che non spetta alcuna
legittimazione a contestare gli esiti della gara o comunque
il suo svolgimento al concorrente escluso dalla gara, per il
quale l'atto di esclusione non sia stato in qualche modo
rimosso" (Cons. Stato, sez. V, 09.07.2012, n. 3994; nello
stesso senso, cfr., fra le tante, Cons. di Stato, sez. IV,
nn. 4180/2016, 3688/2016, 1560/2016).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso
principale va dichiarato improcedibile e il ricorso per
motivi aggiunti inammissibile (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 11.05.2018 n. 1257
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Tar Piemonte: legittimo il bando che attribuisce
più punteggio a chi limita il subappalto.
Secondo l'Ance la sentenza dei giudici amministrativi
piemontesi è discutibile e lontana dall’approccio europeo
all’istituto del subappalto
L'Ance (Associazione dei costruttori edili) segnala la
sentenza 11.05.2018 n. 578 del TAR Piemonte -
Sez. I, che ha ritenuto legittima una clausola del bando che
attribuiva un punteggio aggiuntivo (max 10 punti) per i
concorrenti che intendessero avvalersi della facoltà di
subappaltare in quota inferiore al massimo legalmente
consentito.
Nello specifico, i giudici hanno ritenuto che, nonostante la
giurisprudenza UE affermi che non si potrebbero porre limiti
al subappalto, una stazione appaltante può offrire un
punteggio aggiuntivo a chi decida di limitarlo, ritenendolo
una modalità di esecuzione “strumento di sfruttamento
delle PMI” e da guardare con diffidenza”.
Tale decisione, tuttavia, ad avviso dell’Ance, oltre ad
essere lontana dall’approccio europeo all’istituto del
subappalto, appare discutibile.
Infatti, va ricordato che la recente Guida della Commissione
UE sugli errori più comuni commessi dalle stazioni
appaltanti nell’affidamento dei progetti finanziati dai
fondi strutturali e di investimento europei, annovera tra le
“cattive pratiche” proprio quella di utilizzare il
subappalto come criterio di aggiudicazione, allo scopo di
limitarne il ricorso. E cita proprio l’esempio di punteggi
più alti per gli offerenti che dichiarino di non ricorrere
al subappalto.
In questo contesto, va, peraltro, ricordato che, a seguito
dell’esposto presentato dall’Ance, ad aprile dello scorso
anno, la Commissione UE ha scritto al Governo Italiano
giudicando il tetto del 30% in contrasto con gli obiettivi
di concorrenza e apertura alle Pmi (commento tratto da
www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
16. Con il quarto ed ultimo motivo parte
ricorrente deduce che la clausola che valorizza il minor
ricorso al subappalto sarebbe discriminatoria e limitativa
della concorrenza in quanto di fatto impedirebbe a numerosi
operatori, che non sono in possesso dei requisiti oggetto di
gara o che comunque ritengono di non poter eseguire
direttamente tutto l’appalto, di partecipare alla gara.
16.1. La censura per quanto suggestiva è, ad avviso del
Collegio infondata, tenuto conto del fatto che qualunque
impresa avrebbe potuto concorrere in raggruppamento
temporaneo con altre imprese ovvero ricorrere all’avvalimento,
istituti, questi, che garantiscono entrambi la più ampia
partecipazione alla gara.
16.2. Il subappalto è un istituto che prima di tutto
consente all’appaltatore di delegare a terzi la esecuzione
di una parte dell’appalto e quindi, in sostanza, di non
doversi organizzare per eseguire direttamente tutto
l’appalto: è ben vero che esso può essere funzionale anche
alla dimostrazione dei requisiti e che in tal senso l’avvalimento
può avvenire anche mediante ricorso al subappalto; ma non si
può sottacere che la sua causa è, in origine, quella di
realizzare una parziale cessione del contratto d’appalto.
Nella materia degli appalti pubblici la disciplina del
subappalto differisce significativamente da quella dell’avvalimento
o del raggruppamento di imprese, in quanto non comporta
assunzione diretta di responsabilità del subappaltatore nei
confronti della stazione appaltante, a conferma del fatto
che esso realizza piuttosto una modalità di organizzazione
interna del lavoro, che normalmente ha anche un determinato
vantaggio per l’appaltatore.
16.3. Ciò premesso e ricordato non si può ragionevolmente
affermare che una clausola come quella in contestazione, che
indubbiamente scoraggia il ricorso al subappalto, sia idonea
a precludere la partecipazione alla gara delle imprese che
non posseggano tutti i requisiti o che non siano organizzate
in maniera tale da raggiungere l’intero territorio da
servire: che si tratti di comprovare il possesso dei
requisiti ovvero di implementare nel giro di poco tempo una
organizzazione più ampia, in ragione della estensione del
territorio da servire, ovvero della lontananza della impresa
dal luogo di esecuzione del contratto, il problema può
essere risolto da una piccola o media impresa mediante
ricorso all’avvalimento o al raggruppamento di imprese.
La
clausola non è dunque affatto di per sé preclusiva della
partecipazione alla gara.
16.4. Vero è, peraltro, che il subappalto presenta interesse
per gli operatori in quanto consente loro di partecipare ad
una gara e rendersi aggiudicatari senza dover “spartire” il
contratto ed i relativi compensi con le imprese che
collaborano, con le quali non deve neppure costituire
preventivamente una associazione ai fini della
partecipazione alla gara e poi della esecuzione del
contratto.
Il subappalto, dunque, rappresenta per gli
appaltatori uno strumento più agile della associazione o del
raggruppamento temporaneo di imprese, che al tempo stesso
consente di lucrare sulla parte del contratto affidata al
subappaltatore, al quale spesso l’aggiudicatario-appaltatore
riconosce un compenso inferiore a quello che la stazione
appaltante gli corrisponde per le medesime prestazioni.
16.5. La Corte di Giustizia della Unione Europea, nella
sentenza resa sul ricorso C-298/15, ha affermato che “è
interesse dell’Unione che l’apertura di un bando di gara
alla concorrenza sia la più ampia possibile, incluso per gli
appalti che non sono disciplinati dalla direttiva 2004/17” e
che “Il ricorso al subappalto, che può favorire l’accesso
delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici,
contribuisce al perseguimento di tale obiettivo.”.
Pertanto
le disposizioni che scoraggiano il ricorso al subappalto,
rendendo meno attraente la gara per gli operatori stranieri,
devono considerarsi, in linea di principio, restrittive
della libertà di stabilimento e della libertà di prestazione
dei servizi.
Tuttavia, prosegue la Corte, “una restrizione
siffatta può essere giustificata qualora essa persegua un
obiettivo legittimo di interesse pubblico e purché rispetti
il principio di proporzionalità, vale a dire, sia idonea a
garantire la realizzazione di tale obiettivo e non vada
oltre quanto è necessario a tal fine (v., in tal senso,
sentenze del 27.10.2005, Contse e a., C‑234/03,
EU:C:2005:644, punto 25, nonché del 23.12.2009, Serrantoni e Consorzio stabile edili, C‑376/08,
EU:C:2009:808, punto 44).”
16.5.1. Nel precedente in esame la Corte di Giustizia della
Unione Europea –con riferimento ad una norma che, in via
generalizzata, vietava il subappalto per l’esecuzione delle
opere “principali”- ha ancora rilevato che “tale
disposizione sarebbe stata adottata in particolare allo
scopo di ostacolare una pratica esistente che consiste, per
un offerente, nel far valere capacità professionali al solo
fine di aggiudicarsi l’appalto di cui trattasi, con
l’intento, non già di eseguire esso stesso i lavori, bensì
di affidarne la maggior parte o la quasi totalità a
subappaltatori, pratica che comprometteva la qualità degli
stessi lavori e la loro corretta realizzazione. Dall’altro
lato, nel limitare il ricorso al subappalto alle opere
qualificate come «non principali», l’articolo 24, paragrafo
5, della legge relativa agli appalti pubblici mirerebbe a
incoraggiare la partecipazione delle piccole e medie imprese
agli appalti pubblici in qualità di co-offerenti nell’ambito
di un gruppo di operatori economici anziché in quanto
subappaltatori. Per quanto riguarda, in primo luogo,
l’obiettivo attinente all’esecuzione corretta dei lavori,
esso dev’essere considerato legittimo”: nella specie,
tuttavia, la Corte ha ritenuto che la norma nazionale
sottoposta alla sua valutazione eccedesse “quanto necessario
al fine di raggiungere tale obiettivo, in quanto vieta in
modo generale un siffatto ricorso al subappalto per le opere
qualificate come «principali» dall’ente aggiudicatore”.
Quanto al fatto che la limitazione del ricorso al subappalto
potesse incoraggiare le piccole e medie imprese a concorrere
direttamente, la Corte ha affermato che non constava
evidenza della necessità, a detto fine, di escludere sempre
il subappalto per l’esecuzione delle opere principali.
16.6. Tanto premesso, il Collegio rileva che nel presente
giudizio viene in considerazione non già una norma nazionale
che vieta o scoraggia in modo generalizzato il subappalto,
trattandosi di previsione contenuta in un bando, che perciò
si limita a disciplinare solo una specifica gara.
Trattasi
inoltre di norma che non vieta il subappalto ma incoraggia a
ricorrervi il meno possibile, premiando con punteggio
aggiuntivo le offerte delle imprese che appaltano la minor
percentuale del servizio. Infine si tratta di previsione
chiaramente dettata dall’intento di evitare le complicazioni
che il subappalto ha creato nella prassi e di cui anche
l’Unione Europea ha dovuto prendere atto.
16.6.1. Sul punto si consideri che mentre la Direttiva
2004/17/CE dedicava al subappalto solo una breve norma,
l’art. 37, e solo per affermare la possibilità per gli Stati
membri di introdurre l’obbligo di dichiarare nella offerta
le parti dell’appalto oggetto di subappalto nonché il
nominativo del/i subappaltatore/i, nella Direttiva
2014/25/UE il subappalto è trattato nel lunghissimo
“considerando” n. 110 e nell’ancor più prolisso art. 88, che
contiene tutta una serie di previsioni volte, da una parte,
a garantire l’osservanza di determinati requisiti ed
obblighi da parte del subappaltatore, d’altra parte anche il
diritto di questo a ricevere direttamente dalla stazione
appaltante il compenso relativo alle prestazioni
subappaltate; l’art. 88 della Direttiva prefigura
espressamente anche la possibilità, per gli Stati, di
estendere al subappaltatore la responsabilità diretta per
l’esecuzione dell’appalto: il legislatore italiano,
tuttavia, sino ad ora non ha recepito tale indicazione,
forse per la ragione che proprio il fatto di non avere una
responsabilità diretta a 360°, nei confronti della stazione
appaltante, rende un operatore più disponibile a fungere da
subappaltatore.
16.7. Il più ampio spazio che il legislatore europeo ha
riservato alla disciplina del subappalto nelle più recenti
“direttive appalto”, rispetto alle direttive precedenti,
conferma che si tratta di istituto per natura foriero di
problematiche, verosimilmente per la ragione che nella
prassi è stato non di rado utilizzato come strumento di
sfruttamento delle piccole e medie imprese, con conseguente
decadimento della qualità delle prestazioni.
Non stupisce,
quindi, che una stazione appaltante possa guardarvi con
diffidenza. D’altro canto la valutazione della meritevolezza
dell’interesse perseguito da una previsione di bando, come
quella che qui viene in considerazione, e della
proporzionalità di tale previsione rispetto allo scopo
perseguito, non può prescindere dalla considerazione che,
per come oggi è disciplinato in Italia il subappalto, la sua
attrattività è legata, per i subappaltatori, alla mancanza
di una responsabilità diretta nei confronti della stazione
appaltante a fronte della possibilità di percepire
direttamente i compensi, e dal lato dei contraenti
principali al fatto di non volersi legare ad altri
operatori, cui rendere conto, mediante una associazione o un
raggruppamento temporaneo. Si vuol dire, cioè, che sono
proprio gli aspetti meno “commendevoli” del subappalto a
renderlo uno strumento “invitante”, e come tale idoneo ad
ampliare la platea dei partecipanti alle gare per
l’affidamento degli appalti pubblici.
16.8 Tenuto conto di tutto quanto sopra esposto
il Collegio
è dell’opinione che la clausola della lex specialis che
premia con un punteggio aggiuntivo l’offerta dell’operatore
che subappalta la minor quota dell’appalto non può ritenersi
discriminatoria né ingiustificatamente limitativa della
libertà di stabilimento e della libera concorrenza, avendo
essa lo scopo non di precludere bensì semplicemente di
scoraggiare il ricorso ad una modalità di esecuzione
dell’appalto, il subappalto, che per natura è idoneo a
creare problemi che si riflettono sulla corretta esecuzione
dell’appalto e sul rispetto di alcune norme a carattere
imperativo (rispetto degli obblighi previdenziali per i
dipendenti del subappaltatore; rispetto di norme a tutela
dell’ambiente).
16.9. Per tutte le dianzi esposte ragioni e tenuto conto del
fatto che questo Tribunale non è organo giurisdizionale di
ultima istanza e non ha l’obbligo di rinviare alla Corte di
Giustizia della Unione Europea le questioni che implichino
una preventiva interpretazione del diritto europeo, il
Collegio ritiene di dover disattendere anche il quarto dei
motivi di ricorso.
17. Conclusivamente il ricorso va respinto perché infondato
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 11.05.2018 n. 578 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’Adunanza plenaria rimette alla Corte di giustizia UE la
vexata quaestio del rapporto fra ricorso incidentale
escludente e ricorso principale in materia di gare d’appalto.
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Giustizia amministrativa – Appalti pubblici – Ricorso
incidentale escludente – Ricorso principale – Ordine di
esame – In presenza di pluralità di offerte non impugnate –
Deferimento alla Corte di giustizia UE
Va rimesso alla Corte di Giustizia
Ue il seguente quesito interpretativo: se l’articolo 1,
paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665/CEE
del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative relative
all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di
aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di
lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.12.2007, possa
essere interpretato nel senso che esso consente che allorché
alla gara abbiano partecipato più imprese e le stesse non
siano state evocate in giudizio (e comunque avverso le
offerte di talune di queste non sia stata proposta
impugnazione) sia rimessa al Giudice, in virtù
dell’autonomia processuale riconosciuta agli Stati membri,
la valutazione della concretezza dell’interesse dedotto con
il ricorso principale da parte del concorrente destinatario
di un ricorso incidentale escludente reputato fondato,
utilizzando gli strumenti processuali posti a disposizione
dell’ordinamento, e rendendo così armonica la tutela di
detta posizione soggettiva rispetto ai consolidati principi
nazionali in punto di domanda di parte (art. 112 c.p.c.),
prova dell’interesse affermato (art. 2697 cc), limiti
soggettivi del giudicato che si forma soltanto tra le parti
processuali e non può riguardare la posizione dei soggetti
estranei alla lite (art. 2909 cc). (1)
---------------
(1)
I. – Con la decisione in rassegna l’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di Giustizia UE il
quesito interpretativo di cui alla massima sollecitando un
chiarimento definitivo della Corte sulla questione del
rapporto fra ricorso incidentale escludente e ricorso
principale in materia di gare d’appalto, in presenza di una
pluralità di concorrenti non evocati in giudizio o le cui
offerte non sono state censurate.
Ne ha chiesto la
trattazione con rito accelerato, ai sensi degli articoli 23-bis dello Statuto della Corte e 105, paragrafo 1, del
relativo Regolamento di procedura tenuto conto che la
questione sottoposta al giudizio della Corte ha natura di
questione di principio, e trattasi di problematiche di
corrente applicazione.
II. – L’ordinanza di rimessione.
Con ordinanza 06.11.2017 n. 5103 (oggetto della
News del 10.11.2017 con ampi riferimenti di
giurisprudenza e di dottrina cui si rinvia) la quinta
sezione del Consiglio di Stato ha deferito all’Adunanza
plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a. il quesito se in un
giudizio di impugnazione degli atti di procedura di gara ad
evidenza pubblica, il giudice sia tenuto ad esaminare
congiuntamente il ricorso principale e il ricorso
incidentale escludente proposto dall’aggiudicatario, anche
se alla procedura abbiano preso parte altri concorrenti le
cui offerte non sono state oggetto di impugnazione e
verifichi che i vizi delle offerte prospettati come motivi
di ricorso siano propri delle sole offerte contestate.
La questione è sorta nell’ambito di un giudizio di appello
proposto avverso la sentenza di primo grado che, su ricorso
proposto dall’impresa terza classificata di una gara
d’appalto avverso l’ammissione alla procedura di gara tanto
dell’aggiudicataria quanto della seconda classifica,
accoglieva il ricorso incidentale escludente -esaminato
prioritariamente– e, in conseguenza, dichiarava improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse il
ricorso principale.
Con l’appello, l’impresa originaria ricorrente contestava la
violazione dei principi dettati dalla sentenza della Corte
di giustizia UE, Grande sezione, 05.04.2016, C-689/13, Puligienica (oggetto della
News US in data 07.04.2016 e in Foro it.,
2016, IV, 324, con nota di SIGISMONDI cui si rinvia per ogni
ulteriore approfondimento) in materia di esame del ricorso
principale e incidentale proposti all’interno del medesimo
giudizio di impugnazione degli atti di una procedura di
affidamento di appalto pubblico in quanto il giudice, anche
a ritenere fondato il ricorso incidentale, avrebbe dovuto
comunque esaminare anche il ricorso principale, sussistendo
un interesse, strumentale e mediato, alla declaratoria
dell’illegittimità della mancata esclusione
dell’aggiudicataria, in quanto una tale statuizione avrebbe
potuto portare l’amministrazione ad intervenire in
autotutela annullando la procedura e indicendo una nuova
gara.
L’ordinanza di rimessione prendeva le mosse
dall’affermazione dell’esistenza di un contrasto nella
giurisprudenza del Consiglio di Stato in relazione
all’attuazione della sentenza Puligienica.
Secondo un primo orientamento, il giudice che, esaminato
prioritariamente il ricorso incidentale, lo abbia ritenuto
fondato, è tenuto ad esaminare anche il ricorso principale
solo se dal suo accoglimento possa derivare un vantaggio in
capo al ricorrente principale. Tale vantaggio non potrà
consistere nella mera aggiudicazione del contratto in
quanto, avendo accolto il ricorso incidentale escludente, il
giudice ha già statuito sulla sua necessaria esclusione
dalla procedura ma dovrà necessariamente risolversi
nell’accoglimento di un mezzo che per suo contenuto
retroagisce fino a comportare la ripetizione della
procedura.
Secondo un diverso orientamento, la domanda, introdotta col
ricorso principale, di tutela dell’interesse legittimo al
corretto svolgimento della procedura di gara con esclusione
di tutte le offerte che, in quanto affette da vizi, non
potevano essere esaminate dalla stazione appaltante, merita
di essere esaminata anche se, per ipotesi, la stessa offerta
del ricorrente andava esclusa dalla procedura. In questa
prospettiva, il giudice non tiene conto del numero delle
imprese partecipanti (e del fatto che alcune siano rimaste
fuori dal giudizio) né dei vizi prospettati come motivi di
ricorso principale, poiché la domanda di tutela può essere
evasa soltanto con l’esame di tutti i motivi di ricorso,
principale come incidentale.
La soluzione del contrasto veniva reputata rilevante dalla
sezione rimettente in relazione alla fattispecie controversa
(gara d’appalto con tredici imprese partecipanti, con quelle
graduatesi successivamente al terzo posto che non avevano
proposto impugnativa e le cui offerte non erano state
oggetto di contestazione), caratterizzata dal fatto che le
ragioni di esclusione prospettate nei confronti
dell’aggiudicataria attenevano alla mancanza dei requisiti
richiesti dal disciplinare di gara, falsamente dichiarati,
nonché per mancata presentazione della documentazione a
corredo della fideiussione per la cauzione provvisoria in
capo alla società indicata in sede di offerta come
incaricata della progettazione, mentre le ragioni di
esclusione prospettate nei confronti della seconda graduata
erano attinenti alla mancanza dei requisiti di
qualificazione S.O.A. in capo alle imprese ausiliarie.
Secondo l’ordinanza in tal caso, stando al primo
orientamento, in presenza di altri concorrenti rimasti
estranei al giudizio, per stabilire se procedere all’esame
congiunto del ricorso principale e del ricorso incidentale,
si dovrebbe valutare se i vizi delle offerte prospettati
come motivi di ricorso possano, in via astratta, dirsi
comuni anche alle altre offerte rimaste estranee al
giudizio, di modo che possa configurarsi, in ipotesi, un
possibile intervento in autotutela dell’amministrazione
idoneo a fondare l’interesse c.d. strumentale del ricorrente
alla decisione del ricorso principale; stando invece al
secondo orientamento, pur in presenza di altri concorrenti
rimasti estranei al giudizio, si dovrebbe sempre e comunque
procedere all’esame di entrambi i ricorsi, spettando
all’amministrazione poi, all’esito del giudizio, valutare la
comunanza dei vizi alle restanti offerte e decidere, ove ciò
abbia accertato, di annullare l’intera procedura di
aggiudicazione, piuttosto che procedere all’aggiudicazione a
favore dell’impresa successivamente classificata.
Vi
sarebbe, dunque, pur sempre un interesse c.d. strumentale
del ricorrente alla decisione del ricorso principale, poiché
la valutazione dell’identità dei vizi verrebbe compiuta,
concluso il giudizio, dalla stazione appaltante.
III. – La decisione dell’Adunanza plenaria.
Con la pronuncia in rassegna l’Adunanza plenaria ritiene di
dover interpellare la Corte di giustizia UE sulle questioni
sottoposte alla sua attenzione, disponendo il rinvio
pregiudiziale obbligatorio per le seguenti ragioni:
a) rammenta che al fine di assicurare che ”le decisioni prese dalle
autorità aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso
efficace e, in particolare, quanto più rapido possibile”,
secondo quanto prescritto dall'articolo 1 della Direttiva
del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 66 dell’11.12.2007, il legislatore nazionale:
a1) ha previsto l’istituto della legittimazione
processuale straordinaria attribuita all’Anac con
riferimento all’impugnazione dei bandi di gara e degli altri
atti generali qualora ritenga che essi violino le norme in
materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture di cui all’art. 211 del d.lgs. 18.04.2016 n.
50;
a2) ha introdotto il nuovo rito c.d.
“superaccelerato” di cui ai commi 2 bis e 6 bis dell’art.
120 del c.p.a. (in relazione al quale si rinvia alla
News US in data 01.02.2018 avente ad oggetto
Tar per il Piemonte, sezione I, ordinanza 17.01.2018, n. 88 che ha demandato alla Corte di
giustizia dell’UE l’accertamento della compatibilità, con il
diritto dell’Unione, dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. che
impone la immediata impugnazione dei provvedimenti di
ammissione ed esclusione dalle gare di appalto) in forza
dell’art. 204, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 50/2016, la cui
ratio è consentire la pronta definizione del giudizio prima
che si giunga al provvedimento di aggiudicazione e, quindi,
a definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in un
momento antecedente all’esame delle offerte e alla
conseguente aggiudicazione;
b) evidenzia tuttavia che gli sforzi del legislatore nazionale per
adeguarsi alle prescrizioni dei competenti organismi europei
ed il dialogo costante della giurisdizione amministrativa
con la Corte di Giustizia non hanno del tutto eliso le
incertezze degli interpreti su alcune problematiche in
materia di pubblici incanti tra le quali annovera la
tematica dei rapporti intercorrenti tra il ricorso
principale ed il ricorso incidentale c.d. “escludente”;
c) ricostruisce, in particolare, l’evoluzione giurisprudenziale
nazionale e comunitaria in tema, a partire da Cons. Stato,
Ad. plen., 10.11.2008 n. 11 (in Foro it., 2009, III,
1, con nota di SIGISMONDI; Urbanistica e appalti, 2009, 41,
n. TARANTINO; Foro amm. - Cons. Stato, 2008, 2939, n.
CIMELLARO; Foro amm. - Cons. Stato, 2008, 3308 (m), n. TROPEA;
Dir. proc. amm., 2009, 146, n. SQUAZZONI, TROPEA; Giornale
dir. amm., 2009, 749 (m), n. IERA; Giurisdiz. amm., 2008, I,
1489; Riv. giur. edilizia, 2008, I, 1412, n. PELLEGRINO;
Arch. giur. oo. pp., 2008, 1081; Ammin. it., 2009, 880;
Giust. amm., 2008, fasc. 4, 300 (m), n. PELLEGRINO) sino a
Corte di giustizia UE, Sez. VII, 21.12.2016, C-355/15, GesmbH, rilevando che la giurisprudenza nazionale non è
concorde in ordine alle conseguenze da trarre dalle
precisazioni via via fornite dalla Corte di giustizia UE
circa l’interpretazione da fornire all’articolo 1, par. 3
della “Direttiva ricorsi”, secondo cui “gli Stati membri
provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso,
secondo modalità che gli Stati membri possono determinare, a
chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere
l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o
rischi di essere leso a causa di una presunta violazione” ed
in particolare, al riferimento “a chiunque abbia o abbia
avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione”, nelle ipotesi
in cui il concorrente sia stato o avrebbe dovuto essere
escluso dalla procedura, ed al riferimento a “un determinato
appalto”, laddove il concorrente (che sia stato o avrebbe
dovuto essere escluso) aspiri in sostanza a un’utilità
mediata rappresentata dall’annullamento (se del caso, in
autotutela) dell’intera procedura e alla sua riedizione;
d) quanto al rilievo attribuito dalle statuizioni della Corte di
giustizia al concetto di “interesse strumentale alla
ripetizione della procedura” –ferma restando la
eccezionalità della tutela di tale interesse in quanto
eccentrico rispetto alla struttura fondamentale del processo
di parte innervato dal principio dispositivo- così
sintetizza i principi condivisi:
d1) nessuno dubita che, nel caso in cui siano
rimasti in gara unicamente due concorrenti e gli stessi
propongano ricorsi reciprocamente escludenti, si imponga la
disamina di ambedue i mezzi di impugnazione dai medesimi
proposti, quali che siano i motivi di censura ivi contenuti;
d2) parimenti, nessuna perplessità sussiste circa
l’esattezza dell’affermazione secondo cui ad analoghe
conclusioni deve pervenirsi (anche in presenza di una
pluralità di contendenti rimasti in gara), ove il ricorso
principale contenga motivi che, se accolti, comporterebbero
il rinnovo della procedura in quanto:
• si censuri la regolarità
della posizione -non soltanto dell’aggiudicatario e di
tutti gli altri concorrenti rimasti in gara, collocati in
posizione migliore della propria ma, anche- dei rimanenti
concorrenti collocati in posizione deteriore;
• ovvero perché siano proposte
censure avverso la lex specialis idonee, ove ritenute
fondate, ad invalidare l’intera selezione evidenziale;
d3) in tali casi, si è raggiunta una piena
concordanza di opinioni circa l’obbligatorietà dell’esame
del ricorso principale, in quanto dall’accoglimento di
quest’ultimo discenderebbe con certezza la caducazione
integrale della gara e verrebbe così tutelato il subordinato
interesse strumentale alla riedizione della procedura;
e) rileva che sussiste incertezza, viceversa, nell’evenienza
(occorsa nel caso oggetto del giudizio) in cui, essendo
rimasti in gara una pluralità di contendenti:
e1) i ricorsi reciprocamente escludenti non
riguardino la posizione di talune delle ditte rimaste in
gara di guisa che, anche laddove entrambi i ricorsi
(principale ed incidentale) siano scrutinati, e dichiarati
fondati, rimarrebbero purtuttavia alcune offerte non
“attinte” dai vizi riscontrati;
e2) al contempo, il ricorso principale non
prospetti censure avverso la lex specialis tese ad
invalidare l’intera gara e determinanti –ove accolte - la
certa ripetizione della procedura;
f) ricostruisce sul punto i due orientamenti delineatisi nella
giurisprudenza nazionale, filoni interpretativi che muovono
entrambi dall’identico punto di partenza –e cioè che
dall’accoglimento del ricorso incidentale “escludente”
discende l’insussistenza dell’interesse diretto e immediato
del ricorrente principale riguardo all’aggiudicazione
perché, essendo stato accertato che lo stesso è stato
indebitamente ammesso alla gara, questi certamente non può
ottenere l’aggiudicazione- ma che divergono nelle
conclusioni:
f1) secondo una prima linea esegetica (Cons.
Stato, sez. V, 20.07.2017, n. 3593) la sentenza della
Grande Sezione 05.04.2016 in causa C-689/13- Puligienica
cit. imporrebbe, anche in simili evenienze, la disamina del
ricorso principale, pur dopo l’avvenuto accoglimento del
ricorso incidentale escludente, non dovendosi tenere conto
del numero delle imprese partecipanti (e del fatto che
alcune siano rimaste estranee al giudizio) né dei vizi
prospettati come motivi di ricorso principale poiché la
domanda di tutela può essere evasa soltanto con l’esame di
tutti i motivi di ricorso, principale e incidentale: nella
descritta situazione non costituirebbe evenienza necessaria
l’aggiudicazione del contratto all’impresa successivamente
classificata, perché la stazione appaltante potrebbe sempre
ritenere opportuno, dinanzi all’esclusione delle prime
classificate, riesaminare in autotutela gli atti di
ammissione delle altre imprese al fine di verificare se il
vizio accertato sia loro comune, di modo che non vi resti
spazio effettivo per aggiudicare a un’offerta regolare e si
addivenga alla ripetizione della procedura;
f2) secondo un altro approccio ermeneutico,
viceversa (Cons. Stato, sez. III, 26.08.2016, n. 3708),
nell’evenienza data, l’esame del ricorso principale si
imporrebbe soltanto laddove l’accoglimento dello stesso
produca come effetto conformativo, un vantaggio, anche
mediato e strumentale, per il ricorrente principale, tale
dovendosi intendere anche quello al successivo riesame, in
via di autotutela, delle offerte affette dal medesimo vizio
riscontrato con la sentenza di accoglimento: ma, nel caso di
più di due imprese partecipanti alla gara delle quali solo
due siano in giudizio, ciò potrebbe avvenire soltanto se
fosse rimasto accertato che anche le offerte delle restanti
imprese risultino affette dal medesimo vizio che aveva
giustificato la statuizione di esclusione dalla procedura
dell’offerente parte della controversia;
g) evidenzia le critiche mosse ad entrambi gli indirizzi e, in
particolare:
g1) quanto al primo:
• non terrebbe conto delle
“aperture” (contenute nella sentenza della Corte di
giustizia UE, Sez. VII, 21.12.2016, C-355/15, GesmbH,)
relative alla possibilità che l’offerente escluso dalla gara
con una pronuncia regiudicata non possa più contestare
l’esito della gara;
• non terrebbe in
considerazione la circostanza che l’autotutela della
stazione appaltante sulle altre offerte rimaste in gara, in
simili evenienze, non costituirebbe altro che una mera
eventualità ipotetica, rimessa a determinazioni rientranti
nella lata discrezionalità della stazione appaltante e che
l’interesse (seppure ipotetico) in tal senso prospettato non
potrebbe poi essere giustiziabile: in quanto “soggetto
definitivamente escluso” con una pronuncia regiudicata
sembra certo che il ricorrente principale non potrebbe
impugnare le successive determinazioni della stazione
appaltante che, scorrendo la graduatoria, implicitamente non
abbia dato corso all’annullamento e ripetizione dell’intera
gara;
• darebbe ingresso ad una
nozione di interesse scevra dai predicati di “certezza ed
attualità” (e pertanto distonica rispetto ai principi
generali del processo amministrativo costantemente affermati
dalla giurisprudenza; cita in proposito Cons. Stato, sez. V,
23.02.2015 n. 855 e Cass. civ., sez. un., 02.11.2007, n. 23031);
• ciò, in un sistema giuridico
che continua a considerare l’autotutela
dell’amministrazione, anche per ragioni di garanzia
dell’affidamento, meramente facoltativa e peraltro soggetta
ai limiti temporali stringenti di cui all’art. 21-nonies
della legge 07.08.1990, n. 241 e che ritiene tali principi
praticabili anche laddove l’atto amministrativo puntuale si
ritenga illegittimo per contrasto con il diritto
comunitario;
g2) quanto al secondo:
• sembrerebbe contrastare con
le affermazioni (in tesi incondizionate ed indifferenti al
numero delle imprese partecipanti alla procedura ed alla
tipologia ed identità dei vizi dedotti) contenute nella
sentenza della Corte di Giustizia UE 05.04.2016 in causa
C-689/13-Puligienica;
• per altro verso, non terrebbe
conto della circostanza che, anche laddove esaminando il
ricorso principale e quello incidentale si accertasse che
tutte le restanti offerte rimaste in gara (e riferibili ad
imprese non evocate in giudizio) presentavano vizi comuni a
quelli riscontrati sussistenti, ugualmente resterebbe
facoltativo, per l’Amministrazione, agire in autotutela
(invece che scorrere la graduatoria) e disporre la
ripetizione della gara; né -stante il principio contenuto
nell’art. 112 c.p.c. ed il disposto dell’art. 34, comma II,
del c.p.a.– il Giudice potrebbe dettare motu proprio una
indicazione conformativa in tal senso;
h) aggiunge, sul versante strettamente processuale, le seguenti
ulteriori criticità:
h1) seguendo l’impostazione della sentenza
“Puligienica” i principi della domanda (art. 112 c.p.c.) e
dell’onere della prova (art. 2697 c.c.) che “governano” il
processo amministrativo, imporrebbero pur sempre al
ricorrente principale di provare che i vizi ipotizzati con
il proprio ricorso siano comuni anche alle altre offerte
rimaste in gara e che, comunque, la ripetizione della
procedura sia una evenienza concretamente ipotizzabile;
h2) dovrebbe essere affidato al Giudice il vaglio
sulla concretezza dell’interesse alla riedizione della
procedura azionato con il ricorso principale, ricorrendo
agli istituti processuali del codice del processo
amministrativo per consentire in tali evenienze il
dispiegarsi del contraddittorio con le offerenti rimaste in
gara e non evocate in giudizio e, insieme, per rendere
effettiva e non ipotetica (in quanto rimessa alla
discrezionalità della stazione appaltante) l’evenienza della
ripetizione della gara ove le censure contenute nel ricorso
principale fossero reputate fondate e, soprattutto, fossero
comuni alle offerenti rimaste in gara e potenziali
beneficiarie dello scorrimento della graduatoria;
i) la Plenaria passa quindi ad illustrare le ragioni della
rilevanza rispetto al caso deciso della questione
interpretativa pregiudiziale prospettata precisando che:
i1) alla gara hanno partecipato più imprese e
numerose di esse (cinque), neppure evocate in giudizio, sono
collocate successivamente all’originario ricorrente
principale (che ebbe a posizionarsi al terzo posto);
i2) qualora all’obbligo di esaminare il ricorso
principale dovesse attribuirsi portata assoluta ed
incondizionata, anche nel caso in esame si dovrebbe comunque
procedere all’esame del ricorso principale; e ad analoghe
conclusioni dovrebbe pervenirsi laddove si affermasse che
sia sufficiente la semplice seppure ipotetica, possibilità
di un intervento in autotutela dell’amministrazione sulla
gara, per imporre l’esame del ricorso principale;
i3) se invece tale obbligo di esame del ricorso
principale andasse correlato ad una eventualità non
meramente ipotetica di un intervento in autotutela
dell’amministrazione che comporti la ripetizione della
intera gara, per stabilire se procedere all’esame congiunto
del ricorso principale e del ricorso incidentale si dovrebbe
valutare in concreto se i vizi delle offerte prospettati
come motivi di ricorso possano, in via astratta, dirsi
comuni anche alle altre offerte rimaste estranee al
giudizio, di modo che possa figurarsi, in ipotesi, un
possibile intervento in autotutela dell’amministrazione
idoneo a fondare l’interesse c.d. strumentale del ricorrente
alla decisione del ricorso principale; in mancanza assoluta
almeno di tale situazione strumentale non sembrerebbe
trovare utile e ragionevole applicazione una interpretazione
assoluta del diritto europeo sganciato da qualsivoglia
interesse;
j) in ottemperanza alle prescrizioni contenute ai punti 17 e 34
delle “Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali,
relative alla presentazione di domande di pronuncia
pregiudiziale” rappresenta il proprio punto di vista sulla
questione nei seguenti termini:
j1) ritiene maggiormente rispettoso di uno dei
valori essenziali dell’ordinamento processuale nazionale,
ovvero del principio dispositivo e dell’iniziativa delle
parti (per quest’aspetto comune a quello di numerosi altri
Stati-Membri), che venisse precisato che l’interesse del
ricorrente principale attinto da un ricorso incidentale
escludente, in quanto limitato alla reiterazione della
procedura di gara (con esclusione di profili concernenti la
“regolarità delle procedure di gara”), dovrebbe essere
valutato dal Giudice adìto nella sua concretezza, e non con
riferimento a ragioni astratte;
j2) in quest’ottica, ritiene opportuno che sia
rimesso agli ordinamenti processuali degli Stati Membri, in
ossequio all’autonomia processuale loro riconosciuta, il
compito di individuare le modalità di dimostrazione della
concretezza del detto interesse, garantendo il diritto di
difesa delle offerenti rimaste in gara e non evocate nel
processo ed in armonia con i principi in materia di
interesse concreto e attuale della parte al ricorso e in
punto di onere della prova;
j3) osserva che rimettere al Giudice nazionale
adito un margine di valutazione in ordine all’accertamento
della reale sussistenza in concreto di un interesse, sia
pure strumentale del ricorrente principale, appare
maggiormente coerente sia con il rispetto dei principi
cardine degli ordinamenti nazionali in materia processuale -e quindi con l’autonomia processuale loro costantemente
riconosciuta dalla Corte di giustizia- sia con gli assetti
delle giurisdizioni nazionali e della stessa Unione europea,
che configurano il ricorso al giudice amministrativo come
ricorso nell’interesse di una parte e mai come ricorso volto
al rispetto formale delle regole, a prescindere da ogni
interesse; salvi i casi contemplati anche dall’ordinamento
italiano, in cui il rispetto delle regole venga demandato ad
una autorità pubblica, riconoscendo alla stessa la
legittimazione a ricorrere dinanzi al giudice
amministrativo.
IV. – In ordine alla legittimazione al ricorso nel c.d. rito
appalti ed al rapporto fra ricorso incidentale e ricorso
principale, devono richiamarsi i seguenti precedenti resi in
fattispecie che, tuttavia, se pure non identiche, attengono
nella sostanza al (limite del) riconoscimento nel processo
amministrativo del c.d. interesse strumentale (sganciato
cioè, nel contenzioso sugli appalti, dal conseguimento
diretto del bene della vita rappresentato dalla
aggiudicazione del contratto):
k) Corte di giustizia dell’UE, Sez. VIII, 10.05.2017, C-
131/16, Archus (oggetto della
News US 19.05.2017), che, ritornando sulla
questione della legittimazione dell’impresa “non definitamente” esclusa da una gara di appalto con soli due
concorrenti ad impugnarne gli esiti, afferma che la
normativa europea deve essere interpretata in linea generale
nel senso che, in una situazione come quella di cui al
procedimento principale (una procedura di aggiudicazione di
un appalto pubblico caratterizzata dalla presentazione di
due offerte e dall’adozione, da parte dell’amministrazione
aggiudicatrice, di due decisioni in contemporanea recanti
rispettivamente rigetto dell’offerta di uno degli offerenti
e aggiudicazione dell’appalto all’altro), l’offerente
escluso, che ha presentato un ricorso avverso tali due
decisioni, deve poter chiedere l’esclusione dell’offerta
dell’aggiudicatario, in modo tale che la nozione di «un
determinato appalto», ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3,
della direttiva 92/13, come modificata dalla direttiva
2007/66, può, se del caso, riguardare l’eventuale avvio di
una nuova procedura di gara; tuttavia al contempo evidenzia
che a un offerente la cui offerta sia stata esclusa
dall’amministrazione aggiudicatrice da una procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico può tuttavia essere
negato l’accesso a un ricorso avverso la decisione di
aggiudicazione di un appalto pubblico qualora la decisione
di esclusione di tale offerente sia stata confermata da una
decisione che ha acquisito autorità di cosa giudicata prima
che il giudice investito del ricorso avverso la decisione di
aggiudicazione dell’appalto si pronunci, in modo tale che
detto offerente debba essere considerato definitivamente
escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto
pubblico in questione; a tale esito non potrebbe pervenirsi,
però, là dove le due decisioni di ammissione ed esclusione
fossero state adottate contemporaneamente;
l) Corte di giustizia UE, Sez. VII, 21.12.2016, C-355/15, GesmbH (oggetto della
News US in data 04.01.2017 cui si rinvia per
i relativi approfondimenti), secondo cui «L’articolo 1,
paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del
21.12.1989, checoordina le disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative relative all’applicazione
delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione
degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come
modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio, dell’11.12.2007, dev’essere
interpretato nel senso che esso non osta a che a un
offerente escluso da una procedura diaggiudicazione di un
appalto pubblico con una decisione dell’amministrazione
aggiudicatrice divenuta definitiva sia negato l’accesso ad
un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione
dell’appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del
contratto, allorché a presentare offerte siano stati
unicamente l’offerente escluso e l’aggiudicatario e detto
offerente sostenga che anche l’offerta dell’aggiudicatario
avrebbe dovuto essere esclusa»;
m) Corte cost., 22.11.2016 n. 245 (oggetto della
News US in data 19.01.2017 e in Foro it.,
2017, I, 75 ai cui approfondimenti si rinvia), secondo la
quale è inammissibile la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 9, comma 1, e 14, comma 1, della
legge della Regione Liguria 07.11.2013, n. 33 (Riforma
del sistema di trasporto pubblico regionale e locale),
promossa dal Tribunale amministrativo regionale per la
Liguria in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, primo e
secondo comma, lettere e) e s), della Costituzione; la
Consulta fonda il giudizio di inammissibilità condividendo i
principi affermati dal giudice amministrativo sulla carenza
di legittimazione a ricorrere delle imprese che impugnano
procedure di gara alle quali non hanno preso parte, negando
per tale via la tutela del c.d. interesse strumentale;
n) Tar per la Liguria, sez. II, ordinanza 29.03.2017, n. 263
(oggetto della
News US in data 04.04.2017 ai cui
approfondimenti si rinvia) che ha rimesso alla Corte di
giustizia dell’Unione Europea la seguente questione
pregiudiziale: «se gli artt. 1, parr. 1, 2 e 3, e l’art. 2,
par. 1, lett. b), della direttiva n. 89/665 CEE, avente ad
oggetto il coordinamento delle disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative relative all’applicazione
delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione
degli appalti pubblici di forniture e di lavori, ostino ad
una normativa nazionale che riconosca la possibilità di
impugnare gli atti di una procedura di gara ai soli
operatori economici che abbiano presentato domanda di
partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda
giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura,
derivando dalla disciplina della gara un’altissima
probabilità di non conseguire l’aggiudicazione».
V.- Prima della sentenza Puligienica, il complesso quadro delle
norme e dei principi che governano i rapporti fra ricorso
principale ed incidentale risultava essenzialmente delineato
dalle seguenti pronunce:
o) Corte giustizia UE, Sez. X, 04.07.2013, C-100/12, Fastweb, in
Foro it., 2014, IV, 3395 con nota di TRAVI, secondo cui
“qualora per mezzo di un ricorso incidentale
l'aggiudicatario di una procedura di assegnazione di un
appalto deduca che l'offerta del ricorrente principale
sarebbe stata da escludere dalla gara a causa del mancato
rispetto delle specifiche tecniche prescritte dalla stazione
appaltante, sì da rendere inammissibile l'impugnazione (a
sua volta incentrata sulla non conformità dell'offerta
dell'aggiudicatario alle medesime specifiche tecniche)
proposta dallo stesso, il diritto dei partecipanti a una
gara a una tutela giurisdizionale effettiva delle rispettive
ragioni esige che entrambe le domande siano esaminate nel
merito da parte del giudice investito della controversia”;
p) Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 9 -in Foro it.,
2014, III, 429, con nota di SIGISMONDI cui si rinvia per
ogni approfondimento, che, all’indomani della sentenza
Fastweb aveva raggiunto il punto di equilibrio (recepito
esplicitamente anche da Cass. civ., sez. un., 06.02.2015, n. 2242, in Foro it., 2016, I, 327) fra istanze
europee e caratteristiche ineludibili dell’ordinamento
processuale amministrativo– secondo cui, in estrema
sintesi, l’obbligo di esaminare sempre e comunque entrambi i
ricorsi (con il risultato certo di fare cadere l’intera
procedura di gara arrecando gravi danni all’economia
nazionale e incrementando gli esborsi a titolo di
risarcimento del danno), limitando l’obbligo dell’esame
congiunto, in puntuale applicazione degli argomenti
sviluppati dalla sentenza Fastweb, alle stringenti
condizioni che:
I) si versi all’interno del medesimo
procedimento;
II) gli operatori rimasti in gara siano solo
due;
III) il vizio che affligge le offerte sia identico per
entrambe (c.d. simmetria invalidante); questo costrutto è
stato poi rimesso in discussione dalla sentenza Puligienica
nella parte in cui ha stabilito (§§ 28–30), superando le
conclusioni cui era giunta la precedente decisione Fastweb (§§
31-33), che l’obbligo del giudice di esaminare entrambi i
ricorsi prescinde dal numero di imprese rimaste in gara e
dalla natura del vizio.
VI. - Circa la impossibilità di configurare la tutela del c.d.
interesse strumentale nell’attuale ordinamento del processo
amministrativo, caratterizzato dalla peculiare disciplina
delle condizioni delle azioni (in particolare interesse ad
agire e legittimazione), che mira alla realizzazione del
giusto processo ex art. 111 Cost., si veda:
q) Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 (specie §§ 5 ss., e
9.2. ss., in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI;
Riv. dir. proc., 2015, 1256, con nota di FANELLI; Giur. it.,
2015, 2192 con nota di FOLLIERI; Dir. proc. ammin., 2016,
205, con nota di PERFETTI e TROPEA, cui si rinvia per ogni
approfondimento di dottrina e giurisprudenza); sez. V, 22.01.2015, n. 272, in Foro it., 2015, III, 345 cui si
rinvia per ogni riferimento di dottrina e giurisprudenza;
tutte nel senso:
- di non consentire la tutela del c.d. interesse
strumentale perché in contrasto con le esigenze di evitare
l’abuso del processo ed il sindacato su poteri non ancora
esercitati dalla stazione appaltante;
- di considerare il processo quale risorsa scarsa
da attingere solo dopo essere stato superato il filtro delle
condizioni dell’azione in cui è insito un giudizio di
meritevolezza della pretesa;
- di esigere che il processo sia volto a tutelare
interessi concreti ed attuali e non futuri ed incerti, di
mero fatto quando non emulativi, per giunta rimessi ad una
incoercibile nuova determinazione dell’Amministrazione;
r) in dottrina: R. DE NICTOLIS, Codice del processo amministrativo
cit., 759 ss, 2056 ss., nega in radice che l’interesse
strumentale sia configurabile quale interesse legittimo;
s) la opposta tesi della configurabilità, anche in termini di veri
e propri diritti, di situazioni soggettive procedimentali,
come situazioni giuridiche autonome rispetto al contenuto
sostanziale del provvedimento finale, è stata sostenuta da
M. CLARICH, Termine del procedimento e potere
amministrativo, Torino, Giappichelli, 1995, F. FIGORILLI, Il
contraddittorio nel procedimento amministrativo, Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, A. PUBUSA, Diritti dei
cittadini e pubblica amministrazione, Torino, Giappichelli,
1996, A. ZITO, Le pretese partecipative del privato nel
procedimento amministrativo, Milano, Giuffrè, 1996, E.
FOLLIERI, Lo stato dell'arte della tutela risarcitoria degli
interessi legittimi. Possibili profili ricostruttivi, in
Dir. proc. amm., n. 2/1998, M. RENNA, Obblighi
procedimentali e responsabilità dell'amministrazione in,
Dir. amm. 2005, 3, 557;
t) questa tesi è stata respinta dall’indirizzo dominante nella
giurisprudenza del Consiglio di Stato che rifiuta la
possibilità di risarcire il danno ogni qual volta non sia
riconoscibile con certezza la spettanza del bene della vita
finale (sull’inquadramento generale v. Cons. Stato, Ad. plen.,
12.05.2017, n. 2, oggetto della
News US in data 16.05.2017 e in Foro it.,
2017, III, 433, con nota di TRAVI; Ad. plen. n. 5 del 2015
cit.; Ad. plen. n. 9 del 2014 cit., cui si rinvia per ogni
approfondimento); per questa via si escludeva il danno da
mero ritardo procedimentale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 02.10.2017, n. 4570; sez. V, 25.03.2016, n. 1239,
oggetto della
News US in data 31.03.2016 cui si rinvia per
ogni approfondimento, impostazione ora superata dalla
Plenaria n. 5 del 2018 oggetto della
News US in data 09.05.2018); dalla lesione di
un mero interesse di fatto o emulativo (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 13.04.2016, n. 1436; sez. V, 10.02.2015,
n. 675, in Riv. neldiritto, 2015, 1033, con nota di GALATI,
cui si rinvia per ogni approfondimento); da annullamento del
provvedimento amministrativo per ì vizi puramente formali
che consentono ovvero impongono il riesercizio del potere
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.07.2017, n. 3520; sez. IV,
04.07.2017, n. 3255); e si mantiene un atteggiamento
rigoroso, sotto il profilo causale e statistico, circa i
presupposti per il riconoscimento del danno da perdita di
chance specie per le gare di appalto (cfr. Cons. Stato, sez.
V, 25.02.2016, n. 762, in Foro it., 2016, III; 468,
con nota di CONDORELLI; sez. V, 30.06.2015, n. 3249,
id., 2015, III, 440, con nota di TRIMARCHI BANFI; sez. IV,
15.09.2014, n. 4674, id., 2015, III, 106, con nota di
GALLI; sul versante civile v. da ultimo Cass. civ., sez. I,
29.11.2016, n. 24295, id., I, 1374, con nota di DI
ROSA cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e
giurisprudenza);
u) tale indirizzo dovrà essere rimeditato alla luce del principio
di diritto reso dalla pronuncia della Adunanza Plenaria n. 5
del 2018 (oggetto della
News US in data 09.05.2018 cui si rinvia per
ogni approfondimento) con riferimento alla risarcibilità del
danno da «mero ritardo», anche se l’autonoma rilevanza,
anche economica, del “bene tempo”, se da un lato giustifica
l’apertura della Plenaria, dall’altro non rende necessaria,
dal punto di vista della coerenza sistematica, una
indiscriminata tutela di tutte le posizioni giuridiche
soggettive procedimentali, in via autonoma rispetto al bene
della vita finale, come confermato dalla quasi coeva
pronuncia della Plenaria n. 4 del 2018 (oggetto della
News US in data 10.05.2018 cui si rinvia per
ogni approfondimento) che, escludendo l’onere di tempestiva
impugnazione delle clausole del bando non immediatamente
lesive, ha negato l’autonoma tutelabilità di un diritto alla
legittimità della procedura di gara sganciato dalla
spettanza dell’utilità finale, in linea con l’orientamento
tradizionale;
VII. – In relazione al principio della c.d. “autonomia procedurale”
degli Stati membri, menzionato dalla pronuncia della
Plenaria in rassegna, si segnala quanto segue:
v) le tensioni latenti tra ordinamento nazionale e comunitario
nella disciplina delle condizioni dell’azione nella materia
dei contratti pubblici ripropone il tema della autonomia
degli stati nazionali nella disciplina degli istituti
processuali. A tal riguardo la giurisprudenza della Corte di
giustizia si è sviluppata secondo i seguenti passaggi
essenziali:
v1) Il concetto di autonomia procedurale degli
Stati membri viene fatto risalire alla pronunzia della Corte
di giustizia UE sentenza 16.12.1976, in causa 33/76, Rewe. Con questa pronunzia, che verteva specificamente su
una tematica di diritto processuale amministrativo, la Corte
di giustizia ha infatti espressamente statuito che “... in
mancanza di una specifica disciplina comunitaria, è
l’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro che
designa il giudice competente e stabilisce le modalità
procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire la
tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme
comunitarie aventi efficacia diretta”; l’autonomia
procedurale sussiste, dunque, solo e soltanto nella misura
in cui sussista la competenza procedurale degli Stati membri
e scompare, invece, nel momento in cui -come nel caso delle
direttive ricorsi in materia di appalti pubblici- la
competenza procedurale venga avocata a sé dall’Unione.
In
questo caso, venendo in rilievo lo strumento della
direttiva, all’idea di autonomia procedurale si sostituisce
quella di “competenza degli organi nazionali in merito alla
forma e ai mezzi”: dato che, ai sensi dell’art. 288, c. 3, TFUE (ex art. 249 c. 3 CE), “la direttiva vincola lo Stato
membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da
raggiungere, salva restando la competenza degli organi
nazionali in merito alla forma e ai mezzi”.
E se vi è
sicuramente un’affinità di fondo tra l’idea dell’autonomia
procedurale ed il meccanismo che sottende all’uso dello
strumento della direttiva, trattasi tuttavia di due scenari
affatto diversi (così GALETTA,
La giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di
autonomia procedurale degli stati membri dell’Unione europea
report annuale - 2011 – Italia, in
www.ius-publicum.com);
v2) l’autonomia procedurale degli Stati membri,
affermata a partire da Corte di giustizia UE, sentenza 04.04.1968, in causa C-34/67, Lück, viene intesa come
“scelta autonoma dei mezzi” finalizzati a sanzionare il
rispetto del diritto UE e trova un limite esterno
nell’esigenza di garantire l’effettività di tutte le norme
del diritto UE sostanziale, siano esse munite di efficacia
diretta o meno.
I limiti essenziali all’autonomia
procedurale degli Stati membri sono stati precisati nella
sentenza Rewe cit. e si traducono nel criterio
dell’equivalenza ed in quello dell’effettività nel senso che
le modalità procedurali stabilite dai giudici nazionali “non
possono essere meno favorevoli di quelle relative ad
analoghe azioni del sistema processuale nazionale” (criterio
dell’equivalenza) e che le modalità stabilite dalle norme
interne non devono rendere “in pratica, impossibile
l’esercizio di diritti che i giudici nazionali sono tenuti a
tutelare” (criterio dell’effettività);
v3) successivamente la Corte di giustizia arriva
a teorizzare un obbligo di interpretazione conforme delle
norme procedurali nazionali che ha la finalità specifica di
garantire effettività alle norme di diritto comunitario
sostanziale vigenti in materia (Corte di giustizia CE, 15.05.1986, C-222/84, Johnston; idem, 25.07.1991,
C-208/90, Emmott);
v4) con la sentenza Corte giustizia UE, 14.12.1995, in cause riunite C-430/93 e C-431/93, van
Schijndel, l’obbligo di interpretazione conforme si evolve
in un vero e proprio dovere del giudice nazionale di
“funzionalizzare” gli strumenti messi eventualmente a
disposizione dal diritto interno per perseguire l’obiettivo
primario di garantire l’effettività del diritto comunitario.
La funzionalizzazione non si risolve nella imposizione di
nuovi strumenti sconosciuti al diritto nazionale, bensì
semplicemente nella richiesta dell’utilizzazione di quelli
che già esistono, estendendone eventualmente l’ambito di
applicazione per ricomprendervi fattispecie comunitariamente
rilevanti in cui si ponga il problema di garantire, nel caso
concreto, l’effettività del diritto UE.
La funzionalizzazione si spinge sino al punto di chiedere al
giudice nazionale delle vere e proprie deroghe al diritto
processuale nazionale, come accaduto in modo emblematico per
il principio di intangibilità del giudicato (Corte giustizia
UE, sentenza 30.09.2003, C-224/01, Köbler; idem 18.07.2007, C-119/05, Lucchini, in Foro it., IV, 532, con
nota di SCODITTI; Rass. trib., 2007, 1579, con nota di
BIAVATI; Dir. e pratica società, 2007, fasc. 21, 54, con
nota di NICODEMO, BIANCHI; Guida al dir., 2007, fasc. 35,
106, con nota di MERONE; Lavoro giur., 2007, 1203, con nota
di MORRONE);
v5) la tesi della funzionalizzazione degli
istituti processuali nazionali è stata, ancora di recente,
applicata alla disciplina della decorrenza del termine di
impugnazione da Corte di giustizia UE, 08.09.2011 in
causa C-177/10, Rosado Santana in cui è stato chiesto al
giudice del rinvio di verificare se la disciplina interna
fosse tale da rendere impossibile o eccessivamente difficile
l’esercizio dei diritti attribuiti dalle fonti comunitarie e
ciò anche nella prospettiva della eventuale disapplicazione
della norma processuale interna che osti a rendere effettiva
la tutela del diritto di matrice comunitaria (Corte di
giustizia UE, sezione VI, 27.02.2003 in causa
C-327/00, Santex, in Foro it., 2003, IV, 474, con nota di
BARONE A., FERRARI E.; Urbanistica e appalti, 2003, 649, con
nota di GIOVANNELLI; Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2003,
888, con nota di LEONE, BARONE A., FERRARI E.);
v6) l’unico argine all’obbligo della
interpretazione conforme e alla teoria della
funzionalizzazione degli istituti processuali nazionali per
garantire l’effettività del diritto comunitario sostanziale
è rappresentata dalla nota «teoria dei contro limiti», la
cui applicazione è stata di recente prospettata in materia
penale nel noto caso «Taricco» (oggetto di approfondimento
nella
News US del 30.01.2018 cui si rinvia) in cui
la funzionalizzazione mediante disapplicazione della
disciplina nazionale sulla prescrizione in materia penale
avrebbe comportato una possibile violazione del principio
supremo di irretroattività della norma penale sfavorevole;
v7) in dottrina, nell’ambito di una vasta
letteratura, si segnalano: CONSOLO, L’ordinamento
comunitario quale fondamento per la tutela cautelare del
giudice nazionale (in via di disapplicazione di norme
legislative interne), in Dir. proc. amm., 1991, p. 255 ss.;
TESAURO, Tutela cautelare e diritto comunitario, in Riv. it.
dir. pubb. com., 1992, p. 125 ss.; MENGOZZI, L’applicazione
del diritto comunitario e l’evolversi della giurisprudenza
della Corte di giustizia nella direzione di una chiamata dei
giudici nazionali ad assicurare una efficace tutela dei
diritti da esso attribuiti ai cittadini degli stati membri,
in L. VANDELLI, C. BOTTARI, D. DONATI (a cura di), Diritto
amministrativo comunitario, Rimini, 1994, p. 29 ss.;
DANIELE, L'effettività della giustizia amministrativa
nell'applicazione del diritto comunitario europeo, in Riv.
it. dir. pubb. com., 1996, p. 1385 ss.; GRECO, L'effettività
della giustizia amministrativa italiana nel quadro del
diritto europeo, in Riv. it. dir. pubb. com., 1996/3-4, p.
797 ss.; MASUCCI, La lunga marcia della Corte di Lussemburgo
verso una tutela cautelare europea, in Riv. it. dir. pubb.
com. 1996, p. 1155 ss.; CHITI, L'effettività della tutela
giurisdizionale tra riforme nazionali e influenza del
diritto comunitario, in Dir. proc. amm., 1998, p. 499 ss.;
MORBIDELLI, La tutela giurisdizionale dei diritti
nell’ordinamento comunitario.
Quaderni della Rivista “Il
Diritto dell’Unione Europea”, Milano, 2001; MARI, La forza
di giudicato delle decisioni dei giudici nazionali di ultima
istanza nella giurisprudenza comunitaria, in Riv. it. dir.
pubb. com., 2004/3-4, p. 1007 ss.; MARCHETTI. Sul potere di
annullamento d’ufficio, la Corte ribadisce l’autonomia
procedurale degli Stati membri, ma si sbilancia un po’, in Riv. it. dir. pubb. com., 2006/6, p. 113 ss.; CONSOLO, La
sentenza Lucchini della Corte di giustizia: quale possibile
adattamento degli ordinamenti processuali interni e in
specie del nostro?, in Riv. dir. proc., 2008, p. 224 ss.;
GALETTA, L’autonomia procedurale degli Stati membri
dell’Unione europea: Paradise Lost?, Giappichelli, Torino,
2009 (Consiglio di
Stato, A.P.,
ordinanza 11.05.2018 n. 6 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Trasporto non autorizzato di rifiuti
pericolosi e non pericolosi - Attività di rigattiere -
Incompatibilità con un trasporto occasionale di rifiuti -
LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE - Confisca del mezzo di trasporto
e legittimazione (e dell'interesse) a ricorrere avverso
confisca - Reato di cui all'art. 256, c. 1, lett. a) e b),
d.lgs. n. 152/2006.
Chi esercita l’attività di rigattiere non può eccepire l'occasionalità
del trasporto di rifiuti, in quanto tale mestiere contrasta
sul piano logico con tale occupazione e non basta ad
escludere la penale irrilevanza del trasporto di rifiuti
pericolosi non oggetto dell'attività di commercio
autorizzata.
Inoltre, la mancanza della proprietà del mezzo priva della
legittimazione (e dell'interesse) a ricorrere avverso la sua
confisca (Corte di Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza 10.05.2018 n. 20655 - link a
www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Istanza
volta ad ottenere un provvedimento in via di autotutela.
Non è ravvisabile alcun obbligo per
l'Amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta ad
ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo
coercibile ab extra l'attivazione del procedimento di
riesame della legittimità di atti amministrativi mediante
l'istituto del silenzio-rifiuto, costituendo l'esercizio del
potere di autotutela facoltà ampiamente discrezionale
dell'Amministrazione che non ha alcun dovere giuridico di
esercitarla.
Conseguentemente la P.A. non ha alcun obbligo di provvedere
su istanze che sollecitino l'esercizio del potere di
autotutela e sulle stesse non si forma il silenzio e la
relativa azione, volta a dichiararne l'illegittimità, è da
ritenersi inammissibile
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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3. Nel merito il ricorso è infondato.
Dall’esame degli atti risulta la nota comunale 30.06.2017 la
quale contiene tale affermazione: <<Si fa presente infine
che, vista la rilevata illegittimità "della struttura
sanitaria su area inserita —dalla zonizzazione acustica
vigente approvata con deliberazione C.C. n. 44 del
28/06/2007 — in classe II, III e IV, la scrivente
Amministrazione comunica la non conformità del Piano
Urbanistico Attuativo ATU 7>>.
Risulta chiaro quindi che, sebbene l’affermazione sia
inserita in un atto in cui sotto altri profili
l’amministrazione ritiene non conclusa l’istruttoria, è
chiaro che l’atto è immediatamente lesivo e da intendersi
nel senso che il procedimento potrà proseguire solo a
condizione che gli aspetti ritenuti non conformi alla
normativa siano eliminati.
Poiché non risulta che la società abbia impugnato tale atto
e neppure che abbia modificato il progetto con riferimento a
profili ritenuti ictu oculi illegittimi
dall’amministrazione, la domanda di conclusione del
procedimento è infondata in quanto sostanzialmente volta ad
ottenere un atto che, effettuando un riesame della
situazione che aveva condotto al precedente provvedimento,
sarebbe di autotutela, sia nel caso sfoci in un atto di
ritiro sia nel caso in cui sfoci in un atto confermativo.
In merito la giurisprudenza ha chiarito che “non è
ravvisabile alcun obbligo per l'Amministrazione di
pronunciarsi su un'istanza volta ad ottenere un
provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile
ab extra l'attivazione del procedimento di riesame della
legittimità di atti amministrativi mediante l'istituto del
silenzio-rifiuto, costituendo l'esercizio del potere di
autotutela facoltà ampiamente discrezionale
dell'Amministrazione, che non ha alcun dovere giuridico di
esercitarla, con la conseguenza che essa non ha alcun
obbligo di provvedere su istanze che ne sollecitino
l'esercizio; per cui sulle stesse non si forma il silenzio e
la relativa azione, volta a dichiararne l'illegittimità, è
da ritenersi inammissibile” (TAR Lazio, Sez. I-ter,
18.07.2016, n. 9563; TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza
28.07.2017 n. 1329).
Nel caso in questione, poiché la nota comunale 30.06.2017
conclude il procedimento solo con riferimento ad alcuni
profili del progetto, deve ritenersi più corretta la
reiezione nel merito del medesimo (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 10.05.2018 n. 1251
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di un'istanza ex art. 36 DPR n.
380/2001 non renda inefficace il provvedimento sanzionatorio
pregresso e, quindi, non determina l'improcedibilità, per
sopravvenuta carenza di interesse, dell'impugnazione
proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma comporta
eventualmente solo un arresto temporaneo dell'efficacia
della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel
caso di rigetto, esplicito o implicito, della domanda di
sanatoria.
---------------
Con il secondo motivo si deduce
l’inefficacia/illegittimità dell’ordinanza in ragione della
presentazione di un’istanza di accertamento di conformità ex
art. 36/37 DPR 380/2001, successivamente all’adozione del
provvedimento impugnato (prot. 11839 del 01.04.2011).
Il motivo è infondato.
Il Collegio ritiene (cfr. quale precedente conforme Cons.
Stato n. 1565/2017, Tar Napoli n. 3501/2017) che la
presentazione di un'istanza ex art. 36 DPR n. 380/2001 non
renda inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e,
quindi, non determini l'improcedibilità, per sopravvenuta
carenza di interesse, dell'impugnazione proposta avverso
l'ordinanza di demolizione, ma comporti eventualmente solo
un arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva
che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto,
esplicito o implicito, della domanda di sanatoria (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 09.05.2018 n. 3087 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Per orientamento pacifico,
la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile solo ad
opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera
principale, ma non anche ad opere che, dal punto di vista
delle dimensioni e della funzione, si connotino per una
propria autonomia rispetto all'opera c.d. principale e non
siano coessenziali alla stessa, tale cioè che non ne risulti
possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
Pertanto, una tettoia o una veranda che occupino, come nel
caso di specie, una superficie di dimensioni indubbiamente
rilevanti non possono ritenersi pertinenza urbanistica, in
quanto possiedono una propria individualità fisica e
determinano un'alterazione significativa dell'assetto del
territorio.
---------------
Né può essere condivisa la tesi secondo cui tali opere
avrebbero natura precaria ed amovibile; infatti, la
precarietà o meno di un'opera edilizia va valutata con
riferimento non alle modalità costruttive, bensì alla
funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non
sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente
temporanee quelli destinate ad una utilizzazione perdurante
nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può
essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
---------------
Con il quarto motivo si indica la natura
pertinenziale e accessoria delle opere, natura che non
giustificherebbe l’ordine di ripristino impartito, stante “l’irrilevanza
urbanistica e ambientale” delle stesse.
La censura deve essere disattesa.
Per orientamento pacifico (cfr. da ultimo questa Sezione
sentenza n. 5564/2017, in termini) la qualifica di
pertinenza urbanistica è applicabile solo ad opere di
modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale,
ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle
dimensioni e della funzione, si connotino per una propria
autonomia rispetto all'opera c.d. principale e non siano
coessenziali alla stessa, tale cioè che non ne risulti
possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
Pertanto, una tettoia o una veranda che occupino, come nel
caso di specie, una superficie di dimensioni indubbiamente
rilevanti non possono ritenersi pertinenza urbanistica, in
quanto possiedono una propria individualità fisica e
determinano un'alterazione significativa dell'assetto del
territorio.
Né può essere condivisa la tesi secondo cui tali opere
avrebbero natura precaria ed amovibile; infatti, la
precarietà o meno di un'opera edilizia va valutata con
riferimento non alle modalità costruttive, bensì alla
funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non
sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente
temporanee quelli destinate ad una utilizzazione perdurante
nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può
essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (cfr.
Tar Napoli n. 3027/2017).
Ne consegue la legittimità dell'ordinanza di ripristino
relativamente alle opere suddette, destinate allo stabile
insediamento nel territorio e con perdurante trasformazione
dell'assetto dei luoghi.
In conclusione il ricorso viene rigettato (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 09.05.2018 n. 3087 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
T. Rossi, Analisi dei profili di responsabilità penale e
amministrativa per l'abbandono di rifiuti.
---------------
E' illegittimo l’ordine di rimozione di
rifiuti abbandonati a carico del proprietario incolpevole
dell’abbandono.
A norma dell’art. 192, co. 3, d.lgs. 152/2006 alla rimozione
dei rifiuti è tenuto il responsabile dell’abbandono o del
deposito dei rifiuti e, solidalmente, il proprietario o chi
abbia a qualunque titolo la disponibilità soltanto laddove
ad essi sia imputabile l’abbandono dei rifiuti a titolo di
dolo o colpa.
Il Consiglio di Stato, dunque, ribadisce come non è
altrimenti configurabile una responsabilità oggettiva a
carico del proprietario o di coloro che a qualunque titolo
abbiano la disponibilità dell’area interessata
dall’abbandono dei rifiuti. Tali principi restano validi
anche quando sia il Comune a procedere per la rimozione con
lo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente di cui
all’art. 50 del d.lgs. n. 267/2000, atteso che
l’imputabilità sotto il profilo soggettivo dell’inquinamento
non può modificarsi a seconda dello strumento amministrativo
con il quale si agisce.
Ricordando che, le ordinanze contingibili e urgenti sono
adottate dal sindaco in caso di emergenze sanitarie o di
igiene pubblica a carattere esclusivamente locale o -come
nel caso in specie- in relazione all’urgente necessità di
interventi volti a superare situazioni di grave incuria o
degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio
culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità
urbana.
Pertanto, secondo il dictum del Consiglio di Stato è
censurabile l’operato dell’Amministrazione, e la relativa
ordinanza va annullata, ogni qualvolta essa ometta di
dedurre, profili di responsabilità a titolo di dolo o colpa
in capo al soggetto sanzionato, essendo essi necessari per
imporre l’obbligo di rimozione dei rifiuti.
Partendo da questo spunto giurisprudenziale, proviamo ora ad
analizzare più in dettaglio scenari e profili di
responsabilità in caso di abbandono di rifiuti.
- L’art. 255 d.lgs. 152/2006 disciplina il reato di abbandono e il
deposito incontrollato di rifiuti, che sanziona chiunque
abbandona o deposita rifiuti nel suolo e sul suolo, ovvero
li immetta nelle acque superficiali o sotterranee con la
sanzione amministrativa pecuniaria da 300 € a 3.000 €,
aumentata fino al doppio se la condotta riguarda rifiuti
pericolosi. Il comma 3 prevede che chiunque non ottemperi
l’ordinanza del Sindaco che ordina la rimozione dei rifiuti,
il recupero o lo smaltimento degli stessi e il ripristino
dello stato dei luoghi, è punito con la pena dell’arresto
fino ad un anno e il beneficio della sospensione
condizionale della pena può essere subordinato
all’esecuzione di quanto disposto nell’ordinanza sindacale.
La condotta attribuibile dunque al privato che pone in
essere le attività di abbandono è quella prevista dall’art.
255 d.lgs. 152/2006 (“Abbandono di rifiuti”) punita
unicamente con sanzione amministrativa.
- L’art. 256 d.lgs. 152/2006, invece, sanziona anche penalmente la
condotta di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti,
che sia stata posta in essere all’interno di una attività
professionale, e in ogni caso sia con una condotta
organizzata, non episodica e non esclusivamente di tipo
dismissivo.
La pena è dell’arresto da 3 mesi a un anno e l’ammenda da
2.600 a 26.000 € se si tratta di rifiuti non pericoloso; e
dell’arresto da 6 mesi a 2 anni e con l’ammenda da 2.600 a
26.000 € se si tratta di rifiuti pericolosi e con l’ammenda
di € 26.000,00 (spesso irrogata con verbale in misura
ridotta parti ad un quarto del massimo, € 6.500,00 così come
indicato nel verbale di prescrizioni).
Alla stessa pena soggiace chiunque effettua una attività di
raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio e
intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta
autorizzazione.
- Il comma 3 dell’art. 256 prevede il reato di discarica abusiva (“non
autorizzata”), sanzionando con la pena dell’arresto da 6
mesi a 2 anni e con l’ammenda da 2.600 a 26.000 euro
chiunque realizza o gestisce una discarica non autorizzata;
e con la pena dell'arresto da 1 a 3 anni e dell’ammenda da
5.200 a 52.000 € se la discarica è destinata allo
smaltimento di rifiuti pericolosi (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 09.05.2018 n. 2786
- tratto da e link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Circa la particolare ampiezza delle facoltà
discrezionali che competono all’ente comunale in sede di
elaborazione della disciplina urbanistica, il Collegio deve
innanzi tutto ribadire principi già espressi dalla
giurisprudenza di questa Sezione, in relazione all’esercizio
del potere di pianificazione urbanistica ed alla natura
della motivazione delle scelte in tal modo effettuate, nel
senso che segue:
- le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito
sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo
che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi
illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto
riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino
confliggenti con particolari situazioni che abbiano
ingenerato affidamenti e aspettative qualificate;
- il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo
all’interesse all'ordinato sviluppo edilizio del territorio
in considerazione delle diverse tipologie di edificazione
distinte per finalità e zone (civile abitazione, uffici
pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma è
rivolto anche alla realizzazione contemperata di una
pluralità di differenti interessi pubblici, che trovano il
proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti;
- l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di
adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui
esso incida su zone territorialmente circoscritte ledendo
legittime aspettative, è di carattere generale e risulta
soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei
criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità
di una motivazione puntuale e “mirata”;
- le scelte contenute negli strumenti di pianificazione urbanistica
possono contemplare il sovradimensionamento degli standard,
fatto salvo l’obbligo di una motivazione rafforzata che
illustri le ragioni per le quali si è deciso di prevedere
una dotazione di standard superiore a quella minima fissata
dalla legge sebbene non si richieda nemmeno in tal caso una
motivazione puntuale che riguardi le singole aree;
- la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica
attraverso il ridimensionamento dell’attitudine edificatoria
di un’area è interdetta solo da determinazioni vincolanti
per l’amministrazione in ordine ad una diversa
“zonizzazione” dell’area stessa, ovvero tali da fondare
legittime aspettative potendosi configurare un affidamento
qualificato del privato esclusivamente in presenza di
convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree,
aspettative nascenti da giudicati di annullamento di
dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su
una domanda di concessione o ancora nella modificazione in
zona agricola della destinazione di un'area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
---------------
8. L’appello merita accoglimento.
8.1. Come esposto in narrativa, l’oggetto del presente
giudizio attiene alla scelta pianificatoria del Comune di
Cassolnovo consistente nell’imprimere definitivamente
all’area di proprietà della ricorrente una destinazione
agricola, in luogo della destinazione residenziale stabilita
dal previgente PRG e della destinazione “residenziale di
saturazione” inizialmente ipotizzata nel corso della
elaborazione del nuovo PGT.
In particolare le deduzioni sollevate con il ricorso
instaurativo della lite involgono le stesse ragioni fattuali
poste a fondamento della divisata scelta urbanistica,
segnatamente correlate alla prossimità del compendio di
proprietà della signora Riva ad una realtà produttiva fonte
di possibili fenomeni di inquinamento acustico e alla
presenza di un elettrodotto in grado di produrre
inquinamento elettromagnetico.
8.2. La disamina dell’appello in esame non può prescindere
dalla considerazione relativa alla particolare ampiezza
delle facoltà discrezionali che competono all’ente comunale
in sede di elaborazione della disciplina urbanistica.
Il Collegio deve innanzi tutto ribadire, nella presente
sede, principi già espressi dalla giurisprudenza di questa
Sezione (e anche di recente confermati: v., tra le altre,
Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2016 n. 2221; 03.11.2016, n.
4599), in relazione all’esercizio del potere di
pianificazione urbanistica ed alla natura della motivazione
delle scelte in tal modo effettuate, nel senso che segue:
- le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito
sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo
che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi
illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto
riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino
confliggenti con particolari situazioni che abbiano
ingenerato affidamenti e aspettative qualificate (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 18.08.2017, n. 4037; sez. VI, 05.03.2013, n.
1323; sez. IV, 25.11.2013, n. 5589; sez. IV, 16.04.2014, n.
1871);
- il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo
all’interesse all'ordinato sviluppo edilizio del territorio
in considerazione delle diverse tipologie di edificazione
distinte per finalità e zone (civile abitazione, uffici
pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma è
rivolto anche alla realizzazione contemperata di una
pluralità di differenti interessi pubblici, che trovano il
proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti
(Cons. Stato, sez. IV, 22.02.2017, n. 821);
- l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di
adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui
esso incida su zone territorialmente circoscritte ledendo
legittime aspettative, è di carattere generale e risulta
soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei
criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità
di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato,
sez. IV, 03.11.2008, n. 5478);
- le scelte contenute negli strumenti di pianificazione urbanistica
possono contemplare il sovradimensionamento degli standard
(Cons. Stato Sez. IV, 31.05.2011, n. 3315), fatto salvo
l’obbligo di una motivazione rafforzata che illustri le
ragioni per le quali si è deciso di prevedere una dotazione
di standard superiore a quella minima fissata dalla legge
sebbene non si richieda nemmeno in tal caso una motivazione
puntuale che riguardi le singole aree;
- la semplice reformatio in peius della disciplina
urbanistica attraverso il ridimensionamento dell’attitudine
edificatoria di un’area è interdetta solo da determinazioni
vincolanti per l’amministrazione in ordine ad una diversa “zonizzazione”
dell’area stessa, ovvero tali da fondare legittime
aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato
del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di dinieghi di concessione
edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione
o ancora nella modificazione in zona agricola della
destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi
edificati in modo non abusivo (cfr. ex plurimis sez.
IV, 04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; Ad.
plen. n. 24 del 1999).
8.3. Calati tali principi nella presente controversia,
occorre rilevare che:
- sono inammissibili tutte le censure poste a sostegno del ricorso
di primo grado nella parte in cui impingono nel merito delle
scelte pianificatorie del Comune;
- dalla documentazione versata in atti non emerge la prova di
alcuna disparità di trattamento;
- non ricorre alcuna delle circostanze in grado di consolidare
l’affidamento del privato circa la conferma della
destinazione edificatoria dell’area, avendo peraltro il
Comune appellante evidenziato che il fondo della signora
Riva non è intercluso tra aree legittimamente edificate,
tant’è che la nuova destinazione agricola impressa dal piano
interessa anche le aree circostanti al lotto di proprietà
della predetta;
- proprio perché la scelta urbanistica contestata dall’appellata
non involge soltanto il lotto di proprietà dell’appellata
bensì tre ambiti territoriali (ATU 3, 4 e 5), essa riflette
una strategia di fondo che ispira la pianificazione intesa
al “contenimento del consumo di suolo libero” (cfr.
parere VAS del 16.11.2012, pagina 4) alla luce del trend di
crescita della popolazione;
- sia l’ASL Pavia (parere VAS cit., pagina 10) che l’ARPA Lombardia
(nota prot. n. 7996 del 31.08.2012, pagina 5) hanno espresso
pareri convergenti nell’escludere la destinazione
edificatoria dell’area in questione; tali apporti tecnici
sono confluiti nel procedimento VAS avente carattere cogente
ai fini dell’elaborazione della pianificazione di matrice
comunale (Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2017, n. 4471);
- il segnalato rischio di inquinamento acustico derivante dallo
stabilimento della ditta Ma.Fe. s.r.l. non è contraddetto
dall’adozione dell’ordinanza sindacale n. 30 del 2013 nei
riguardi della stessa, ai fini dell’adozione di “opere di
bonifica acustica”, essendo detto provvedimento rimasto
inottemperato con conseguente mancata adozione di misure
idonee a provocare l’abbattimento dell’emissioni prodotte;
- la classificazione dell’area, secondo il Piano di zonizzazione
acustica del Comune di Cassolnovo, peraltro intervenuto
successivamente allo strumento pianificatorio oggetto di
gravame, non risulta incompatibile con la destinazione
agricola;
- dai rilievi eseguiti dall’ARPA nel 2015-2016, le cui risultanze
sono state valorizzate dal Tribunale, emerge il superamento
dei limiti di immissione da parte dell’anzidetto impianto
produttivo di Via ... n. 178/A in due giorni lavorativi (13
e 16.01.2016), come da relazione del 05.09.2016.
9. L’appello deve essere quindi accolto, con conseguente
riforma dell’impugnata sentenza (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.05.2018 n. 2780 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se è vero che la mancata impugnazione del diniego
di concessione edilizia in sanatoria comporta la decadenza
dalla possibilità di rimettere in discussione l’ordine di
demolizione, costituente atto consequenziale rispetto al
provvedimento presupposto (il diniego di sanatoria), tale
conclusione non vale, però, ove il ricorrente deduca vizi
propri ed autonomi dell’ordinanza di demolizione.
---------------
In via pregiudiziale il Collegio deve analizzare l’eccezione
di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa
comunale, attesa la sua idoneità, qualora accolta, a
precludere in tutto o in parte l’esame del merito del
gravame.
In particolare, il Comune di Gambugliano ha eccepito che la
mancata impugnazione, ad opera della C.F. S.r.l., del
provvedimento comunale prot. n. 240 del 25.01.2000, recante
rigetto della domanda di sanatoria presentata dalla citata
società in relazione al manufatto per cui è causa (cabina di
trasformazione dell’energia elettrica), determinerebbe
l’inammissibilità del gravame o, almeno, del terzo motivo
con esso dedotto: ciò, giacché l’ordine di demolizione
dell’opera abusiva costituirebbe atto consequenziale, dovuto
e vincolato, rispetto al diniego di sanatoria della stessa
opera, rimasto inoppugnato.
In contrario, tuttavia, occorre sottolineare che, se è vero
che la mancata impugnazione del diniego di concessione
edilizia in sanatoria comporta la decadenza dalla
possibilità di rimettere in discussione l’ordine di
demolizione, costituente atto consequenziale rispetto al
provvedimento presupposto (il diniego di sanatoria), tale
conclusione non vale, però, ove il ricorrente deduca vizi
propri ed autonomi dell’ordinanza di demolizione (cfr.,
ex multis, TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 12.02.2016, n.
460; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 05.11.2014, n. 1162;
TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 12.06.2014, n. 3262).
Ebbene, ad avviso del Collegio, nel caso de quo la
C.F. S.r.l. ha dedotto censure che –in disparte la loro
fondatezza– hanno ad oggetto vizi propri dell’ordinanza di
demolizione e, più precisamente, la scelta ad opera del
Comune, nell’esercizio del potere sanzionatorio degli abusi
edilizi, di irrogare la sanzione demolitoria, anziché quella
pecuniaria: detta scelta, infatti, non può farsi discendere
dal provvedimento di diniego della concessione in sanatoria
–espressione del distinto potere di sanare le opere
abusive–, ma, costituendo esercizio del potere di sanzionare
l’esecuzione di interventi edilizi in difetto del prescritto
titolo abilitativo, è riconducibile in via esclusiva
all’ordinanza di demolizione impugnata.
Di qui l’infondatezza della suesposta eccezione di
inammissibilità
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 09.05.2018 n. 503 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Una
cabina elettrica,
quale vano
tecnologico, non va computata non solo ai fini del volume,
ma neppure ai fini della distanza.
Vero è che la cabina di trasformazione dell’energia, avendo
un’altezza di ml. 2,81, non rientra nella previsione
derogatoria di cui all’art. 15, punto 5, lett. d), delle
N.T.A. del P.R.G., per la quale, ai fini delle distanze dai
confini, non vengono considerate le costruzioni accessorie
di altezza non superiore a ml. 2,50.
Nondimeno, il predetto manufatto, secondo il Collegio, ha
natura di volume tecnico, e cioè di opera priva di autonomia
funzionale, anche potenziale, che è destinata a contenere
gli impianti serventi di una costruzione principale per
esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima e che
non può essere collocata all’interno della costruzione
principale: come volume tecnico, perciò, la cabina non
costituisce “costruzione” ai sensi dell’art. 873 c.c., con
il corollario che la stessa non avrebbe dovuto essere
considerata ai fini del computo delle distanze.
---------------
Ciò premesso, nel caso di specie
non par dubbio che il manufatto realizzato dalla C.F. S.r.l.
–una cabina per la trasformazione dell’energia elettrica al
servizio del capannone industriale esistente sul fondo di
sua proprietà e locato ad altra ditta che vi esercita
attività produttiva– rientri nella nozione di “impianto
tecnologico per l’edificio già esistente” (capannone).
D’altro lato, non vi è alcuna prova in atti che il suddetto
impianto, che, secondo le stesse affermazioni della difesa
comunale, ha una superficie di circa mq. 18 e una volumetria
di circa mc. 50, abbia una cubatura superiore a un terzo di
quella del capannone. Anzi, sulla base delle mappe e dei
rilievi grafici allegati alla relazione del tecnico comunale
del 02.02.1999, recante accertamento dell’abuso (v. doc. 2
del Comune di Gambugliano), si può con ogni verosimiglianza
sostenere il contrario: da tale documentazione, infatti,
emerge ictu oculi il carattere ridotto delle
dimensioni della cabina rispetto a quelle del capannone, al
cui servizio è posta (cfr., in specie, l’ingrandimento della
mappa catastale –foglio n. 6– in scala 1/1000, versato in
atti dalla difesa comunale).
Se ne desume che, in base al combinato disposto degli artt.
76, comma 1, lett. a), e 94 della l.r. n. 61/1985, la
realizzazione del manufatto in discorso (cabina) in difetto
del prescritto titolo abilitativo (autorizzazione edilizia)
avrebbe dovuto comportare l’inflizione della sanzione
pecuniaria e non già di quella demolitoria, essendo
quest’ultima riservata, ai sensi dell’art. 92 della l.r. n.
61 cit., alle opere assoggettate a concessione edilizia.
Donde la fondatezza delle doglianze dedotte della C.F.
S.r.l. con il primo e con il secondo motivo del ricorso.
Non convincono le contrarie argomentazioni avanzate sul
punto dalla difesa comunale.
Il Comune invoca, anzitutto, il comma 4 del succitato art.
76 della l.r. n. 61/1985, a tenor del quale l’autorizzazione
edilizia è rilasciata “in conformità alle leggi, ai
regolamenti e alle prescrizioni degli strumenti di
pianificazione urbanistica o territoriale vigenti”. Nel
caso di specie, tuttavia, la suddetta conformità
mancherebbe, poiché il manufatto realizzato dalla deducente
insisterebbe a circa cm. 45 dal confine di proprietà (ed a
circa cm. 35 dalla recinzione delimitante il confine) e,
perciò, si porrebbe in insanabile contrasto con l’art. 15,
punto 3, delle N.T.A. del P.R.G. all’epoca vigente:
quest’ultimo, infatti, prevede una distanza minima dei
fabbricati dai confini di proprietà pari a ml. 5,00 (cfr.
doc. 6 del Comune di Gambugliano).
Sul punto, però, il Collegio ritiene di condividere
l’obiezione formulata dalla deducente, secondo cui il
manufatto in questione, quale vano tecnologico, non va
computato non solo ai fini del volume, ma neppure ai fini
della distanza.
Vero è che la cabina di trasformazione dell’energia, avendo
un’altezza di ml. 2,81, non rientra nella previsione
derogatoria di cui all’art. 15, punto 5, lett. d), delle
N.T.A. del P.R.G., per la quale, ai fini delle distanze dai
confini, non vengono considerate le costruzioni accessorie
di altezza non superiore a ml. 2,50.
Nondimeno, il predetto manufatto, secondo il Collegio, ha
natura di volume tecnico, e cioè di opera priva di autonomia
funzionale, anche potenziale, che è destinata a contenere
gli impianti serventi di una costruzione principale per
esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima e che
non può essere collocata all’interno della costruzione
principale: come volume tecnico, perciò, la cabina non
costituisce “costruzione” ai sensi dell’art. 873
c.c., con il corollario che la stessa non avrebbe dovuto
essere considerata ai fini del computo delle distanze (cfr.,
ex multis, Cass. Civ., Sez. II, 26.11.2012, n. 20886;
id., 03.02.2011, n. 2566; C.d.S., Sez. V, 13.03.2014, n.
1272; id., Sez. IV, 15.01.2013, n. 223; id., 05.12.2012, n.
6253; TAR Liguria, Sez. I, 03.12.2015, n. 1002)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 09.05.2018 n. 503 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Sulla natura di reato permanente dell’invasione
di terreni o edifici (art.
633 c.p.).
In tema di invasione di terreni o edifici
(art. 633 c.p.),
si segnala la pronuncia con cui la Corte di Cassazione ha
aderito all’orientamento secondo cui,
trattandosi di reato permanente, assume rilievo non solo la
condotta iniziale di invasione, ma anche la successiva
condotta di occupazione protratta nel tempo.
La nozione di “invasione” –si legge nella decisione–
«non si riferisce all’aspetto violento della condotta,
che può anche mancare, ma al comportamento di colui che si
introduce “arbitrariamente” e cioè, contra ius in quanto
privo del diritto d’accesso. La conseguente “occupazione”
deve ritenersi, pertanto, l’estrinsecazione materiale della
condotta vietata e la finalità per la quale viene posta in
essere l’abusiva occupazione. Ma nel caso in cui
l’occupazione si protragga nel tempo il delitto assume
natura permanente, e cessa soltanto con l’allontanamento del
soggetto dall’edificio o con la sentenza di condanna. Ne
deriva che, finché dura la condotta delittuosa, è possibile
proporre la querela, nel senso che il reato permanente».
Nel ribadire tali principi, la Corte si è posta in
consapevole contrasto con un diverso, recente, orientamento
secondo cui «in forza del tenore letterale dell’art. 633
c.p. –che deduce ad oggetto della sanzione la condotta di
chi, abusivamente, senza l’autorizzazione del titolare,
invade edifici o terreni al fine di occuparli o per trarne
profitto– il reato in questione si configura come reato
istantaneo ad effetti permanenti, sicché la condotta
successiva di protrazione dell’occupazione non avrebbe
rilevanza».
Tale indirizzo, ad avviso dei giudici di legittimità, non
può essere condiviso: occorre, infatti, rilevare che «con
riferimento ad altri reati definiti come istantanei con
effetti permanenti, quali l’evasione, il deturpamento di
bellezze naturali, la deviazione di acque e modificazione
dello stato dei luoghi ex art. 632 c.p., la giurisprudenza
ha avuto modo di precisare che, di regola, si consumano nel
momento stesso in cui si modifica lo stato dei luoghi;
tuttavia possono assumere carattere permanente qualora,
perché perdurino gli effetti della modifica, si renda
necessaria un’attività continua o ininterrotta dell’agente».
Nel caso di invasione di terreni o edifici (art. 633 c.p.)
–conclude la sentenza– «certamente si rende necessaria la
condotta attiva dell’autore dell’invasione che continui ad
utilizzare il bene altrui» giungendosi, altrimenti, al «risultato
paradossale di ritenere improcedibile o prescritto un reato
che si estrinseca in una condotta attiva che si protrae
nelle more del processo»
(Corte di Cassazione, Sez. II penale,
sentenza 08.05.2018 n. 20132
- commento tratto da www.giurisprudenzapenale.com).
---------------
1. Il ricorso è fondato.
Secondo un orientamento consolidato e risalente, "Il
delitto p. e p. ex art. 633 c.p., ove non si esaurisca nella
pura e semplice momentanea invasione, ma avvenga con
un'occupazione protratta nel tempo -come avvenuto nel caso
in esame- è permanente, come da lungo tempo stabilito da
larga giurisprudenza di questa S.C.
(cfr., ad es., Cass. Sez. 2 n. 49169 del 27.11.2003; Cass.
Sez. 3 n. 2026 del 26.11.2003, dep. 22.01.2004; Cass. Sez. 2
n. 8799 del 17.01.1999; Cass. Sez. 2 n. 3708 del 12.01.1990;
Cass. Sez. 2 n. 7427 del 23.11.1987, dep. 30.06.1988; Cass.
Sez. 2 n. 10363 del 30.6.87; Cass. Sez. 3 n. 670 del
24.11.1982, dep. 26.01.1983; Cass. Sez. 2 n. 1178 del
07.10.1980, dep. 18.02.1981; Cass. Sez. 2 n. 1625 del
17.11.1972, dep. 23.02.1973)."
E' stato peraltro chiarito che nel reato di
invasione di terreni o edifici di cui all'art. 633 cod. pen.
la nozione di "invasione" non si riferisce
all'aspetto violento della condotta, che può anche mancare,
ma al comportamento di colui che si introduce "arbitrariamente"
e cioè, contra ius in quanto privo del diritto
d'accesso. La conseguente "occupazione" deve
ritenersi pertanto l'estrinsecazione materiale della
condotta vietata e la finalità per la quale viene posta in
essere l'abusiva occupazione. Ma nel caso in cui
l'occupazione si protragga nel tempo il delitto assume
natura permanente, e cessa soltanto con l'allontanamento del
soggetto dall'edificio o con la sentenza di condanna
(Sez. 2, n. 49169 del 27/11/2003 - dep. 22/12/2003,
Minichini, Rv. 22769201).
Ne deriva che, finché dura la condotta
delittuosa, è possibile proporre la querela, nel senso che
il reato permanente è, in quanto tale, flagrante per tutto
il periodo in cui se ne protrae la consumazione e ciò ai
sensi dell'esplicito disposto dell'art. 382 cpv. c.p.p.; ciò
significa che la querela deve considerarsi comunque
tempestiva sia pure con riferimento al periodo pregresso
corrispondente al termine trimestrale di cui all'art. 124
c.p.; tenuto conto, poi, dell'intrinseca struttura unitaria
del reato permanente, ovviamente la querela copre anche il
periodo ad essa posteriore, finché si protrae la permanenza
(cfr., in motivazione, Cass. Sez. 6 n. 22219
dell'11.05.2010; Cass. Sez. 6 n. 11556 del 19.11.2008, dep.
17.03.2009).
Anche questa sezione ha affermato che "E'
da ritenersi tempestiva la querela per il reato di invasione
di terreni che sia stata proposta durante il periodo in cui
si è protratta l'occupazione, dal momento che il reato
permanente è flagrante per tutto il tempo in cui se ne
protrae la consumazione"
(Sez. 2, n. 41401 del 19/10/2010 - dep. 23/11/2010, Quaglia
ed altro, Rv. 24892601).
Il collegio conosce quell'orientamento minoritario secondo
cui, in forza del tenore letterale dell'art. 633 cod. pen.,
che deduce ad oggetto della sanzione la condotta di chi,
abusivamente, senza l'autorizzazione del titolare, invade
edifici o terreni al fine di occuparli o per trarne
profitto, il reato in questione si configura come reato
istantaneo ad effetti permanenti, sicché la condotta
successiva di protrazione dell'occupazione non avrebbe
rilevanza. (Sez. 2, n. 7911 del 20/01/2017 - dep.
17/02/2017, P.M. in proc. Tripodi, Rv. 26957501). E tuttavia
tale conclusione non è del tutto condivisibile.
Ed infatti occorre rilevare che con
riferimento ad altri reati definiti come istantanei con
effetti permanenti, quali l'evasione, il deturpamento di
bellezze naturali, la deviazione di acque e modificazione
dello stato dei luoghi ex art. 632 cod. pen., n. 306, conv.
in L. 07.08.1992, n. 356 la giurisprudenza ha avuto modo di
precisare che, di regola, si consumano nel momento stesso in
cui si modifica lo stato dei luoghi; tuttavia possono
assumere carattere permanente qualora, perché perdurino gli
effetti della modifica, si renda necessaria un'attività
continua o ininterrotta dell'agente.
E nel caso di occupazione di un terreno o di un appartamento
certamente si rende necessaria la condotta attiva
dell'autore dell'invasione che continui ad utilizzare il
bene altrui.
Si perverrebbe, altrimenti, al risultato paradossale di
ritenere improcedibile o prescritto un reato che si
estrinseca in una condotta attiva che si protrae nelle more
del processo.
Si impone pertanto l'annullamento della sentenza impugnata
con rinvio al Tribunale di Reggio Calabria per l'ulteriore
corso. |
EDILIZIA PRIVATA:
L'installazione di sanitari non è manutenzione
straordinaria.
L’art. 3, comma 1, lett.
b), del DPR n. 380 del 2001 qualifica come <manutenzione
straordinaria> gli interventi volti a “realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari” e nella specie non si
ipotizza la realizzazione ex novo di un servizio igienico
prima inesistente o l’ampliamento di servizio esistente,
bensì la semplice allocazione dei sanitari (come sarebbe la
sostituzione di un lavandino o w.c. vecchio con un nuovo),
come tale non rientrante nella <manutenzione straordinaria>.
---------------
E' da escludersi che gli interventi ipotizzati comportino la
necessità di nuova attestazione di abitabilità.
Invero, l’art. 24 del DPR n. 380 del 2001, al comma 3,
richiede attestazione di agibilità per “interventi sugli
edifici esistenti che possano influire sulle condizioni di
cui al comma 1”, cioè sulla “sussistenza delle condizioni di
sicurezza, igiene, salubrità”.
L’esame della giurisprudenza pone in evidenza come gli
interventi che rendono obbligatoria una nuova valutazione
dell’agibilità sono sostanzialmente quelli che hanno
carattere “strutturale” e quelli che danno adito ad un
mutamento di destinazione d’uso.
In tal senso:
- "appare
legittima la richiesta di una nuova valutazione delle
condizioni di agibilità di un immobile «a fronte di
modifiche strutturali, che implicano anche un cambiamento
dell'uso degli spazi»;
- «gli artt. 24 e segg. del T.U.E. non
individuano espressamente le diverse ipotesi in cui, pur
vertendosi in tema di interventi “minori”, gli stessi
influiscano sulle condizioni di igiene e sicurezza,
evidentemente rimettendo tale valutazione (di “influenza”)
alle Amministrazioni deputate a tale verifica», dunque
attribuendo all’Amministrazione un potere discrezionale di
valutare se –nel caso concreto– gli interventi edilizi
posti in essere alterino o meno le condizioni
igienico-sanitarie dell’edificio, il che comunque appare
difficile da sostenere in relazione alla mera collocazione
degli arredi sanitari;
- la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che anche il mero
mutamento di destinazione d’uso di un locale possa
giustificare la richiesta di un nuovo certificato di
agibilità;
- il rilascio di un nuovo certificato di
agibilità si rende necessario per le sole modifiche
“strutturali” dell’edificio, esclude la necessità di
acquisire un simile titolo a fronte di un intervento di mero
ampliamento di un’uscita di sicurezza;
- «i lavori, effettuati
successivamente all’interno del locale, hanno riguardato
solo l’inserimento di un locale igienico, che non determina
la necessità di un nuovo certificato di agibilità, in
quanto, secondo la giurisprudenza costante, è necessario
richiedere un nuovo certificato di agibilità solo quando si
procede alla ristrutturazione totale».
---------------
6.2 – In termini giuridici pare comunque da escludere che il mero
intervento di installazione dei sanitari –eseguito
allorquando tutte le reti e gli allacci ad essi propedeutici
sono già stati realizzati– sia riconducibile alla categoria
della manutenzione straordinaria.
L’art. 3, comma 1, lett.
b), del DPR n. 380 del 2001 qualifica come <manutenzione
straordinaria> gli interventi volti a “realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari” e nella specie non si
ipotizza la realizzazione ex novo di un servizio igienico
prima inesistente o l’ampliamento di servizio esistente,
bensì la semplice allocazione dei sanitari (come sarebbe la
sostituzione di un lavandino o w.c. vecchio con un nuovo),
come tale non rientrante nella <manutenzione straordinaria>
(in tal senso Cons. Giust. Amm. Regione Siciliana, 15.03.2017, n. 102).
6.3 – Analogamente pare da escludere che gli interventi
ipotizzati comportassero la necessità di nuova attestazione
di abitabilità. L’art. 24 del DPR n. 380 del 2001, al comma
3, richiede attestazione di agibilità per “interventi sugli
edifici esistenti che possano influire sulle condizioni di
cui al comma 1”, cioè sulla “sussistenza delle condizioni di
sicurezza, igiene, salubrità”.
L’esame della giurisprudenza pone in evidenza come gli
interventi che rendono obbligatoria una nuova valutazione
dell’agibilità sono sostanzialmente quelli che hanno
carattere “strutturale” e quelli che danno adito ad un
mutamento di destinazione d’uso.
In tal senso TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 16.03.2011, n. 740, secondo cui appare
legittima la richiesta di una nuova valutazione delle
condizioni di agibilità di un immobile «a fronte di
modifiche strutturali, che implicano anche un cambiamento
dell'uso degli spazi»; TAR Abruzzo, Sez. I, 17.06.2015, n.
456 invece precisa che «gli artt. 24 e segg. del T.U.E. non
individuano espressamente le diverse ipotesi in cui, pur
vertendosi in tema di interventi “minori”, gli stessi
influiscano sulle condizioni di igiene e sicurezza,
evidentemente rimettendo tale valutazione (di “influenza”)
alle Amministrazioni deputate a tale verifica», dunque
attribuendo all’Amministrazione un potere discrezionale di
valutare se –nel caso concreto– gli interventi edilizi
posti in essere alterino o meno le condizioni
igienico-sanitarie dell’edificio, il che comunque appare
difficile da sostenere in relazione alla mera collocazione
degli arredi sanitari; la giurisprudenza è pacifica nel
ritenere che anche il mero mutamento di destinazione d’uso
di un locale possa giustificare la richiesta di un nuovo
certificato di agibilità (ex multis, TAR Abruzzo, Sez. I,
11.02.2014, n. 107); Cons. Stato, Sez. V, 12.02.2013, n. 795,
nell’affermare che il rilascio di un nuovo certificato di
agibilità si rende necessario per le sole modifiche
“strutturali” dell’edificio, esclude la necessità di
acquisire un simile titolo a fronte di un intervento di mero
ampliamento di un’uscita di sicurezza; TAR Puglia, Lecce, 07.05.2009, n. 956, la quale afferma che «i lavori, effettuati
successivamente all’interno del locale, hanno riguardato
solo l’inserimento di un locale igienico, che non determina
la necessità di un nuovo certificato di agibilità, in
quanto, secondo la giurisprudenza costante, è necessario
richiedere un nuovo certificato di agibilità solo quando si
procede alla ristrutturazione totale».
Nel caso di specie, l’attestazione di agibilità è stata
presentata allorquando tutti gli interventi strutturali
nonché i mutamenti di destinazione d’uso erano già stati
posti in essere; conseguentemente, la nuova attestazione di
agibilità che il Comune ha ritenuto necessaria nel caso di
specie, avrebbe dovuto riguardare solo l’installazione dei
sanitari (lavandini, wc, ecc.).
Ma tale intervento non
risulta tuttavia dar luogo ad una “modifica strutturale” né
ad un mutamento di destinazione d’uso (essendo di fatto i
locali già completi degli impianti e, per ciò stesso, già
destinati a bagno) (TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 07.05.2018 n. 635 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Raccolta e trasporto di rifiuti
esercitate in forma ambulante - Applicabilità della deroga
di cui all'art. 266, c. 5°, del TUA - Apparecchiature
elettriche ed elettroniche - Esclusione - Fattispecie:
elettrodomestici e rifiuti ferrosi non pericolosi - Art.
256, d.lgs. n.152/2006 - Giurisprudenza.
Il reato di
cui all'art. 256 D.Lgs. 03.04.2006, n. 152 è configurabile
anche in relazione alle condotte di raccolta e trasporto
esercitate in forma ambulante, salva l'applicabilità della
deroga di cui all'art. 266, comma quinto, del predetto
D.Lgs., per la cui operatività occorre non solo che l'agente
sia in possesso del titolo abilitativo previsto per il
commercio ambulante dal D.Lgs. 31.03.1998, n. 114, ma anche
che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo
commercio ma non riconducibili, per le loro peculiarità, a
categorie autonomamente disciplinate (Sez. 3, n. 19209 del
16/03/2017, Tutone; Sez. 3, n. 34917 del 09/07/2015, Caccamo;
Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014, Seferovic; Sez. 3, n. 29992
del 24/06/2014, Lazzaro).
Nel caso di specie gli elettrodomestici costituenti rifiuti
erano riconducibili a categorie autonomamente disciplinate
in base al d.lgs. 25.07.2005, n. 151 (Attuazione della
direttiva 2002/95/CE, della direttiva 2002/96/CE e della
direttiva 2003/108/CE, relative alla riduzione dell'uso di
sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed
elettroniche, nonché allo smaltimento dei rifiuti), abrogato
e sostituito dal d.lgs. 14.03.2014, n. 49 (Attuazione della
direttiva 2012/19/UE sui rifiuti di apparecchiature
elettriche ed elettroniche - RAEE).
Ne consegue che nemmeno all'epoca dell'accertamento del
fatto i cd. "robivecchi" avrebbero potuto trasportare
rifiuti costituiti da elettrodomestici avvalendosi della
deroga prevista dall'art. 266, comma 5, d.lgs. n. 152 del
2006 (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.05.2018 n. 19153 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Esclusione dai
beni paesaggistici - Immobili e aree sottoposti a tutela dai
piani paesaggistici - Artt. 134, 143, 146 181 d.lgs. n.
42/2004 - Art. 9 Cost. - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA -
PUTT - Interventi relativi a immobili o aree senza
autorizzazione punibili ai sensi dell'art. 44, lett. e),
d.P.R. n. 380/2001.
Non sono 'beni paesaggistici', ai sensi dell'art.
134, d.lgs. n. 42 del 2004, gli immobili e le aree
sottoposti a tutela dai piani paesaggistici ai sensi della
lettera e) dell'art. 143, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004.
Gli interventi eseguiti su dette aree ed immobili senza
autorizzazione non sono punibili ai sensi dell'art. 181,
d.lgs. n. 42 del 2004; restano punibili ai sensi dell'art.
44, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001.
Ne consegue che:
a) ai sensi dell'art. 134, d.lgs. n. 42 del 2004, non sono "beni
paesaggistici" gli immobili e le aree individuati ai
sensi della lettera e dell'art. 143, d.lgs. n. 42 del 2004;
b) per gli interventi che devono essere eseguiti in dette aree o su
detti immobili, l'art. 146, comma 1, d.lgs. n. 42/2004 non
richiede l'autorizzazione;
c) se il piano imponesse l'autorizzazione anche per gli interventi
relativi a immobili o aree individuati ai sensi della
lettera e dell'art. 143, la loro esecuzione in mancanza del
titolo non integrerebbe il reato di cui all'art. 181, d.lgs.
n. 42 del 2004 per mancanza dell'oggetto materiale della
condotta (il bene paesaggistico) che renderebbe l'azione
atipica rispetto a quella tipizzata dalla fattispecie penale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.05.2018 n. 19146 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tutela della pubblica incolumità e diritto di
proprietà - Opere di conglomerato cementizio armato, normale
e precompresso, ed a struttura metallica - Artt. 64, 71 e
72, d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 1 e 10, d.lgs. n. 42/2004 -
Circostanza aggravante - Danneggiamento della cosa di
interesse storico o artistico.
Il dovere di realizzare le opere di conglomerato cementizio
armato, normale e precompresso, ed a struttura metallica,
secondo le modalità e i criteri stabiliti dall'art. 64,
d.P.R. n. 380 del 2001 è posto a tutela della pubblica
incolumità, non del diritto di proprietà.
E' escluso, dunque, che il privato proprietario
dell'immobile oggetto degli interventi abusivi previsti
dagli artt. 71 e 72, d.P.R. n. 380 del 2001, possa essere
considerato persona offesa del reato.
Allo stesso modo, la necessità di ottenere l'autorizzazione
alla realizzazione di opere e lavori sui beni culturali di
cui all'art. 10, d.lgs. n. 42 del 2004, ed il divieto di
procedervi in assenza, è posto a tutela del patrimonio
culturale, la cui tutela e valorizzazione <<concorrono a
preservare la memoria della comunità nazionale e del suo
territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura>>
(art. 1, comma 2, d.lgs. n. 42 del 2004).
E' estranea alla "ratio puniendi" la tutela del
diritto di proprietà dell'immobile, oggetto di specifica
tutela mediante l'incriminazione delle condotte previste
dall'art. 635, cod. pen., che, molto significativamente,
contempla, come circostanza aggravante, l'ipotesi del
danneggiamento della cosa di interesse storico o artistico
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.05.2018 n. 18913 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
RISARCIMENTO DEL DANNO - Intervento edilizio
abusivo - Danno subito dal proprietario e situazioni
giuridiche soggettive - Interesse della pubblica
amministrazione.
Il danno subito dal proprietario dell'immobile oggetto di
intervento abusivo non ha natura penalistica poiché
pregiudica situazioni giuridiche soggettive che sono del
tutto estranee allo scopo della incriminazione delle
condotte ritenute lesive dell'interesse della pubblica
amministrazione e per la cui consumazione non è richiesta né
è necessaria alcuna ulteriore indagine.
Tant'è che lo stesso privato titolare del bene può rendersi
autore (come avviene nella stragrande maggioranza dei casi)
delle medesime condotte oggi ascritte a terze persone, senza
che l'assenza del danno privatistico condizioni la
sussistenza del reato e privi le relative condotte del danno
(o del pericolo di danno) che la loro incriminazione intende
prevenire (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.05.2018 n. 18913 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Momento
consumativo del reato di abbandono - Componenti oggettive e
soggettive - Decorrenza del termine prescrizionale - Compiti
e verifiche del giudice del merito - Art. 192, 256 D.Lgs n.
152/2006.
In tema di rifiuti, ogni qualvolta l'attività di abbandono
ovvero di deposito incontrollato sia prodromica ad una
successiva fase di smaltimento ovvero di recupero del
rifiuto stesso, caratterizzandosi, pertanto, essa come una
forma, per quanto elementare, di gestione del rifiuto (della
quale attività potrebbe dirsi che essa costituisce il "grado
zero"), la relativa illiceità penale permea di sé
l'intera condotta (quindi sia la fase prodromica che quella
successiva), integrando, pertanto, una fattispecie penale di
durata, la cui permanenza cessa soltanto con il compimento
delle fasi ulteriori rispetto a quella di rilascio, tutto
ciò con le derivanti conseguenza anche a livello di
decorrenza del termine prescrizionale.
Laddove, invece, siffatta attività non costituisca
l'antecedente di una successiva fase volta al compimento di
ulteriori operazioni aventi ad oggetto appunto lo
smaltimento od il recupero del rifiuto, ma racchiuda in se
l'intero disvalore penale della condotta, non vi è ragione
di ritenere che essa sia idonea ad integrare un reato
permanente; ciò in quanto, essendosi il reato pienamente
perfezionato ed esaurito in tutte le sue componenti
oggettive e soggettive, risulterebbe del tutto irragionevole
non considerarne oramai cristallizzati i profili dinamici
fin dal momento dei rilascio del rifiuto, nessuna ulteriore
attività residuando alla descritta condotta di abbandono.
Sicché, sarà compito del giudice del merito valutare, di
volta in volta, se l'azione di abbandono e deposito del
rifiuto si vada ad innestare in una più articolata fase di
gestione dello stesso ovvero se debba, invece, intendersi
definita e conclusa in tutti i suoi elementi e non più
dotata di un ulteriore dinamismo criminoso (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.05.2018 n. 18880 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
CODICE DELL'AMBIENTE - RIFIUTI - ACQUA -
INQUINAMENTO IDRICO - Criteri per l'applicazione della
disciplina delle acque e non quella dei rifiuti - Liquami
provenienti da allevamento delle trote - Fattispecie:
tracimazione dell'acqua al di fuori delle vasche di
sedimentazione.
La disciplina delle acque e non quella dei rifiuti è
applicabile in tutti i casi nei quali si è in presenza di
uno scarico, anche soltanto periodico, discontinuo o
occasionale, di acque reflue in uno dei corpi recettori
specificati dalla legge ed effettuato tramite condotte o
altro sistema stabile. In tutti gli altri casi nei quali
manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con
il corpo recettore si applicherà, invece, la disciplina sui
rifiuti (per tutte: Corte di cassazione, Sezione III penale,
21//04/2015, n. 16623, nonché, idem Sezione III penale,
20/04/2011 n. 15652).
Tali principi sono stati applicati anche alle ipotesi di
raccolta di liquami zootecnici in vasche.
Nel caso di specie è emerso che i rifiuti derivanti
dall'allevamento delle trote, già raccolti in vasche di
sedimentazione -elemento questo che di per se esclude la
possibilità di applicare ad essi la ordinaria disciplina
degli scarichi idrici stante la presenza di tali elementi
intermedi fra il momento di produzione dei reflui e quello
di loro trasferimento verso il corpo recettore- si
riversavano in maniera incontrollata nelle adiacenti acque
fluviali a causa del fatto che dette vasche di
sedimentazione in realtà erano utilizzate esse stesse per
l'allevamento delle trote, di tal che esse venivano meno
alla loro stessa funzione di vasche di decantazione stante
il fatto che la presenza, ed il conseguente frenetico
movimento, di diverse centinaia di pesci all'interno di esse
impediva la sedimentazione dei rifiuti che, pertanto,
tracimando l'acqua al di fuori delle vasche, si riversavano,
frammisti a quella, nel terreno circostante sino agli
adiacenti corsi d'acqua (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 03.05.2018 n. 18880 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
AGRICOLTURA E ZOOTECNIA - Attività di
troticoltura - Pratica della fertirrigazione - Deroga alla
normativa in materia di trattamento dei rifiuti - Finalità
agronomiche - Presupposti - Fattispecie: fenomeni di
ruscellamento.
La deroga alla
normativa in materia di trattamento dei rifiuti giustificata
dal fatto che gli stessi erano utilizzati con finalità
agronomiche attraverso la pratica della fertirrigazione.
Pertanto, sebbene ben vero che l'utilizzazione agronomica
degli effluenti di allevamento comporta la deroga rispetto
alla applicabilità della normativa in tema di rifiuti, anche
nel caso in cui quelli siano dapprima stoccati in vasche e
successivamente trasferiti sui luoghi di spandimento tramite
cisterne mobili (C. di cass., Sez. III pen., 09/10/2008, n.
38411), tuttavia siffatta pratica, onde consentire alla
predetta deroga di essere efficace, deve essere svolta
secondo i principi della sua corretta applicazione; essa,
pertanto, richiede, in primo luogo l'esistenza effettiva di
colture in atto sulla aree interessate allo spandimento
degli effluenti animali, l'adeguatezza, per qualità e per
quantità, di questi ultimi al fini cui appaiono destinati,
tenuto conto anche dei tempi e delle modalità di
distribuzione in conformità con il tipo ed il fabbisogno
delle colture in questione, nonché la assenza di fattori
sintomatici di una utilizzazione dei liquami non compatibile
con la corretta metodica della fertirrigazione (Corte di
cassazione, Sez. 3^ penale, 12/10/2015, n. 40782).
Affinché la deroga sia pienamente efficace è, comunque,
necessario che l'utilizzo agronomico abbia ad oggetto
l'intera produzione di rifiuti e non una sola parte di essi,
di tal che, in un caso singolarmente analogo al presente, è
stata ritenuta non scriminata la condotta comportante sola
una parziale destinazione degli effluenti di allevamento
alla fertirrigazione, atteso che la parte di essi eccedente
si riversava, esattamente come verificatosi nel caso che ora
interessa, sul terreno circostante al luogo di produzione,
con conseguenti fenomeni di ruscellamento (Corte di
cassazione, Sezione III penale, 31/05/2011, n. 21785).
Nella specie, fattori tutti questi non ravvisabili, secondo
quanto accertato dal giudice del merito nel caso ora in
discorso, nel quale, invece, lo smaltimento dei reflui di
allevamento avveniva, sia pure in forma con esclusiva,
attraverso la loro tracimazione dalle vasche di decantazione
verso i limitrofi corsi d'acqua (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 03.05.2018 n. 18880 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA - PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Responsabilità
omissiva per non avere impedito la verificazione di un
evento - Posizione di garanzia - Fattispecie: funzionari del
Servizio di Prevenzione dell'Ambiente istituito presso
l'ARPA.
La responsabilità omissiva per non avere impedito la
verificazione di un evento grava sul soggetto solo ed in
quanto egli, investito di una cosiddetta posizione di
garanzia, abbia l'obbligo giuridico di impedirlo (in
relazione alla sussistenza della responsabilità penale ex
art. 40 cod. pen. esclusivamente a carico di chi fosse
investito dell'obbligo di impedire l'evento, cfr. ex
multis: Corte di cassazione, Sezione III penale,
06/02/2017, n. 5439; idem Sezione III penale, 09/03/2011, n.
9281).
Logicamente prioritario, pertanto, alla affermazione della
penale responsabilità del soggetto, ove la stessa sia
fondata sull'omesso controllo in ordine ad un evento che si
aveva l'obbligo di impedire, è l'accertamento in relazione
alla esistenza ed alla rilevanza giuridica di tale obbligo.
Nella fattispecie per i funzionari non era precisata la
disposizione organizzativa dell'Ufficio di loro appartenenza
la quale avrebbe previsto la loro preposizione al servizio
in questione, inoltre i reati erano comunque estinti per
prescrizione (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.05.2018 n. 18880 - link a
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URBANISTICA:
Lottizzazione mista - Stipulazione di atti
negoziali e frazionamento dei terreni - Momento consumativo
del reato - Art. 44, c. 2, dPR n. 380/2001.
La lottizzazione, in particolare nella sua forma mista, la
quale si realizza attraverso la attività di materiale di
frazionamento di una più vasta area e l'attribuzione
realizzata tramite la stipulazione di puntuali atti
negoziali, ai singoli quotisti delle frazioni di terreno
sulle quali vengono, poi, realizzate le opere abusive
(Cass., Sez. III pen., 07/02/2008, n. 6080), è reato che,
sebbene possa dirsi già integrato con il solo frazionamento
dei terreni, si caratterizza per essere, tuttavia,
permanente in quanto suscettibile di perfezionarsi
definitivamente solo con la cessazione della attività
edificatoria, di tal che di esso, in caso di svolgimento di
tale attività successivamente alla realizzazione degli atti
negoziali di attribuzione dei singoli lotti di terreno,
perdura la flagranza sino alla cessazione di dette attività
all'interno di ciascuna delle singole frazioni di terreno
così realizzate (Cass. Sez. III penale, 16/05/2015, n.
24985, ord.; idem Sez. III pen., 15/10/2013, n. 42361; idem
Sez. III pe., 22/05/2007, n. 19732).
Lottizzazione abusiva - Confisca dei
terreni e dei manufatti su di essi insistenti - Reato
prescritto - Effetti - Estinzione del reato -
Giurisprudenza.
In caso di lottizzazione abusiva, disporre la confisca dei
terreni interessati da essa nonché dei manufatti su di essa
insistenti -confisca altrimenti obbligatoria in ipotesi di
accertamento, anche in via astratta, della penale
responsabilità degli imputati- ove il reato in questione
debba intendersi già prescritto al momento in cui è stata
esercitata la azione penale; ciò in quanto la intervenuta
prescrizione, comportando comunque la estinzione del reato
e, pertanto, la irrilevanza penale del fatto storico
commesso, si pone come fattore assolutamente preclusivo
all'accertamento, anche sotto la più limitata prospettiva
ora in discorso, della ricorrenza degli elementi oggettivi e
soggettivi da cui dipende la esistenza del reato (Corte di
cassazione, Sezione III penale, 16/02/2011, n. 5857; idem
Sezione III penale, 24/07/2009, n. 30933; nel senso della
illegittimità anche del sequestro preventivo dell'area
lottizzata in una fattispecie del tipo di quella descritta,
stante impossibilità della conversione di quello in confisca
del bene staggito cfr.: Corte di cassazione, Sezione III
penale, 23/08/2016, n. 35313).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE -
Lottizzazione - Legge applicabile alle condotte integranti
un reato permanente.
La legge applicabile alle condotte integranti un reato
permanente non è quella vigente al momento dell'insorgere
del reato ma è quella in vigore al momento della cessazione
della permanenza, ancorché si possa trattare di normativa
più rigorosa (Cassazione, Sez. 3^ penale, 29/10/2015, n.
43597, in fattispecie relativa alla violazione, per certi
versi contermine a quella ora in esame, della normativa in
tema di tutela del paesaggio e delle bellezze naturali; idem
Sezione VI penale, 08/01/2016, n. 550; idem Sezi.I pen.,
21/04/1993, n. 870) (Corte di Cassazione, Sez. III,
sentenza 03.05.2018 n. 18878 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La natura di atto doveroso e vincolato nel
contenuto dell'ingiunzione alla demolizione fa sì che la
stessa non avrebbe dovuto essere preceduta da avviso di
avvio del relativo procedimento, anche in considerazione
della conseguenziale sua intangibilità ai sensi dell'art.
21-octies della legge 07.08.1990, n. 241.
---------------
1. Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la
mancata comunicazione dell’avvio del procedimento.
In via generale si evidenzia che la natura di atto doveroso
e vincolato nel contenuto dell'ingiunzione alla demolizione
fa sì che la stessa non avrebbe dovuto essere preceduta da
avviso di avvio del relativo procedimento, anche in
considerazione della conseguenziale sua intangibilità ai
sensi dell'art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241
(Consiglio di Stato, sez. IV, n. 2227 del 10.04.2009; sez.
IV, n. 4659 del 26.09.2008; sez. V, n. 4530 del 19.09.2008).
Tuttavia, dagli atti risulta che il Comune, con nota prot.
n. 7858 del 10.06.2008, ha assolto allo specifico
adempimento a mezzo del servizio postale con conseguente
invito a produrre eventuali “osservazioni controdeduttive
correlate da opportuna documentazione”.
La censura, pertanto, è infondata
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 03.05.2018 n. 1188 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia
edilizia, affinché un manufatto presenti il carattere
della pertinenza si richiede che abbia una propria
individualità, che sia oggettivamente preordinato a
soddisfare le esigenze di un edificio principale
legittimamente edificato, che sia sfornito di autonomo
valore di mercato, che abbia ridotte dimensioni, che sia
insuscettibile di destinazione autonoma e che non si ponga
in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti.
E’ parimenti pacifico che il concetto di pertinenza in
senso urbanistico è molto più restrittivo di quello
previsto dal diritto civile e non può trovare
applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur
potendo essere qualificate come beni pertinenziali sotto il
profilo privatistico, assumono tuttavia una funzione
autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro
assoggettamento al regime del permesso di costruire.
---------------
4. Con il quinto
motivo si sostiene che il manufatto va qualificato come
pertinenza conforme alla normativa urbanistica-edilizia
vigente che, in quanto non supera il 20% della volumetria
dell’immobile principale, non é “riconducibile agli
interventi di nuova costruzione”.
Si premette che l’area di interesse, identificata al nuovo
catasto terreni al figlio n. 5, particella, n. 1333 ricade
in zona territoriale 2 del piano urbano del territorio
compresa in zona “A” del vigente piano regolatore generale.
Secondo quanto precisato dalla suprema Corte, in materia
edilizia, affinché un manufatto presenti il carattere
della pertinenza si richiede che abbia una propria
individualità, che sia oggettivamente preordinato a
soddisfare le esigenze di un edificio principale
legittimamente edificato, che sia sfornito di autonomo
valore di mercato, che abbia ridotte dimensioni, che sia
insuscettibile di destinazione autonoma e che non si ponga
in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti (cfr.
Cass., Sez. III, sentenza n. 25669 del 30.05.2012 ).
E’ parimenti pacifico che il concetto di pertinenza in
senso urbanistico è molto più restrittivo di quello
previsto dal diritto civile e non può trovare
applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur
potendo essere qualificate come beni pertinenziali sotto il
profilo privatistico, assumono tuttavia una funzione
autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro
assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ma anche a voler prescindere dal concetto di pertinenza, nel
caso in esame l’art. 10, comma 1, lett. c), del d. P.R.
06.06.2001, n. 380 dispone che “costituiscono interventi
di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e
sono subordinati a permesso di costruire”; tra l’altro,
gl’interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino modifiche della volumetria
complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che,
limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A,
comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli
interventi che comportino modificazioni della sagoma di
immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni;
sicché il motivo di censura, con il quale si sostiene che il
nuovo immobile è una pertinenza (di non si sa, precisamente,
di quale altro), è irrilevante.
Tale parte della motivazione è ridondante, non risultando
che sia stata presentata una domanda di sanatoria; e
corrispondentemente il motivo di censura è superfluo
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 03.05.2018 n. 1188 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in
linea con l’indirizzo giurisprudenziale di gran lunga
prevalente, ha precisato che:
- “gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo
carattere reale, prescindono dalla responsabilità del
proprietario o dell'occupante l'immobile, applicandosi anche
a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si
trovi al momento dell'irrogazione in un rapporto con la res
tale da assicurare la restaurazione dell'ordine giuridico
violato”;
- “nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione di
un abuso edilizio, la mera inerzia da parte
dell'Amministrazione nell'esercizio di un potere/dovere
finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse
pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che
(l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo;
allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare
un affidamento di carattere “legittimo” in capo al
proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto
amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa
giuridicamente qualificata”.
Pertanto, allorché l'attuale proprietario dell'immobile
affermi la propria estraneità rispetto alla realizzazione
del manufatto difforme, l’accertamento di una eventuale
diversità soggettiva fra il responsabile dell'abuso e
l'attuale proprietario non imporrebbe alcuno specifico onere
motivazionale né precluderebbe, per quanto qui interessa,
l’adozione del provvedimento repressivo, stante il carattere
reale della violazione e considerata la doverosità della
correlata misura ripristinatoria.
Invero, “la sanzione c.d. in senso lato, nozione alla quale
si riconducono tradizionalmente le misure ripristinatorie ed
interdittive (ove non meramente accessorie alle sanzioni
pecuniarie) gode un apparato di garanzie sostanziali,
procedimentali e giurisdizionali, diversificato rispetto
alla sanzione in senso stretto (disciplinata dalla legge n.
689 del 1981). Pur costituente una forma di reazione alla
violazione di una norma, esse non hanno valenza afflittiva,
bensì mirano alla soddisfazione diretta dell'interesse
pubblico specificamente pregiudicato dalla violazione
(attinente, nella specie, all'ordinato assetto del
paesaggio). Gli ordini di demolizione, in particolare,
avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del
proprietario o dell'occupante l'immobile (l'estraneità agli
abusi assumendo comunque rilievo sotto altri profili),
applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la
violazione, ma si trovi al momento dell'irrogazione in un
rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione
dell'ordine giuridico violato”.
Altresì, “l'ordinanza di demolizione in esame poteva [...]
legittimamente essere emanata nei confronti degli attuali
proprietari dell'immobile sui cui insiste l'opera abusiva,
anche se non responsabili della relativa esecuzione,
trattandosi di illecito permanente sanzionato in via
ripristinatoria”.
Alla luce delle considerazioni anzidette e dei richiamati
indirizzi giurisprudenziali, si deve quindi rilevare che il
carattere reale della misura ripristinatoria della
demolizione non risente in alcun modo della condizione
soggettiva dell’avente causa dell’asserito responsabile
dell’abuso (sempreché sussista una effettiva divergenza tra
i due soggetti), nemmeno nel caso in cui possa essere
ravvisata una situazione di affidamento incolpevole,
corroborata dalla perdurante inerzia dell’Amministrazione.
---------------
3.2 Nondimeno il ricorso deve essere respinto.
La ricorrente sostiene di trovarsi in una situazione di
affidamento incolpevole in merito alla conformità
urbanistica delle opere, tutte realizzate a suo dire in
epoca precedente all’acquisto della proprietà, e rappresenta
che tale affidamento sarebbe ulteriormente suffragato
dall’inerzia del Comune, il quale, per lungo tempo, non
avrebbe attivato i propri poteri repressivi, pur essendo
consapevole dell’esistenza degli abusi.
Richiama, inoltre, a conforto della propria tesi, taluni
arresti giurisprudenziali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n.
1016 del 2014), secondo i quali, specie dopo il decorso di
un significativo periodo di tempo dalla realizzazione
dell’abuso, l’assenza di dolo o colpa in capo al
destinatario del provvedimento repressivo precluderebbe
l’irrogazione della sanzione demolitoria.
Tale impostazione deve essere tuttavia disattesa alla
stregua di quanto statuito dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, la quale, con sentenza n. 9 del 2017, in
linea con l’indirizzo giurisprudenziale di gran lunga
prevalente, ha precisato che:
- “gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo
carattere reale, prescindono dalla responsabilità del
proprietario o dell'occupante l'immobile, applicandosi anche
a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si
trovi al momento dell'irrogazione in un rapporto con la res
tale da assicurare la restaurazione dell'ordine giuridico
violato”;
- “nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione
di un abuso edilizio, la mera inerzia da parte
dell'Amministrazione nell'esercizio di un potere/dovere
finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse
pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che
(l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo;
allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare
un affidamento di carattere “legittimo” in capo al
proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto
amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa
giuridicamente qualificata”.
Pertanto, allorché l'attuale proprietario dell'immobile
affermi, come nel caso in esame, la propria estraneità
rispetto alla realizzazione del manufatto difforme,
l’accertamento di una eventuale diversità soggettiva fra il
responsabile dell'abuso e l'attuale proprietario non
imporrebbe alcuno specifico onere motivazionale né
precluderebbe, per quanto qui interessa, l’adozione del
provvedimento repressivo, stante il carattere reale della
violazione e considerata la doverosità della correlata
misura ripristinatoria.
Si veda, in tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, n. 3694 del
2017, secondo cui “la sanzione c.d. in senso lato,
nozione alla quale si riconducono tradizionalmente le misure
ripristinatorie ed interdittive (ove non meramente
accessorie alle sanzioni pecuniarie) gode un apparato di
garanzie sostanziali, procedimentali e giurisdizionali,
diversificato rispetto alla sanzione in senso stretto
(disciplinata dalla legge n. 689 del 1981). Pur costituente
una forma di reazione alla violazione di una norma, esse non
hanno valenza afflittiva, bensì mirano alla soddisfazione
diretta dell'interesse pubblico specificamente pregiudicato
dalla violazione (attinente, nella specie, all'ordinato
assetto del paesaggio). Gli ordini di demolizione, in
particolare, avendo carattere reale, prescindono dalla
responsabilità del proprietario o dell'occupante l'immobile
(l'estraneità agli abusi assumendo comunque rilievo sotto
altri profili), applicandosi anche a carico di chi non abbia
commesso la violazione, ma si trovi al momento
dell'irrogazione in un rapporto con la res tale da
assicurare la restaurazione dell'ordine giuridico violato”.
Prosegue inoltre: “l'ordinanza di demolizione in esame
poteva [...] legittimamente essere emanata nei confronti
degli attuali proprietari dell'immobile sui cui insiste
l'opera abusiva, anche se non responsabili della relativa
esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in
via ripristinatoria”.
Alla luce delle considerazioni anzidette e dei richiamati
indirizzi giurisprudenziali, si deve quindi rilevare che,
come correttamente sottolineato dalla difesa del Comune (da
ultimo nella memoria di replica del 21.03.2018), il
carattere reale della misura ripristinatoria della
demolizione non risente in alcun modo della condizione
soggettiva dell’avente causa dell’asserito responsabile
dell’abuso (sempreché sussista una effettiva divergenza tra
i due soggetti), nemmeno nel caso in cui possa essere
ravvisata una situazione di affidamento incolpevole,
corroborata dalla perdurante inerzia dell’Amministrazione.
Ne consegue l’infondatezza dell’unico motivo di
impugnazione, dovendosi da ultimo concludere che l’ordinanza
di demolizione, in quanto misura ripristinatoria reale, a
carattere rigidamente vincolato, scevra da valutazioni di
opportunità, va irrogata indipendentemente dagli stati
soggettivi riferibili al titolare delle opere contestate e,
in ogni caso, dall’accertamento di un eventuale apporto alla
loro realizzazione.
Il ricorso deve essere quindi rigettato (TAR Friuli Venezia
Giulia,
sentenza 03.05.2018 n. 138 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Mancata
indicazione dell’area da acquisire in caso di inottemperanza
all’ordine di demolizione.
Il carattere del tutto vincolato
dell’ordine di demolizione, da adottare a seguito della sola
verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una
particolare motivazione né con riguardo all’interesse
pubblico sotteso a tale determinazione e all’ipotetico
interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera
edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle
norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse
emerga la natura e la consistenza dell’abuso.
Del resto, laddove sia accertato un abuso edilizio, deve
essere motivato il ricorso alla sanzione alternativa
pecuniaria e non anche l’adozione dell’ordine
ripristinatorio, ex art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, che
nella fattispecie de qua è stato espressamente richiamato.
---------------
Non può determinare l’annullamento dell’ordine di
demolizione la mancata indicazione dell’area da acquisire in
caso di inottemperanza allo stesso ordine.
L’indicazione dell’area costituisce presupposto accertativo
ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura
sanzionatoria rispetto a quella di natura ripristinatoria.
Persiste, infatti, la netta distinzione tra ordinanza di
demolizione e atto di acquisizione, preceduto, quest’ultimo,
dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a
demolire.
---------------
1. Il ricorso è infondato.
2. Con l’unica censura di ricorso si assume l’illegittimità
dell’ordinanza impugnata, in quanto non sarebbero state
indicate, se non genericamente, le norme asseritamente
violate dai ricorrenti e la tipologia di abuso commesso,
oltre alla mancata indicazione dell’area che verrebbe
acquisita di diritto al Comune e all’omessa attivazione del
procedimento previsto dal Regolamento edilizio con riguardo
alle opere soggette a vincolo paesaggistico.
2.1. La doglianza è infondata.
L’ordinanza di demolizione è stata motivata con l’avvenuto
accertamento della realizzazione, in assenza di un permesso
di costruire e di autorizzazione paesistica, di un manufatto
consistente in una struttura baraccale avente superficie
pari a 46,00 mq; il carattere del tutto vincolato
dell’ordine di demolizione, da adottare a seguito della sola
verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una
particolare motivazione né con riguardo all’interesse
pubblico sotteso a tale determinazione e all’ipotetico
interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera
edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle
norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse
emerga la natura e la consistenza dell’abuso (cfr. TAR
Lombardia, Milano, II, 31.01.2018, n. 267).
Del resto, laddove sia accertato un abuso edilizio, deve
essere motivato il ricorso alla sanzione alternativa
pecuniaria e non anche l’adozione dell’ordine
ripristinatorio, ex art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, che
nella fattispecie de qua è stato espressamente
richiamato (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Ad.
plen., 17.10.2017, n. 9; TAR Lombardia, Milano, II,
25.05.2017, n. 1170; TAR Sicilia, Palermo, II, 10.01.2017,
n. 71; TAR Campania, Napoli, VIII, 04.09.2015, n. 4289).
Nemmeno appare sussistente la dedotta violazione dell’art.
38 del Regolamento edilizio, discendente dal mancato
coinvolgimento delle competenti commissioni comunali in
materia di paesaggio, atteso che il predetto procedimento si
riferisce soltanto alla fase successiva alla mancata
esecuzione del provvedimento sanzionatorio da parte
dell’obbligato e non anche alla fase preliminare
all’adozione dello stesso, come emerge dai commi quarto e
seguenti della citata disposizione (cfr. all. 2 al ricorso).
2.2. Infine, non può determinare l’annullamento dell’ordine
di demolizione la mancata indicazione dell’area da acquisire
in caso di inottemperanza allo stesso ordine, in quanto,
come sostenuto da un consolidato orientamento
giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, “l’omessa o
imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di
diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di
illegittimità dell’ordinanza di demolizione. Mentre con il
contenuto dispositivo di quest’ultima si commina, appunto,
la sanzione della demolizione del manufatto abusivo,
l’indicazione dell’area costituisce presupposto accertativo
ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura
sanzionatoria. Persiste infatti la netta distinzione tra
ordinanza di demolizione e atto di acquisizione, preceduto,
quest’ultimo, dall’accertamento dell’inottemperanza
all’ingiunzione a demolire. Quindi, l’individuazione
dell’area da acquisirsi non deve essere necessariamente
contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a
pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere
riportata nel momento in cui si procede all’acquisizione del
bene” (Consiglio di Stato, VI, 05.01.2015, n. 13;
altresì, TAR Lombardia, Milano, II, 18.07.2017, n. 1644).
3. Ciò determina il rigetto della censura e quindi
dell’intero ricorso (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.05.2018 n. 1190 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Qualificazione giuridica dell’intervento e rispetto delle
norme sulle distanze.
La disposizione dell’articolo 9, n. 2,
del D.M. n. 1444 del 1968 riguarda “nuovi edifici”,
intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o
sopraelevazioni di essi) costruiti per la prima volta e non
gli edifici preesistenti, per i quali, in sede di
ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze
diverse.
Secondo il Consiglio di Stato, a sostegno di tale
affermazione va considerato che:
- la disposizione di cui all’articolo 41-quinquies della legge n.
1150 del 1942 impone il rispetto dei c.d. “standard
urbanistici” ai fini della formazione di nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli esistenti, così
significandosi che essi sono previsti dalla norma primaria
per la nuova pianificazione urbanistica e non per
intervenire sull’esistente;
- il discrimen in tema di distanze (con l’introduzione del limite
inderogabile di 10 mt.), nella ratio dell’articolo 9, non è
dato dalla differenza tra zona A e altre zone, quanto tra
costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile
in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente;
d’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di
distanza ad un immobile prodotto dalla ricostruzione di un
altro preesistente, si otterrebbe che, da un lato,
l’immobile de quo non potrebbe essere demolito e ricostruito
se non arretrando rispetto all’allineamento preesistente
(con conseguente possibile perdita di volume e
realizzandosi, quindi, un improprio effetto espropriativo
del d.m. n. 1444/1968) e, dall’altro, che esso non potrebbe
in ogni caso beneficiare della deroga di cui all’ultimo
comma del citato articolo 9, allorquando la demolizione e
ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse
prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo
con dettaglio planovolumetrico
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
Va, infine, considerato che la giurisprudenza di questo
Consiglio (cfr. sez. IV, 14.09.2017, n. 4337) ha avuto modo
di affermare che la disposizione dell’articolo 9 n. 2 del
D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi
per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi) “costruiti
per la prima volta” e non gli edifici preesistenti, per
i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso
prescrivere distanze diverse.
A sostegno di tale affermazione viene, in primo luogo,
richiamata la disposizione di cui all’articolo 41-quinquies
della legge n. 1150 del 1942, che impone il rispetto dei cd.
“standards urbanistici” “ai fini della formazione
di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli
esistenti”, così significandosi che essi sono previsti
dalla norma primaria per la nuova pianificazione urbanistica
e non per intervenire sull’esistente.
Viene, poi, evidenziato che il discrimen in tema di
distanze (con l’introduzione del limite inderogabile di 10
mt.), nella ratio dell’articolo 9, non è dato dalla
differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione
del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A)
e ricostruzione di un immobile preesistente; rilevandosi
che, d’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile
di distanza ad un immobile prodotto dalla ricostruzione di
un altro preesistente, si otterrebbe che, da un lato,
l’immobile de quo non potrebbe essere demolito e
ricostruito se non arretrando rispetto all’allineamento
preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e
realizzandosi, quindi, un improprio effetto espropriativo
del d.m. 1444/1968) e, dall’altro, che esso non
potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui
all’ultimo comma del citato articolo 9, allorquando la
demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo
fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento
urbanistico attuativo con dettaglio planivolumetrico (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.04.2018 n. 2448
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo consolidati principi elaborati dalla
giurisprudenza:
a) in base all'art. 11, comma primo, del t.u.
edilizia, il permesso di costruire è rilasciato al
proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere il rilascio
di un titolo abilitativo edilizio si configura in capo non
solo al proprietario del terreno, ma pure al soggetto
titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo
autorizzi a disporne al riguardo;
b) v'è il contestuale onere della P.A. di accertare con
serietà e rigore siffatta legittimazione a chiedere il
titolo edilizio, dovendo pertanto la P.A. accertare che
l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria;
c) al riguardo, non si sono mai posti dubbi in ordine ai
limiti legali, i quali, trovando applicazione generalizzata,
concorrono a formare lo statuto generale dell'attività
edilizia e non pongono problemi di conoscibilità
all'amministrazione che è tenuta a considerarli sempre;
d) diversamente, per le limitazioni negoziali del diritto di
costruire, la giurisprudenza in passato ha oscillato fra la
soluzione che ne esclude ogni rilevanza, nel presupposto che
all'amministrazione sia inibito qualsiasi sindacato anche
indiretto sulla validità ed efficacia dei rapporti giuridici
dei privati, e quella opposta che, invece, ammette che il
Comune verifichi il rispetto dei limiti privatistici, purché
siano immediatamente conoscibili, effettivamente e
legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di
guisa che il controllo si traduca in una semplice presa
d'atto;
e) la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato,
superando l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel
senso che l'amministrazione, quando venga a conoscenza
dell'esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente
il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini
istruttorie per verificare la fondatezza delle
contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni
squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza
dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il
richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie
attendibili.
---------------
11.1. I motivi sono fondati.
11.2. L’assenza nel caso di specie di opere di
urbanizzazione primaria, individuate nel dettaglio nella
viabilità di accesso alle abitazioni, è stata affermata con
la sentenza della Corte d’Appello di Torino n. 1270/16, con
la quale è stato accertato che non sussiste il titolo per la
costituzione di servitù a carico del Condominio Hermite ed
in favore dei contro interessati per effettuare detto
accesso.
Peraltro, nella medesima pronuncia, è stata anche
statuita l’inesistenza dell’asserita servitù agricola di
passo che i contro interessati allegavano di avere usucapito
(da essi stessi indicata nell’istanza del permesso di
costruire dell’08.04.2010 e nella integrazione del 13.04.2010) e su cui il Comune ha fondato il rilascio del
titolo edilizio impugnato.
Il Collegio condivide e fa propri, anche in considerazione
della assenza di allegazioni e deduzioni di segno contrario,
gli accertamenti effettuati dalla menzionata sentenza e le
argomentazioni spese a sostegno del relativo dictum.
11.2.1. In ogni caso, sul punto, si rinvia ai consolidati
principi elaborati dalla giurisprudenza (cfr. da ultimo
Cons. Stato, sez. IV, 19.12.2016, n. 5363; id., sez. IV, 23.05.2016, n. 2116; id., sez. IV,
07.09.2016,
n. 3823; id., sez. IV, 25.09.2014, n. 4818; id., sez.
V, 08.11.2011, n. 5894, cui si rinvia a mente dell’art.
88, co. 2, lett. d), c.p.a.), secondo cui:
a) premesso che, in base all'art. 11, comma primo, del t.u.
edilizia, il permesso di costruire è rilasciato al
proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere il rilascio
di un titolo abilitativo edilizio si configura in capo non
solo al proprietario del terreno, ma pure al soggetto
titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo
autorizzi a disporne al riguardo (cfr. Cons. St., sez. VI,
15.07.2010, n. 4557; id., sez. IV, 02.09.2011, n.
4968);
b) v'è il contestuale onere della P.A. di accertare con
serietà e rigore siffatta legittimazione a chiedere il
titolo edilizio (arg. ex Cons. Stato, sez. IV, 07.09.2016, n. 3823), dovendo pertanto la P.A. accertare che
l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria (cfr. Cons. Stato, sez. V, 04.04.2012, n.
1990);
c) al riguardo, non si sono mai posti dubbi in ordine ai
limiti legali, i quali, trovando applicazione generalizzata,
concorrono a formare lo statuto generale dell'attività
edilizia e non pongono problemi di conoscibilità
all'amministrazione che è tenuta a considerarli sempre;
d) diversamente, per le limitazioni negoziali del diritto di
costruire, la giurisprudenza in passato ha oscillato fra la
soluzione che ne esclude ogni rilevanza, nel presupposto che
all'amministrazione sia inibito qualsiasi sindacato anche
indiretto sulla validità ed efficacia dei rapporti giuridici
dei privati (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.12.1993, n.
1341), e quella opposta che, invece, ammette che il Comune
verifichi il rispetto dei limiti privatistici, purché siano
immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente
conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il
controllo si traduca in una semplice presa d'atto (cfr., da
ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2007, n. 1206);
e) la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato,
superando l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel
senso che l'amministrazione, quando venga a conoscenza
dell'esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente
il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini
istruttorie per verificare la fondatezza delle
contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni
squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza
dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il
richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie
attendibili.
11.2.2. Facendo applicazione dei su menzionati principi al
caso di specie, è evidente che il Comune ha omesso anche il
minimo controllo sulla legittimazione dei richiedenti la
concessione edilizia a disporre, in virtù di un titolo
(legale, giudiziale ovvero negoziale), dell’accesso alle
nuove abitazioni, specie a fronte della opposizione
all’intervento costruttivo manifestata in sede
procedimentale dai ricorrenti.
Invero, il condominio, successivamente alla presentazione da
parte degli istanti della relazione intitolata “accertamento
passaggio ai mappali 2163 e 484”, depositava presso il
Comune, in data 23 aprile 2010, osservazioni con cui, da un
lato, veniva smentita la possibilità per i contro
interessati di affermare la sussistenza di un qualunque
titolo legittimante il passaggio sulla proprietà
condominiale, e dall’altro, si chiedeva espressamente il
rigetto della istanza per plurimi motivi di difformità del
progetto rispetto alle normative vigenti.
Ciò nonostante il Comune, senza effettuare ulteriori
approfondimenti istruttori, rilasciava la concessione
edilizia per la costruzione delle tre villette, in
accoglimento della richiesta dei contro interessati.
11.3. A tanto consegue la fondatezza dei motivi di ricorso
e, per l’effetto, l’illegittimità del titolo edilizio,
essendo questo stato adottato in violazione dell’art. 12 del
regolamento edilizio del Comune di La Thuile, che subordina
il rilascio delle concessioni edilizie all’esistenza delle
opere di urbanizzazione primaria, tra cui le “strade
residenziali veicolari” previste dagli artt. 18 e 22 R.E. e
dall’art. 3.1.4., lett. b), delle n.t.a. del p.r.g..
Nella specie risulta, infatti, del tutto assente una strada
di accesso ai terreni di proprietà dei signori Ra.,
Ba. Ce. e Ce., non potendo gli stessi vantare alcun titolo
sull’area di passaggio esistente, che consenta loro di
averne la disponibilità. È invero del tutto pacifico che i
medesimi non sono titolari dell’area in questione e, a
seguito delle statuizioni risultanti dal giudizio civile (a
quanto pare ancora in corso), che non godono di alcun
diritto di servitù prediale su di essa
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.04.2018 n. 2397 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Costituisce ius receptum che:
a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta
interpretazione i casi in cui il p.r.g. (o lo strumento
urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso
di costruire diretto, senza previa approvazione dello
strumento attuativo;
b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata,
la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei
casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una
pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura
incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto
residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata),
ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una
edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una
situazione che esige un intervento idoneo a restituire
efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex
novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad
esempio, completando il sistema della viabilità secondaria
nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per
garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e
servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento
con le zone contigue, già asservite all'edificazione);
c) l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale
presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si
impone anche al fine di un armonico raccordo con il
preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare
le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche
alla più limitata funzione di armonizzare aree già
compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria
pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto
intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e
urbanizzata.
---------------
13. Con il sesto motivo di ricorso si censura
l’illegittimità del titolo edilizio, a causa della mancanza,
nel caso di specie, di un piano urbanistico di dettaglio
(c.d. p.u.d.), la cui adozione sarebbe obbligatoria in
ragione delle previsioni di cui all’art. 2.3.0., all’art.
3.1.4., lett. b), punto 1 ed all’art. 6.2.0. delle n.t.a.
del p.r.g..
13.1. Il motivo è fondato.
13.2. Occorre in primo luogo delineare il contesto dei
principi e delle norme all’interno del quale il comune si è
trovato ad operare.
Costituisce ius receptum (cfr., ex plurimis e da ultimo,
Cons. Stato, sez. IV, 08.02.2018, n. 825; sez. IV, 13.04.2016, n. 1434; sez. IV,
04.07.2017, n. 3256; sez. IV, 17.07.2013, n. 3880; sez. IV, 21.08.2013, n.
4200; sez. V, 29.02.2012, n. 1177) che:
a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta
interpretazione i casi in cui il p.r.g. (o lo strumento
urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso
di costruire diretto, senza previa approvazione dello
strumento attuativo;
b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata,
la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei
casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una
pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura
incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto
residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata),
ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una
edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una
situazione che esige un intervento idoneo a restituire
efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex
novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad
esempio, completando il sistema della viabilità secondaria
nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per
garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e
servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento
con le zone contigue, già asservite all'edificazione);
c) l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale
presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si
impone anche al fine di un armonico raccordo con il
preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare
le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche
alla più limitata funzione di armonizzare aree già
compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria
pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto
intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e
urbanizzata.
13.3. Ciò premesso, facendo applicazione dei su esposti
principi al caso di specie, il Collegio rileva l’assenza di
un piano urbanistico di dettaglio (c.d. p.u.d.), emergendo
pertanto che il Comune, in maniera illegittima, provvedeva
al rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa
approvazione dello strumento attuativo.
14. Risulta infine infondata l’ultima censura del ricorso,
non ravvisandosi nel caso di specie i presupposti per
integrare la dedotta violazione dell’art. 10-bis, l. n.
241/1990.
Invero, come condivisibilmente sostenuto dal Tar, le
osservazioni, asseritamente non considerate
dall’amministrazione comunale, venivano rese dai ricorrenti,
intervenuti come controinteressati nel procedimento di
rilascio del titolo, con finalità meramente collaborativa,
pertanto al di fuori del campo di applicazione dell’art.
10-bis, l. n. 241/1990.
D’altro canto, non è dato rilevarsi nel caso di specie, non
emergendo alcun elemento confortante al riguardo, una omessa
valutazione di tali memorie da parte dell’amministrazione ai
fini dell’adozione del provvedimento conclusivo, in
violazione dell’art. 10 l. 241/1990.
15. Alla luce delle sopra esposte considerazioni, l’appello
è meritevole di accoglimento nei limiti di quanto affermato
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.04.2018 n. 2397 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Conferenza di
servizi e tutela del paesaggio - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE -
Meccanismo previsto dal c. 3 dell'art. 14-quater L. n.
241/1990 e ss.mm. - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA -
Interventi eseguiti in base a permesso annullato - Art. 38
d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In caso di dissenso espresso da un'amministrazione preposta
alla tutela di un interesse sensibile, nel novero dei quali
si colloca quello paesaggistico, il meccanismo previsto dal
3° comma dell'art. 14-quater della L. n. 241/1990 impedisce
alla conferenza di servizi di procedere ulteriormente e
rende doverosa, ove l'amministrazione procedente intenda
perseguire il superamento del dissenso, la rimessione della
decisione al Consiglio dei ministri.
Sicché, la legge in attuazione dei principi costituzionali
compendiati nell'art. 120 Cost. (che prevede, tra l'altro,
l'intervento sostitutivo del Governo "quando lo
richiedono la tutela dell'unità giuridica o dell'unità
economica" della Repubblica), al cospetto del
presupposto rappresentato dal "motivato dissenso" di
un'amministrazione preposta alla tutela degli interessi
sensibili enumerati, attribuisce il potere provvedimentale
alla istanza amministrativa massima della Repubblica nella
sua unità, e cioè al Consiglio dei ministri (Corte di
Cassazione, SS.UU. civili,
sentenza 16.04.2018 n. 9338 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione della istanza di condono
comporta l'obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi
espressamente sulla stessa prima di dare ulteriore corso al
procedimento repressivo, tant'è che, a norma degli artt. 38
e 44, l. n. 47 del 1985, si verifica la sospensione dei
procedimenti amministrativi sanzionatori, con la conseguenza
che “i provvedimenti repressivi adottati in pendenza di
istanza di condono sono illegittimi perché in contrasto con
l'art. 38, l. n. 47 del 1985, il cui disposto impone
all'Amministrazione di astenersi, sino alla definizione del
procedimento attivato per il rilascio della concessione in
sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe
a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria”.
La presentazione di una domanda di condono edilizio, proprio
in base al disposto dell'art. 38, l. n. 47 del 1985,
determina la conseguenza che l'Amministrazione non può
emettere un provvedimento sanzionatorio “senza aver prima
definito il procedimento scaturante dall'istanza di
sanatoria, ostandovi i principi di lealtà, coerenza,
efficienza ed economicità dell'azione amministrativa, i
quali impongono la previa definizione del procedimento di
condono prima di assumere iniziative potenzialmente
pregiudizievoli per lo stesso esito della sanatoria
edilizia".
Il principio esposto trova applicazione anche quando, come
nel caso di specie, gli immobili per i quali è chiesto il
condono ricadano in zona vincolata, essendo comunque
l'Amministrazione tenuta, a fronte della domanda, ad
esprimersi anche in senso negativo circa la sussistenza dei
presupposti per la sanabilità dell'intervento e ad essa il
giudice non può in ogni caso sostituirsi, nemmeno per una
valutazione in via incidentale della eventuale condonabilità
delle opere di cui si tratta.
---------------
Il ricorso è fondato e, pertanto, deve essere accolto.
A seguito della disposta istruttoria è emerso che il Comune
non è in grado di stabilire l’esatto contenuto delle domande
di condono presentate: 1) in data 01.03.1995 al prot. 5924
dal suocero della ricorrente Gi.Ca. ai sensi della legge n.
724/1994; 2) in data 31.03.2004 al prot. n. 8062 e n. 8063 e
in data 10.12.2004 al prot. n. 28546 dal coniuge deceduto
della ricorrente ai sensi della legge n. 326/2003.
In particolare, secondo quanto riferisce il Comune la
carente documentazione allegata alle domande non
consentirebbe “una esatta individuazione delle opere
oggetto delle stesse”. Per tale ragione con la nota del
21.07.2017 l’amministrazione ha assegnato alla ricorrente un
termine di 90 gg. per integrare le domande.
Come esposto in fatto la Sezione nel prendere atto di quanto
comunicato all’esito della disposta istruttoria, ha
sollecitato il Comune a definire con sollecitudine le
domande di condono con provvedimento di accoglimento o (ad
es. se incomplete) di rigetto.
Non avendo allo stato ancora provveduto ad esitare le
domande di condono deve ritenersi fondata e assorbente la
censura con cui la ricorrente lamenta che le opere
contestate sono quasi tutte ricomprese nelle domande di
condono presentate nel 1995 e nel 2004 e che, pertanto, non
risultando queste ancora definite, l’Ente intimato non
poteva dare luogo a misure sanzionatorie.
Infatti, la presentazione della istanza di condono comporta
l'obbligo, nella specie non assolto, per l'Amministrazione
di pronunciarsi espressamente sulla stessa prima di dare
ulteriore corso al procedimento repressivo, tant'è che, a
norma degli artt. 38 e 44, l. n. 47 del 1985, si verifica la
sospensione dei procedimenti amministrativi sanzionatori,
con la conseguenza che “i provvedimenti repressivi
adottati in pendenza di istanza di condono sono illegittimi
perché in contrasto con l'art. 38, l. n. 47 del 1985, il cui
disposto impone all'Amministrazione di astenersi, sino alla
definizione del procedimento attivato per il rilascio della
concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che
vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo
in sanatoria” (ex multis, TAR Campania–Napoli,
Sez. VI, 02.05.2012, n. 2005, 22.02.2013, n. 1038).
La presentazione di una domanda di condono edilizio, proprio
in base al disposto dell'art. 38, l. n. 47 del 1985,
determina la conseguenza che l'Amministrazione non può
emettere un provvedimento sanzionatorio “senza aver prima
definito il procedimento scaturante dall'istanza di
sanatoria, ostandovi i principi di lealtà, coerenza,
efficienza ed economicità dell'azione amministrativa, i
quali impongono la previa definizione del procedimento di
condono prima di assumere iniziative potenzialmente
pregiudizievoli per lo stesso esito della sanatoria edilizia"
(TAR Lazio-Roma sez. I, 04.04.2012 n. 3101).
Il principio esposto trova applicazione anche quando, come
nel caso di specie, gli immobili per i quali è chiesto il
condono ricadano in zona vincolata, essendo comunque
l'Amministrazione tenuta, a fronte della domanda, ad
esprimersi anche in senso negativo circa la sussistenza dei
presupposti per la sanabilità dell'intervento (TAR
Campania–Napoli, Sez. III, 01.02.2011, n. 633) e ad essa il
giudice non può in ogni caso sostituirsi, nemmeno per una
valutazione in via incidentale della eventuale condonabilità
delle opere di cui si tratta (Consiglio Stato sez. IV,
04.11.2005, n. 5273; sez. IV, 03.05.2005, n. 2137).
Ciò chiarito, occorre quindi rilevare che in esito al
disposto incombente istruttorio al fine di eliminare, in
fatto, oggi dubbio sulla riconducibilità delle opere di cui
all’ordinanza di demolizione alle domande di condono
pendenti, il Comune di Forio afferma di non essere in grado
di stabilirne l’esatto contenuto.
In particolare, dalla nota del Comune risulta chiaro che le
opere di cui al condono e quelle di cui all’ordinanza di
demolizione sono in parte coincidenti (e non vi sono
sufficienti elementi per stabilire cosa non vi rientra) e
che le domande di condono presentate non sono state, del
tutto inspiegabilmente, ancora esitate (eventualmente con
provvedimento di rigetto, ove incomplete), risultando non
concluso con provvedimento espresso il relativo
procedimento, dovendosi, quindi ribadire, l’assunto innanzi
esposto in ordine alla fondatezza del ricorso siccome
rivolto avverso ordinanza di demolizione che, risulta, per
le viste ragioni, illegittima.
La fondatezza della scrutinata censura relativa alla
perdurante e non più tollerabile pendenza dei procedimenti
di condono, ancora non formalmente definiti dal Comune,
impone, quindi, di accogliere il ricorso prescindendo dalla
disamina degli ulteriori motivi che, pertanto, possono
dichiararsi assorbiti.
Per l’effetto, il provvedimento impugnato va annullato,
fatti salvi gli ulteriori e doverosi provvedimenti che
l’Amministrazione è chiamata sollecitamente ad assumere e,
in particolare, quelli relativi alla definizione delle
istanze di condono e, ove all’esito dovuti, i conseguenti
atti sanzionatori (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 13.04.2018 n. 2456 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vincolo paesaggistico del regolamento edilizio comunale: i
diritti del proprietario danneggiato dal vicino.
Cassazione: il proprietario può
convenire il vicino davanti al giudice ordinario per il
risarcimento e, se si tratta d'inosservanza di norma sulle
distanze tra costruzioni, anche per il ripristino.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con l'ordinanza
06.04.2018 n. 8532, ha precisato che “a differenza
dei vincoli imposti con singoli provvedimenti discrezionali
dalla pubblica amministrazione a tutela delle bellezze
naturali ai sensi della legge n 1497 del 1939 (alla cui
osservanza non possono configurarsi posizioni soggettive
azionabili davanti al giudice ordinario), i vincoli imposti
dai regolamenti edilizi comunali a tutela del paesaggio,
stante la natura normativa dei regolamenti stessi ed alla
duplice direzione della loro tutela (dell'interesse pubblico
e di interessi privati), possono ingenerare diritti
soggettivi a favore del proprietario del bene avvantaggiato
dalla imposizione del vincolo”.
Pertanto, esso proprietario può, "se danneggiato dalla
violazione del vincolo da parte del vicino", convenire
quest'ultimo davanti al giudice ordinario per il
risarcimento e, se trattisi d'inosservanza di norma sulle
distanze tra costruzioni (norma, come tale, integrativa del
codice civile), anche per il ripristino (Sez. 2, Sentenza n.
3704 del 05/11/1975) (commento tratto da
www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la
violazione dell'art.
115 c.p.c., in relazione all'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.,
per non aver
la corte di merito considerato che in nessun atto del
giudizio era
stata contestata la circostanza che la costruzione
realizzata dal
Fa. fosse ubicata in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico.
2.1. Il motivo è inammissibile.
In primo luogo, occorre qui richiamare, al fine di porre in
rilievo la
irrilevanza della censura, quanto già evidenziato nel § 1.1.
Va aggiunto che, a differenza dei vincoli imposti con
singoli
provvedimenti discrezionali dalla pubblica amministrazione a
tutela
delle bellezze naturali ai sensi della legge n 1497 del 1939
(alla cui
osservanza non possono configurarsi posizioni soggettive
azionabili
davanti al giudice ordinario), i vincoli imposti dai
regolamenti edilizi
comunali a tutela del paesaggio, stante la natura normativa
dei
regolamenti stessi ed alla duplice direzione della loro
tutela
(dell'interesse pubblico e di interessi privati), possono
ingenerare
diritti soggettivi a favore del proprietario del bene
avvantaggiato
dalla imposizione del vincolo. Esso proprietario può,
pertanto, "se
danneggiato dalla violazione del vincolo da parte del
vicino",
convenire quest'ultimo davanti al giudice ordinario per il
risarcimento e, se trattisi d'inosservanza di norma sulle
distanze tra
costruzioni (norma, come tale, integrativa del codice
civile), anche
per il ripristino (Sez. 2, Sentenza n. 3704 del 05/11/1975).
In secondo luogo, la violazione dell'art. 115 c.p.c. può
essere
ipotizzata come vizio di legittimità solo denunciando che il
giudice
abbia deciso la causa sulla base di prove non introdotte
dalle parti,
ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi
riconosciutigli,
(Cass. Sez. 3, 10/06/2016, n. 11892).
Viceversa, in tema di valutazione delle risultanze
probatorie in base
al principio del libero convincimento del giudice, la
violazione
dell'art. 115 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per
cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui
all'art. 360, primo comma,
numero 5), c.p.c., e deve emergere direttamente dalla
lettura della
sentenza, non già dal riesame degli atti di causa,
inammissibile in
sede di legittimità (Sez. 1, Sentenza n. 14267 del
20/06/2006;
conf. Sez. 2, Sentenza n. 24434 del 30/11/2016).
D'altra parte, le NTA del PRG contenenti un divieto assoluto
di
costruzione, integrando il codice civile, devono, per il
principio iura
novit curia, essere conosciute dal giudice d'ufficio.
In terzo luogo, in violazione del principio di
autosufficienza, il
ricorrente ha omesso di trascrivere, almeno nei loro
passaggi
salienti, sia l'atto di citazione introduttivo del giudizio,
nel quale, a
suo dire, egli avrebbe espressamente dedotto l'avvenuta
violazione, da parte del convenuto, del vincolo
paesaggistico ex l.
1497/1939, sia, soprattutto, la comparsa di costituzione di
controparte, dalla quale si sarebbe dovuto desumere la
mancata
contestazione dell'esistenza del detto vincolo.
Senza tralasciare che l'art. 13, lett. a), delle NTA del PRG
del
Comune di Comacchio non prevedeva (e non prevede tuttora),
nella formulazione applicabile ratione temporis alla
fattispecie in
esame (prima delle modifiche introdotte con delibera del CC
n. 13
del 26.03.2015), un divieto assoluto di edificabilità nelle
zone
sottoposte a vincolo paesaggistico, limitandosi a definire
gli
interventi urbanistici come quegli interventi che comportano
cambiamenti dello stato di diritto dei suoli, con eventuali
modifiche
agli usi alle funzioni e allo stato fisico degli immobili,
comprendendo negli stessi quelli di Nuova Urbanizzazione e
quelli
di Ristrutturazione Urbanistica. |
INCARICHI PROGETTUALI:
Prestazione senza iscrizione all'Albo: corrispettivo
inesigibile per nullità assoluta del contratto. Cassazione:
il professionista non iscritto all'albo non ha alcuna azione
per il pagamento della retribuzione.
L'esecuzione di una prestazione d'opera
professionale di natura intellettuale effettuata da chi non
sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge dà
luogo, ai sensi degli artt. 1418 e 2231 cod. civ., a nullità
assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando
il contratto di qualsiasi effetto, con la conseguenza che il
professionista non iscritto all'albo non ha alcuna azione
per il pagamento della retribuzione, sempreché la
prestazione espletata dal professionista rientri in quelle
attività che sono riservate in via esclusiva a una
determinata categoria professionale, essendo l'esercizio
della professione subordinato per legge all'iscrizione in
apposito albo o ad abilitazione.
---------------
Considerato che:
- con il primo motivo il ricorrente denunzia violazione
degli artt. 16 e 17 del r.d. 11.02.1929, n. 274 e dell'art.
2231 cod. civ.; assume che nel ritenere che l'attività da
lui svolta fosse riservata ai geometri iscritti all'albo la
corte d'appello avrebbe ignorato l'ormai consolidato
indirizzo della giurisprudenza costituzionale e di
legittimità secondo cui, in assenza di un'esplicita riserva
in favore dei soggetti iscritti agli albi, per tutte le
altre attività vige il principio generale di libertà di
lavoro autonomo, ed osserva che le prestazioni effettuate
nella specie ben potevano essere svolte da un diplomato
disegnatore, poiché il successivo art. 17 del richiamato
r.d. prevedeva che le attività elencate ai fini della
delimitazione della professione di geometra non
pregiudicassero quanto può formare oggetto dell'attività di
altre professioni, come del resto confermato in giudizio dal
presidente del collegio dei geometri di Cremona, sentito
come teste;
- con il secondo motivo il ricorrente denunzia violazione
degli artt. 1418 e 2231 cod. civ.; lamenta che erroneamente
la corte avrebbe ritenuto valido il contratto, escludendo il
suo diritto a ritenere l'importo già versato solo per
mancata proposizione della relativa domanda, e ciò in quanto
"tale statuizione ove non impugnata esporrebbe il
difensore a responsabilità professionale per non aver
censurato la sentenza di primo grado sullo specifico punto";
- il ricorso è infondato, essendo conforme a diritto il dispositivo
della sentenza impugnata, quantunque da emendare nella
motivazione;
- questa Corte ha infatti più volte affermato il principio secondo
cui l'esecuzione
di una prestazione d'opera professionale di natura
intellettuale effettuata da chi non sia iscritto
nell'apposito albo previsto dalla legge dà luogo, ai sensi
degli artt. 1418 e 2231 cod. civ., a nullità assoluta del
rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto
di qualsiasi effetto, con la conseguenza che il
professionista non iscritto all'albo non ha alcuna azione
per il pagamento della retribuzione, sempreché la
prestazione espletata dal professionista rientri in quelle
attività che sono riservate in via esclusiva a una
determinata categoria professionale, essendo l'esercizio
della professione subordinato per legge all'iscrizione in
apposito albo o ad abilitazione
(v. Cass. n. 6402 del 2011; Cass. n. 14085 del 2010; Cass.
n. 8543 del 2009);
- così corretta nella motivazione, e dunque ricondotta
l'inesigibilità del corrispettivo alla nullità assoluta del
contratto, la sentenza impugnata ha per il resto fatto buon
governo degli stessi principi richiamati dal ricorrente
laddove ha ritenuto sussistente, nella specie, un'attività
riservata in via esclusiva alla categoria professionale dei
geometri;
- il richiamato art. 16 del r.d. 11.02.1927 n. 274, infatti,
circoscrive espressamente "l'oggetto ed i limiti
dell'esercizio professionale di geometra", nel cui
ambito vanno fatti rientrare i rilievi topografici
commissionati al Ba.; il successivo art. 17 ha poi la
funzione di consentire lo svolgimento di tali attività anche
ad altre categorie professionali -tant'è che esso viene
integrato dal richiamo a quanto disposto dagli artt. 18-24,
che precisano i termini in cui alcune delle attività di
pertinenza dei geometri vanno ritenute comuni ad ingegneri
civili, architetti, periti agrari e dottori in scienze
agrarie- ma non di consentire che tali attività vengano
indistintamente svolte da altri imprecisati esperti del
settore;
- ritenuto pertanto il ricorso meritevole di rigetto, con conforme
statuizione sulle spese; ritenuta altresì la sussistenza dei
presupposti di cui all'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R.
n. 115 del 2002 (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 04.04.2018 n. 8234). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso in cui il condono edilizio sia stata
ottenuto dall'interessato in base ad una falsa o comunque
erronea rappresentazione della realtà materiale, è
consentito alla P.A. esercitare il proprio potere di
autotutela ritirando l'atto stesso, senza necessità di
esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse,
che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa.
Quando, infatti, il privato istante ha ottenuto il permesso
di costruire inducendo in errore l'Amministrazione
attraverso una falsa rappresentazione della realtà, la
discrezionalità della P.A. in subiecta materia si azzera
vanificando sia l'interesse del destinatario del
provvedimento ampliativo da annullare, sia il tempo
trascorso.
---------------
Per quanto riguarda l’assenza di una motivazione pubblica
prevalente per l’esercizio del potere di autotutela, il
Collegio rileva come il provvedimento gravato afferma,
seppure in termini generici, l’esistenza di un interesse
pubblico all’annullamento ma soprattutto evidenzia come il
rilascio del permesso di costruire sia stato reso possibile
dalle dichiarazioni non veritiere del privato rispetto alla
data di ultimazione delle opere, con conseguente
insussistenza di qualsiasi legittimo affidamento.
Al riguardo, il Collegio evidenzia come, secondo
giurisprudenza, nel caso in cui il condono edilizio sia
stata ottenuto dall'interessato in base ad una falsa o
comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è
consentito alla P.A. esercitare il proprio potere di
autotutela ritirando l'atto stesso, senza necessità di
esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse,
che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re
ipsa. Quando, infatti, il privato istante ha ottenuto il
permesso di costruire inducendo in errore l'Amministrazione
attraverso una falsa rappresentazione della realtà, la
discrezionalità della P.A. in subiecta materia si
azzera vanificando sia l'interesse del destinatario del
provvedimento ampliativo da annullare, sia il tempo
trascorso (Cons. Stato Sez. IV, 14.12.2016, n. 5262; Cons.
Stato, sez. IV, 08.01.2013, n. 39; TAR Puglia, Lecce, sez.
I, 04.04.2006, n. 1831).
Per completezza il Collegio rileva come neanche poteva
operare in senso ostativo il requisito del termine
ragionevole entro il quale la P.A. deve esercitare il
diritto di autotutela, non essendo trascorsi nemmeno due
anni dal rilascio del titolo e non operando, ratione
temporis, il termine massimo di diciotto mesi introdotto
solo con la legge 07.08.2015, n. 124 (TAR Campania-Napoli,
Sez. VIII,
sentenza non definitiva 04.04.2018 n. 2194 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
funzione dà diritto all’indennità.
Pubblico impiego. L’assenza del provvedimento formale non fa venir meno il
diritto alla retribuzione aggiuntiva.
È sufficiente aver ricoperto di fatto la posizione organizzativa.
Se un dipendente del settore pubblico occupa una posizione organizzativa, ha
diritto a ricevere la relativa indennità aggiuntiva. Questo anche nel caso
in cui manchi o sia illegittimo il provvedimento con cui il lavoratore viene
destinato alla posizione, perché il venir meno dell’atto formale non esclude
il diritto a percepire l’intero trattamento economico, inclusa la parte
accessoria, corrispondente alle mansioni svolte.
Questi i due principi di diritto espressi dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella
sentenza
03.04.2018 n. 8141, relativa a un contenzioso che ha visto opposti l’Inps e
un suo dipendente. Quest’ultimo ha ricoperto, di fatto, una posizione
organizzativa per due anni e ha chiesto il riconoscimento della relativa
retribuzione e indennità.
La Corte d’appello ha stabilito la fondatezza
della richiesta di ricevere la differenza retributiva tra il suo profilo di
inquadramento e quella prevista per la posizione organizzativa, ma non anche
la relativa indennità perché il diritto a quest’ultima presuppone il
conferimento dell’incarico, non essendo sufficiente aver svolto l’attività
di fatto.
La Cassazione è di diverso avviso. Richiamando pronunce precedenti, ricorda
che per il diritto all’indennità innanzitutto è necessario che la posizione
organizzativa sia istituita all’interno dell’organizzazione, situazione che
nel caso specifico si è verificata.
A fronte di ciò, se il dipendente svolge le mansioni di una posizione
organizzativa, «la mancanza o l’illegittimità del provvedimento formale di
attribuzione non esclude il diritto a percepire l’intero trattamento
economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate, ivi compreso
quello di carattere accessorio, che è comunque diretto a commisurare
l’entità della retribuzione alla qualità della prestazione resa». In questo
i giudici di Cassazione vedono un ’analogia con la situazione di chi svolge
mansioni dirigenziali a cui spetta la relativa retribuzione pur in assenza
di atti formali, a fronte dell’impegno richiesto, della rilevanza e alla
natura dell’incarico.
Anche nel settore pubblico si applica l’articolo 36 della Costituzione, per
cui il dipendente ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità
e alla qualità del lavoro prestato. Ciò vale anche nell’ipotesi di mansioni
superiori, tranne i casi in cui ciò avvenga a insaputa o contro la volontà
del datore di lavoro, per collusione fraudolenta tra dipendente e dirigente,
o per violazione di principi basilari pubblicistici dell’ordinamento.
Quanto alla connessione tra posizione organizzativa e relativa indennità, la
Cassazione rileva che la posizione non va confusa con il profilo
professionale. La prima non modifica il secondo, ma è una funzione a tempo,
e al riguardo lo stesso contratto collettivo degli enti pubblici non
economici prevede che possano essere richiesti compiti di elevata
responsabilità «che comportano l’attribuzione di una specifica indennità di
posizione organizzativa».
Quindi la Corte d’appello, rilevano i giudici, ha errato nel riconoscere al
lavoratore di aver svolto le mansioni della posizione organizzativa ma al
contempo negando il diritto alla relativa indennità
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.04.2018).
---------------
MASSIMA
6. E', invece, fondato il terzo motivo di ricorso.
Occorre premettere che la disciplina contrattuale delle
posizioni organizzative trova fondamento nell'art. 45, comma 3, del d.lgs.
n. 29/1993, nel testo risultante dalle modifiche apportate dal d.lgs. n.
396/1997, con il quale il, legislatore aveva previsto che "per le figure
professionali che, in posizione di elevata responsabilità, svolgono compiti
di direzione.... sono stabilite discipline distinte nell'ambito dei
contratti collettivi di comparto".
La disposizione è stata integralmente trasfusa nell'art. 40 del d.lgs. n.
165/2001 e sulla stessa il legislatore è intervenuto con il d.lgs. n.
150/2009 che ha modificato il terzo comma del richiamato art. 40, prevedendo
che «nell'ambito dei comparti di contrattazione possono essere costituite
apposite sezioni contrattuali per specifiche professionalità».
Per il comparto degli enti pubblici non economici la disciplina delle
posizioni organizzative è stata dettata dagli artt. 17 e 18 del CCNL
16/2/1999 (il cui contenuto è stato poi ripreso dagli artt. 16 e 17 del CCNL
01.10.2007), con i quali le parti collettive, hanno innanzitutto previsto
che «Nell'ambito dell'area C gli enti, sulla base dei propri ordinamenti
ed in relazione alle esigenze di servizio, possono conferire ai dipendenti
ivi inseriti incarichi che, pur rientrando nell'ambito delle funzioni di
appartenenza, richiedano lo svolgimento di compiti di elevata
responsabilità, che comportano l'attribuzione di una specifica indennità di
posizione organizzativa», di ammontare correlato alle disponibilità
finanziare del fondo per i trattamenti accessori e, comunque, compreso fra
un minimo ed un massimo fissati dalla contrattazione nazionale
Il contratto ha, poi, individuato i settori nei quali è possibile
l'istituzione delle posizioni organizzative (art. 17, comma 2, che suddivide
le posizioni in funzioni di direzione di unità organizzativa, caratterizzate
da un elevato grado di autonomia gestionale ed organizzativa; attività- ivi
comprese quelle informatiche- con contenuti di alta professionalità o
richiedenti specializzazioni correlate al possesso di titoli universitari
e/o di adeguati titoli connessi all'esercizio delle relative funzioni;
attività di staff e/o di studio, di ricerca, ispettive, di vigilanza e
controllo, caratterizzate da elevata autonomia ed esperienza); ha
subordinato l'istituzione alla previa ridefinizione delle strutture
organizzative e delle dotazioni organiche, all'attivazione del nucleo di
valutazione ed alla fissazione dei criteri generali e delle procedure per il
conferimento (art. 18, comma 1); ha previsto che quest'ultimo debba avvenire
«con atto scritto e motivato tenendo conto dei requisiti culturali, delle
attitudini e delle capacità professionali dei dipendenti in relazione alle
caratteristiche dei programmi da realizzare» ( art. 18, comma 2); ha
tipizzato i casi nei quali può essere disposta la revoca dell'incarico (art.
18, comma 3) ed infine ha stabilito che quest'ultima «comporta la perdita
della indennità di posizione e la riassegnazione del dipendente alle
funzioni del profilo di appartenenza».
6.1. Questa Corte ha già avuto modo di pronunciare sulla
natura delle posizioni organizzative e sulle condizioni che devono ricorrere
affinché la relativa indennità possa essere rivendicata dal dipendente e,
da un lato, ha evidenziato che condizione imprescindibile perché il
diritto possa venire ad esistenza è l'istituzione delle posizioni stesse, da
effettuare all'esito delle procedure previste dalle parti collettive
(per il comparto degli enti pubblici non economici il principio è stato
affermato da Cass. 15.10.2013 n. 23366 e Cass. 18.12.2015 n. 23366);
dall'altro, quanto alla natura dell'istituto, ha rilevato che
«la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo
professionale, che rimane invariato, ne un mutamento di area, ma comporta
soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare
dell'incarico. Si tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus di alta
responsabilità la cui definizione -nell'ambito della classificazione del
personale di ciascun comparto- è demandata dalla legge alla contrattazione
collettiva» (Cass. S.U.
18.06.2008 n. 16540 e Cass. n. 20855/2015 in tema di posizioni organizzative
per il comparto degli enti locali).
6.2. Detti principi, condivisi dal Collegio, orientano anche nella soluzione
del caso che qui viene in rilievo.
Occorre innanzitutto rilevare che la stessa natura della posizione
organizzativa, connessa allo svolgimento di compiti di elevata
responsabilità, induce a disattendere la tesi dell'Istituto, il quale
insiste nel sostenere che, essendo il formale conferimento dell'incarico
condizione imprescindibile per il riconoscimento dell'indennità,
quest'ultima, in caso di assegnazione in via di mero fatto a mansioni
superiori, non potrebbe essere apprezzata ai fini della quantificazione del
differenziale di cui all'art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001.
La prospettazione difensiva è già stata disattesa, in fattispecie non
dissimili da quella oggetto di causa, da questa Corte (Cass. 30.06.2016 n.
13453 e Cass. 04.07.2016 n. 13579 nonché, in relazione al comparto degli
enti di cui all'art. 70 del d.lgs. n. 165/2001, da Cass. 25.10.2016 n. 21524
e Cass. 04.11.2016 n. 22470) che, richiamati i principi affermati dalle
Sezioni Unite con le sentenze n. 25837 dell'11.12.2007 e n. 3814 del
16.02.2011, ha evidenziato che, ove il dipendente venga
chiamato a svolgere le mansioni proprie di una posizione organizzativa,
previamente istituita dall'ente, e ne assuma tutte le connesse
responsabilità, la mancanza o l'illegittimità del provvedimento formale di
attribuzione non esclude il diritto a percepire l'intero trattamento
economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate, ivi compreso
quello di carattere accessorio, che è comunque diretto a commisurare
l'entità della retribuzione alla qualità della prestazione resa.
A detto orientamento il Collegio intende dare continuità, posto che
sul piano dei principi la fattispecie non è dissimile da quella
nella quale viene in rilievo l'assegnazione di fatto a mansioni
dirigenziali, in relazione alla quale si è ritenuta spettante la
retribuzione di posizione, anche in assenza di atti formali, in quanto
collegata «al livello di responsabilità conseguente alla natura
dell'incarico, all'impegno richiesto, al grado di rilevanza, alla
collocazione istituzionale dell'ufficio»
(Cass. 10.6.2014 n. 13062 che richiama in motivazione la citata Cass. S.U.
n. 3814/2011), dati, questi, che non possono non rilevare
ai fini del giudizio di proporzionalità di cui all'art. 36 cost., del quale
l'art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 costituisce attuazione.
6.3. La portata applicativa del principio non può essere
limitata al solo caso in cui le mansioni superiori vengano svolte in
esecuzione di un provvedimento di assegnazione, ancorché nullo.
Questa Corte (cfr. Cass. n. 22470/2016, che richiama Cass. S.U. 11.12 2007
n. 25837), sulla base dei principi espressi dalla Corte Costituzionale, ha
rilevato come l'obbligo di integrare il trattamento
economico del dipendente nella misura della qualità del lavoro
effettivamente prestato prescinda dalla eventuale irregolarità dell'atto o
dall'assegnazione formale a mansioni superiori e come il mantenere, da parte
della pubblica amministrazione, l'impiegato a mansioni superiori, oltre i
limiti prefissati per legge, determini una mera illegalità, che però non
priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto -ai sensi
dell'art. 2126 c.c. e, tramite detta disposizione, dell'art. 36 Cost.-
perché non può ravvisarsi nella violazione della mera legalità quella
illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto "con norme fondamentali
e generali e con i principi basilari pubblicistici dell'ordinamento", e
che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di
ogni tutela del lavoratore (Corte
Cost. 19.06.1990 n. 296 attinente ad una fattispecie riguardante il
trattamento economico del personale del servizio sanitario nazionale in
ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del disposto del
D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2).
La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato
l'applicabilità anche al pubblico impiego dell'art. 36 Cost. nella parte in
cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata
alla quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale
riconoscimento, a norma dell'art. 2126 c.c., l'eventuale illegittimità del
provvedimento di assegnazione del dipendente a mansioni superiori rispetto a
quelle della qualifica di appartenenza
(cfr. Corte Cost. sent n. 57/1989, n. 296/1990, n. 236/1992, n. 101/1995, n.
115/2003, n. 229/2003).
Le uniche ipotesi in cui può essere disconosciuto il
diritto alla retribuzione superiore devono essere circoscritte ai casi in
cui l'espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all'insaputa o contro
la volontà dell'ente (invito o proibente domino) oppure allorquando sia il
frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente
(cfr. Cass. n. 27887 del 2099), o, infine, qualora la
prestazione sia stata resa in violazione di principi basilari pubblicistici
dell'ordinamento (Cass. 29.11.2016
n. 24266), ma dette ipotesi pacificamente qui non ricorrono, perché neppure
allegate dalla difesa dell'INPS.
6.4. Ciò premesso occorre ancora evidenziare che la
posizione organizzativa risponde all'esigenza di tener conto in modo
adeguato della differenziazione delle attività, che indubbiamente sussiste
anche in un sistema fondato sui principi della flessibilità e della
equivalenza, sotto il profilo professionale, delle mansioni ricomprese nel
medesimo livello di inquadramento.
Nell'ambito dell'organizzazione dell'ente, infatti, determinate funzioni,
pur esprimendo la medesima professionalità che caratterizza l'area di
inquadramento più elevata, rivestono un ruolo strategico e di alta
responsabilità, che giustifica, come per il rapporto di natura dirigenziale,
la sottoposizione alla logica del risultato, l'assoggettamento a valutazione
e, correlativamente, il riconoscimento di un compenso aggiuntivo.
La posizione organizzativa, da non confondere con il
profilo professionale, descrive, dunque, una funzione alla quale si
correlano compiti predeterminati dall'ente, sicché, una volta che la stessa
sia stata istituita e si accerti che il dipendente abbia svolto con pienezza
di poteri le mansioni connesse all'incarico, assumendone la relativa
responsabilità, non è corretto valorizzare quei compiti ai soli fini della
comparazione fra i livelli di inquadramento (quello posseduto dal dipendente
e quello sotteso alla posizione organizzativa), riconoscendo l'esercizio di
fatto delle mansioni superiori, ma escludendo al tempo stesso il
conferimento, sempre in via di fatto, della posizione in discussione.
In altri termini, ove il giudizio trifasico venga compiuto
comparando le mansioni di fatto accertate, non con la declaratoria generale
dell'area e dei livelli, bensì con i compiti e le responsabilità della
posizione organizzativa istituita dall'ente, l'esito della comparazione, se
favorevole per il lavoratore, dovrà portare a riconoscere il diritto del
lavoratore a percepire il differenziale economico che tenga conto, oltre che
del trattamento economico previsto per la superiore area di inquadramento
sottesa alla posizione, anche dell'indennità stabilita dalle parti
collettive in relazione all'espletamento dello specifico incarico.
6.5. La Corte territoriale si è discostata dai principi di diritto sopra
indicati perché, a fronte dell'allegazione dell'attuale ricorrente di avere
svolto di fatto la posizione organizzativa di responsabile team sviluppo
professionale, istituita dall'INPS e per la quale era stata bandita apposita
selezione, da un lato ha ritenuto provato, sulla base della documentazione
prodotta e della non contestazione dell'INPS, lo svolgimento delle mansioni
caratterizzanti l'incarico, dall'altro ha escluso il diritto di Massimo
Berto a percepire la relativa indennità.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio alla Corte di Appello
di Venezia, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame,
provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità, attenendosi ai
principi di diritto di cui ai punti che precedono e di seguito sintetizzati:
a) la posizione organizzativa si distingue dal
profilo professionale e individua nell'ambito dell'organizzazione dell'ente
funzioni strategiche e di alta responsabilità che giustificano il
riconoscimento di un'indennità aggiuntiva;
b) ove il dipendente venga assegnato a svolgere le mansioni proprie
di una posizione organizzativa, previamente istituita dall'ente, e ne assuma
tutte le connesse responsabilità, la mancanza o l'illegittimità del
provvedimento formale di attribuzione non esclude il diritto a percepire
l'intero trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto
espletate, ivi compreso quello di carattere accessorio, che è diretto a
commisurare l'entità della retribuzione alla qualità della prestazione resa. |
EDILIZIA PRIVATA:
L'onere di fornire la prova dell'epoca di
realizzazione di un abuso edilizio e della sua sanabilità
incombe sull'interessato e non sull'Amministrazione, la
quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un
titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di
sanzionarla ai sensi di legge.
Nello specifico, la prova circa l'epoca di realizzazione
delle opere edilizie e la relativa consistenza è nella
disponibilità dell'interessato e non dell'Amministrazione,
dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili
atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado
di radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità
del manufatto.
---------------
4 – Il ricorso è infondato.
4.1 - “L'onere di fornire la prova dell'epoca di
realizzazione di un abuso edilizio e della sua sanabilità
incombe sull'interessato e non sull'Amministrazione, la
quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un
titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di
sanzionarla ai sensi di legge. Nello specifico, la prova
circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e la
relativa consistenza è nella disponibilità dell'interessato
e non dell'Amministrazione, dato che solo l'interessato può
fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi
probatori che siano in grado di radicare la ragionevole
certezza dell'addotta sanabilità del manufatto” (TAR
Campania, Napoli, sez. VI, sent. 17/09/2015 n. 4565) (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 21.03.2018 n. 404 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La valutazione
urbanistica e la correlativa qualificazione giuridica di
interventi edilizi postula una considerazione unitaria degli
stessi onde apprezzarne la rilevanza sotto il profilo
urbanistico e la conseguente loro ascrizione alla relativa
categoria edilizia (manutenzione, restauro e risanamento
conservativo, ristrutturazione, ovvero nuova costruzione) ai
fini dell’individuazione del titolo autorizzatorio al cui
regime sono assoggettati.
Invero, “ai fini della ricognizione del regime giuridico e
della categoria edilizia cui vanno ricondotti, gli abusi
edilizi non possono formare oggetto di una considerazione
atomistica, ma debbono essere apprezzati nel loro complesso
onde stabilire se hanno determinato trasformazione
urbanistico–edilizia del territorio, incremento di carico
urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza.".
Sulla stessa linea esegetica la Sezione aveva già
puntualizzato la necessità di una considerazione unitaria
degli interventi onde valutarne la rilevanza urbanistica e
la conseguente sussumibilità nella relativa categoria
edilizia.
Si è in infatti tal senso sancito che gli abusi in quel caso
esaminati, in una fattispecie analoga a quella che occupa e
avente anzi ad oggetto interventi meno impattanti di una
vera e propria “nuova costruzione” creativa di superficie e
volume (muro di cinta, muro di recinzione con paletti in
ferro, etc.), necessitavano di permesso di costruire sia
isolatamente considerati, “sia valutando, come si deve, gli
interventi nel loro complesso. In tale ultimo caso è ancor
più evidente che le opere complessivamente considerate hanno
determinato trasformazione edilizia ed urbanistica del
territorio ed alterazione dei luoghi, imponendo la previa
acquisizione del titolo edilizio e del presupposto atto di
assenso dell’autorità preposta alla tutela del vincolo
paesaggistico gravante sull’area”.
Giova segnalare che anche la Corte di Cassazione, in ambito
penale, ha enunciato il suesposto principio, avendo
statuito, proprio in materia di pertinenze, che “Un
intervento edilizio deve essere considerato nel suo
complesso e le opere realizzate non possono essere valutate
autonomamente e separatamente come pertinenze”.
In termini generali la Cassazione si era già pronunciata nel
senso, sostenuto dalla Sezione nelle richiamate sentenze e
qui riaffermato, della necessità di una valutazione unitaria
onde individuare il regime giuridico degli abusi edilizi.
---------------
1. Il Collegio ritiene di dover preliminarmente precisare
che non può essere accreditata la prospettiva di indagine
sostenuta dal ricorrente, costituente l’intelaiatura di
tutte le specifiche censure, tranne l’ultima incentrata
sulla dedotta omessa comunicazione di avvio ex art. 7 l. n.
241/1990.
Egli infatti scompone il complesso degli interventi edilizi
contestati e descritti ai punti 1,2 e al capoverso finale
dell’ordinanza indicante la pavimentazione di tutta l’area
di pertinenza del fabbricato, in singole e specifiche opere,
onde sussumere ciascuna di esse in una determinata categoria
edilizia e nel relativo regime formale e sanzionatorio;
quasi che il provvedimento fosse ad oggetto plurimo, là dove
esso, in realtà, ha un unico oggetto, rappresentato
dall’insieme complessivo e coordinato delle opere eseguite
in assenza del previo titolo edilizio corredato del
presupposto e preliminare parere favorevole dell’autorità
preposta alla tutela del vincolo paesaggistico–ambientale
(oltre a quello derivante dalla perimetrazione del Parco
Nazionale del Vesuvio, pure debitamente considerato
nell’ordinanza gravata e a quello dell’autorità preposta
alla salvaguardia del rischio idrogeologico pure gravante
sull’area).
1.1. Va, infatti, ribadito il principio, più volte espresso
dalla Sezione e rinvenuto anche nella giurisprudenza penale
della Corte di Cassazione, secondo il quale la valutazione
urbanistica e la correlativa qualificazione giuridica di
interventi edilizi postula una considerazione unitaria degli
stessi onde apprezzarne la rilevanza sotto il profilo
urbanistico e la conseguente loro ascrizione alla relativa
categoria edilizia (manutenzione, restauro e risanamento
conservativo, ristrutturazione, ovvero nuova costruzione) ai
fini dell’individuazione del titolo autorizzatorio al cui
regime sono assoggettati.
La Sezione ha già evidenziato al riguardo che “ai fini
della ricognizione del regime giuridico e della categoria
edilizia cui vanno ricondotti, gli abusi edilizi non possono
formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono
essere apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno
determinato trasformazione urbanistico–edilizia del
territorio, incremento di carico urbanistico e se hanno o
meno natura di pertinenza” (TAR Campania–Napoli, Sez.
III, 29.05.2017, n. 2851, p. 2.3.).
1.2. Sulla stessa linea esegetica aveva già puntualizzato la
necessità di una considerazione unitaria degli interventi
onde valutarne la rilevanza urbanistica e la conseguente
sussumibilità nella relativa categoria edilizia.
Si è in infatti tal senso sancito che gli abusi in quel caso
esaminati, in una fattispecie analoga a quella che occupa e
avente anzi ad oggetto interventi meno impattanti di una
vera e propria “nuova costruzione” creativa di
superficie e volume (muro di cinta, muro di recinzione con
paletti in ferro, etc.), necessitavano di permesso di
costruire sia isolatamente considerati, “sia valutando,
come si deve, gli interventi nel loro complesso. In tale
ultimo caso è ancor più evidente che le opere
complessivamente considerate hanno determinato
trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio ed
alterazione dei luoghi, imponendo la previa acquisizione del
titolo edilizio e del presupposto atto di assenso
dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico
gravante sull’area” (TAR Campania–Napoli, Sez. III,
31.01.2017, n. 675).
1.3. Giova segnalare che anche la Corte di Cassazione, in
ambito penale, ha enunciato il suesposto principio, avendo
statuito, proprio in materia di pertinenze, che “Un
intervento edilizio deve essere considerato nel suo
complesso e le opere realizzate non possono essere valutate
autonomamente e separatamente come pertinenze”
(Cassazione penale, Sez. III, 01.10.2013, n. 45598).
In termini generali la Cassazione si era già pronunciata nel
senso, sostenuto dalla Sezione nelle richiamate sentenze e
qui riaffermato, della necessità di una valutazione unitaria
onde individuare il regime giuridico degli abusi edilizi
(cfr. Cassazione Penale, Sez. III, 16.03.2010, n. 20363)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.02.2018 n. 1283 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quanto alla categoria degli “interventi di
nuova costruzione”, che richiedono il permesso di
costruire e la cui realizzazione in assenza dello stesso
legittima l’irrogazione dell’ordinanza di demolizione in
forza del art. 31, D.P.R. n. 380/2001, la Sezione ha di
recente precisato che “la nozione di nuova costruzione
va affermata per pacifica e radicata giurisprudenza, in
presenza di opere che attuino trasformazione del tessuto
urbanistico ed edilizio” la quale, giova qui precisare,
consiste in un dato oggettivo che ha riguardo alla
trasformazione tendenzialmente permanente e ontologicamente
modificativa dello stato fisico dei luoghi, prescindendo
dalla natura e tipologia delle opere mediante le quali tale
modificazione sia stata attuata e, dunque, addirittura
“anche se esse non consistano in opere murarie, essendo
realizzate in metallo, in laminati in plastica, in legno od
altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a
soddisfare esigenze non precarie del costruttore”.
Il Giudice d’appello ha ribadito tale principio affermando
che “La nozione di costruzione, ai fini del rilascio della
concessione edilizia, si configura in presenza di opere che
attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del
territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi,
a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante
realizzazione di opere murarie”.
Tale opzione è stata più di recente enunciata anche dal
Tribunale, secondo cui “Ai fini del rilascio del permesso di
costruire, costituisce nuova costruzione l'opera che attui
una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio,
preordinata a soddisfare esigenze non precarie sotto il
profilo funzionale, con perdurante modifica dello stato dei
luoghi, a prescindere dal fatto che essa sia realizzata con
opere murarie, in metallo, in laminati di plastica, in legno
o qualsiasi altro materiale”.
Per altro verso, quand’anche le opere dianzi illustrate non
potessero essere qualificate come “interventi di nuova
costruzione” di cui alla lett. e) dell’art. 3, d.P.R. n.
380/2001, le stesse sarebbero comunque da assoggettare a
permesso di costruire, poiché l’art. 10, co. 1, del Testo
unico sull’edilizia stabilisce che “sono subordinati a
permesso di costruire” anche gli interventi di cui alla
lett. c) della stesso comma 1, ovverosia “gli interventi di
ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino (….) modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici”.
---------------
Sul piano dell’esegesi dell’art. 10, co. 1, lett. c), del
D.P.R. n. 380/2001 rimarca il Collegio che al fine di
ritenere soggetto a permesso di costruire un intervento di
ristrutturazione edilizia costituisce indefettibile
presupposto il fatto che esso conduca ad un organismo anche
solo in parte diverso dal preesistente; a questo
imprescindibile fattore deve necessariamente aggiungersi,
come si desume dalla congiuntiva “e”, almeno uno degli
effetti materiali indicati al secondo periodo, ossia
“aumento di unità immobiliari”, ovvero “modifiche del
volume” o “della sagoma” o “dei prospetti o delle
superfici”.
L’impiego della congiuntiva “o”, benché essa sia anteposta
solo alle “superfici”, va riferito, in ossequio al criterio
di interpretazione letterale secondo l’analisi logica del
periodo, ad ognuno degli elementi menzionati dopo la parola
“modifiche”, le quali devono necessariamente essersi
prodotte, in alternativa allo “aumento di unità
immobiliari”, ma non necessariamente per tutti gli elementi
indicati dalla norma (volume, sagoma, prospetti, superfici)
essendo sufficiente, affinché l’intervento di
ristrutturazione edilizia portante ad un organismo in tutto
o in parte diverso dal preesistente sia subordinato a
permesso di costruire, che le modifiche concernano anche
solo uno dei predetti elementi, ossia volume, sagoma,
prospetti, superfici, come si arguisce dall’uso della
congiunzione “o”.
Giova richiamare sul punto anche la giurisprudenza del
Tribunale, condivisa dal Collegio, secondo cui “Tra gli
interventi di ristrutturazione edilizia sono soggetti a
permesso di costruire e pertanto sanzionabili a norma
dell'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi dell'art. 10
d.P.R. n. 380 citato, comma 1, lett. c), gli interventi che
portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente e che comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici“.
Si segnala che il Consiglio di Stato ha di recente enunciato
la stessa esegesi sancendo che “Attualmente il permesso di
costruire è necessario per gli interventi di
ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, dei prospetti o delle superfici".
---------------
2. Orbene, gli interventi contestati al ricorrente, secondo
la descrizione contenuta ai punti 1 e 2 dell’ordinanza
impugnata e al capoverso comune di cui a pag. 3, sono i
seguenti:
Punto 1: “Ampliamento caratterizzato da struttura
verticale in muratura, occupante una superficie di circa mq.
17,50 per un’altezza di circa mt 2,70, ottenendo, anche,
tramite la realizzazione di un nuovo parapetto a contorno
del solaio di copertura di detto ampliamento, un terrazzo
avente una superficie di circa mq. 11,50”.
Tale ampliamento della superficie di circa 17,50 mq per
un’altezza di mt. 2,70 è dunque munito di solaio di
copertura a contorno del quale è stato realizzato un nuovo
parapetto: “a contorno del solaio di copertura di detto
ampliamento”. Nuovo parapetto tramite la realizzazione
del quale è stato anche ottenuto (come lascia intendere la
congiunzione “anche” frapposta tra le due virgole
nella locuzione: “ottenendo, anche, tramite la
realizzazione di un nuovo parapetto a contorno del solaio di
copertura”) un terrazzo di circa mq. 11,50.
2.1. A ben vedere, attentamente leggendo ed analizzando la
descrizione dell’intervento contenuta al punto 1
dell’ordinanza, si evince che il ricorrente ha creato due
opere:
A) Un vano chiuso di 17,40 mq. e 47,25 metri cubi circa, frutto di
un ampliamento con struttura verticale in muratura della
superficie di 17,50 mq. per un’altezza di mt 2,70 circa,
munito di un solaio di copertura.
L’ordinanza fa cenno infatti di un “solaio di copertura
di detto ampliamento”, a contorno del quale è stato
costruito un nuovo parapetto.
Sarebbe stato infatti, oltretutto, irragionevole aver creato
una sola superficie di ampliamento pari a 17,50 meri
quadrati sviluppantesi vero l’alto per la considerevole
altezza di mt. 2,70 a cielo aperto.
Il manufatto così risultante ha dato quindi luogo ad un vano
chiuso dal volume pari al prodotto della superficie di 17,50
mq. circa per l’altezza di mt. 2,70 circa, vano quindi
avente una volumetria di mc. 47,25 (17,50 x 2,70), prima
inesistente.
B) Un nuovo terrazzo di mq. 11,50. A contorno del solaio di
copertura di siffatto vano è stato infatti costruito un “nuovo
parapetto”, “tramite la realizzazione” del quale
è stato ottenuto ANCHE un terrazzo avente una superficie di
circa mq. 11,50. Il nuovo parapetto, intuitivamente, è
rientrante rispetto al contorno del solaio, atteso che il
terrazzo creato mediante tale nuovo parapetto ha una
superficie di mq. 11, 50, ossia inferiore a quella
dell’ampliamento di circa mq. 17,50 sormontato dal solaio di
copertura contornato dal ridetto nuovo parapetto.
Punto 2: “Pavimentazione in cotto dell’area
antistante l’ampliamento per una superficie di circa mq.
28,00, nonché la realizzazione di un muro delimitatorio in
blocchi intonacati avente una lunghezza di mt. 7,00 per
un’altezza media di circa mt. 1,20”.
Oltre alla pavimentazione in cotto di circa 28 mq, il
ricorrente ha anche costruito un muro di delimitazione in
blocchi intonacati della lunghezza di metri 7 e dell’altezza
di mt. 1,20 circa.
Nella relazione tecnica n. 67173/2012 e per via di essa
nell’ordinanza gravata, nel predetto comune capoverso,
“inoltre si precisa che tutta l’area di pertinenza al
fabbricato (corte) risulta pavimentata con masselli in
cemento autobloccanti, nonché la realizzazione di una scala
e di una parte di pavimentazione in cotto”.
3. Al riguardo, al fine di valutare d qualificare sul piano
edilizio ed urbanistico i manufatti predetti, seguendo la
corretta prospettiva di indagine più sopra delineata e
dovendosi, quindi, avere riguardo all’insieme unitario e al
risultato finale delle opere realizzate dal ricorrente in
assenza di tiolo abilitativo edilizio e del presupposto e
propedeutico parere dell’Autorità tutoria statale preposta
alla tutela dei vincolo paesaggistico–ambientale gravante
sull’area, si deve dedurre che gli interventi oggetto
dell’impugnata ordinanza di demolizione hanno sostanziato “trasformazione
edilizia ed urbanistica del territorio”, con creazione
sia di un nuova superficie pavimentata in cotto di 28 metri
quadri e di un muro in blocchi intonacati lungo mt. 7 ed
altro mt. 1,20, sia, anche, di nuova superficie e volumetria
prima inesistente (come si è appena argomentato
relativamente agli abusi di cui al numero 1).
Trasformazione edilizia ed urbanistica con cui la lettera e)
dell’art. 3 D.P.R. n. 380 del 2001 definisce la nozione di “interventi
di nuova costruzione” in termini generali e
valevoli per tutti gli interventi ancorché non
specificamente sussumibili nelle fattispecie particolari
dettagliate ai numeri da e.1) ad e.7) della stessa lettera.
Questi ultimi, infatti, “Sono comunque da considerarsi
tali”, ossia interventi “di trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio” e quindi di “nuova
costruzione”, i quali, in ossequio all’art. 10,
comma 1, lett. a), del Testo unico, “sono subordinati a
permesso di costruire”.
3.1. Quanto a siffatta categoria degli “interventi di
nuova costruzione”, che richiedono il permesso di
costruire e la cui realizzazione in assenza dello stesso
legittima l’irrogazione dell’ordinanza di demolizione in
forza del art. 31, D.P.R. n. 380/2001 correttamente dunque
applicato con l’impugnata ordinanza, la Sezione ha di
recente precisato che “la nozione di nuova costruzione
va affermata per pacifica e radicata giurisprudenza, in
presenza di opere che attuino trasformazione del tessuto
urbanistico ed edilizio” (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
07.06.2017 n. 3080) la quale, giova qui precisare, consiste
in un dato oggettivo che ha riguardo alla trasformazione
tendenzialmente permanente e ontologicamente modificativa
dello stato fisico dei luoghi, prescindendo dalla natura e
tipologia delle opere mediante le quali tale modificazione
sia stata attuata e, dunque, addirittura “anche se esse
non consistano in opere murarie, essendo realizzate in
metallo, in laminati in plastica, in legno od altro
materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a
soddisfare esigenze non precarie del costruttore”
(Consiglio di Stato, Sez., IV, 06.06.2008, n. 2705).
Il Giudice d’appello ha ribadito tale principio affermando
che “La nozione di costruzione, ai fini del rilascio
della concessione edilizia, si configura in presenza di
opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia
del territorio, con perdurante modifica dello stato dei
luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante
realizzazione di opere murarie” (Consiglio di Stato,
Sez. VI, 05.08.2013 n. 4086)
Tale opzione è stata più di recente enunciata anche dal
Tribunale, secondo cui “Ai fini del rilascio del permesso
di costruire, costituisce nuova costruzione l'opera che
attui una trasformazione urbanistico-edilizia del
territorio, preordinata a soddisfare esigenze non precarie
sotto il profilo funzionale, con perdurante modifica dello
stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa sia
realizzata con opere murarie, in metallo, in laminati di
plastica, in legno o qualsiasi altro materiale” (TAR
Campania-Napoli, Sez. II, 03.05.2016, n. 2205).
4. Per altro verso, osserva altresì il Collegio che
quand’anche le opere dianzi illustrate non potessero essere
qualificate come “interventi di nuova costruzione”
di cui alla lett. e) dell’art. 3, d.P.R. n. 380/2001, le
stesse sarebbero comunque da assoggettare a permesso di
costruire, poiché l’art. 10, co. 1, del Testo unico
sull’edilizia stabilisce che “sono subordinati a permesso
di costruire” anche gli interventi di cui alla lett. c)
della stesso comma 1, ovverosia “gli interventi di
ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino (….) modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici”.
4.1. Orbene, nella fattispecie all’esame non è dubitabile
che il risultato complessivo degli interventi suindicati ha
condotto ad un immobile anche solo “in parte” diverso
dal preesistente e che in parte qua ha subito anche
modifiche della superficie e del volume ove si consideri:
1. l’ampliamento caratterizzato da struttura verticale in muratura,
occupante una superficie di circa mq. 17,50 per un’altezza
di circa mt 2,70;
2. Il volume generato da tale intervento è dato dal prodotto della
superficie per l’altezza ed è dunque pari a mc. 47,25. Si è
già del resto rilevato che al p. 1 dell’ordinanza gravata si
precisa che detto ampliamento con struttura verticale della
superficie di mq. 17,40 per l’altezza di mt. 2,70 è munito
di “solaio di copertura”, la realizzazione di un
nuovo parapetto a contorno del quale ha consentito di
ottenere “anche” un terrazzo avente una superficie di
circa mq. 11,50.
Va anche evidenziato che la risultante degli illustrati
mutamenti strutturali nel volume nelle superfici ha
conseguentemente determinato in parte qua, modifiche della
sagoma e dei prospetti dell’edificio sul quale sono stati
attuati i nuovi indicati ampliamenti di superficie e di
volumetria scaturente dalla relativa altezza.
4.2. Sul piano dell’esegesi dell’art. 10, co. 1, lett. c),
del D.P.R. n. 380/2001 rimarca il Collegio che al fine di
ritenere soggetto a permesso di costruire un intervento di
ristrutturazione edilizia costituisce indefettibile
presupposto il fatto che esso conduca ad un organismo anche
solo in parte diverso dal preesistente; a questo
imprescindibile fattore deve necessariamente aggiungersi,
come si desume dalla congiuntiva “e”, almeno uno
degli effetti materiali indicati al secondo periodo, ossia “aumento
di unità immobiliari” (che non ricorre nel caso
all’esame), ovvero “modifiche del volume” o “della
sagoma” o “dei prospetti o delle superfici”.
L’impiego della congiuntiva “o”, benché essa sia
anteposta solo alle “superfici”, va riferito, in
ossequio al criterio di interpretazione letterale secondo
l’analisi logica del periodo, ad ognuno degli elementi
menzionati dopo la parola “modifiche”, le quali
devono necessariamente essersi prodotte, in alternativa allo
“aumento di unità immobiliari”, ma non
necessariamente per tutti gli elementi indicati dalla norma
(volume, sagoma, prospetti, superfici) essendo sufficiente,
affinché l’intervento di ristrutturazione edilizia portante
ad un organismo in tutto o in parte diverso dal preesistente
sia subordinato a permesso di costruire, che le modifiche
concernano anche solo uno dei predetti elementi, ossia
volume, sagoma, prospetti, superfici, come si arguisce
dall’uso della congiunzione “o”.
Giova richiamare sul punto anche la giurisprudenza del
Tribunale, condivisa dal Collegio, secondo cui “Tra gli
interventi di ristrutturazione edilizia sono soggetti a
permesso di costruire e pertanto sanzionabili a norma
dell'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi dell'art. 10
d.P.R. n. 380 citato, comma 1, lett. c), gli interventi che
portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente e che comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti o delle superfici“ (TAR Campania-Napoli, Sez.
VII, 16.07.2013 n. 3708).
Si segnala che il Consiglio di Stato ha di recente enunciato
la stessa esegesi sancendo che “Attualmente il permesso
di costruire è necessario per gli interventi di
ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, dei prospetti o delle superfici" (Consiglio di
Stato, Sez. IV, 02.02.2017 n. 443) (TAR Campania-Napoli,
Sez. III,
sentenza 28.02.2018 n. 1283 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 160 del D.Lgs. 42/2004 si applica nel caso
di violazione degli obblighi di conservazione stabiliti
dalle disposizioni del Capo III del Titolo I della Parte
seconda, nella quale è compreso l’art. 12 ai sensi del quale
gli immobili appartenenti agli enti ecclesiastici la cui
esecuzione risalga ad oltre settanta anni, sono sottoposti
alle disposizioni della presente parte fino a quando non sia
stata effettuata la verifica di cui al comma 2.
Si tratta infatti di una norma sanzionatoria di carattere
secondario volta a dare effettività ai precetti relativi
alla conservazione dei beni culturali così come definiti
nella parte seconda del codice.
A nulla rileva poi che l’art. 160 cit. non fosse vigente al
momento in cui le opere abusive sono state realizzate atteso
che le sanzioni efferenti le norme che disciplinano il
governo del territorio sono soggette al principio del tempus
regit actum e rimangono, perciò soggette alle normative
vigenti al momento della loro adozione.
---------------
Viene impugnata l’ordinanza con la quale il Ministero dei beni
culturali ha ordinato alla Parrocchia dei Ss. Pietro e Paolo
Apostoli la eliminazione di alcune opere eseguite in assenza
di autorizzazione ex art. 21 D.Lgs. 42/2004 nel complesso
costituito dalla relativa chiesa e dalla annessa canonica in
quanto le stesse, essendo state realizzate con materiali e
tecniche di intervento inadeguati, recherebbero allo stesso
pregiudizio.
Con il primo motivo la Parrocchia sostiene che il complesso
in questione costituirebbe bene avente un interesse
“culturale” solo perché è appartenente ad un “ente
ecclesiastico civilmente riconosciuto” e costruito da oltre
settanta anni. Tale tipologia di immobili sarebbe soggetta
alla parte II del D.Lgs. 42/2004 ma non anche alla parte III
nella quale sarebbe inserita la disposizione sanzionatoria
applicata dal Ministero. Inoltre, la predetta norma
sanzionatoria non sarebbe stata vigente al momento delle
realizzazione delle opere contestate.
La censura è infondata.
L’art. 160 del D.Lgs. 42/2004 si applica nel caso di
violazione degli obblighi di conservazione stabiliti dalle
disposizioni del Capo III del Titolo I della Parte seconda,
nella quale è compreso l’art. 12 ai sensi del quale gli
immobili appartenenti agli enti ecclesiastici la cui
esecuzione risalga ad oltre settanta anni, sono sottoposti
alle disposizioni della presente parte fino a quando non sia
stata effettuata la verifica di cui al comma 2.
Si tratta infatti di una norma sanzionatoria di carattere
secondario volta a dare effettività ai precetti relativi
alla conservazione dei beni culturali così come definiti
nella parte seconda del codice.
A nulla rileva poi che l’art. 160 cit. non fosse vigente al
momento in cui le opere abusive sono state realizzate atteso
che le sanzioni efferenti le norme che disciplinano il
governo del territorio sono soggette al principio del tempus
regit actum e rimangono, perciò soggette alle normative
vigenti al momento della loro adozione (TAR Toscana,
Sez. III,
sentenza 27.02.2018 n. 324 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l'invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell'atto.
In ogni caso, attesa la natura vincolata del provvedimento
di demolizione, il mancato avvio della comunicazione di
avvio del procedimento non può avere alcun effetto
invalidante sui successivi atti procedimentali e sul
provvedimento definitivo, atteso che -ai sensi dell'art.
21-octies, L. n. 241 del 1990- il provvedimento impugnato
non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da
quello in concreto adottato.
Sotto il profilo istruttorio e della motivazione, in materia
di repressione di abusi edilizi, l'ordinanza di demolizione
non richiede, in linea generale, una specifica
giustificazione circa le ragioni della sanzione, essendo
sufficiente, a tal fine, l'individuazione e la
qualificazione degli abusi edilizi riscontrati,
l'indicazione delle norme violate.
---------------
Risulta destituita di fondamento la censura relativa
all’asserita erronea applicazione della sanzione demolitoria
in luogo di quella pecuniaria, di cui all’art. 37 d.p.r.
380/2001.
L’amministrazione comunale, in presenza di nuovi manufatti
insistenti in area soggetta a vincoli, ha al contrario fatto
corretta applicazione dell’art. 27, comma 2, d.p.r. 380 del
2001, norma che impone al dirigente o al responsabile,
“quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite
senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali,
regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate,
a vincolo di inedificabilità, … nonché in tutti i casi di
difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi”.
---------------
2.- Il ricorso è infondato.
2.1.- Come chiarito da consolidata e condivisa
giurisprudenza amministrativa, anche di questa Sezione,
l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto
(ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 28/09/2017,
n. 4533; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 28/08/2017, n.
4122).
2.2.- In ogni caso, attesa la natura vincolata del
provvedimento di demolizione, il mancato avvio della
comunicazione di avvio del procedimento non può avere alcun
effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul
provvedimento definitivo, atteso che -ai sensi dell'art.
21-octies, L. n. 241 del 1990- il provvedimento impugnato
non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da
quello in concreto adottato (TAR Campania, Napoli, sez. III,
31/01/2017, n. 677).
3.- Sotto il profilo istruttorio e della motivazione, in
materia di repressione di abusi edilizi, l'ordinanza di
demolizione non richiede, in linea generale, una specifica
giustificazione circa le ragioni della sanzione, essendo
sufficiente, a tal fine, l'individuazione e la
qualificazione degli abusi edilizi riscontrati,
l'indicazione delle norme violate.
3.1.- Nel caso specifico, riguardo ai presupposti di fatto,
l’amministrazione comunale ha svolto compiuta istruttoria
per appurare, tramite sopralluogo e relazione tecnica, la
natura e l’entità degli abusi compiuti, la cui descrizione,
come in fatto illustrata, è puntualmente riportata
nell’ordinanza impugnata.
3.2.- Riguardo ai presupposti giuridici, in senso contrario
agli assunti di parte ricorrente, l’ordinanza di demolizione
indica puntualmente le normative legislative e regolamentari
applicabili e riporta nel dettaglio i numerosi vincoli
gravanti sull’area interessata dagli abusi, così
sintetizzabili:
- idrogeologico, di cui all’art. 1 del R.D. 30.12.1923 n. 3267, per
le parti di bacino idrogeologico dei lagni vesuviani;
- paesaggistico di cui al Decreto Ministeriale del 20.01.1964, con
il quale l'intero territorio comunale, ad esclusione della
zona portuale, è stato dichiarato, ai sensi della Legge
29.06.1939 n. 1497, di "notevole interesse pubblico",
vincolo riproposto con il Decreto Ministeriale del
28.03.1985, emanato in esecuzione del Decreto Ministeriale
del 21.09.1984:
- ambientale di cui al menzionato Piano Territoriale Paesistico
dell'area del Vesuvio, approvato con il Decreto ministeriale
del 04.07.2002;
- sismico, grado di sismicità S=9, come da D.M. del 07.03.1981,
classificazione riconfermata con Delibera di Giunta
Regionale n. 5447 del 07.11.2002;
- di salvaguardia di cui al D.M. del 25.05.1981, con il quale è
stato dichiarato, a seguito degli eventi sismici del
novembre 1980 e del febbraio 1981, "gravemente
danneggiato":
- ambientale, derivante dalla perimetrazione del Parco Nazionale
del Vesuvio, come da Decreto Ministeriale del 04.12.1992,
emanato in esecuzione della Legge 394/1991:
- di salvaguardia in applicazione del "Piano Stralcio per
l'Assetto Idrogeologico per il territorio di competenza
dell'Autorità di Bacino del Sarno", adottato con
Delibera del Comitato Istituzionale n. 2 del 04.04.2002 e
pubblicato sul B.U.R.C. n. 21 del 22.04.2002.
3.3.- Non sembra dunque reggere su solide basi l’assunto
della ricorrente secondo cui le opere da lei realizzate si
risolverebbero in interventi di manutenzione straordinaria,
in quanto tali rientranti nell’ambito dell’iniziativa
edilizia libera, ovvero, a tutto concedere, di restauro
conservativo per i quali sarebbe occorsa la semplice DIA.
Al contrario, le opere effettuate hanno comportato:
- la creazione di un nuovo volume (vano WC), a nulla rilevando le
sue asserite contenute dimensioni,
- l’edificazione di manufatti preparatori alla creazione di
altrettanti nuovi volumi (struttura in ferro coperta in
parte da pannelli in lamiera coibentati; mura costituite da
blocchi di lapil-cemento a forma di L);
- lo sviluppo di superficie edificata (due massetti in
calcestruzzo, di cui uno piastrellato con mattonelle in
cotto, di metri 7,00 circa di lunghezza e metri 6,40 circa
di larghezza, avente uno spessore di circa centimetri 20 e
l’altro allo stato grezzo, di metri 6,00 di lunghezza e di
metri 5,00 di larghezza, anch’esso di centimetri 20 di
spessore).
In disparte la considerazione circa la non compatibilità di
queste opere con il vigente P.R.G., il quale fa ricadere
l’area interessata in zona omogenea "F3 = Verde Pubblico
Attrezzato" nonché con le restrizioni imposte dal Piano
Territoriale Paesistico dell'area del Vesuvio, approvato in
data con Decreto ministeriale 04.07.2002, che inserisce
l’area medesima in zona: "R. U.A. = Recupero Urbanistico
Edilizio e Restauro Paesistico Ambientale", i
riscontrati aumenti plano-volumetrici avrebbero richiesto,
in ogni caso, il permesso di costruire, trattandosi a tutti
gli effetti di interventi di nuova costruzione, corredato di
preventiva autorizzazione paesaggistica, in virtù
dell’esistenza del relativo vincolo di cui al d.lgs.
42/2004.
3.4.- Risulta quindi destituita di fondamento la censura
relativa all’asserita erronea applicazione della sanzione
demolitoria in luogo di quella pecuniaria, di cui all’art.
37 d.p.r. 380/2001.
L’amministrazione comunale, in presenza di nuovi manufatti
insistenti in area soggetta a vincoli, ha al contrario fatto
corretta applicazione dell’art. 27, comma 2, d.p.r. 380 del
2001, norma che impone al dirigente o al responsabile, “quando
accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza
titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o
da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità, … nonché in tutti i casi di difformità
dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici, provvede alla demolizione e al ripristino dello
stato dei luoghi” (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 07.02.2018 n. 804 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo un principio consolidato in
giurisprudenza, l’atto di declassificazione non determina di
per se stesso la perdita dell’uso pubblico della strada,
qualora quest’ultima conservi la condizione di bene idoneo a
garantirne un’utilizzazione pubblica.
Inoltre, la giurisprudenza amministrativa anche più
recente ha ribadito che né «il disuso protratto nel tempo»
né «l’inerzia della pubblica amministrazione nella cura
della strada o nell’intervento volto ad impedire
l’occupazione o l’uso da parte di privati incompatibile con
l’uso pubblico» sono sufficienti a dimostrarne
«l’intervenuta tacita sdemanializzazione, che ricorre solo
allorquando, pur in assenza di un formale provvedimento di
cessazione della demanialità, la volontà
dell’Amministrazione risulti comunque da fatti concludenti e
da circostanze inequivoche, incompatibili con la volontà di
conservare il bene all’uso pubblico».
---------------
8. Può ora passarsi all’esame del merito del ricorso. Le
prime quattro censure poggiano tutte sul medesimo assunto
secondo cui non sussistevano i presupposti per procedere
alla disposta rettifica, con la conseguenza che la
deliberazione impugnata realizzerebbe, nella sostanza,
un’illegittima cessione (gratuita) del tratto stradale in
oggetto agli odierni controinteressati al di fuori di una
corretta procedura di sdemanializzazione del bene medesimo.
8.1. Tale assunto è fondato nei limiti di quanto di seguito
osservato.
8.2. Invero, con la delibera impugnata il Consiglio comunale
non ha operato l’eliminazione di un errore materiale
ricavabile dalla lettura sistematica e consequenziale delle
proprie precedenti delibere ma ha esercitato un vero e
proprio riesame della delibera n. 32/2002, sulla base nuovi
presupposti, fra l’altro non congruenti con quanto accertato
in corso di causa.
Infatti, la pretesa sdemanializzazione
della “strada che collega Laorno a Contrada Ucchesi e
Valmarisa” così come l’esclusione di qualunque uso pubblico
della strada in questione, su cui poggia la disposta
“rettifica”, risultano erroneamente considerate quali
effetti automatici della deliberazione n. 31 del 21.03.1978.
Tuttavia, tale delibera si era limitata a
declassificare la strada di collegamento in oggetto –identificata al n. 15 dell’allegato alla delibera medesima–
da “strada comunale” a “vicinale ai sensi e per gli effetti
della legge 12.02.1958, n. 125”.
8.3. Ebbene, secondo un principio consolidato in
giurisprudenza, l’atto di declassificazione non determina di
per se stesso la perdita dell’uso pubblico della strada,
qualora quest’ultima conservi la condizione di bene idoneo a
garantirne un’utilizzazione pubblica.
8.4. Inoltre, la giurisprudenza amministrativa anche più
recente ha ribadito che né «il disuso protratto nel tempo»
né «l’inerzia della pubblica amministrazione nella cura
della strada o nell’intervento volto ad impedire
l’occupazione o l’uso da parte di privati incompatibile con
l’uso pubblico» sono sufficienti a dimostrarne
«l’intervenuta tacita sdemanializzazione, che ricorre solo
allorquando, pur in assenza di un formale provvedimento di
cessazione della demanialità, la volontà
dell’Amministrazione risulti comunque da fatti concludenti e
da circostanze inequivoche, incompatibili con la volontà di
conservare il bene all’uso pubblico» (Cons. St., Sez. IV, 28.10.2013, n. 5207, nonché Cons. St., Sez. V, 30.11.2011, n. 6338; Sez. VI,
09.02.2011, n. 868; Sez. IV, 07.09.2006, n. 5209, Sez. V, 01.12.2006, n. 7081).
8.5. Venendo al caso in esame, da un lato, l’istruttoria
svolta ha confermato che il tratto stradale in esame “si
collega e quindi sbocca su una strada comunale nei pressi di
Contrada Ucchesi”, e che è del tutto percorribile non solo a
piedi, come emerge chiaramente dalla documentazione
fotografica allegata dal Genio Civile, essendo
“omogeneamente ben delineato” e con una “pavimentazione
realizzata in materiale ghiaioso di granulometria variabile
tipico dei percorsi montani” (così Relazione di
verificazione, del Genio Civile di Verona).
Pertanto, deve
oggettivamente ritenersi che essa costituisca un
collegamento non ad uso “riservato” di alcuni soggetti,
bensì aperto a chiunque provenga ovvero debba raggiungere
detta strada comunale. Tanto più che, quantomeno rispetto al
fondo di proprietà del ricorrente individuato al foglio 13,
mappale n. 107 (cfr. “Planimetria catastale” in atti), non
esistono altri tratti di collegamento con la medesima strada
comunale.
8.6. Dall’altro, sulla base del chiaro tenore letterale
della deliberazione n. 32/2002, deve altresì escludersi che
sussista un atto univoco ed incompatibile con la volontà di
conservare la destinazione di una strada a uso pubblico,
poiché, al contrario, l’autorizzazione al contributo
regionale in essa contenuta risulta esclusivamente
finalizzata a migliorare le condizioni di viabilità del
tratto viabile in oggetto, mantenendone ferma la
destinazione del bene all’uso pubblico.
8.7. Pertanto, il provvedimento impugnato, rendendo di fatto
ad uso esclusivo di alcuni soggetti privati (odierni
controinteressati) un bene che invece risulta avere tuttora
un’oggettiva vocazione all’uso pubblico, è stato adottato al
di fuori dei presupposti del potere di rettifica in concreto
esercitato così come delle procedure e delle circostanze di
fatto che avrebbero, in astratto, potuto determinare
l’effetto di riservarne l’uso a determinati soggetti
privati.
8.8. Ne deriva che il ricorso è fondato nei limiti di quanto
osservato e, per l’effetto, la delibera impugnata deve
essere annullata (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 16.01.2018 n. 41 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il venditore di un bene immobile destinato ad
abitazione ha l'obbligo di dotare tale bene della licenza di
abitabilità, senza la quale esso non acquista la normale
attitudine a realizzare la sua funzione economico-sociale.
La mancata consegna della medesima implica un inadempimento
che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo a
risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un
danno risarcibile configurabile anche nel solo fatto di aver
ricevuto un bene che presenta problemi di commerciabilità.
---------------
1. Con il primo motivo i ricorrenti principali
denunciano la violazione e/o falsa applicazione degli artt.
1453, 1477, 1489 e 1497 c.c. (con riferimento all'art. 360,
co. 1, n. 3, c.p.c.), per aver la corte d'appello escluso la
risoluzione del contratto per inadempimento della
venditrice, nonostante il certificato di agibilità dovesse
sussistere ed essere o consegnato all'acquirente di un
immobile già al momento del perfezionamento della
compravendita ed il suo mancato rilascio, rappresentando un
requisito giuridico essenziale per il legittimo godimento
del bene e per la sua commerciabilità, determinasse una
responsabilità per l'alienazione di un aliud pro alio.
1.1. Il motivo è infondato.
In tema di compravendita immobiliare, la
mancata consegna al compratore del certificato di
abitabilità non determina, in via automatica, la risoluzione
del contratto preliminare per inadempimento del venditore,
dovendo essere verificata in concreto l'importanza e la
gravità dell'omissione in relazione al godimento e alla
commerciabilità del bene; e risoluzione non può essere
pronunciata ove in corso di causa si accerti che l'immobile
promesso in vendita presentava tutte le caratteristiche
necessarie per l'uso suo proprio e che le difformità
edilizie rispetto al progetto originario erano state sanate
a seguito della presentazione della domanda di concessione
in sanatoria, del pagamento di quanto dovuto e del formarsi
del silenzio-assenso sulla relativa domanda
(Sez. 2, Sentenze n. 13231 del 31/05/2010 - e n. 7547/2017).
Non può, pertanto, negarsi rilievo, al
rilascio della certificazione predetta nel corso del
giudizio relativo all'azione di risoluzione del contratto,
promosso dal compratore, nonostante l'irrilevanza
dell'adempimento successivo alla domanda di risoluzione
stabilita dall'art. 1453 terzo comma cod. civ., perché sì
tratta di circostanza che evidenzia l'inesistenza originaria
di impedimenti assoluti al rilascio della certificazione e
l'effettiva conformità dell'immobile alle norme urbanistiche
(Sez. 2, Sentenza n. 3851 del 15/02/2008).
In quest'ottica, nel caso di compravendita
di una unità immobiliare per la quale, al momento della
conclusione del contratto, non sia stato ancora rilasciato
il certificato di abitabilità, il successivo rilascio di
tale certificato esclude la possibilità stessa di
configurare l'ipotesi di vendita di alicid pro alio e
di ritenere l'originaria mancanza di per sé sola fonte di
danni risarcibili
(Sez. 2„ Sentenza n. 6548 del 18/03/2010).
Dalle considerazioni che precedono, consegue che
il venditore di un bene immobile destinato ad
abitazione ha l'obbligo di dotare tale bene della licenza di
abitabilità, senza la quale esso non acquista la normale
attitudine a realizzare la sua funzione economico-sociale;
la mancata consegna della medesima implica un inadempimento
che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo a
risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un
danno risarcibile configurabile anche nel solo fatto di aver
ricevuto un bene che presenta problemi di commerciabilità
(Cass. 20/04/2006 n. 9253; 03/07/2000 n. 8880; 19/07/1999 n.
7681).
Nella fattispecie in esame, risulta ex actis e,
comunque, non è contestato che in data 22.12.2010 il Comune
di Cairo Montenotte ha rilasciato il certificato di
agibilità del bene immobile compravenduta, in tal guisa
attestando di fatto che l'alloggio presentava tutte le
caratteristiche necessarie per l'uso che gli era proprio.
Il motivo va, dunque, respinto (Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
ordinanza 05.12.2017 n. 29090). |
EDILIZIA PRIVATA:
La relazione di
accompagnamento alla "Dichiarazione di inizio attività"
ha natura certificativa in ordine alla descrizione dello
stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali
vincoli esistenti sull'area o sugli immobili interessati
dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si
intendono realizzare e all'attestazione della loro
conformità agli strumenti urbanistici e al regolamento
edilizio.
Ciò in quanto l'intero procedimento della D.I.A. si fonda su
un meccanismo di responsabilizzazione del privato che voglia
effettuare l'intervento edilizio, volto a sostituire la sua
dichiarazione ai preventivi controlli da parte dell'ente
territoriale, sulla base del particolare affidamento che
l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il
progetto e sulla sua veridicità, sì da attribuire alla
D.I.A., che viene integrata da tale relazione e dalla
documentazione allegata, la natura di atto fidefaciente.
Ne consegue che sia la dichiarazione di
inizio attività, sia la relazione tecnica e la
documentazione ad essa allegate, lungi dal configurarsi come
atti privati di natura e rilevanza amministrativa, hanno
invece natura certificativa, sicché la loro falsificazione
integra il reato di falsità ideologica in certificati di cui
all'art. 481 cod. pen..
---------------
Costituisce principio ormai consolidato nell'ambito
della giurisprudenza di questa Corte che assuma la qualità
di persona esercente un servizio di pubblica necessità il
progettista che, nella relazione iniziale di accompagnamento
di cui all'art. 23, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001,
renda false attestazioni, sempre che le stesse riguardino lo
stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande
agli strumenti urbanistici e non anche la mera intenzione
del committente o la futura eventuale difformità di
quest'ultima rispetto a quanto poi in concreto realizzato.
---------------
Tale ricostruzione non è, tuttavia, condivisibile.
Secondo l'indirizzo accolto da questa Sezione della Suprema
Corte, infatti, la relazione di
accompagnamento alla "Dichiarazione di inizio attività"
ha natura certificativa in ordine alla descrizione dello
stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali
vincoli esistenti sull'area o sugli immobili interessati
dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si
intendono realizzare e all'attestazione della loro
conformità agli strumenti urbanistici e al regolamento
edilizio.
Ciò in quanto l'intero procedimento della D.I.A. si fonda su
un meccanismo di responsabilizzazione del privato che voglia
effettuare l'intervento edilizio, volto a sostituire la sua
dichiarazione ai preventivi controlli da parte dell'ente
territoriale, sulla base del particolare affidamento che
l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il
progetto e sulla sua veridicità, sì da attribuire alla
D.I.A., che viene integrata da tale relazione e dalla
documentazione allegata, la natura di atto fidefaciente
(così Sez. 3, n. 50621 del 18/06/2014, Cazzato e altro, Rv.
261513, resa in procedimento avente identici addebiti a
carico, tra gli altri, degli stessi Baglivo e Renna; Sez. 3,
n. 35795 del 17/04/2012, Palotta, Rv. 253666; Sez. 3, n.
23072 del 27/04/2011, Lacorte, non massimata; Sez. 3, n.
27699 del 20/05/2010, Coppola e altro, Rv. 247927).
Ne consegue che sia la dichiarazione di
inizio attività, sia la relazione tecnica e la
documentazione ad essa allegate, lungi dal configurarsi come
atti privati di natura e rilevanza amministrativa, hanno
invece natura certificativa, sicché la loro falsificazione
integra il reato di falsità ideologica in certificati di cui
all'art. 481 cod. pen.
(in tal senso la già citata Sez. 3, n. 50621 del 18/06/2014,
Cazzato e altro, Rv. 261513; nonché Sez. 3, n. 35795 del
17/04/2012, Palotta, Rv. 253666; Sez. 3, n. 27699 del
20/05/2010, Coppola e altro, Rv. 247927; Sez. 5, n. 35615
del 14/05/2010, D'Anna, Rv. 248878; Sez. 3, n. 30401 del
23/06/2009, Zazzero, Rv. 244588; Sez. 3, n. 1818/2009 del
21/10/2008, Baldessari, Rv. 242478).
Quanto, poi, alla qualifica soggettiva di Gi.Ba., costituisce principio ormai consolidato nell'ambito
della giurisprudenza di questa Corte che assuma la qualità
di persona esercente un servizio di pubblica necessità il
progettista che, nella relazione iniziale di accompagnamento
di cui all'art. 23, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001,
renda false attestazioni, sempre che le stesse riguardino lo
stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande
agli strumenti urbanistici e non anche la mera intenzione
del committente o la futura eventuale difformità di
quest'ultima rispetto a quanto poi in concreto realizzato
(Sez. 3, n. 50621 del 18/06/2014, Cazzato e altro, in
motivazione; Sez. 5, n. 35615 del 14/05/2010, D'Anna, Rv.
248878; Sez. 3, n. 27699 del 20/05/2010, Coppola e altro, Rv.
247927; Sez. 5, n. 7408/2010 del 11/11/2009, Frigè, Rv.
246094).
Ciò che, appunto, si è senz'altro verificato nel caso di
specie.
Non pertinente, quindi, è il richiamo compiuto dalla difesa
alle sentenze di questa Corte secondo cui la falsità della
concessione edilizia, così come quella della autorizzazione
paesaggistica, rientrerebbe nelle fattispecie previste dagli
artt. 477 e 480 cod. pen. (Sez. U., n. 673 del 29/01/1997;
Sez. 5, n. 40038 del 04/11/2005), versandosi in casi in cui
l'atto è classificabile come "autorizzazione
amministrativa".
Tali fattispecie, infatti, concernono
l'ipotesi, affatto diversa, in cui la condotta di falso sia
stata realizzata dal pubblico ufficiale e non, come nella
specie, dall'incaricato di un servizio di pubblica
necessità, al quale si riferisce, invece, proprio l'art. 481
cod. pen., correttamente configurato dai giudici di merito
sulla base della contestazione formulata dal Pubblico
ministero, la quale concerneva, esclusivamente, la D.I.A. e
la documentazione ad essa allegata e non la successiva
attività amministrativa da parte dell'Ufficio tecnico
comunale.
Parimenti infondata è poi l'allegazione secondo cui la
relazione allegata alla D.I.A., contenendo la previsione di
un evento futuro, costituito dalla costruzione prevista dal
progetto, non possa contenere la "attestazione di un dato
di fatto", atteso che la contestazione riguarda, in
realtà, non l'eventuale discrasia tra l'opera effettivamente
realizzata e quella prevista dagli elaborati progettuali,
quanto piuttosto la non corrispondenza tra lo stato dei
luoghi esistente al momento della dichiarazione e la sua
descrizione contenuta nella documentazione ad essa allegata.
Né è possibile qualificare tale discrasia nei termini di un
mero errore tecnico di valutazione, una volta affermata la
deliberata costruzione di un manufatto "posticcio"
proprio al fine di giustificare il carattere asseritamente
conservativo dell'intervento, sottraendolo, in questo modo,
alle procedure ordinarie di rilascio dei titoli abilitativi,
quali il permesso di costruire.
5.3. Le considerazioni che precedono inducono altresì ad
affermare l'infondatezza delle ulteriori deduzioni difensive
circa la mancanza del dolo di falso.
Infatti, i giudici di merito, una volta affermata la
manifesta difformità tra la situazione di fatto e il
contenuto della documentazione allegata alla D.I.A. hanno
coerentemente dedotto la sussistenza del dolo, atteso che la
predisposizione di una struttura "posticcia" da
ritrarre nelle fotografie allegate alla dichiarazione non
poteva che essere ricondotta nell'alveo di un'attività
callidamente preordinata ad offrire una mendace
rappresentazione dello stato dei luoghi. E ciò non soltanto
da parte del responsabile tecnico dell'intervento, ma anche
da parte della committenza, posto che una siffatta
operazione non poteva certamente essere stata realizzata
all'insaputa del proprietario del fondo e, dunque, del
soggetto nel cui interesse essa era stata realizzata, 5.4.
Venendo, quindi, alle questioni sulla pena dedotte dai due
imputati del delitto di cui al capo a), entrambi deducono la
violazione degli art. 133 e 62-bis cod. pen., in ragione
dell'eccessiva severità del trattamento sanzionatorio e del
mancato riconoscimento delle "attenuanti generiche".
Sotto il primo profilo, ritiene nondimeno il Collegio che i
giudici di merito si siano perfettamente attenuti all'ormai
consolidato indirizzo, affermato dalla giurisprudenza di
questa Corte, secondo cui la graduazione della pena rientra
nella discrezionalità del giudice di merito, sicché deve
ritenersi inammissibile la censura che, nel giudizio di
cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità
della pena, la cui determinazione non sia frutto di mero
arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da
sufficiente motivazione (cfr., tra le tante, Sez. 5, n. 5582
del 30/09/2013, Ferrano, Rv. 259142).
Al riguardo, i giudici di merito hanno mostrato di
valorizzare, ai fini della determinazione del trattamento
sanzionatorio, la "massima intensità del dolo" e la "cospicua
ampiezza dell'attività edilizia in procinto di realizzarsi",
con ciò mostrando di avere tenuto conto di alcuni degli
indici contemplati dall'art. 133 cod. pen.; dovendo, del
resto, ribadirsi il consolidato indirizzo secondo cui la
specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità
di pena irrogata è necessaria soltanto se la pena sia di
gran lunga superiore alla misura media di quella edittale
(ciò che peraltro non è pacificamente avvenuto nel caso di
specie), potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto
dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen. le
espressioni del tipo "pena congrua", "pena equa"
o "congruo aumento", oppure, come appunto avvenuto nella
specie, il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a
delinquere degli imputati, dovendo in questi termini essere
inequivocabilmente inteso il (peraltro chiarissimo)
riferimento alla massima intensità del dolo e alla "cospicua
ampiezza dell'attività edilizia in procinto di realizzarsi"
(Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, Denaro, Rv. 245596).
Quanto, poi, alla mancata valorizzazione di alcuni elementi
riferibili alla condizione soggettiva degli imputati (in
specie, per Ba., lo status di "incensuratezza", la
giovane età, la "occasionalità della condotta"), deve
ancora una volta ribadirsi che la valutazione sulla
concedibilità delle attenuanti generiche non impone che
siano esaminati tutti i parametri di cui all'art. 133 cod.
pen., essendo sufficiente che si specifichi a quale di esso
si sia inteso fare riferimento (cfr., tra le altre, Sez. 2,
n. 3609 del 18/01/2011, Sermone e altri, Rv. 249163; Sez. 1,
n. 33506 del 07/07/2010, P.G. in proc. Biancofiore, Rv.
247959); ciò che, nel caso in esame, è certamente avvenuto.
Infine, la circostanza che i giudici di merito abbiano
ritenuto di concedere la sospensione condizionale della pena
e non le circostanze attenuanti di cui all'art. 62-bis cod.
pen. non configura alcuna contraddittorietà del giudizio,
costituendo principio ormai consolidato che i due istituti
hanno "diversi presupposti e finalità, in quanto queste
ultime rispondono alla logica di un'adeguata commisurazione
della pena, mentre la prima si fonda su un giudizio
prognostico strutturalmente diverso da quello posto a
fondamento delle attenuanti generiche" (Sez. 1, n. 6603
del 24/01/2008, P.G. in proc. Stumpo, Rv. 239131) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 06.10.2016 n. 42064). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
sistemazione di un'insegna o tabella pubblicitaria richiede
il rilascio del preventivo permesso di costruire quando per
le sue rilevanti dimensioni comporti mutamento territoriale;
atteso che soltanto un sostanziale mutamento del territorio
nel suo contesto preesistente, sia sotto il profilo
urbanistico che edilizio, fa assumere rilevanza penale alla
violazione del regolamento edilizio, con conseguente
integrazione del reato di cui all'art. 44, comma 1, lettera
b), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Deve osservarsi, in particolare, che non vi è rapporto di
specialità tra la disciplina sanzionatoria penale dettata in
materia urbanistica e antisismica dal d.P.R. n. 380 del 2001
e quella, amministrativa pecuniaria, dettata dal decreto
legislativo n. 507 del 1993, in materia di imposta comunale
sulla pubblicità e pubbliche affissioni, in quanto si tratta
di sanzioni poste a tutela di interessi giuridici diversi,
presidiando la prima la pubblica incolumità e l'altra il
controllo sulle pubbliche affissioni, in relazione al loro
contenuto, alla loro natura commerciale, all'applicazione
dell'imposta sulla pubblicità.
Né a tale ricostruzione vale
obiettare, come fa il ricorrente, che l'art. 168 del d.lgs.
n. 42 del 2004 richiama, per l'apposizione di cartelli con
mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni poste a
tutela del paesaggio, le stesse sanzioni amministrative
previste dal codice della strada, perché la tutela del
paesaggio rappresenta un interesse diverso e ulteriore
rispetto al corretto assetto del territorio e, soprattutto,
alla tutela dell'incolumità pubblica nelle zone sismiche.
---------------
3. - Il ricorso non è fondato.
3.1. — Le articolate argomentazioni poste dal ricorrente a
sostegno del primo motivo di doglianza si scontrano con il
consolidato orientamento di questa Corte secondo
cui la
sistemazione di un'insegna o tabella pubblicitaria richiede
il rilascio del preventivo permesso di costruire quando per
le sue rilevanti dimensioni comporti mutamento territoriale;
atteso che soltanto un sostanziale mutamento del territorio
nel suo contesto preesistente, sia sotto il profilo
urbanistico che edilizio, fa assumere rilevanza penale alla
violazione del regolamento edilizio, con conseguente
integrazione del reato di cui all'art. 44, comma 1, lettera
b), del d.P.R. n. 380 del 2001 (sez. 3, 15.01.2004, n. 5328, rv. 227402; sez. 4, 18.01.2007, n. 6382, rv. 236104; sez. 3,
22.10.2010, n. 43249, rv. 248724).
Deve osservarsi, in particolare, che non vi è rapporto di
specialità tra la disciplina sanzionatoria penale dettata in
materia urbanistica e antisismica dal d.P.R. n. 380 del 2001
e quella, amministrativa pecuniaria, dettata dal decreto
legislativo n. 507 del 1993, in materia di imposta comunale
sulla pubblicità e pubbliche affissioni, in quanto si tratta
di sanzioni poste a tutela di interessi giuridici diversi,
presidiando la prima la pubblica incolumità e l'altra il
controllo sulle pubbliche affissioni, in relazione al loro
contenuto, alla loro natura commerciale, all'applicazione
dell'imposta sulla pubblicità.
Né a tale ricostruzione vale
obiettare, come fa il ricorrente, che l'art. 168 del d.lgs.
n. 42 del 2004 richiama, per l'apposizione di cartelli con
mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni poste a
tutela del paesaggio, le stesse sanzioni amministrative
previste dal codice della strada, perché la tutela del
paesaggio rappresenta un interesse diverso e ulteriore
rispetto al corretto assetto del territorio e, soprattutto,
alla tutela dell'incolumità pubblica nelle zone sismiche (ex
plurimis, Cass., sez. 3, 22.10.2010, n. 43249, rv.
248724; sez. 3, 10.04.2013, n. 39796, rv. 257677).
E tale giurisprudenza ha ampiamente superato il contrario
orientamento isolatamente espresso dalla sentenza sez. 3,
03.05.2006, n. 323, richiamata dalla difesa
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.05.2015 n. 19185). |
URBANISTICA:
La perdita di efficacia della concessione edilizia si
collega, in via immediata e diretta, al maturare della
scadenza prevista, onde il provvedimento di decadenza serve
solo a certificare una situazione già verificatasi al
momento in cui sono venuti in essere i presupposti stabiliti
dalla legge e, come tale, è un atto vincolato a carattere
meramente dichiarativo.
---------------
2. Nel merito con il ricorso in esame si deduce che:
- la classificazione dell’area di proprietà della ricorrente in
zona F1 sarebbe immotivata ed arbitraria, posto che la
ricorrente era già titolare di concessione edilizia;
- il piano urbanistico territoriale, approvato con la legge
regionale n. 35 del 1987 successivamente alla concessione
edilizia, non sarebbe applicabile alla fattispecie,
unitamente agli atti interpretativi ed esecutivi della
richiamata normativa regionale, ivi compresa la delibera
provinciale n. 6 del 22/01/1998;
- il giudice amministrativo avrebbe riconosciuto la piena
conformità del progetto edilizio agli strumenti urbanistici
vigenti ed alle indicazioni del PUT; le variazioni dello
strumento urbanistico successive al giudicato sarebbero
inopponibili agli interessati;
- l’entrata in vigore di un nuovo strumento urbanistico non
comporterebbe decadenza delle concessioni precedentemente
rilasciate;
- la classificazione non andrebbe mutata sino alla decisione del
giudice amministrativo sulle controversie pendenti;
- mancherebbe la previsione di indennizzo per i vincoli urbanistici
senza limite temporale implicanti inedificabilità;
- mancherebbe una adeguata motivazione per giustificare il
sacrificio delle legittime aspettative maturate dalla
ricorrente;
- non vi sarebbero prescrizioni della Provincia che impongano la
nuova classificazione urbanistica;
- sarebbe inconferente il riferimento al preminente interesse
pubblico in relazione all’avanzato stato di attuazione del
vigente piano di zona per l’edilizia economica e popolare;
- dalle note introduttive sull’esame delle osservazioni emergerebbe
una contraddittorietà nella parte in cui si evidenzia che la
revisione dei parametri contenuti nella normativa adottata
avrebbe portato ad un nuovo dimensionamento delle zone F1
ampiamente eccedente rispetto al reale fabbisogno;
arbitrariamente il Comune avrebbe trasformato aree
classificate come F1 in aree E “destinazione agricola”,
omettendo di giustificare il passaggio da C7 a F1 del suolo
della ricorrente;
- vi sarebbe disparità di trattamento della posizione della
ricorrente con quella dei soggetti ai cui suoli è stata
sottratta la destinazione F1;
- il rigetto delle osservazioni presentate dalla ricorrente sarebbe
viziato dal rinvio a tempo indeterminato di una risposta;
- l’eventuale accoglimento in sede giurisdizionale dell’impugnativa
pendente tra le parti potrebbe risultare inutile se fosse
consolidata la nuova destinazione urbanistica assegnata
all’area in questione;
- la delibera provinciale n. 6 del 1998, quale atto presupposto
della delibera impugnata, sarebbe viziata nella parte in cui
prospetta un dimensionamento del piano anche in relazione ai
vani abusivi; inoltre la citata delibera riterrebbe
inattendibile l’anagrafe edilizia predisposta dal Comune.
2.1. E’ in primo luogo da osservare che, secondo quanto
eccepito dal Comune resistente, con atto n. 13723 del
09/08/2004 è stata dichiarata la decadenza dei titoli
abilitativi edificatori ai quali la ricorrente fa
riferimento e che l’impugnativa di tale provvedimento
innanzi a questo Tribunale amministrativo è stata respinta
con sentenza n. 3544 del 2005, nella quale è precisato che “non
apparendo giustificabile il mancato completamento dei lavori
per il periodo successivo al 03.03.1995, di gran lunga
superiore a quello fissato dalla normativa di settore, la
decadenza della società ricorrente dalla concessione
edilizia originariamente rilasciata per silentium deve
ritenersi legittimamente dichiarata”.
In relazione a quanto precede è venuto meno l’interesse
della cooperativa ricorrente alle doglianze che fanno leva
sulla cennata concessione edilizia, che in realtà risultava
esaurita in epoca finanche anteriore agli atti in esame,
posto che nella medesima sentenza sopra richiamata è
precisato che “secondo un autorevole orientamento
giurisprudenziale, la perdita di efficacia della concessione
edilizia si collega, in via immediata e diretta, al maturare
della scadenza prevista, onde il provvedimento di decadenza
serve solo a certificare una situazione già verificatasi al
momento in cui sono venuti in essere i presupposti stabiliti
dalla legge e, come tale, è un atto vincolato a carattere
meramente dichiarativo” (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 20.06.2011 n. 3250
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La delibera
di adozione del PRG deve essere, eventualmente, impugnata
nel termine di decadenza decorrente dalla pubblicazione
degli atti prevista dalla legge.
---------------
Le osservazioni al PRG non costituiscono uno strumento di
tutela degli interessati, bensì una forma di collaborazione
data dai cittadini alla formazione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che il loro rigetto non
richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente
che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano regolatore o della
sua variante.
----------------
L’amministrazione, nell'esercitare il potere pianificatorio
ad essa attribuito, non è tenuta ad esternare in modo
puntuale le ragioni delle proprie scelte, essendo
sufficiente una ragionevole e coerente giustificazione delle
linee portanti della pianificazione. Né sussiste l'obbligo
di una motivazione specifica ed analitica per le singole
zone innovate, salva la necessità di una congrua indicazione
delle diverse esigenze che si sono dovute conciliare e la
coerenza delle soluzioni proposte con i criteri
tecnico-urbanistici stabiliti per la formazione del piano
regolatore.
Infatti la discrezionalità insita nelle scelte
pianificatorie esclude un obbligo di indicazione del
pubblico interesse al mutamento della qualificazione di una
zona urbanistica, rilevando a tal fine gli elementi
risultanti dalla relazione illustrativa delle finalità del
piano.
----------------
2.3. Analogamente sono inammissibili le doglianze che fanno
riferimento alla delibera di adozione che non viene risulta
impugnata, a prescindere da ogni considerazione sulla
tempestività di una siffatta impugnativa da proporre nel
termine di decadenza, decorrente dalla pubblicazione degli
atti prevista dalla legge (cfr. Cons. St., sez. VI,
18/08/2009, n. 4944; sez. VI, 10/02/2010, n. 663).
2.4. Riguardo all’atto impugnato, è da rilevare che le
osservazioni al PRG non costituiscono uno strumento di
tutela degli interessati, bensì una forma di collaborazione
data dai cittadini alla formazione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che il loro rigetto non
richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente
che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano regolatore o della
sua variante (cfr. Cons. St., sez. IV, 15/09/2010, n. 6911).
E’ comunque opportuno soggiungere che l’amministrazione,
nell'esercitare il potere pianificatorio ad essa attribuito,
non è tenuta ad esternare in modo puntuale le ragioni delle
proprie scelte, essendo sufficiente una ragionevole e
coerente giustificazione delle linee portanti della
pianificazione. Né sussiste l'obbligo di una motivazione
specifica ed analitica per le singole zone innovate, salva
la necessità di una congrua indicazione delle diverse
esigenze che si sono dovute conciliare e la coerenza delle
soluzioni proposte con i criteri tecnico-urbanistici
stabiliti per la formazione del piano regolatore (cfr. Cons.
St., sez. IV, 05/01/2011, n. 24). Infatti la discrezionalità
insita nelle scelte pianificatorie esclude un obbligo di
indicazione del pubblico interesse al mutamento della
qualificazione di una zona urbanistica, rilevando a tal fine
gli elementi risultanti dalla relazione illustrativa delle
finalità del piano (cfr. Cons. St., sez. IV, 18/10/2010, n.
7554) (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 20.06.2011 n. 3250
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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