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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di GIUGNO 2018

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aggiornamento al 30.06.2018 (ore 23,59)

aggiornamento al 15.06.2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.06.2018 (ore 23,59)

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Installazione di un chiosco su proprietà pubblica e necessità del titolo edilizio.

     L'avevamo già evidenziato con l'AGGIORNAMENTO AL 05.03.2012 ma, evidentemente, i sordi di comprendonio sono ancora molti: ecco un recentissimo arresto del TAR meneghino che censura (addirittura) l'operato della metropoli lombarda.

EDILIZIA PRIVATA: Installazione di un chiosco su proprietà pubblica e necessità del titolo edilizio.
Per l'esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica non è sufficiente il provvedimento di concessione per l'occupazione occorrendo, altresì, l'ulteriore e autonomo titolo edilizio, operante su di un piano diverso, e rispondente a diversi presupposti, sia rispetto all'atto che accorda l'utilizzo a fini privati di una determinata porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri atti autorizzativi eventualmente necessari, quali l'autorizzazione commerciale per la vendita di determinati prodotti (fattispecie relativa alla installazione di un chiosco che, in base a quanto disposto nel regolamento comunale per la disciplina del commercio sulle aree pubbliche, dà luogo ad un manufatto chiuso, di dimensioni contenute, generalmente prefabbricato, e strutturalmente durevole, posato su suolo pubblico, o su aree private soggette a servitù di uso pubblico, non rimuovibile al termine della giornata lavorativa).
---------------
La legittimazione a contestare un provvedimento di assegnazione in concessione di uno spazio di area pubblica per l'installazione del chiosco è riconosciuta in base al criterio cosiddetto della “vicinitas”, ovvero in caso di stabile collegamento materiale tra l'immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino contra legem un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, non essendo pertanto necessario dimostrare il pregiudizio della situazione soggettiva protetta, essendo il relativo danno ritenuto sussistente in re ipsa, in considerazione della violazione della normativa edilizia, incidendo ogni edificazione non conforme alla normativa ed agli strumenti urbanistici sull'equilibrio urbanistico del contesto, e sull'armonico ed ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quelli interessati.
La vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, è infatti, sufficiente a radicare la legittimazione ad causam, non essendo necessario accertare in concreto se i lavori comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione, dovendo ritenersi pregiudizievole in re ipsa la realizzazione di interventi suscettibili di incidere sulla qualità panoramica, ambientale, paesaggistica.
---------------
Il chiosco di che trattasi si troverà sul medesimo marciapiede su cui si affacciano gli immobili dei ricorrenti, rientrando pertanto nella visione di insieme dei palazzi d’epoca prospicienti la zona ... che si incontra con ... peraltro pressoché adiacente al Castello Sforzesco di Milano, e caratterizzata da un indubbio rilievo storico ed architettonico.
L’installazione del chiosco di che trattasi, potendo effettivamente introdurre un elemento di discontinuità nell’area in questione, come detto connotata da immobili di particolare pregio, è pertanto soggetta ad incidere negativamente sul loro valore, radicando così l’interesse dei ricorrenti alla sua contestazione.
Malgrado pertanto gli immobili dei ricorrenti non siano confinanti al chiosco oggetto del presente giudizio, alla luce delle peculiarità dell’area, sussistono ugualmente le condizioni dell’azione, essendo posti ad una distanza tale da non escludere l’interesse alla tutela giurisdizionale.
--------------
Per giurisprudenza pacifica, la prova della conoscenza dell'atto, ai fini della decorrenza del termine ex art. 41, c. 2, c.p.a. per proporre l'impugnativa giurisdizionale, deve essere fornita dalla parte che la eccepisce, trattandosi di un fatto impeditivo, ex art. 2697, c. 2 c.c., all’accoglimento della pretesa azionata in giudizio, dovendo la stessa essere fornita in modo rigoroso, affinché non sia vanificato in modo irragionevole il diritto di azione nei confronti dei provvedimenti dell'amministrazione, riconosciuto dal combinato disposto degli artt. 24 e 113 Cost..
--------------
Per giurisprudenza costante, ricade sul privato interessato l'onere della prova della data di ultimazione delle opere, essendo per il medesimo agevole fornire gli inconfutabili atti e documenti, come, a titolo esemplificativo, fatture, ricevute, bolle di consegna relative all'esecuzione dei lavori o all'acquisto dei materiali, od altri elementi probatori, capaci di radicare una ragionevole certezza circa l'epoca di realizzazione del manufatto.
--------------
E' illegittima l'autorizzazione comunale di installazione di un chiosco su suolo pubblico senza preventivamente rilasciare il permesso di costruire.
Invero, in base a quanto disposto dall’art. 3, c. 1, lett. e.5), del D.P.R. n. 380/2001, come modificato dalla L. n. 221 del 28.12.2015, tra gli "interventi di nuova costruzione", per i quali è necessario il permesso di costruire, rientrano anche quelli relativi l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, che siano utilizzati quali ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti.
Per giurisprudenza pacifica, rientrano infatti nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre il permesso di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo, e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e meramente occasionale, essendo pertanto necessario munirsi di permesso di costruire anche per l'installazione di un chiosco.
Malgrado la precarietà strutturale del manufatto, la sua rimovibilità, e l’assenza di opere murarie, il chiosco non è infatti deputato ad un suo uso per fini contingenti, quanto invece ad un utilizzo reiterato nel tempo, come tale idoneo ad alterare lo stato dei luoghi, con conseguente incremento del carico urbanistico.
--------------
Non ha pregio nella fattispecie la tesi per cui dovrebbe tuttavia trovare applicazione unicamente la disciplina del commercio su aree pubbliche, di cui alla L.R. n. 6/2010, oltre a quella regolamentare, che escluderebbero espressamente, per l’installazione delle opere di che trattasi, il permesso di costruire.
Ciò detto essendo la normativa in materia di commercio e quella edilizia preordinate alla tutela di beni giuridici differenti, dovendo pertanto essere applicate congiuntamente, come pacificamente ritenuto in giurisprudenza, secondo cui, malgrado le attività commerciali siano attualmente liberamente insediabili con riguardo al loro numero, non esistendo contingenti massimi autorizzabili, le stesse rimangono tuttavia soggette ai limiti fissati dalla normativa edilizia, oltreché a quella posta a tutela dei beni culturali, ed alla pianificazione urbanistica e paesaggistica.
L’art. 16, c. 3, della L.R. n. 6/2010 conferma peraltro espressamente la coesistenza tra la normativa dettata in materia di commercio e quella edilizia, prevedendo infatti che “devono comunque essere garantite la conformità urbanistica delle aree utilizzate, nonché, qualora necessaria ai sensi della normativa vigente, la conformità edilizia degli edifici”.
Per l'esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica, non è infatti sufficiente il provvedimento di concessione per l'occupazione, occorrendo altresì l'ulteriore ed autonomo titolo edilizio, operante su di un piano diverso, e rispondente a diversi presupposti, sia rispetto all'atto che accorda l'utilizzo a fini privati di una determinata porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri atti autorizzativi eventualmente necessari, quali l'autorizzazione commerciale per la vendita di determinati prodotti.
--------------

... per l'annullamento del provvedimento del 26.09.2016, con il quale il Comune di Milano - Settore Commercio, SUAP e Attività Produttive, ha autorizzato l'installazione di un chiosco per la somministrazione di alimenti in -OMISSIS- angolo -OMISSIS-, dell'autorizzazione paesaggistica n. 328 del 04.08.2016, con cui il Comune di Milano – Ufficio Tutela del Paesaggio, sulla scorta del parere espresso dalla Commissione per il Paesaggio, ha rilasciato l'assenso, per i profili di sua competenza, all'installazione del chiosco, della Deliberazione della Giunta Comunale – Settore Commercio, SUAP e Attività Produttive, n. 2858 del 30.12.2014, con la quale sono state dettate le linee di indirizzo per la predisposizione del bando, approvato con Determina Dirigenziale n. 1 del 08.01.2015, anch'essa qui gravata, per l'assegnazione di n. 82 posteggi c.d. “extra-mercato”, tra cui figura anche il posteggio ubicato nella posizione “-OMISSIS- -OMISSIS-”, e di ogni altro atto ad essi preordinato, presupposto, conseguenziale e/o comunque connesso.
...
Con delibera n. 2858 del 30.12.2014 la Giunta del Comune di Milano ha approvato le linee guida di indirizzo per l’assegnazione di n. 83 posteggi extra-mercato, al fine di implementare il numero delle postazioni distribuite in tutta la città che utilizzano strutture di vendita tipo banco, chiosco, trespolo, e autonegozio, individuando altresì le ubicazioni destinate alla loro installazione, e con determina n. 1 del 08.01.2015, è stato approvato il relativo bando pubblico.
Con il presente ricorso, gli istanti impugnano
il provvedimento di autorizzazione all’installazione di un chiosco in -OMISSIS- angolo -OMISSIS-, in favore del Sig. Va., in esito alla procedura prevista dalla citata delibera n. 2858/2014, parimenti gravata, unitamente alla relativa autorizzazione paesaggistica, deducendo che ciò avrebbe dovuto essere preceduto dal rilascio di un permesso di costruire (primo motivo), la mancanza di una puntuale istruttoria in ordine alla sua compatibilità con le caratteristiche dell’area (secondo motivo), che ne pregiudicherebbe la viabilità (terzo motivo) ed il decoro architettonico (quarto motivo), oltreché la ritardata conclusione dei lavori (quinto motivo).
...
I) In via preliminare, il Collegio deve scrutinare le eccezioni di inammissibilità del ricorso, che sono tuttavia infondate.
I.1.1) Con una prima eccezione, la difesa comunale deduce la carenza di interesse ed il difetto di legittimazione attiva in capo ai ricorrenti, evidenziando che, mentre nell’atto introduttivo del giudizio, essi si dichiarano residenti nella zona di -OMISSIS-, nella procura alle liti, solo una parte di essi (17 su 26), deduce di essere residente nelle vicinanze dell’area di cui in oggetto. In ogni caso, gli istanti non dimostrerebbero “quali interessi specifici” sarebbero effettivamente lesi dai provvedimenti impugnati, limitandosi ad evidenziare potenziali pregiudizi alla viabilità, ed all’utilizzazione di taluni servizi.
Analogamente, secondo il controinteressato, premesso che “il criterio della vicinitas non sarebbe stato sufficiente a fornire le condizioni dell’azione”, in ogni caso, “i ricorrenti avrebbero dovuto provare di essere residenti”, laddove invece, alcuni di loro, avrebbero ammesso di esserlo in zone diverse da quelle interessate dai provvedimenti impugnati.
Con la citata ordinanza n. 211/2018, rilevato che i ricorrenti si erano limitati a dichiarare la loro residenza, nell’atto di procura alle liti, e che effettivamente, per alcuni di loro, la stessa non si trova nelle vicinanze del chiosco oggetto dei provvedimenti impugnati, ai fini dello scrutinio dell’eccezione, il Collegio ha ordinato di depositare in giudizio documentazione comprovante il loro collegamento con l'area interessata dall'intervento, ciò a cui hanno provveduto in data 19.03.2018.
I.1.2) In linea generale, osserva il Collegio che la legittimazione a contestare un provvedimento di assegnazione in concessione di uno spazio di area pubblica per l'installazione del chiosco è riconosciuta in base al criterio cosiddetto della “vicinitas”, ovvero in caso di stabile collegamento materiale tra l'immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, quando questi ultimi comportino contra legem un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio, non essendo pertanto necessario dimostrare il pregiudizio della situazione soggettiva protetta, essendo il relativo danno ritenuto sussistente in re ipsa, in considerazione della violazione della normativa edilizia, incidendo ogni edificazione non conforme alla normativa ed agli strumenti urbanistici sull'equilibrio urbanistico del contesto, e sull'armonico ed ordinato sviluppo del territorio, a cui fanno necessario riferimento i titolari di diritti su immobili adiacenti, o situati comunque in prossimità a quelli interessati (TAR Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 23.02.2017, n. 109).
La vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato, è infatti sufficiente a radicare la legittimazione ad causam, non essendo necessario accertare in concreto se i lavori comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione, dovendo ritenersi pregiudizievole in re ipsa la realizzazione di interventi suscettibili di incidere sulla qualità panoramica, ambientale, paesaggistica (C.S. Sez. IV, 09.09.2014, n. 4547).
I.1.3) Con riferimento al caso di specie, in esito alla citata ordinanza istruttoria, i ricorrenti hanno dimostrato la loro vicinitas con il chiosco oggetto del presente giudizio, dovendosi pertanto respingere l’eccezione.
In particolare, gli istanti hanno infatti depositato i certificati di residenza di n. 9 ricorrenti, relativi al civico n. 63 di -OMISSIS-, posto a circa 20 m. dal chiosco, e di n. 8 ricorrenti, residenti al civico n. 67, posto a circa 70 metri dal chiosco, dimostrando pertanto la sussistenza del loro stabile collegamento con l’area oggetto del presente giudizio.
Come desumibile dall’esame del materiale fotografico e dalle planimetrie depositate in giudizio, ed ulteriormente illustrate dalle parti nel corso dell’udienza pubblica, il chiosco di che trattasi si troverà sul medesimo marciapiede su cui si affacciano gli immobili dei ricorrenti, rientrando pertanto nella visione di insieme dei palazzi d’epoca prospicienti la zona di -OMISSIS- che si incontra con -OMISSIS-, peraltro pressoché adiacente al Castello Sforzesco di Milano, e caratterizzata da un indubbio rilievo storico ed architettonico.
L’installazione del chiosco di che trattasi, potendo effettivamente introdurre un elemento di discontinuità nell’area in questione, come detto connotata da immobili di particolare pregio, è pertanto soggetta ad incidere negativamente sul loro valore, radicando così l’interesse dei ricorrenti alla sua contestazione (C.S., Sez. IV, 08.01.2016, n. 35).
Malgrado pertanto gli immobili dei ricorrenti non siano confinanti al chiosco oggetto del presente giudizio, alla luce delle peculiarità dell’area, sussistono ugualmente le condizioni dell’azione, essendo posti ad una distanza tale da non escludere l’interesse alla tutela giurisdizionale (C.S., Sez. VI, 05.01.2015, n. 11).
I.1.4) Quanto infine a 3 ricorrenti, che hanno comprovato il loro diritto di proprietà su talune unità immobiliari poste al civico 63, senza tuttavia esservi residenti, ed altri 6, che hanno invece documentato lo svolgimento di attività commerciale e di amministratore di condominio nello stesso, evidenzia il Collegio che, in primo luogo, la giurisprudenza considera provata la vicinitas, in relazione ad una situazione di stabile collegamento, anche a fronte di un titolo di frequentazione della zona interessata (TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 30.01.2018, n. 126, TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 08.03.2013, n. 627), e che comunque, anche ritenendo gli stessi privi di interesse ad agire, ciò non pregiudicherebbe l’ammissibilità del ricorso, con riferimento alle restanti posizioni.
Per giurisprudenza pacifica, il ricorso collettivo si risolve infatti in una pluralità di azioni contestualmente proposte mediante un unico atto, non comunicandosi agli altri le posizioni soggettive di ciascuno dei ricorrenti, tanto che un’eventuale pronuncia di inammissibilità dell’azione per uno dei ricorrenti, non preclude comunque una pronuncia di merito per l’altro (TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 17.12.2012, n. 3056).
I.2.1) Con una seconda eccezione, il controinteressato deduce l’inammissibilità del ricorso per mancata notifica ai controinteressati.
Avendo infatti gli istanti impugnato anche i provvedimenti che hanno assegnato agli operatori economici selezionati la gestione di altri chioschi, l’accoglimento del presente ricorso, a loro dire, pregiudicherebbe anche la loro posizione, rivestendo pertanto gli stessi la qualifica di controinteressati necessari.
In particolare, poiché in caso di annullamento dei provvedimenti oggetto del presente giudizio deriverebbe “la chiusura di tutti i chioschi presenti sul territorio comunale in forza del bando impugnato”, dovrebbe ritenersi che gli istanti abbiano presentato “tante autonome domande di annullamento rivolte nei confronti di tutti i concorrenti che sono stati selezionati per l’ottenimento dei posteggi”.
I.2.2) Osserva in contrario il Collegio che, malgrado i ricorrenti abbiano effettivamente impugnato, oltre all’autorizzazione all’installazione del chiosco da collocarsi in -OMISSIS-, e la relativa autorizzazione paesaggistica, anche la citata delibera n. 2858/2014, in materia di linee di indirizzo per la predisposizione del bando per l’assegnazione dei posteggi “extra mercato”, tuttavia, ciò ha avuto luogo, coerentemente al loro interesse, nella parte in cui “figura anche il posteggio ubicato nella posizione -OMISSIS- -OMISSIS-”.
Come sopra evidenziato, i ricorrenti non sono infatti operatori economici, interessati a contestare l’illegittima modalità di svolgimento della procedura di assegnazione delle postazioni commerciali, quanto invece residenti, o comunque titolari di posizioni qualificate, strettamente correlate all’area in cui verrà posizionato il chiosco del controinteressato.
Per giurisprudenza pacifica, l’esercizio dei poteri di interpretazione della domanda attribuiti al giudice devono infatti muovere dall’individuazione del bene giuridico cui l’interessato aspira, e che l'attività amministrativa gli ha negato, dovendo a tal fine considerarsi, al di là delle espressioni formali utilizzate dalle parti, la concreta situazione dedotta in causa, e le effettive finalità che la parte intende perseguire (C.S. Sez. V, 23.02.2018, n. 1147, che conferma TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 2933/2014).
Conseguentemente, l’eventuale pronuncia di annullamento dei provvedimenti in questa sede impugnati, non produrrebbe alcun effetto nei confronti degli ulteriori assegnatari, che non sono pertanto controinteressati nel presente giudizio, ferma restando ovviamente la facoltà, in capo al Comune, di adottare ulteriori provvedimenti nei loro confronti, suscettibili di essere autonomamente contestati.
Peraltro, osserva incidentalmente il Collegio come la citata delibera n. 2858/2014 non abbia espressamente prescritto che le installazioni oggetto dei posteggi “extra mercato” debbano essere prive del permesso di costruire, avendo infatti principalmente ad oggetto la “selezione degli operatori per il commercio su area pubblica con le modalità previste dalla L.R. 02.02.2010 n. 6 Testo Unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere, e dal Regolamento per la Disciplina del Commercio su aree pubbliche adottato con Delibera di Consiglio Comunale n. 9/2013”, non incidendo pertanto sulla disciplina urbanistica ed edilizia applicabile, i cui contenuti non possono che essere desunti dalle relative disposizioni speciali in materia.
I.3.1) Con un’ulteriore eccezione, il controinteressato deduce l’inammissibilità del ricorso per tardiva impugnazione dei provvedimenti gravati, essendo gli stessi stati pubblicati all’Albo Pretorio del Comune.
L’eccezione va respinta, non avendo l’istante in realtà fornito la prova di detta pubblicazione, che è stata espressamente contestata dai ricorrenti.
Per giurisprudenza pacifica, la prova della conoscenza dell'atto, ai fini della decorrenza del termine ex art. 41, c. 2, c.p.a. per proporre l'impugnativa giurisdizionale, deve essere fornita dalla parte che la eccepisce, trattandosi di un fatto impeditivo, ex art. 2697, c. 2 c.c., all’accoglimento della pretesa azionata in giudizio, dovendo la stessa essere fornita in modo rigoroso, affinché non sia vanificato in modo irragionevole il diritto di azione nei confronti dei provvedimenti dell'amministrazione, riconosciuto dal combinato disposto degli artt. 24 e 113 Cost. (C.S., Sez. V, 03.02.2016 n. 424).
I.3.2) Sotto altro aspetto, evidenzia il controinteressato che, a prescindere dalla pubblicazione dei provvedimenti impugnati all’Albo Pretorio, i ricorrenti erano comunque al corrente dell’installazione del chiosco in una data antecedente al termine di sessanta giorni dalla proposizione del ricorso, e precisamente, in relazione ai lavori occorsi per la sua installazione, documentando le date di loro effettuazione.
In via preliminare, osserva il Collegio che, per giurisprudenza costante, ricade sul privato interessato l'onere della prova della data di ultimazione delle opere, essendo per il medesimo agevole fornire gli inconfutabili atti e documenti, come, a titolo esemplificativo, fatture, ricevute, bolle di consegna relative all'esecuzione dei lavori o all'acquisto dei materiali, od altri elementi probatori, capaci di radicare una ragionevole certezza circa l'epoca di realizzazione del manufatto (TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, 27.09.2017, n. 638), ciò che non ha tuttavia avuto luogo nel caso di specie.
La documentazione che secondo l’interessato comproverebbero l’esecuzione dei lavori, menziona infatti un sopralluogo effettuato in data 02.02.2016, tuttavia antecedente al posizionamento del chiosco, richiedendosi il relativo nulla osta (doc. n. 15), oltreché l’esecuzione dei lavori necessari agli allacciamenti delle utenze (docc.ti 16-19), senza invece minimamente comprovare la sua vera e propria installazione, dovendosi pertanto respingere l’eccezione.
I.3.3) Un’ulteriore prova dell’avvenuta cognizione degli interventi oggetto del presente giudizio, sarebbe inoltre fornita da una lettera indirizzata dai ricorrenti al Sindaco di Milano, pubblicata in data 30.04.2017 su un quotidiano locale, in cui gli stessi si lamentano della costruzione del chiosco di che trattasi.
Anche detti rilievi sono infondati, essendo il ricorso stato notificato in data 16.06.2017, e pertanto prima di sessanta giorni decorrenti dalla pubblicazione della citata lettera, senza che il controinteressata abbia dimostrato l’esistenza di altre comunicazioni dei ricorrenti antecedenti.
I.4) Ulteriormente, il controinteressato deduce l’inammissibilità del ricorso, per mancata impugnazione di atti presupposti, ed in particolare, della delibera n. 1036/2012, che avrebbe dettato i criteri per il rilascio delle concessioni per l’installazione dei chioschi, e della graduatoria definitiva pubblicata in data 08.05.2015, oltreché del Regolamento per la disciplina del Commercio sulle Aree Pubbliche, del Regolamento Cosap, del Regolamento Edilizio, del Regolamento per la Disciplina del diritto ad occupare il Suolo, del Regolamento sul sistema dei controlli interni, del parere favorevole condizionato del 15.09.2015 del Settore Pianificazione e Programmazione, dell’Ufficio Programmazione Mobilità, dell’Ufficio Programmazione Arredo Urbano, quello del Settore Tecnico Infrastrutture e Arredo Urbano del 24.08.2015, dell’Autorizzazione Paesaggistica della Commissione del paesaggio del 04.08.2016, e della Relazione del Settore Tecnico Infrastrutture e Arredo Urbano del 04.03.2016.
Anche tale eccezione è infondata, non avendo il controinteressato comprovato che gli atti di cui lamenta la mancata impugnazione prevedessero la possibilità di autorizzare i chioschi con le modalità contestate nel ricorso, ed in primis, in assenza del permesso di costruire.
...
II.1) Quanto al merito, con il primo motivo, l’istante deduce l’illegittimità dell’autorizzazione all’installazione del chiosco per cui è causa, rilasciata dal Comune di Milano al controinteressato, in considerazione del mancato rilascio di un permesso di costruire avente ad oggetto tale struttura, ciò che sarebbe invece stato necessario, trattandosi di un’opera permanente e non rimuovibile.
II.1.1) Osserva il Collegio che, in base a quanto disposto nell’art. 25, punto 3, del Regolamento per la disciplina del commercio sulle aree pubbliche del Comune di Milano, la struttura di tipo “chiosco”, dà luogo ad un manufatto chiuso, di dimensioni contenute, generalmente prefabbricato, e strutturalmente durevole, posato su suolo pubblico, o su aree private soggette a servitù di uso pubblico, non rimuovibile al termine della giornata lavorativa.
In base a quanto disposto dall’art. 3, c. 1, lett. e.5), del D.P.R. n. 380/2001, come modificato dalla L. n. 221 del 28.12.2015, tra gli "interventi di nuova costruzione", per i quali è necessario il permesso di costruire, rientrano anche quelli relativi l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, che siano utilizzati quali ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti.
In relazione a quanto sopra, il motivo va pertanto accolto, avendo il Comune di Milano illegittimamente autorizzato l’installazione del chiosco in -OMISSIS- angolo -OMISSIS-, senza preventivamente rilasciare il permesso di costruire.
Per giurisprudenza pacifica, rientrano infatti nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre il permesso di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo, e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e meramente occasionale, essendo pertanto necessario munirsi di permesso di costruire anche per l'installazione di un chiosco (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 05.05.2016, n. 2282).
Malgrado la precarietà strutturale del manufatto, la sua rimovibilità, e l’assenza di opere murarie, il chiosco non è infatti deputato ad un suo uso per fini contingenti, quanto invece ad un utilizzo reiterato nel tempo (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 13.03.2017, n. 409), come tale idoneo ad alterare lo stato dei luoghi, con conseguente incremento del carico urbanistico (C.S., Sez. VI, 03.06.2014 n. 2842).
II.1.2) Secondo la difesa comunale e della controinteressata, nella fattispecie per cui è causa, dovrebbe tuttavia trovare applicazione unicamente la disciplina del commercio su aree pubbliche, di cui alla L.R. n. 6/2010, oltre a quella regolamentare, che escluderebbero espressamente, per l’installazione delle opere di che trattasi, il permesso di costruire.
Detti argomenti non hanno tuttavia pregio, essendo la normativa in materia di commercio e quella edilizia preordinate alla tutela di beni giuridici differenti, dovendo pertanto essere applicate congiuntamente, come pacificamente ritenuto in giurisprudenza, secondo cui, malgrado le attività commerciali siano attualmente liberamente insediabili con riguardo al loro numero, non esistendo contingenti massimi autorizzabili, le stesse rimangono tuttavia soggette ai limiti fissati dalla normativa edilizia, oltreché a quella posta a tutela dei beni culturali, ed alla pianificazione urbanistica e paesaggistica (TAR Marche, Sez. I, 16.04.2014, n. 434).
L’art. 16, c. 3, della L.R. n. 6/2010, invocato dalla difesa comunale, conferma peraltro espressamente la coesistenza tra la normativa dettata in materia di commercio e quella edilizia, prevedendo infatti che “devono comunque essere garantite la conformità urbanistica delle aree utilizzate, nonché, qualora necessaria ai sensi della normativa vigente, la conformità edilizia degli edifici”.
Per l'esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica, non è infatti sufficiente il provvedimento di concessione per l'occupazione, occorrendo altresì l'ulteriore ed autonomo titolo edilizio, operante su di un piano diverso, e rispondente a diversi presupposti, sia rispetto all'atto che accorda l'utilizzo a fini privati di una determinata porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri atti autorizzativi eventualmente necessari, quali l'autorizzazione commerciale per la vendita di determinati prodotti (C.S. Sez. VI, 27.02.2012 n. 1106).
II.1.3) Parimenti, anche la giurisprudenza citata dalla difesa resistente (C.S., Sez. V, 05.11.2012, n. 5589, TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 19.09.2013, n. 2248), conferma in realtà la fondatezza del motivo, in quanto riferita ad una fattispecie in cui era il Comune a realizzare le opere in assenza del permesso di costruire, essendo a tal fine equipollente la delibera del consiglio o della giunta comunale accompagnata da un progetto riscontrato conforme alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie, laddove il chiosco oggetto del presente giudizio è in proprietà esclusiva del controinteressato, non rientrando inoltre nel concetto di “opera pubblica”, come invece aveva luogo nelle citate decisioni.
Analogamente, anche i precedenti di questo Tribunale (Sez. I, 22.12.2014 n. 3123, 19.12.2013, n. 2889) non risultano pertinenti, in quanto aventi ad oggetto fattispecie antecedenti all’entrata in vigore della citata L. n. 221/2015, disciplinate da una differente versione del Regolamento Edilizio Comunale, ed in ogni caso, riferite ad “un manufatto in uso precario e amovibile”, la cui installazione era prevista per un periodo inferiore a dodici mesi (n. 3123/2014 cit.), diversamente da quello per cui è causa.
Neppure infine è pertinente alla fattispecie oggetto del presente giudizio C.S., Sez. VI, 21.11.2017 n. 5394, sia in quanto dettata in materia di impianti pubblicitari, sia soprattutto poiché, in tale pronuncia, il giudice d’appello non ha ravvisato la necessità di richiedere il titolo edilizio per la loro installazione, ritenendo che i vincoli previsti dall’art. 3 D.Lgs. n. 507/1993, tuttavia estraneo alla fattispecie per cui è causa, di per sé, tutelassero adeguatamente il corretto assetto del territorio.
II.1.4) Da ultimo, anche il richiamo all’art. 116, c. 4, del Regolamento Edilizio Comunale, secondo cui i chioschi, se realizzati su suolo pubblico, “non costituiscono oggetto di titolo abilitativo edilizio, ma sono installati secondo le modalità previste dai provvedimenti che autorizzano l’uso del suolo”, risulta irrilevante nel presente giudizio.
Come infatti correttamente osservato dai ricorrenti, detta norma si riferisce ai “manufatti provvisori”, la cui “permanenza non può superare i ventiquattro mesi”, laddove invece quello per cui è causa sarà installato per una durata di dodici anni.
Ad abundantiam, osserva il Collegio che anche ove l’art. 116 cit. potesse essere letto nei termini suggeriti dal controinteressato, ciò risulterebbe tuttavia incompatibile con l’art. 3, c. 1, lett. e), del D.P.R. n. 380/2001 citato, come modificato dalla L. n. 221/2015, trovando in tal caso applicazione il c. 2 dello stesso art. 3, secondo cui “le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi”, dovendo in tal caso il Collegio disporre in parte qua la disapplicazione del Regolamento Edilizio Comunale, in quanto contrastante, in termini di palese contrapposizione, con il disposto legislativo primario (C.S., Sez. V, 28.09.2016 n. 4009).
...
In conclusione,
il ricorso va pertanto accolto, quanto al primo motivo, e respinto per il resto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 12.06.2018 n. 1485 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale.
Si è condivisibilmente osservato al riguardo che la precarietà dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo.
Sotto tale aspetto, il Collegio ritiene che per le sue caratteristiche tipologiche e funzionali, nonché in considerazione del regime temporale della relativa utilizzazione il manufatto per cui è causa (ndr: chiosco di circa 110 mq.) sia riconducibile alle previsioni di cui alla lettera e.5) del comma 1 dell’articolo 3 d.P.R. n. 380 del 2001, a tenore del quale sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
Al riguardo, giova qui richiamare il condiviso orientamento secondo cui non possono comunque essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità dell’installazione del manufatto per cui è causa (destinato ad occupare circa 110 mq.) conferisca al manufatto nel suo complesso il carattere di “temporaneità”, atteso il carattere ontologicamente “non temporaneo” di una struttura destinata all’esercizio di un’attività commerciale e di somministrazione.
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7. Il ricorso principale è infondato e deve essere rigettato.
Riguardo ai caratteri del gazebo in questione, esteso circa 110 mq, il Collegio ritiene di richiamare l’orientamento –da quale non si rinvengono elementi per discostarsi– secondo cui i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale.
Si è condivisibilmente osservato al riguardo che la precarietà dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo (in tal senso: Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842; Cons. Stato, IV, 22.12.2007, n. 6615).
Sotto tale aspetto, il Collegio ritiene che per le sue caratteristiche tipologiche e funzionali, nonché in considerazione del regime temporale della relativa utilizzazione il manufatto per cui è causa sia riconducibile alle previsioni di cui alla lettera e.5) del comma 1 dell’articolo 3 d.P.R. n. 380 del 2001, a tenore del quale sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
Al riguardo, giova qui richiamare il condiviso orientamento secondo cui non possono comunque essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842; id, VI, 12.02.2011, n. 986; id., V, 12.12.2009, n. 7789;. id., V, 24.02.2003, n. 986; id., V, 24.02.1996, n. 226).
Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità dell’installazione del manufatto per cui è causa (destinato ad occupare circa 110 mq.) conferisca al manufatto nel suo complesso il carattere di “temporaneità”, atteso il carattere ontologicamente “non temporaneo” di una struttura destinata all’esercizio di un’attività commerciale e di somministrazione (in tal senso: Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842; Cons. Stato, IV, 23.07.2009, n. 4673).
Tanto premesso, deve ritenersi legittimo l’operato dell’Amministrazione intimata che ha correttamente configurato come costruzione il manufatto in oggetto e ha, pertanto, negato il titolo abilitativo in quanto l’opera non era conforme al Programma di fabbricazione del Comune per il mancato rispetto delle distanze dei confini e delle strade.
Alla legittimità del diniego dell’autorizzazione consegue la legittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata in quanto l’opera è stata eseguita in assenza della prescritta concessione edilizia (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 13.03.2017 n. 409 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per l'installazione di un chiosco è necessario munirsi di permesso di costruire; si deve, infatti, valutare l'opera alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di “costruzione”, per la quale occorre il permesso di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e meramente occasionale.
I manufatti non precari, in quanto funzionali a soddisfare esigenze permanenti, devono ritenersi idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con conseguente incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la loro eventuale precarietà strutturale, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie (come, ad esempio, per gazebo o chioschi); in tal senso, la “precarietà” dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene, mentre la precarietà dei materiali utilizzati non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo, tali per cui lo stesso è riconducibile nell'ipotesi prevista alla lett. e.5) del comma 1 dell'art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001 - che include tra le nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.

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Devono, infatti, ritenersi infondati i tre motivi di ricorso, che si ritiene di poter valutare congiuntamente.
Al riguardo il Collegio, condividendo la giurisprudenza amministrativa prevalente, dalla quale non ha motivo di discostarsi, ritiene che per l'installazione di un chiosco è necessario munirsi di permesso di costruire; si deve, infatti, valutare l'opera alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di “costruzione”, per la quale occorre il permesso di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo e pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e meramente occasionale (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 05.03.2015, n. 478).
I manufatti non precari, in quanto funzionali a soddisfare esigenze permanenti, devono ritenersi idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con conseguente incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la loro eventuale precarietà strutturale, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie (come, ad esempio, per gazebo o chioschi); in tal senso, la “precarietà” dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene, mentre la precarietà dei materiali utilizzati non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo, tali per cui lo stesso è riconducibile nell'ipotesi prevista alla lett. e.5) del comma 1 dell'art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001 - che include tra le nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 03.06.2014, n. 2842).
Passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame, l’ordinanza di demolizione impugnata è stata adottata ai sensi dell’articolo 31 del d.p.r. n. 380 del 2001, in riferimento alla scia presentata in data 27.01.2012 per l’istallazione di un chiosco per la somministrazione di alimenti e bevande, da installare in un area di pertinenza del Comando Provinciale Vigili del Fuoco, antistante l’ingresso principale, alla via G. Falcone, a seguito di quanto emerso dalla comunicazione prot. n. 12637 del 17.02.2012, relativa all’esito del sopralluogo effettuato dalla Polizia Municipale il 15.02.2012, sulla base della seguente motivazione: “in quanto trattasi di opere eseguite in assenza di Permesso di Costruire”.
Alla luce della richiamata giurisprudenza, la suddetta ordinanza di demolizione deve ritenersi legittimamente adottata nei confronti del ricorrente per la risolutiva circostanza della necessarietà del permesso di costruire, posta a fondamento dell’ordinanza di demolizione stessa
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.05.2016 n. 2282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 
 

Ancora in materia di debiti fuori bilancio...

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTILa Sezione Autonomie chiude al pagamento del debito fuori bilancio prima del consiglio.
Diversamente dall’ultime indicazioni dei giudici contabili (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 31 gennaio) sulla possibilità del pagamento dei debiti fuori bilancio originati da sentenze esecutive prima del loro formale riconoscimento in consiglio comunale, la Sezione delle Autonomie, con la deliberazione 28.03.2018 n. 4, chiude la porta a questa ipotesi stabilendo che il riconoscimento e la copertura finanziaria del debito fuori bilancio spetti, in via esclusiva e non delegabile, alla sola massima assise comunale (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 20 aprile).
La posizione delle Sezioni regionali
Un primo parere, sulla possibilità di procedere al pagamento del debito fuori bilancio, limitatamente alle sentenze esecutive, prima del suo formale riconoscimento in Consiglio comunale, è della Sezione Campania (
parere 10.01.2018 n. 2) essendo i pagamenti certi sia nell'an che nel quantum. Tale possibilità è stata successivamente confermata dalla Sezione Liguria (parere 22.03.2018 n. 73) che ha indicato, inoltre, il seguente iter:
   a) mediante pagamento disposto dal dirigente della spesa su capitoli esistenti;
   b) mediante variazioni di competenza della giunta comunale;
   c) e, in ultima istanza, mediante variazioni di urgenza da parte dell'organo esecutivo, secondo gli articoli 42, comma 4, e 175, comma 4, del Tuel. Le motivazioni di entrambi gli orientamenti discendono dall'evitare ulteriori spese a carico dell'ente locale in caso di inerzia del consiglio.
Le indicazioni della Sezione delle Autonomie
Tra i contenuti dell'analisi della situazione finanziaria degli enti locali, nel primo anno di applicazione della contabilità armonizzata sui dati del consuntivo 2016, la Sezione delle Autonomie si sofferma in modo particolare sul fenomeno dei debiti fuori bilancio e delle evidenti criticità che da questi debiti discendono.
Prima di analizzare le conseguenze di un ritardo del loro riconoscimento da parte del consiglio comunale, i giudici contabili precisano che «la procedura da seguire per ricondurre nella contabilità dell'Ente i debiti fuori bilancio consiste nel riconoscimento, in via esclusiva e non delegabile, da parte dell'organo consiliare di quest'ultimo che, con apposita delibera, accerta o autorizza la riconducibilità del debito ad una delle fattispecie previste dal legislatore, le cause della sua formazione e le eventuali responsabilità, individuando, quindi, le risorse necessarie per provvedere al relativo pagamento».
Precisando, inoltre che «la copertura del debito avvenga con il riconoscimento di legittimità, in qualsiasi momento questo si determini». È evidente, quindi, come anche per le sentenze esecutive l'unico organo competente, prima della disposizione del pagamento, resti solo il consiglio non potendo essere accettate altre modalità di liquidazione indicate dalle Sezioni regionali.
Il ritardo nel riconoscimento del debito
Una volta chiarita in via definitiva la competenza, la Corte indica anche le conseguenze di un possibile ritardo del riconoscimento del debito e, in particolare:
   • con l'introduzione del Dlgs 118/2011 il relativo principio applicato n. 4/2 ha statuito i criteri per una corretta contabilizzazione dei debiti fuori bilancio riconosciuti, stabilendo che essi vanno sempre imputati all'esercizio di scadenza, anche se riconosciuti successivamente alla chiusura dell'esercizio e rilevati in sede di rendiconto, mediante correlata riduzione del risultato di amministrazione;
   • si sarebbe in presenza di una violazione del principio di veridicità dei documenti e delle risultanze contabili e, nel contempo, verrebbero alterate le risultanze rilevanti ai fini del rispetto dei vincoli di finanza pubblica (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 10 aprile) e degli equilibri di bilancio.
La Corte, infine, fa presente che agli enti locali che presentino, nell'ultimo rendiconto deliberato, un disavanzo di amministrazione, ovvero debiti fuori bilancio, ancorché da riconoscere, nelle more della variazione di bilancio che dispone la copertura del disavanzo e del riconoscimento e finanziamento del debito fuori bilancio, è fatto divieto di assumere impegni e pagare spese per servizi non espressamente previsti per legge (articolo 188, comma 1-quater, del Tuel) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.04.2018).
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7 DEBITI FUORI BILANCIO
7.1 I criteri armonizzati d’imputazione
La riforma dei sistemi contabili si fonda su importanti principi generali dal cui rispetto dipende la sana gestione degli Enti. Il filo conduttore che rende omogeneo un intero ciclo di bilancio è quello che lega gli obblighi della programmazione, osservando un’attendibile previsione di entrate e spese, sia in termini di competenza sia in termini di cassa, a quelli della corretta contabilizzazione ed imputazione delle stesse e ad una loro attenta rendicontazione, il tutto funzionale ad una gestione rispettosa della regola costituzionale dell’obbligo del pareggio di bilancio. Le patologie delle gestioni, sia che attengano a puntuali irregolarità amministrativo-contabili, sia che raggiungano i livelli strutturali della costruzione del bilancio deliberato in pareggio finanziario, producono effetto sugli equilibri.
L’alterazione degli equilibri di bilancio può essere, infatti, imputabile, tra le varie cause, alla presenza dei debiti fuori bilancio
214, cioè ad obbligazioni che, non essendo registrate da subito nelle scritture contabili dell’Ente, restano fuori dalla programmazione finanziaria. La disciplina legislativa che declina i principi di gestione di cui al capo IV del Titolo III della parte II del Tuel, in quanto finalizzata alla migliore applicazione dei principi di veridicità, trasparenza ed equilibrio di bilancio, obbliga i singoli Enti, al ricorrere dei presupposti, ad adottare con tempestività i provvedimenti di riconoscimento dei debiti fuori bilancio, onde evitare la formazione di oneri aggiuntivi a carico dell’Ente, come eventuali interessi o spese di giustizia.
Rafforza tale obbligo anche la previsione contenuta nell’art. 188-quater, Tuel, secondo il quale nelle more del finanziamento e riconoscimento dei predetti debiti, non è possibile assumere impegni e pagare spese non previsti dalla legge.

Peraltro
il corretto sviluppo della programmazione finanziaria è presidiato da rilevanti momenti di verifica come quello di cui all’art. 193, co. 2, lett. b), Tuel, che obbliga il Consiglio a deliberare, almeno una volta l’anno, il permanere degli equilibri, assumendo, ove necessario, i relativi provvedimenti di ripiano così come previsti dal legislatore all’art. 194, Tuel.
Naturalmente
anche la riconduzione in bilancio di spese non programmate ne impone la copertura e, per lo più inevitabilmente, l’adozione di misure di ripiano che siano coerenti con gli equilibri di bilancio, misure che il consiglio comunale assume, contestualmente, alla rilevazione dei debiti, così come, più in generale, degli squilibri per il ripristino del pareggio, e ciò con facoltà di utilizzare anche l’avanzo libero come mezzo di copertura nel caso di insufficienza delle altre risorse, che in via principale devono essere utilizzate secondo le previsioni dell’art. 193, co. 3.
Il rigore dei provvedimenti di riequilibrio è dimostrato dal fatto che il mancato ripiano è equiparato alla mancata approvazione del bilancio di previsione (art. 193, co. 4) con la conseguente applicazione della procedura di scioglimento del consiglio comunale di cui al co. 2, art. 141, Tuel.

Occorre considerare che le misure di risanamento ex art. 193 Tuel segnano il confine con le eventuali diverse misure che si rendono necessarie in caso di squilibrio strutturale che integra una condizione di precarietà finanziaria più estesa. In tale prospettiva si pone il ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale prevista dall'art. 243-bis, Tuel, che richiede la preliminare ricognizione complessiva di tutta la massa debitoria, compresa quella cosiddetta sommersa, che si riconosce grazie all’applicazione dell’art. 194, Tuel. In caso contrario, oltre a violare lo specifico disposto di cui all’art. 243-bis, Tuel, si altererebbe l’attendibilità complessiva del Piano di riequilibrio, la cui disciplina è stata di recente modificata dall’art. 1, co. 888, della legge di bilancio per il 2018. Esso è anche indispensabile per accedere ad un Fondo di rotazione per assicurare la stabilità finanziaria degli Enti locali, presso il Ministero dell’Interno.
Sempre in un’ottica di sana gestione, risulta opportuno che l’Ente, in sede di programmazione, per garantire il mantenimento dell’equilibrio del bilancio nel tempo, preveda appositi accantonamenti, per affrontare gli eventuali oneri connessi ai rischi di possibili situazioni debitorie.
Tra gli accantonamenti di maggior rilievo si colloca l’obbligo di accantonare al Fondo rischio spese legali le risorse atte a coprire le maggiori spese derivanti da contenzioso. Con l’introduzione del d.lgs. n. 118/2011, sull’armonizzazione dei sistemi contabili, il relativo principio applicato n. 4/2 ha statuito i criteri per una corretta contabilizzazione dei DFB riconosciuti, stabilendo che essi vanno sempre imputati all’esercizio di scadenza, anche se riconosciuti successivamente alla chiusura dell’esercizio e rilevati in sede di rendiconto. Se, viceversa, i debiti riconosciuti non sono ancora scaduti devono essere registrati nell’esercizio di riconoscimento ed imputati secondo esigibilità.

Il legislatore ha cercato di porre limiti a questa disfunzione gestionale con la disciplina sanzionatoria contenuta nelle norme del Tuel, con le limitazioni al ricorso all’indebitamento e con l’obbligo dell’invio alle Procure regionali della Corte dei conti delle relative delibere. I debiti fuori bilancio, infatti, non solo alterano la stabilità degli equilibri, ma possono anche preludere a situazioni più gravi, come il dissesto. In tale contesto, assume rilievo la previsione normativa del parere del revisore nel caso di riconoscimento del debito fuori bilancio e della eventuale transazione che lo riguarda.
L’indagine svolta dalla Sezione sull’esercizio 2016 si è proposta di verificare l’andamento del fenomeno nelle Amministrazioni provinciali e comunali, comprensive delle Città metropolitane, estesa, talora, anche agli anni 2014-2015, analizzando i riconoscimenti deliberati sotto i vari profili di interesse ed in particolare rilevando:
   a) il dato dei ripiani con impegno sul bilancio di esercizio e sui due successivi;
   b) le tipologie delle risorse utilizzate per la copertura dei debiti;
   c) l’importo dei debiti fuori bilancio non ancora riconosciuti al 31.12.2015;
   d) il numero degli stessi Enti che hanno riconosciuto debiti fuori bilancio nell’ultimo biennio;
   e) gli Enti con debiti fuori bilancio che hanno usufruito degli strumenti finanziari previsti dal d.l. n. 35/2013 e, infine
   f) gli Enti che hanno deliberato il ripiano dei debiti riconosciuti nell’ambito della procedura di riequilibrio finanziario pluriennale.
Tra gli Enti che hanno un debito riconosciuto si è dato particolare risalto alla categoria peculiare di quelli per i quali pur avendo provveduto al riconoscimento antecedentemente all’esercizio di riferimento, non risultavano ancora finanziati per il relativo importo: tale categoria, che si colloca tra debiti riconosciuti e non riconosciuti, non interessa, in realtà, molti casi (61 Comuni, una Città metropolitana e una Provincia), anche se, sotto il profilo della gravità del fenomeno, è talora accomunata a quella dei debiti non riconosciuti.
Si è dato ancora particolare rilievo ai DFB ancora da riconoscere al 31.12.2016 che inficiano l’attendibilità delle scritture contabili. L’indagine è stata condotta utilizzando i dati riferiti dagli Enti interessati, attraverso la compilazione di un questionario.
Per entrambi gli esercizi considerati (2015-2016) sono risultati adempienti alla rilevazione, tramite il citato questionario, la quasi totalità degli Enti di area vasta; mentre per i Comuni si è registrata nel 2016, rispetto al precedente esercizio, una rilevazione più ridotta avendo inviato i questionari 7.299 Enti su 8.047.
...
7.4 Conclusioni
Tra le varie cause dell’alterazione degli equilibri di bilancio c’è l’impatto che possono avere con essi i debiti fuori bilancio, ovvero le obbligazioni che, non essendo registrate all’origine nelle scritture contabili dell’Ente, restano al di fuori della programmazione finanziaria. Sono questi fenomeni gestori in grado di porre a rischio l’attendibilità del risultato di amministrazione conseguito in sede di rendiconto, e che occorre considerare, se si vuole rappresentare correttamente la situazione finanziaria.
Va, infatti, tenuto presente che
non sempre i DFB riconosciuti sono contestualmente finanziati, là dove, invece, le norme contabili impongono che la copertura del debito avvenga con il riconoscimento di legittimità, in qualsiasi momento questo si determini. La procedura per ricondurre i DFB nella contabilità dell’Ente consiste nella sua identificazione, in via esclusiva e non delegabile, da parte di una delibera dell’organo consiliare, che autorizzi o accerti la riconducibilità del debito ad una delle fattispecie previste dal legislatore, le cause della sua formazione e le eventuali responsabilità, individuando, infine, le risorse necessarie per provvedere al relativo pagamento.
Il principio applicato n. 4/2 par. 9.1, sull’armonizzazione dei sistemi contabili, di cui al d.lgs. n. 118/2011, ha disposto i criteri per una corretta contabilizzazione dei DFB riconosciuti (e scaduti), stabilendo che essi vanno sempre imputati all’esercizio di scadenza, anche se rilevati, come spesso accade, in sede di rendiconto. Se, viceversa, i debiti riconosciuti non sono ancora scaduti, vanno registrati nell’esercizio di riconoscimento ed imputati nel momento in cui diventano esigibili.
In seno ai 105 Enti censiti di area vasta, il riscontro si è avuto da 63 Province e 9 Città metropolitane con debiti fuori bilancio riconosciuti nell’esercizio 2016, per un totale di poco più di 64 milioni di euro, di cui circa 45 milioni imputati alle Province e circa 19 milioni alle Città metropolitane, con un insignificante incremento complessivo rispetto all’esercizio 2015.
Non si è, dunque, confermata la tendenza ad una flessione di tutti i debiti fuori bilancio riconosciuti, comprensivi delle Province e delle Città metropolitane, il cui incremento non solo è, come si è visto, trascurabile, ma anche in sostanza riconducibile alle Città metropolitane. In effetti, dai dati del raffronto con l’esercizio 2015 risulta che, nelle Province, il numero dei debiti riconosciuti si è ridotto assai poco, dai 45.572.444 euro del 2015 ai menzionati 45.025.528 euro del 2016, a fronte di un marginale incremento del 2% nelle Città metropolitane (da 18.090.637 a 18.476.170 euro).
Presso i Comuni, nell’esercizio 2016 il fenomeno della contrazione di debiti fuori bilancio rimane tendenzialmente stabile per numero di Enti coinvolti, pari a 1.669 (nel 2015 erano stati 1.676), mentre diminuisce in valore assoluto e percentuale l’ammontare dei debiti riconosciuti, che scende complessivamente a circa 559 milioni di euro, rispetto ai circa 623 milioni dell’anno 2015 (-10%).
Nelle 63 Province che, nel 2016, registrano DFB riconosciuti per circa 45 milioni, le coperture con avanzo libero si sono ridotte, passando dal 50% circa del 2015 (in cui vi era una Provincia in più) a circa il 44% del 2016. Nel 2016 nelle 9 Città metropolitane, che hanno riconosciuto circa 19 milioni di debiti, l’avanzo libero è stato lo strumento di copertura in circa il 60% dei casi (11.395.044 euro).
I DFB non riconosciuti sono quelli che non compaiono affatto nelle scritture contabili, inficiandole, perché alla data di riferimento non era stata ancora emanata alcuna relativa delibera. Sfuggono, infatti, a ogni corretta rilevazione contabile, violando in modo palese il principio del rispetto della veridicità e attendibilità dei documenti contabili.
I debiti non riconosciuti al 31.12.2016, e da riconoscere nello stesso anno, riguardano 3 Città metropolitane e 22 Province, per un totale di 27.809.758 euro. Nel raffronto con l’esercizio 2015 si rileva che allora le Città metropolitane con questo tipo di debiti erano 5 e i loro debiti ammontavano a circa 3.271.942 euro, mentre le 23 Province avevano debiti pari a 31.957.588 euro, per un totale di DFB da riconoscere di 35.229.530 euro. Si registra, pertanto, una considerevole diminuzione di questi pari a 7.419.772 euro (circa il 21%). Presso i Comuni, invece, i DFB che al 31.12.2016 erano ancora da riconoscere ammontavano a circa 752 milioni di euro, con una crescita netta rispetto al 2015 in cui si erano registrati debiti per circa 684 milioni di euro (+10% circa).
Infine, i debiti fuori bilancio riconosciuti ma non ripianati nell’esercizio stesso, sono di importo limitato e poco significativo. Per le Province e Città metropolitane trattasi di un fenomeno quasi in via di estinzione. Per i Comuni, la stessa tipologia di debiti, riconosciuti ma da finanziare riguarda, nel 2016, 61 Comuni (erano 76 nel 2015) e un importo di circa 176 milioni di euro, ripianati tra l’anno stesso e i due successivi. Il ripiano riferito al biennio 2017/2018 investe una quota di debito pari a 5.104.887 euro (3% circa).
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214 Il quadro normativo dell’istituto è stato ampiamente trattato dalla Relazione di questa Sezione sulla gestione finanziaria degli Enti locali del 2015. Cfr. deliberazione n. 4/SEZAUT/2017/FRG (pagg. 354-358).

ATTI AMMINISTRATIVI - APPALTI: In coerenza con i principi di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa e con l’interesse pubblico volto ad evitare inutili sprechi di danaro pubblico, è possibile per i competenti organi dell’ente locale, nelle ipotesi e con le modalità precisate nel presente pronunciamento, procedere al pagamento dell’obbligazione derivante da un provvedimento giurisdizionale esecutivo anche prima della deliberazione consiliare di riconoscimento.
Resta comunque salvo l’obbligo della pronta attivazione e celere definizione del procedimento di cui all’art. 194 TUEL, nonché l’obbligo di includere la determinazione relativa al pagamento anticipato nella documentazione da trasmettere alla competente Procura della Corte dei conti ai sensi dell’art. 23 della legge n. 289 del 2002.
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In tema di debiti fuori bilancio, ovvero delle obbligazioni pecuniarie maturate senza la previa adozione dei dovuti adempimenti per la necessaria regolare assunzione dell’impegno contabile, la disciplina normativa si rinviene negli articoli 191, 193 e 194 del TUEL.
In particolare, è quest’ultima disposizione che prevede la possibilità per gli enti locali di riconoscere la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da determinate fattispecie tassativamente elencate nel primo comma, tra cui è compreso alla lett. a) il caso delle “sentenze esecutive”.
Dell’estesa elaborazione giurisprudenziale (oltre che dottrinaria) della materia, interessa qui ricordare in particolare due approdi interpretativi che risultano ormai assolutamente consolidati.
Un primo punto considerato certo attiene alla competenza del Consiglio comunale in ordine al riconoscimento dei debiti fuori bilancio, che è ritenuta esclusiva, non derogabile e non assumibile da altri organi, essenzialmente in ragione delle funzioni generali di indirizzo e controllo politico-amministrativo e di garante dell’equilibrio e della regolarità del sistema di bilancio, proprie dell’organo elettivo.
L’altro dato pacificamente acquisito è quello per cui, al di là del rilievo letterale, la riconoscibilità dei debiti derivanti da sentenze esecutive ammessa dall’art. 194, comma 1, lett. a), TUEL, è da intendersi riferita a tutti i provvedimenti giudiziari idonei a costituire un titolo esecutivo e ad instaurare un processo di esecuzione, ivi compreso, pertanto, il decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo.

Per gli amministratori e i funzionari che vengono a conoscenza dell’avvenuta notificazione di un decreto ingiuntivo, rimane obbligo prioritario quello di attivare e svolgere prontamente, ciascuno per la propria competenza, il procedimento che conduce alla tempestiva convocazione del Consiglio comunale deputato all’assunzione delle determinazioni inerenti il riconoscimento del debito fuori bilancio, in modo che l’adozione della deliberazione consiliare possa giungere in tempo utile per effettuare il pagamento nei termini stabiliti ed impedire la formazione di oneri aggiuntivi a carico dell’ente, come quelli connessi alla maturazione di interessi e rivalutazione monetaria o alle ulteriori spese legali conseguenti ad eventuali azioni esecutive.
La procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio ha la finalità generale di ricondurre entro il sistema di bilancio dell’ente determinate tipologie di spese generate al di fuori delle autorizzazioni già concesse.
Coerente allo scopo è la complessità della funzione assolta della delibera consiliare di riconoscimento.
In tale fase il Consiglio comunale ha, in primo luogo, il compito di riscontrare e dimostrare che la spesa rientri in una delle casistiche tipizzate dall’art. 194 TUEL. Tale accertamento si svolge secondo canoni e livelli di analisi alquanto diversi a seconda della tipologia di riferimento del debito, talora risultando sostanzialmente doveroso (come di seguito si vedrà, è questo il caso proprio dei provvedimenti giudiziari esecutivi), talaltra lasciando all’organo un certo margine di discrezionalità, come in particolare avviene con riguardo all’ipotesi di cui alla lett. e) della disposizione in parola, relativa alle obbligazioni sorte da acquisizioni di beni e servizi in violazione delle procedure di spesa.
Una volta valutata positivamente la riconoscibilità del debito, la delibera consiliare è diretta a garantire la salvaguardia degli equilibri generali di bilancio, in quanto deve contestualmente indicare le risorse per far fronte alla conseguente assunzione del nuovo impegno contabile e al relativo pagamento, individuandole tra le fonti di finanziamento consentite dall’ordinamento (cfr. in particolare, art. 193, comma 3 e art. 194, commi 2 e 3, TUEL).
La pronuncia del Consiglio comunale è altresì chiamata ad indagare su modalità e cause della irregolare formazione della posizione debitoria e ad accertare le eventuali responsabilità.
Dovrebbe cioè procedersi ad esaminare le procedure e operazioni amministrative eseguite, sia al fine di rilevare le anomalie da correggere per il futuro, sia per verificare se vi siano state mancanze ascrivili ad amministratori o funzionari dell’Ente, in grado di dar luogo in particolare a danni erariali.
Tale funzione di accertamento risulta rafforzata dalla previsione legislativa dell’obbligo di invio delle delibere di riconoscimento di debiti agli organi di controllo ed alla Procura regionale della Corte dei conti (articolo 23, comma 5, legge 27.12.2002, n. 289).

Come sopra accennato, sotto tale profilo la giurisprudenza della Corte dei conti ha ripetutamente osservato come, la fattispecie del riconoscimento di debiti derivanti da provvedimenti giudiziari esecutivi, presenti elementi di specificità che la distinguono dalle altre tipologie considerate dall’art. 194 TUEL.
Ciò per il fatto che, in questo caso, l’obbligazione debitoria si impone all’ente “ex se”, in virtù della forza imperativa dell’atto proveniente dal giudice che vincola chiunque, e quindi tanto un soggetto privato quanto un’Amministrazione pubblica, ad osservarlo ed eseguirlo (articolo 2909 del codice civile).
L’ente, cioè, è tenuto a saldare detti debiti effettuandone il pagamento, indipendentemente da qualsivoglia manifestazione di giudizio in ordine alla loro legittimità, che è già implicita nella fonte da cui promanano, tenuto conto che, in caso contrario, il creditore può ricorrere a misure esecutive per soddisfare la propria pretesa, con un pregiudizio ancora maggiore per l’ente.
Si afferma anche che cambia la natura dei poteri esercitabili dall’organo consiliare, posto che ad esso non residua alcun margine di discrezionalità in ordine all’an e al quantum del debito da riconoscere, che sono esplicitati nella statuizione del giudice.
Sotto questo specifico aspetto la deliberazione di riconoscimento assume una valenza meramente ricognitiva, di presa d’atto, mentre restano salve le altre funzioni di riconduzione della spesa nel sistema di bilancio nel rispetto degli equilibri finanziari e di analisi delle cause e delle eventuali responsabilità.
In ogni caso, il tempestivo svolgimento dell’iter ordinario stabilito per il riconoscimento del debito deve risultare idoneo, tanto più nel caso di provvedimenti giudiziari esecutivi, a condurre al pagamento in termini utili e a scongiurare il rischio di maggiori pregiudizi economici per l’ente.
Ciò specialmente quando, come nel caso del Comune istante, l’ente trovi un’intesa con il creditore sulle modalità di adempimento dell’obbligazione derivante dal provvedimento, ad esempio per una dilazione di pagamento (ipotizzata anche dall’art. 194, comma 2, TUEL) o per la rinuncia o riduzione degli interessi.
E ciò anche ove si ritenga applicabile agli enti locali (come incidentalmente adombrato in diversi pareri di sezioni regionali di controllo tra cui quello già citato della sezione pugliese) il lasso temporale di centoventi giorni tra notificazione del titolo esecutivo e possibilità di attivare il procedimento di esecuzione forzata, previsto dall’articolo 14 del decreto-legge 31.12.1996, n. 669, convertito nella legge 28.02.1997, n. 30.
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Il Sindaco del Comune di Imperia formula una richiesta di parere in tema di debiti fuori bilancio derivanti da provvedimenti giudiziari esecutivi.
A tale scopo, il Sindaco ricostruisce in maniera alquanto circostanziata e con allegazione di documenti, una vicenda amministrativa riguardante l’intervenuta revisione dei prezzi del servizio di gestione dei rifiuti solidi urbani, la quale, tuttavia, ai fini del presente esame merita di essere esposta con riferimento soltanto ad alcuni aspetti essenziali e alle fasi più recenti.
Risulta quindi che, su richiesta della società affidataria del predetto servizio, il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria ha emesso un decreto ingiuntivo, notificato in data 28.12.2017, con cui si ordina al Comune di Imperia il pagamento di una somma di danaro corrispondente ad un credito certo, liquido ed esigibile vantato dalla parte ricorrente, oltre all’IVA, agli interessi dalla domanda al saldo e alle spese del relativo procedimento.
In presenza di atti dirigenziali, comunicati alla società creditrice, che già in precedenza riconoscevano la debenza della somma richiesta in pagamento, e non ravvisando ora la sussistenza di elementi per proporre opposizione al decreto ingiuntivo, la Giunta Municipale, in base all’articolo 194, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (TUEL), con deliberazione del 30.01.2018 ha quindi formulato al Consiglio comunale una proposta di riconoscimento del debito fuori bilancio scaturente dal summenzionato decreto ingiuntivo, con l’indicazione delle relative modalità di ripiano.
Pressoché in parallelo, la società creditrice ha aderito, con note formali del 24.01.2018 e del 05.02.2018, alla richiesta dell’Ente di rinunciare agli interessi riconosciuti dal decreto ingiuntivo, a condizione che il pagamento avvenga entro la data del 31.03.2018.
Sennonché, allo stato il Consiglio comunale non è ancora giunto ad approvare la prevista deliberazione di riconoscimento del debito, in quanto nella seduta convocata nel giorno del 12.02.2018 è venuto a mancare il numero legale prima della votazione finale.
Ciò posto, il Sindaco intende sapere se, dinanzi alla possibilità di evitare al Comune il maggior esborso degli interessi dovuti in base al decreto ingiuntivo, e ritenuta sussistente la copertura finanziaria nel bilancio dell’Ente, sia legittimo procedere al pagamento di cui al decreto ingiuntivo in questione con apposita determinazione del dirigente competente, prima dell’adozione da parte del Consiglio comunale della deliberazione di riconoscimento del debito fuori bilancio prevista dalla disposizione sopra citata.
Nel rivolgere la richiesta, il Sindaco assume altresì un duplice impegno, volto ad assicurare sia il nuovo inserimento della proposta di riconoscimento del debito tra gli argomenti dell’ordine del giorno della prossima seduta del Consiglio comunale, sia la trasmissione della suddetta eventuale determinazione dirigenziale autorizzativa del pagamento alla competente Procura regionale della Corte dei conti, in attuazione dell’articolo 23, comma 5, della legge 27.12.2002, n. 289.
...
3. Sulla scorta delle suesposte osservazioni, dunque, la questione di merito sulla quale questo Collegio è chiamato a pronunciarsi può essere individuata nei seguenti precisi termini: “
può un Comune, in quanto destinatario di un decreto ingiuntivo divenuto definitivamente esecutivo per la mancata proposizione di opposizione, procedere mediante determinazione dirigenziale al pagamento della somma ordinata dal giudice, prima che intervenga la deliberazione del Consiglio comunale di riconoscimento del debito fuori bilancio, nell’ipotesi in cui questa sia comunque necessaria per l’assenza di un corrispondente previo impegno di spesa, quando ciò consentirebbe di evitare l’aggravio di oneri conseguente alla maturazione di interessi legali da corrispondere al creditore o alle spese giudiziarie connesse all’eventuale attivazione delle procedure esecutive?”.
Il tema generale chiamato in causa, dunque, è quello dei debiti fuori bilancio, ovvero delle obbligazioni pecuniarie maturate senza la previa adozione dei dovuti adempimenti per la necessaria regolare assunzione dell’impegno contabile, la cui essenziale disciplina normativa si rinviene negli articoli 191, 193 e 194 del TUEL. In particolare, è quest’ultima disposizione che prevede la possibilità per gli enti locali di riconoscere la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da determinate fattispecie tassativamente elencate nel primo comma, tra cui è compreso alla lett. a) il caso delle “sentenze esecutive”.
Dell’estesa elaborazione giurisprudenziale (oltre che dottrinaria) della materia, interessa qui ricordare in particolare due approdi interpretativi che risultano ormai assolutamente consolidati.
Un primo punto considerato certo attiene alla competenza del Consiglio comunale in ordine al riconoscimento dei debiti fuori bilancio, che è ritenuta esclusiva, non derogabile e non assumibile da altri organi, essenzialmente in ragione delle funzioni generali di indirizzo e controllo politico-amministrativo e di garante dell’equilibrio e della regolarità del sistema di bilancio, proprie dell’organo elettivo.
L’altro dato pacificamente acquisito è quello per cui, al di là del rilievo letterale, la riconoscibilità dei debiti derivanti da sentenze esecutive ammessa dall’art. 194, comma 1, lett. a), TUEL, è da intendersi riferita a tutti i provvedimenti giudiziari idonei a costituire un titolo esecutivo e ad instaurare un processo di esecuzione, ivi compreso, pertanto, il decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo.
Ciò detto, la sopra operata puntuale delimitazione dell’oggetto della questione da risolvere consente di escludere dal presente campo di osservazione altri profili problematici che sorgerebbero in relazione a situazioni che presentino varianti rispetto a quella prospettata.
Così vale, ad esempio, per i casi, rispettivamente, di decreto ingiuntivo non ancora esecutivo (non essendo trascorso il periodo indicato dal codice di procedura civile), o di decreto ingiuntivo la cui esecutività è stata sospesa nell’ambito del giudizio di opposizione. Rispetto al rapporto tra tali ipotesi e la materia dei debiti fuori bilancio, infatti, sorgono una serie di ulteriori questioni il cui esame, però, non assume rilievo in relazione alla situazione qui considerata in cui, appunto, il decreto ingiuntivo ha acquistato esecutività in via definitiva.
Allo stesso modo, in quanto non direttamente rilevanti ai presenti fini, si omettono le varie e complesse considerazioni che andrebbero svolte con riguardo all’ipotesi in cui l’obbligazione sottesa al decreto ingiuntivo fosse inquadrabile in origine nella tipologia di debiti fuori bilancio di cui art. 194, comma 1, lett. e), del TUEL, relativa all’acquisizione di beni e servizi in violazione delle procedure di spesa.
Per ragioni analoghe, non si considera l’ipotesi in cui, per la somma richiesta in pagamento col decreto ingiuntivo, sia stato in precedenza già assunto regolare impegno di spesa, visto che in tal caso si verserebbe al di fuori della disciplina dei debiti fuori bilancio e residuerebbe soltanto il problema del trattamento contabile da riservare ai maggiori oneri derivanti dalle spese giudiziarie, se non preventivati nel bilancio dell’Ente.
A tale situazione è assimilabile e, pertanto, esula anch’essa dall’esame della Sezione, quella in cui il precedente impegno di spesa sussista ma per importo inferiore a quello determinato nel decreto ingiuntivo, nel qual caso le problematiche si intrecciano con il tema del possibile inquadramento della fattispecie nell’area delle cd. “passività pregresse”, le quali non richiederebbero l’attivazione del procedimento di riconoscimento di debito, quanto invece la mera integrazione dell’impegno originario nonché, al verificarsi dei relativi presupposti, l’applicazione dei punti n. 5.2, lett. h) e n. 9.1 del principio contabile applicato della contabilità finanziaria di cui all’allegato 4/2 del decreto legislativo 23.06.2011, n. 118.
Con riferimento alla fattispecie concreta portata a conoscenza della Sezione dall’Ente istante, è bene sottolineare, incidentalmente, che la valutazione circa la sussistenza degli elementi di questa diversa ipotesi avrebbe dovuto essere svolta dagli organi competenti, non appena avuto cognizione della passività insorta e, quindi, prima ancora che questa diventasse oggetto del decreto ingiuntivo.
4. Muovendo da tali premesse, occorre anzitutto chiarire che, per gli amministratori e i funzionari che vengono a conoscenza dell’avvenuta notificazione di un decreto ingiuntivo, rimane obbligo prioritario quello di attivare e svolgere prontamente, ciascuno per la propria competenza, il procedimento che conduce alla tempestiva convocazione del Consiglio comunale deputato all’assunzione delle determinazioni inerenti il riconoscimento del debito fuori bilancio, in modo che l’adozione della deliberazione consiliare possa giungere in tempo utile per effettuare il pagamento nei termini stabiliti ed impedire la formazione di oneri aggiuntivi a carico dell’ente, come quelli connessi alla maturazione di interessi e rivalutazione monetaria o alle ulteriori spese legali conseguenti ad eventuali azioni esecutive.
In tal senso già si esprimeva, nella vigenza dell’ordinamento contabile precedente al d.lgs. n. 118 del 2011, il principio contabile n. 2 dell’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli Enti locali nel testo approvato il 12.03.2008, sia con generale riferimento all’insorgenza di passività idonee a determinare debiti fuori bilancio di qualsiasi tipologia (punti 93, 94, 95), sia con specifico riguardo al caso dell’obbligazione derivante da sentenza esecutiva (punto 103). Non sembra potersi dubitare, infatti, che in assenza di contenuti simili nei nuovi principi contabili armonizzati, quelle indicazioni costituiscano tuttora validi criteri di azione per gli enti locali.
5. La procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio ha la finalità generale di ricondurre entro il sistema di bilancio dell’ente determinate tipologie di spese generate al di fuori delle autorizzazioni già concesse.
Coerente allo scopo è la complessità della funzione assolta della delibera consiliare di riconoscimento.
In tale fase il Consiglio comunale ha, in primo luogo, il compito di riscontrare e dimostrare che la spesa rientri in una delle casistiche tipizzate dall’art. 194 TUEL. Tale accertamento si svolge secondo canoni e livelli di analisi alquanto diversi a seconda della tipologia di riferimento del debito, talora risultando sostanzialmente doveroso (come di seguito si vedrà, è questo il caso proprio dei provvedimenti giudiziari esecutivi), talaltra lasciando all’organo un certo margine di discrezionalità, come in particolare avviene con riguardo all’ipotesi di cui alla lett. e) della disposizione in parola, relativa alle obbligazioni sorte da acquisizioni di beni e servizi in violazione delle procedure di spesa.
Una volta valutata positivamente la riconoscibilità del debito, la delibera consiliare è diretta a garantire la salvaguardia degli equilibri generali di bilancio, in quanto deve contestualmente indicare le risorse per far fronte alla conseguente assunzione del nuovo impegno contabile e al relativo pagamento, individuandole tra le fonti di finanziamento consentite dall’ordinamento (cfr. in particolare, art. 193, comma 3 e art. 194, commi 2 e 3, TUEL).
La pronuncia del Consiglio comunale è altresì chiamata ad indagare su modalità e cause della irregolare formazione della posizione debitoria e ad accertare le eventuali responsabilità. Dovrebbe cioè procedersi ad esaminare le procedure e operazioni amministrative eseguite, sia al fine di rilevare le anomalie da correggere per il futuro, sia per verificare se vi siano state mancanze ascrivili ad amministratori o funzionari dell’Ente, in grado di dar luogo in particolare a danni erariali. Tale funzione di accertamento risulta rafforzata dalla previsione legislativa dell’obbligo di invio delle delibere di riconoscimento di debiti agli organi di controllo ed alla Procura regionale della Corte dei conti (articolo 23, comma 5, legge 27.12.2002, n. 289).
Come sopra accennato, sotto tale profilo la giurisprudenza della Corte dei conti ha ripetutamente osservato come, la fattispecie del riconoscimento di debiti derivanti da provvedimenti giudiziari esecutivi, presenti elementi di specificità che la distinguono dalle altre tipologie considerate dall’art. 194 TUEL.
Ciò per il fatto che, in questo caso, l’obbligazione debitoria si impone all’ente “ex se”, in virtù della forza imperativa dell’atto proveniente dal giudice che vincola chiunque, e quindi tanto un soggetto privato quanto un’Amministrazione pubblica, ad osservarlo ed eseguirlo (articolo 2909 del codice civile). L’ente, cioè, è tenuto a saldare detti debiti effettuandone il pagamento, indipendentemente da qualsivoglia manifestazione di giudizio in ordine alla loro legittimità, che è già implicita nella fonte da cui promanano, tenuto conto che, in caso contrario, il creditore può ricorrere a misure esecutive per soddisfare la propria pretesa, con un pregiudizio ancora maggiore per l’ente.
Si afferma anche che cambia la natura dei poteri esercitabili dall’organo consiliare, posto che ad esso non residua alcun margine di discrezionalità in ordine all’an e al quantum del debito da riconoscere, che sono esplicitati nella statuizione del giudice. Sotto questo specifico aspetto la deliberazione di riconoscimento assume una valenza meramente ricognitiva, di presa d’atto, mentre restano salve le altre funzioni di riconduzione della spesa nel sistema di bilancio nel rispetto degli equilibri finanziari e di analisi delle cause e delle eventuali responsabilità (l’orientamento è da tempo consolidato: cfr. da ultimo, parere 22.02.2018 n. 29 della Sezione regionale di controllo per la Puglia e
parere 10.01.2018 n. 2 della Sezione regionale di controllo per la Campania).
6. In ogni caso, il tempestivo svolgimento dell’iter ordinario stabilito per il riconoscimento del debito deve risultare idoneo, tanto più nel caso di provvedimenti giudiziari esecutivi, a condurre al pagamento in termini utili e a scongiurare il rischio di maggiori pregiudizi economici per l’ente. Ciò specialmente quando, come nel caso del Comune istante, l’ente trovi un’intesa con il creditore sulle modalità di adempimento dell’obbligazione derivante dal provvedimento, ad esempio per una dilazione di pagamento (ipotizzata anche dall’art. 194, comma 2, TUEL) o per la rinuncia o riduzione degli interessi. E ciò anche ove si ritenga applicabile agli enti locali (come incidentalmente adombrato in diversi pareri di sezioni regionali di controllo tra cui quello già citato della sezione pugliese) il lasso temporale di centoventi giorni tra notificazione del titolo esecutivo e possibilità di attivare il procedimento di esecuzione forzata, previsto dall’articolo 14 del decreto-legge 31.12.1996, n. 669, convertito nella legge 28.02.1997, n. 30.
Il problema si pone per i casi in cui, per qualsivoglia ragione, il corso del procedimento relativo al riconoscimento del debito incontri ostacoli che impediscono l’adozione di una deliberazione consiliare che sia utile allo scopo. Ciò è quello che è avvenuto nel Comune istante per le riferite circostanze eccezionali, ma lo stesso potrebbe verificarsi anche in relazione a fattori più probabili, come ad esempio la tempistica non immediata per la convocazione e l’istruttoria delle deliberazioni del Consiglio comunale, oppure i limiti normativi alla gestione del bilancio e alle relative variazioni in caso di esercizio provvisorio o gestione provvisoria.
Occorre allora porsi la domanda, che è insita nel quesito posto dal Comune, se quelle stesse esigenze di evitare all’ente i danni patrimoniali rinvenibili dal mancato o tardivo adempimento dell’obbligo di pagamento derivante dal provvedimento giurisdizionale esecutivo, le quali hanno ispirato e ispirano i sopra evidenziati canoni di azione amministrativa, anche di origine giurisprudenziale, volti alla rapida adozione della deliberazione consiliare di riconoscimento e al suo tempestivo pagamento, possano condurre, sempre e comunque attraverso l’interpretazione delle norme esistenti, all’individuazione della possibilità per amministratori e funzionari dell’ente stesso di effettuare detto pagamento prima dell’intervento del Consiglio comunale.
7. A tale questione, la Sezione ritiene di fornire soluzione affermativa, nei termini di seguito precisati.
7.1 Si rappresenta anzitutto l’ipotesi in cui, in considerazione dell’oggetto della spesa cui si riferisce l’obbligazione perfezionata con il provvedimento del giudice, sussista un pertinente e capiente stanziamento nel bilancio in corso di gestione.
In tale evenienza non si ravvedono ragioni per precludere all’organo competente alla gestione della spesa la possibilità di procedere all’assunzione del nuovo impegno contabile, propedeutico alle successive fasi della spesa e quindi anche al pagamento.
Ed invero, premesso che le obbligazioni giuridiche derivanti da provvedimenti giudiziari esecutivi si presentano come obbligazioni che si perfezionano senza il concorso della volontà dell’amministrazione, occorre notare che in fattispecie di questo genere non si è in presenza di alcuna situazione patologica né nel sistema di bilancio esistente, visto che già di per sé reca la copertura finanziaria per la nuova spesa, né nell’impegno contabile.
Sotto questo secondo profilo si osserva, infatti, che, come è stato tradotto in diritto positivo nel nuovo ordinamento contabile, la registrazione di un impegno di spesa può avvenire soltanto dal momento in cui l’obbligazione a carico dell’ente è giuridicamente perfezionata (cfr. punto 5.1 del già menzionato principio applicato della contabilità finanziaria di cui all’allegato 4/2). Perciò non può rilevarsi un’anomalia nell’assunzione dell’impegno a seguito dell’obbligazione giuridica che sorge e si perfeziona per effetto del provvedimento del giudice. Prima di tale momento ciò non sarebbe neppure stato possibile, come è confermato dal punto 5.2, lett. h), del medesimo principio contabile proprio con riferimento alle obbligazioni passive, solo potenziali, in attesa degli esiti di un giudizio.
L’esposta conclusione non significa che la situazione qui considerata fuoriesca dal campo di applicazione dell’art. 194 del TUEL. Anzi, anche in tali circostanze, il procedimento che culmina con la deliberazione consiliare di riconoscimento del debito continua a rappresentare la via ordinaria da seguire, che il legislatore ha evidentemente scelto di prescrivere con il richiamo anche alle sentenze esecutive, in considerazione della possibile, anche se non necessaria, presenza di elementi di irregolarità o di anomalie negli atti o fatti sottesi alla controversia giudiziale.
Ove, però, tale strada si riveli non tempestivamente e utilmente praticabile, gli amministratori o funzionari competenti potranno comunque, al verificarsi delle condizioni descritte, ugualmente attivarsi per il pagamento del debito, salvo l’obbligo per i medesimi di adoperarsi contemporaneamente per la definizione della deliberazione consiliare di riconoscimento.
Negare tale possibilità, nei casi in cui costituisce l’unico rimedio per evitare maggiori aggravi di spesa per l’ente, condurrebbe questa Sezione a privilegiare un formalismo giuridico che si appalesa all’evidenza non giustificato. Come sarà evidenziato meglio in seguito, infatti, la sottoposizione della fattispecie di spesa da provvedimento giurisdizionale esecutivo all’esame del Consiglio comunale in un momento successivo al pagamento del debito, lascia inalterati i poteri e i margini di valutazione che competono all’organo nell’ambito della deliberazione di riconoscimento e che potrà esercitare con uguali modalità e, soprattutto, con pari efficacia e rilevanza.
7.2 Può accadere, invece, che nel bilancio in corso di gestione non sussista uno stanziamento con oggetto corrispondente al tipo di spesa derivante dal provvedimento del giudice, oppure che tale stanziamento non offra più la necessaria capienza. In tale evenienza, si ha di fronte effettivamente una situazione patologica del bilancio, che non è in grado di recepire il nuovo fenomeno di rilevanza finanziaria. Ed è in relazione a questa situazione, e ad altre simili, che si svolge una delle ricordate funzioni proprie della deliberazione di riconoscimento del debito, ovvero quella della sua riconduzione al sistema di bilancio attraverso l’individuazione delle modalità di copertura.
Ciò nonostante, si ritiene che, sempre sul presupposto della non avvenuta tempestiva convocazione dell’organo consiliare, le apposite disponibilità di bilancio, necessarie per procedere al pagamento del debito ed evitare aggravi di spesa, possano essere ugualmente individuate attraverso l’esercizio dei poteri di variazione del bilancio spettanti in via ordinaria agli altri organi dell’ente.
Tale soluzione, d’altronde, si rivela pienamente in linea con l’attuale conformazione degli schemi contabili armonizzati degli enti locali, in cui si può distinguere, anche concettualmente, un bilancio cd. “decisionale”, corrispondente al bilancio di previsione per missioni e programmi sottoposto all’approvazione del Consiglio comunale (l’unità di voto è il programma), e un bilancio cd. “gestionale”, ovvero il Piano esecutivo di gestione (PEG) elaborato dalla Giunta, nel quale le previsioni del primo documento vengono ulteriormente articolate.
Il nuovo sistema di classificazione del bilancio si riverbera anche sulla distribuzione delle competenze nella materia delle variazioni di bilancio, le quali, come noto, rappresentano un importante strumento con cui viene garantita la necessaria flessibilità della gestione finanziaria.
Rinviando all’analitica disciplina contenuta principalmente nell’articolo 175 del TUEL, peraltro da coordinarsi con le norme e i limiti relativi all’esercizio provvisorio e alla gestione provvisoria (in specie l’art. 163 TUEL e il punto 8 del principio applicato di cui all’allegato 4/2), si osserva che, anche nel mutato quadro, la regola generale individua nel Consiglio l’organo deputato ad adottare le variazioni del bilancio di previsione, salve specifiche eccezioni. Alla Giunta, di contro, è invece formalmente riconosciuta, oltre alla competenza per alcune variazioni del bilancio di previsioni non aventi natura discrezionale, la pressoché esclusiva titolarità delle variazioni del Piano esecutivo di gestione, fatte solo salve alcune competenze rimesse ad organi dell’apparato amministrativo. Nella nuova disciplina, infatti, degli spazi per variazioni sia al bilancio di previsione che al Piano esecutivo di gestione sono attribuiti anche al responsabile finanziario dell’ente o ai singoli responsabili della spesa.
A fronte di questa precisa definizione dei diversi livelli di competenza e di responsabilità, appare dunque indubitabile che l’esercizio dei poteri di variazione spettanti alla Giunta e ai responsabili finanziari o della spesa non sia impedito dinanzi all’obbligo di adeguarsi al provvedimento del giudice, ove non si sia riusciti a provvedere in tempo con la deliberazione consiliare. Ciò, ovviamente, non determina un’esautorazione di poteri del Consiglio comunale, posto che, anche in tale circostanza, occorre ugualmente portare a compimento il procedimento di riconoscimento del debito previsto dall’art. 194 TUEL. In tale sede, l’organo consiliare potrà verificare e ratificare l’operato degli organi precedentemente intervenuti, ma potrà anche scegliere di adottare, attraverso variazioni di bilancio di propria pertinenza, una diversa soluzione in ordine alle modalità di finanziamento del nuovo debito.
7.3 Quest’ultima osservazione permette altresì di considerare praticabile, al fine di adeguare il sistema di bilancio alla necessità di adempiere all’obbligo di pagamento discendente dal provvedimento esecutivo del giudice, anche l’adozione in via d'urgenza da parte della Giunta di una variazione di bilancio di competenza del Consiglio, ai sensi degli articoli 42, comma 4 e 175, comma 4, del TUEL. Si ritiene infatti che l’esigenza di evitare maggiori oneri a carico dell’ente possa essere sufficiente ai fini della richiesta motivazione da sottoporre all’esame dell’organo consiliare.
Si osserva, anzi, che tale opportunità consente di poter accedere fin da subito, per il ripiano del nuovo debito, allo strumento finanziario più idoneo allo scopo, ovvero alle risorse eventualmente accantonate nel bilancio di previsione a titolo di fondo rischi derivanti da contenzioso, il cui utilizzo in via ordinaria richiede, appunto, in base all’attuale sistema di classificazione delle spese e alle regole fissate dall’art. 175 TUEL, una variazione di bilancio di competenza del Consiglio.
Anche in questo caso, la successiva verifica da parte dell’organo consiliare resta senz’altro garantita, non solo con la previsione della ratifica a pena di decadenza delle variazioni d’urgenza entro i sessanta giorni seguenti, ma anche perché non viene meno la necessità di pervenire comunque alla deliberazione di riconoscimento del debito, in occasione della quale il Consiglio potrà disporre dei suoi poteri con immutata efficacia.
8. Risulta dunque chiaramente assodato che, in tutte le esposte ipotesi in cui si ritiene ammissibile il pagamento del debito derivante da decreto ingiuntivo prima della delibera consiliare di riconoscimento, la necessità di pervenire comunque all’adozione di tale provvedimento rimane confermata, perché in tal senso è espressa la volontà del legislatore nell’art. 194 TUEL.
Si è anche fatto cenno all’osservazione per cui il Consiglio, sebbene giunto a deliberare soltanto dopo il pagamento, può nondimeno svolgere in tale successivo momento le funzioni tipiche del procedimento, con gli stessi margini di valutazione e la stessa efficacia di cui avrebbe disposto ove il procedimento medesimo avesse avuto corso regolare.
Si tratta ora di precisare meglio tale asserzione.
In effetti, il punto che, prima facie, può generare qualche problematicità è soltanto quello che si ricollega al rilievo per cui, con l’anticipato pagamento del debito, viene a determinarsi l’ingresso nella gestione finanziaria dell’ente di un fenomeno di spesa manifestatosi in modo anomalo e prima non rilevato, quando invece tale prerogativa viene tradizionalmente riservata al Consiglio comunale in sede di deliberazione di riconoscimento.
A questo riguardo, occorre tuttavia rifarsi a quanto innanzi già riferito in ordine alla peculiarità del riconoscimento di debito da provvedimenti giudiziari esecutivi. Si è visto, infatti, che nel caso all’attenzione l’organo consiliare non dispone di uno spazio valutativo in ordine alla legittimità del debito e alla necessità di riportarlo all’interno del bilancio, trattandosi di adempimento assolutamente doveroso e vincolato in virtù della forza imperativa della statuizione del giudice.
Ne consegue che, sotto siffatto specifico profilo, il diverso organo che, ordinando il pagamento del debito, anticipa gli effetti del riconoscimento, non provoca una compressione, e con essa un vulnus, dei poteri consiliari. Si può anzi affermare che esso soggiaccia, come il Consiglio, all’obbligo derivante dal provvedimento esecutivo e abbia quindi agito, nell’ambito delle proprie competenze, per assicurarne l’esecuzione.
Per quanto concerne, invece, l’integra conservazione dei poteri del Consiglio sulle modalità di copertura del debito fuori bilancio già pagato, sono sufficienti le notazioni in precedenza già svolte con riferimento a tutte le ipotesi considerate.
Infine, anche con riferimento alla funzione di accertamento delle cause e delle responsabilità delle fattispecie di debito, non vi è dubbio che in sede di deliberazione di riconoscimento successiva al pagamento, essa possa svolgersi con le stesse modalità ed efficacia e potrà ovviamente riguardare anche l’operato degli organi che hanno disposto il previo pagamento.
9. In conclusione,
questa Sezione ritiene che, in coerenza con i principi di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa e con l’interesse pubblico volto ad evitare inutili sprechi di danaro pubblico, sia possibile per i competenti organi dell’ente locale, nelle ipotesi e con le modalità precisate nel presente pronunciamento, procedere al pagamento dell’obbligazione derivante da un provvedimento giurisdizionale esecutivo anche prima della deliberazione consiliare di riconoscimento.
Restano comunque salvi l’obbligo della pronta attivazione e celere definizione del procedimento di cui all’art. 194 TUEL, nonché quello di includere la determinazione relativa al pagamento anticipato nella documentazione da trasmettere alla competente Procura della Corte dei conti ai sensi dell’art. 23 della legge n. 289 del 2002.
Nei precisati termini la Sezione si esprime in ordine alla questione giuridica astratta individuata sulla base della richiesta di parere pervenuta, senza che le considerazioni ed indicazioni riportate nella presente pronuncia possano precludere o limitare in alcun modo altre possibili future valutazioni, nella pertinente sede del controllo, sui vari profili della fattispecie concreta descritta dall’Ente istante qui non presi direttamente in esame (cfr. Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 22.03.2018 n. 73).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel caso di debiti a carico dell'Ente locale derivanti da sentenza esecutiva, l'Ente può procedere al pagamento ancor prima della deliberazione consiliare di riconoscimento, atteso che, in ogni caso, "non potrebbe in alcun modo impedire l'avvio della procedura esecutiva per l'adempimento coattivo del debito"; anzi, la prassi seguita dagli enti locali di attendere per il pagamento di quanto dovuto il preventivo riconoscimento della legittimità del debito da parte del consiglio comunale comporta il lievitare degli oneri patrimoniali per interessi legali ed eventuale rivalutazione monetaria, cui vanno aggiunte le spese giudiziali derivanti dalle procedure esecutive, nel caso in cui la predetta delibera non intervenga in tempi ragionevoli.
La giurisprudenza della Corte dei conti ha ripetutamente evidenziato la sostanziale diversità esistente tra la fattispecie di debito derivante da sentenze esecutive e le altre previste dall’art. 194 TUEL, osservando come, mentre nel caso di sentenza esecutive di condanna il Consiglio comunale non ha alcun margine di discrezionalità nel valutare l’an e il quantum del debito, poiché l’entità del pagamento rimane stabilita nella misura indicata dal provvedimento dell’autorità giudiziaria, negli altri casi descritti dall’art. 194 TUEL l’organo consiliare esercita un ampio apprezzamento discrezionale.
A fronte dell’imperatività del provvedimento giudiziale esecutivo, il valore della delibera consiliare non è quello di riconoscere la legittimità del debito che già è stata verificata in sede giudiziale, bensì di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato all’esterno di esso.
Sicché, l'Ente richiedente deve attenersi ai suindicati principi in relazione alle statuizioni di condanna all'erogazione dei contributi ex legge 219/1981 contenute nelle pronunce dell'A.G.O. indicate nella citata richiesta, a nulla rilevando, al fine di elidere l'obbligo di pagamento così sancito, la disposizione contenuta nell'art. 19, co. 7, d.lgs. n. 76/1990 1990 e dovendosi fare in ogni caso ricorso, nel caso di mancanza di disponibilità finanziaria sul fondo in cui confluiscono i predetti contributi, ai rimedi suggeriti dallo stesso art. 194 TUEL.
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Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del Comune di Paternopoli (AV) ha rivolto alla Sezione, ai sensi dell'art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003, una richiesta di parere sui seguenti quesiti:
   1) Se il Comune, Ente autonomo distinto dallo Stato, sia obbligato a riconoscere un debito, ai sensi dell'art. 194, comma 1°, lett. A) del vigente TUEL, per sentenze di accertamento del diritto al contributo e di condanna all'erogazione del contributo di cui alle L. n. 219/1981 e L. 32/1991, in assenza delle relative disponibilità finanziarie di cui alla stessa L. n. 219/1981;
   2) Se il Comune debba procedere comunque al riconoscimento del debito, ai sensi dell'art. 194, comma 1°, lett. A), del TUEL, per sentenze di condanna all'erogazione del contributo ex legge n. 219/1981, in assenza delle disponibilità a valere sui fondi della L. n. 219/1981, e quindi con risorse proprie del bilancio dell'Ente;
   3) Se, nell'ipotesi in cui non si debba procedere al riconoscimento del debito in assenza di disponibilità finanziarie in bilancia ex L. n. 219/1981, le 'spese di lite', derivanti dalla soccombenza dell'Ente nel giudizio, seguano la stessa disciplina oppure esse vadano comunque riconosciute con copertura finanziaria a valere sul bilancio dell'Ente.
Ai fini dell'inquadramento storico-giuridico della problematica proposta, il Comune richiedente ha rappresentato di avere un numero di abitanti inferiore a 3.000, di appartenere alla fascia IV e di essere beneficiario dei contributi di cui alle L. n. 219/1981 e L. n. 32/1991 per la ricostruzione post-terremoto del 1980, come disciplinati con D.Lgs. n. 76/1990.
L'Ente ha altresì esposto di aver ricevuto condanna -con sentenza n. 200/2016 del Tribunale di Avellino (ex Sezione Distaccata di Ariano Irpino) notificata il 29.09.2016 e con sentenza n. 124/2017 del Tribunale di Benevento (ex Sezione Distaccata di Ariano Irpino) notificata il 21.09.2017- a provvedere all'erogazione in favore dei richiedenti del contributo, ex L. 219/1981, ponendo a carico dell'ente (con la seconda delle indicate decisioni) le spese di lite.
Il Comune di Paternopoli, quindi, rappresentando l'indisponibilità di fondi sulla contabilità attinente alla L. n. 219/1981 e richiamando la disposizione contenuta nell'art. 19, comma 7°, del D.lgs. n. 76/1990, ha formulato l'ipotesi che l'Ente non debba procedere all'uopo al riconoscimento di debito fuori bilancio, "trattandosi di obbligazione a cui il Comune, quale Ente territoriale, è del tutto estraneo, derivante da 'contabilità speciale', ex T.U. n. 76/1990, i cui debiti devono essere soddisfatti unicamente con i 'fondi statali' accreditati sul richiamato Fondo Speciale. Ciò in quanto, per espressa previsione normativa, il Comune agisce nella veste di 'mandatario' dello Stato Centrale, unico ed esclusivo debitore per detti crediti"; ha rilevato, altresì -ritenendo di esser confortato da quanto osservato dalla Corte d'Appello di Napoli nella sentenza che n. 2599 del 06.06.2012- che "una diversa soluzione, volta a ipotizzare di porre a carico del Comune l'obbligo di provvedere comunque al pagamento con 'propri fondi' (in caso di incapienza di fondi messi a disposizione della Regione), si pone in palese contrasto con l'art. 119 Cost., laddove riconosce l'autonomia finanziaria del Comune ed, inoltre, sconvolge gli equilibri finanziari dell'Ente nella realizzazione del programma economico-politico dell'Amministrazione comunale".
...
C. In primo luogo, riguardo le disposizioni legislative sulla cui applicabilità alla fattispecie descritta nel parere il Comune si interroga -e chiede lumi a questa Sezione regionale di controllo- vanno, in primo luogo, riportate quelle contenute nell'art. 194 TUEL ("Riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio"):
   1. Con deliberazione consiliare di cui all'articolo 193, comma 2, o con diversa periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da:
      a) sentenze esecutive;
      b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi, purché sia stato rispettato l'obbligo di pareggio del bilancio di cui all' articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di gestione;
      c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l'esercizio di servizi pubblici locali;
      d) procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per opere di pubblica utilità;
      e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
   2. Per il pagamento l'ente può provvedere anche mediante un piano di rateizzazione, della durata di tre anni finanziari compreso quello in corso, convenuto con i creditori.
   3. Per il finanziamento delle spese suddette, ove non possa documentalmente provvedersi a norma dell'articolo 193, comma 3, l'ente locale può far ricorso a mutui ai sensi degli articoli 202 e seguenti. Nella relativa deliberazione consiliare viene dettagliatamente motivata l'impossibilità di utilizzare altre risorse.

Ai fini di un brevissimo inquadramento storico, il Collegio ricorda che
la dicitura 'debito fuori bilancio' è comparsa, per la prima volta, nell'art. 1-bis, comma 3, del d.l. n. 318/1986, convertito con legge 488/1986; in tale contesto il legislatore -in una logica di 'sanatoria'- ha voluto rendere visibili i debiti fuori bilancio, intesi dalla Corte dei Conti (Sezione Enti Locali - deliberazione n. 30 del 24.11.1986) quali residui occulti o 'di fatto' la cui diffusione risultava essere idonea a celare la veridicità delle risultanze contabili della gestione, articolandone la disciplina in un'ottica di riequilibrio di gestione.
Il quadro normativo è stato rivisitato dal d.lgs. n. 77/1995, che ha introdotto una serie di regole e di vincoli finalizzati al mantenimento degli equilibri gestionali, i cui artt. 35 e 37 sono stati riprodotti fedelmente, in attuazione dell'art. 31 della legge n. 285/1999, nell'art. 194, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000; norma quest'ultima, che traccia un'eccezione ai principi sanciti dall'art. 191, stesso T.U. degli Enti Locali, in tema di impegno di spesa, per cinque categorie espressamente delineate dal comma 1 dell'art. 194 qui in rilievo, da finanziare con la procedura di cui all'art. 193.

Al di là della diversa natura delle fattispecie debitorie ivi tassativamente contemplate, l'elemento che le unifica è rinvenibile nel fatto che il debito viene ad esistenza al di fuori e indipendentemente dalle ordinarie procedure che regolamentano la formazione della volontà dell'ente. Riguardo le caratteristiche proprie delle singole ipotesi di debito, invece, quelli di cui alla lett. a) -che vengono in rilievo nella fattispecie proposta nell'epigrafata richiesta di parere- si distinguono dagli altri per il fatto che il debito si impone all'ente in virtù del provvedimento dell'autorità giudiziaria.
La fattispecie del riconoscimento del debito fuori bilancio per sentenza è presa in considerazione, come detto, dall'art. 194, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 267/2000, ove si fa riferimento alle sole sentenze esecutive, ritenendo dunque, perfezionato l'obbligo di pagare in conseguenza dell'esecutività delle stesse, a differenza di quanto previsto in precedenza dal d.lgs. n. 77/1995, che comprendeva tanto le sentenze passate in giudicato quanto quelle immediatamente esecutive.
Certamente, la necessità di pagare immediatamente somme cospicue, a seguito di sentenza non ancora passata in giudicato, pone almeno due ordini di difficoltà: reperire il finanziamento senza pregiudicare gli equilibri di bilancio; ripetere le somme in caso di vittoria in un successivo grado di giudizio.

Si presentano, così, apparentemente confliggenti l'obbligo di ottemperare all'ordine del giudice e quello, non meno rilevante, di tutelare, nell'interesse pubblico, gli equilibri di bilancio; conflitto che va risolto auspicabilmente ricercando soluzioni -posto che occorre pagare i debiti con la massima sollecitudine al fine di evitare ulteriori oneri a carico dell'ente- intese ad accordi con le controparti per attuare ipotesi transattive tendenti alla falcidia, se non altro, dell'ammontare della rivalutazione monetaria e degli interessi moratori dovuti.
Valga, altresì osservare, in argomento, che nel caso di debiti derivanti da sentenza esecutiva, la valenza della delibera consiliare richiesta dall'art. 193, comma 2, TUEL ai fini del riconoscimento dei debiti fuori bilancio -da approvare entro il 30 settembre di ogni anno, o con diversa periodicità stabilita dal regolamento di contabilità- non può essere quella di riconoscere la legittimità del debito, che di per sé già esiste in virtù della statuizione del giudice, che non lascia alcun margine di valutazione all'organo consiliare dell'Ente.

Nell'ipotesi de qua, invero,
è ragionevole ritenere che l'atto deliberativo consiliare costituisce lo strumento attraverso cui il debito da sentenza viene ricondotto al 'sistema bilancio', nel senso che l'attivazione della procedura consiliare permane, ma con la sola funzione di salvaguardare gli equilibri di bilancio; sul quale il debito avrà un diverso peso a seconda che esso trovi o meno copertura finanziaria in un impegno di spesa assunto precedentemente nelle previsioni della sua insorgenza. Spetta, cioè, alla diligente, tempestiva e puntuale valutazione dell'Ente l'opportunità di effettuare un preventivo accantonamento al fine di evitare un forte impatto della passività sugli equilibri del bilancio.
E' per le ragioni suesposte, che
è stato correttamente affermato (cfr. Corte dei conti - SS.RR. per la Regione Sicilia, parere 11.03.2005 n. 2) che nel caso di debiti derivanti a carico dell'Ente locale da sentenza esecutiva, l'Ente medesimo può procedere al pagamento ancor prima della deliberazione consiliare di riconoscimento, atteso che, in ogni caso, "non potrebbe in alcun modo impedire l'avvio della procedura esecutiva per l'adempimento coattivo del debito" e che, anzi, la prassi seguita dagli enti locali di attendere per il pagamento di quanto dovuto il preventivo riconoscimento della legittimità del debito da parte del consiglio comunale comporta il lievitare degli oneri patrimoniali per interessi legali ed eventuale rivalutazione monetaria, cui vanno aggiunte le spese giudiziali derivanti dalle procedure esecutive, nel caso in cui la predetta detta deliberazione non intervenga in tempi ragionevoli.
I principi sin qui illustrati sono correttamente e condivisibilmente compendiati nel parere 15.09.2016 n. 152 della Sezione regionale di controllo della Puglia, al cui vaglio consultivo veniva ivi sottoposta una questione coinvolgente l’istituto giuridico del riconoscimento dei debiti fuori bilancio derivanti da sentenza esecutiva previsto dall’art. 194, comma 1, lett. a), del TUEL:
  
"La giurisprudenza della Corte dei conti (cfr. ex multis, SSRR sentenza 27.12.2007 n. 12/2007/QM) ha ripetutamente evidenziato la sostanziale diversità esistente tra la fattispecie di debito derivante da sentenze esecutive e le altre previste dall’art. 194 TUEL, osservando come, mentre nel caso di sentenza esecutive di condanna il Consiglio comunale non ha alcun margine di discrezionalità nel valutare l’an e il quantum del debito, poiché l’entità del pagamento rimane stabilita nella misura indicata dal provvedimento dell’autorità giudiziaria, negli altri casi descritti dall’art. 194 TUEL l’organo consiliare esercita un ampio apprezzamento discrezionale.
In mancanza di una disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le 'sentenze esecutive', tuttavia, non è consentito discostarsi dalla stretta interpretazione dell’art. 193, comma 2, lett. b), del TUEL (nella formulazione vigente), ai sensi del quale: “... i provvedimenti per il ripiano di eventuali debiti di cui all’art. 194 ...' sono assunti dall’organo consiliare contestualmente all’accertamento negativo del permanere degli equilibri di bilancio (cfr. art. 193, comma 2 cit.).
Infatti, a fronte dell’imperatività del provvedimento giudiziale esecutivo, il valore della delibera del Consiglio non è quello di riconoscere la legittimità del debito che già è stata verificata in sede giudiziale, bensì di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato all’esterno di esso.
In tale prospettiva l’art. 194, primo comma, TUEL rappresenta un’eccezione ai principi riguardanti la necessità del preventivo impegno formale e della copertura finanziaria; onde per riportare le ipotesi previste nell’ambito del principio di copertura finanziaria è, dunque, richiesta la delibera consiliare con la quale viene ripristinata la fisiologia della fase della spesa e i debiti de quibus vengono ricondotti a sistema (cfr. ex multis Corte dei Conti, sez. contr. Friuli Venezia Giulia, 6/1c/2005,) mediante l’adozione dei necessari provvedimenti di riequilibrio finanziario.
Ulteriore funzione svolta dalla delibera consiliare è l’accertamento delle cause che hanno originato l’obbligo, con le consequenziali ed eventuali responsabilità; infatti, questa funzione di accertamento è rafforzata dalla previsione dell’invio alla Procura regionale della Corte dei conti (art. 23, comma 5, L. 289/2002) delle delibere di riconoscimento di debito fuori bilancio.
Nella delineata prospettiva interpretativa, la delibera consiliare svolge una duplice funzione, per un verso, tipicamente giuscontabilistica, finalizzata ad assicurare la salvaguardia degli equilibri di bilancio; per l’altro, garantista, ai fini dell’accertamento dell’eventuale responsabilità amministrativo-contabile (cfr. ex multis: Corte dei conti, Sezione Regionale per la Puglia deliberazione 23.10.2014 n. 180).
Sulla base delle esposte considerazioni, nel caso di sentenze esecutive e di pignoramenti, sussiste, l’obbligo di procedere con tempestività alla convocazione del Consiglio comunale per il riconoscimento del debito, in modo da impedire il maturare di interessi, rivalutazione monetaria ed ulteriori spese legali (cfr. ex multis Corte dei conti, Sezione Regionale per la Puglia n. deliberazione 03.06.2016 n. 122).
Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è consentito all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli artt. 193 e 194 TUEL che garantiscono una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa per salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale.
Inoltre, il tempestivo riconoscimento e finanziamento del debito fuori bilancio, nonché il conseguente pagamento, non esporrebbero l’ente al rischio di azioni esecutive, considerato che il decorso di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo (previsti dall’art. 14, del Decreto Legge 31.12.1996, n. 669 convertito in legge 28.02.1997, n. 30 come modificato dall’art. 147 della Legge 23.12.2000, n. 288), comporterebbe l’avvio delle procedure esecutive nei confronti della P.A.
".
Ebbene,
è ai suindicati principi che l'Ente richiedente il parere deve attenersi in relazione alle statuizioni di condanna all'erogazione dei contributi ex legge 219/1981 contenute nelle pronunce dell'A.G.O. indicate nella medesima richiesta di parere, a nulla rilevando, al fine di elidere l'obbligo di pagamento così sancito, la disposizione contenuta nell'art. 19, comma 7, d.lgs. n. 76/1990 richiamata dal Comune di Paternopoli.
Tale disposizione, invero, prevede, nell'ambito della "Disciplina delle commissioni comunali e del procedimento di assegnazione del contributo" cui è dedicato il predetto art. 19, che "In mancanza di disponibilità finanziarie, il sindaco indica il contributo, riservandosi, ad avvenuta integrazione dei fondi, la formale determinazione e assegnazione aggiornata del contributo stesso in attuazione degli articoli 10, 11 e 12"; attenendo, di conseguenza, all'ipotesi in cui, esitata positivamente l'istanza di assegnazione del contributo ex legge 219/1981 ricorrendone tutti i necessari presupposti, vada tuttavia attivata la procedura d'integrazione del fondo all'uopo costituito mancando in esso la necessaria disponibilità finanziaria.
In altri termini: in tema di contributi per la ricostruzione o riparazione di immobili colpiti dagli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981, il decreto sindacale di "indicazione" del contributo "in mancanza di disponibilità finanziarie", di cui all'art. 19, comma 7, del T.U. approvato con il d.lgs. 30.03.1990, n. 76, integra, in presenza del parere positivo dell'apposita commissione, una fattispecie di "riconoscimento" del contributo medesimo, con riserva di successiva e concreta erogazione-liquidazione dello stesso (Cass. SS.UU. Civ., sent. n. 3849/2012).
La mancanza di disponibilità finanziaria non potrà, per contro, essere invocata al fine di rinviare ad un momento successivo alla reintegrazione del predetto fondo speciale, il pagamento dei debiti scaturenti dalle sentenze esecutive indicate nell'epigrafata richiesta di parere, di cui si è detto in precedenza.
E ciò, non soltanto in relazione alla necessità prevista ex lege, di onorare con la massima tempestività le situazioni debitorie indicate alla lettera a) del primo comma dell'art. 194 TUEL, ma anche perché i fondi per la ricostruzione assegnati ai Comuni ai sensi della legge n. 219/1981 e successive modificazioni sono direttamente gestiti dai predetti enti locali attraverso i propri organi individuali e collegiali, competendo ad essi l'istruzione delle pratiche di ricostruzione, lo svolgimento dei controlli stabiliti dalla legge, la determinazione e l'assegnazione, tramite il sindaco, dei contributi previsti dalla normativa citata; ne consegue che unico legittimato passivo nei giudizi instaurati per ottenere il riconoscimento e la corresponsione dei contributi in questione è il Comune (C. Cass., Sez. I Civ., sent. n. 10806/2006).
Infatti, com’è noto, l’accertamento di fondi rivenienti dalla ridetta contabilità speciale, non genera, per gli enti territoriali interessati, una gestione ”in conto terzi”, ma una gestione vincolata con impatto sul risultato di amministrazione (art. 187 TUEL) e sulla cassa (artt. 195 e 222 TUEL).
Riguardo la prospettata mancanza di disponibilità finanziaria necessaria per far fronte ai debiti derivati dalle pronunce di condanna indicate nella richiesta di parere oggetto della presente delibera, va ricordato che è la legge stessa che disciplina le modalità di pagamento ed il reperimento dei mezzi finanziari a copertura dei debiti fuori bilancio, completando, in questo modo, il procedimento che ha per fine quello di far rientrare nella corretta gestione di bilancio quelle spese che ne erano del tutto fuori.
In particolare,
l'art. 194 TUEL stabilisce, al 2° e al 3° comma, che per il pagamento dei debiti fuori bilancio -quindi, ovviamente, anche di quelli derivanti da sentenze esecutive- "l'ente può provvedere anche mediante un piano di rateizzazione, della durata di tre anni finanziari compreso quello in corso, convenuto con i creditori" e che comunque, per il finanziamento delle spese de quibus, "ove non possa documentalmente provvedersi a norma dell'articolo 193, comma 3, l'ente locale può far ricorso a mutui ai sensi degli articoli 202 e seguenti", provvedendo altresì a motivare dettagliatamente nella relativa deliberazione consiliare l'impossibilità di utilizzare altre risorse.
E' di tutta evidenza, comunque, come il ricorso all'indebitamento non possa avvenire se non entro i limiti legislativamente imposti a tal fine.

Il Collegio non ritiene, tuttavia, di addentrarsi ulteriormente in considerazioni analitiche su tali ultimi aspetti, in quanto ciò determinerebbe un coinvolgimento in termini di cogestione o coamministrazione in scelte che spettano esclusivamente agli amministratori ed ai dirigenti degli enti locali.
Inoltre, ulteriori valutazioni in questa sede delle prospettive interpretative proposte dal Comune di Paternopoli, implicherebbero soluzioni suscettibili di interferire con eventuali profili giudiziari di responsabilità, ovvero di condizionare il regolare svolgimento dell’attività di controllo di questa Sezione regionale.
Ritiene, quindi, il Collegio che l’analisi debba essere circoscritta agli aspetti generali ed astratti della questione, dianzi illustrati, essendo preclusa nella presente sede -come già in precedenza rappresentato, in punto di esame dell'ammissibilità oggettiva dei quesiti proposti dal Comune richiedente parere- qualunque valutazione inerente ai risvolti applicativi della fattispecie esaminata (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 10.01.2018 n. 2).

ATTI AMMINISTRATIVINon si rinvengono, nell’ordinamento, disposizioni che precludano all’Ente Locale, creditore di somma di danaro, di convenire con il debitore un piano di rateizzazione dei pagamenti.
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Con la nota in epigrafe il Sindaco del Comune di Nova Siri (MT) chiede:
   a) se sia possibile applicare la rateizzazione prevista dall’art. 194, comma 2, del Tuel, per il caso di debiti fuori bilancio derivanti da sentenze, anche ai crediti vantati dal Comune oggetto di accordo transattivo con il debitore e con tutte le garanzia dei legge a tutela del pagamento;
   b) nel caso di risposta affermativa, ove sia stato approvato un piano di riequilibro pluriennale in corso di attuazione, se sia possibile la rateizzazione per tutta la durata del piano.
...
4. Il principale interrogativo che pone il Comune è se l’Ente Locale, che sia creditore di somma di danaro derivante da sentenza, possa concordare con il debitore, con atto successivo alla decisione che ha accertato il credito, la rateizzazione dei pagamenti, ferme tutte le garanzie di legge per la tutela del credito. In via subordinata e nel caso di risposta affermativa, chiede se sia possibile che la durata della rateizzazione possa estendersi alla durata del piano di riequilibrio già approvato e in corso di esecuzione.
Propone, al riguardo, una analogia con la situazione inversa, nella quale cioè è l’ente comunale a essere debitore di somma a seguito di sentenza da riconoscere ai sensi dell’art. 194, comma 2, del TUEL, che espressamente prevede la rateizzazione del debito nel termine di tre anni.
5.1 Sulla prima questione rileva la Sezione che
non si rinvengono, nell’ordinamento, disposizioni che precludano all’Ente Locale, creditore di somma di danaro, di convenire con il debitore un piano di rateizzazione dei pagamenti.
La convenzione in questione, ovviamente, non potrà ridurre l’importo del credito, non essendo consentito all’Ente rimettere, neppure in parte, un debito, se non per motivate utilità dell’Ente medesimo, né fondare la “causa debendi” in un titolo diverso da quello portato in sentenza, ma, nella parte dispositiva, si limiterà a modulare nel tempo i pagamenti, definendo data, modalità di riscossione e importo di ciascuno.
La concessione del beneficio del termine per adempiere dovrà, necessariamente, essere assistita da idonee garanzie a tutela della realizzazione del credito.

Particolare attenzione dovrà essere riposta nelle garanzie di adempimento che dovranno necessariamente essere presenti nella convenzione. Ritiene il Collegio che
garanzia adeguata sia la fideiussione bancaria, rilasciata da istituto di credito sottoposto alla vigilanza della Banca d’Italia. Ammesse nei confronti degli Enti pubblici sono anche le garanzie emesse da compagnie di assicurazione.
Tuttavia, in questo caso,
si raccomanda particolare cautela nella scelta, eventualmente, della compagnia garante, non essendo sufficiente la iscrizione in determinati registri, dovendosi, invece, per ragioni di pronta realizzazione del credito, operare opportuna selezione, orientata anche alla accessibilità alla tutela giudiziaria apprestata dall’ordinamento italiano.
5.2
Nel caso l’ente si trovasse a gestire un piano di riequilibrio pluriennale, non si intravedono particolari problemi di natura contabile che possano interferire nella modulabilità del termine di riscossione del credito.
Qualora il credito fosse già stato inserito nel piano, e dunque già accertata l’entrata, si tratterà di verificare se i termini previsti per la sua realizzazione (riscossione) coincidono con quelli della rateizzazione concordata. Qualora così non fosse, ritiene la Sezione che, senza dover apportare modifiche al piano, sia possibile imputare le riscossioni agli esercizi convenuti in sede di elaborazione dei bilanci pluriennali. Nel caso in cui il credito non fosse stato considerato nel piano, se ne dovrà accertare l’importo e imputare le riscossioni agli esercizi di scadenza delle singole rate, secondo i criteri di contabilità vigenti.

In ogni caso,
l’arco temporale di rateizzazione del credito, soprattutto laddove è in esecuzione un piano di riequilibrio pluriennale, dovrà tener conto del bilanciamento delle esigenze del debitore con le ragioni del più celere raggiungimento dell’obiettivo di risanamento, che è l’interesse primario della collettività amministrata (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, parere 02.03.2016 n. 6).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI - PATRIMONIO: Sul potere di autotutela del demanio e del patrimonio indisponibile del Comune.
L'ordinanza sindacale, volta al recupero di uno spazio a parcheggio pubblico, si configura come provvedimento autoritativo d'esercizio di autotutela possessoria "iuris publici" perché diretta al ripristino nell'interesse della collettività di uno stato di fatto reputato preesistente, conseguendone la sussistenza della giurisdizione amministrativa trattandosi di azione relativa alla verifica della legittimità o meno del potere azionato.
Non è decisiva la circostanza che il Comune non abbia fornito la prova della esistenza di un titolo legittimante l'uso pubblico del terreno oggetto della presente controversia (in particolare, la titolarità di una servitù prediale o di una servitù di uso pubblico).
L'autotutela possessoria di diritto pubblico non presuppone la titolarità di un diritto reale di uso pubblico o l'esistenza di una pubblica via vicinale, sicché sussiste il potere dell'Amministrazione comunale di rimuovere gli ostacoli al libero transito (e quindi di ripristinare lo stato dei luoghi), quando è configurabile una situazione di fatto di oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio, senza che vi sia necessità di titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale.
Ancora più nello specifico, occorre rammentare che il potere amministrativo esercitato dal Sindaco con l'ordinanza ex art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 non è contrario al più generale potere di autotutela possessoria di diritto pubblico -potere riconosciuto dall'art. 378, l. n. 2248 del 1865, All. F a tutela dell'uso pubblico delle strade, sia demaniali che vicinali, anche ai Sindaci- il quale non presuppone la titolarità di un diritto reale di uso pubblico, ma si fonda sull'esigenza di rimuovere ostacoli e impedimenti al libero transito esercitato anche in via di fatto dalla collettività.
Va ancora ricordato che sussiste il potere dell'amministrazione comunale di rimuovere gli ostacoli al libero transito (con le modalità esistenti anteriormente, e quindi di ripristinare lo stato dei luoghi), quando sussista una situazione di fatto di oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio, senza che vi sia necessità di ulteriore motivazione.
Tale conclusione esegetica è conforme al principio di teoria generale elaborato dalla giurisprudenza, secondo cui l'uso pubblico di un bene non implica necessariamente la coeva titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale.
I poteri di autotutela iuris publici che discendono dall'articolo 378 della legge 20.03.1865, n. 2248, allegato F), e mediatamente dall'articolo 823 del codice civile, non presentano la medesima identità di ratio delle azioni di cui dispone il privato e possono essere esercitati anche dopo che sia decorso un anno dalla alterazione o dalla turbativa; l’autotutela esecutiva è espressione di un potere autoritativo con cui, data la modifica di un situazione di fatto, l’amministrazione, doverosamente, ripristina la situazione di disponibilità del bene in favore della collettività.

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Quanto alla questione della competenza ad adottare il provvedimento, va ricordato che per giurisprudenza costante, il generale potere di autotutela del demanio e del patrimonio indisponibile del Comune, di cui all'art. 378 l. n. 2248 del 1865, all. F, spetta al sindaco e non può ritenersi trasferito al dirigente con l'entrata in vigore d.lgs. n. 267 del 2000.
Ciò sia in ragione della persistente vigenza della norma, sia della riconducibilità del potere di tutela ivi previsto alla funzione di ufficiale di governo del sindaco, le cui competenze sono espressamente fatte salve dall'art. 107, comma 5, del suddetto d.lgs. n. 267 del 2000.
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In ordine alla dedotta contraddittorietà tra più atti è sufficiente rammentare che la contraddittorietà tra gli atti del procedimento, figura sintomatica dell'eccesso di potere, si può rinvenire solo allorquando sussista tra più atti successivi un contrasto inconciliabile tale da far sorgere dubbi su quale sia l'effettiva volontà dell'amministrazione, mentre non sussiste quando si tratti di provvedimenti che, pur riguardanti lo stesso oggetto, siano adottati all'esito di procedimenti indipendenti o, comunque, qualora si tratti di due diversi atti che, ancorché inerenti al medesimo oggetto, provengano da uffici diversi e non entrambi competenti a provvedere o siano espressione di poteri differenti o —ancora— allorquando il nuovo provvedimento dell'Amministrazione, diverso da quello pregresso, sia stata adottata alla stregua di presupposti in parte differenti concretatisi medio tempore.
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Sono inconferenti e comunque infondate le censure che partono dal presupposto che il provvedimento impugnato sia un’ordinanza contingibile e urgente.
Al di là dei richiami normativi che si rinvengono nell’atto, trattasi pacificamente di un provvedimento di autotutela e, come è noto, il nomen iuris attribuito dall'Amministrazione a un proprio atto o provvedimento non vincola il giudice adito, che può riqualificarlo, occorrendo invero avere riguardo alla struttura stessa dell'atto impugnato.
In altre parole, l'esatta qualificazione di un provvedimento amministrativo va individuata tenendo conto del suo effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall'Amministrazione, tenendo presente che l'apparenza derivante da una terminologia, eventualmente imprecisa o impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell'atto stesso non è vincolante né può prevalere sulla sostanza.

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Nel merito il ricorso è infondato per i motivi che di seguito si espongono.
Intanto, è pacifica la giurisdizione del giudice amministrativo, venendo in rilievo, in via principale, non l'accertamento del diritto di proprietà o di altro diritto reale, ma la legittimità di un provvedimento autoritativo incidente su posizioni di interesse legittimo.
Va precisato che l'ordinanza sindacale, volta al recupero di uno spazio a parcheggio pubblico, si configura come provvedimento autoritativo d'esercizio di autotutela possessoria "iuris publici" perché diretta al ripristino nell'interesse della collettività di uno stato di fatto reputato preesistente, conseguendone la sussistenza della giurisdizione amministrativa trattandosi di azione relativa alla verifica della legittimità o meno del potere azionato (cfr. Tar Campania, Salerno sez. II, 05.03.2013, n. 517).
Non è decisiva la circostanza che il Comune non abbia fornito la prova della esistenza di un titolo legittimante l'uso pubblico del terreno oggetto della presente controversia (in particolare, la titolarità di una servitù prediale o di una servitù di uso pubblico).
L'autotutela possessoria di diritto pubblico non presuppone la titolarità di un diritto reale di uso pubblico o l'esistenza di una pubblica via vicinale, sicché sussiste il potere dell'Amministrazione comunale di rimuovere gli ostacoli al libero transito (e quindi di ripristinare lo stato dei luoghi), quando è configurabile una situazione di fatto di oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio, senza che vi sia necessità di titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale (Tar Sicilia, Catania sez. I, 04.11.2015, n. 2552).
Ancora più nello specifico, occorre rammentare che il potere amministrativo esercitato dal Sindaco con l'ordinanza ex art. 54, d.lgs. n. 267 del 2000 non è contrario al più generale potere di autotutela possessoria di diritto pubblico -potere riconosciuto dall'art. 378, l. n. 2248 del 1865, All. F a tutela dell'uso pubblico delle strade, sia demaniali che vicinali, anche ai Sindaci- il quale non presuppone la titolarità di un diritto reale di uso pubblico, ma si fonda sull'esigenza di rimuovere ostacoli e impedimenti al libero transito esercitato anche in via di fatto dalla collettività (Tar Lazio, Roma, sez. II, 17.10.2016, n. 10344).
Va ancora ricordato che sussiste il potere dell'amministrazione comunale di rimuovere gli ostacoli al libero transito (con le modalità esistenti anteriormente, e quindi di ripristinare lo stato dei luoghi), quando sussista una situazione di fatto di oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio, senza che vi sia necessità di ulteriore motivazione (Consiglio di Stato, sez. V, 14.07.2015, n. 3531).
Tale conclusione esegetica è conforme al principio di teoria generale elaborato dalla giurisprudenza, secondo cui l'uso pubblico di un bene non implica necessariamente la coeva titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale (cfr., sul principio generale, Cons. Stato, Sez. V, n. 6283 del 2013, Consiglio di Stato, sez. V, 14.07.2015, n. 3531).
I poteri di autotutela iuris publici che discendono dall'articolo 378 della legge 20.03.1865, n. 2248, allegato F), e mediatamente dall'articolo 823 del codice civile, non presentano la medesima identità di ratio delle azioni di cui dispone il privato e possono essere esercitati anche dopo che sia decorso un anno dalla alterazione o dalla turbativa; l’autotutela esecutiva è espressione di un potere autoritativo con cui, data la modifica di un situazione di fatto, l’amministrazione, doverosamente, ripristina la situazione di disponibilità del bene in favore della collettività (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 30.04.2015, n. 2196).
Nel caso qui all’attenzione del Collegio, dall'esame della documentazione versata in atti, emerge che prima della collocazione delle transenne nel terreno in questione, sussisteva l'uso pubblico dello stesso, dovendosi ritenere sufficienti, per l'emanazione del provvedimento di autotutela, le evidenze documentali (tra le altre si vedano documenti nn. 9, 9-bis e 10 produzioni dell’amministrazione), suffragate dall'accertamento dello stato dei luoghi da parte di organi comunali.
In particolare, tutte le fotografie depositate dall’amministrazione attestano che il terreno era pacificamente già oggetto di transito veicolare e di utilizzo pubblico.
Quanto alla questione della competenza ad adottare il provvedimento, va ricordato che per giurisprudenza costante, il generale potere di autotutela del demanio e del patrimonio indisponibile del Comune, di cui all'art. 378 l. n. 2248 del 1865, all. F, spetta al sindaco e non può ritenersi trasferito al dirigente con l'entrata in vigore d.lgs. n. 267 del 2000; ciò sia in ragione della persistente vigenza della norma, sia della riconducibilità del potere di tutela ivi previsto alla funzione di ufficiale di governo del sindaco, le cui competenze sono espressamente fatte salve dall'art. 107, comma 5, del suddetto d.lgs. n. 267 del 2000 (Consiglio di Stato, sez. IV, 08.06.2011, n. 3509).
In ordine alla dedotta contraddittorietà tra più atti è sufficiente rammentare che la contraddittorietà tra gli atti del procedimento, figura sintomatica dell'eccesso di potere, si può rinvenire solo allorquando sussista tra più atti successivi un contrasto inconciliabile tale da far sorgere dubbi su quale sia l'effettiva volontà dell'amministrazione, mentre non sussiste quando si tratti di provvedimenti che, pur riguardanti lo stesso oggetto, siano adottati all'esito di procedimenti indipendenti o, comunque, qualora si tratti di due diversi atti che, ancorché inerenti al medesimo oggetto, provengano da uffici diversi e non entrambi competenti a provvedere o siano espressione di poteri differenti o —ancora— allorquando il nuovo provvedimento dell'Amministrazione, diverso da quello pregresso, sia stata adottata alla stregua di presupposti in parte differenti concretatisi medio tempore (ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 14.08.2015, n. 5261).
Va ancora precisato che sono inconferenti e comunque infondate le censure che partono dal presupposto che il provvedimento impugnato sia un’ordinanza contingibile e urgente.
Al di là dei richiami normativi che si rinvengono nell’atto, trattasi pacificamente di un provvedimento di autotutela e, come è noto, il nomen iuris attribuito dall'Amministrazione a un proprio atto o provvedimento non vincola il giudice adito, che può riqualificarlo, occorrendo invero avere riguardo alla struttura stessa dell'atto impugnato (ex multis, TAR Lazio, Roma, sez. III, 23.02.2016, n. 2525).
In altre parole, l'esatta qualificazione di un provvedimento amministrativo va individuata tenendo conto del suo effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall'Amministrazione, tenendo presente che l'apparenza derivante da una terminologia, eventualmente imprecisa o impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell'atto stesso non è vincolante né può prevalere sulla sostanza (in questo senso, Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 03.09.2015, n. 581 e Cons. giust. amm. Sicilia, 14.05.2014 n. 282).
Il ricorso è in definitiva infondato e deve essere rigettato (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 03.11.2017 n. 679 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di un intervento di ristrutturazione edilizia attuato mediante sostituzione dell’opera preesistente lo stesso soggiace, ai sensi dell'art. 44 della l.r. Lombardia n. 12/2005, alla corresponsione per intero degli oneri di urbanizzazione.
I commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della l.r. 11.03.2005, n. 12 hanno previsto speciali criteri di calcolo degli oneri di urbanizzazione solo con riferimento alle ristrutturazioni edilizie “non comportanti demolizione e ricostruzione”. Ne deriva, a contrario, che gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale siano assoggettati al contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni.
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo comma 10-bis dell’articolo 44 della legge regionale n. 12 del 2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della legge regionale 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “i comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione –introdotta successivamente alle d.i.a. oggetto del presente giudizio, e dunque non applicabile in ogni caso in questa sede– si fonda infatti sull’evidente presupposto che gli interventi in questione siano, in linea di principio, soggetti all’integrale assolvimento della quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per i Comuni di ridurre la misura della relativa quota di contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli interventi di ricostruzione previa demolizione dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella, all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione.
In senso contrario non può assumersi come legittimo un calcolo degli oneri di urbanizzazione limitato al solo incremento di superficie traslata dai piani inferiori tenuto conto dell’avvenuta integrale demolizione dei piani interessati (quinto, sesto e settimo) e della loro ricostruzione con altra forma.
Ne è quindi derivata la realizzazione di un organismo edilizio, per quella parte, del tutto nuovo, avente non solo un diverso aspetto esteriore, ma anche caratteristiche completamente diverse di fruibilità interna, derivanti dalla nuove modalità costruttive e dalla superficie aggiunta. L’opera, per quella parte, va quindi considerata unitariamente, e non può invece ritenersi qualificabile come un mero incremento di superficie attraverso un sistema di traslazione di s.l.p..
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1. Il ricorso introduttivo non è meritevole di accoglimento.
2. La società ricorrente contesta la rideterminazione degli oneri di urbanizzazione effettuata dal Comune di Milano attraverso la nota P.G. n. 580848/2015 del 29.10.2015, in quanto a suo giudizio l’intervento di traslazione di superficie dai piani inferiori a quelli superiori (quinto, sesto e settimo piano), dando luogo ad una parziale ristrutturazione con demolizione e successiva ricostruzione, avrebbe potuto determinare l’applicazione della correlata tariffa soltanto alla parte di superficie che si è aggiunta a quella originaria e non anche alla superficie preesistente, da assoggettare alla tariffa prevista per gli interventi di sola ristrutturazione.
Di conseguenza, la somma individuata dagli Uffici comunali a titolo di conguaglio non sarebbe dovuta nella sua integralità, ma soltanto in parte (nella misura di € 127.273,45 piuttosto che di € 281.814,96).
2.1. La prospettazione fornita dalla parte ricorrente non può essere condivisa.
In punto di fatto va evidenziato che dalla documentazione versata in giudizio emerge come l’intervento edilizio relativo ai piani quinto, sesto e settimo dell’immobile abbia avuto quale presupposto la demolizione (della preesistente struttura) fino al terzo piano e la realizzazione dei solai dal quarto piano e oltre in struttura metallica (cfr. Relazione struttura ultimata edificio, in parte ripresa dal Certificato di collaudo statico: all. 10 e 11 del Comune): quindi può convenirsi con la difesa comunale laddove assume che la parte ricorrente abbia eseguito una ristrutturazione di tipo pesante tramite demolizione e (non fedele) ricostruzione dei piani quinto, sesto e settimo.
Di conseguenza, il predetto intervento deve essere assoggettato all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione, come già sostenuto da questa Sezione in una fattispecie similare.
Infatti, i commi da 8 a 10 dell’articolo 44 della legge regionale 11.03.2005, n. 12 hanno previsto speciali criteri di calcolo degli oneri di urbanizzazione solo con riferimento alle ristrutturazioni edilizie “non comportanti demolizione e ricostruzione”. Ne deriva, a contrario, che gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale siano assoggettati al contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni (cfr. Consiglio di Stato, IV, 22.05.2012, n. 2969, che conferma la sentenza 18.05.2010, n. 1566 di questa Sezione).
Tale conclusione è, oggi, ulteriormente avvalorata dal nuovo comma 10-bis dell’articolo 44 della legge regionale n. 12 del 2005 –introdotto dall’articolo 17, comma 3, della legge regionale 18.04.2012, n. 7– il quale prevede che “i comuni, nei casi di ristrutturazione comportante demolizione e ricostruzione ed in quelli di integrale sostituzione edilizia possono ridurre, in misura non inferiore al cinquanta percento, ove dovuti, i contributi per gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria”.
La disposizione –introdotta successivamente alle d.i.a. oggetto del presente giudizio, e dunque non applicabile in ogni caso in questa sede– si fonda infatti sull’evidente presupposto che gli interventi in questione siano, in linea di principio, soggetti all’integrale assolvimento della quota di contributo di costruzione commisurata agli oneri di urbanizzazione, e prevede, per il futuro, la possibilità per i Comuni di ridurre la misura della relativa quota di contributo di costruzione.
Essa, quindi, comprova ulteriormente la soggezione degli interventi di ricostruzione previa demolizione dell’esistente, realizzati anteriormente alla novella, all’integrale corresponsione degli oneri di urbanizzazione.
In senso contrario non può assumersi come legittimo un calcolo degli oneri di urbanizzazione limitato al solo incremento di superficie traslata dai piani inferiori tenuto conto dell’avvenuta integrale demolizione dei piani interessati (quinto, sesto e settimo) e della loro ricostruzione con altra forma.
Ne è quindi derivata la realizzazione di un organismo edilizio, per quella parte, del tutto nuovo, avente non solo un diverso aspetto esteriore, ma anche caratteristiche completamente diverse di fruibilità interna, derivanti dalla nuove modalità costruttive e dalla superficie aggiunta. L’opera, per quella parte, va quindi considerata unitariamente, e non può invece ritenersi qualificabile come un mero incremento di superficie attraverso un sistema di traslazione di s.l.p..
Deve perciò concludersi nel senso che, nel caso di specie, si sia in presenza di un intervento di ristrutturazione edilizia attuato mediante sostituzione dell’opera preesistente, con conseguente soggezione, ai sensi del richiamato articolo 44 della legge regionale n. 12 del 2005, alla corresponsione per intero degli oneri di urbanizzazione (cfr., in tal senso, TAR Lombardia, Milano, II, 23.03.2015, n. 780) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.05.2017 n. 1218 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La fattispecie in esame, attinente alla sola qualificazione del contributo, deve essere invece riguardata alla luce del’art. 44 della citata l.r. n. 12 del 2005 che, stabilite le modalità di calcolo degli oneri di urbanizzazione “per gli interventi di ristrutturazione non comportanti demolizione e ricostruzione”, prevede la disciplina per gli interventi di ristrutturazione, disponendo che “gli oneri di urbanizzazione, se dovuti, sono quelli riguardanti gli interventi di nuova costruzione, ridotti della metà.”
Deve quindi condividersi l’interpretazione data dal giudice di prime cure che ha notato come ciò comporti che gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale siano assoggettati al contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni.
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... per la riforma della sentenza 18.05.2010 n. 1566 del TAR Lombardia-Milano, Sez. II;
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4. - Con il terzo motivo di ricorso, viene infine censurata la ritenuta correttezza della qualificazione dell’intervento, come operata dall’amministrazione e condivisa dal TAR, con la quale le opere sono state ritenute di nuova costruzione e non di mera modificazione dell’esistente, tramite ristrutturazione edilizia.
Al contrario, l’appellante, ricostruita la serie di interventi realizzati, a decorrere da quelli autorizzati con DIA n. 72 del 03.12.2003 fino a raggiungere quelli indicati nella settima denuncia, rubricata al n. 68 del 21.12.2007, rimarca la natura di ristrutturazione edilizia del complesso edilizio, come emergente anche solo dalla descrizione delle opere contenute nei detti atti e dagli allegati grafici.
4.1. - La censura non può essere condivisa.
Occorre in via preliminare evidenziare come il TAR abbia incidentalmente, ma espressamente, sottolineato la natura particolarmente favorevole della disciplina contenuta nella legislazione regionale dove si dispone, da un lato, che “Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica” (art. 27, comma 1, legge regionale 11.03.2005 n. 12) e, dall’altro, che “la ricostruzione dell’edificio è da intendersi senza vincolo di sagoma” (art. 22 legge regionale 05.02.2010 n. 7).
Tuttavia, correttamente il giudice di prime cure ha riscontrato come tale profilo disciplinare attenga ad un fatto distinto, ossia l’ammissibilità degli interventi edilizi in relazione alla loro classificazione (vicenda che, qualora fosse stata sottoposta alla Sezione, avrebbe dovuto essere esaminata alla luce della sentenza della Corte costituzionale 23.11.2011 n. 309, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12, nella parte in cui esclude l'applicabilità del limite della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e ricostruzione; dell'art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui disapplica l'art. 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380; e dell'art. 22 della legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7).
La fattispecie in esame, attinente alla sola qualificazione del contributo, deve essere invece riguardata alla luce del’art. 44 della citata legge regionale n. 12 del 2005 che, stabilite le modalità di calcolo degli oneri di urbanizzazione “per gli interventi di ristrutturazione non comportanti demolizione e ricostruzione”, prevede la disciplina per gli interventi di ristrutturazione, disponendo che “gli oneri di urbanizzazione, se dovuti, sono quelli riguardanti gli interventi di nuova costruzione, ridotti della metà.”
Deve quindi condividersi l’interpretazione data dal giudice di prime cure che ha notato come ciò comporti che gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale siano assoggettati al contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni.
Poiché gli interventi in esame, e principalmente quelli indicati nelle due DIA rubricate rispettivamente al n. 41/2004 ed al n. 17/2005, sono effettivamente riconducibili all’ambito disciplinare indicato, in quanto si trattava, rispettivamente, della parziale demolizione del fabbricato esistente con costruzione di palazzine uffici in aderenza e nella parziale demolizione e innalzamento del fabbricato esistente (d.i.a. 17/2005), appare del tutto legittima la pretesa del Comune, che ha assoggettato l’intervento al contributo previsto per le nuove costruzioni.
Peraltro, dopo l’intervento della citata sentenza della Corte costituzionale, applicabile alla vicenda in questione nei limiti del non intervenuto esaurimento della lite, non appare più attuale neppure il distinguo operato dal TAR, in relazione ai diversi momenti di presentazione delle denunce di inizio di attività, rendendo così ancora più marcata la legittimità dell’operato del Comune.
5. - L’appello appare, quindi in conclusione, del tutto infondato, facendo così venir meno la fondatezza della pretesa risarcitoria avanzata, stante la legittimità dell’azione amministrativa e quindi il venir meno di un evento lesivo contrario al diritto.
6. - L’appello va quindi respinto. Sussistono peraltro motivi per compensare integralmente tra le parti le spese processuali, determinati dalla parziale novità della questione decisa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.05.2012 n. 2969 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale scontano il contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni.
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... per l'annullamento del provvedimento 26/27.10.2007, prot. n. 17310, emesso dal responsabile dell’Area Tecnica, con cui il Comune ha rideterminato il contributo di costruzione per gli interventi edilizi eseguiti sull’area del complesso produttivo “ex Mellin” ed ha ingiunto alla ricorrente il pagamento di € 615.883,31 quale maggior somma dovuta a tale titolo; con la condanna del Comune al risarcimento del danno.
...
16. Qui si tratta solo di vedere se la pretesa creditoria del Comune, fondata sulla diversa qualificazione dell’intervento (nuova costruzione, anziché ristrutturazione), senza alcuna contestazione che investa il computo aritmetico consequenziale, sia o no sia fondata; e d’altro canto, in questo come in ogni altro caso analogo, è innegabile, essendo in re ipsa -stante il danno erariale cui pur accenna l’atto impugnato- l’interesse pubblico alla riscossione delle somme dovute ex lege a titolo tributario o paratributario.
17. La tesi secondo cui la “rivisitazione” del contributo sarebbe preclusa dall’accordo sostitutivo non è condivisibile.
In primo luogo, perché gli accordi sostitutivi possono intervenire, ai sensi dell’art. 11 (primo comma) della legge n. 241 del 1990, “al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento”, e quindi non possono avere ad oggetto la liquidazione di un contributo che va determinato, in via del tutto vincolata, sulla base di presupposti di fatto e qualificazioni di diritto predeterminati da fonti normative, di rango legislativo o regolamentare.
18. In secondo luogo, perché l’accordo sostitutivo in questione non ha ad oggetto il contributo di concessione relativo alle d.i.a. presentate dalla Società per la realizzazione di interventi di ristrutturazione.
19. Vero è che nelle premesse dell’accordo si dà atto che l’amministrazione comunale, a seguito di una “verifica in autotutela circa la corretta quantificazione dei contributi concessori alla luce dell’effettiva qualificazione giuridica degli interventi oggetto di DIA” ... “ha accertato che il maggior [importo] dovuto da parte del soggetto attuatore a titolo di conguaglio del contributo concessorio dal medesimo autoliquidato è pari ad € 184.762,68 (cioè per un totale complessivo di € 225.015.62)”.
20. Tale premessa non è tuttavia idonea a rendere intangibile l’accertamento del dovuto: sia perché la qualificazione dell’intervento e la determinazione del contributo non possono essere oggetto di contrattazione; sia perché l’accordo, nel suo contenuto dispositivo, si propone di regolare tutt’altra cosa, vale a dire la realizzazione, a cura della Società (soggetto attuatore), della viabilità destinata a servire l’area di trasformazione edilizia e delle opere di manutenzione dell’edificio scolastico a scomputo del contributo concessorio.
21. Per quanto riguarda la qualificazione dell’intervento, reputa il Collegio che la pretesa creditoria del Comune, fondata sull’art. 44 della legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge per il governo del territorio), sia fondata.
22. Qui non è in questione la legittimità delle d.i.a. e dell’intervento edilizio, ma la qualificazione dell’intervento ai fini del contributo concessorio.
23. Ora, è vero che, in sede di definizione degli interventi edilizi, la legge regionale 11.03.2005 n. 12 (legge per il governo del territorio) dispone [art. 27, comma 1, lett. d)] che “Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”.
24. Ed è altrettanto vero che, in sede di interpretazione autentica di questa disposizione, il legislatore regionale, in dissonanza da quanto stabilito dal testo unico in materia edilizia [art. 3, primo comma, lett. d): “Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente”] ha stabilito (art. 22 legge regionale 05.02.2010 n. 7) che “la ricostruzione dell’edificio è da intendersi senza vincolo di sagoma”.
25. Ma tutto ciò attiene all’ammissibilità -secondo gli strumenti urbanistici- degli interventi edilizi classificati in base ad una tipologia standard.
Ai fini del contributo, vale invece l’art. 44 della stessa legge regionale n. 12 del 2005; il quale, dopo avere stabilito (commi 8 e 9) le modalità di calcolo degli oneri di urbanizzazione “per gli interventi di ristrutturazione non comportanti demolizione e ricostruzione”, dispone (comma 10) che “per gli interventi di ristrutturazione di cui al comma 8 gli oneri di urbanizzazione, se dovuti, sono quelli riguardanti gli interventi di nuova costruzione, ridotti della metà.”
Il che significa che gli interventi di ricostruzione preceduti da demolizione totale o parziale scontano il contributo concessorio previsto per le nuove costruzioni.
26. Nel caso in esame, come si evince dalle d.i.a. n. 41/2004 (in data 01.07.2004) e n. 17/2005 (in data 12.05.2005), gli interventi edilizi sono consistiti, rispettivamente, nella parziale demolizione del fabbricato esistente con costruzione di palazzine uffici in aderenza al corpo di fabbrica esistente sui fronti nord e sud (vedasi la relazione tecnica alla d.i.a. 41/2004, che parla di “nuove palazzine in progetto”) e nella parziale demolizione e innalzamento del fabbricato esistente (d.i.a. 17/2005).
27. Poiché si versa dunque in quella ipotesi di demolizione e ricostruzione che la legge regionale assoggetta al contributo previsto per le nuove costruzioni, la pretesa creditoria del Comune appare fondata.
E ciò non soltanto per la d.i.a. n. 17/2005 (presentata nel vigore della legge regionale n. 12/2005), ma anche per la d.i.a. 41/2004, presentata nel vigore del t.u. statale (d.p.r. n. 380/2001), che esclude dalla nozione di ristrutturazione gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino il vincolo della volumetria e della sagoma (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.05.2010 n. 1566 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

PATRIMONIO: Il giudice amministrativo ha reiteratamente chiarito che anche in caso di procedura per l’alienazione di immobili, prima della stipula del contratto, la posizione del privato ha natura di interesse legittimo e che, pertanto, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo.
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La delibera del Consiglio Comunale con la quale è stata disposta la sdemanializzazione del tratto di strada
e la vendita diretta è illegittima per violazione dell’art. 37 del r.d. 827/1924 (contenente il Regolamento di Contabilità di Stato), senz’altro applicabile ratione temporis ed in forza del rinvio contenuto nell’art. 87 del r.d. 383/1934, il quale prevede che “Tutti i contratti dai quali derivi entrata o spesa dello Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti, eccetto i casi indicati da leggi speciali e quelli previsti nei successivi articoli”, e dell’art. 41 ove elenca i casi in cui si può ricorrere alla trattativa privata e specifica che la ragione per la quale si ricorre alla trattativa privata, deve essere indicata nel decreto di approvazione del contratto .
A nulla rileva l'invocata disposizione di cui all’art. 12, comma 2, della c.d. Bassanini-bis (L. 15.05.1997, n. 127) che ha espressamente facoltizzato i comuni a “procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme di cui alla legge 24.12.1908, n. 783, e successive modificazioni, ed al regolamento approvato con regio decreto 17.06.1909, n. 454, e successive modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando i principi generali dell’ordinamento giuridico-contabile”, atteso che detta previsione si conclude statuendo che “A tal fine sono assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell’ente” (art. 12, comma 2).
Ne consegue che
la più recente normativa non ha affrancato l’Ente pubblico dall’adottare criteri e modalità trasparenti che assicurino la valutazione di concorrenti proposte da prevedere nel regolamento dell’ente.
In mancanza di norma regolamentare la vendita del bene pubblico non può derogare a “criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto”.
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... per l'annullamento:
   - della determinazione del Responsabile del Settore Area Tecnica del Comune di Solignano 05/06/2017, n. 79, reg. gen. 147, recante "Alienazione ex relitto stradale in località Case Bertacca – esatta individuazione dell'estensione dell'area oggetto di alienazione";
   - di ogni altro atto presupposto, connesso e/o conseguente, ivi compresa la nota del Responsabile del Settore Area Tecnica del Comune di Solignano 19/07/2017, prot. n. 3857 e la comunicazione e-mail 12/06/2017 a firma dello stesso Responsabile;
...
Il ricorso è fondato.
Devono, tuttavia, preliminarmente, esaminarsi le eccezioni proposte dalla controinteressata e dal Comune.
Con riguardo all’eccepita inammissibilità per difetto di giurisdizione, si rileva che la sig.ra Le. non ha attivato alcuna posizione di diritto soggettivo, ma ha impugnato una delibera del Consiglio Comunale e una determina dirigenziale, lamentando la lesione del proprio interesse legittimo a partecipare alla mancata procedura di evidenza pubblica per l’acquisto del relitto stradale, come confermato anche nella diffida pervenuta il 14.06.2017 al Comune di Solignano e come reso evidente dalle censure contenute in ricorso.
Gli atti impugnati sono provvedimenti amministrativi con i quali l’amministrazione discrezionalmente dispone la sdemanializzazione e la vendita dell’area sdemanializzata alla sig.ra Bu., in relazione ai quali sono configurabili solo posizioni di interesse legittimo rientranti, ai sensi dell’art. 7 c.p.a., nella giurisdizione di questo giudice.
Il giudice amministrativo ha, peraltro, reiteratamente chiarito che anche in caso di procedura per l’alienazione di immobili, prima della stipula del contratto, la posizione del privato ha natura di interesse legittimo e che, pertanto, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo (tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, n. 1781/2014).
L’eccezione va quindi respinta.
La difesa della controinteressata eccepisce poi la carenza di interesse in capo alla ricorrente in quanto assume che la stessa non sarebbe più in termini per impugnare una delibera del 1992.
Anche tale eccezione è infondata.
La ricorrente utilizza, in quanto proprietaria di terreni contigui all’area, il tratto stradale di cui si tratta, e sebbene non possa contestarsi che la sua proprietà confina con il relitto stradale, il Comune di Solignano non ha mai comunicato alla medesima né ai suoi danti causa l’intenzione di sdemanializzare la strada né tanto meno l’intenzione di cederla alla vicina sig.ra Bu..
La presenza di possibili altri soggetti interessati all’acquisto si evince dal Verbale della deliberazione del Consiglio Comunale ove si legge che la vendita è condizionata al mantenimento del diritto di passaggio per gli aventi causa.
Eppure non vi è traccia nel testo del provvedimento della tempestiva notificazione a nessuno dei soggetti potenzialmente interessati al diritto di passaggio.
La necessità di notifiche o comunicazioni ai proprietari vicini si ricava dalla disciplina di cui agli artt. 41 di cui al RD 827/1924, come anche dall’art. 12, comma 2, della legge 127/1997, ove si prevede che i Comuni e le Province possono procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando i principi generali dell'ordinamento giuridico-contabile e sempre che siano assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell'ente interessato.
La sig.ra Le., in quanto proprietaria di terreni contigui all’area per la quale vi è controversia, come si evince dalle planimetrie prodotte in giudizio, aveva senz’altro titolo ad essere avvisata adeguatamente della sdemanializzazione e della intenzione di alienare il bene, con conseguente irrilevanza della pubblicazione della delibera sul B.U.R.E.R. ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione, atteso che detta forma di pubblicità non appare adeguata per chi è facilmente identificabile come soggetto interessato e senza considerare che l’atto a suo tempo pubblicato non identificava la particella oggetto di sdemanializzazione e cessione.
Pertanto, la ricorrente, avendo avuto piena conoscenza del provvedimento lesivo solo a seguito dell’accesso, lo ha tempestivamente impugnato.
Anche questa eccezione va quindi respinta, poiché infondata.
Nel merito il ricorso è fondato.
Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione delle norme in materia di amministrazione del patrimonio e di contabilità dello Stato e degli enti pubblici ove prevedono che la cessione di beni immobili di pubblica proprietà siano preceduti da procedure di evidenza pubblica idoneamente pubblicizzate che nel caso di specie non sono state esperite, né l’Amministrazione ha motivato sulle ragioni per le quali avrebbe derogato, ricorrendo all’affidamento diretto alla sig.ra Bu. senza prima verificare l’esistenza di controinteressati.
Il motivo è fondato.
La delibera n. 2 del 1992 del Consiglio Comunale con la quale è stata disposta la sdemanializzazione del tratto di strada in località Casa Bertacca e la vendita alla sig.ra Bu. è illegittima per violazione dell’art. 37 del r.d. 827/1924 (contenente il Regolamento di Contabilità di Stato), senz’altro applicabile ratione temporis ed in forza del rinvio contenuto nell’art. 87 del r.d. 383/1934, il quale prevede che “Tutti i contratti dai quali derivi entrata o spesa dello Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti, eccetto i casi indicati da leggi speciali e quelli previsti nei successivi articoli”, e dell’art. 41 ove elenca i casi in cui si può ricorrere alla trattativa privata e specifica che la ragione per la quale si ricorre alla trattativa privata, deve essere indicata nel decreto di approvazione del contratto (cfr. Tar Liguria n. 380/2008, ma vedi anche Tar Napoli VII 5456/2015).
Atteso che nel caso di specie non ricorre alcuna delle ipotesi che consentono la trattativa privata, il Comune avrebbe dovuto far precedere la deliberazione del 1992 dall’esperimento di una procedura di evidenza pubblica.
Ciò non è avvenuto.
A nulla rileva l'invocata disposizione di cui all’art. 12, comma 2, della c.d. Bassanini-bis (L. 15.05.1997, n. 127) che ha espressamente facoltizzato i comuni a “procedere alle alienazioni del proprio patrimonio immobiliare anche in deroga alle norme di cui alla legge 24.12.1908, n. 783, e successive modificazioni, ed al regolamento approvato con regio decreto 17.06.1909, n. 454, e successive modificazioni, nonché alle norme sulla contabilità generale degli enti locali, fermi restando i principi generali dell’ordinamento giuridico-contabile”, atteso che detta previsione si conclude statuendo che “A tal fine sono assicurati criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto, da definire con regolamento dell’ente” (art. 12, comma 2).
Ne consegue che
la più recente normativa non ha affrancato l’Ente pubblico dall’adottare criteri e modalità trasparenti che assicurino la valutazione di concorrenti proposte da prevedere nel regolamento dell’ente.
In mancanza di norma regolamentare la vendita del bene pubblico non può derogare a “criteri di trasparenza e adeguate forme di pubblicità per acquisire e valutare concorrenti proposte di acquisto che nel caso di specie risultano totalmente omessi, con evidente compromissione anche dell’interesse pubblico ad una maggiore entrata, ove si fosse consentito a più di un soggetto di presentare una offerta in una situazione nella quale la presenza di altri confinanti era anche facilmente rilevabile, considerata la modesta dimensione del reliquato stradale.
L’atto è poi affetto anche da difetto di istruttoria laddove, pur nella consapevolezza di soggetti interessati al diritto di passaggio, l’Amministrazione Comunale ha omesso una verifica della situazione del reliquato stradale mancando di identificare ed interpellare i proprietari confinanti con il bene oggetto di sdemanializzazione, e poi di alienazione, che potevano essere interessati all’acquisto.
L’accoglimento della scrutinata censura contenuta nel primo motivo di ricorso comporta l’annullamento della Deliberazione del Consiglio Comunale del 07.02.1992 e travolge anche la determina n. 79 del 05/06/2017, atto meramente esecutivo che ha il suo indefettibile presupposto nella deliberazione consiliare.
Ne consegue l’assorbimento delle altre censure a fronte della necessità per il Comune di rinnovare tutti gli atti qui impugnati per effetto dell’annullamento del provvedimento presupposto del 1992.
In conclusione il ricorso va accolto e per l’effetto annullata la deliberazione del 1992, con conseguente caducazione della determina n. 79 del 2017, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione comunale (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 21.03.2018 n. 83 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 28.06.2018 n. 148 "Regolamento recante l’individuazione, ai sensi dell’articolo 7, commi 1 e 2, del decreto del Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 70, delle scuole di specializzazione che rilasciano i diplomi di specializzazione che consentono la partecipazione ai concorsi per l’accesso alla qualifica di dirigente della seconda fascia" (D.P.C.M. 27.04.2018 n. 80).

PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 27.06.2018 n. 147 "Regolamento che stabilisce i titoli valutabili nell’ambito del concorso per l’accesso alla qualifica di dirigente e il valore massimo assegnabile, ad ognuno di essi, ai sensi dell’articolo 3, comma 2 -bis , del decreto del Presidente della Repubblica 24.09.2004, n. 272" (D.P.C.M. 16.04.2018 n. 78).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 25.06.2018 n. 145 "Regolamento recante modalità di svolgimento, tipologie e soglie dimensionali delle opere sottoposte a dibattito pubblico" (D.P.C.M. 10.05.2018 n. 76).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 21.06.2018 "Approvazione degli indirizzi per la programmazione e la progettazione degli interventi di manutenzione delle opere di difesa del suolo, dei corsi d’acqua, della gestione della vegetazione negli alvei dei fiumi e della manutenzione diffusa del territorio" (deliberazione G.R. 18.06.2018 n. 238).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 20.06.2018 "Quarto aggiornamento 2018 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (deliberazione G.R. 14.06.2018 n. 8759).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 20.06.2018 "Registro delle Unioni di Comuni Lombarde. 3° aggiornamento 2018 (in attuazione della d.g.r. 27.03.2015, n. 3304)" (decreto D.S. 12.06.2018 n. 8590).

EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E. 19.06.2018 n. L 156 "DIRETTIVA (UE) 2018/844 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 30.05.2018 che modifica la direttiva 2010/31/UE sulla prestazione energetica nell’edilizia e la direttiva 2012/27/UE sull’efficienza energetica".

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 18.06.2018 n. 139 "Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di conglomerato bituminoso ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152" (Ministero dell'Ambiente ed ella Tutela del Territorio e del Mare, decreto 28.03.2018 n. 69).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 16.06.2018 n. 138 "Accordo, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, lettera c) del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, tra il Governo, le Regioni e gli Enti locali concernente l’adozione dell’allegato tecnico alla modulistica per le attività commerciali e assimilate ed edilizie ad integrazione degli Accordi del 4 maggio e del 06.07.2017 concernenti l’adozione di moduli unificati e standardizzati per la presentazione delle segnalazioni, comunicazioni e istanze. (Repertorio atti 19/CU)" (P.C.M., Conferenza Unificata, accordo 22.02.2018).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 15.06.2018 n. 137 "Accordo, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, lettera c) del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, tra il Governo, le regioni e gli enti locali concernente l’adozione di moduli unificati e standardizzati per la presentazione delle segnalazioni, comunicazioni e istanze. (Repertorio Atti n. 18/CU)" (P.C.M., Conferenza Unificata, accordo 22.02.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 15.06.2018 n. 137 "Campagna estiva antincendio boschivo 2018. Individuazione dei tempi di svolgimento e raccomandazioni per un più efficace contrasto agli incendi boschivi, e di interfaccia, nonché ai rischi conseguenti" (P.C.M., nota 15.06.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E. 14.06.2018 n. L 150 "DIRETTIVA (UE) 2018/851 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 30.05.2018 che modifica la direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti".

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: "MISURE DI SEMPLIFICAZIONE E INCENTIVAZIONE PER IL RECUPERO DEL PATRIMONIO EDILIZIO (ART. 4, COMMA 2, L.R. 31/2014)" (Regione Lombardia, deliberazione G.R. 11.06.2018 n. 207).
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Al riguardo:
   - si legga la circolare 14.06.2018 n. 182/2018 di ANCI Lombardia;
   - si veda anche l'apposita pagina web della Regione Lombardia: "La Legge regionale per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato".

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 24.05.2018 "Ulteriore sospensione, fino al 30.11.2018, della decorrenza del periodo transitorio di dodici mesi, previsto dall’art. 13, comma 2, secondo periodo, della l.r. 33/2015 e avviato, a far data dal 04.05.2016, dal decreto n. 3809/2016, fino alla scadenza del quale e’ consentito il deposito della documentazione di cui all’art. 6 della medesima l.r. 33/2015 in formato sia elettronico che cartaceo" (decreto D.U.O. 21.05.2018 n. 7262).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Pubblicata la nuova direttiva europea sull’efficienza energetica (ANCE di Bergamo, circolare 29.06.2018 n. 161).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Rivalutazione delle ammende e delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal D.Lgs. 81/2008 (ANCE di Bergamo, circolare 29.06.2018 n. 160).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Regolamento recante la disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto del conglomerato bituminoso (fresato d’asfalto) (ANCE di Bergamo, circolare 22.06.2018 n. 154).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Regola tecnica per contenitori distributori mobili, ad uso privato, per l’erogazione di carburante liquido: disposizioni transitorie (ANCE di Bergamo, circolare 15.06.2018 n. 151).

APPALTIOggetto: Applicazione da parte delle amministrazioni pubbliche della direttiva sui servizi di pagamento 2015/2366/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25.11.2015 (PSD2), recepita con il decreto legislativo 15.12.2017, n. 218 (MEF-RGS, circolare 15.06.2018 n. 22).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Impianti di evacuazione fumi (camini) (Ministero dell'Interno, Comando provinciale VV.F. Bergamo, nota 12.06.2018 n. 11346 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ENTI LOCALI - VARI: G. P. Cirillo, Il diritto di accesso al mare (28.06.2018 - tratto da link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: E. Pacia, Abuso d’ufficio e titoli edilizi in contrasto con lo strumento urbanistico (17.06.2018 - link a www.dirittopa.it)

APPALTI: M. Terrei, BANDO DI GARA E DIVIETO DI DISAPPLICAZIONE DELLA LEX SPECIALIS DA PARTE DELLA STAZIONE APPALTANTE (16.06.2018 - tratto da www.dirittoambiente.it).
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SOMMARIO: 1) Premessa; 2) La vicenda giudiziaria; 3) Esito della vicenda; 4) Sulla natura giuridica del bando di gara e sugli obblighi conseguenti.

EDILIZIA PRIVATA: G. Guzzo, Il silenzio-assenso nell’accertamento di compatibilità paesaggistica e nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ordinaria: questione chiusa dopo la legge n. 124/2015? (08.06.2016 - link a www.academia.edu).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il personale degli Enti Locali - LE ASSUNZIONI - Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI, quaderno n. 13 del giugno 2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: E. D'Archivio, Appalti: la giurisprudenza della Corte dei Conti sugli incentivi tecnici (24.05.2018 - link a www.altalex.com).
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Sommario: L’incentivo per le funzioni tecniche: dalla legge Merloni al D.Lgs. 50 del 2016 - La decisione delle Sezioni delle Autonomie della Corte dei Conti n. 6 del 2018 - Qualche risposta alle domande di sempre.

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - LAVORI PUBBLICI: E. D'Archivio, Appalti, modifiche al contratto e varianti in corso d’opera: una visione d’insieme (02.05.2018 - link a www.altalex.com).
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Premessa: Le modifiche contrattuali – l’art. 106 del d.lgs. 50/2016 - Principi comuni a tutte le modifiche - Le modifiche previste nei documenti di gara - Le modifiche non previste nei documenti di gara - Le varianti in corso d'opera tradizionali - Le varianti-modifiche non sostanziali - Le modifiche per importi sottosoglia - Il cosiddetto quinto d'obbligo - Obblighi di comunicazione e trasmissione - Incentivazione delle modifiche contrattuali e varianti.

EDILIZIA PRIVATA: F. Pinto, Di nuovo sul concetto di lottizzazione (abusiva) (fascicolo 3-4/2018 - tratto da www.amministrativamente.com).
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Sommario: 1. – Cambiare prospettiva. – 2. Le origini. – 3. Lo strumento esecutivo e la sua necessità. – 4. Le zone urbanizzate. – 5. L’inesistenza della figura in astratto e la necessità dell’accertamento in fatto. – 6. La “rilettura” della giurisprudenza. – 7. La logica sostanzialistica
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Abstract
Il contributo ha ad oggetto l'istituto della cd. lottizzazione abusiva, ed in particolare il collegamento tra l'istituto nel diritto urbanistico e gli strumenti di pianificazione esecutiva. Nell'evoluzione della disciplina, la lottizzazione si qualificava come un processo positivo di raccordo tra il precedente tessuto urbano e il nuovo, che solo la rete, che avrebbe dovuto crearsi attraverso l’edificazione di strade e servizi, quali quello fognario ed elettrico, avrebbero consentito e che, anzi, si presentava come assolutamente indispensabile per volontà del legislatore. Di qui l’esigenza di una pianificazione di secondo livello – rispetto a quella generale e di primo livello disegnata dal Piano Regolatore – che veniva prevista dall’art. 13 della legge urbanistica del 1942, volta a disciplinare il presupposto dell’edificazione, comunemente riassunta nel termine di piano particolareggiato o, più in generale, di strumento esecutivo. La considerazione del livello di pianificazione e realizzazione della rete infrastrutturale in concreto diventa criterio distintivo per la qualificazione delle fattispecie della lottizzazione abusiva.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: M. Asprone, Le criticità relative all’accesso agli atti nell’impiego pubblico di natura privata nella giurisprudenza (fascicolo 3-4/2018 - tratto da www.amministrativamente.com).
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Abstract
Nel 2016 il Supremo Consesso di giustizia amministrativa è stato chiamato a decidere sull’appello proposto dalla società Poste Italiane s.p.a. avverso la sentenza dei giudici di prime cure che, accogliendo il ricorso in primo grado, avevano annullato la procedura selettiva indetta dalla suddetta società per un posto di “Capo Squadra” presso il CMP di Bologna.
Tra le doglianze manifestate dal ricorrente, dipendente di livello “D” in servizio presso la stessa filiale vi era il diniego dell’ostensione da parte di Poste Italiane s.p.a. degli atti concernenti detta procedura selettiva; in particolare il ricorrente aveva preliminarmente richiesto alla società di esibire gli elaborati relativi alle prove scritte di selezione, con riferimento a quelli depositati da lui stesso e dagli altri candidati, risultati vincitori o idonei, dei documenti contenenti i criteri valutativi adottati e dei verbali della commissione esaminatrice.

EDILIZIA PRIVATA: M. Acquasaliente, Sportello Unico edilizia e sportello unico attività produttive (20.04.2018 - tratto da www.amministrativistiveneti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: M. Spataro, Mobbing fra colleghi: datore può rivalersi sul dipendente indisciplinato - Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 22/03/2018 n. 7097 (19.04.2018 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Manuale sulle buone pratiche di utilizzo dei sistemi di drenaggio urbano sostenibile (Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali, aprile 2018 - tratto da www.gruppocap.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Amodio, Il principio di trasparenza e il procedimento amministrativo: dal diritto di accesso documentale al diritto di accesso civico (fascicolo 1-2/2018 - tratto da www.amministrativamente.com).
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Sommario: 1. Il principio di trasparenza nell’evoluzione normativa. 2. La trasparenza come “need to know”: il diritto di accesso documentale. 3. La trasparenza come “right to know”: il diritto di accesso civico. 4. L’accesso civico “semplice” e l’accesso civico “generalizzato”: alcune considerazioni nel confronto tra le due forme di disclosure. 5. Conclusioni: la pubblica amministrazione da “palazzo” a “casa di cristallo”?
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Abstract
Il principio di trasparenza, con riguardo all’accessibilità di documenti, dati e informazioni in possesso della pubblica amministrazione, ha conosciuto nel nostro ordinamento un’evoluzione del tutto peculiare, passando dal “need to know” dell’accesso documentale di cui alla legge n. 241/1990, al “right to know” dell’accesso civico di cui al decreto legislativo n. 33/2013.
In circa un quarto di secolo, si è cioè assistito a un progressivo ampliamento della sua funzione: dalla sostanziale esclusiva tutela di situazioni giuridiche soggettive, alle più ampie finalità di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, nonché di tutelare i diritti dei cittadini e promuovere la partecipazione democratica degli stessi all’attività amministrativa e al dibattito pubblico.
In particolare, il contributo ha una finalità ricognitiva dello stato dell'arte della normativa vigente e delle principali posizioni emerse in materia con riguardo agli istituti dell’accesso documentale e dell’accesso civico “semplice” e “generalizzato”, nonché i riflessi che tale disciplina della trasparenza proietta sulla gestione e organizzazione della pubblica amministrazione, chiamata in breve tempo a trasformarsi (forse e finalmente) da “palazzo” a “casa di cristallo”.

APPALTI: G. Durano, La prevenzione dei fenomeni corruttivi e la disciplina del subappalto nel d.lgs. n. 50/2016 (fascicolo 1-2/2018 - tratto da www.amministrativamente.com).
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Sommario: 1. Premessa. – 2. Il Nuovo Codice dei Contratti Pubblici: il d.lgs. n. 50/2016 – 3. Il codice dei contratti pubblici a la disciplina del subappalto. – 4. Cenni conclusivi.
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Abstract
Le discipline normative in ottica di anticorruzione (mediante l’istituzione di strumenti di prevenzione della corruzione) pervadono molteplici settori delle attività economiche, che devono essere ispirate ai principi concorrenziali e di parità di trattamento di derivazione comunitaria. Così, anche nel Codice dei Contratti pubblici, recepito nel nostro ordinamento con il D.lgs. n. 50/2016, hanno trovato ampio spazio strumenti e normative aventi una funzione anticorruzione, considerato che anche tale disciplina è stata nel tempo negativamente influenzata dal diffondersi di fenomeni corruttivi.
La presa di coscienza di una “nuova” multiforme fisionomia del concetto di corruzione, riconducibile nell’alveo degli aspetti più patologici e occulti della maladministration, ha imposto al Legislatore moderno di approntare opportuni strumenti preventivi, consapevole che gli strumenti giuridici possono avere una loro utilità se vengono emanate quelle che Beccaria avrebbe definito leggi non paurose ma “prevenitrici dei delitti.

APPALTI: F. Pinto, L’utilizzo delle piattaforme informatiche da parte della pubblica amministrazione: tra falsi miti e veri rischi (fascicolo 1-2/2018 - tratto da www.amministrativamente.com).
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Sommario: 1. La gratuità dell’utilizzo delle piattaforme informatiche nelle gare telematiche: la posizione dell’ANAC. – 2. Sulla presunta gratuità delle piattaforme informatiche in applicazione del cosiddetto riuso. – 3. Un esempio del costo (nascosto) del riuso: il caso del comune di Roma e (di nuovo) della piattaforma Consip. – 4. La posizione del cedente la piattaforma informatica tra opacità e interessi reali. – 5. L’indagine dell’ANAC in tema di contratti informatici. – 6. Enormi banche dati senza controllo? – 7. Piattaforme informatiche e piccoli comuni. – 8. Sulle centrali di committenza. – 9. I costi generali di contratto: una soluzione al problema?
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Abstract
Il contributo ha ad oggetto l' utilizzo delle piattaforme informatiche nelle gare telematiche da parte delle pubbliche amministrazioni e l'eventuale addebito dei costi a carico dei concorrenti.
Il legislatore ha provveduto in sede di decreto correttivo (d.lgs. n. 56 del 2017) ad aggiungere all’originaria formulazione dell’art. 41 del d.lgs. n. 50 del 2016 (codice degli appalti) il comma 2-bis in base al quale “è fatto divieto di porre a carico dei concorrenti nonché dell’aggiudicatario eventuali costi connessi alla gestione delle piattaforme di cui l’art. 58”.
La materia è sta oggetto di numerosi interventi da parte dell'ANAC e della magistratura amministrativa, che hanno evidenziato la necessità di distinguere per le stazioni appaltanti i costi palesi di acquisto e di implementazione delle piattaforme ma anche quelli nascosti nel riuso e nella manutenzione dei sistemi.

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Perrone, Il procedimento amministrativo dopo la Legge n. 124/2015 (c.d. Riforma Madia) (fascicolo 11-12/2017 - tratto da www.amministrativamente.com).
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Sommario: Premessa. 1. Il procedimento amministrativo prima della legge n. 241/1990. - 2. La Legge sul procedi-mento amministrativo (legge 07.08.1990 n. 241). - 3. Gli effetti della Riforma Madia sul procedimento amministrativo. - 3.1. Interventi di immediata attuazione sulla Legge n. 241/1990. - 3.1.1. Art. 3 legge n. 1224/2015. - Silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici. - 3.1.2. Art. 6 legge n. 124/2015 - Autotutela amministrativa. - 3.2. Le novelle alla Legge n. 241/1990 attuate mediante lo strumento della delega legislativa. - 3.2.1. Conferenza di servizi (art. 2). - 3.2.1.1. Regolamento: Norme per il riordino della disciplina in materia di Conferenza di servizi - Art. 2 Legge n. 124/2015. - 3.2.1.2. Considerazioni conclusive sulla Disciplina generale della conferenza di servizi come modificata dal d.lgs. n. 127 del 30.06.2016. - 3.2.2. La segnalazione certificata di inizio attività - Scia (art. 5 legge n. 124/2015). - 4. Le innovazioni di principio alla Legge n. 241/1990. - 4.1. Carta della cittadinanza digitale (art. 1 legge n. 124/2015). - 4.2. Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza (art. 7 legge n. 124/2015). - 5. Conclusioni.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Regione Lombardia, INVARIANZA IDRAULICA - Sul drenaggio urbano per una gestione sostenibile delle acque meteoriche (materiale convegnistico tratto da www.gruppocap.it).)
  
R. Cotignola, Regolamento Regionale 23.11.2017, n. 7: Criteri e metodi per il rispetto del principio di invarianza idraulica e idrologica (Regione Lombardia, DG Territorio, Urbanistica, Difesa del suolo e Città Metropolitana, 28.11.2017);
   ● M. Clerici, Esperienze di partenariato territoriale ed istituzionale per la gestione sostenibile del drenaggio urbano: i contratti di Fiume (Regione Lombardia, DG Ambiente, Energia, Sviluppo Sostenibile, 28.11.2017);
   ● M. Callerio, Invarianza idraulica e piani di drenaggio sostenibile urbano - Invarianza idraulica, quali conseguenze? (28.11.2017).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: Limitazioni soggettive progressioni orizzontali.
Domanda
È possibile, in tema di progressioni economiche orizzontali, introdurre regole per far partecipare solo determinate categorie di dipendenti?
Risposta
Sull’introduzione, in sede di contrattazione decentrata, di limitazioni o interferenze rispetto alla platea dei destinatari della progressione, contraria in ogni caso ai pareri resi dall’Aran in tema
[1], e sul ruolo della dirigenza in materia di valutazione dei lavoratori, si segnala la sentenza n. 61/2005 del Tribunale di Ragusa ed in particolare i seguenti passaggi:
Il contratto collettivo decentrato integrativo del 14.11.2003, sottoscritto dal Comune in virtù della delibera 867 del 2003, è illegittimo nella parte in cui prevede “in applicazione della dichiarazione congiunta n. 11 allegata al CCNL del 05.10.2001”, di attuare una progressione economica orizzontale dall’01.01.2002 per i dipendenti “inquadrati alla data dell’01.04.1999 in cat. D2 ed in atto inquadrati in cat. D3”.
La limitazione della platea dei partecipanti alla progressione economica orizzontale si pone in contrasto con gli artt. 5 e 13 del CCNL 31.03.1999, nella parte in cui dispongono che la selezione debba avvenire sulla base di criteri meritocratici e con riferimento a tutto il personale inquadrato nella categoria immediatamente precedente a quella da conseguire.
La contrattazione decentrata può completare ed integrare i criteri per la progressione economica all’interno della categoria di cui all’art. 5, comma 2, del CCNL 31.03.1999, secondo quanto prevede l’art. 16, comma 1, dello stesso CCNL; non può introdurre surrettiziamente requisiti di ammissione alle valutazioni dei dirigenti ai fini della progressione economica, per di più non in via generale, ma ex post, in sede di attuazione di istituti contrattuali.
È irrilevante il fatto che i dipendenti ammessi alla valutazione non avevano beneficiato di due progressioni, come invece i ricorrenti, poiché la disciplina di cui all’art. 5 del CCNL 31.03.1999 presuppone una selezione basata solo su indicatori meritocratici, sicché è indifferente il numero delle selezioni attuate nei confronti dei dipendenti
.”
Si ritiene che tale interpretazione possa considerarsi valida anche dopo la sottoscrizione del contratto del 2018.
Inoltre, come interpretato dalla giurisprudenza, “In tal contesto, i poteri discrezionali o valutativi che sono riconosciuti al datore di lavoro pubblico (anche in tema di procedure di avanzamento in carriera) si collocano sempre, come nel lavoro privato, sul piano del regime di diritto comune, e costituiscono espressione di “potere privato”, e non anche di discrezionalità amministrativa, risultando censurabili in conformità alle disposizioni di legge e di contratto, e comunque sulla base delle regole di correttezza e buona fede (in quanto espressive dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost. cfr. SU n. 9332/2002; Cass. n. 9814/2008; Cass. n. 28274/2008) ed in conformità a criteri di adeguatezza e ragionevolezza.”
[2]
Il principio costituzionale di imparzialità e buon andamento deve escludere qualsiasi favoritismo o “aggiustamento” delle regole allo scopo di procurare ad un soggetto un particolare vantaggio, a detrimento degli altri lavoratori.
Oltre a ciò si ricorda la sentenza del Tribunale di Catania n. 3773 del 22.09.2015, assolutamente condivisibile, che ha stabilito che la contrattazione collettiva decentrata integrativa non può prevedere che si formino due distinte graduatorie nell’ambito della categoria D, una per i titolari di posizione organizzativa ed una per gli altri dipendenti della medesima categoria.
[1] Il principio “si ritiene che tutti i dipendenti debbano essere comunque presi in considerazione e valutati in relazione alle attività effettivamente svolte ed ai risultati concretamente conseguiti, con riferimento alle mansioni del profilo di appartenenza e nell’ambito dei compiti di ufficio,…” è stato inserito dall’Aran in numerosi pareri: vedasi RAL_280/2011, RAL_282/2011, RAL_1008/2012, RAL_1014/2012, RAL_1155/2012, ecc.
[2] Sentenza disponibile cliccando qui (27.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Criteri nomina commissione di gara.
Domanda
Come RUP, su incarico del dirigente, devo predisporre l’atto di nomina della commissione di gara (l’appalto riguarda i servizi di assistenza domiciliare per un importo abbondantemente sotto la soglia comunitaria) mi chiedevo se devo necessariamente proporre una commissione di gara rispettando l’articolo 77 del codice o posso eventualmente prescinderne visto che –anche secondo quanto affermato da recente giurisprudenza– nel sotto soglia comunitario non si applicano tutte le norme codicistiche.
Risposta
Effettivamente, anche in tempi recentissimi (in particolare, il Tar Lazio, Latina, sez. I, con la sentenza n. 339/2018) si è sostenuto che, nell’ambito degli importi sotto soglia (art. 35 del codice) gran parte del codice dei contratti non trova applicazione.
Nel caso di specie, della sentenza citata, questo giudice ha sostenuto –davanti alle censure di illegittima composizione della commissione di gara– che le norme del codice (in particolare l’art. 77) non troverebbero applicazione nell’aggiudicazione di appalti di importo sotto la soglia comunitaria.
A parere di chi scrive, tale affermazione non appare condivisibile ed anzi appare addirittura “pericolosa”.
E’ bene infatti che la commissione di gara venga sempre costituita secondo regole di competenza, imparzialità e trasparenza.
I commissari devono essere esperti del settore (il collegio deve assicurare una competenza complessiva non specifica in ogni commissario) e, soprattutto, devono essere verificate eventuali incompatibilità (ai sensi dell’articolo 77).
Sarebbe bene se la stazione appaltante si desse un proprio regolamento interno o almeno un indirizzo di carattere generale (a sommesso avviso è sufficiente anche una delibera di giunta) in cui si precisano le modalità da seguire nella nomina dei commissari soprattutto se esterni.
Sulla questione della partecipazione in commissione del RUP o del responsabile del servizio è bene che chi abbia effettivamente predisposto “le regole della gara” non prenda parte ai lavori della commissione.
Perché, pur vero che la giurisprudenza appare, sul punto, abbastanza ondivaga e contraddittoria è bene inserire in commissione soggetti totalmente estranei alla redazione degli atti di gara in modo da assicurare la massima trasparenza e prevenire ogni tipo di rilievo.
Da rammentare che la determina di nomina della commissione deve essere pubblicata ai sensi dell’art. 29 del codice dei contratti così come debbono essere pubblicati i curricula dei commissari (27.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Privacy e dichiarazione inconferibilità incarico.
Domanda
Un nostro dirigente si rifiuta di consegnare al servizio personale la dichiarazione in materia di inconferibilità e incompatibilità, prevista dal d.lgs. 39/2013, evidenziando “questioni di privacy”. Cosa possiamo dirgli per convincerlo?
Risposta
Il decreto legislativo 08.04.2013, n. 39, emanato dal Governo sulla base di una delega del Parlamento, prevista nell’articolo 1, comma 49, della legge 06.11.2012, n. 190 (legge Severino sull’anticorruzione), contiene “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico”.
L’articolo 2, del citato provvedimento, definisce l’ambito applicativo della disposizione nel comma 1 e, per gli enti locali, precisa, testualmente, al comma 2: "2. Ai fini del presente decreto al conferimento negli enti locali di incarichi dirigenziali è assimilato quello di funzioni dirigenziali a personale non dirigenziale, nonché di tali incarichi a soggetti con contratto a tempo determinato, ai sensi dell’art. 110, comma 2, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al d.lgs. 18.08.2000, n. 267".
L’obbligo di sottoscrivere una dichiarazione e consegnarla alla competente struttura amministrativa, che provvederà, poi, alla sua pubblicazione nel sito web dell’ente, è, invece, prevista dall’art. 20 del citato d.lgs.
[1] ed è un obbligo a cui nessun dirigente (e segretario comunale) può sottrarsi anche perché –come ben specificato nel comma 4, dell’art. 20– la pubblicazione della dichiarazione è condizione per l’acquisizione dell’efficacia dell’incarico.
La dichiarazione circa l’assenza di cause di inconferibilità deve essere presentata all’atto di conferimento dell’incarico, mentre la dichiarazione sull’assenza delle cause di incompatibilità deve essere presentata annualmente.
Trattandosi di un obbligo, previsto da una specifica disposizione legislativa, non è possibile invocare alcuna “questione di tutela della privacy”, né alla luce del d.lgs. 196/2003, né del nuovo Regolamento Europeo n. 2016/679, pienamente operativo dal 25.05.2018.
Per l’ente che riceve (e pubblica) le dichiarazioni dei dirigenti –e delle posizioni organizzative negli enti senza dirigenza– resta il problema di compiere gli opportuni controlli sulla veridicità delle dichiarazioni rese. In tal senso, l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) ha emanato alcune indicazioni che sono contenute nel Paragrafo 7.3, del Piano Nazionale Anticorruzione, approvato con la deliberazione n. 831 del 03.08.2016 e, più in dettaglio, nella deliberazione n. 833, datata anch’essa 03.08.2016, recante “Linee guida in materia di accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità degli incarichi amministrativi da parte del responsabile della prevenzione della corruzione. Attività di vigilanza e poteri di accertamento dell’A.N.AC. in caso di incarichi inconferibili e incompatibili”.
In entrambi i documenti, viene previsto che le modalità operative per esercitare le opportune verifiche ed i necessari controlli, debbono essere previsti nel Piano di Prevenzione della Corruzione, approvato nell’ente. Misure a cui è necessario dare attuazione nel corso dell’anno di validità del Piano. Tale indispensabile attività di verifica, risulta viepiù importante alla luce del contenuto del comma 5, del citato articolo 20, che prevede –ferme le altre gravi responsabilità– un divieto quinquennale di conferimento di incarico, qualora la dichiarazione resa dai dirigenti risulti mendace.
Al dirigente recalcitrante, pertanto, sarà sufficiente ricordargli che, senza la dichiarazione, l’incarico non acquisisce efficacia, con tutte le conseguenze previste dalle norme di legge.
Non è un caso, infatti, che tra le verifiche compiute dagli Ispettori del Ministero Economia e Finanze presso i comuni, da qualche tempo, ci sia anche l’accertamento della pubblicazione delle dichiarazioni dei dirigenti (ex art. 20, comma 3, d.lgs. 39/2013) ai quali –senza dichiarazioni– tra le altre cose, non è possibile liquidare la retribuzione di risultato.
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[1] Art. 20 Dichiarazione sulla insussistenza di cause di inconferibilità o incompatibilità
   1. All’atto del conferimento dell’incarico l’interessato presenta una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di inconferibilità di cui al presente decreto.
   2. Nel corso dell’incarico l’interessato presenta annualmente una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di incompatibilità di cui al presente decreto.
   3. Le dichiarazioni di cui ai commi 1 e 2 sono pubblicate nel sito della pubblica amministrazione, ente pubblico o ente di diritto privato in controllo pubblico che ha conferito l’incarico.
   4. La dichiarazione di cui al comma 1 è condizione per l’acquisizione dell’efficacia dell’incarico.
   5. Ferma restando ogni altra responsabilità, la dichiarazione mendace, accertata dalla stessa amministrazione, nel rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio dell’interessato, comporta la inconferibilità di qualsivoglia incarico di cui al presente decreto per un periodo di 5 anni (26.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Clausola sociale e soccorso istruttorio.
Domanda
In fase di verifica delle dichiarazioni, il seggio di gara –presieduto dal RUP– ha riscontrato che alcuni operatori non hanno espresso adesione alla richiesta di impegnarsi ad assorbire il personale impiegato nella precedente gestione del servizio. Mentre, nel bando di gara era abbastanza chiaro che la stazione appaltante intende usufruire –pur in un appalto sotto soglia– delle prerogative connesse alla clausola sociale ai fini del mantenimento dei livelli occupazionali.
Come dovremmo procedere ora? Dobbiamo escludere le imprese che non hanno manifestato adesione all’applicazione della clausola sociale o dobbiamo necessariamente “invitare” tali imprese al soccorso istruttorio integrativo?
Risposta
Il quesito riveste un’importanza pratica significativa anche alla luce del recente schema di linee guida ANAC sulla corretta applicazione della clausola sociale.
Senza dilungarsi, è abbastanza noto che la clausola in argomento ha l’obiettivo di mantenere inalterato il livello occupazionale – soprattutto per un certo tipo di “manodopera” – nella successione dei contratti.
In sostanza, grava –e si dirà in che misura/intensità– sull’aggiudicatario un onere (potenziale) di assorbire il personale già utilizzato, soprattutto, se non esclusivamente, nella gestione precedente di un servizio.
Una delle questioni fraintese –e sarebbe stato interessante avere la clausola del capitolato/legge di gara– riguarda la corretta definizione delle prerogative della stazione appaltante che abbia inserito la clausola sociale nelle disposizioni di gara.
Da notare che l’inserimento della clausola, nei contratti ad alta intensità di manodopera (ai sensi dell’articolo 50 del codice dei contratti) risulta obbligatoria nei contratti sopra soglia ma facoltativa nei contratti sotto la soglia comunitaria (ai sensi dell’articolo 35 del codice dei contratti).
Sulla questione dei rapporti tra clausola e soccorso, è bene rammentare –come si è evidenziato in altra circostanza (e come ora emerge chiaramente sia dalla giurisprudenza sia dallo schema di linee guida sopra citate)- che l’aggiudicatario, in realtà, non ha alcun obbligo di riassumere il personale precedentemente utilizzato. Pertanto, l’eventuale clausola sociale qualora disponesse o venisse interpretata come diretta ad imporre un obbligo assunzionale deve ritenersi sicuramente illegittima.
La previsione deve essere interpretata come vincolo potenziale dell’aggiudicatario condizionato dalla propria situazione organizzativa: se l’aggiudicatario ha necessità di personale per svolgere il servizio prioritariamente dovrà riassumere il personale precedentemente occupato.
Questa previsione sembra pertanto, in teoria, in contrasto con l’esigenza di attivare un soccorso istruttorio per esprimere l’adesione ad una clausola “potenzialmente” illegittima.
Naturalmente così non è nel senso che potrebbe essere illegittima l’interpretazione ma non una clausola che venisse interpretata in senso “costituzionale”.
Alla luce di quanto, si è indotti a ritenere che il RUP (o il soggetto individuato dalla stazione appaltante) debba invitare gli operatori che non abbiano espresso adesione ad integrare la propria dichiarazione (nel termine perentorio di 10 giorni ai sensi dell’articolo 83, comma 9 del codice dei contratti).
Sul punto si può riportare la riflessione dell’ANAC espressa proprio nello schema più volte citato in cui si legge che “qualora pertanto la stazione appaltante accerti in gara, se del caso attraverso il meccanismo del soccorso istruttorio, che l’impresa concorrente rifiuta, senza giustificato motivo, di accettare la clausola, si impone l’esclusione dalla gara, laddove l’accertamento compiuto consenta di ritenere che l’operatore economico intenda rifiutare sic et simpliciter l’applicazione della clausola, legittimamente prevista. L’esclusione, viceversa, non appare fondata nell’ipotesi in cui, stante la pur legittima previsione della clausola, l’operatore economico manifesti il proposito di applicarla nei limiti di compatibilità con la propria organizzazione d’impresa, (si veda la sentenza del Consiglio di Stato n. 272 del 17.01.2018)” (20.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Pubblicazione modulistica accesso civico.
Domanda
Il nostro Ente deve ancora organizzare la sotto sezione di Amministrazione Trasparente riguardante l’accesso agli atti, a seguito dell’introduzione dell’accesso civico generalizzato.
Potreste darci indicazioni su come operare e su quale modulistica pubblicare?
Risposta
Su iniziativa del Dipartimento della Funzione Pubblica è stato recentemente pubblicato online il portale www.foia.gov.it, al quale le pubbliche amministrazioni possono fare riferimento per ottenere informazioni e chiarimenti sull’applicazione pratica dell’accesso civico generalizzato, introdotto nella nostra normativa con l’approvazione del cosiddetto Freedom Of Information Act (FOIA) – 25.05.2016, n. 97, articolo 5 e successivi.
Il Centro nazionale di competenza FOIA –istituito presso il Dipartimento della Funzione Pubblica– offre un valido supporto nell’applicazione del nuovo istituto del diritto di accesso civico generalizzato dei cittadini.
In particolare, per gli enti, le P.A. e le società pubbliche che ancora non ha organizzato la sotto sezione di Amministrazione Trasparente dedicata > ALTRI CONTENUTI > ACCESSO CIVICO, sul portale www.foia.gov.it, è possibile trovare:
   • la modulistica utilizzabile da privati e pubbliche amministrazioni nelle diverse fasi del procedimento di accesso civico generalizzato;
   • i riferimenti normativi che, a più livelli, disciplinano l’istituto dell’accesso generalizzato e ne regolano l’attuazione;
   • le indicazioni operative per la creazione del Registro degli Accessi;
   • FAQ e strumenti a supporto della gestione del procedimento FOIA;
   • i risultati dell’attività di monitoraggio dell’attuazione della norma;
   • una raccolta dei pareri del Garante per la protezione dei dati personali e della giurisprudenza in materia.
Per assolvere correttamente agli obblighi di pubblicazione riferibili a questa specifica sotto sezione di Amministrazione Trasparente, si potrebbe quindi utilmente creare un collegamento con il portale web www.foia.gov.it, integrando le informazioni già presenti con la pubblicazione della modulistica riguardante l’accesso civico semplice (art. 5, comma 1, d.lgs. 33/2013) e l’accesso agli atti di tipo tradizionale, ancora oggi disciplinato dalla legge 07.08.1990, n. 241, Titolo V, capitoli da 22 a 28, non modificato, né interessato dalle nuove disposizioni (19.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Nuova CILA - Decreto Legislativo n. 222/2016 (Regione Lombardia, risposta e-mail del 12.01.2017-24.02.2017).

URBANISTICA: Oggetto: Interpretazione disposto di cui all'art. 5, comma 6, L.R. 31/2014 - presentazione istanza di approvazione Piani Attuativi (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica, Difesa del Suolo e Città Metropolitana, risposta e-mail del 29.12.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Oneri aggiuntivi ex art. 16, comma 4, lett. d-ter), DPR n. 380/2001 (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, risposta e-mail del 14.04.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Interventi di rigenerazione urbana ex art. 4 L.R. n. 31/2014 (Regione Lombardia - Direzione Generale Ambiente, Energia e Sviluppo Sostenibile, risposta e-mail del 24.03.2016-08.04.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Interpretazione art. 34 DPR n. 380/2001 (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, risposta e-mail del 23.03.2016).

URBANISTICA: OGGETTO: Interpretazione disposto di cui all'art. 5, comma 8, L.R. 31/2014 - rateizzazione monetizzazione aree a standard (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, risposta e-mail del 05.02.2016).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Intervento edilizio gratuito in zona agricola da parte dello I.A.P. (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, risposta e-mail del 27.01.2016).

URBANISTICA: OGGETTO: Piani attuativi in variante al vigente P.G.T. (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, risposta e-mail del 15.01.2016).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Tipi di sanatoria edilizia ordinaria ex DPR n. 380/2001 (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, risposta e-mail del 15.01.2016).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Interpretazione art. 44, comma 12, L.R. n. 12/2005 (Regione Lombardia - Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, risposta e-mail del 15.01.2016).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Cambio destinazione d'uso SENZA OPERE EDILIZIE - verifica accessibilità (o meno) dell'unità immobiliare da RESIDENZIALE a DIREZIONALE (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, risposta e-mail del 15.01.2016).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: OGGETTO: Istanza al SUAP in variante al vigente PGT (Regione Lombardia - Area Affari Istituzionali - Presidenza, risposta e-mail del 14.12.2015).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Determinazione incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria. Art. 16, comma 4, lett. d-ter), DPR n. 380/2001 [lettera aggiunta dall'art. 17, comma 1, lett. g), legge 11.11.2014 n. 164 di conversione, con modificazioni, del d.l. 11.09.2014 n. 133] (Regione Lombardia - Area Affari Istituzionali - Presidenza, risposta e-mail del 23.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Modifica destinazione d’uso piazzale esterno quale spazio espositivo delle autovetture in vendita, legate all’attività commerciale esistente (Regione Lombardia - Area Affari Istituzionali - Presidenza, risposta e-mail dell'08.09.2015).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Opere edilizie realizzabili con comunicazione ex art. 6 DPR 380/2001 (Regione Lombardia - DC Legale, Controlli, Istituzionale, Prevenzione, Corruzione - Presidenza, risposta e-mail del 20.07.2015).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Ristrutturazione edilizia fabbricato artigianale/industriale: modalità di calcolo oneri di urbanizzazione (Regione Lombardia - DC Legale, Controlli, Istituzionale, Prevenzione, Corruzione - Presidenza, risposta e-mail del 15.07.2015).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Per gli incentivi tecnici serve sempre la gara.
Gli incentivi per le funzioni tecniche possono essere riconosciuti solo per le attività riferibili a lavori, servizi o forniture affidati con gara. Le procedure eccezionali e non competitive sono sottratte all’incentivazione.

Presupposto necessario e ineludibile per procedere all’accantonamento di risorse finanziarie nell’apposito fondo da destinare agli incentivi per le funzioni tecniche, previa adozione di apposito regolamento, è la presenza di una “gara”.

Invero:
  
in mancanza di una gara l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 e successive modificazioni non prevede l’accantonamento delle risorse e, conseguentemente, la relativa distribuzione;
  
g
li incentivi per funzioni tecniche possono essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa. La stessa disciplina si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione;
  
si deve escludere, pertanto, dagli incentivi per funzioni tecniche qualsiasi fattispecie non espressamente indicata dall’articolo 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 e successive modificazioni. Solo in presenza di una procedura di gara o in generale di una procedura competitiva si può accantonare il fondo che viene successivamente ripartito sulla base di un regolamento adottato dall’amministrazione. Le procedure eccezionali e non competitive sono sottratte all’incentivazione.
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L’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 consente, previa adozione di un regolamento interno e della stipula di un accordo di contrattazione decentrata, di erogare emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche e amministrative, nelle procedure di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture.
In particolare,
il comma 2 dell’art. 113 in esame consente alle amministrazioni aggiudicatrici di destinare, a valere sugli stanziamenti di cui al precedente comma 1, “ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara”.
Si tratta nel complesso di compensi volti a remunerare prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili, direttamente correlati all’adempimento dello specifico compito affidato ai potenziali beneficiari dell’incentivo.
La norma contiene un sistema di vincoli compiuto per l’erogazione degli incentivi che, infatti, sono soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente).
Per l’erogazione degli incentivi l’ente deve munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo e la sede idonea per circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi possono essere erogati.

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In data 14.05.2018 è pervenuta, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali della Regione Marche, una richiesta di parere formulata dalla Presidente della Provincia di Fermo, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003.
L’Amministrazione istante formula la seguente richiesta di parere.
La Provincia di Fermo sta predisponendo il Regolamento sugli incentivi delle funzioni tecniche ai sensi dell'art. 113 D.Lgs. 50/2016 e ss.mm.ii..
Nella redazione della bozza di Regolamento sono stati esclusi gli incentivi delle funzioni tecniche svolte per lavori, servizi e forniture affidati ai sensi dell'art. 36, comma 2°, lett. a) del Codice dei contratti ovvero gli affidamenti diretti di importo inferiore a € 40.000.
È emerso un orientamento per il quale anche per le funzioni tecniche svolte dal personale coinvolto per lavori, servizi e forniture affidati ai sensi dell'art. 36, comma 2°, lett. a) del Codice dei contratti ovvero gli affidamenti diretti di importo inferiore a 40.000 dovrebbero essere riconosciuti e liquidati gli incentivi
.”.
Ai fini dell'ammissibilità la richiedente ha dichiarato in particolare che:
   - le disposizioni di legge di cui si chiede l'interpretazione sono: art. 36, comma 2° lett. a) ed art. 113, 2° comma, D.Lgs. 18/04/2016 n. 50 e ss.mm.ii.;
   - la propria tesi interpretativa in merito alla disposizione di legge citata è nel senso che dovrebbero essere esclusi gli incentivi delle funzioni tecniche svolte per lavori, servizi e forniture affidati ai sensi dell'art. 36, comma 2°, lett. a), del Codice dei contratti ovvero gli affidamenti diretti di importo inferiore a € 40.000;
   - sulla materia risultano i seguenti pareri unanimi di altre Sezioni di controllo della Corte dei Conti: Lombardia parere 09.06.2017 n. 185, Lombardia parere 09.06.2017 n. 190, Corte dei Conti Toscana parere 14.12.2017 n. 186.
...
Passando quindi al merito della istanza, si rileva che la materia degli incentivi per funzioni tecniche, oggetto della richiesta di parere, è disciplinata dall’articolo 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 e successive modificazioni recante il Codice dei contratti pubblici.
Si riporta testualmente, per quel che qui interessa, il comma 2 della disciplina normativa sopra citata: “2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”.
Dalla lettura della disposizione normativa sopra richiamata emerge chiaramente che
presupposto necessario e ineludibile per procedere all’accantonamento di risorse finanziarie nell’apposito fondo da destinare agli incentivi per le funzioni tecniche, previa adozione di apposito regolamento, sia la presenza di una “gara”.
In ordine alle modalità di applicazione del sistema normativo sopra richiamato e alla tassatività e esclusività dei precetti dallo stesso delineati, si riportano i principi derivanti dal consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi in materia, che questa Sezione condivide.
In mancanza di una gara l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 e successive modificazioni non prevede l’accantonamento delle risorse e, conseguentemente, la relativa distribuzione (cfr. parere 09.06.2017 n. 185 della Sezione regionale di controllo per la Lombardia).
Gli incentivi per funzioni tecniche possono essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa. La stessa disciplina si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione (cfr. parere 09.06.2017 n. 190 della Sezione regionale di controllo per la Lombardia).
Si deve escludere, pertanto, dagli incentivi per funzioni tecniche qualsiasi fattispecie non espressamente indicata dall’articolo 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 e successive modificazioni. Solo in presenza di una procedura di gara o in generale di una procedura competitiva si può accantonare il fondo che viene successivamente ripartito sulla base di un regolamento adottato dall’amministrazione. Le procedure eccezionali e non competitive sono sottratte all’incentivazione (cfr. parere 14.12.2017 n. 186 della Sezione regionale di controllo per la Toscana).
Sul punto si evidenzia, inoltre, quanto affermato dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione 26.04.2018 n. 6
L’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici), rubricato “incentivi per funzioni tecniche”, consente, previa adozione di un regolamento interno e della stipula di un accordo di contrattazione decentrata, di erogare emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche e amministrative, nelle procedure di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture.
In particolare,
il comma 2 dell’art. 113 in esame consente alle amministrazioni aggiudicatrici di destinare, a valere sugli stanziamenti di cui al precedente comma 1, “ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara”.
Si tratta nel complesso di compensi volti a remunerare prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili, direttamente correlati all’adempimento dello specifico compito affidato ai potenziali beneficiari dell’incentivo.
Sulla questione è anche rilevante considerare che
la norma contiene un sistema di vincoli compiuto per l’erogazione degli incentivi che, infatti, sono soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente).
La Sezione delle Autonomie, infine, ribadisce che
per l’erogazione degli incentivi l’ente deve munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo e la sede idonea per circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi possono essere erogati (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 08.06.2018 n. 28).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLe regole per gli incarichi ai pensionati.
Quali sono gli incarichi vietati ai dipendenti in pensione? Quali, invece, si possono affidare ai sensi dell'articolo 5, comma 9, del Dl 95/2012?
Con parere 06.06.2018 n. 180 la Corte dei conti della Lombardia illustra che gli incarichi configurabili tra quelli di studio e consulenza, soggetti al divieto contenuto nella norma, sono quelli indicati dalle sezioni riunite in sede di controllo, che ne hanno definito con precisione i contorni nelle linee di indirizzo approvate con deliberazione 15.02.2005 n. 6.
In particolare, nella deliberazione si afferma che: «- “gli incarichi di studio possono essere individuati con riferimento ai parametri indicati dal D.P.R. n. 338/1994 che, all'articolo 5, determina il contenuto dell'incarico nello svolgimento di un'attività di studio, nell'interesse dell'amministrazione. Requisito essenziale, per il corretto svolgimento di questo tipo d'incarichi, è la consegna di una relazione scritta finale, nella quale saranno illustrati i risultati dello studio e le soluzioni proposte”; - “le consulenze … riguardano le richieste di pareri ad esperti”.»
Peraltro, prosegue il Collegio, «nella medesima deliberazione è fornita anche l'esemplificazione delle prestazioni che rientrano nella previsione normativa:
   - “studio e soluzione di questioni inerenti all'attività dell'amministrazione committente
”;
   - “prestazioni professionali finalizzate alla resa di pareri, valutazioni, espressione di giudizi”;
   - “consulenze legali, al di fuori della rappresentanza processuale e del patrocinio dell'amministrazione”;
   - “studi per l'elaborazione di schemi di atti amministrativi o normativi”.»
Quanto, poi, agli elementi da considerare in merito alla indistinzione, nei soggetti in quiescenza, tra lavoratori dipendenti e autonomi, la Corte osserva che la norma non pone alcuna discriminazione circa le condizioni soggettive del soggetto e la tipologia di pensionamento (pensione di vecchiaia, anzianità, anticipata, ecc.) per cui non è possibile alcuna differenziazione sulla base di criteri ricavabili dal testo normativo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.06.2018).
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MASSIMA
Il Presidente della regione Lombardia ha richiesto
con la richiamata nota il parere della sezione sulla “qualificazione della condizione di quiescenza ai sensi dell’articolo 5, comma 9, del decreto-legge 95 del 2012.
In particolare, si chiede se “l’avvocato titolare di pensione di vecchiaia ex-articolo 2 della legge 576 del 1980 ed iscritto all’albo sia da considerare lavoratore in quiescenza” ai sensi della richiamata norma del 2012, “con la conseguenza che il conferimento allo stesso di incarichi di studi e consulenza da parte di soggetti pubblici”, sia consentito esclusivamente a titolo gratuito.
L’incarico in questione è quello di cui all’articolo 8, comma 1, lettera b) della legge regionale 20 del 2008, in base al quale è stato istituito, con delibera di Giunta, il Comitato Tecnico Scientifico Legislativo, “quale organismo a carattere consultivo a supporto delle strutture della Giunta regionale”.
Il Comitato svolge “l’esame e gli approfondimenti di carattere giuridico e normativo degli argomenti posti in trattazione sia in forma collegiale che con apporti dei singoli componenti”, che sono tenuti a presentare contributi scritti sui temi all’ordine del giorno e, senza compensi suppletivi, “a fornire per iscritto i pareri e/o gli ulteriori approfondimenti richiesti dagli Uffici”.
Tra i requisiti richiesti per il Comitato figura, in alternativa rispetto al titolo di professore universitario, l’iscrizione all’albo degli avvocati con abilitazione al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori.
...
2. Merito. La questione è stata già trattata da questa Sezione nel parere 24.05.2017 n. 148, che ha inquadrato i termini della questione.
2.1. La richiesta di parere in esame verte sull’ambito di operatività del divieto di incarico retribuito di cui all’art. 5, comma 9, del decreto legge 06.07.2012 n. 95.
La norma testualmente dispone, con riferimento al quesito posto, che “
è fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2011, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196 nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza (….)”. “Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni di cui ai periodi precedenti sono comunque consentiti a titolo gratuito”. (…).
2.2 L’incarico indicato nella richiesta di parere e sopra richiamato è configurabile tra quelli di studio e consulenza, di cui le sezioni Riunite in sede di controllo, hanno definito con precisione i contorni (Linee di indirizzo approvate con deliberazione 15.02.2005 n. 6).
In particolare, nella richiamata deliberazione della Sezione, si afferma che:
   - “
gli incarichi di studio possono essere individuati con riferimento ai parametri indicati dal D.P.R. n. 338/1994 che, all’articolo 5, determina il contenuto dell’incarico nello svolgimento di un’attività di studio, nell’interesse dell’amministrazione. Requisito essenziale, per il corretto svolgimento di questo tipo d’incarichi, è la consegna di una relazione scritta finale, nella quale saranno illustrati i risultati dello studio e le soluzioni proposte”;
   - “
le consulenze … riguardano le richieste di pareri ad esperti”.
Nella medesima deliberazione è fornita anche la seguente esemplificazione delle prestazioni che rientrano nella previsione normativa:
   - “
studio e soluzione di questioni inerenti all’attività dell’amministrazione committente”;
   - “
prestazioni professionali finalizzate alla resa di pareri, valutazioni, espressione di giudizi”;
   - “
consulenze legali, al di fuori della rappresentanza processuale e del patrocinio dell’amministrazione”;
   - “
studi per l’elaborazione di schemi di atti amministrativi o normativi”.
2.3 le funzioni affidate al Comitato Tecnico Scientifico Legislativo sono riconducili alle fattispecie indicate dalle Sezioni Riunte in sede di controllo, quindi riconducibili alla tipologia “studio e consulenza”. Di conseguenza, come recita testualmente la richiamata disposizione legislativa i soggetti “già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza” possono svolgerli “a titolo gratuito”.
2.4 Nella richiesta di parere si chiede di conoscere “gli elementi alla base dell’interpretazione resa” al punto 3.3 della richiamata deliberazione di questa Sezione, in merito alla indistinzione, nei soggetti in quiescenza, tra lavoratori dipendenti e autonomi, posto che nelle circolari del Ministero per la semplificazione e la Pubblica Amministrazione n. 6/2014 e 4/2015 si afferma che per “lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza” devono intendersi “esclusivamente i lavoratori dipendenti e non quelli autonomi”.
Gli elementi si possono riscontrare direttamente nel punto richiamato, quando si afferma che “non si rinvengono argomentazioni a carattere sistematico che consentano di differenziare la posizione dei componenti dei predetti Comitati fruitori di trattamento di pensione da lavoro autonomo, essendo la norma in esame finalizzata a limitare il conferimento di determinati incarichi a soggetti che già godono di un trattamento di quiescenza” (Sezione Puglia parere 06.11.2014 n. 193 e CDS sentenza n. 4718/2016).
In particolare nella sentenza del Consiglio di Stato (come pure nelle richiamate circolari governative) si evidenzia come la ratio della disposizione in esame “è evidentemente di favorire l’occupazione giovanile”, vietando, dunque, “alle amministrazioni pubbliche di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza … tali incarichi sono consentiti solamente a titolo gratuito, e per un periodo non superiore ad un anno”.
Si ricorda inoltre che, sull’ampiezza del divieto in parola, è intervenuta ripetutamente la Corte dei Conti - Sezione Centrale di controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato, precisando che la norma introduce nel sistema un divieto generalizzato al conferimento di incarichi a soggetti in quiescenza.
In particolare la deliberazione SCCLEG 35/2014/PREV osserva che la norma non pone alcuna discriminazione circa le condizioni soggettive del soggetto e la tipologia di pensionamento (pensione di vecchiaia, anzianità, anticipata, ecc.) per cui non è possibile alcuna differenziazione sulla base di criteri ricavabili dal testo normativo.
In tal senso anche sempre la Sezione Centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato che, nella deliberazione SCCLEG 6/2015/PREV afferma: “
Come già osservato nelle precedenti deliberazioni di questa Sezione n. 27/2014, 28/2014, 29/2014, 30/2014, 35/2014 e 1/2015, non può peraltro sfuggire a questo Collegio la natura palesemente selettiva del divieto introdotto dalla norma, la quale introduce nel sistema –in modo diretto e senza deroghe o eccezioni, se non per il caso della gratuità e per la durata massima di un anno– un impedimento generalizzato al conferimento di incarichi a soggetti in quiescenza. Tale impedimento appare fondato su un elemento oggettivo che non lascia spazio a diverse opzioni interpretative”.

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE È da escludere che rientri tra i beneficiari dell'incentivo il responsabile del procedimento ex art. 6 del D.P.R. n. 327/2001, perché di materia espropriativa si tratta nel caso di specie, atteso che “gli espropriatori” non sono espressamente inclusi dalla norma nel novero degli aventi diritto.
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La giurisprudenza contabile ha fornito una lettura restrittiva della nozione di collaboratore, escludendo che la stessa possa essere estesa per incentivare il personale tecnico e amministrativo:
   a) addetto ai procedimenti di esproprio;
   b) addetto alle attività relative agli accatastamenti e ai frazionamenti;
   c) responsabile o addetto alla procedura di gara.
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La nozione di “collaboratori” di cui al comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 fa riferimento alle professionalità –di norma tecniche- all’uopo individuate in sede di costituzione dell’apposito staff, le quali devono porsi in stretta correlazione funzionale e teleologica rispetto alle attività da compiere per la realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei termini preventivati.”
Gli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possono essere riconosciuti ed erogati in favore delle figure professionali interne esplicitamente individuate dalla norma che svolgano le attività tecniche ivi previste, anche in presenza di progettazione affidata non integralmente a soggetti estranei ai ruoli della stazione appaltante e dagli stessi realizzata".
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Il Sindaco del Comune di Corleto Perticara (PZ) ha inoltrato, in data 30.01.2018, a questa Sezione una richiesta di parere avente ad oggetto il pagamento dell’incentivo ex art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 e dell’art. 4 del Regolamento comunale approvato con delibera di G.C. n. 87 del 04.08.2008 al dirigente dell’Ufficio Espropri del medesimo Comune, nominato responsabile del procedimento ex art. 6 del D.P.R. n. 327/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) per l’attivazione delle procedure previste dal Testo unico in parola.
Al fine di inquadrare la vicenda all’interno della quale si colloca la richiesta di parere il Sindaco svolge una dettagliata premessa relativa al piano di insediamenti produttivi in località Tempa Rossa, in agro di Corleto Perticara, per lavori di realizzazione del centro oli per la coltivazione di idrocarburi, così come previsto dalla concessione “Gorgoglione”, di cui al decreto del Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato del 19.11.1999, nonché al procedimento di determinazione definitiva dell’indennità di esproprio a seguito della nomina della commissione ex art. 21 del D.P.R. n. 327/2001 e al conseguente pagamento dei compensi spettanti ai tecnici nominati –spese di fatto sostenute dall’Ente promotore dell’esproprio (Total E&P Italia S.p.A.) ai sensi dell’art. 10 della convenzione rep. 59861, sottoscritta in data 29.01.2008 tra il Comune di Corleto Perticara e la Total– nonché all’ulteriore richiesta di liquidazione di un “incentivo alla progettazione”, secondo la normativa all’epoca vigente, il cui importo risulta essere stato accreditato dal soggetto richiedente l’espropriazione.
...
2.3 Appare evidente che la formulazione della richiesta di parere all’esame della Sezione non prospetta alcun quesito interpretativo o dubbio applicativo afferente la norma richiamata (art. 92 D.Lgs. n. 163/2006) o qualsiasi altra (art. 4 del Regolamento comunale approvato con D.G.C. n. 87 del 04.08.2006), limitandosi di fatto a cercare di ottenere una sorta di autorizzazione alla liquidazione di importi, peraltro accreditati dall’ente promotore dell’espropriazione, così violando anche la necessità che la richiesta di parere abbia riguardo, come detto, a quesiti interpretativi di carattere generale che non comportino un’ingerenza della Corte in singole e specifiche attività gestionali e vicende amministrative in itinere né valutazione di concreti comportamenti amministrativi (cfr. deliberazione della Sezione Autonomie n. 5/2006).
Inoltre la richiesta in parola involge valutazioni suscettibili di sfociare in un contenzioso (cfr. deliberazione SRC Sardegna n. 6/2013/PAR, deliberazione SRC Lombardia n. 161/2013/PAR, deliberazione SRC Toscana n. 52/2015/PAR e deliberazione SRC Veneto n. 632/2015/PAR).
Infatti, in base ad un costante orientamento giurisprudenziale (cfr., ex multis, Sezione delle Autonomie deliberazione n. 5/AUT/2006) non possono ritenersi procedibili, al fine di scongiurare possibili interferenze e condizionamenti, i quesiti suscettibili di formare oggetto di esame in sede giurisdizionale da parte di altri Organi a ciò deputati per legge (cfr. anche deliberazione SRC Piemonte n. 20/2012).
Alla luce delle considerazioni esposte, la Sezione ritiene che la richiesta di parere formulata dal Sindaco di Corleto Perticara difetti dei requisiti oggettivi necessari ad una disamina nel merito in quanto:
   a) sprovvisto dei requisiti della generalità e dell’ astrattezza;
   b) si pone in una possibile posizione di pregiudizialità rispetto ad eventuali forme di responsabilità amministrativo-contabile;
   c) si presenta potenzialmente idoneo ad interferire con le competenze di altri organi giurisdizionali, in particolare con la magistratura ordinaria (giudice del lavoro).
3. In via incidentale, tuttavia, la Sezione rileva che la questione prospettata sembrerebbe riguardare la disciplina, ratione temporis applicabile, degli incentivi alla progettazione di cui agli articoli 92 e 93 del D.Lgs. n. 163/2006 –abrogati dal nuovo codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 50/2016), che all’art. 113 detta la nuova disciplina degli incentivi per funzioni tecniche– su cui si è andata formando nel tempo una copiosa giurisprudenza della Corte dei conti in funzione consultiva.
Da ultimo è intervenuta la Sezione delle Autonomie (deliberazione 26.04.2018 n. 6) la quale, chiamata ad esprimersi dalla Sezione regionale di controllo della Lombardia e dalla Sezione regionale di controllo della Puglia su questioni di massima relative agli incentivi per funzioni tecniche, ha affermato, incidenter tantum, che “tali compensi non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori. Si tratta, quindi, di una platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge”.
Il c.d. “incentivo alla progettazione” (la cui denominazione risale all’art. 18 dell’abrogata legge n. 109/1994 e la cui funzione era stata qualificata come misura rivolta a contenere l’insorgenza di fenomeni di corruttela), costituiva, infatti, uno di quei casi nei quali il Legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuiva e continua a riconoscere un compenso ulteriore e speciale erogabile ai dipendenti, rinviando i criteri e le modalità di ripartizione ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice ed alla contrattazione decentrata.
La legge individuava, dunque, alcune regole generali per la ripartizione dell’incentivo in discorso, rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un atto regolamentare interno alla singola amministrazione assunto previa contrattazione decentrata e ritenuto “necessario presupposto l’erogazione degli emolumenti in questione” e “passaggio fondamentale per la regolazione interna della materia, nel rispetto dei principi e canoni stabiliti dalla legge” (Sezione delle Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18).
In linea con l’obiettivo di voler perseguire la più ampia efficienza possibile, quindi, il Legislatore nazionale mostrava un favor per l’affidamento a professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in prestazioni d’opera professionale, consentendo il riconoscimento agli Uffici tecnici delle medesime amministrazioni di un compenso speciale, in deroga ai due principi cardine posti a base della disciplina delle retribuzioni del pubblico impiego: quello di onnicomprensività della retribuzione e quello di definizione contrattuale delle componenti economiche, sanciti, rispettivamente, dall’art. 24, comma 3, e dal successivo art. 45, comma 1, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 (cfr. Sezione delle Autonomie,
deliberazione 15.04.2014 n. 7).
Tenere fermi tali aspetti risulta, peraltro, fondamentale per la esatta determinazione del perimetro di applicazione della disciplina in parola: la natura di eccezione in senso stretto dell’incentivo alla progettazione rende, infatti, palese l’ indisponibilità di qualsivoglia spazio per interpretazioni analogiche, estensive dell’ambito di operatività soggettivo ed oggettivo dell’istituto (art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile, cfr. altresì SRC Campania,
parere 07.05.2008 n. 7).
L’incentivo in parola può essere corrisposto al solo personale dell’ente che abbia preso parte a determinate attività e ciò in funzione incentivante e premiale per l’espletamento al meglio di attività orientate a ridurre le fasi antieconomiche presenti in qualsiasi processo che abbia ad oggetto la realizzazione di un’opera pubblica.
La norma indica espressamente quali beneficiari degli incentivi –da corrispondere “previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte”– il responsabile del procedimento, gli incaricati della redazione delle varie fasi progettuali, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché i loro collaboratori.
È da escludere, pertanto, che rientri tra i beneficiari degli incentivi di che trattasi il responsabile del procedimento ex art. 6 del D.P.R. n. 327/2001, perché di materia espropriativa si tratta nel caso di specie, atteso che “gli espropriatori” non sono espressamente inclusi dalla norma nel novero degli aventi diritto.
Per mero tuziorismo, inoltre, è opportuno ricordare che il D.P.R. n. 327/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), che è la disciplina richiamata, ratione materiae, per la nomina del R.U.P. da parte del Comune di Corleto Perticara, prevede, all’art. 21, comma 6, l’erogazione di compensi solo per remunerare i compiti propri dei componenti della commissione che procede alla determinazione definitiva dell’indennità di espropriazione, mentre nulla dice relativamente al responsabile del procedimento in questione.
Solo nell’ambito ben definito dei lavori pubblici la giurisprudenza contabile è tornata ripetutamente ad esprimersi sia sulla figura dei collaboratori (cfr. Sezione Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18), sia su quella del responsabile del procedimento.
In particolare su quest’ultimo vi è assoluta concordanza nel ritenere che il destinatario degli incentivi alla progettazione non possa che essere il RUP individuato ai sensi dell’art. 10 del D.Lgs. n. 163/2006 e degli articoli 9 e 10 del D.P.R. n. 207/2010 (Regolamento di attuazione del codice dei contratti pubblici) (cfr. Sezione Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18).
Inoltre, facendo applicazione del principio di tassatività, la stessa giurisprudenza ha chiarito che il fondo previsto dall’art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006 può essere destinato esclusivamente alle figure professionali ivi individuate, nonché ai loro collaboratori. “Non trova alcun fondamento normativo una diversa interpretazione della norma tendente ad ampliare il novero dei soggetti beneficiari. Pertanto, i dipendenti –tecnici ed amministrativi- diversi dal RUP, dal progettista, dal direttore dei lavori, dall’incaricato del piano della sicurezza, dal collaudatore e dai relativi collaboratori, benché svolgano attività comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche possono essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie stanziate in base alle norme dei vigenti Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro” (SRC Marche parere 17.12.2014 n. 141 e, in senso conforme, SRC Abruzzo parere 01.06.2016 n. 131).
In definitiva
la richiamata giurisprudenza contabile ha fornito una lettura restrittiva della nozione di collaboratore, escludendo che la stessa possa essere estesa per incentivare il personale tecnico e amministrativo:
   a) addetto ai procedimenti di esproprio;
   b) addetto alle attività relative agli accatastamenti e ai frazionamenti;
   c) responsabile o addetto alla procedura di gara.

Infine è opportuno ricordare in tema che, nell’esercizio della funzione nomofilattica, la Sezione delle Autonomie, investita di una questione di massimo interesse generale, con la deliberazione 13.05.2016 n. 18, ha, tra l’altro, enucleato i seguenti principi di diritto:
La nozione di “collaboratori” di cui al comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 fa riferimento alle professionalità –di norma tecniche- all’uopo individuate in sede di costituzione dell’apposito staff, le quali devono porsi in stretta correlazione funzionale e teleologica rispetto alle attività da compiere per la realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei termini preventivati.”
Gli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possono essere riconosciuti ed erogati in favore delle figure professionali interne esplicitamente individuate dalla norma che svolgano le attività tecniche ivi previste, anche in presenza di progettazione affidata non integralmente a soggetti estranei ai ruoli della stazione appaltante e dagli stessi realizzata" (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, parere 04.05.2018 n. 21).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Casi in cui è possibile il superamento del termine di diciotto mesi per annullare il provvedimento amministrativo illegittimo.
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Annullamento d’ufficio e revoca - Annullamento d’ufficio – Termine – Art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241 del 1990 – Diciotto mesi – Deroga – Presupposti.
L’art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241 si interpreta nel senso che il superamento del rigido termine di diciotto mesi – entro il quale il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, è consentito:
   a) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerenti i presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive): nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale;
   b) sia nel caso in cui l’(acclarata) erroneità dei ridetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave e corrispondente, nella specie, alla mala fede oggettiva) della parte: nel qual caso –non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione della iniziativa rimotiva– si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco (1).

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   (1) Giova premettere che il comma 2-bis dell’art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241, dispone che “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445”.
Ha chiarito la Sezione che l’art. 14, comma 1, l. n. 15 del 2005 ha modificato la previsione dell’art. 21-nonies, comma 1, l. 07.08.1990, n. 241 innovando, sul punto, la tradizionale regola che rimetteva alla discrezionalità amministrativa, nel rispetto del (sindacabile) canone di “ragionevolezza”, la concreta gestione del limite temporale nella attivazione dei procedimenti di secondo grado in funzione di riesame, facendone con ciò elemento del complessivo e motivato apprezzamento comparativo degli interessi in gioco, variamente ancorati al conflitto tra la ripristinanda legalità dell’azione amministrativa e la concretezza dei maturati affidamenti dei destinatari del provvedimento assunto contra legem.
Ha, quindi, scolpito (peraltro, limitatamente alle determinazioni di matrice lato sensu autorizzatoria e a quelle attributive di “vantaggi economici”, per le quali è, con ogni evidenza, maggiormente sentita la necessità di salvaguardare l’affidamento dei privati beneficiari e più consistente il consolidamento dei riconosciuti e/o conseguiti diritti) l’astratto e generale termine ne ultra quem di diciotto mesi.
L’opzione normativa appare, con ogni chiarezza, ispirata alla logica di una astratta e generale prevalutazione ex lege degli interessi in conflitto: onde –le quante volte il privato abbia visto rimuovere, anche per silentium, un limite all’esercizio di facoltà giuridiche già incluse, nonostante la verifica di compatibilità con l’interesse pubblico, nel proprio patrimonio di libertà od abbia, alternativamente, conseguito vantaggi o ausili finanziari in grado di impegnare pro futuro la programmazione della propria attività economica– alla Amministrazione è concessa bensì la facoltà di rivedere il proprio operato, le quante volte risultasse assunto in violazione del relativo paradigma normativo di riferimento, ma con il limite temporale preclusivo, superato il quale il ripristino della legalità violata è, con insuperabile presunzione, ritenuto suvvalente a fronte delle legittime aspettative private.
Ad avviso della Sezione appare evidente che le aspettative in grado di paralizzare, sotto il profilo in questione, l’azione rimotiva dell’Amministrazione devono palesarsi legittime (giusta, ad un di presso, la logica revisionale delle cc.dd. legimitate expectations, ispirata ad analoghe ragioni di giustizia sostanziale): ciò che non accade nel caso in cui la mancata sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento ampliativo della sfera privata prefiguri (non semplicemente un errore, di per sé solo in grado di autorizzare, violata la legge, l’attivazione dell’autotutela, sibbene) un errore imputabile alla parte (e non alla Amministrazione decidente).
Appare del tutto logico, in siffatta situazione –in cui l’Amministrazione sia stata propriamente indotta della misrepresentation dei presupposti necessari al conseguimento del riconosciuto vantaggio– che la parte non possa beneficiare, contra factum proprium, della rigidità del termine imposto all’esercizio dell’autotutela: e ciò in quanto, per l’appunto:
a) per un verso, l’affidamento vantato non avrebbe i connotati della meritevolezza di tutela;
b) per altro verso, l’immutazione dei dati di realtà sottesi all’azione amministrativa non potrebbe plausibilmente comprimere –di là dal generale e generico limite di complessiva ragionevolezza– i tempi per l’accertamento della verità.
Quanto, poi, all’interpretazione dell’inciso “per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”, contenuto nel comma 2-bis dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, il dubbio nasce, evidentemente, dal successivo inciso “per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”.
La questione è se debba sintatticamente agganciarsi esclusivamente al mendacio nelle dichiarazioni sostitutive o se debba essere, comprensivamente, riferito anche alle “false rappresentazioni dei fatti” (le quali, allora –ad optare per siffatta esegesi, strenuamente argomentata e difesa da parte appellante– rileverebbero solo in quanto conseguenti alla commissione di reati, oltretutto definitivamente accertati in forza di giudicato penale).
La Sezione aderisce alla prima linea interpretativa.
Militano in tal senso i seguenti rilievi:
   a) sul piano testuale (e, prima ancora, rigorosamente grammaticale e sintattico), il sintagma “per effetto di condotte”, che introduce una causa efficiente e postula, sul piano logico, una predicazione nominale, appare riferibile esclusivamente al predicato (appunto, nominale) “false e mendaci” (con più lungo discorso, reso verisimilmente necessario dalla sottigliezza dell’argomento: il doppio aggettivo, che esprime, per giunta, una endiadi, sottintende di necessità –in quanto seguito da complemento di causa efficiente– un verbo copulativo: come a dire: dichiarazioni [che siano, o risultino o appaiano, et similia] “false e mendaci”, per effetto di determinate condotte causali);
   b) se così è (alla luce della postulata correttezza grammaticale dell’enunciato), il predicato è riferibile esclusivamente alle “dichiarazioni sostitutive” (di certificazione o di atto di notorietà), non alle “rappresentazioni” del precedente inciso (che la norma, appunto, postula già “false”, indipendentemente dalla evocata causa di tale falsità): ché –a diversamente opinare– la formula linguistica andrebbe insomma, con scarsa plausibilità ricostruita con riferimento a “false dichiarazioni […] false” (o mendaci);
   c) che nella medesima direzione conduce la distinta, per quanto sottile, semantica della “rappresentazione”, a fronte di quella della “dichiarazione”: la prima, come già soggiunto, nominalizza, a differenza della seconda, l’esito di azione propriamente agentiva, che postula un soggetto nel dominio della propria condotta finalizzata: con il che –mentre della “dichiarazione” si rende plausibile e pertinente il riferimento esplicito alle “condotte” causali (qui, qualificate nei sensi della loro concorrente rilevanza de jure poenali)– la “rappresentazione” ingloba, nel suo significato, l’azione consapevole del determinatore;
   d) in ogni caso –sul (decisivo ed assorbente) piano teleologico– è del tutto evidente (alla luce delle considerazioni esposte supra, che non vale richiamare) che il legislatore abbia inteso negare legittimità (e meritevolezza di tutela) agli affidamenti frutto di condotte dolose della parte, risultando a tal fine irrilevante la ricorrenza di fatti di reato (il cui richiamo si giustifica in relazione a quelle condotte di falsificazione che –per il mezzo della loro introduzione all’interno del procedimento– sono tipicamente suscettibili di violare disposizioni penali: come dimostrato dalla esplicita salvezza in explicit delle “sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445”);
   e) che tale sia la corretta interpretazione della norma, discende –del resto– dal rilievo che, a sposare l’alternativa proposta esegetica, la erronea rappresentazione dei presupposti per l’adozione del provvedimento risulterebbe fonte di implausibile e valorizzato affidamento anche quanto fosse intenzionale o dolosa: ciò che fa palese l’anfibologia del riferimento alla falsità: la quale allora:
      e1) in quanto caratterizzi le (dolose) rappresentazioni di parte, evoca la mera “non verità” (o non corrispondenza alla realtà effettuale);
      e2) in quanto, per contro, si riferisca alle (qualificate) dichiarazioni –non a caso assunte sotto la responsabilizzante egida della sanzione, penale o amministrativa che sia– evoca propriamente il mendacio (che, non a caso, viene utilizzato nella formula legislativa, con il chiarito riferimento alle dichiarazioni sostitutive) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.06.2018 n. 3940 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Adempimento dell’ordine di demolizione del debitore dell’immobile sottoposto a pignoramento trascritto.
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Processo amministrativo – Legittimazione attiva - Bene immobile abusivo – Acquisizione al patrimonio comunale - Creditore pignorante – E’ legittimato.
  
Edilizia – Abusi – Demolizione - Pignoramento immobiliare trascritto – Debitore – Deve demolire.
  
Il creditore di un bene immobile abusivo è legittimato a proporre ricorso avverso il provvedimento di acquisizione dello stesso al patrimonio comunale in seguito a mancata ottemperanza all’ordine di demolizione (1).
  
La sussistenza di un pignoramento immobiliare trascritto non osta a che il debitore, di norma anche custode ex lege, si attivi per adempiere ad un ordine di demolizione, non essendo tale attività annoverabile tra gli “atti di disposizione” quanto, piuttosto, una attività dovuta ascrivibile alla diligente custodia (2).
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   (1) Ha chiarito il Tar il soggetto creditore procedente nell’ambito di una procedura esecutiva che ha comportato il pignoramento di un immobile abusivo oggetto di un provvedimento di acquisizione vanta un interesse alla conservazione della garanzia patrimoniale che il bene rappresenta, garanzia che, rispetto alla mera garanzia patrimoniale generica offerta da tutto il patrimonio del debitore e prevista dall’art. 2740 c.c., si è attualizzata e specificata in relazione al bene in contestazione proprio con il pignoramento.
   (2) Ha ricordato il Tar che la disciplina eccezionale che rende suscettibile di vendita in sede di esecuzione forzata i beni abusivi (ex lege ordinariamente incommerciabili) ha la finalità di evitare che eventuali procedure esecutive restino paralizzate dalla (non rara) inerzia dell’amministrazione che, ad esempio, ometta o ritardi nel pronunciarsi su una istanza di sanatoria ovvero che, pur a fronte dell’inottemperanza ad ordini di demolizione, non ne tragga le doverose conseguenze di legge; in mancanza della disciplina speciale la mera inerzia dell’amministrazione potrebbe, in tesi, paralizzare sine die una eventuale procedura esecutiva.
Ciò non di meno la disciplina del procedimento esecutivo non muta la natura sostanzialmente abusiva dell’immobile, né modifica i presupposti di una sua eventuale sanatoria; le previsioni di cui agli artt. 40, comma 6, l. n. 47 del 1985 e 31, comma 5, d.P.R. n. 380 del 2001 consentono a colui che abbia acquistato dalla procedura esecutiva un immobile abusivo di essere rimesso in termini per proporre una istanza di sanatoria, senza, come detto, modificare la disciplina sostanziale dell’abuso.
Ne consegue che, se la struttura non è sanabile, tale resta anche per l’acquirente in sede esecutiva, finendo per rappresentare, rispetto al prezzo di vendita, un onere e non un valore (
TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 27.06.2018 n. 791 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Nel merito il ricorso è infondato.
Il bene pignorato è pacificamente interamente abusivo e non sanabile; la proprietà si è già vista respingere due diverse istanze di sanatoria. Nell’ambito dello stesso procedimento esecutivo, il perito del Tribunale ha qualificato il bene abusivo ed insanabile, attribuendogli un valore commerciale inesistente (come si evince dall’ordinanza del G.E. dell’11.07.2017, in atti sub doc. b) di parte ricorrente, allegata all’istanza di prelievo).
La disciplina eccezionale che rende suscettibile di vendita in sede di esecuzione forzata i beni abusivi (ex lege ordinariamente incommerciabili) ha la finalità di evitare che eventuali procedure esecutive restino paralizzate dalla (non rara) inerzia dell’amministrazione che, ad esempio, ometta o ritardi nel pronunciarsi su una istanza di sanatoria ovvero che, pur a fronte dell’inottemperanza ad ordini di demolizione, non ne tragga le doverose conseguenze di legge; in mancanza della disciplina speciale la mera inerzia dell’amministrazione potrebbe, in tesi, paralizzare sine die una eventuale procedura esecutiva.
Ciò non di meno la disciplina del procedimento esecutivo non muta la natura sostanzialmente abusiva dell’immobile, né modifica i presupposti di una sua eventuale sanatoria; le previsioni di cui agli artt. 40, co. 6, della l. n. 47/1985 e 31, co. 5, del d.p.r. n. 380/2001 consentono a colui che abbia acquistato dalla procedura esecutiva un immobile abusivo di essere rimesso in termini per proporre una istanza di sanatoria, senza, come detto, modificare la disciplina sostanziale dell’abuso. Ne consegue che, se la struttura non è sanabile, tale resta anche per l’acquirente in sede esecutiva, finendo per rappresentare, rispetto al prezzo di vendita, un onere e non un valore.
D’altro canto, come l’inerzia dell’amministrazione non può di per sé paralizzare un’azione esecutiva, in un contemperato bilanciamento di interessi, la pendenza di una azione esecutiva su iniziativa privata non può a sua volta essere di ostacolo alla doverosa e vincolata azione di repressione dell’abusivismo edilizio, che risponde ad un superiore interesse pubblico e si intesta alla pubblica amministrazione; diversamente opinando il titolare di un bene abusivo ben potrebbe strumentalmente porsi nella condizione di pignorato, con ciò solo sottraendosi al procedimento di repressione dell’abusivismo edilizio.
Né risulta dirimente che, nel caso di specie, il pignoramento sia stato trascritto antecedentemente alla definizione dell’istanza di sanatoria (che conteneva rinnovo dell’ordine di demolizione, cfr. doc. 14 di parte resistente) e prima dell’adozione del provvedimento di acquisizione qui impugnato.
Quanto alla definizione dell’istanza di sanatoria è evidente come l’amministrazione sia tenuta a concludere il procedimento in corso, il quale ha finalità del tutto autonome rispetto all’esecuzione forzata; d’altro canto, non potendosi a priori escludere un accoglimento dell’istanza di sanatoria che finirebbe per giovare alla procedura esecutiva apprezzando il valore del bene pignorato, non è certo sostenibile che la procedura abbia interesse ad ostacolare una chiara (ed in ipotesi potenzialmente favorevole) definizione dell’inquadramento giuridico del bene da parte dell’amministrazione. Tanto meno potrebbe immaginarsi che sia possibile per l’amministrazione, pendente il pignoramento, concludere il procedimento solo qualora lo stesso sia favorevole al debitore.
L’amministrazione non è qualificabile “creditore” del debitore pignorato ma, come detto, persegue vincolanti finalità del tutto avulse dall’esecuzione le quali, fatta salva la già evidenziata eccezionale commerciabilità del bene, restano opponibili anche all’eventuale acquirente dalla procedura esecutiva.
Ove poi, come nel caso di specie, l’esito dalla domanda di sanatoria sia negativo e comporti, ex lege e senza alcuna discrezionalità, l’applicazione delle sanzioni previste, tra cui l’ordine di demolizione (per la natura vincolata e necessaria dell’intero procedimento di repressione degli abusi edilizi si veda, per tutte, Cons. St. ad. plen. n. 9/2017), non si condivide l’assunto secondo cui il debitore pignorato sarebbe per ciò solo “impossibilitato” ad eseguire l’ordine di demolizione.
A differenza di quanto avviene in caso di fallimento (in cui il fallito è interamente spossessato del suo patrimonio, perdendone in ogni caso la gestione) o in caso di sequestri disposti dal giudice penale che perseguono esigenze pubblicistiche (talvolta esplicitamente conservative e talvolta non dissimili dal procedimento sanzionatorio amministrativo), il pignoramento è disposto nell’interesse privato del/dei creditori procedenti/intervenienti ed ha l’unico effetto di far prevalere costoro rispetto ad eventuali ulteriori creditori o aventi causa (tra i quali non si colloca in nessun caso l’amministrazione) inducendo, in favore dei creditori procedenti, l’inefficacia relativa di successivi atti di disposizione.
Gli atti di disposizione restano certamente inibiti al debitore.
Pare tuttavia al collegio che la doverosa esecuzione di un ordine di demolizione (che non ha alcunché di volontario, trattandosi di adempimento ad un ordine esecutivo dell’autorità) non sia annoverabile tra gli atti di disposizione (che, per definizione, implicano una più o meno remota origine volontaria della disposizione).
D’altro canto, che l’inottemperanza all’ordine di demolizione non subisca i limiti di “opponibilità” indotti dal pignoramento è coerente con il meccanismo di acquisto che a tale inottemperanza consegue (acquisto a titolo originario, art. 31 d.p.r. n. 380/2001), per definizione estraneo ai criteri di opponibilità dettati dalla trascrizione, che caratterizzano invece tanto il pignoramento che gli acquisti a titolo derivativo ai quali il primo deve restare insensibile.
Ancora, a differenza di quanto accade nel fallimento, il debitore pignorato, nel pignoramento immobiliare, è costituito ex lege di norma custode (art. 559 c.p.c, che fa salva esplicita diversa disposizione del giudice dell’esecuzione, non verificatasi nel caso di specie quantomeno sino al momento di adozione dell’atto qui impugnato) e per tale ragione assume anche la qualità di ausiliario del giudice, mantenendo il possesso del bene a diverso titolo, con dovere e responsabilità di amministrazione secondo criteri propri del buon padre di famiglia (art. 65 c.p.c.); nel corso del pignoramento immobiliare possono fisiologicamente verificarsi, in capo al custode, esigenze di gestione (quale l’acquisizione dei frutti civili, cui si estende il pignoramento) e persino di conservazione del bene immobile.
Escluso dunque che l’ottemperanza ad un ordine di demolizione sia annoverabile tra gli atti di disposizione, essa risulta piuttosto ascrivibile agli atti di diligente conservazione del bene.
Il debitore custode ha l’onere, da un lato, previe eventuali necessarie autorizzazioni, di coltivare ipotesi plausibili di sanatoria (condotta che, come già evidenziato, avrebbe in astratto potuto recare beneficio alla procedura ma che resta esclusa nel caso di specie, alla luce delle plurime valutazioni effettuate dall’amministrazione e della coerente valutazione del perito nominato nell’ambito della procedura esecutiva) e, in subordine, di ottemperare all’eventuale ordine di demolizione che “libera” la procedura di un bene definitivamente privo di valore economico, ancorché suscettibile di esecuzione forzata, ed evita l’evidente pregiudizio derivante dalle conseguenze di legge di acquisizione del bene e del terreno al patrimonio comunale.
L’irrilevanza nel procedimento pubblicistico sanzionatorio dell’abuso edilizio dei vincoli derivanti da, anche pregresse, iscrizioni ipotecarie o pignoramenti è stata sancita dal giudice di legittimità nell’ordinanza Cass. sez. III n. 23453/17 in cui si legge: “va ribadito quanto già osservato da questa Corte: l'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio indisponibile del Comune della costruzione eseguita in totale difformità o assenza della concessione, che si connota per la duplice funzione di sanzionare comportamenti illeciti e di prevenire perduranti effetti dannosi di essi, dà luogo ad acquisto a titolo originario, con la conseguenza che l'ipoteca e gli altri eventuali pesi e vincoli preesistenti vengono caducati unitamente al precedente diritto dominicale, senza che rilevi l'eventuale anteriorità della relativa trascrizione e/o iscrizione. La fattispecie è assimilabile al perimento del bene, ipotesi nella quale si estingue l'ipoteca, giacché l'immobile abusivo è destinato al "perimento giuridico", normalmente conseguente alla demolizione, salva l’eccezionale acquisizione al patrimonio comunale, che lo trasforma irreversibilmente in res extra commercium sotto il profilo dei diritti del debitore e dei terzi che vantino diritti reali limitati sul bene (Cass. sez. 3, sentenza n. 1693 del 26/01/2006)”.
Non può quindi accedersi alla tesi di parte ricorrente, secondo cui il provvedimento doverosamente adottato dall’amministrazione troverebbe ostacolo nella presunta impossibilità del debitore di ottemperarvi.
Neppure è fondato l’assunto secondo cui il diniego di accertamento di conformità non sarebbe sufficiente a far decorrere i termini per la demolizione e, conseguentemente, a cristallizzare l’inadempimento che fonda l’ordine di acquisizione.
La maggioritaria e più recente giurisprudenza del giudice d’appello, per evitare reiterate e strumentali istanze di sanatoria volte unicamente a paralizzare l’azione pubblica, è orientata a ritenere che il rigetto delle rinnovate istanze di sanatoria comporta l’immediata e nuova efficacia dei precedenti ordini di demolizione, nelle more paralizzati dalla presentazione delle nuove istanze di sanatoria (in tal senso Cons. St. sez. VI, n. 2979/2018; Cons. St. sez. VI, n. 1171/2018; Cons. St. sez. VI, n. 1565/2017); in ogni caso l’effetto di “inefficacia” dell’ordine di demolizione invocato in ricorso è stato, con dovizia di argomenti, limitato alle sole istanze di condono, escludendo i casi di accertamento di conformità, quale è quello per cui è causa (Cons. St., sez. VI, n. 466/2015).
Tanto premesso si osserva ulteriormente che, nel caso di specie, il provvedimento di rigetto della domanda di accertamento di conformità richiama l’intero e complesso iter procedimentale precedente ed in specifico l’ordinanza di demolizione n. 139/2015, con ciò esplicitamente rinnovando la volontà dell’amministrazione in tal senso.
Il primo motivo di ricorso deve quindi essere integralmente respinto.
Con il secondo motivo di ricorso si contesta che la ricorrente avrebbe dovuto essere destinataria di una comunicazione di avvio del procedimento di acquisizione; premesso che
l’atto di acquisizione non integra un autonomo procedimento ma la fase finale del complesso procedimento che ha avuto inizio con l’accertamento dell’abuso, come eccepito da parte resistente la repressione dell’abusivismo edilizio è attività vincolata per legge e priva di discrezionalità, rispetto alla quale, l’azione dell’amministrazione (che ha consentito ampi margini di partecipazione procedimentale al proprietario) non avrebbe potuto adottare una soluzione differente.
Anche il secondo motivo di ricorso deve quindi essere respinto.
Risulta altresì infondata la domanda risarcitoria, non sussistendo nel caso di specie alcuna condotta illegittima dell’amministrazione ma, al più, una non diligente custodia del bene da parte del debitore pignorato, fermo restando che resta incomprensibile anche la quantificazione proposta nella domanda risarcitoria a fronte della perdita di un bene stimato privo di valore commerciale.
Il ricorso deve essere integralmente respinto.

APPALTI: Utile minimo di impresa e anomalia dell’offerta.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Costo del lavoro – Individuazione C.c.n.l. da applicare al personale – Libera scelta dell’imprenditore – Limiti.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Utile di impresa esiguo. Indice sintomatico della anomalia dell’offerta ma non determinante.
  
In sede di gara pubblica, ai fini della valutazione della anomalia dell’offerta e del costo del lavoro la scelta del contratto collettivo rientra nelle prerogative dell’imprenditore, fatto salvo il limite della coerenza del contratto collettivo scelto rispetto all’oggetto dell’appalto (1).
  
In sede di gara pubblica, ai fini della valutazione della anomalia un utile esiguo di per sé solo non equivale a determinare tale anomalia, sebbene costituisca un indice sintomatico e debba quindi indurre l’amministrazione procedente ad una verifica accurata dell’equilibrio complessivo dell’offerta (2)
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   (1) Nella specie il C.g.a. ha ritenuto non pertinente, in relazione all’appalto avente ad oggetto i servizi cimiteriali e quello di autista del trasporto pubblico locale, l’applicazione del CCNL Multiservizi al personale in essi impegnato.
Sul punto v. anche Cons. St., sez. III, 12.03.2018, n. 1574.
   (2) Cons. St., sez. V, 17.07.2014, n. 3805 (
CGARS, sentenza 25.06.2018 n. 368 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Verbalizzazione della valutazione delle offerte e del punteggio attribuito dai commissari.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Valutazione – Verbalizzazione della Commissione – verbalizzazione singoli punteggi – Esclusione.
In assenza di un espresso obbligo di specifica verbalizzazione imposto dal disciplinare di gara, non vi è ragione per derogare dal principio generale secondo il quale gli apprezzamenti dei commissari sono destinati ad essere assorbiti nella decisione collegiale finale, costituente momento di sintesi della comparazione e composizione dei giudizi individuali (1).
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   (1) Cons. St., sez. III, 13.10.2017, n. 4772; id., sez. III, 08.09.2015, n. 4209; id., sez. IV, 16.02.2012, n. 810.
Ha chiarito la Sezione che la separata enunciazione dei punteggi attribuiti dai singoli Commissari assume valore di formalità interna relativa ai lavori della Commissione esaminatrice - i cui giudizi, ai fini della verbalizzazione e della pubblicità esterna, sono sufficientemente documentati con la sola attribuzione del voto complessivo finale (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 25.06.2018 n. 934 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO DEL SUOLO - Imbrattamento o deturpamento del suolo pubblico in modo tale da renderlo sudicio - Rovistamento nelle buste dei rifiuti conferiti in regime di raccolta differenziata - Natura episodica della condotta - Ininfluenza - Dolo generico - Art. 639, c. 2, cod. pen..
Integra il delitto di cui all'art. 639, comma 2, cod. pen., la condotta di chi, dopo aver rovistato nelle buste dei rifiuti conferiti in regime di raccolta differenziata, al fine di asportare quanto di suo interesse, rompa le buste che li contengono ed asporti quanto a lui utile, abbandonando il resto sulla pubblica via, in ragione del pregiudizio dell'estetica e della pulizia conseguente, risultando imbrattato il suolo pubblico in modo tale da renderlo sudicio, con senso di disgusto e di ripugnanza nei cittadini (sulla particolare natura della condotta del reato di cui all'art. 639 cod. pen. Cass. Sez. 2, n. 5828 del 24/10/2012, dep. 06/02/2013 e sulla differenza con il danneggiamento Sez. 2, n. 2768 del 02/12/2008, dep. 21/01/2009).
Trattandosi di dolo generico è indifferente per l'esistenza del reato il fine per cui il soggetto agisce, occorrendo soltanto che questi si sia rappresentato l'evento dannoso ed abbia agito di conseguenza. Né, può escludersi il dolo in ragione della natura episodica della condotta, tenuto conto che la fattispecie non richiede affatto una ripetizione dei comportamenti (verificandosi il momento consumativo del reato proprio con il prodursi dell'effetto di imbrattamento o di deturpamento) e che l'abbandono ormai diffuso e sistematico dei rifiuti che non formano oggetto di diretto "interesse" da parte di chi rovista nei cassonetti, ha conferito all'incriminazione quella "dannosità sociale" sufficiente ad attribuirle legittimazione sostanziale e, dunque, in assenza di elementi negativi del fatto o cause di esclusione della pena, a rendere ragionevole l'applicazione di una sanzione penale (Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 22.06.2018 n. 29018 - link a
www.ambientediritto.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazione mafiosa.
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Enti locali – Comuni – Consiglio comunale - Scioglimento per infiltrazione mafiosa – Dopo scioglimento per dimissioni – Possibilità.
  
Enti locali – Comuni – Consiglio comunale - Scioglimento per infiltrazione mafiosa – Sindacabilità – Limiti.
  
E’ legittimo lo scioglimento del Consiglio comunale, ex art. 143, d.lgs. 18.03.2000, n. 267, per infiltrazione mafiosa anche dopo l’avvenuto scioglimento per dimissioni (1).
  
In sede di impugnazione del provvedimento prefettizio di scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazione mafiosa la valutazione del giudice adito delle acquisizioni probatorie non può arrestarsi ad una atomistica e riduttiva analisi dei singoli elementi, senza tener conto dell’imprescindibile contesto locale e dei suoi rapporti con l’amministrazione del territorio, ma deve fondarsi sulla permeabilità degli organi elettivi a logiche e condizionamenti mafiosi sulla base di un loro complessivo, unitario e ragionevole vaglio, costituente bilanciata sintesi e non mera somma dei singoli elementi stessi (2).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che, diversamente opinando, le dimissioni costituirebbero un facile escamotage per paralizzare l’indagine prefettizia e consentire nella nuova tornata elettorale agli stessi candidati, sospettati di vicinanza agli ambienti malavitosi, di ripresentarsi, forti della disinformazione della cittadinanza locale.
   (2) V. Cons. St., sez. III, 14.07.2015, n. 3520; id. 02.07.2014, n. 3340; id. 14.02.2014, n. 727.
La Sezione ha preliminarmente ricordato che sulla questione è intervenuta la Corte costituzionale 19.03.1993, n. 103, secondo cui il potere di scioglimento in questione deve essere esercitato in presenza di situazioni di fatto che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi, suffragate da risultanze obiettive e con il supporto di adeguata motivazione; tuttavia, la presenza di risultanze obiettive esplicitate nella motivazione, anche ob relationem, del provvedimento di scioglimento non deve coincidere con la rilevanza penale dei fatti, né deve essere influenzata dall'esito degli eventuali procedimenti penali.
Lo scioglimento dell’organo elettivo si connota quale misura di carattere straordinario per fronteggiare un’emergenza straordinaria; di conseguenza sono giustificati margini ampi nella potestà di apprezzamento dell’Amministrazione nel valutare gli elementi su collegamenti diretti o indiretti, non traducibili in singoli addebiti personali, ma tali da rendere plausibile il condizionamento degli amministratori, anche quando il valore indiziario dei dati non è sufficiente per l’avvio dell’azione penale, essendo assi portanti della valutazione di scioglimento, da un lato, l’accertata o notoria diffusione sul territorio della criminalità organizzata e, dall’altro, le precarie condizioni di funzionalità dell’ente in conseguenza del condizionamento criminale.
Rispetto alla pur riscontrata commissione di atti illegittimi da parte dell’Amministrazione, è necessario un quid pluris, consistente in una condotta, attiva od omissiva, condizionata dalla criminalità anche in quanto subita, riscontrata dall’Amministrazione competente con discrezionalità ampia, ma non disancorata da situazioni di fatto suffragate da obiettive risultanze che diano attendibilità alle ipotesi di collusione, così da rendere pregiudizievole, per i legittimi interessi della comunità locale, il permanere alla sua guida degli organi elettivi. Ciò in quanto l’art. 143 t.u.e.l. precisa le caratteristiche di obiettività delle risultanze da identificare, richiedendo che esse siano concrete, e perciò fattuali, univoche, ovvero non di ambivalente interpretazione, rilevanti, in quanto significative di forme di condizionamento.
L’operazione in cui consiste l’apprezzamento giudiziale delle collusioni e dei condizionamenti non può essere effettuata mediante l’estrapolazione di singoli fatti ed episodi, al fine di contestare l'esistenza di taluni di essi ovvero di sminuire il rilievo di altri in sede di verifica del giudizio conclusivo sull'operato consiliare; ciò in quanto, in presenza di un fenomeno di criminalità organizzata diffuso nel territorio interessato dalla misura di cui si discute, gli elementi posti a conferma di collusioni, collegamenti e condizionamenti vanno considerati nel loro insieme, poiché solo dal loro esame complessivo può ricavarsi la ragionevolezza della ricostruzione di una situazione identificabile come presupposto per l’adozione della misura stessa (Cons. St., sez. III, 10.01.2018, n. 96; id. 07.12.2017, n. 5782) (
Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 22.06.2018 n. 3828 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tutela giurisdizionale sull'istanza di revisione prezzi.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Revisione prezzi – Diniego – Tutela giurisdizionale – Individuazione.
La domanda giudiziale avente ad oggetto la revisione prezzi di un contratto di appalto deve essere definita, sul piano processuale, secondo un'indagine di tipo bifasico, volta dapprima all'accertamento dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale - aspetto per il quale è consentito il giudizio impugnatorio riferito all'atto autoritativo della P.A. e al suo surrogato costituito dal silenzio rifiuto; e solo in un momento successivo alla verifica del quantum debeatur, secondo meccanismi propri della tutela delle posizioni di diritto soggettivo; ne consegue che qualunque provvedimento espresso o tacito che, collocandosi nella prima fase, espressamente neghi la revisione o non dia seguito all’istanza dell’appaltatore, involge posizioni di interesse legittimo e come tale va impugnato nei termini di rito, indipendentemente dalle ragioni sulla cui base la posizione di diniego venga assunta (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che l’istituto della revisione prezzi si atteggia secondo un modello procedimentale volto al compimento di un'attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale, al quale è sotteso l'esercizio di un potere autoritativo tecnico-discrezionale nei confronti del privato contraente. Di conseguenza, la posizione di quest’ultimo si articola nella titolarità di un interesse legittimo con riferimento all'an della pretesa ed eventualmente in una situazione di diritto soggettivo solo con riguardo a questioni involgenti l'entità della pretesa, una volta risolto in senso positivo il riconoscimento della spettanza del compenso revisionale (Cons. St., sez. IV, 06.08.2014, n. 4207; id., sez. V, 24.01.2013, n. 465; id. 03.08.2012, n. 4444; Cass. civ., SS.UU., 30.10.2014, n. 23067; id. 15.03.2011, n. 6016; id. 12.01.2011, n. 511; id. 12.07.2010, n. 16285).
Il descritto schema procedimentale comporta altresì che il privato contraente, in relazione all’esercizio di tale potere, potrà avvalersi unicamente dei rimedi e delle forme tipiche di tutela dell'interesse legittimo, e quindi con strumenti di carattere impugnatorio esperibili nei tradizionali termini decadenziali (Cons. St., sez. III, 18.12.2015, n. 5779; id. 09.01.2017, n. 25).
La consistenza di interesse legittimo della situazione soggettiva tutelata non muta per la previsione di un’ipotesi di giurisdizione esclusiva per le questioni relative “alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo” nonché “ai provvedimenti applicativi dell’adeguamento prezzi ai sensi dell’art. 133, commi 3 e 4”, d.lgs. n. 163 del 2006. E’ chiaro, infatti, che la cognizione esclusiva del giudice amministrativo presuppone necessariamente il concorso per determinate materie di situazioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo agli effetti della tutela giurisdizionale, che il legislatore risolve con l’individuazione del giudice competente, senza che ciò incida sui mezzi di tutela, scriminabili a seconda della natura della posizione soggettiva che si assume lesa.
Nel diverso caso in cui il contratto rechi un’apposita clausola che preveda il puntuale obbligo dell’Amministrazione di dar luogo alla revisione dei prezzi: in tale ipotesi, la richiesta sottoposta all'esame del giudice, risolvendosi in una mera pretesa di adempimento contrattuale, non può che intendersi come volta all’accertamento dell'esistenza di un diritto soggettivo, come tale rimesso alla cognizione del giudice ordinario (Cass. civ., SS.UU., 13.07.2015, n. 14559; id. 20.04.2017, n. 9965). Nel caso, al contrario, di denuncia della nullità delle clausole limitative contenute nel bando e nel capitolato speciale, che è strumentale all'esclusione dell'operatività delle previsioni contrattuali, si determina per conseguenza l'accesso ad un'area contrassegnata dall'esercizio di poteri pubblicistici.
D’altra parte, la nullità delle clausole contrattuali che escludono la revisione del canone -se può originare l’eterointegrazione della disciplina di gara con le norme imperative violate, ai sensi degli artt. 1339 e 1419 cc.- non manifesta, invece, alcun riflesso sulla caratterizzazione in termini provvedimentali dell’attività che l’amministrazione compulsata da una istanza di revisione è chiamata a svolgere nella fase di verifica dei relativi presupposti; né può confondersi il piano della invalidità delle determinazioni in tal senso assunte, con quello della insussistenza del potere ad assumerle. In altri termini, l’amministrazione è pienamente investita, in astratto e in concreto, del potere di verificare i presupposti della revisione, sicché gli atti dalla stessa adottati, in disparte ogni loro eventuale illegittimità, non possono ritenersi offesi da alcun limite di nullità.
La qualificazione in termini autoritativi del potere di verifica dei presupposti per il riconoscimento della revisione prezzi comporta - in ipotesi di condotta inerte dell’amministrazione compulsata - la necessità di avvalersi dei rimedi previsti a tutela dell'interesse legittimo nella forma del silenzio-rifiuto conseguente ad istanza formale (Cons. St., sez. V, 24.01.2013, n. 465).
Tale conclusione è figlia della considerazione che il diritto soggettivo alla revisione dei prezzi non discende direttamente dalla legge, ma deve trovare riconoscimento in un procedimento amministrativo, come del resto palesato dalla circostanza che l’art. 115 del Codice dei contratti innanzi richiamato rinvia ad un’istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi e, pertanto, ad un’attività procedimentalizzata, avviabile ad impulso della parte (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 22.06.2018 n. 3827 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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2. La tardività della impugnazione non fa dubitare della irricevibilità dell’azione di primo grado, dovendosi in tal senso considerare, in dissenso dalla tesi avanzata dalla parte appellante, che:
   - l'istituto della revisione prezzi si atteggia secondo un modello procedimentale volto al compimento di un'attività di preventiva verifica dei presupposti necessari per il riconoscimento del compenso revisionale, al quale è sotteso l'esercizio di un potere autoritativo tecnico-discrezionale nei confronti del privato contraente;
   - di conseguenza, la posizione di quest’ultimo si articola nella titolarità di un interesse legittimo con riferimento all'an della pretesa ed eventualmente in una situazione di diritto soggettivo solo con riguardo a questioni involgenti l'entità della pretesa, una volta risolto in senso positivo il riconoscimento della spettanza del compenso revisionale (ex multis Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2014, n. 4207; sez. V, 24.01.2013, n. 465; sez. V, 03.08.2012, n. 4444; Corte di Cassazione, SS.UU., 30.10.2014, n. 23067; 15.03.2011, n. 6016; 12.01.2011, n. 511; 12.07.2010, n. 16285);
   - il descritto schema procedimentale comporta altresì che il privato contraente, in relazione all’esercizio di tale potere, potrà avvalersi unicamente dei rimedi e delle forme tipiche di tutela dell'interesse legittimo, e quindi con strumenti di carattere impugnatorio esperibili nei tradizionali termini decadenziali (Cons. Stato, sez. III, 18.12.2015, n. 5779; Id., sez. III, 09.01.2017, n. 25);
   - la domanda giudiziale avente ad oggetto la revisione dei prezzi deve quindi essere definita, sul piano processuale, secondo un'indagine di tipo bifasico, volta dapprima all'accertamento dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale - aspetto per il quale è consentito il giudizio impugnatorio riferito all'atto autoritativo della P.A. e al suo surrogato costituito dal silenzio rifiuto; e solo in un momento successivo alla verifica del quantum debeatur, secondo meccanismi propri della tutela delle posizioni di diritto soggettivo;
   - ne viene che qualunque provvedimento espresso o tacito che, collocandosi nella prima fase, espressamente neghi la revisione o non dia seguito all’istanza dell’appaltatore, involge posizioni di interesse legittimo e come tale va impugnato nei termini di rito, indipendentemente dalle ragioni sulla cui base la posizione di diniego venga assunta;
   - la consistenza di interesse legittimo della situazione soggettiva tutelata non muta per la previsione di un’ipotesi di giurisdizione esclusiva per le questioni relative “alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo” nonché “ai provvedimenti applicativi dell’adeguamento prezzi ai sensi dell’art. 133, commi 3 e 4” del d.lgs. n. 163 del 2006. E’ chiaro, infatti, che la cognizione esclusiva del giudice amministrativo presuppone necessariamente il concorso per determinate materie di situazioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo agli effetti della tutela giurisdizionale, che il legislatore risolve con l’individuazione del giudice competente, senza che ciò incida sui mezzi di tutela, scriminabili a seconda della natura della posizione soggettiva che si assume lesa.
2.1. Alla luce dei richiamati principi, va respinta l’argomentazione (svolta dalla parte appellante nella memoria del 24.05.2018) secondo la quale rivestirebbe natura provvedimentale unicamente l’atto con il quale l’amministrazione, dopo l’espletamento dell’istruttoria prevista ex lege, si pronunci in ordine alla sussistenza dei presupposti (e quindi all’an) della revisione dei prezzi; mentre analoga natura non potrebbe riconoscersi all’atto che, disattendendo l’istruttoria, neghi l’avvio del relativo procedimento in violazione dell’imperativo di legge in tal senso sancito dall’art. 115 d.lgs. 163/2006.
In realtà, la verifica dei presupposti della revisione può arrestarsi anche ad una fase preliminare all’avvio del procedimento, potendo l’amministrazione valutare la stessa sussistenza delle condizioni necessarie all’espletamento dell’approfondimento istruttorio. Non vi è ragione alcuna per disarticolare tale attività propedeutica in segmenti differenziati per oggetto e natura delle questioni oggetto di verifica; né sussistono plausibili ragioni per ritenere che tale vaglio preliminare sia sottratto al potere discrezionale e autoritativo dell’amministrazione, ovvero per potersi negare la qualificazione di interesse legittimo alla posizione vantata dall'appaltatore in questa fase di riscontro delle condizioni e delle modalità della revisione, stante la predominante discrezionalità dell'Amministrazione che caratterizza tutta la fase di determinazioni sull'an debeatur (Cons. Stato, sez. V, 27.11.2015 n. 5375; Id., sez. III, 25.01.2016, n. 255).
2.2. Ad identiche conclusioni questa sezione è pervenuta scrutinando una fattispecie speculare a quella qui in esame in cui il rapporto negoziale fra le parti –quanto al riconoscimento di compensi revisionali– recava una clausola di chiaro contenuto negativo, come quella di cui qui si controverte, tale da indurre il Collegio giudicante a ritenere che la pretesa azionata in alcun modo potesse essere ricondotta ad una posizione di diritto soggettivo (Cons. Stato, sez. III, 18.12.2015, n. 5779).
2.3. Trattasi di soluzione, a ben vedere, simmetrica a quella predicabile nel diverso caso in cui il contratto rechi un’apposita clausola che preveda il puntuale obbligo dell’Amministrazione di dar luogo alla revisione dei prezzi: in tale ipotesi, la richiesta sottoposta all'esame del giudice (a prescindere dalla sua fondatezza nel merito), risolvendosi in una mera pretesa di adempimento contrattuale, non può che intendersi come volta all’accertamento dell'esistenza di un diritto soggettivo, come tale rimesso alla cognizione del giudice ordinario (cfr. Corte di Cassazione, SS.UU. 13.07.2015, n. 14559; Id., 20.04.2017, n. 9965).
2.4. Nel caso in esame, al contrario, la denuncia della nullità delle clausole limitative contenute nel bando e nel capitolato speciale è strumentale all'esclusione dell'operatività delle previsioni contrattuali, al fine di ottenere la revisione del corrispettivo di là da quanto stabilito dal contratto, in relazione all'intera durata del rapporto e senza limiti di carattere oggettivo. La prospettata inapplicabilità della regola contrattuale determina per conseguenza l'accesso ad un'area contrassegnata dall'esercizio di poteri pubblicistici.
2.5. Da quanto sin qui esposto consegue che l’eventuale erroneità delle conclusioni assunte dall’amministrazione nel descritto contesto di esercizio del potere valutativo (anche sotto il profilo della violazione del citato art. 115), può legittimare la parte a dolersene, ma pur sempre nel quadro dei rimedi e dei termini propri del giudizio impugnatorio.
2.6. D’altra parte, la nullità delle clausole contrattuali che escludono la revisione del canone -se può originare l’eterointegrazione della disciplina di gara con le norme imperative violate, ai sensi degli artt. 1339 e 1419 cc.- non manifesta, invece, alcun riflesso sulla caratterizzazione in termini provvedimentali dell’attività che l’amministrazione compulsata da una istanza di revisione è chiamata a svolgere nella fase di verifica dei relativi presupposti; né può confondersi il piano della invalidità delle determinazioni in tal senso assunte, con quello della insussistenza del potere ad assumerle. In altri termini, l’amministrazione è pienamente investita, in astratto e in concreto, del potere di verificare i presupposti della revisione, sicché gli atti dalla stessa adottati, in disparte ogni loro eventuale illegittimità, non possono ritenersi offesi da alcun limite di nullità.
3. Merita inoltre ribadire che la qualificazione in termini autoritativi del potere di verifica dei presupposti per il riconoscimento della revisione prezzi comporta -in ipotesi di condotta inerte dell’amministrazione compulsata- la necessità di avvalersi dei rimedi previsti a tutela dell'interesse legittimo nella forma del silenzio-rifiuto conseguente ad istanza formale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24.01.2013, n. 465).
3.1. Tale conclusione è figlia della considerazione che il diritto soggettivo alla revisione dei prezzi non discende direttamente dalla legge, ma deve trovare riconoscimento in un procedimento amministrativo, come del resto palesato dalla circostanza che l’art. 115 del Codice dei contratti innanzi richiamato rinvia ad un’istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi e, pertanto, ad un’attività procedimentalizzata, avviabile ad impulso della parte.
3.2. A fronte di ciò, appare del tutto implausibile una ricostruzione intesa ad ammettere l’attivazione del rimedio impugnatorio a fronte del silenzio dell’amministrazione e a negarla a fronte di un suo diniego espresso, pur nell’invarianza sia della potestà discrezionale che nell’uno e nell’altro caso viene in considerazione, sia, conseguentemente, della posizione giuridica soggettiva che rispetto ad essa può profilarsi in capo al richiedente.
3.3. Vero è, invece, che detta qualificazione giuridica caratterizza la posizione soggettiva del richiedente in tutta la “fase” antecedente al riconoscimento dell’adeguamento monetario, così come sono espressive di potere amministrativo tutte le posizioni assunte dalla stazione appaltante nel descritto tratto di azione amministrativa.
3.4. Nel caso di specie, infine, la verifica dei vari limiti applicativi della revisione prezzi, di tipo oggettivo e temporale, asseritamente previsti dall’art. 7 del capitolato speciale -richiamati nella nota di diniego e poi investiti dalle censure dell’appellante- avvalora ulteriormente la tesi secondo cui la disamina dei presupposti per attivare o meno il procedimento di revisione fosse destinata a rifluire nello scrutinio valutativo della stazione appaltante, con esercizio di un potere implicante, quanto all’an della verifica revisionale, posizioni di interesse legittimo dell’impresa affidataria.
4. Per tutto quanto esposto, l’appello va respinto e, in accoglimento dell’eccezione di tardività sollevata dalla parte appellata, la sentenza impugnata va riformata mediante declaratoria di irricevibilità del ricorso di primo grado.

EDILIZIA PRIVATA: Va esclusa l'ammissibilità di una «sanatoria parziale», dovendo l'atto abilitativo postumo contemplare gli interventi eseguiti nella loro integrità.
Va inoltre osservato che, parimenti, va esclusa ogni efficacia estintiva delle violazioni della disciplina antisismica quale conseguenza del rilascio di autorizzazioni postume a sanatoria.
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Il provvedimento adottato dall'autorità amministrativa a norma dell'art. 34, comma 2, DPR 380/2001 trova applicazione solo per le difformità parziali e, in ogni caso, non equivale ad una sanatoria, atteso che non integra una regolarizzazione dell'illecito ed, in particolare, non autorizza il completamento delle opere, considerato che le stesse vengono tollerate, nello stato in cui si trovano, solo in funzione della conservazione di quelle realizzate legittimamente.
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La disciplina prevista dall'art. 34, comma secondo, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, cosiddetta procedura di fiscalizzazione dell'illecito edilizio, trova applicazione, in via esclusiva, per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, e non equivale ad una "sanatoria" dell'abuso edilizio, in quanto non integra una regolarizzazione dell'illecito e non autorizza il completamento delle opere realizzate.
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L'assunto è corretto.
4. La sanatoria disciplinata dagli articoli 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001 (e, in precedenza, dagli artt. 13 e 22 legge n. 47 del 1985) è destinata, in via generale, al recupero degli interventi abusivi previo accertamento della conformità degli stessi agli strumenti urbanistici generali e di attuazione, nonché alla verifica della sussistenza di altri requisiti di legge, specificamente individuati.
In base al menzionato articolo 36, la sanatoria può essere ottenuta quando l'opera eseguita in assenza del permesso sia conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati o non in contrasto con quelli adottati, tanto al momento della realizzazione dell'opera, quanto al momento della presentazione della domanda, che può avvenire fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e, comunque, fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative.
Sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi -con adeguata motivazione- entro sessanta giorni, trascorsi inutilmente i quali la domanda si intende respinta.
L'istanza è subordinata, inoltre, al pagamento di una somma a titolo di oblazione, secondo le modalità descritte nello stesso articolo.
In base a quanto espressamente disposto dall'articolo 45, il rilascio della sanatoria «estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti», con esclusione, quindi, di altri reati eventualmente concorrenti. Inoltre, il rilascio del provvedimento di sanatoria consegue ad un'attività vincolata della PA., consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale.
Va altresì ricordato che questa Corte ha pure escluso l'ammissibilità di una «sanatoria parziale», dovendo l'atto abilitativo postumo contemplare gli interventi eseguiti nella loro integrità (cfr.. Sez. III n. 19587, 18.05.2011; n. 45241, 05.12.2007, non massimata; Sez. 3, n. 291 del 26/11/2003 (dep.2004), P.M. in proc. Fammiano, Rv. 226871).
Diversamente, l'art. 34 d.P.R. 380/2001 si riferisce agli interventi ed alle opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, che sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell'ufficio e, decorso tale termine, sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso.
Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.
Le disposizioni dell'articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 23, comma 1, eseguiti in parziale difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività.
Come è stato già chiaramente affermato da questa Corte, il provvedimento adottato dall'autorità amministrativa a norma dell'art. 34, comma 2 citato trova applicazione solo per le difformità parziali e, in ogni caso, non equivale ad una sanatoria, atteso che non integra una regolarizzazione dell'illecito ed, in particolare, non autorizza il completamento delle opere, considerato che le stesse vengono tollerate, nello stato in cui si trovano, solo in funzione della conservazione di quelle realizzate legittimamente (così, Sez. 3, n. 19538 del 22/04/2010, Alborino, Rv. 247187. Conf. Sez. 3, n. 24661 del 15/4/2009, Ostuni, Rv. 244021; Sez. 3, n. 13978 del 25/02/2004, Tessitore, Rv. 228451).
5. Tali principi sono pienamente condivisi dal Collegio dovendosi pertanto ribadire che la disciplina prevista dall'art. 34, comma secondo, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, cosiddetta procedura di fiscalizzazione dell'illecito edilizio, trova applicazione, in via esclusiva, per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, e non equivale ad una "sanatoria" dell'abuso edilizio, in quanto non integra una regolarizzazione dell'illecito e non autorizza il completamento delle opere realizzate.
6. Va inoltre osservato che, parimenti, va esclusa ogni efficacia estintiva delle violazioni della disciplina antisismica quale conseguenza del rilascio di autorizzazioni postume a sanatoria.
Sul punto la giurisprudenza di questa Corte è uniforme (v., ex pl., Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010; Braccolino, Rv. 246462; Sez. 3, n. 19256 del 13/04/2005, Cupelli, Rv. 231850; Sez. 3, n. 1658 del 01/12/1997 (dep.1998), Agnesse, Rv. 209571) e le esclusioni individuate dalla condivisibile lettura della disciplina in esame hanno superato anche il vaglio della Corte Costituzionale (Corte Cost. sent. 149 del 30.04.1999) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.06.2018 n. 28747).

CONSIGLIERI COMUNALI: Deliberazione di approvazione del rendiconto: è legittima l’impugnazione dei consiglieri comunali per violazione del termine per il deposito della relazione dell’organo di revisione.
Allontanarsi dall'aula non preclude la legittimazione dei consiglieri comunali ad impugnare le delibere.

La legittimazione degli originari ricorrenti trova nel caso di specie il proprio fondamento nella circostanza che essi fanno valere una violazione incidente specificamente sulle prerogative di consigliere comunale, in quanto lamentano di aver subito una preclusione all’esercizio delle funzioni relative all’incarico rivestito a causa dell’inosservanza del termine per il deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare.
Si dolgono, infatti, che la relazione dell’organo contabile non è stata depositata nei termini di legge, precludendo così una consapevole deliberazione in merito all’approvazione del rendiconto della gestione finanziaria del Comune.
Non rileva, in senso contrario, la circostanza che i consiglieri comunali ricorrenti, preso atto del mancato deposito nel termine di legge della relazione dell’organo di revisione, abbiano deciso di allontanarsi della seduta (senza manifestare il proprio dissenso o chiedere il differimento della seduta). La scelta di allontanarsi, in quanto determinata proprio dalla violazione contestata, non può, infatti, incidere in senso negativo sulla sussistenza della legittimazione al ricorso, né può determinare una forma di acquiescenza al provvedimento.
Sul punto, infatti, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che il componente dell'organo collegiale decade dalla possibilità di impugnazione solo se partecipa attivamente alla seduta e alla votazione favorevole senza manifestare e far verbalizzare il proprio dissenso alla delibera. Ciò in quanto la partecipazione attiva alla seduta e la votazione favorevole alla approvazione della delibera, comporta la imputabilità del deliberato anche al componente presente non dissenziente, con conseguente acquiescenza al provvedimento.

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Non vi è dubbio che il significativo ritardo con cui è stata messa a disposizione dei consiglieri la relazione dell’organo di revisione (solo due giorni prima della seduta consiliare invece dei venti previsti) ha arrecato un vulnus alle prerogative consigliari, impedendo una deliberazione consapevole.
Ciò a maggior ragione in considerazione del ruolo anche sostanziale che l’art. 39 dello Statuto assegna alla relazione dell’organo di revisione, che contiene, fra l’altro, “rilievi proposte per migliorare l’efficienza e l’economicità della gestione”.
Deve escludersi, quindi, che si tratti di una violazione meramente procedimentale ovvero di una forma di irregolarità inidonea a determinare l’invalidità della delibera di approvazione. La violazione è, al contrario, sostanziale e determina l’illegittimità della delibera consiliare.
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1. Viene in decisione l’appello proposto dal Comune di Francavilla Marittima per ottenere la riforma della sentenza, di estremi indicati in epigrafe, con la quale il Tar per la Calabria, sede di Catanzaro, in accoglimento del ricorso proposto da alcuni consiglieri comunali, ha annullato la delibera di approvazione del rendiconto dell’anno 2016 e la deliberazione con cui è stato adottato lo schema del rendiconto della gestione finanziaria 2016.
2. Il Tar, in particolare, ha riscontrato la violazione dell’art. 227, comma 2, T.U.E.L., in quanto la relazione dell’organo di revisione non è stata messa a disposizione dei componenti dell’organo consiliare nel rispetto del prescritto termine non inferiore a venti giorni prima della seduta consiliare in cui viene esaminato il rendiconto.
3. Si sono costituiti in giudizio per resistere all’appello i consiglieri comunali ricorrenti in primo grado.
...
5. L’appello non merita accoglimento.
6. Vanno esaminate le pregiudiziali eccezioni di inammissibilità del ricorso di primo grado, riproposte in appello mediante specifici motivi di gravame dal Comune di Francavilla Marittima.
7. Le eccezioni non hanno pregio.
La legittimazione degli originari ricorrenti trova nel caso di specie il proprio fondamento nella circostanza che essi fanno valere una violazione incidente specificamente sulle prerogative di consigliere comunale, in quanto lamentano di aver subito una preclusione all’esercizio delle funzioni relative all’incarico rivestito a causa dell’inosservanza del termine per il deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare. Si dolgono, infatti, che la relazione dell’organo contabile non è stata depositata nei termini di legge, precludendo così una consapevole deliberazione in merito all’approvazione del rendiconto della gestione finanziaria del Comune.
8. Non rileva, in senso contrario, la circostanza che i consiglieri comunali ricorrenti, preso atto del mancato deposito nel termine di legge della relazione dell’organo di revisione, abbiano deciso di allontanarsi della seduta (senza manifestare il proprio dissenso o chiedere il differimento della seduta). La scelta di allontanarsi, in quanto determinata proprio dalla violazione contestata, non può, infatti, incidere in senso negativo sulla sussistenza della legittimazione al ricorso, né può determinare una forma di acquiescenza al provvedimento.
Sul punto, infatti, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che il componente dell'organo collegiale decade dalla possibilità di impugnazione solo se partecipa attivamente alla seduta e alla votazione favorevole senza manifestare e far verbalizzare il proprio dissenso alla delibera. Ciò in quanto la partecipazione attiva alla seduta e la votazione favorevole alla approvazione della delibera, comporta la imputabilità del deliberato anche al componente presente non dissenziente, con conseguente acquiescenza al provvedimento (cfr. Cons. Stato, sez. V, 07.11.2007, n. 5759).
Nel caso di specie, tuttavia, non vi è stata partecipazione attiva alla seduta e alla votazione favorevole, in quanto i consiglieri comunali ricorrenti si sono allontanati dalla seduta, e non hanno preso, quindi, parte alla votazione favorevole. Tanto è sufficiente ad escludere ogni forma di acquiescenza.
9. L’appello è infondato anche nel merito.
La violazione del termine per il deposito della relazione dell’organo di revisione contabile è pacifica. La relazione dell’organo contabile è stata resa disponibile ai consiglieri comunali solo in data 05.06.2017, soltanto due giorni prima della seduta consiliare del 07.06.2017 che ha approvato il rendiconto dell’esercizio finanziario 2016.
Ne consegue la violazione dell’art. 227, comma 2, T.U.E.L., dell’art. 39 dello Statuto comunale e dell’art. 61, comma 4, del regolamento comunale di contabilità.
Ai sensi dell’art. 227, comma 2, T.U.E.L., infatti, “il rendiconto è deliberato dall'organo consiliare dell'ente entro il 30 aprile dell'anno successivo, tenuto motivatamente conto della relazione dell'organo di revisione. La proposta è messa a disposizione dei componenti dell'organo consiliare prima dell'inizio della sessione consiliare in cui viene esaminato il rendiconto entro un termine, non inferiore a venti giorni, stabilito dal regolamento”.
L’art. 39 dello Statuto comunale specifica che il revisore “collabora con il Consiglio nella sua funzione d’indirizzo e controllo, esercita la vigilanza sulla regolarità contabile della gestione e redige apposita relazione che accompagna la proposta di deliberazione di rendiconto del bilancio, nella quale esprime rilievi proposte per migliorare l’efficienza e l’economicità della gestione”.
L’art. 61, comma 4, del regolamento comunale di contabilità ribadisce ulteriormente che almeno venti giorni prima della seduta consiliare in cui viene esaminato il rendiconto, sono posti a disposizione dei consiglieri, con deposito presso la segreteria dell’ente:
   - la proposta di deliberazione;
   - lo schema di rendiconto;
   - la relazione al rendiconto di cui all’art. 231 del T.U.E.L. approvata dalla Giunta;
   - la relazione dell’organo di revisione.
10. Non vi è dubbio, pertanto, che il significativo ritardo con cui è stata messa a disposizione dei consiglieri la relazione dell’organo di revisione (solo due giorni prima della seduta consiliare invece dei venti previsti) ha arrecato un vulnus alle prerogative consigliari, impedendo una deliberazione consapevole.
Ciò a maggior ragione in considerazione del ruolo anche sostanziale che l’art. 39 dello Statuto assegna alla relazione dell’organo di revisione, che contiene, fra l’altro, “rilievi proposte per migliorare l’efficienza e l’economicità della gestione”.
Deve escludersi, quindi, che si tratti di una violazione meramente procedimentale ovvero di una forma di irregolarità inidonea a determinare l’invalidità della delibera di approvazione. La violazione è, al contrario, sostanziale e determina l’illegittimità della delibera consiliare.
11. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello deve, pertanto, essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.06.2018 n. 3814 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla definizione di "volume tecnico".
Partendo dalla definizione dei volumi tecnici, la loro definizione si rinviene nella circolare dell’allora ministero dei Lavori pubblici n. 2474 del 1973, secondo cui si tratta dei volumi «strettamente necessari a contenere ed a consentire l’accesso di quelle parti degli impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non possono per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche».
La circolare precisa che la definizione «può trovare applicazione soltanto nei casi in cui i volumi tecnici non siano diversamente definiti o disciplinati dalle norme urbanistico-edilizie vigenti nel Comune» e che, in ogni caso, la loro sistemazione «non deve costituire pregiudizio per la validità estetica dell’insieme architettonico».
Secondo costante orientamento giurisprudenziale, da quale non vi è motivo per discostarsi , per l’identificazione dei volumi tecnici va fatto riferimento a tre ordini di parametri.
Il primo ha carattere positivo ed è di tipo funzionale, dovendo sussistere un rapporto di strumentalità necessaria del volume tecnico con l’utilizzo della costruzione. Il secondo e il terzo hanno carattere negativo e sono collegati: all’impossibilità di elaborare soluzioni progettuali diverse all'interno della parte abitativa, per cui tali volumi devono essere ubicati solo all’esterno; ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra le esigenze edilizie ed i volumi, che devono limitarsi a contenere gli impianti serventi della costruzione principale e devono essere completamente privi di una propria autonomia funzionale, anche solo potenziale.
Inoltre, è stato escluso che possa considerarsi volume tecnico un locale con requisiti di abitabilità, reso non abitabile con una semplice operazione di tamponamento delle finestre, essendo questa «una operazione in sé talmente semplice, reversibile e surrettizia da non privare l’ambiente della sua intrinseca qualità abitativa».
Come pure è stato ritenuto che la realizzazione di un locale sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano sottostante mediante una scala interna, costituisse «indice rilevatore dell’intento di rendere abitabile detto locale, non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati».
Analogamente sono stati esclusi dal novero dei volumi tecnici anche i vani scala, le verande, se di dimensioni superiori ad ospitare un impianto tecnologico come una caldaia ed i piani interrati, se utilizzati come locali complementari all’abitazione.
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Gli assunti non sono condivisibili.
Partendo dalla definizione dei volumi tecnici, la loro definizione si rinviene nella circolare dell’allora ministero dei Lavori pubblici n. 2474 del 1973, secondo cui si tratta dei volumi «strettamente necessari a contenere ed a consentire l’accesso di quelle parti degli impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di parafulmine, di ventilazione, ecc.) che non possono per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti stessi, trovare luogo entro il corpo dell’edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche».
La circolare precisa che la definizione «può trovare applicazione soltanto nei casi in cui i volumi tecnici non siano diversamente definiti o disciplinati dalle norme urbanistico-edilizie vigenti nel Comune» e che, in ogni caso, la loro sistemazione «non deve costituire pregiudizio per la validità estetica dell’insieme architettonico».
Secondo costante orientamento giurisprudenziale, da quale non vi è motivo per discostarsi (TAR Napoli n. 3490/2015 e n. 4132/2013; Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza n. 175/2015 e n. 1512/2014; Consiglio di giustizia amministrativa, sentenza n. 207/2014), per l’identificazione dei volumi tecnici va fatto riferimento a tre ordini di parametri.
Il primo ha carattere positivo ed è di tipo funzionale, dovendo sussistere un rapporto di strumentalità necessaria del volume tecnico con l’utilizzo della costruzione. Il secondo e il terzo hanno carattere negativo e sono collegati: all’impossibilità di elaborare soluzioni progettuali diverse all'interno della parte abitativa, per cui tali volumi devono essere ubicati solo all’esterno; ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra le esigenze edilizie ed i volumi, che devono limitarsi a contenere gli impianti serventi della costruzione principale e devono essere completamente privi di una propria autonomia funzionale, anche solo potenziale.
Inoltre, è stato escluso che possa considerarsi volume tecnico un locale con requisiti di abitabilità, reso non abitabile con una semplice operazione di tamponamento delle finestre, essendo questa «una operazione in sé talmente semplice, reversibile e surrettizia da non privare l’ambiente della sua intrinseca qualità abitativa» (Consiglio di Stato, sezione VI, n. 2825/2014).
Come pure è stato ritenuto che la realizzazione di un locale sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano sottostante mediante una scala interna, costituisse «indice rilevatore dell’intento di rendere abitabile detto locale, non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati» (Consiglio di giustizia amministrativa siciliana, sentenza n. 207/2014; Consiglio di stato, sezione IV, sentenza n. 3666/2013; Tar Puglia-Lecce, sezione III, n. 2170/2011).
Analogamente sono stati esclusi dal novero dei volumi tecnici anche i vani scala (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza n. 2565/2010), le verande, se di dimensioni superiori ad ospitare un impianto tecnologico come una caldaia (Consiglio di stato, sezione VI, n. 2226/2015; Tar Campania-Napoli sezione VIII, sentenza n. 4132/2013) ed i piani interrati, se utilizzati come locali complementari all’abitazione (Tar Marche, sentenza n. 21/2003).
Nella specie, trattasi di diversi locali apparentemente realizzati per civile abitazione, comprensivi di servizi igienici stante la mancata dimostrazione del rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo di una costruzione, nel senso della loro unica finalità e stretta necessità di contenere impianti tecnici serventi una costruzione principale che non possano per esigenze tecniche essere inglobati entro il corpo della costruzione.
Nella corretta ottica unitaria peraltro le opere realizzate costituiscono sicuramente interventi che realizzano superfici utili, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi del d.lgs. 42/2004, i quali sono esclusi dalla possibilità di essere assentiti in sanatoria ex art. 36 DPR 380/2001.
Tale circostanza, sufficiente a reggere la legittimità del provvedimento impugnato, comporta la reiezione del ricorso per motivi aggiunti (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.06.2018 n. 1042 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La proposizione di un’istanza di sanatoria, pur non comportando la radicale e definitiva inefficacia dell’ordine di demolizione, fa conseguire al provvedimento impugnato un mero stato di temporanea inefficacia nelle more di una decisione, espressa o tacita, da parte dell’Amministrazione.
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Deve essere respinto anche il ricorso proposto avverso l’ordine di demolizione.
Invero, quanto alla dedotta illegittimità sopravvenuta per effetto della presentazione dell’istanza di sanatoria, la Sezione condivide l’orientamento secondo il quale la proposizione di un’istanza di sanatoria, pur non comportando la radicale e definitiva inefficacia dell’ordine di demolizione, fa conseguire al provvedimento impugnato un mero stato di temporanea inefficacia nelle more di una decisione, espressa o tacita, da parte dell’Amministrazione.
Sennonché, nel caso di specie, a fronte della citata istanza di sanatoria, il Comune ha adottato il provvedimento conclusivo suindicato, sicché essendo venuto meno lo stato di temporanea quiescenza dell’atto, quest’ultimo ha riacquistato nuovamente la sua primigenia efficacia (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.06.2018 n. 1042 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte di giustizia UE se la violazione della disciplina antiutrust rientra negli errori gravi commessi nell’esercizio dell’attività professionale.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara - Errore grave commesso da un operatore economico “nell’esercizio della propria attività professionale” - Comportamenti integranti violazione delle norme sulla concorrenza – Non rientrano nell’”errore grave” – Conseguente impossibilità di escludere facoltativamente – Conformità alla disciplina comunitaria - Rimessione alla Corte di giustizia UE.
Deve essere rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione se il combinato disposto da una parte degli artt. 53, paragrafo 3, e 54, paragrafo 4, della Direttiva 2004/17/CE, e dell’art. 45, paragrafo 2, lett. d), della Direttiva 2004/18/CE osti ad una previsione, come l’art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. 12.04.2006, n. 163, come interpretato dalla giurisprudenza nazionale, che esclude dalla sfera di operatività del c.d. “errore grave” commesso da un operatore economico “nell’esercizio della propria attività professionale”, i comportamenti integranti violazione delle norme sulla concorrenza accertati e sanzionati dalla Autorità nazionale antitrust con provvedimento confermato in sede giurisdizionale, in tal modo precludendo a priori alle amministrazioni aggiudicatrici di valutare autonomamente siffatte violazioni ai fini della eventuale, ma non obbligatoria, esclusione di tale operatore economico da una gara indetta per l’affidamento di un appalto pubblico (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che la Corte di giustizia UE, nella causa C-465/11 del 13.12.2012:
   a) conferma che la nozione di “errore grave” rilevante ai fini dell’art. 45, paragrafo 2, lett. d), della Direttiva 2004/18/CE comprende anche comportamenti diversi dai meri inadempimenti contrattuali -potendosi estendere a qualsiasi violazione, persino di norme deontologiche, idonea ad evidenziare la propensione di un operatore economico a non rispettare regole-;
   b) richiama l’attenzione sul fatto che gli Stati membri con riferimento alle cause di esclusione “facoltative” debbono tenere conto della nozione di “errore grave” rilevante ai fini del diritto della Unione, potendo tali cause essere “precisate ed esplicitate nel diritto nazionale, nel rispetto, tuttavia, del diritto dell’Unione”.
La Sezione ha quindi concluso che tale pronuncia conferma che nel recepire le cause di esclusione gli Stati membri, già nel vigore delle Direttive 2004/17 e 2004/18/CE, non potevano mutarne il contenuto, come non potevano trasformare le cause di esclusione facoltative in cause di esclusione automatica.
Ha quindi ritenuto che relativamente alle cause di esclusione c.d. “facoltative” la giurisprudenza della Corte formatasi nel vigore delle Direttive 92/50/CEE e 2004/18/CE non risulta di univoca interpretazione. Alcune pronunce sembrerebbero riconoscere agli Stati membri il potere di non attribuire rilevanza giuridica a tutte o a talune di tali cause di esclusione ovvero di ridimensionare la portata applicativa di ciascuna di esse, in particolare prevedendo che non debbano essere applicate in alcune situazioni che invece sono rilevanti per il diritto della Unione. Altra giurisprudenza, come quella di cui alla pronuncia resa nella causa C-465/11, sembrerebbe invece suggerire che gli Stati membri potevano solo chiarire il significato, senza mutare la nozione rilevante ai fini del diritto europeo, o specificandone i criteri applicativi.
Il Tar ritiene, quindi, necessario l’intervento chiarificatore della Corte di giustizia, tanto più per il fatto che anche la Direttiva 2014/24/UE, con previsioni alle quali la stessa Corte di giustizia parrebbe aver attribuito (con la sentenza C-470/13) natura ricognitiva, sembra aver assegnato agli Stati membri solo il potere di obbligare le amministrazioni aggiudicatrici a tenere in considerazione le cause di esclusione “facoltative” indicate all’art. 57, comma 4 –tra cui anche le condotte che si siano estrinsecate nella conclusione di accordi limitativi della concorrenza-, e non certo anche il potere di privare le amministrazione aggiudicatrici del potere di valutare autonomamente le medesime cause di esclusione (TAR Piemonte, Sez. I, ordinanza 21.06.2018 n. 770 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Titolo abilitativo in sanatoria e revoca del sequestro preventivo di un manufatto abusivo - Requisito della c.d. "doppia conformità" - Artt. 31 e 44 d.P.R. n. 380/2001 - Art. 321 cod. proc. pen. - Giurisprudenza.
Il titolo abilitativo in sanatoria, rilasciato ai sensi degli artt. 36 e 44 d.P.R. n. 380/2001 (nella specie, in relazione all'art. 321 cod. proc. pen.), deve contenere la verifica del requisito della c.d. "doppia conformità", richiedendo in modo specifico che la conformità agli strumenti urbanistici debba sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera che al momento della presentazione della domanda in sanatoria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.06.2018 n. 28532 - link a
www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Obbligo -o meno- di bonifica in capo al curatore fallimentare.
Sulla base di condiviso orientamento giurisprudenziale:
   a) “in sede di applicazione dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006, in assenza dell'individuazione di una univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore stesso sull'abbandono dei rifiuti, nessun ordine di ripristino può essere imposto dal Comune alla curatela fallimentare quale mera responsabilità di posizione. Il curatore non sostituisce, infatti, il fallito, atteso che la procedura fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo dell'impresa fallita”;
   b) invero, “il curatore fallimentare non è correttamente individuato come soggetto passivo dei sopra indicati obblighi di facere dal momento che a tale organo della procedura fallimentare sono solo attribuiti poteri di disporre dei beni fallimentari in vista delle finalità proprie della procedura concorsuale, senza che ciò comporti l'attribuzione allo stesso del dovere di adottare comportamenti attivi come richiesti dall'ordinanza impugnata, poiché il curatore fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito, salvo quanto può essere più specificamente connesso all'eventuale esercizio provvisorio dell'impresa”;
   c) nello specifico, “la curatela fallimentare non può essere destinataria di ordinanze dirette alla bonifica di siti, per effetto del precedente comportamento (omissivo o commissivo) dell'impresa fallita, posto che, tra l’altro, il curatore, nell’espletamento del munus publicum, pur potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l'art. 72 R.D. n. 267 del 1942), in via generale «non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge» (...), avendo il fallimento finalità meramente liquidatorie".
Ed invero, occorre puntualizzare che: per un verso, "la soluzione opposta «determinerebbe un sovvertimento del principio "chi inquina paga" scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun collegamento con l'inquinamento» (...). Correlativamente, il fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura (...). Su di lui non incombono né gli obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della procedura concorsuale. La curatela fallimentare, pertanto, non subentra «negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione dell'attività, con conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla legittimazione passiva dell'ordine di bonifica»";
   d) in definitiva, il curatore “non rappresenta né il soggetto fallito né la massa dei creditori: come organo pubblico agisce per la realizzazione dei fini che sono propri del fallimento e non può proiettarsi al di fuori di tale scopo fondamentale della procedura fallimentare. (...) E’ applicabile, nella specie il principio di derivazione romanistica “res transit cum onere suo”. Alla stregua di detto principio quindi la individuazione della responsabilità connessa all’obbligo di rimozione dei rifiuti può e deve intendersi avvenuta soltanto dopo la chiusura della procedura fallimentare e dopo l’avvenuto espletamento della la fase di liquidazione. Prima dell’esaurimento di detta fase il responsabile è originariamente indeterminato, deve ritenersi determinato a posteriori. Al creditore al quale sarà assegnato il bene a cui ineriscono, in senso causativo, i rifiuti incomberà la responsabilità della rimozione dei rifiuti medesimi”.
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- Premesso che la curatela ricorrente impugna l’ordinanza sindacale con la quale le viene ingiunto ai sensi dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, “di provvedere alla messa in sicurezza, rimozione di tutti i rifiuti presenti, combusti e non, con la consequenziale totale bonifica, garantendo tutte le misure necessarie per la salvaguardia ambientale a tutela della pubblica incolumità e igiene, nel lasso di tempo di giorni 45, decorrenti dalla data di notifica della presente ordinanza”;
- Valutato che in relazione alla manifesta fondatezza del ricorso, ricorrono, a giudizio del Collegio, le condizioni ai fini dell’immediata definizione del ricorso in esame, sussistendo, altresì, gli altri presupposti per l’adozione della decisione in forma semplificata;
- Rese edotte le parti costituite di tale eventualità alla camera di consiglio del 04.06.2018, nel corso della quale, preso atto dell’opposizione al rinvio interposta da parte ricorrente avverso l’istanza della controinteressata Ec. S.r.l., la causa è stata introitata per la decisione con sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a.;
- Ritenuto, nella specie, fondato ed assorbente l’unico motivo di ricorso con il quale è dedotta la carenza di legittimazione passiva, posto che, sulla base di condiviso orientamento giurisprudenziale:
   a) “in sede di applicazione dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006, in assenza dell'individuazione di una univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore stesso sull'abbandono dei rifiuti, nessun ordine di ripristino può essere imposto dal Comune alla curatela fallimentare quale mera responsabilità di posizione. Il curatore non sostituisce, infatti, il fallito, atteso che la procedura fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo dell'impresa fallita” (TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 08.02.2016 n. 1804; TRGA Trentino-Alto Adige, Trento, Sez. Unica, 24.11.2017, n. 309);
   b) invero, “il curatore fallimentare non è correttamente individuato come soggetto passivo dei sopra indicati obblighi di facere dal momento che a tale organo della procedura fallimentare sono solo attribuiti poteri di disporre dei beni fallimentari in vista delle finalità proprie della procedura concorsuale, senza che ciò comporti l'attribuzione allo stesso del dovere di adottare comportamenti attivi come richiesti dall'ordinanza impugnata, poiché il curatore fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito, salvo quanto può essere più specificamente connesso all'eventuale esercizio provvisorio dell'impresa” (TAR Toscana, Firenze, sez. III, 27.10.2015 n. 1457; TAR Lombardia, Milano, sez. III, 05.01.2016, n. 1);
   c) nello specifico, “la curatela fallimentare non può essere destinataria di ordinanze dirette alla bonifica di siti, per effetto del precedente comportamento (omissivo o commissivo) dell'impresa fallita, posto che, tra l’altro, il curatore, nell’espletamento del munus publicum, pur potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l'art. 72 R.D. n. 267 del 1942), in via generale «non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge (Cassazione civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926)» (...), avendo il fallimento finalità meramente liquidatorie".
Ed invero, occorre puntualizzare che: per un verso, "la soluzione opposta «determinerebbe un sovvertimento del principio "chi inquina paga" scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun collegamento con l'inquinamento» (...). Correlativamente, il fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura (...). Su di lui non incombono né gli obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della procedura concorsuale. La curatela fallimentare, pertanto, non subentra «negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito a meno che non vi sia una prosecuzione dell'attività, con conseguente esclusione del curatore fallimentare dalla legittimazione passiva dell'ordine di bonifica
»" (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 11.05.2017 n. 746);
   d) in definitiva, il curatore “non rappresenta né il soggetto fallito né la massa dei creditori: come organo pubblico agisce per la realizzazione dei fini che sono propri del fallimento e non può proiettarsi al di fuori di tale scopo fondamentale della procedura fallimentare. (...) E’ applicabile, nella specie il principio di derivazione romanistica “res transit cum onere suo”. Alla stregua di detto principio quindi la individuazione della responsabilità connessa all’obbligo di rimozione dei rifiuti può e deve intendersi avvenuta soltanto dopo la chiusura della procedura fallimentare e dopo l’avvenuto espletamento della la fase di liquidazione. Prima dell’esaurimento di detta fase il responsabile è originariamente indeterminato, deve ritenersi determinato a posteriori. Al creditore al quale sarà assegnato il bene a cui ineriscono, in senso causativo, i rifiuti incomberà la responsabilità della rimozione dei rifiuti medesimi” (TAR Campania, Napoli, sez. V, 26.11.2015 n. 5461, 03.07.2017 n. 3544 e 08.02.2018 n. 829);
- Preso, altresì, atto che, nel caso di specie, non ricorrono neppure le fattispecie residuali di eccezionale applicabilità dell’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152/2006 nei confronti del curatore fallimentare, ravvisate:
   1. nell’accertamento della diretta imputabilità delle condotte di abbandono dei rifiuti e inquinamento (nell’ordinanza gravata, invero, sembrerebbe accertato che i fatti ivi indicati si sarebbero verificati in epoca antecedente all’apertura della procedura fallimentare: cfr. ordinanza n. 4 del 29.07.2017) (TAR Basilicata Potenza, sez. I, 04.04.2017 n. 293; TAR Lombardia, Milano, sez. III, 03.03.2017 n. 520);
   2. nell’autorizzazione da parte del competente Tribunale fallimentare all’esercizio provvisorio, ai sensi dell'art. 90 l. fall., atteso che solo in tale ipotesi la curatela non avrebbe esclusivamente finalità liquidatorie della massa fallimentare (non risulta, nel caso all’esame, che la curatela fallimentare sia stata autorizzata alla prosecuzione dell'attività) (TAR Puglia, Lecce, I, 19.02.2014 n. 504; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 09.01.2017 n. 38);
- Considerato, pertanto, che il ricorso sia meritevole di accoglimento con compensazione integrale delle spese di giudizio attesa la peculiarità della questione giuridica sottesa (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 20.06.2018 n. 4078 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sulla questione del riconoscimento dello svolgimento di mansioni superiori (e del conseguente diritto alla corresponsione delle relative differenze retributive) può considerarsi jus receptum la individuazione di specifiche e definite condizioni alle quali il Legislatore ha inteso subordinare il riconoscimento del  solo- diritto alle differenze retributive in ragione delle mansioni espletate.
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In particolare, per il personale amministrativo del comparto sanità, l’art. 29, comma secondo, del d.P.R. 20.12.1979, n. 761, consente una variazione stipendiale, in ragione dello svolgimento di mansioni superiori per più di 60 giorni, esclusivamente in presenza di un posto vacante e sulla base di atto formale di incarico, valido ed efficace, proveniente ex ante dall’organo competente (per le A.S.L., prima il Comitato di gestione, quindi l’Amministratore straordinario).
La necessità che l’incarico sia stato attribuito dall’organo gestorio competente con una formale deliberazione, dalla quale emerga l’avvenuta verifica dei presupposti ricordati, nonché l’assunzione di tutte le relative responsabilità, definisce il quadro, così come la circostanza che su tale posto non sia stato bandito alcun concorso.
Per completezza, il Collegio ricorda come l’art. 29 del d.P.R. n. 761 costituisse una norma di favore nell’ambito del pubblico impiego, stante che a livello generale l’art. 56 del D.Lgs. n. 29 del 1993, nella stesura antecedente la novella attuata con l’art. 15 del D.Lgs. n. 387 del 1998, non consentiva alcun tipo di remunerazione differenziale (sul punto si veda Cons. Stato, Ad. Plen., 23.03.2006, n. 3, ove, proprio sulla base di tale disposizione, si è definitivamente chiarito che «l’esercizio di fatto di mansioni superiori, da parte del dipendente di pubblica amministrazione, non determina l’insorgenza di alcun diritto, salvo quello alle differenze retributive per il periodo successivo all’entrata in vigore dell’art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998», con ciò negandolo per il periodo precedente).
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A nulla rileva poi, la presunta violazione degli artt. 36 Cost. e 2126 c.c. Quanto all’art. 36 Cost., esso “non può trovare incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico impiego concorrendo, in detto ambito, altri principi di pari rilevanza costituzionale (artt. 97 e 98 Cost.)”.
Come del resto ben chiarito dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato “nell’ambito del pubblico impiego è la qualifica e non le mansioni il parametro al quale la retribuzione è inderogabilmente riferita, considerando anche l’assetto rigido della Pubblica amministrazione sotto il profilo organizzatorio, collegato anch’esso, secondo il paradigma dell’art. 97, ad esigenze primarie di controllo e contenimento della spesa pubblica”.
In assenza, dunque, di una norma speciale che consenta la maggiorazione retributiva, essa non può essere corrisposta.
E laddove la norma speciale sussista, come, per quanto qui di interesse, l’art. 29 del d.P.R. n. 761/1979, occorrerà, ovviamente, verificarne in concreto tutti i presupposti di operatività, anche allo scopo di fornirne costantemente una lettura costituzionalmente orientata, nel senso poc’anzi descritto.
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Quanto all’art. 2126 c.c, esso consente di ritenere spettante la remunerazione per le prestazioni di lavoro, ancorché poste in essere con violazione di legge, e prevede che la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non producano effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa.
L’art. 2126 c.c. ha espressamente esteso anche alle controversie tra privati l'applicazione dei principi di equità che ab antiquo il Consiglio di Stato ha ritenuto applicabili per i casi in cui un’Amministrazione pubblica si sia avvalsa dell'attività lavorativa di un soggetto, sulla base di un titolo (un contratto o un atto di nomina) poi annullato (anche in sede di autotutela), ovvero che non doveva essere annullato proprio perché oramai l'attività lavorativa era già stata integralmente prestata.
L’art. 2126 c.c. contiene principi applicabili anche quando si tratti di rapporti di lavoro, a suo tempo sottoposti ratione temporis, al regime di diritto pubblico. Nel caso di specie non è questione di invalidazione di un atto di inquadramento erroneo e dunque il richiamo alla norma appare del tutto inconferente.
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7.2. Sulla questione del riconoscimento dello svolgimento di mansioni superiori (e del conseguente diritto alla corresponsione delle relative differenze retributive) può considerarsi jus receptum la individuazione di specifiche e definite condizioni alle quali il Legislatore ha inteso subordinare il riconoscimento del  solo- diritto alle differenze retributive in ragione delle mansioni espletate.
In particolare, per il personale amministrativo del comparto sanità, cui si riferisce il caso di specie, l’art. 29, comma secondo, del d.P.R. 20.12.1979, n. 761, consente una variazione stipendiale, in ragione dello svolgimento di mansioni superiori per più di 60 giorni, esclusivamente in presenza di un posto vacante e sulla base di atto formale di incarico, valido ed efficace, proveniente ex ante dall’organo competente (per le A.S.L., prima il Comitato di gestione, quindi l’Amministratore straordinario).
La necessità che l’incarico sia stato attribuito dall’organo gestorio competente con una formale deliberazione, dalla quale emerga l’avvenuta verifica dei presupposti ricordati, nonché l’assunzione di tutte le relative responsabilità, definisce il quadro, così come la circostanza che su tale posto non sia stato bandito alcun concorso (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. III, 04.12.2014, n. 5892; id. 14.03.2014, n. 1277, con numerosi richiami giurisprudenziali ulteriori).
Per completezza, il Collegio ricorda come l’art. 29 del d.P.R. n. 761 costituisse una norma di favore nell’ambito del pubblico impiego, stante che a livello generale l’art. 56 del D.Lgs. n. 29 del 1993, nella stesura antecedente la novella attuata con l’art. 15 del D.Lgs. n. 387 del 1998, non consentiva alcun tipo di remunerazione differenziale (sul punto si veda Cons. Stato, Ad. Plen., 23.03.2006, n. 3, ove, proprio sulla base di tale disposizione, si è definitivamente chiarito che «l’esercizio di fatto di mansioni superiori, da parte del dipendente di pubblica amministrazione, non determina l’insorgenza di alcun diritto, salvo quello alle differenze retributive per il periodo successivo all’entrata in vigore dell’art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998», con ciò negandolo per il periodo precedente).
7.3. A nulla rileva poi, secondo costante giurisprudenza, la presunta violazione degli artt. 36 Cost. e 2126 c.c. Quanto all’art. 36 Cost., esso “non può trovare incondizionata applicazione nel rapporto di pubblico impiego concorrendo, in detto ambito, altri principi di pari rilevanza costituzionale (artt. 97 e 98 Cost.)”.
Come del resto ben chiarito dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato nella decisione n. 22/99 “nell’ambito del pubblico impiego è la qualifica e non le mansioni il parametro al quale la retribuzione è inderogabilmente riferita, considerando anche l’assetto rigido della Pubblica amministrazione sotto il profilo organizzatorio, collegato anch’esso, secondo il paradigma dell’art. 97, ad esigenze primarie di controllo e contenimento della spesa pubblica”.
In assenza, dunque, di una norma speciale che consenta la maggiorazione retributiva, essa non può essere corrisposta. E laddove la norma speciale sussista, come, per quanto qui di interesse, l’art. 29 del d.P.R. n. 761/1979, occorrerà, ovviamente, verificarne in concreto tutti i presupposti di operatività, anche allo scopo di fornirne costantemente una lettura costituzionalmente orientata, nel senso poc’anzi descritto.
7.4. Quanto all’art. 2126 c.c, esso consente di ritenere spettante la remunerazione per le prestazioni di lavoro, ancorché poste in essere con violazione di legge, e prevede che la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non producano effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa.
Come è stato evidenziato da questo Consiglio sin da epoca risalente (Sez. V, 21.10.1995, n. 1462; di recente, si veda anche Sez. III, 27.12.20917, n. 6118), l’art. 2126 c.c. ha espressamente esteso anche alle controversie tra privati l'applicazione dei principi di equità che ab antiquo il Consiglio di Stato ha ritenuto applicabili per i casi in cui un’Amministrazione pubblica si sia avvalsa dell'attività lavorativa di un soggetto, sulla base di un titolo (un contratto o un atto di nomina) poi annullato (anche in sede di autotutela), ovvero che non doveva essere annullato proprio perché oramai l'attività lavorativa era già stata integralmente prestata.
L’art. 2126 c.c. contiene principi applicabili anche quando si tratti di rapporti di lavoro, a suo tempo sottoposti ratione temporis, al regime di diritto pubblico. Nel caso di specie non è questione di invalidazione di un atto di inquadramento erroneo e dunque il richiamo alla norma appare del tutto inconferente (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 20.06.2018 n. 3801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Va ricordato che l'art. 30, co. 2, c.p.a. ha introdotto nell'ordinamento l'azione di condanna al risarcimento del danno ingiusto da illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria, individuando il presupposto alla base dell'azione risarcitoria per danni da attività provvedimentale, nella illegittimità dell'atto e nel mancato esercizio di quella obbligatoria; il successivo comma 3 fa esplicito riferimento all'elemento soggettivo dell'illecito, quale dolo o colpa, per la quantificazione del danno.
Tale previsione era stata acquisita già in via interpretativa nella giurisprudenza anteriore all'entrata in vigore del c.p.a., laddove era evidenziato che la sola illegittimità di un atto della amministrazione, pur non fornendo elementi inconfutabili nel senso della sussistenza di una condotta colposa da parte dell'amministrazione, nondimeno fornisce rilevanti elementi nel senso di una presunzione relativa di colpa per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o, comunque, ad una violazione delle regole dell'agere amministrativo ad essa imposte.
La colpa della pubblica amministrazione viene individuata, dunque, nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell'interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con l'amministrazione.
Viceversa, la responsabilità deve essere negata quando l'indagine conduce al riconoscimento dell'errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto.
Per la configurabilità della colpa dell'Amministrazione, in altri termini, occorre avere riguardo al carattere della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell'elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità.
E, infatti, a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell'Amministrazione potrà essere affermata nei soli casi in cui l'azione amministrativa ha disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell'imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell'errore scusabile.
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2.4. - Quanto all’ulteriore profilo di appello, concernente il momento a decorrere dal quale si può ritenere la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, la sentenza appellata correttamente esclude l’elemento soggettivo nel comportamento regionale, quantomeno fino alla sentenza d’appello del gennaio 2009, perché, come afferma la sentenza di questo Consiglio di Stato, Sez. V, n. 241 del 20.01.2009 (punto 4.1.3) a conclusione della vicenda concernente la legittimità della D.G.R. n. 580/2006 che recepisce l’Accordo integrativo regionale, la norma di cui all’art. 12.2 sul ‘rapporto ottimale “medico/assistiti” era sicuramente di “disagevole lettura”.
L’illegittimità dell’atto, che ha condotto all’annullamento, non fa emergere, dunque, quel profilo di colpevolezza nel comportamento dell’Amministrazione che necessita ai fini della configurazione di responsabilità risarcitoria.
2.4.1. - Per inciso, va ricordato che l'art. 30, co. 2, c.p.a. ha introdotto nell'ordinamento l'azione di condanna al risarcimento del danno ingiusto da illegittimo esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria, individuando il presupposto alla base dell'azione risarcitoria per danni da attività provvedimentale, nella illegittimità dell'atto e nel mancato esercizio di quella obbligatoria; il successivo comma 3 fa esplicito riferimento all'elemento soggettivo dell'illecito, quale dolo o colpa, per la quantificazione del danno.
Tale previsione era stata acquisita già in via interpretativa nella giurisprudenza anteriore all'entrata in vigore del c.p.a., laddove era evidenziato che la sola illegittimità di un atto della amministrazione, pur non fornendo elementi inconfutabili nel senso della sussistenza di una condotta colposa da parte dell'amministrazione, nondimeno fornisce rilevanti elementi nel senso di una presunzione relativa di colpa per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o, comunque, ad una violazione delle regole dell'agere amministrativo ad essa imposte.
La colpa della pubblica amministrazione viene individuata, dunque, nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell'interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con l'amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 30/07/2013, n. 4020).
Viceversa, la responsabilità deve essere negata quando l'indagine conduce al riconoscimento dell'errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (Cons. Stato, Sez. IV, 07.01.2013, n. 23; Sez. V, 31.07.2012, n. 4337).
Per la configurabilità della colpa dell'Amministrazione, in altri termini, occorre avere riguardo al carattere della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell'elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità. E, infatti, a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell'Amministrazione potrà essere affermata nei soli casi in cui l'azione amministrativa ha disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell'imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell'errore scusabile (cfr. ex multis Cons. St., sez. IV, 31.03.2015, n. 1683; 28/07/2015, n. 3707) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 20.06.2018 n. 3798 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Nell’ambito del pubblico impiego il legislatore ha individuato specifiche e definite condizioni alle quali ha inteso subordinare il riconoscimento del diritto alle differenze retributive in ragione delle mansioni espletate.
In particolare, ha consentito una variazione stipendiale in ragione dello svolgimento di mansioni superiori per più di 60 giorni, esclusivamente al ricorrere di tre condizioni, giuridiche e di fatto, operanti in modo concomitante:
   a) le mansioni devono essere svolte su un posto di ruolo, esistente nella pianta organica, e di fatto vacante;
   b) su tale posto non deve essere stato bandito alcun concorso;
   c) l'organo gestorio deve aver attribuito la supplenza con una formale deliberazione, proveniente ex ante dall’organo competente, dopo aver verificato i presupposti indicati in precedenza, assumendosene tutte le responsabilità, anche in ordine ai profili di copertura finanziaria.
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Ai medesimi fini qui considerati non assumono rilevanza, al contrario, i meri ordini di servizio o lo svolgimento di mansioni fondato su una mera scelta organizzativa dell'amministrazione che intenda utilizzare i dipendenti per compiti diversi da quelli propri della qualifica rivestita.
In mancanza dei suddetti presupposti, non è invocabile l'art. 36 Cost., il quale esprime un principio che non trova applicazione diretta nel pubblico impiego, concorrendo in quest'ambito altri e diversi principi di pari rilevanza (artt. 98 e, soprattutto, 97 Cost.) riguardanti l'organizzazione degli uffici pubblici.
Neppure rileva ai fini del caso in esame l’art. 2126 c.c., il quale -pur contenendo principi applicabili anche a rapporti di lavoro a suo tempo sottoposti ratione temporis al regime di diritto pubblico– presuppone una condizione di invalidazione di un atto di inquadramento erroneo che non ricorre nel caso di specie.
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1. Come anche di recente ribadito da questa sezione, nell’ambito del pubblico impiego il legislatore ha individuato specifiche e definite condizioni alle quali ha inteso subordinare il riconoscimento del diritto alle differenze retributive in ragione delle mansioni espletate.
In particolare, per il personale amministrativo del comparto sanità, cui si riferisce il caso di specie, l’art. 29, comma secondo, del d.P.R. 20.12.1979, n. 761, ha consentito una variazione stipendiale in ragione dello svolgimento di mansioni superiori per più di 60 giorni, esclusivamente al ricorrere di tre condizioni, giuridiche e di fatto, operanti in modo concomitante:
   a) le mansioni devono essere svolte su un posto di ruolo, esistente nella pianta organica, e di fatto vacante;
   b) su tale posto non deve essere stato bandito alcun concorso;
   c) l'organo gestorio deve aver attribuito la supplenza con una formale deliberazione, proveniente ex ante dall’organo competente (per le A.S.L., prima il Comitato di gestione, quindi l’Amministratore straordinario), dopo aver verificato i presupposti indicati in precedenza, assumendosene tutte le responsabilità, anche in ordine ai profili di copertura finanziaria (Cons. Stato. sez. III, 20.02.2018, n. 1089; Id., sez. III, 04.12.2014, n. 5892; id. 14.03.2014, n. 1277, con numerosi richiami giurisprudenziali ulteriori).
Ai medesimi fini qui considerati non assumono rilevanza, al contrario, i meri ordini di servizio (cfr., Cons. Stato, sez. V, 18.11.2002, n. 6374) o lo svolgimento di mansioni fondato su una mera scelta organizzativa dell'amministrazione che intenda utilizzare i dipendenti per compiti diversi da quelli propri della qualifica rivestita (Cons. Stato, sez. V, 13.05.2002 n. 2588; 29.05.2000 n. 3085; 14.09.1999, n. 1056).
2. In mancanza dei suddetti presupposti, non è invocabile l'art. 36 Cost., il quale esprime un principio che non trova applicazione diretta nel pubblico impiego, concorrendo in quest'ambito altri e diversi principi di pari rilevanza (artt. 98 e, soprattutto, 97 Cost.) riguardanti l'organizzazione degli uffici pubblici (Cons. Stato, sez. III, 14.03.2014, n. 1277).
Neppure rileva ai fini del caso in esame l’art. 2126 c.c., il quale -pur contenendo principi applicabili anche a rapporti di lavoro a suo tempo sottoposti ratione temporis al regime di diritto pubblico– presuppone una condizione di invalidazione di un atto di inquadramento erroneo che non ricorre nel caso di specie (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 20.06.2018 n. 3706 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla Corte costituzionale l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. che onera l’impresa partecipante alla gara ad impugnare immediatamente le ammissioni delle altre imprese partecipanti alla stessa gara.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione – Impugnazione immediata – Art. 120, comma 2-bis, c.p.a. – Violazione artt. 3, comma 1, 24, commi 1 e 2, 103, comma 1, 111, commi 1 e 2, 113, commi 1 e 2 e 117, comma 1, Cost. e 6 e 13 – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 120, comma 2 bis, primo e secondo periodo, c.p.a., limitatamente all’onere di immediata impugnazione dei provvedimenti di ammissione, nella parte in cui onera l’impresa partecipante alla gara ad impugnare immediatamente le ammissioni delle altre imprese partecipanti alla stessa gara, pena altrimenti l’incorrere nella preclusione di cui al secondo periodo della disposizione, per contrasto con gli artt. 3, comma 1, 24, commi 1 e 2, 103, comma 1, 111, commi 1 e 2, 113, commi 1 e 2 e 117, comma 1, Cost. e 6 e 13 Cedu, recepita con l. 04.08.1955, n. 848 (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che la norma pone in capo al partecipante un onere inutile, economicamente gravoso ed irragionevole -alla stregua del principio di effettività della tutela giurisdizionale desumibile dal combinato disposto degli artt. 24, commi 1 e 2, 103, comma 1 e 113, commi 1 e 2 Cost. e del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, comma 1 Cost.- rispetto all’interesse realmente perseguito (i.e. conseguimento dell’aggiudicazione dell’appalto).
Ha ricordato che in precedenza la stessa sez. III del Tar Bari, con sentenza dell’08.11.2016, n. 1262 non aveva mancato di evidenziare che “… la novella legislativa di cui all’art. 120, comma 2-bis, d.lgs. n. 50 del 2016 confligge con il quadro giurisprudenziale, storicamente consolidatosi, atteso che veicola nell’ordinamento l’onere di immediata impugnazione dell’ammissione di tutti gli operatori economici - quale condizione di ammissibilità della futura impugnazione del provvedimento di aggiudicazione - anche in carenza di un’effettiva lesione od utilità concreta. …”.
Anche il Tar Napoli, sez. IV, 20.12.2016, n. 5852 aveva rilevato che “… La peculiarità del nuovo rito risiede, oltre che nel circoscritto ambito di applicazione -volto a cristallizzare la definitività di una peculiare sub fase delle gare d’appalto creando una struttura bifasica della tutela in subiecta materia- nell’utilizzo dello strumento processuale come veicolo per creare una correlazione del tutto inusuale tra interesse ad agire in giudizio e pretesa sostanziale, sicché, come rilevato anche dai primi commenti alla disciplina in questione, il legislatore avrebbe introdotto una sorta di presunzione legale di lesione, non direttamente correlata alla lesione effettiva e concreta di un bene della vita secondo la dimensione sostanzialistica dell’interesse legittimo ormai invalsa nel nostro ordinamento. …”.
I dubbi in precedenza esposti sono stati di recente evidenziati dall’ordinanza del Tar Piemonte, sez. I n. 88 del 17.01.2018, che ha sollevato la corrispondente questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea al fine di verificare la compatibilità euro-unitaria della norma processuale interna (art. 120, comma 2-bis c.p.a., nella parte in cui contempla l’onere di immediata impugnazione delle ammissioni) con la disciplina europea in materia di diritto di difesa, di giusto processo e di effettività sostanziale della tutela giurisdizionale (i.e. artt. 6 e 13 della CEDU, art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e art. 1 direttiva n. 89/665/CEE).
In detta occasione, sia pure sotto la lente di ingrandimento del confronto della norma processuale nazionale con la disciplina europea, è stato condivisibilmente rimarcato come il disancoramento dell’interesse ad agire rispetto ad una utilità personale, concreta ed attuale dell’impresa partecipante alla gara (costretta a contestare le ammissioni in forza della censurata disposizione), dà vita ad una sorta di tutela giurisdizionale amministrativa/giudizio di diritto “oggettivo” (cfr. punto D della motivazione della citata ordinanza del Tar Piemonte n. 88 del 2018), dove un operatore è obbligato ad impugnare immediatamente le ammissioni di tutti gli altri concorrenti, senza sapere ancora chi potrà essere l’aggiudicatario e, parimenti, senza sapere se lui stesso si collocherà in graduatoria in posizione utile per ottenere e/o contestare l’aggiudicazione dell’appalto.
Si introduce, pertanto, una sorta di giudizio di “diritto oggettivo” che è contrario non solo ai principi europei invocati dal Tar Piemonte, nella citata ordinanza, ma anche ai principi costituzionali di cui agli artt. 24, commi 1 e 2, 103, comma 1 e 113, commi 1 e 2 Cost. (in tema di effettività della tutela giurisdizionale), i quali plasmano il diritto di azione a mo’ di diritto azionabile unicamente dal titolare di un interesse personale, attuale e concreto e che nelle gare d’appalto non può non consistere nel conseguimento della aggiudicazione ovvero al più, quale modalità strumentale al perseguimento del medesimo fine, nella chance derivante dalla rinnovazione della gara.
Ha aggiunto il Tar bari che la necessità, alla stregua della previsione dell’art. 120, comma 2-bis, primo e secondo periodo, c.p.a., di proporre plurimi ricorsi avverso le singole ammissioni si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza desumibile dall’art. 3, comma 1 Cost., con il principio di effettività della tutela giurisdizionale (ex artt. 24, commi 1 e 2, 103, comma 1, 111, commi 1 e 2 e 113, commi 1 e 2 Cost.), con il principio del giusto processo (ex art. 111, comma 1 Cost.) e con il principio della ragionevole durata del processo (ex art. 111, comma 2 Cost.), poiché il meccanismo processuale delineato dal legislatore del 2016 determina inevitabilmente il proliferare di azioni giurisdizionali avverso plurime ammissioni relativamente alla stessa procedura di gara in violazione dei principi di economia processuale e concentrazione (TAR Puglia-Bari, Sez. III, ordinanza 20.06.2018 n. 903 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il fatto che sia trascorso molto tempo dall’abuso non obbliga l’Amministrazione a una motivazione “rinforzata” della ingiunzione di demolizione, e ciò sia perché vengono in questione atti vincolati, i quali non richiedono una valutazione specifica di ragioni di interesse pubblico, e sia perché i manufatti de quibus si trovano entro un’area sottoposta a vincolo e sono privi di autorizzazione paesaggistica.
Il trascorrere del tempo non può incidere cioè sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito edilizio attraverso l'adozione della misura repressiva prescritta, dovendo escludersi che l'ordinanza di demolizione, sebbene adottata dopo un periodo di tempo assai considerevole dalla realizzazione dell’abuso, debba essere motivata anche sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità.
Nel caso di tardiva emanazione del provvedimento di demolizione di un abuso edilizio, la mera inerzia da parte dell’Amministrazione nell’esercizio del relativo potere/dovere non è idonea a far divenire legittimo ciò che è sin dall’origine illegittimo: tale inerzia –di cui non si può certo dolere l’interessato che continua ad utilizzare un bene che non doveva essere realizzato e che deve essere rimosso- non può certamente radicare un affidamento di carattere legittimo in capo al proprietario dell’abuso.
E’ dunque condivisibile l’osservazione del TAR, per la quale non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può di per sé legittimare.
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2.2.7. Con la settima censura, l'appellante deduce l'erroneità della sentenza per avere ritenuto irrilevante e comunque priva di fondamento la doglianza inerente all’affermata insufficienza della motivazione dell'ordine di demolizione, in ragione del considerevole lasso di tempo intercorso dall'abuso; l’ordine di demolizione è stato emesso dal Comune dopo che era stata rilasciata l’autorizzazione allo scarico per quei servizi igienici di cui ora viene chiesta la demolizione.
Il motivo è infondato, dato che il fatto che sia trascorso molto tempo dall’abuso non obbliga l’Amministrazione a una motivazione “rinforzata” della ingiunzione di demolizione, e ciò sia perché vengono in questione atti vincolati, i quali non richiedono una valutazione specifica di ragioni di interesse pubblico, e sia perché i manufatti de quibus si trovano entro un’area sottoposta a vincolo e sono privi di autorizzazione paesaggistica (cfr., amplius, Cons. Stato, Ad. plen. n. 9 del 2017).
Il trascorrere del tempo non può incidere cioè sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito edilizio attraverso l'adozione della misura repressiva prescritta, dovendo escludersi che l'ordinanza di demolizione, sebbene adottata dopo un periodo di tempo assai considerevole dalla realizzazione dell’abuso, debba essere motivata anche sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità.
Nel caso di tardiva emanazione del provvedimento di demolizione di un abuso edilizio, la mera inerzia da parte dell’Amministrazione nell’esercizio del relativo potere/dovere non è idonea a far divenire legittimo ciò che è sin dall’origine illegittimo: tale inerzia –di cui non si può certo dolere l’interessato che continua ad utilizzare un bene che non doveva essere realizzato e che deve essere rimosso- non può certamente radicare un affidamento di carattere legittimo in capo al proprietario dell’abuso (Sez. VI, 02.05.2018, n. 2612; Sez. VI, 26.03.2018, n. 1887).
E’ dunque condivisibile l’osservazione del TAR, per la quale non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può di per sé legittimare.
D’altra parte, nella specie il Comune si è attivato sotto l’aspetto repressivo sin dal 1986, con l’ordinanza n. 8/9/281/109 del 1° agosto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.06.2018 n. 3773 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Già prima dell’introduzione dell’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990 operata con l’art. 7, comma 1, lett. c), della legge 18.06.2009 n. 69, la giurisprudenza amministrativa ammetteva la risarcibilità del danno cagionato dalla violazione dei termini procedimentali (c.d. danno da ritardo) in presenza dell’accertamento dell’illegittimità del silenzio-inadempimento, della conclusione del procedimento con provvedimento favorevole all’interessato, della titolarità in capo a quest’ultimo di interesse pretensivo al conseguimento di un “bene della vita”.
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Elementi strutturali della responsabilità della pubblica amministrazione per i danni derivati al privato dalla ritardata emanazione di un provvedimento favorevole –anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990- sono quelli dettati dal paradigma generale dell’illecito aquiliano di cui all’art. 2043 cod. civ..
Occorre allora verificare la sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito), nonché quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa della p.a.), con la precisazione che la valutazione di questi ultimi non può essere fondata soltanto sul dato oggettivo del procrastinarsi del procedimento amministrativo (pur potendo questo costituire un indice significativo), necessitando della dimostrazione che la p.a. sia incorsa in un comportamento negligente, in contrasto con i canoni di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa ovvero, secondo altra concorrente linea interpretativa, necessitando della dimostrazione dell’insussistenza di un errore scusabile dell’amministrazione che faccia venir meno la presunzione di responsabilità dovuta all’indebito protrarsi del procedimento amministrativo (cfr., tra le altre Cons. Stato, 14.11.2014, n. 5600, che richiama la giurisprudenza formatasi sull’esimente dell’errore scusabile dovuto a contrasti giurisprudenziali, a formulazioni normative incerte, a complessità del fatto, alla sopravvenienza di dichiarazioni di incostituzionalità).
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Va premesso che il giudizio ha ad oggetto la domanda risarcitoria connessa a danno da ritardo, cioè alla mancata tempestiva attribuzione da parte del Comune di provvedimenti di autorizzazione favorevoli per la società, esercente attività di vendita a terzi degli spazi pubblicitari oggetto delle autorizzazioni richieste.
Già prima dell’introduzione dell’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990 operata con l’art. 7, comma 1, lett. c), della legge 18.06.2009 n. 69 (sopravvenuta alla notificazione della citazione da parte della società Pu.Fo. nel giudizio civile, riassunto a seguito della declinatoria della giurisdizione), la giurisprudenza amministrativa ammetteva la risarcibilità del danno cagionato dalla violazione dei termini procedimentali (c.d. danno da ritardo) in presenza dell’accertamento dell’illegittimità del silenzio-inadempimento, della conclusione del procedimento con provvedimento favorevole all’interessato, della titolarità in capo a quest’ultimo di interesse pretensivo al conseguimento di un “bene della vita” (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 15.09.2005, n. 7).
4.1. Nel presente giudizio –contrariamente a quanto presuppone il Comune appellante- non di mero danno c.d. da ritardo si tratta, cioè di danno per il solo inutile decorso dei termini procedimentali, bensì del danno prodotto dal ritardato rilascio di provvedimenti di autorizzazione ai quali la società legittimamente aspirava sin dal momento della presentazione delle relative istanze.
Il rilascio dei provvedimenti favorevoli all’istante, a seguito della conclusione dell’istruttoria da parte del commissario ad acta, ha infatti dimostrato che la società aveva titolo per conseguire le autorizzazioni fin dall’inizio, fatte salve le integrazioni documentali, come si dirà comunque tempestivamente fornite dopo la richiesta dell’Amministrazione.
Ne consegue che non è pertinente la giurisprudenza richiamata dalla difesa del Comune appellante a proposito dell’irrisarcibilità del danno da ritardo c.d. puro, la quale concerne la diversa fattispecie in cui l’interessato deduce il danno prodotto dal mero decorso del tempo. Questa prescinde dalla positiva finalizzazione del procedimento da cui scaturisce (cui è appunto riferita la corrispondente affermazione del precedente n. 1162/2009, citato nell’atto di appello) ed è oggi indennizzabile ai sensi del secondo comma dell’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990 (inserito nel soltanto a far data dall’entrata in vigore dell’art. 28 del d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, nella legge 09.08.2013, n. 98).
Per la definizione del gravame è sufficiente richiamare i ripetuti arresti giurisprudenziali con i quali si è chiarito che elementi strutturali della responsabilità della pubblica amministrazione per i danni derivati al privato dalla ritardata emanazione di un provvedimento favorevole –anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990- sono quelli dettati dal paradigma generale dell’illecito aquiliano di cui all’art. 2043 cod. civ..
Occorre allora verificare la sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito), nonché quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa della p.a.), con la precisazione che la valutazione di questi ultimi non può essere fondata soltanto sul dato oggettivo del procrastinarsi del procedimento amministrativo (pur potendo questo costituire un indice significativo: cfr., tra le altre, Cons. Stato, VI, 10.06.2014, n. 2964, ma anche Cons. Stato, IV, 07.03.2013, n. 1406 citata dall’appellante), necessitando della dimostrazione che la p.a. sia incorsa in un comportamento negligente, in contrasto con i canoni di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa (cfr., tra le altre, Cons. Stato, IV, 04.09.2013, n. 4452; nonché Cons. Stato, V, 09.10.2013, n. 4968, pure citata dall’appellante) ovvero, secondo altra concorrente linea interpretativa, necessitando della dimostrazione dell’insussistenza di un errore scusabile dell’amministrazione che faccia venir meno la presunzione di responsabilità dovuta all’indebito protrarsi del procedimento amministrativo (cfr., tra le altre Cons. Stato, 14.11.2014, n. 5600, che richiama la giurisprudenza formatasi sull’esimente dell’errore scusabile dovuto a contrasti giurisprudenziali, a formulazioni normative incerte, a complessità del fatto, alla sopravvenienza di dichiarazioni di incostituzionalità) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.06.2018 n. 3730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza in materia ha avuto modo in più occasioni di affermare che, in relazione alle sanzioni pecuniarie previste in materia edilizia, sussiste una presunzione di corresponsabilità a carico del “proprietario”, desumibile dal disposto dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981, ma ha, comunque, ragionevolmente riconosciuto che il proprietario debba essere lasciato indenne ove risultino accertate sia l’estraneità dello stesso all’esecuzione delle opere prive di titolo abilitativo, sia la sua pronta attivazione con i mezzi previsti dall’ordinamento per agevolarne la rimozione, nel rispetto dei doveri di diligenza, correttezza e vigilanza nella gestione dei beni immobiliari, di cui ha la titolarità.
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2. Il secondo motivo di ricorso è fondato.
La giurisprudenza in materia ha avuto modo in più occasioni di affermare che, in relazione alle sanzioni pecuniarie previste in materia edilizia, sussiste una presunzione di corresponsabilità a carico del “proprietario”, desumibile dal disposto dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981, ma ha, comunque, ragionevolmente riconosciuto che il proprietario debba essere lasciato indenne ove risultino accertate sia l’estraneità dello stesso all’esecuzione delle opere prive di titolo abilitativo, sia la sua pronta attivazione con i mezzi previsti dall’ordinamento per agevolarne la rimozione, nel rispetto dei doveri di diligenza, correttezza e vigilanza nella gestione dei beni immobiliari, di cui ha la titolarità (cfr., ex multis, C.d.S., sez. VI, 10/07/2017, n. 3391; Sez. VI, 30.03.2015, n. 1650; Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 10/01/2017, n. 378; 30/01/2017, n. 1440).
Ciò detto, non può che prendersi atto che, nel caso in trattazione, sussistono entrambe le su indicate condizioni, così come riconosciuto dal Comune resistente, atteso che la sanzione risulta irrogata nei confronti della ricorrente in qualità di comproprietaria non responsabile e che la stessa ha prodotto documentazione idonea e sufficiente a dimostrare il suo pronto intervento –nei limiti consentiti dall’ordinamento– per indurre o agevolare la rimessa in pristino dello stato dei luoghi.
Per tale ragione, assorbite le altre censure dedotte, il ricorso va accolto e, per l’effetto, annullato l’atto impugnato limitatamente alla parte in cui è destinato alla ricorrente (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 18.06.2018 n. 1381- link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se l’intervento abusivo avviato o ultimato rientra nelle ipotesi di edilizia libera assoggettate alla Comunicazione Inizio Lavori (cd. CIL) o alla Comunicazione Inizio Lavori Asseverata (CILA) esso può essere sanato presentando la suddetta comunicazione unitamente alla ricevuta di pagamento della sanzione, salva naturalmente la regolarizzazione rispetto alle altre normative vincolistiche di settore, quali quella paesaggistica, sismica, idrogeologica, etc.
Tra l’altro l’attuale normativa non prescrive o dispone alcunché in termini temporali, e non pone il rispetto della condizione della doppia conformità come invece è previsto dal T.U.E. agli articoli 36 e 37 per gli abusi e le difformità edilizie che esulano dalle fattispecie dell’edilizia libera.
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1. Con ricorso ritualmente notificato il 17/01/2017 e depositato il 02/02/2017, il sig. Se.Ma. ha impugnato l’ordinanza n. 23 del 18.11.2016, notificatagli in pari data, con la quale il Comune di Altofonte gli ha intimato la demolizione dell’opera edilizia consistente nella “rimozione e sostituzione della saracinesca esterna, demolizione degli stipiti dell’ingresso alla futura autorimessa e realizzazione di n. 2 pilastri (sezione cm. 30x cm. 50) sormontati da una trave (sezione cm. 45 x cm. 50), tutti realizzati in conglomerato cementizio armato, con conseguente variazione delle dimensioni dell’apertura: larghezza m. 2,70 (preesistente m. 2,30), altezza m. 2,90, sito in Via ... nn. 15, 17, 23, al N.C.E.U. del Comune di Altofonte al foglio 500, particella 920, sub 3” ed il ripristino dello stato dei luoghi,poiché tale intervento è stato effettuato in difformità dalla autorizzazione n. 05 del 23.03.2016, nel centro storico, zona “A” del P.R.G., soggetta dal 2004 a vincolo paesaggistico e sismico.
Ne ha chiesto l’annullamento previa sospensione cautelare, deducendone l’illegittimità per i motivi di “Violazione e falsa applicazione in ordine alla L.R. 16 del 10.08.2016; Eccesso di potere, omissione e/o contraddittorietà della motivazione nonché travisamento dei fatti” poiché il Comune intimato, pur riconoscendo che l’intervento edile è riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 3, comma 1, lett. b), del D.P.R. 380/2001 e come tale soggetto a C.I.L.A. (comunicazione inizio lavori asseverata) così come previsto dall’art. 6 del D.P.R. cit., recepito dall’art. 3 della L.R. n. 16 del 10.08.2016, avrebbe applicato immotivatamente la sanzione dell’ingiunzione a demolire e del ripristino dello stato dei luoghi in luogo di quella prevista dal comma 5 dell’art. 3 della L.R. n. 16/2016 cit. che, nell’ipotesi di mancata comunicazione asseverata dell'inizio dei lavori, qual è quella di specie, non prevede la sanzione della demolizione ma commina sola una sanzione pecuniaria di € 1.000,00.
Precisa, inoltre, di avere già provveduto a:
   - depositare, in data 14.12.2016, la richiesta di "CIL in sanatoria" o "Cil per lavori già eseguiti" al fine di sanare l’irregolarità edilizia, pagando la sanzione di 1.000 euro;
   - richiedere, con istanza prot. 3026/P del 12.12.2016, il parere di “Compatibilità Paesaggistica” alla Soprintendenza ai BB.CC.AA. competente;
   - presentare, in data 09.01.2017, all’Ufficio del Genio Civile di Palermo, l’istanza prot. 3123/UO volta a ottenere il N.O. ai sensi dell’art. 21 L. n. 64/1974.
Il Comune di Altofonte, seppure ritualmente intimato, non si è costituito in giudizio.
Con ordinanza collegiale n. 327/2017 è stata accolta la domanda di sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato.
Nelle more del giudizio:
   - la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Palermo, con atto prot. 5084/S15.4 del 24.08.2017, ha accertato la regolarità urbanistica dell’edificio e, posto che l’intervento realizzato non ha comportato un aumento della volumetria e delle superfici utili, ha rilasciato il parere favorevole di compatibilità paesaggistica;
   - il Genio Civile di Palermo, con provvedimento prot. 226342 del 18.11.2017, ha rilasciato il parere di sussistenza ai sensi della L. 02.02.1974, n. 64.
...
2. Il ricorso, quanto alla domanda di annullamento, è fondato.
L’art. 3 della L.R. n. 16 del 10.08.2016, rubricato “Recepimento con modifiche dell'articolo 6 <Attività edilizia libera> del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380”, al comma 5, invero, stabilisce che “La mancata comunicazione dell'inizio dei lavori di cui al comma 2, ovvero la mancata comunicazione asseverata dell'inizio dei lavori di cui al comma 3, comportano la sanzione pecuniaria pari a 1.000 euro. Tale sanzione è ridotta di due terzi se la comunicazione è effettuata spontaneamente quando l'intervento è in corso di esecuzione”.
E’ dunque evidente che se l’intervento abusivo avviato o ultimato, rientra nelle ipotesi di edilizia libera assoggettate alla Comunicazione Inizio Lavori (cd. CIL) o alla Comunicazione Inizio Lavori Asseverata (CILA) esso può essere sanato presentando la suddetta comunicazione unitamente alla ricevuta di pagamento della sanzione, salva naturalmente la regolarizzazione rispetto alle altre normative vincolistiche di settore, quali quella paesaggistica, sismica, idrogeologica, etc.
Tra l’altro l’attuale normativa non prescrive o dispone alcunché in termini temporali, e non pone il rispetto della condizione della doppia conformità come invece è previsto dal T.U.E. agli articoli 36 e 37 per gli abusi e le difformità edilizie che esulano dalle fattispecie dell’edilizia libera.
Poiché l’intervento di che trattasi ha ottenuto i pareri favorevoli delle autorità amministrative poste rispettivamente a tutela del vincolo paesaggistico e di quello sismico ed è stato ricondotto dallo stesso Comune di Altofonte nell’alveo degli interventi di edilizia libera, a fronte dell’avvenuto pagamento della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 3, comma 5 cit. unitamente alla presentazione tardiva della CILA, non poteva esserne disposta la demolizione e il conseguente ripristino dello stato dei luoghi.
Non può essere accolta invece la domanda di risarcimento del danno perché, prescindendo dalla sua inammissibilità perché genericamente formulata, in ogni caso, a seguito della sospensione dell’esecuzione dell’ordine di demolizione in via cautelare, alcun danno può essersi verificato.
Il ricorso pertanto va accolto limitatamente alla domanda impugnatoria e, per l’effetto, va annullato il provvedimento impugnato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 18.06.2018 n. 1380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nonostante non siano configurabili parentesi procedimentali produttive di sospensione del termine stesso, il termine di trenta giorni previsto per l’esercizio del potere preventivo di verifica non può che decorrere dalla completezza della documentazione.
O, per meglio dire, può ben essere qualificato come esercizio di potere inibitorio anche la contestazione della mancata allegazione alla denuncia di tutta la documentazione richiesta dalla legge, con la conseguenza che, a seguito dell’integrazione documentale, deve ritenersi implicitamente presentata una nuova denuncia, la quale dovrà essere valutata dall’Amministrazione nel termine di trenta giorni.
In altre parole, la contestazione, da parte del Comune, dell’incompletezza della documentazione depositata non può che determinare l’inibitoria dell’esercizio dell’attività di cui alla denuncia.
Dunque, è sempre ammissibile un intervento in autotutela sul titolo abilitativo formatosi a seguito della presentazione della denuncia di inizio attività, fondato, in tal caso, sulla non conformità delle opere previste rispetto agli strumenti urbanistici (in tale senso, tra le tante TAR Lazio, II-bis, n. 2785/2018 e TAR Lazio, II-bis, 25.05.2017, n. 6262, in cui si legge che “sebbene la D.I.A. e la s.c.i.a. non abbiano natura di provvedimenti amministrativi taciti, gli effetti di esse possono essere legittimamente rimossi, tardivamente, mediante un potere che condivide con quello di annullamento d’ufficio i termini e le condizioni di esercizio”).

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Il Collegio ritiene di poter condividere l’orientamento giurisprudenziale secondo cui alla denuncia di inizio attività non può trovare applicazione il regime delle misure di salvaguardia rispetto all’adozione di nuove prescrizioni urbanistiche previste per il rilascio del permesso di costruire.
La DIA, infatti, può essere presentata solo nel caso in cui l’intervento sia conforme allo strumento urbanistico, condizione che non può ritenersi integrata nel caso in cui esso risulti precluso da una previsione anche solo adottata e non ancora approvata, come nella fattispecie in esame.
Come chiarito dal CdS, infatti, l’intervento oggetto della DIA deve essere conforme agli strumenti urbanistici approvati, non in contrasto con gli strumenti adottati e conforme ai regolamenti edilizi vigenti.
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La prima censura, connessa alla pretesa tardività del provvedimento inibitorio adottato, deve essere respinta.
In primo luogo va al proposito ricordato che, nonostante non siano configurabili parentesi procedimentali produttive di sospensione del termine stesso (cfr. Consiglio di Stato n. 4828 del 2007), come affermato dal TAR Lazio, Roma, nella sentenza 3506/2013, il termine di trenta giorni previsto per l’esercizio del potere preventivo di verifica non può che decorrere dalla completezza della documentazione. O, per meglio dire, può ben essere qualificato come esercizio di potere inibitorio anche la contestazione della mancata allegazione alla denuncia di tutta la documentazione richiesta dalla legge (cfr. la sentenza del TAR Marche, 30.03.2007, n. 448), con la conseguenza che, a seguito dell’integrazione documentale, deve ritenersi implicitamente presentata una nuova denuncia, la quale dovrà essere valutata dall’Amministrazione nel termine di trenta giorni.
In altre parole, la contestazione, da parte del Comune, dell’incompletezza della documentazione depositata non può che determinare l’inibitoria dell’esercizio dell’attività di cui alla denuncia.
Dunque, fermo restando che è sempre ammissibile un intervento in autotutela sul titolo abilitativo formatosi a seguito della presentazione della denuncia di inizio attività, fondato, in tal caso, sulla non conformità delle opere previste rispetto agli strumenti urbanistici (in tale senso, tra le tante TAR Lazio, II-bis, n. 2785/2018 e TAR Lazio, II-bis, 25.05.2017, n. 6262, in cui si legge che “sebbene la D.I.A. e la s.c.i.a. non abbiano natura di provvedimenti amministrativi taciti, gli effetti di esse possono essere legittimamente rimossi, tardivamente, mediante un potere che condivide con quello di annullamento d’ufficio i termini e le condizioni di esercizio”), nella fattispecie deve ritenersi che il Comune abbia correttamente e tempestivamente contestato al ricorrente la non conformità della DIA, una prima volta per incompletezza della documentazione allegata e poi, a seguito dell’integrazione, inibendo l’esecuzione dei lavori dalla stessa previsti prima del loro inizio.
Il rigetto della prima censura, di natura formale e procedimentale, implica la necessità dell’esame delle ulteriori, prescindendo dall’esame dall’eccezione di inammissibilità dei motivi da 2 a 5 del ricorso, attesa la loro infondatezza.
In primo luogo, il Collegio ritiene di poter condividere l’orientamento giurisprudenziale secondo cui alla denuncia di inizio attività non può trovare applicazione il regime delle misure di salvaguardia rispetto all’adozione di nuove prescrizioni urbanistiche previste per il rilascio del permesso di costruire. La DIA, infatti, può essere presentata solo nel caso in cui l’intervento sia conforme allo strumento urbanistico, condizione che non può ritenersi integrata nel caso in cui esso risulti precluso da una previsione anche solo adottata e non ancora approvata, come nella fattispecie in esame.
Come chiarito nella sentenza del Consiglio di Stato, IV, n. 257/2014, infatti, l’intervento oggetto della DIA deve essere conforme agli strumenti urbanistici approvati, non in contrasto con gli strumenti adottati e conforme ai regolamenti edilizi vigenti (TAR Lomabrdia-Brescia, Sez. II, sentenza 18.06.2018 n. 587 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza della Sezione è ormai stabilmente orientata nel ritenere che i parcheggi privati degli edifici di nuova costruzione sono realizzabili in regime di gratuità limitatamente però alla superficie obbligatoria di essi.
In tal senso è stato chiarito: “Sul punto deve ribadirsi, infatti che la legge n. 122/1989 nell'innovare la disciplina dei parcheggi (anche ex art. 2, comma 2, incrementando la misura minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici -il rapporto di 1mq/20mc stabilito inizialmente dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 nel testo aggiunto dall'art. 18 della legge 06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1mq/10mc- e nello stabilire all'art. 9, comma 1, il principio secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti) all'art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche per quanto riguarda la gratuità del titolo edilizio.
I parcheggi pertinenziali sono stati quindi complessivamente qualificati come opere di urbanizzazione e quindi a tutti (e non già soltanto a quelli previsti per la fruizione collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico: se può concordarsi in proposito con la tesi per cui la gratuità non va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge, atteso che, in carenza di una espressa disposizione di legge in tal senso (e pur nella opinabilità della questione) la interpretazione teleologica consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i confini tracciati dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il "tetto" di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di cui al d.C. più volte citato)".
In conclusione, deve affermarsi che ai sensi del coordinato disposto delle norme di cui alla l. n. 1150/1977, delle disposizioni di modifica di cui alla l. n. 122/1989 e della l. n. 10/1977 (ora art. 17, comma 3, lett. c), TU n. 380 del 2001), i parcheggi obbligatori ad uso privato sono espressamente individuati quali opere di urbanizzazione e sono esenti, come tali, dall'onere di pagamento del contributo di costruzione.
Ne consegue che la pretesa del comune al pagamento di detto contributo può ritenersi legittima solo per quanto riguarda la superficie dei parcheggi effettivamente realizzati eccedente quella minima obbligatoria di legge.

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Per quanto riguarda la questione principale, la giurisprudenza della Sezione è ormai stabilmente orientata nel ritenere che i parcheggi privati degli edifici di nuova costruzione sono realizzabili in regime di gratuità limitatamente però alla superficie obbligatoria di essi.
In tal senso è stato chiarito: “Sul punto deve ribadirsi, infatti che la legge n. 122/1989 nell'innovare la disciplina dei parcheggi (anche ex art. 2, comma 2, incrementando la misura minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici -il rapporto di 1mq/20mc stabilito inizialmente dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 nel testo aggiunto dall'art. 18 della legge 06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1mq/10mc- e nello stabilire all'art. 9, comma 1, il principio secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti) all'art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche per quanto riguarda la gratuità del titolo edilizio.
I parcheggi pertinenziali sono stati quindi complessivamente qualificati come opere di urbanizzazione e quindi a tutti (e non già soltanto a quelli previsti per la fruizione collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico: se può concordarsi in proposito con la tesi per cui la gratuità non va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge, atteso che, in carenza di una espressa disposizione di legge in tal senso (e pur nella opinabilità della questione) la interpretazione teleologica consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i confini tracciati dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il "tetto" di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di cui al d.C. più volte citato)
" (cfr. per tutte IV Sez. n. 6033 del 2012).
In conclusione, deve affermarsi che ai sensi del coordinato disposto delle norme di cui alla l. n. 1150/1977, delle disposizioni di modifica di cui alla l. n. 122/1989 e della l. n. 10/1977 (ora art. 17, comma 3, lett. c), TU n. 380 del 2001), i parcheggi obbligatori ad uso privato sono espressamente individuati quali opere di urbanizzazione e sono esenti, come tali, dall'onere di pagamento del contributo di costruzione.
Ne consegue che la pretesa del comune al pagamento di detto contributo da parte della società può ritenersi legittima solo per quanto riguarda la superficie dei parcheggi effettivamente realizzati eccedente quella minima obbligatoria di legge.
In questi limitati sensi l’appello del comune va accolto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.06.2018 n. 3702 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano di zona si esauriscono nell’ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori .
Tale indirizzo è coerente con quello che distingue -all’interno delle previsioni urbanistiche e successivamente alla scadenza del piano di lottizzazione o in generale attuativo– fra i diversi tipi di prescrizioni, nel senso che <<…sopravvivono, esclusivamente, la destinazione di zona, la destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga all’armonico assetto del territorio, trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la stessa condizionata all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto specifico e puntuale>>.
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15.2. Pure il secondo ordine di censure (il quinto motivo dell’appello del Consorzio e il quarto e il settimo dell’appello del Condominio) non incontra migliore favore.
Il Collegio condivide l’impostazione esegetica che il primo giudice ha reso sul fondamentale arresto cui è pervenuto il Consiglio di Stato (Ad. Plen. 20.07.2012, n. 28), a mente del quale “
Le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano di zona si esauriscono pertanto nell’ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori …”.
Tale indirizzo è coerente con quello che distingue -all’interno delle previsioni urbanistiche e successivamente alla scadenza del piano di lottizzazione o in generale attuativo– fra i diversi tipi di prescrizioni, nel senso che <<…sopravvivono, esclusivamente, la destinazione di zona, la destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga all’armonico assetto del territorio, trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la stessa condizionata all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto specifico e puntuale>> (da ultimo Cons. Stato, sez. IV, n. 3002 del 2018; n. 4036 del 2017; sez. V, n. 6283 del 2013; sez. IV, n. 5199 del 2006) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.06.2018 n. 3672 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Lesione di interessi pretensivi e risarcimento danni.
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Risarcimento danni – Presupposti – Interessi pretensivi - Verifica della sostanziale spettanza del bene della vita – Giudizio prognostico – Necessità.
Per gli interessi pretensivi l’obbligazione risarcitoria affonda le sue radici nella verifica della sostanziale spettanza del bene della vita ed implica un giudizio prognostico in relazione al se, a seguito del corretto agire dell’amministrazione, il bene della vita sarebbe effettivamente o probabilmente (cioè secondo il canone del “più probabile che non”) spettato al titolare dell’interesse; di talché, ove il giudizio si concluda con la valutazione della sua spettanza, certa o probabile, il danno, in presenza degli altri elementi costitutivi dell’illecito, può essere risarcito, rispettivamente, per intero o sotto forma di perdita di chance (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che la pretesa al risarcimento del danno ingiusto derivante dalla lesione dell’interesse legittimo, insomma, si fonda su una lettura dell’art. 2043 c.c. che riferisce il carattere dell’ingiustizia al danno e non alla condotta, di modo che presupposto essenziale della responsabilità non è tanto la condotta colposa, ma l’evento dannoso che ingiustamente lede una situazione soggettiva protetta dall’ordinamento ed affinché la lesione possa considerarsi ingiusta è necessario verificare attraverso un giudizio prognostico se, a seguito del corretto agire dell’amministrazione, il bene della vita sarebbe effettivamente spettato al titolare dell’interesse.
In particolare, per gli interessi pretensivi, occorre stabilire se il pretendente sia titolare di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la conclusione positiva del procedimento, e cioè di una situazione che, secondo la disciplina applicabile era destinata, in base a un criterio di normalità, ad un esito favorevole (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.06.2018 n. 3657 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nelle controversie relative al rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la giurisdizione del giudice ordinario presuppone che la lite si svolga tra privati, l’uno dei quali pretenda la reintegrazione del suo diritto di proprietà, che assume leso dalla costruzione eseguita dall’altro in violazione delle norme legislative o regolamentari in materia edilizia.
In tal caso, il giudice ordinario, cui spetta la giurisdizione, vertendosi in tema di assunta violazione di un diritto soggettivo, può incidentalmente accertare l’eventuale illegittimità della concessione edilizia, al fine di disapplicarla.
Qualora, però, la controversia sia insorta tra il privato e la pubblica amministrazione, per avere il primo impugnato detta concessione al fine di ottenerne l’annullamento nei confronti della seconda, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo.
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1. Il ricorso ha ad oggetto la concessione edilizia rilasciata dal Comune di Realmonte ai controinteressati per la ricostruzione di un immobile preesistente, nella parte in cui consente la realizzazione di quattro balconi, che si affacciano direttamente sulla terrazza del fabbricato del ricorrente, precludendone la sopraelevazione.
Preliminarmente va esaminata l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dai controinteressati, che è infondata.
Invero, le Sezioni Unite della Cassazione affermano, costantemente, che nelle controversie relative al rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la giurisdizione del giudice ordinario presuppone che la lite si svolga tra privati, l’uno dei quali pretenda la reintegrazione del suo diritto di proprietà, che assume leso dalla costruzione eseguita dall’altro in violazione delle norme legislative o regolamentari in materia edilizia. In tal caso, il giudice ordinario, cui spetta la giurisdizione, vertendosi in tema di assunta violazione di un diritto soggettivo, può incidentalmente accertare l’eventuale illegittimità della concessione edilizia, al fine di disapplicarla. Qualora, però, la controversia sia insorta tra il privato e la pubblica amministrazione, per avere il primo impugnato detta concessione al fine di ottenerne l’annullamento nei confronti della seconda, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo (tra le tante la sentenza n. 18571 del 22.09.2016 con richiami a quelle n. 8688 del 04.10.1996, n. 9555 del 01.07.2002 e n. 13673 del 16.06.2014) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 13.06.2018 n. 1350 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come noto, l’art. 905, comma 2, c.c. prescrive che non si possono costruire balconi che permettono di affacciarsi sul fondo del vicino, se non vi è la distanza di un metro e mezzo tra questo fondo e la linea esteriore di dette opere.
L’art. 952, comma 1, dispone, a sua volta, che il proprietario può costituire il diritto di fare e mantenere al disopra del suolo una costruzione a favore di altri, che ne acquista la proprietà.
Nella specie, il Comune ha consentito ai controinteressati di realizzare balconi sulla colonna d’aria soprastante la proprietà e il fabbricato dotato di terrazza del ricorrente in violazione delle distanze minime e in assenza della costituzione del diritto di servitù.
Sicché, il Comune non avrebbe potuto consentire l’apertura dei balconi in contestazione e che, per tale parte, la concessione edilizia rilasciata è illegittima e va annullata.
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1. Il ricorso ha ad oggetto la concessione edilizia rilasciata dal Comune di Realmonte ai controinteressati per la ricostruzione di un immobile preesistente, nella parte in cui consente la realizzazione di quattro balconi, che si affacciano direttamente sulla terrazza del fabbricato del ricorrente, precludendone la sopraelevazione.
...
3. Ciò posto, nel merito, il ricorso è fondato.
Come noto, l’art. 905, comma 2, c.c. prescrive che non si possono costruire balconi che permettono di affacciarsi sul fondo del vicino, se non vi è la distanza di un metro e mezzo tra questo fondo e la linea esteriore di dette opere.
L’art. 952, comma 1, dispone, a sua volta, che il proprietario può costituire il diritto di fare e mantenere al disopra del suolo una costruzione a favore di altri, che ne acquista la proprietà.
Nella specie, il Comune di Realmonte ha consentito ai controinteressati di realizzare balconi sulla colonna d’aria soprastante la proprietà e il fabbricato dotato di terrazza del ricorrente in violazione delle distanze minime e in assenza della costituzione del diritto di servitù.
Come condivisibilmente rilevato nella sentenza della seconda sezione civile della Corte d’appello di Palermo n. 717 del 12.04.2017, che ha confermato sul punto la sentenza della sezione civile del Tribunale di Agrigento n. 1173 del 24.11.2011, anche ad ammettere l’avvenuta costituzione di una servitù di apertura dei balconi da parte del dante causa del ricorrente in favore dei controinteressati, questa si è prescritta.
Pur sposando -in via di ipotesi- la tesi più vantaggiosa per questi ultimi, ovverosia quella della costituzione di tale diritto alla data dell’acquisto dell’immobile, ovverosia il 27.08.1986, erano, infatti, decorsi più di 10 anni al momento del rilascio della concessione, in quanto avvenuto nel 2006.
Ne deriva che il Comune di Realmonte non avrebbe potuto consentire l’apertura dei balconi in contestazione e che, per tale parte, la concessione edilizia n. 17 del 2006 è illegittima e va annullata (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 13.06.2018 n. 1350 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità nel pubblico impiego.
La convocazione al colloquio senza il giusto preavviso rende illegittima la procedura.

Un dirigente pubblico partecipava ad una procedura di mobilità indetta da un Comune emiliano che si concludeva senza che il candidato avesse potuto prendere parte al colloquio orale. In realtà il Comune aveva convocato l’interessato per un determinato giorno ma il dirigente aveva richiesto il differimento del colloquio a cagione della brevità del termine concessogli: istanza che non era stata accolta. Alla conclusione della procedura il candidato in questione proponeva allora ricorso al TAR.
Il collegio emiliano, sezione di Parma, con
sentenza 13.06.2018 n. 160 ha accolto il gravame sussistendo il rilevato vizio di violazione di legge inerente alla omessa convocazione del candidato per il sostenimento della prova orale almeno venti giorni prima della prova stessa.
In particolare, il TAR ha rilevato che la norma che garantisce al candidato un tempo minimo di venti giorni per la “preparazione” del colloquio nelle selezioni pubbliche, vale a dire l’art. 6, comma 3, del D.P.R. n. 487 del 1994 –oltre ad essere direttamente applicabile alla fattispecie in esame, per il rinvio della disciplina di tale fattispecie alle norme sovraordinate, tra cui, appunto, il regolamento dei servizi e degli uffici del Comune che aveva bandito la procedura di mobilità– afferisce ad una garanzia procedimentale che è direttamente funzionale all’interesse del partecipante al corretto e trasparente svolgimento della procedura stessa.
Né è possibile che tale garanzia venga limitata o addirittura cancellata dalle generiche esigenze di celerità provenienti dalla formulazione del bando –o peggio ancora dall’interpretazione dello stesso che ne faccia la Commissione esaminatrice– in quanto i principi di economicità e di trasparenza delle procedure ad evidenza pubblica trovano contemperazione, nei casi dubbi, dalle scelte espressamente effettuate dal legislatore.
Nel caso in esame, pertanto, esistendo la norma generale –così come recepita anche dal regolamento interno del Comune– che, come detto, impone all’Amministrazione di far decorrere almeno venti giorni tra la comunicazione della data del colloquio ed il giorno di svolgimento del colloquio stesso, e in presenza di una formale e giustificata (ma la Sezione si è affrettata a sottolineare che non sarebbe stata in realtà nemmeno necessaria la giustificazione) richiesta di rinvio della prova orale, la Commissione non aveva altra scelta che quella di rispettare il termine regolamentare, da ritenersi prevalente, in quanto espressione di un principio garantito esplicitamente dal legislatore, su ogni diversa disposizione del bando in ordine alla “finestra” temporale di svolgimento della procedura selettiva.
D’altra parte, la data di svolgimento del colloquio orale non era stata specificata nel bando e soltanto la presentazione senza formulazione di riserve del candidato alla data prestabilita per il colloquio stesso avrebbe potuto sanare la ravvisata illegittimità procedurale.
Da tale ragionamento è scaturito allora l’annullamento del provvedimento conclusivo della procedura di mobilità (commento tratto da e link a www.ilquotidianodellapa.it).

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MASSIMA
Con ricorso depositato in data 18.12.2017, Cl.Ma. ha chiesto l'annullamento degli atti con cui il Comune di Fidenza ha concluso negativamente la procedura selettiva di cui in epigrafe, senza consentirgli di presentarsi, per il colloquio orale, in un giorno diverso e successivo, rispetto a quello stabilito all'atto della convocazione.
In particolare, il ricorrente ha dedotto l'illegittimità degli atti impugnati per violazione della disposizione -contenuta sia nel d.P.R. n. 487 del 1994 che nel regolamento degli uffici e dei servizi del Comune di Fidenza- secondo cui deve intercorrere un intervallo temporale di almeno venti giorni tra data di convocazione e data di svolgimento della prova orale.
Si è costituito il Comune convenuto, che ha chiesto il rigetto del ricorso, e la Sezione ha accolto la proposta domanda cautelare. La causa è stata infine discussa e trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 23.05.2018.
Preliminarmente, occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’amministrazione per mancata notificazione del ricorso ad un controinteressato.
Il Comune convenuto sostiene infatti che dagli atti impugnati sarebbe stata evincibile la presenza di un soggetto che aveva interesse diretto e contrario all’annullamento dell’atto con cui la procedura pubblica era stata dichiarata deserta.
Tale soggetto era identificabile, secondo l’amministrazione, in un altro candidato che era stato in precedenza escluso dalla procedura medesima, per avere proposto domanda oltre i termini.
L’eccezione è infondata.
Una volta maturata l’esclusione, il presunto controinteressato era da considerarsi alla stregua di un “quisque de populo”, rispetto alla specifica procedura pubblica. Permaneva, pertanto, soltanto un interesse di fatto a che la procedura stessa potesse andare deserta, al fine di potere poi ripresentare domanda.
Tuttavia, poiché il vizio di legittimità è maturato all’interno della procedura stessa, soltanto i soggetti che ancora potevano trarre dal percorso procedimentale un vantaggio effettivo possedevano un titolo giuridicamente tutelato per eventualmente contrastare l’iniziativa giurisdizionale del ricorrente.
Al momento della conclusione della procedura, peraltro, nessuno, a parte l’unico soggetto ammesso alla stessa, poteva fondatamente contrastarne gli esiti. D’altra parte, anche da un punto di vista formale, l’atto che ha concretizzato la lesione del Ma., rendendola attuale, ovvero l’approvazione dell’esito della procedura selettiva, non conteneva alcuna menzione del presunto controinteressato.

Nel merito, il ricorso è manifestamente fondato, secondo quanto già evidenziato dalla Sezione in fase cautelare.
Sussiste infatti il rilevato vizio di violazione di legge inerente alla omessa convocazione del candidato per il sostenimento della prova orale almeno venti giorni prima della prova stessa. Ne consegue che tutti gli atti successivi –in presenza di una espressa e motivata domanda di rinvio del colloquio orale da parte del Ma.– sono da ritenersi affetti da illegittimità derivata, ivi compreso il nuovo bando per l’assegnazione del posto da dirigente.
In particolare, il Collegio rileva che
la norma che garantisce al candidato un tempo minimo di venti giorni per la “preparazione” del colloquio nelle selezioni pubbliche –oltre ad essere direttamente applicabile alla fattispecie in esame, per il rinvio della disciplina di tale fattispecie alle norme sovraordinate, tra cui, appunto, il regolamento dei servizi e degli uffici del Comune di Fidenza e il d.P.R. n. 487/1994– afferisce ad una garanzia procedimentale che è direttamente funzionale all’interesse del partecipante al corretto e trasparente svolgimento della procedura stessa.
Né è possibile che tale garanzia venga limitata o addirittura cancellata dalle generiche esigenze di celerità provenienti dalla formulazione del bando –o peggio ancora dall’interpretazione dello stesso che ne faccia la Commissione esaminatrice– in quanto i principi di economicità e di trasparenza delle procedure ad evidenza pubblica trovano contemperazione, nei casi dubbi, dalle scelte espressamente effettuate dal legislatore.
Nel caso in esame, pertanto,
esistendo la norma generale –così come recepita anche dal regolamento interno del Comune–, che, come detto, impone all’amministrazione di far decorrere almeno venti giorni tra comunicazione della data del colloquio e giorno di svolgimento del colloquio stesso, e in presenza di una formale e giustificata (ma non sarebbe stata in realtà nemmeno necessaria la giustificazione, per i motivi appena chiariti) richiesta di rinvio della prova orale, la Commissione non aveva altra scelta che quella di rispettare il termine regolamentare, da ritenersi prevalente, in quanto espressione di un principio garantito esplicitamente dal legislatore, su ogni diversa disposizione del bando in ordine alla “finestra” temporale di svolgimento della procedura selettiva.
D’altra parte, la data di svolgimento del colloquio orale non era stata specificata nel bando e soltanto la presentazione senza formulazione di riserve del candidato alla data prestabilita per il colloquio stesso avrebbe potuto sanare, secondo giurisprudenza costante, la ravvisata illegittimità procedurale.
Il provvedimento conclusivo della prima procedura selettiva e l’atto con cui ne è stata indetta un’altra avente lo stesso oggetto devono dunque essere annullati, con conseguente obbligo della Commissione esaminatrice di riconvocare il ricorrente per il sostenimento della prova orale, nel rispetto delle norme procedurali e sostanziali applicabili al caso di specie (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 13.06.2018 n. 160 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Termine di deposito del ricorso avverso il silenzio della P.A. con contestuale azione risarcitoria.
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Processo amministrativo – Silenzio della P.A. – Deposito – Termine – 15 giorni – Contestuale proposizione azione risarcitoria – Irrilevanza ex se.
Il ricorso avverso il silenzio serbato dalla pubblica amministrazione deve essere depositato, a pena di irricevibilità, nel termine dimidiato di 15 giorni ai sensi dell’art. 87 comma 3 c.p.a., ancorché all'azione principale proposta ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a. acceda la domanda di risarcimento dei danni provocati dal silenzio (1).
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   (1) Il Tar ha escluso che il contestuale esperimento della domanda avverso il silenzio e di quella risarcitoria conseguente al contegno inerte della p.a. avrebbe determinato, ex art. 32 c.p.a., la conversione del rito, da speciale ex art. 117 c.p.a. in ordinario, con conseguente inoperatività della dimidiazione dei termini processuali, prevista dall’art. 87, comma 3, c.p.a..
Innanzitutto, in linea generale, la previsione di cui all’art. 32 c.p.a., secondo cui, in presenza di più domande connesse soggette a riti diversi si applica quello ordinario, presuppone comunque che le azioni, ancorché in maniera simultanea, siano state validamente introdotte nel rispetto dei termini decadenziali previsti, per ciascuna di esse, dal codice di rito.
In ogni caso, il meccanismo generale di automatica conversione di cui all’art. 32 c.p.a. non è operativo nel caso di cumulo tra la domanda di cui all’art. 117 c.p.a. e quella risarcitoria.
Ed invero, a differenza di quanto disposto dall’art. 32 c.p.a. citato, il comma 6 dell’art. 117 c.p.a. prevede espressamente che “Se l'azione di risarcimento del danno ai sensi dell'articolo 30, comma 4, è proposta congiuntamente a quella di cui al presente articolo, il giudice può definire con il rito camerale l'azione avverso il silenzio e trattare con il rito ordinario la domanda risarcitoria”.
Tale disposizione attribuisce, quindi, al giudicante la facoltà di decidere separatamente le due azioni, ciascuna con il proprio rito, ovvero disporre che l'intero giudizio venga trattato in udienza pubblica o in camera di consiglio.
La possibilità di una definizione autonoma, piuttosto che cumulativa, della domanda di cui all’art. 117 c.p.a. rispetto a quella risarcitoria, comprova, semmai ve ne fosse bisogno, la piena operatività, in ordine alla prima, della dimidiazione dei termini di cui all’art. 87, comma 3, c.p.a., a prescindere dall’opzione in concreto esercitata dal Tribunale (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 12.06.2018 n. 1177 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Partecipazione a gara pubblica con modello organizzativo articolato in una struttura centrale e in una struttura periferica.
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Contratti della pubblica amministrazione - Gara - Partecipazione di concorrente che si avvale di un modello organizzativo articolato in una struttura centrale e in una struttura periferica - Legittimità.
E’ legittima la partecipazione alla gara di un concorrente che si avvale di un modello organizzativo articolato in una struttura centrale, a sua volta suddivisa in “direzione generale” e “centrale operativa”, e in una struttura periferica; mentre la struttura centrale fa direttamente capo alla concorrente, la struttura periferica viene affidata a società e imprese esterne, dislocate sul territorio di riferimento e deputate alla materiale esecuzione degli interventi su segnalazione della centrale operativa; i rapporti fra la struttura centrale e le strutture periferiche (definite Centri Logistico Operativi –CLO, ovvero Strutture Operative radiomobili– SOR) sono regolati da un contratto atipico di governance, in forza del quale i CLO si obbligano dietro corrispettivo a eseguire le prestazioni oggetto del servizio affidato dal Comune (1).
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   (1) V. Cons. St., sez. V, 23.02.2015, n. 878; id. 25.02.2015, n. 936.
Ha chiarito il Tar che a fronte di modelli organizzativi del tutto analoghi, in forza del contratto atipico di governance i titolari dei Centri Logistici Operativi (CLO) divengono espressione della stessa organizzazione d’impresa che fa capo all’affiliante. Ne risulta una compagine operativa unitaria, non riconducibile al paradigma del subappalto nella misura in cui il terzo esecutore del servizio manca di ogni autonomia e presta la propria attività in modo che questa si innesti nel più ampio contesto dell’organizzazione imprenditoriale dell’affiliante.
Ha aggiunto il Tar che a carico dei titolari dei Centri Logistici Operativi non si registra alcun trasferimento del rischio d’impresa, ovvero degli obblighi nascenti dal contratto stipulato dall’affiliante con la stazione appaltante. Il CLO sono obbligati nei confronti (non del Comune, ma) dell’affiliante a eseguire le prestazioni che formano oggetto (non del servizio affidato in concessione, ma) del contratto di governance, vale a dire i singoli interventi cui siano di volta in volta chiamati nella zona territoriale di competenza; e non perdono il diritto al compenso nelle circostanze in cui questo all’affiliante non dovesse competere, in virtù del contratto di affidamento stipulato con il Comune.
La circostanza che la struttura organizzativa della concorrente si fondi sul ricorso a rapporti contrattuali atipici, piuttosto che a rapporti di lavoro subordinato, è di per sé irrilevante, una volta che il Comune ha potuto valutare e apprezzare l’idoneità del contratto di governance ad assicurare in capo all’impresa concorrente la direzione e il controllo degli operatori addetti alla materiale esecuzione del servizio.
Questi ultimi, inseriti nell’organizzazione d’impresa della concorrente, rinunciano a ogni autonomia e nei rapporti con il Comune non possono considerarsi terzi rispetto all’affiliante, che resta l’unica responsabile dell’esecuzione del servizio. Per questa ragione deve escludersi un onere di previa indicazione nominativa dei CLO, così come in termini generali non è richiesta la previa conoscenza nominativa dei dipendenti dell’appaltatore o del concessionario, e dei suoi collaboratori (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 12.06.2018 n. 840 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: E' nullo il contratto del Comune che subordina la spesa all'accertamento dell'entrata.
Qualsiasi spesa degli enti comunali deve essere assistita da un conforme provvedimento dell'organo munito di potere deliberativo e da uno specifico impegno contabile registrato nel competente bilancio di previsione, costituendosi, in mancanza, il rapporto obbligatorio direttamente con l'amministratore o funzionario che abbia assunto l'impegno.
La giurisprudenza di questa Corte è costante nel ribadire tale principio, che non subisce deroghe neppure nel caso in cui in un contratto d'opera professionale si stabilisca che il pagamento del compenso al professionista incaricato della progettazione di un'opera pubblica venga subordinato alla concessione di un finanziamento.

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1.2 Col secondo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 35 D.Lgs. n. 77/1995 e 191 del vigente D.Lgs. n. 267/2000 (T.U. Enti locali), nonché motivazione apparente e/o insufficiente circa un punto decisivo della controversia: secondo il Comune di Lizzano l'interpretazione del contratto nel senso indicato dai giudici di merito (previsione di un compenso ancorato al semplice accertamento e non anche alla riscossione del tributo) comporterebbe la inefficacia nei confronti dell'ente essendo la delibera autorizzativa del contratto priva di impegno di spesa e copertura finanziaria. Richiama la normativa di riferimento e la giurisprudenza di legittimità.
1.3 Col terzo motivo il Comune denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 345 cpc: riagganciandosi alla censura sollevata nel precedente motivo, rileva il ricorrente che la deduzione dell'esistenza di un contratto autorizzato con deliberazione priva di impegno di spesa e attestazione di copertura finanziaria costituiva un motivo di impugnazione contenente una eccezione rilevabile anche di ufficio e in appello, essendo finalizzata al rilievo della nullità del contratto, perché la validità del contratto si pone come elemento costitutivo della domanda, che il giudice è tenuto a verificare.
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2. Ritiene il Collegio che per evidenti ragioni di priorità logica l'esame debba partire dal secondo e terzo motivo di ricorso, che pongono il problema della validità del conferimento di incarico professionale in caso di mancata indicazione della spesa e dei mezzi economici per farvi fronte.
Queste due censure, che ben si prestano a trattazione unitaria, sono fondate.
L'art. 23, terzo comma, del d.l. 03.03.1989, n. 66 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24.04.1989, n. 144), dispone che
qualsiasi spesa degli enti comunali deve essere assistita da un conforme provvedimento dell'organo munito di potere deliberativo e da uno specifico impegno contabile registrato nel competente bilancio di previsione, costituendosi, in mancanza, il rapporto obbligatorio direttamente con l'amministratore o funzionario che abbia assunto l'impegno.
La giurisprudenza di questa Corte è costante nel ribadire tale principio, che non subisce deroghe neppure nel caso in cui in un contratto d'opera professionale si stabilisca che il pagamento del compenso al professionista incaricato della progettazione di un'opera pubblica venga subordinato alla concessione di un finanziamento
(v. tra le varie, Sez. U, Sentenza n. 26657 del 18/12/2014 Rv. 634114).
Nel caso in esame, la Corte territoriale ha applicato il principio del divieto dei nova in appello di cui all'art. 345 cpc, senza dapprima porsi il problema del rilievo ufficioso della violazione di norme imperative rappresentata dalla conclusione di un contratto fondato su una delibera nulla per mancanza di un impegno di spesa da parte dell'ente (sulla nullità delle delibere di conferimento di incarichi in assegna di copertura finanziaria, v. tra le tante, Sez. 3, Ordinanza n. 17056 del 11/07/2017 Rv. 644963; Sez. 1, Sentenza n. 17469 del 17/07/2013 Rv. 627394; Sez. 1, Sentenza n. 18144 del 02/07/2008 Rv. 604249; e sulla rilevabilità di ufficio, anche in appello, delle nullità derivanti dalla violazione di norme imperative, v. Sez. 2, Sentenza n. 10609 del 28/04/2017 Rv. 643890; Sez. U Sentenza n. 7294 del 22/03/2017 Rv. 643337): l'errore di diritto in cui è incorsa la Corte d'Appello è evidente, e determina inevitabilmente la cassazione della sentenza con conseguente assorbimento dei restanti motivi.
Il giudice di rinvio, che si individua in altra sezione della Corte d'Appello di Lecce, si atterrà ai citati principi e valuterà l'eccezione di nullità del contratto, provvedendo all'esito anche sulle spese del presente giudizio (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 11.06.2018 n. 15050).

APPALTI: Alla Corte di giustizia UE le previsioni del d.lgs. n. 163 del 2006 su quota subappaltabile e ribasso su prezzi del subappaltatore.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato rimette alla Corte di giustizia UE la questione della compatibilità europea della disciplina del d.lgs. n. 163 del 2006 che fissa il limite del trenta per cento dell’importo complessivo del contratto per il ricorso al subappalto e stabilisce il ribasso del prezzo non superiore al venti per cento per le prestazioni affidate in subappalto.
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Contratti pubblici – Subappalto – Limiti alla quota subappaltabile e alla riduzione di prezzo praticabile al subappaltatore – Disciplina nazionale – Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE
Va rimessa alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), gli artt. 25 della Direttiva 2004/18 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31.03.2004 e 71 della Direttiva 2014/24 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26.02.2014, che non contemplano limitazioni per quanto concerne la quota subappaltatrice ed il ribasso da applicare ai subappaltatori, nonché il principio eurounitario di proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’art. 118, commi 2 e 4, del decreto legislativo 12.04.2006 n. 163, secondo la quale il subappalto non può superare la quota del trenta per cento dell’importo complessivo del contratto e l’affidatario deve praticare, per le prestazioni affidate in subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione, con un ribasso non superiore al venti per cento (1).
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   (1) I. – Con l’ordinanza in epigrafe, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato -chiamata a giudicare la legittimità della verifica di anomalia di una offerta nella quale il forte ribasso operato dall’impresa aggiudicataria risultava correlato al massiccio ricorso al subappalto (oltre il 30 per cento dell'importo contrattuale) e al riconoscimento alle imprese subappaltatrici di compenso significativamente più basso rispetto a quello di aggiudicazione (oltre il 20 per cento)- ha rimesso alla Corte di giustizia del Lussemburgo il giudizio sulla conformità ai parametri europei della disciplina nazionale applicabile ratione temporis alla controversia (art. 118 del d.lgs. n. 163 del 2006), nella parte in cui pone limiti alla quota di contratto subappaltabile e alla riduzione dei prezzi praticabile nei confronti del subappaltatore.
La Sesta Sezione pone subito in evidenza come analoga questione pregiudiziale sia stata sollevata dal Tar per la Lombardia–Milano, sezione I, con ordinanza 19.01.2018, n. 148 (oggetto della News US in data 06.02.2018, cui si rinvia per ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza), rispetto alla quale l’ordinanza in rassegna presenta due profili differenziali:
   – il primo, di carattere formale (attesa l’identità del contenuto delle due norme) attiene alla disposizione interna rimessa al vaglio della Corte di Lussemburgo (nel senso che il Tar per la Lombardia ha sollevato una questione pregiudiziale relativamente alla vigente disciplina di cui all’art. 105 del d.lgs. n. 50 del 2016, mentre la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha proceduto relativamente alla disposizione previgente applicabile ratione temporis);
   – il secondo profilo differenziale concerne l’ambito oggettivo della questione sollevata, giacché l’ordinanza in rassegna, oltre alla questione della quota di prestazione subappaltabile, rimette anche la questione dell’ulteriore limite al ribasso di prezzo praticabile nei confronti del subappaltatore (disposizione presente oltre che nel d.lgs. n. 163 del 2006 anche nel d.lgs. n. 50 del 2016, ma non tenuta in considerazione dal Tar per la Lombardia).
   II. – La questione è sorta nell’ambito di un contenzioso che può essere sintetizzato nei termini che seguono:
      – l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” ha indetto una procedura aperta per “l’affidamento del servizio di pulizia da espletarsi nei locali in uso dell’Università degli Studi di Roma La Sapienza presso la città Universitaria e le sedi esterne”, da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per la durata di 5 anni e per un valore presunto posto a base di gara di Euro 46.300.968,40, al netto dell’IVA;
      – espletata la procedura di gara e disposta l’aggiudicazione definitiva, il costituendo RTI secondo graduato ha impugnato l’esito della procedura stessa censurando, tra l’altro, la circostanza che in virtù di quanto rappresentato nei giustificativi forniti per la verifica dell’anomalia, l’offerta aggiudicataria è risultata essere incentrata sull’affidamento dei servizi di pulizia oggetto dell’appalto a cooperative sociali di tipo B (estranee al RTI), per una quota superiore al 30% dell’importo complessivo della commessa, con un ribasso sulle prestazioni affidate superiore al 20%, ciò in violazione dell’art. 118, comma 2 e comma 4, del d.lgs. 163 del 2006, circostanza che oltre a rappresentare una violazione di norma imperativa, rende non credibile ed irrealizzabile l’offerta presentata;
      – il Tar per il Lazio–Roma, sez. III, con sentenza n. 12511 del 2017, ha accolto il ricorso della seconda classificata in primo luogo per l’assenza di una attendibile disamina in concreto relativa alle caratteristiche che avrebbe avuto il massiccio ricorso, mediante subappalto, alle cooperative sociali di tipo B, il quale costituisce elemento imprescindibile dell’offerta aggiudicataria che le ha permesso di giustificare l’elevato ribasso che è riuscita ad offrire; in secondo luogo per la riconosciuta violazione dell’art. 118, quarto comma, del d.lgs. n. 163/2006, in quanto le prestazioni lavorative affidate in subappalto vengono retribuite con corrispettivi ribassati di oltre il venti per cento (29,9%) rispetto a quelli praticati dal medesimo RTI nei confronti dei propri dipendenti diretti;
      – la sentenza del Tar per il Lazio è stata impugnata, con appello principale, da parte dell’aggiudicataria, che ne ha contestato le conclusioni, e con appello incidentale dal raggruppamento secondo classificato, che ha riproposto le censure non accolte in primo grado nonché la dedotta violazione del secondo comma dell’art. 118 d.lgs. n. 163 del 2006, a fronte della rilevata inaffidabilità ed irrealizzabilità dell’offerta aggiudicataria perché fondata sull’affidamento in subappalto a cooperative sociali di tipo B ben oltre la quota del 30% del valore dell’appalto.
Nel decidere sui richiamati appelli la Sesta Sezione del Consiglio di Stato evidenzia come “a fronte della statuizione di cui alla sentenza impugnata nonché dei conseguenti motivi di appello, la norma di cui all’art. 118 d.lgs. 163/2006 diventa rilevante e decisiva ai fini della risoluzione della controversia in esame, sia con riferimento al limite del trenta per cento dettato dal comma secondo, sia relativamente al limite del venti per cento di cui al comma quarto. Infatti, oggetto della controversia è l’ammissibilità e sostenibilità dell’offerta, risultata aggiudicataria, il cui forte ribasso –che ha consentito l’aggiudicazione– è stato ottenuto attraverso un meccanismo che ha comportato la previsione di affidamento in subappalto di una parte delle attività da svolgere superiore al limite del 30 %, con riconoscimento in favore delle imprese subappaltatrici di un compenso inferiore di oltre il 20% rispetto a quanto praticato in favore dei propri dipendenti in base all’offerta”.
Con l’ordinanza in rassegna, premesso il puntuale esame della normativa nazionale applicabile e del diritto dell’Unione europea, la Sezione giunge alla conclusione che “a fronte del non coincidente tenore delle disposizioni nazionali in materia di subappalto e il diritto dell’Unione europea, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, impone al Collegio, quale giudice di ultima istanza, di disporre il rinvio pregiudiziale dell’art. 118, commi 2 e 4, del previgente codice dei contratti pubblici, rispetto ai principi e alle regole ricavabili dagli articoli 49 e 56 TFUE nonché dalla direttiva 2004/18”.
   III. – Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea è fondato sul seguente percorso argomentativo:
      a) le disposizioni nazionali rilevanti nel caso di specie sono contenute nell’art. 118 del d.lgs. n. 163 del 2006, che al comma secondo prevede che la quota subappaltabile non può essere superiore al 30 per cento dell’importo complessivo del contratto, mentre al comma quarto stabilisce che l'affidatario deve praticare, per le prestazioni affidate in subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti dall'aggiudicazione, con ribasso non superiore al venti per cento;
      b) le suddette limitazioni quantitative al subappalto sono state introdotte per la prima volta nell’ordinamento dall’art. 18 della legge 19.03.1990, n. 55 e sono poi confluite nelle varie leggi che si sono succedute in materia di appalti pubblici (art. 34 legge n. 109 del 1994, art. 118 d.lgs. n. 163 del 2005 e art. 105 d.lgs. n. 50 del 2016); si tratta di disciplina di particolare rigore che trova origine nella consapevolezza che il subappalto, soprattutto laddove resti confinato alla fase esecutiva dell’appalto e sfugga a ogni controllo amministrativo, può ben prestarsi ad essere utilizzato fraudolentemente, per eludere le regole di gara e acquisire commesse pubbliche indebitamente, nell’ambito di contesti criminali;
      c) nel diritto dell’Unione Europea le previsioni espresse in materia di subappalto sono contenute nell’art. 71 della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.02.2014 sugli appalti pubblici, che non contempla alcun limite quantitativo al subappalto, e nella previgente analoga disciplina dell’art. 25 della direttiva 2004/18; ma risultano rilevanti, in termini più generali, anche gli artt. 49 e 56 del TFUE sulla libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione europea;
      d) in materia di limiti al subappalto la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è già pronunciata, con riferimento alle previgenti direttive 2004/17 e 2004/18, sia con la sentenza del 05.04.2017 della Quinta sezione, causa C-298/15, Borta UAB –secondo la quale gli articoli 49 e 56 TFUE devono essere interpretati nel senso che ostano a una disposizione di una normativa nazionale che prevede che, in caso di ricorso a subappaltatori per l’esecuzione di un appalto di lavori, l’aggiudicatario è tenuto a realizzare esso stesso l’opera principale, definita come tale dall’ente aggiudicatore– sia con la sentenza del 14.07.2016 della Terza sezione, C-406/14, Wroclaw, ove la Corte di Giustizia ha dichiarato che la direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, deve essere interpretata nel senso che un’amministrazione aggiudicatrice non è autorizzata ad imporre, mediante una clausola del capitolato d’oneri di un appalto pubblico di lavori, che il futuro aggiudicatario esegua una determinata percentuale dei lavori oggetto di detto appalto avvalendosi di risorse proprie;
      e) il non coincidente tenore delle disposizioni nazionali in materia di subappalto e del diritto dell’Unione europea, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, impone al Collegio, quale giudice di ultima istanza, di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE dell’art. 118 commi 2 e 4 del previgente codice dei contratti pubblici, rispetto ai principi e alle regole ricavabili dagli articoli 49 e 56 TFUE nonché dalla direttiva 2004/18;
      f) la previsione dei limiti generali dettati dai due commi dell’art. 118 in questione (contenenti rispettivamente un limite generale del 30 per cento per il subappalto, con riferimento all’importo complessivo del contratto, nonché un limite del 20% al ribasso da applicare ai subappaltatori), può rendere più difficoltoso l’accesso delle imprese, in particolar modo di quelle di piccole e medie dimensioni, agli appalti pubblici, così ostacolando l’esercizio della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi e precludendo, peraltro, agli stessi acquirenti pubblici l’opportunità di ricevere offerte più numerose e diversificate;
      g) il limite del 30 per cento, non previsto dalla direttiva 2004/18, impone una restrizione alla facoltà di ricorrere al subappalto per una parte del contratto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, e ciò a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità di eventuali subappaltatori e senza menzione alcuna del carattere essenziale degli incarichi di cui si tratterebbe, in contrasto con gli obiettivi di apertura alla concorrenza e di favore per l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici;
      h) in termini di completezza occorre ricordare come in sede consultiva il Consiglio di Stato abbia evidenziato le ragioni della disciplina limitativa del subappalto:
         h1) nel parere n. 855/2016 reso sul progetto di nuovo codice dei contratti pubblici, l’organo consultivo ha osservato che il legislatore nazionale potrebbe porre, in tema di subappalto, limiti di maggior rigore rispetto alle direttive europee, che non costituirebbero un ingiustificato goldplating, in quanto basati su pregnanti ragioni di ordine pubblico, di tutela della trasparenza e del mercato del lavoro, ciò nella misura in cui non si traduca in un ostacolo ingiustificato alla concorrenza e a salvaguardia di interessi e valori costituzionali, ovvero enunciati nell’art. 36 del TFUE;
         h2) nel successivo parere n. 782/2017, reso sul progetto di decreto correttivo al codice, l’organo consultivo, dopo aver dato atto della giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo cui il diritto europeo non consente agli Stati membri di porre limiti quantitativi al subappalto, e chiarito che tale giurisprudenza eurounitaria si è formata in relazione alla previgente direttiva 2004/18, si è espresso nel senso che la nuova direttiva 2014/24 consente agli Stati membri di dettare una più restrittiva disciplina del subappalto, rispetto alla maggiore libertà del subappalto nella previgente direttiva, ciò perché include nella disciplina del subappalto finalità che finora erano state specifiche della legislazione italiana, ossia una maggiore trasparenza e la tutela giuslavoristica oltre che la tutela delle micro piccole e medie imprese; ciò può indurre alla ragionevole interpretazione che le limitazioni quantitative al subappalto, previste dal legislatore nazionale, non sono in frontale contrasto con il diritto europeo, potendo essere giustificate, da un lato alla luce dei principi di sostenibilità sociale che sono alla base delle stesse direttive, e dall’altro lato alla luce di quei valori superiori, declinati dall’art. 36 TFUE, che possono fondare restrizioni della libera concorrenza e del mercato, tra cui, espressamente, l’ordine e la sicurezza pubblici;
      i) oltre a quanto evidenziato in sede consultiva, sussistono ulteriori motivi posti a fondamento dell’introduzione delle soglie in questione:
         i1) per un verso, relativamente all’eliminazione del limite del 20% per il possibile ribasso rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione, emerge il rischio del dare vita a forme occulte di dumping salariale, da cui potrebbe scaturire un effetto anticoncorrenziale;
         i2) per un altro verso, relativamente all’eliminazione del limite del 30% per la parte di servizi subappaltabili, emerge la possibilità di avere aggiudicazioni dove l’adempimento è posto a rischio per la conseguente difficoltà di valutare la sostenibilità -e quindi la non anomalia– dell’offerta; come avvenuto nel caso di specie;
      j) in tale contesto è possibile inquadrare la ratio sottesa ai limiti in esame sulla scorta della generale indicazione contenuta nella stessa giurisprudenza europea sopra richiamata, secondo cui una restrizione alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi “può essere giustificata qualora essa persegua un obiettivo legittimo di interesse pubblico e purché rispetti il principio di proporzionalità, vale a dire, sia idonea a garantire la realizzazione di tale obiettivo e non vada oltre quanto è necessario a tal fine” (sentenza del 05.04.2017, causa C-298/15, cit.).
   IV. – Si segnala per completezza quanto segue:
      k) sul subappalto in generale:
         k1) con riferimento alla disciplina di cui all’art. 118 d.lgs. n. 163 del 2006 si vedano: N. CENTOFANTI, M. FAVAGROSSA e P. CENTOFANTI, Il subappalto, Padova, 2012; A. GUARNIERI, D. TESSERA, commento all’art. 118, in Commentario al codice dei contratti pubblici, a cura di G. F. FERRARI, G. MORBIDELLI, Milano, 2013; A. DI RUZZA, C. LINDA, commento all’art. 118, in Codice dell'appalto pubblico, a cura di S. BACCARINI, G. CHINÈ, R. PROIETTI, Milano, 2015, 1366 ss.; D. GALLI e C. GUCCIONE, Contratti pubblici: «avvalimento» e subappalto in Giornale dir. amm., 2015, 127; C. SADILE, Il subappalto dei lavori pubblici, Milano, 2014;
         k2) con riferimento alla disciplina di cui all’art. 105 d.lgs. n. 50 del 2016 si vedano: MANCINI G., Brevi note sui limiti di ammissibilità del subappalto ai sensi dell'art. 105 del nuovo codice degli appalti in Riv. trim. appalti, 2016, 711; M. GENTILE, Il subappalto nel «nuovo» codice: aumentano limiti, vincoli e dubbi applicativi in Appalti & Contratti, 2016, fasc. 6, 43; R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1488 ss.;
         k3) con riferimento alla disciplina successiva al correttivo al Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 56 del 2017) si vedano: GENTILE M., Il correttivo allarga <con moderazione> le maglie del subappalto in Appalti & Contratti, 2017, fasc. 7, 15; G. BALOCCO, La riforma del subappalto e principio di concorrenza in Urbanistica e appalti, 2017, 621; G.A. GIUFFRE’, Le novità in tema di subappalto in Il correttivo al Codice dei contratti pubblici, a cura di M.A. SANDULLI, M. LIPARI, F. CARDARELLI, Milano, 2017, p. 331;
      l) sulla compatibilità con il diritto europeo dei limiti al subappalto posti dalla legislazione italiana:
         l1) in dottrina spunti specifici sul tema sono offerti da M. MARTINELLI, La capacità economica e finanziaria, in Il nuovo diritto degli appalti pubblici a cura di R. GAROFOLI, M.A. SANDULLI, Milano, 2005, 633 (ove si evidenzia che “la giurisprudenza comunitaria appare orientata a riconoscere la possibilità di ricorrere al subappalto oltre i limiti eventualmente stabiliti dalla normativa interna, allorché i requisiti di capacità del terzo subappaltatore siano stati valutati in corso di gara dall’amministrazione aggiudicatrice…in tal caso, infatti, vi sono tutte le garanzie che l’appalto venga effettivamente eseguito da soggetti dotati di adeguata qualificazione”), M. E. COMBA, L'esecuzione delle opere pubbliche - Con cenni di diritto comparato, Torino, 2011, 61 ss., R. CARANTA, I contratti pubblici, Torino, 2012, 364, che, evidenziati i limiti al subappalto della legislazione italiana, stigmatizza che “si tratta di limiti tout court in contrasto con il diritto europeo”;
         l2) come risulta anche dall’ordinanza in rassegna il tema è anche affrontato nell’ambito dei menzionati pareri resi dal Consiglio di Stato sul nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016) e sul Correttivo allo stesso (d.lgs. n. 56 del 2017): nel parere n. 855/2016 il Consiglio di Stato aveva osservato, in relazione all’art. 105, che il legislatore nazionale potrebbe porre, in tema di subappalto, limiti di maggior rigore rispetto alle direttive europee, che non costituirebbero un ingiustificato goldplating, ma sarebbero giustificati da pregnanti ragioni di ordine pubblico, di tutela della trasparenza e del mercato del lavoro; nel parere n. 782 del 2017 il Consiglio di Stato, pur partendo dalla premessa che “questo Consesso non ignora la giurisprudenza della C. giust. UE, e, segnatamente, da ultimo, la decisione C. giust. UE, III, 14.07.2016 C-406/14 (ma v. anche C. giust. UE, 10.10.2013 C-94/12; Id., 18.03.2004 C-314/01), secondo cui il diritto europeo non consente agli Stati membri di porre limiti quantitativi al subappalto”, afferma che “tuttavia, tale giurisprudenza eurounitaria si è appunto formata in relazione alla previgente direttiva 2004/18” e conclude nel senso che “la complessiva disciplina delle nuove direttive, più attente, in tema di subappalto, ai temi della trasparenza e della tutela del lavoro, in una con l’ulteriore obiettivo, complessivamente perseguito dalle direttive, della tutela delle micro, piccole e medie imprese, può indurre alla ragionevole interpretazione che le limitazioni quantitative al subappalto, previste da legislatore nazionale, non sono in frontale contrasto con il diritto europeo”;
         l3) quanto alla giurisprudenza europea si ricordano i seguenti pronunciamenti:
            - Corte giustizia dell’UE sez. V, 05.04.2017, C-298/2015, Borta UAB, secondo cui “per gli appalti pubblici di rilievo transfrontaliero, anche se sotto la soglia di applicazione delle direttive europee, è interesse dell'Unione che l'apertura della procedura alla concorrenza sia la più ampia possibile, e il ricorso al subappalto, che può favorire l'accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, contribuisce al perseguimento di tale obiettivo. Pertanto, una disposizione nazionale, che preveda che in caso di ricorso a subappaltatori per eseguire un appalto pubblico di lavori, l'aggiudicatario sia tenuto a realizzare l'opera principale, come descritta dall'amministrazione aggiudicatrice, costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi”;
            - Corte di giustizia dell’UE, sez. IV, 27.10.2016, C-292/15, GmbH (oggetto della News US in data 08.11.2016), secondo la quale “l’articolo 5, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 1370/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23.10.2007, relativo ai servizi pubblici di trasporto di passeggeri su strada e per ferrovia, deve essere interpretato nel senso che, nel corso di una procedura di aggiudicazione di un appalto di servizio pubblico di trasporto di passeggeri con autobus, l’articolo 4, paragrafo 7, di tale regolamento -che prevede la limitazione del ricorso al subappalto (commisurata in funzione dei chilometri tabellari)– deve ritenersi applicabile a tale appalto. L’articolo 4, paragrafo 7, del regolamento n. 1370/2007, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che l’amministrazione aggiudicatrice stabilisca nella misura del 70% la quota di fornitura diretta da parte dell’operatore a cui è affidata la gestione e la prestazione di un servizio pubblico di trasporto di passeggeri con autobus, come quello oggetto del procedimento principale”;
            - Corte di giustizia dell’UE, sez. III, 14.07.2016, C-406/14, Wroclaw, in Foro it., 2016, IV, 389, secondo cui “la direttiva 2004/18/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, come modificata dal regolamento (Ce) 2083/2005 della commissione, del 19.12.2005, deve essere interpretata nel senso che un’amministrazione aggiudicatrice non è autorizzata ad imporre, mediante una clausola del capitolato d’oneri di un appalto pubblico di lavori, che il futuro aggiudicatario esegua una determinata percentuale dei lavori oggetto di detto appalto avvalendosi di risorse proprie”;
            - Corte di giustizia dell’UE, sez. X, 22.10.2015, nella causa 425/2014, Edilux–Sicef -in Appalti & Contratti, 2015, fasc. 12, 90 (m), con nota di CANAPARO, Riv. corte conti, 2015, fasc. 5, 381, Giur. it., 2016, 1459 (m), con nota di CRAVERO, Giornale dir. amm., 2016, 318 (m), con nota di VINTI– secondo cui “le norme fondamentali e i principi generali del Tfue, segnatamente i principi di parità di trattamento e di non discriminazione nonché l'obbligo di trasparenza che ne deriva, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una disposizione di diritto nazionale in forza della quale un'amministrazione aggiudicatrice possa prevedere che un candidato o un offerente sia escluso automaticamente da una procedura di gara relativa a un appalto pubblico per non aver depositato, unitamente alla sua offerta, un'accettazione scritta degli impegni e delle dichiarazioni contenuti in un protocollo di legalità, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, finalizzato a contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici; tuttavia, nei limiti in cui tale protocollo preveda dichiarazioni secondo le quali il candidato o l'offerente non si trovi in situazioni di controllo o di collegamento con altri candidati o offerenti, non si sia accordato e non si accorderà con altri partecipanti alla gara e non subappalterà lavorazioni di alcun tipo ad altre imprese partecipanti alla medesima procedura, l'assenza di siffatte dichiarazioni non può comportare l'esclusione automatica del candidato o dell'offerente da detta procedura”;
      m) sul c.d. subappalto necessario cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9 (in Foro it., 2016, III, 65, con nota di CONDORELLI; Contratti Stato e enti pubbl., 2015, fasc. 4, 87, con nota di VESPIGNANI; Urbanistica e appalti, 2016, 167, con nota di GASTALDO, LONGO, CANZONIERI; Giornale dir. amm., 2016, 365 (m), con nota di GALLI, CAVINA; Nuovo dir. amm., 2016, fasc. 3, 53, con nota di NARDOCCI), che ha inteso risolvere il contrasto giurisprudenziale in tema di subappalto necessario, escludendo dunque l'obbligatorietà dell'indicazione del nominativo del subappaltatore già in sede di presentazione dell'offerta, anche "nell'ipotesi in cui il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili" previste dall'art. 107, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010, che disciplina i requisiti di partecipazione alla gara; cfr. anche A. SENATORE, Il subappalto necessario nella prospettiva evolutiva del d.leg. n. 50/2016 in Urbanistica e appalti, 2017, 456;
      n) sul riparto della competenza legislativa fra Stato e regioni specie avuto riguardo al subappalto, Corte cost., 17.12.2008, n. 411 (in Foro amm. CDS 2009, 5, 1192 con nota di CASALINI; Corriere giur., 2009, 640, con nota di MUSOLINO; Urbanistica e appalti, 2009, 301, con nota di CONTESSA) (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 11.06.2018 n. 3553 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi – Art. 34, c. 2 d.P.R. n. 380/2001 – Opere realizzate senza titolo per ampliarne uno preesistente – Inapplicabilità.
L’art. 34, comma 2, del testo unico sull’edilizia (in forza del quale si applica la sanzione pecuniaria piuttosto che la demolizione) presuppone che vengano in rilievo gli stessi lavori edilizi posti in essere a seguito del rilascio del titolo e in parziale difformità da esso e non è quindi applicabile alle opere realizzate senza titolo per ampliarne uno preesistente (Consiglio di Stato, sez. VI, 01/06/2016, n. 2325) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 11.06.2018 n. 1321 - link a
www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: La reiterazione di vincoli urbanistici preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità non richiede una motivazione specifica circa la destinazione di zona delle singole aree (cd. motivazione polverizzata) ma soltanto una motivazione circa le esigenze urbanistiche che sono a fondamento della variante medesima.
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Il primo motivo, nei limiti in cui è stato rivolto avverso il difetto d’istruttoria e di motivazione della delibera reiterativa del vincolo di inedificabilità (p.lla 186), è infondato.

Osserva, anzitutto, il collegio che alla luce del prevalente orientamento del Giudice amministrativo la reiterazione di vincoli urbanistici preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità non richiede una motivazione specifica circa la destinazione di zona delle singole aree (cd. motivazione polverizzata), ma soltanto una motivazione circa le esigenze urbanistiche che sono a fondamento della variante medesima (cfr. Consiglio di Stato Sez. V 12.05.2003, n. 2509; Sez. V 03.03.2003, n. 1172; Consiglio di Stato ad. plen. 22.12.1999 n. 24) (TAR Lazio-Latina, sentenza 09.06.2018 n. 343 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Permessi ai sensi dell'articolo 33 della legge 104/1992 e ferie.
«
La limitazione della computabilità (....) dei permessi di cui all'articolo 33, comma 3, della legge 05.02.1992, n. 104, in forza del richiamo operato dal successivo comma 4 all'ultimo comma dell'articolo 7 della legge 30.12.1971, n. 1204 (abrogato dal Dlgs 26.03.2001, n. 151, che ne ha tuttavia recepito il contenuto negli articoli 34 e 51), opera soltanto nei casi in cui essi debbano cumularsi effettivamente con il congedo parentale ordinario -che può determinare una significativa sospensione della prestazione lavorativa- e con il congedo per malattia del figlio, per i quali compete un'indennità inferiore alla retribuzione normale (diversamente dall'indennità per i permessi ex lege n. 104 del 1992 commisurata all'intera retribuzione), risultando detta interpretazione idonea ad evitare che l'incidenza sulla retribuzione possa essere di aggravio della situazione dei congiunti del portatore di handicap e disincentivare l'utilizzazione del permesso».
Questo il principio della Corte di Cassazione –Sez. VI civile– che con l'ordinanza 06.06.2018 n. 14468, ha confermato la legittimità della domanda avanzata da un lavoratore, diretta al riconoscimento della illegittimità della decurtazione operata dal datore di lavoro dei giorni di permesso fruiti ai sensi dell'articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 nel computo delle ferie (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.06.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Rileva nel caso di specie l’art. 3, comma 1, lett. f), del d.p.r. n. 380/2001 in virtù del quale va qualificata come ristrutturazione urbanistica (e non come sostituzione edilizia) l’opera che si risolva in una modificazione del disegno dei lotti e/o degli isolati.
Invero, la demolizione di un edificio e la sua ricostruzione, con ampliamento, in un’area ben distinta e separata dal terreno originariamente edificato, imprime un diverso assetto edilizio e una diversa conformazione dei due lotti; nel caso di specie, inoltre, l’intervento edilizio proposto comporta un collegamento con la viabilità pubblica completamente diverso, in quanto l’opera progettata prevede la traslazione da una zona affacciata su strada comunale ad una zona prospiciente la strada provinciale, rendendo così ancor più evidente la modifica del disegno dei lotti interessati.

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Il piano attuativo è legittimamente richiesto non solo per le zone del tutto prive di opere di urbanizzazione, ma anche in caso di urbanizzazioni che necessitino di un adeguamento o di un potenziamento, ipotesi queste sussistenti per la zona in questione, nella quale è pacifica la mancanza della fognatura pubblica e del collegamento con la rete idrica.
Inoltre, la previsione del piano attuativo può essere finalizzata ad assicurare un più incisivo controllo del Comune sul nuovo disegno urbanistico dei lotti interessati dalla demolizione e ricostruzione, in modo da verificarne il coordinamento con l’assetto della zona ovvero ai fini dell’inserimento ordinato delle nuove costruzioni nell’ambito urbanistico circostante.
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... per l'annullamento della nota del Dirigente del Servizio Servizi alla Città – Ufficio Edilizia privata- del Comune di Capannori prot. n. 5005 dell'11.07.2017 comunicata tramite pec il 12.07.2017 e notificata in data 31.08.2017, contenente: “Comunicazione di diniego al rilascio del permesso di costruire” in relazione alla pratica edilizia n. P2017/0053, con la quale la El. s.r.l. aveva richiesto permesso di costruire per la demolizione e ricostruzione di locali uffici a corredo di un'attività commerciale posti in Capannori, località Lunata Via ... n. 14;
...
In data 20.4.2017 El. s.r.l. e il signor Pi.Gi. hanno presentato al Comune di Capannori, quali proprietari, domanda di permesso di costruire per la demolizione e ricostruzione di uffici a corredo di un’attività commerciale, relativamente a due piccoli edifici in località Lunata, conformemente all’art. 22 del regolamento urbanistico, il quale consente, tramite intervento diretto ovvero tramite sostituzione edilizia, la demolizione e ricostruzione di superfici inferiori a 600 metri quadrati.
Il Comune, con nota ex art. 10-bis della legge n. 241/1990, preso atto che il progetto riguardava il recupero di volumetrie esistenti con ampliamento per la costruzione di uffici dell’attività commerciale esistente, ha evidenziato che il nuovo edificio non risultava collegato a quelli già esistenti facenti parte dell’attività commerciale, rendeva necessaria una nuova viabilità di accesso e nuove opere di urbanizzazione e comportava quindi una modificazione del disegno dei lotti edificati e dell’isolato, così da configurare una ristrutturazione urbanistica, sottoposta all’obbligo della preventiva approvazione del piano attuativo.
El. s.r.l. ha replicato che il previsto spostamento di un edificio di 50 mq. all’interno del medesimo comparto urbanistico non può ricadere nell’ambito di applicazione della norma del regolamento urbanistico che, per gli interventi sostitutivi del tessuto urbanistico edilizio, prevede l’obbligo del preventivo piano attuativo.
Il Comune, con provvedimento dell’11.07.2017, ha respinto l’istanza di permesso di costruire, sull’assunto che l’intervento progettato costituiva non sostituzione edilizia ma ristrutturazione urbanistica richiedente l’approvazione di un piano attuativo.
...
Il ricorso è infondato.
I due edifici esistenti (uffici) ricadono in area identificata al foglio 69, mappali 575 e 576, con accesso dalla via comunale dei Pi.; il nuovo edificio sarà realizzato ad una distanza di 300 metri dagli edifici originari, su area inedificata con accesso da altra strada (via provinciale Antonio Rossi), identificata al foglio 69 mappale 188: il lotto in cui i ricorrenti intendono costruire il nuovo edificio non costituisce resede catastale o pertinenza ai sensi dell’art. 25 del regolamento edilizio (allegato n. 5 prodotto dall’Ente) ma consiste in un’altra superficie fondiaria posta a 300 metri di distanza dal manufatto originario (si veda la visuale satellitare costituente il documento n. 13 depositato in giudizio dal Comune).
Inoltre, l’area su cui è prevista la nuova costruzione è priva di qualsiasi possibile collegamento viario interno con il terreno su cui sorgono i locali da demolire, in quanto tra i due lotti si interpongono la particella n. 309, destinata a parcheggio pubblico e sottoposta a vincolo espropriativo (art. 34 delle NTA del regolamento urbanistico), e le particelle n. 1304 e 397, intestate a terzi (si vedano la planimetria allegata all’istanza di permesso di costruire, costituente il documento n. 1 allegato all’impugnativa, e il documento n. 9 depositato in giudizio dal Comune).
Pertanto, il progetto presentato prevede una traslazione della volumetria, con ampliamento, in un lotto distante (300 metri) dalla resede dell’edificio da demolire e scisso dal lotto sede dell’edificio stesso.
Orbene, anche a prescindere dal restrittivo art. 25 del regolamento edilizio (invocato dalla difesa del Comune), secondo cui l’area di pertinenza non può estendersi oltre 50 metri dal fabbricato principale, rileva nel caso di specie l’art. 3, comma 1 lett. f), del d.p.r. n. 380/2001 (recepito dall’art. 10, comma 1, del regolamento urbanistico del Comune di Capannori), in virtù del quale va qualificata come ristrutturazione urbanistica (e non come sostituzione edilizia) l’opera che si risolva in una modificazione del disegno dei lotti e/o degli isolati.
Invero, la demolizione di un edificio e la sua ricostruzione, con ampliamento, in un’area ben distinta e separata dal terreno originariamente edificato, imprime un diverso assetto edilizio e una diversa conformazione dei due lotti; nel caso di specie, inoltre, l’intervento edilizio proposto comporta un collegamento con la viabilità pubblica completamente diverso, in quanto l’opera progettata prevede la traslazione da una zona affacciata su strada comunale ad una zona prospiciente la strada provinciale, rendendo così ancor più evidente la modifica del disegno dei lotti interessati.
Su tali premesse rileva l’art. 10, comma 2, del regolamento urbanistico, che assoggetta a piano attuativo gli interventi di ristrutturazione urbanistica.
Invero, il piano attuativo è legittimamente richiesto non solo per le zone del tutto prive di opere di urbanizzazione, ma anche in caso di urbanizzazioni che necessitino di un adeguamento o di un potenziamento (ex multis: Cons. Stato, IV, 27.03.2018, n. 1906), ipotesi queste sussistenti per la zona in questione, nella quale è pacifica la mancanza della fognatura pubblica e del collegamento con la rete idrica (si veda la pagina 2 della memoria di replica depositata in giudizio dai ricorrenti in data 30.04.2018).
Inoltre, la previsione del piano attuativo può essere finalizzata ad assicurare un più incisivo controllo del Comune sul nuovo disegno urbanistico dei lotti interessati dalla demolizione e ricostruzione, in modo da verificarne il coordinamento con l’assetto della zona ovvero ai fini dell’inserimento ordinato delle nuove costruzioni nell’ambito urbanistico circostante (Cons. Stato, V, 29.04.2000, n. 2562; TAR Toscana, I, 16.06.2014, n. 1042).
L’impugnato provvedimento dà contezza dell’iter logico posto a supporto del diniego di rilascio del permesso di costruire e degli elementi di fatto, ritenuti decisivi, che hanno indotto l’Amministrazione a disattendere le osservazioni presentate dalla parte interessata, cosicché risulta priva di fondamento anche la censura incentrata sulla violazione dell’art. 3 della legge n. 241/1990.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 06.06.2018 n. 808 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un titolo edilizio può essere rilasciato, anche in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore, solo se è stato accertato che il lotto del richiedente è l'unico a non essere stato ancora edificato e si trova in una zona che, oltre ad essere integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti.
E, comunque, anche in presenza di una zona già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, ma non anche nell'ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico della zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione.
Ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.

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11) Tanto premesso, il Collegio esaminati gli atti allegati al ricorso e in particolare la planimetria dell’area, le fotografie e la relazione tecnica di parte ritiene che l’area in argomento allo stato non presenta gli elementi caratteristici del lotto intercluso così come delineati dalla giurisprudenza la quale sul punto spiega che “Un titolo edilizio può essere rilasciato, anche in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore, solo se è stato accertato che il lotto del richiedente è l'unico a non essere stato ancora edificato e si trova in una zona che, oltre ad essere integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti; e, comunque, anche in presenza di una zona già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, ma non anche nell'ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico della zona, ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione; ciò, in quanto l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata” (Consiglio di Stato sez. IV 27.03.2018 n. 1906) (TAR Lazio-Latina, sentenza 06.06.2018 n. 316 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Circa l’interpretazione dell’art. 97, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 50 del 2016, il quale individua il criterio di calcolo della soglia di anomalia, l’interpretazione fatta propria da parte ricorrente, per la quale per il calcolo della somma dei ribassi non vanno considerate le offerte previamente escluse in virtù del taglio delle ali, pur in un contesto di incertezza interpretativa e giurisprudenziale, è stata però finora condivisa dalla giurisprudenza maggioritaria, in particolare in grado d’appello.
Il Collegio non nasconde come la norma in questione, nel testo modificato dal d.lgs. n. 56 del 2017, ponga problemi interpretativi, in quanto la necessità del taglio della ali è specificata solo con riguardo alla media aritmetica dei ribassi e non alla somma degli stessi.
Peraltro, per questioni di semplicità e logicità dell’interpretazione della norma, nonché per favorire la continuità e la stabilità dell’interpretazione alla luce delle sentenze sopracitate, il Collegio ritiene di aderire alla tesi proposta da parte ricorrente.
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1 Il ricorso è fondato.
1.1 Infatti la controversia pone un’unica questione di diritto, concernente l’interpretazione dell’art. 97, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 50 del 2016, il quale oggi individua così il criterio di calcolo della soglia di anomalia: “b) media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione del venti per cento rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso arrotondato all'unità superiore, tenuto conto che se la prima cifra dopo la virgola della somma dei ribassi offerti dai concorrenti ammessi è pari ovvero uguale a zero la media resta invariata; qualora invece la prima cifra dopo la virgola, della somma dei ribassi offerti dai concorrenti ammessi è dispari, la media viene decrementata percentualmente di un valore pari a tale cifra.”
1.2 L’interpretazione fatta propria da parte ricorrente, per la quale per il calcolo della somma dei ribassi non vanno considerate le offerte previamente escluse in virtù del taglio delle ali, pur in un contesto di incertezza interpretativa e giurisprudenziale, è stata però finora condivisa dalla giurisprudenza maggioritaria, in particolare in grado d’appello. Sul punto devono essere citate le sentenze del Consiglio di Stato 17.10.2017, n. 4803, 23.01.2018, n. 435 e, più recentemente, 17.05.2018, n. 2959, menzionate dalle ricorrenti.
1.3 Il Collegio non nasconde come la norma in questione, nel testo modificato dal d.lgs. n. 56 del 2017, ponga problemi interpretativi, in quanto la necessità del taglio della ali è specificata solo con riguardo alla media aritmetica dei ribassi e non alla somma degli stessi.
1.4 Peraltro, per questioni di semplicità e logicità dell’interpretazione della norma, nonché per favorire la continuità e la stabilità dell’interpretazione alla luce delle sentenze sopracitate, il Collegio ritiene di aderire alla tesi proposta da parte ricorrente (si veda la medesima posizione esposta sul punto dalla recentissima sentenza del Tar Piemonte 09.05.2018 n. 568).
1.5 Il ricorso deve quindi essere accolto, con annullamento del provvedimento impugnato. Il Collegio ritiene di non prendere posizione in ordine all’eventuale applicazione del cosiddetto “blocco unitario” (con riguardo ad offerte identiche) -di cui alle Linee guida n. 4 di ANAC– e alle relative conseguenze sull’aggiudicazione. Sul punto va infatti rilevato che, come osserva la stessa Amministrazione, le Linee guida n. 4 sono entrate in vigore successivamente all’avvio della procedura di che trattasi (07.04.2018) e non hanno carattere non vincolante (senza considerare che nemmeno le ricorrenti ne hanno richiesto l’applicazione).
2 La stazione appaltante dovrà quindi effettuare il procedimento di calcolo dell’anomalia secondo l’orientamento sopra ricordato, senza operare la reintroduzione delle offerte espunte con il taglio delle ali (TAR Marche, sentenza 05.06.2018 n. 418 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Fresato bituminoso - Limiti al riutilizzo - Asportazione del manto stradale mediante spandimento sul suolo e il compattamento - Esclusione - Rifiuto speciale dal Codice Europeo dei Rifiuti (CER) - Sottoprodotto - Utilizzo nello stesso ciclo di produzione, senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito - Art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di gestione dei rifiuti, la riutilizzabilità del fresato bituminoso proveniente dalla asportazione del manto stradale, non può essere consentita attraverso lo spandimento sul suolo e il compattamento, in quanto pratiche incompatibili con il riutilizzo del fresato bituminoso.
Inoltre, il fresato bituminoso è classificato come rifiuto speciale dal Codice Europeo dei Rifiuti (CER) e può essere trattato alla stregua di un sottoprodotto solo se venga inserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda l'utilizzo nello stesso ciclo di produzione, senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito (Consiglio di Stato, Sez. IV, 06/10/2014, n. 4978; id., Sez. IV, 21/05/2013, n.4151).
RIFIUTI - Spandimento dei rifiuti in un'area vasta e loro compattamento - Stoccaggio di rifiuti - Deposito temporaneo - Configurabilità - Esclusione.
Lo spandimento dei rifiuti in un'area vasta e del loro compattamento, non può essere qualificato come stoccaggio di rifiuti (o deposito temporaneo dei rifiuti nel luogo di produzione in attesa del loro trasferimento in un impianto di trattamento), in quanto attività, illogica e antieconomica, incompatibili con il successivo trasporto in altro luogo dei rifiuti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.06.2018 n. 24865 - link a
www.ambientediritto.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Equo compenso e Minimi tariffari liberi professionisti: legittimi gli incarichi gratuiti.
Con l'ordinanza 04.06.2018 n. 14293 la Suprema Corte di Cassazione -Sez. II civile- ha confermato che
essendo il compenso spettante liberamente determinabile dalle parti, è anche legittimo che il professionista possa rinunciarvi.
Abbiamo chiesto un commento di questa sentenza all'Arch. Gi.Lo., Dirigente del Settore Urbanistica del Comune di Catanzaro, che tutti ricorderanno per la vicenda del bando per la redazione del Piano strutturale e del relativo Regolamento Edilizio Urbanistico (REU) con importo a base di gara pari a 1 euro e un rimborso spese (preventivamente autorizzate ed effettivamente sostenute e documentate) nel limite massimo di 250 mila euro.
Un bando che ha fatto molto chiacchierare (leggi articoli) ma su cui nessuno ha potuto far nulla in quanto conforme alla normativa in vigore che, precedentemente alla pubblicazione del D.Lgs. n. 56/2017 (C.d. Decreto correttivo al Codice dei contratti), lasciava le stazioni appaltanti libere nella determinazione dell'importo da porre a base di gara per l'affidamento degli incarichi di progettazione (leggi articolo).
Possibilità che è stata eliminata dal decreto correttivo, con il quale è stato previsto che i corrispettivi previsti dal DM 17/06/2017 (c.d. decreto Parametri) devono essere utilizzati dalle stazioni appaltanti quale criterio o base di riferimento ai fini dell'individuazione dell'importo da porre a base di gara per l'affidamento degli incarichi di progettazione e le stazioni appaltanti mentre non possono subordinare la corresponsione dei compensi all’ottenimento del finanziamento dell’opera progettata non possono neanche prevedere quale corrispettivo forme di sponsorizzazione o di rimborso (21.06.2018 - tratto da e link a www.lavoripubblici.it).
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MASSIMA
1. - Con un unico motivo la società ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione della legge n. 340 del 1976, della legge n. 404 del 1977, articolo 6, degli articoli 1339, 1418 e 2233 c.c., in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che i minimi tariffari relativi alla professione di architetto non possano essere derogati con un accordo fra le parti; ciò alla luce della circostanza che i detti minimi non sono dettati per tutelare un interesse generale della collettività e che l'ordinamento non prevede la sanzione della nullità in caso di patti derogatori.
1.2. - Il motivo è fondato.
1.3. - Con specifico motivo di gravame, l'appellante In. s.r.l. aveva lamentato che il giudice di primo grado, nel riferirsi alla legge n. 340 del 1976 (che stabilisce che i minimi di tariffa professionale degli ingegneri e degli architetti sono inderogabili) avesse omesso di effettuare un qualsiasi vaglio della giurisprudenza in materia.
Rilevava la società che le parti si erano accordate per il compenso professionale al Moscatelli con l'atto di affidamento dell'incarico allo stesso; e che solo al momento della costituzione in giudizio il professionista aveva disatteso gli accordi convenuti, reclamando un compenso professionale assai superiore secondo tariffa, la quale tuttavia è considerata dalla giurisprudenza come fonte normativa residuale, applicabile ove non via sia pattuizione tra le parti.
E quindi (continuava l'appellante) non potrebbe ritenersi nullo, in carenza di una esplicita previsione in tal senso, l'accordo elusivo del'obbligatorietà dei minimi inderogabili delle tariffe professionali, che sono dettati nell'interesse del decoro e della dignità delle singole categorie professionali, sicché il momento derogatorio potrà semmai essere adeguatamente tutelato in ambito disciplinare.
La Corte territoriale, in risposta a tale motivo, ha osservato che la Corte di cassazione, con sentenza n. 6627 del 2012 ha respinto il ricorso presentato da un architetto avverso la decisione con cui i giudici di merito non avevano ritenuto operante, nel calcolo del compenso relativo ad un incarico che lo stesso aveva ricevuto da parte di un ente pubblico, il principio della inderogabilità dei minimi tariffari tra il professionista ed il cliente, così motivando: «l'inderogabilità dei limiti tariffari di categoria stabiliti per i professionisti è circoscritta dalla L. 01.07.1977, n. 404, art. 6 ai soli incarichi professionali privati e non vale, pertanto, per gli incarichi conferiti da enti pubblici, in quanto detta norma, interpretando autenticamente la L. 05.05.1976, n. 340, art. unico -che sancisce l'inderogabilità dei minimi delle tariffe professionali degli ingegneri e degli architetti- ne ha limitato l'applicazione ai rapporti intercorrenti tra privati, con previsione che non viola l'art. 3 Cost., poiché la derogabilità dei minimi tariffari prevista dall'art. 6 legge cit. riguarda anche i professionisti privati (Cass. n. 14187 del 27/06/2011; Cass. n. 21235 del 05/10/2009; Cass. n. 18223 del 11/08/2009)».
E, poiché nel caso di specie si controverte in relazione ad un incarico conferito non da un ante pubblico ma da un privato, la Corte d'appello ha confermato la correttezza della decisione di primo grado nel ritenere che la legge n. 340 del 1976 stabilisce che i minimi di tariffa professionale degli ingegneri e degli architetti sono in questi casi inderogabili.
1.4. -
Costituisce principio largamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità, dal quale il Collegio non intende discostarsi (di recente, Cass. n. 21235 del 2013; cass. n. 1900 del 2017), quello secondo il quale il compenso per prestazioni professionali va determinato in base alla tariffa ed adeguato all'importanza dell'opera, solo nel caso in cui esso non sia stato liberamente pattuito, in quanto l'art. 2233 c.c. pone una garanzia di carattere preferenziale tra i vari criteri di determinazione del compenso, attribuendo rilevanza in primo luogo alla convenzione che sia intervenuta fra le parti e poi, solo in mancanza di quest'ultima, e in ordine successivo, alle tariffe e agli usi e, infine, alla determinazione del giudice, mentre non operano i criteri di cui all'art. 36 Cost., comma 1, applicabili solo ai rapporti di lavoro subordinato.
La violazione dei precetti normativi che impongono l'inderogabilità dei minimi tariffari non importa, secondo il richiamato orientamento, la nullità, ex art. 1418 c.c., comma 1, del patto in deroga, in quanto trattasi di precetti non riferibili ad un interesse generale, cioè dell'intera collettività, ma solo ad un interesse della categoria professionale
(Cass. n. 21235 del 2009; Cass. n. 17222 del 2011; Cass. n. 1900 del 2017).
A questa conclusione si giunge alla luce dei principi espressi da questa Corte a sezioni unite (Cass. sez. un. n. 18450 del 2005), che, pur applicati in una fattispecie nella quale il committente era una pubblica amministrazione, sono pienamente applicabili anche nel caso in cui il committente sia un soggetto privato.
Occorre premettere che l'articolo unico della legge n. 340 del 1976 stabiliva che i minimi di tariffa per gli onorari a vacazione, a percentuale ed a quantità, fissati dalla legge 02.03.1949, n.143, o stabiliti secondo il disposto della presente legge, sono inderogabili. L'inderogabilità non si applica agli onorari a discrezione per le prestazioni di cui all'articolo 5 del testo unico approvato con la citata legge 02.03.1949, n. 143. L'art. 6 L. 404 del 1977 ha poi stabilito che "L'articolo unico della legge 05.05.1976, n. 340, deve intendersi applicabile esclusivamente ai rapporti intercorrenti tra privati".
Peraltro, nel richiamato precedente di questa Corte a sezioni unite, si riafferma che, nella disciplina delle professioni intellettuali, il contratto costituisce la fonte principale per la determinazione del compenso, mentre la relativa tariffa rappresenta una fonte sussidiaria e suppletiva, alla quale è dato ricorrere, ai sensi dell'art. 2233 c.c., soltanto in assenza di pattuizioni al riguardo e pertanto le limitazioni al potere di autonomia delle parti e la prevalenza della liquidazione in base a tariffa possono derivare soltanto da leggi formali o da altri atti aventi forza di legge riguardanti gli ordinamenti professionali.
Il primato della fonte contrattuale impone di ritenere che il compenso spettante al professionista, ancorché elemento naturale del contratto di prestazione d'opera intellettuale, sia liberamente determinabile dalle parti e possa anche formare oggetto di rinuncia da parte del professionista, salva resistenza di specifiche norme proibitive che, limitando il potere di autonomia delle parti, rendano indisponibile il diritto al compenso per la prestazione professionale e vincolante la determinazione del compenso stesso in base a tariffe.
Nella normativa concernente le professioni di ingegnere ed architetto manca una disposizione espressa diretta a sanzionare con la nullità eventuali clausole in deroga alle tariffe e, sul piano logico, le norme sull'inderogabilità dei minimi tariffari sono contemplate non a tutela di un interesse generale della collettività ma di un interesse di categoria, onde per una clausola che si discosti da tale principio non è configurabile -in difetto di un'espressa previsione normativa in tal senso- il ricorso alla sanzione della nullità, dettata per tutelare la violazione d'interessi generali.
Il principio d'inderogabilità è diretto ad evitare che il professionista possa essere indotto a prestare la propria opera a condizioni lesive della dignità della professione (sicché la sua violazione, in determinate circostanze, può assumere rilievo sul piano disciplinare), ma non si traduce in una norma imperativa idonea a rendere invalida qualsiasi pattuizione in deroga, allorché questa sia stata valutata dalle parti nel quadro di una libera ponderazione dei rispettivi interessi (Cass. n. 15786 del 2013).
1.5. - Sulla base di tali principi, il motivo di ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata e rinviata ad altra sezione della Corte d'appello di Genova, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 04.06.2018 n. 14293).

URBANISTICA: L’obbligo della ripubblicazione del P.G.T. adottato ricorre solo nel caso in cui le modifiche siano tali da comportare un vero e proprio “stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, anche quando queste sono numerose sul piano quantitativo ovvero incidono in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree”.
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2.2.3.1. Con il primo motivo, lamenta la violazione degli artt. 13, comma 4, della l. r. n. 12/2005 e 9 e 10 della l. n. 241/1990 perché solo in sede di approvazione del Piano il comune avrebbe imposto il vincolo conformativo:
   - sulla “Casa dell’Accoglienza don Francesco Gariboldi”, di cui al mappale 68 del foglio 5, classificandola come servizio pubblico di interesse generale;
   - sulla “Corte Maregnot”, di cui al mappale 68 del foglio 3, prevedendone la esclusiva destinazione per gli usi di cui al comma 10 dell’art. 13 (usi di interesse comune).
Assume parte ricorrente la conseguente violazione degli oneri di pubblicità di cui all’art. 13, comma 4, della legge regionale, che -al fine di consentire agli interessati di presentare osservazioni- richiede il deposito degli atti di P.G.T. nella segreteria comunale per un periodo continuativo di trenta giorni, a pena di inefficacia degli stessi.
Deposito che, in parte qua, sarebbe mancato.
La censura non è condivisibile.
Come correttamente osservato dalla Difesa del Comune, l’obbligo della ripubblicazione del P.G.T. adottato ricorre solo nel caso in cui le modifiche siano tali da comportare un vero e proprio “stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, e non anche per variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l'impianto originario, anche quando queste sono numerose sul piano quantitativo ovvero incidono in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree” (Consiglio di Stato sez. IV 04.12.2013 n. 5769; Consiglio di Stato sez. IV 13.07.2010 n. 4546).
Stravolgimento che, con tutta evidenza, non ricorre nel caso di specie.
Il primo motivo del ricorso principale, pertanto, è infondato e va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.06.2018 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se gli interventi edilizi ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, essi sono soggetti alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che, quand'anche si trattasse di opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera S.C.I.A./D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria sarebbe doverosa se non è stata ottenuta la previa autorizzazione paesistica.
In ogni caso, la presenza di opere che implichino una stabile (benché non irreversibile) trasformazione del territorio, preordinata a soddisfare esigenze non precarie, rende necessario il rilascio di un idoneo titolo edilizio.
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Pertanto, qualora l'entità del deposito dei materiali e la stabilità dell'utilizzazione dell'area emergano con una certa evidenza -come nel caso di specie, in cui si afferma espressamente che l’utilizzo è risalente nel tempo– deve comunque ritenersi realizzata una trasformazione permanente dell'assetto edilizio del territorio, necessitante di concessione edilizia

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La giurisprudenza è ormai costante, infatti, nell’affermare che, se gli interventi edilizi ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, essi sono soggetti alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che, quand'anche si trattasse di opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera S.C.I.A./D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria sarebbe doverosa se non è stata ottenuta la previa autorizzazione paesistica (cfr., sul punto, tra le tante, la sentenza TAR Campania, Napoli, sez. VI, 20.04.2016, n. 1976, significativa di un orientamento costante da cui il Collegio non ravvisa ragioni di discostarsi).
In ogni caso, la presenza di opere che implichino una stabile (benché non irreversibile) trasformazione del territorio, preordinata a soddisfare esigenze non precarie, rende necessario il rilascio di un idoneo titolo edilizio.
Pertanto, qualora l'entità del deposito dei materiali e la stabilità dell'utilizzazione dell'area emergano con una certa evidenza -come nel caso di specie, in cui si afferma espressamente che l’utilizzo è risalente nel tempo– deve comunque ritenersi realizzata una trasformazione permanente dell'assetto edilizio del territorio, necessitante di concessione edilizia (in tal senso cfr. TAR Piemonte, Sez. I, n. 891, del 12.07.2013) (TAR Lomabrdia-Brescia, Sez. II, sentenza 04.06.2018 n. 539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Straordinario pagabile solo se autorizzato.
La III Sez. Consiglio di Stato mette la parola fine alla possibilità di retribuire il lavoro straordinario in assenza di autorizzazione.
Con la sentenza 01.06.2018 n. 3322 afferma che
nel rapporto di pubblico impiego si applica la regola che condiziona in via di principio il lavoro straordinario all’autorizzazione preventiva e formale, considerata essenziale per l’attuazione dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento.
La vicenda riguarda il pagamento di somme per ore di lavoro straordinario effettuate da alcuni militari, il cui rapporto di lavoro non è stato “contrattualizzato” per cui le controversie restano al giudice amministrativo. Le somme sono state in un primo tempo riconosciute grazie a un decreto ingiuntivo, impugnato dal ministero dell’Economia e revocato dal Tar con sentenza del 2008, ritenendo infondata la loro pretesa di fronte al fatto che il servizio straordinario non era stato autorizzato e che quindi avrebbero dovuto essere risarciti per le prestazioni eccedenti mediante riposi compensativi.
I militari hanno impugnato la sentenza Netta la chiusura dei giudici dell’appello, secondo i quali la retribuibilità del lavoro straordinario è in via di principio condizionata all’autorizzazione.
Il corrispettivo per lo straordinario motivato da esigenze urgenti ed indifferibili può essere individuato, «previa adeguata informazione», non solo nella retribuzione per straordinario ma anche nella maturazione di riposi compensativi corrispondenti alle ore di lavoro effettivamente prestate.
Soluzione che, secondo i giudici di Palazzo Spada, contempera le esigenze personali del dipendente e quelle degli uffici.
Interessante la postilla. A detta della terza sezione, non possono ritenersi legittime le eventuali disposizioni interne che pretendano di condizionare il diritto ai riposi compensativi a formali richieste da parte del singolo interessato, da prodursi in tempi e secondo procedure fissate unilateralmente dall’amministrazione, il cui mancato rispetto produrrebbe la perdita del beneficio.
Spetta all’amministrazione, che autorizza le prestazioni svolte in eccedenza e per questo conosce i dati ma anche le esigenze del servizio, esercitare il potere-dovere di riconoscere d’ufficio i turni di riposo compensativi anche in assenza di una specifica istanza del dipendente (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.06.2018).
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MASSIMA
L’appello non è fondato e va pertanto respinto, con integrale conferma della gravata sentenza.
La Giurisprudenza della Sezione –cfr. per un efficace e condivisibile compendio IV Sez. n. 3423 del 2017– ha infatti chiarito che:
   - “
anche nel rapporto di pubblico impiego dei militari della Guardia di finanza trova applicazione la regola per la quale la retribuibilità del lavoro straordinario è in via di principio condizionata all'esistenza di una previa e formale autorizzazione allo svolgimento di prestazioni eccedenti l'ordinario orario di lavoro, la quale svolge una pluralità di funzioni, tutte riferibili alla concreta attuazione dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento cui, ai sensi dell'art. 97 Cost., deve essere improntata l'azione della p.a., anche militare (Cons. Stato, sez. IV, 26.02.2013 n. 1186; Id, 26.03.2012 n. 1749);
   - “
deve escludersi che l'Amministrazione sia di norma tenuta a pagare le ore di lavoro straordinario prestate in eccedenza al limite massimo previsto dal monte ore autorizzato e senza che risulti comprovata l'effettiva autorizzazione preventiva a svolgere il lavoro extra orario: per questo genere di prestazioni eccedenti infatti il militare ha solo il diritto eventualmente a fruire di corrispondenti riposi compensativi (Cons. Stato, sez. IV, n. 1186/2013 cit.);
   - "
in presenza di esigenze urgenti ed indifferibili, non può discutersi che il militare della Guardia di finanza, cui sia stato ordinato lo svolgimento di prestazioni lavorative eccedenti l'ordinario orario di lavoro, abbia sempre diritto al corrispettivo dell'attività; tale corrispettivo, peraltro, è da individuare, previa adeguata informazione, non solo nella relativa retribuzione, per prestazioni nel limite del "monte ore" per il quale esiste copertura finanziaria, ma anche, in caso diverso, nella maturazione di riposi compensativi corrispondenti alle ore di lavoro effettivamente prestate, da fruirsi compatibilmente con le esigenze di servizio, contemperandosi ragionevolmente ed equamente -in tal modo- le esigenze personali del dipendente e quelle dell'organizzazione del lavoro e degli uffici, precisandosi altresì che “non possono ritenersi legittime quelle eventuali disposizioni (di natura regolamentare o provvedimentale) che pretendano di condizionare il diritto ai predetti riposi compensativi ad apposite, formali richieste del singolo interessato, da prodursi in tempi e secondo procedure fissate unilateralmente dall'Amministrazione militare, il cui mancato rispetto produrrebbe la perdita del beneficio stesso” (Cons. Stato, sez. IV, 12.05.2008 n. 2170).
Su tale ultimo aspetto si è altresì affermato che
il diritto al riposo compensativo per le ore di straordinario effettuate in eccedenza “corrispondendo ad un dovere organizzativo dell'amministrazione, era in effetti subordinato ad un'istanza del dipendente, richiesta dall'art. 44 del citato Regolamento ... è però da osservare sul punto che l'art. 28 del D.P.R. n. 170 del 2007, norma sopravvenuta al regolamento, accolla all'amministrazione il dovere di cui si tratta tenendo presenti le richieste del personale (presentate nel corso del procedimento di organizzazione dei turni), ma non sembra configurare la domanda come una "conditio sine qua non" per l'esercizio del diritto al riposo compensativo; l'art. 28 sembra quindi avere una portata innovativa sul punto ed un senso riduttivo della portata della norma precedente. Pertanto, in assenza di domande di turnazione e considerato che l'amministrazione è necessariamente a conoscenza dei dati inerenti le prestazioni svolte in eccedenza (come delle esigenze del servizio), essa permane nel potere-dovere di riconoscere d'ufficio i turni di riposo compensativi anche in assenza di una specifica istanza del dipendente.”
Sulla scorta delle considerazioni che precedono la pretesa degli appellanti di ottenere il pagamento a titolo di lavoro straordinario delle ore lavorative prestate in eccedenza rispetto al normale orario risulta infondata.

APPALTI: Sopralluogo – Attestazione rilasciata dalla stazione appaltante – Irregolarità o incompletezza – Offerente incolpevole.
Eventuali irregolarità o incompletezze della certificazione rilasciata dalla stazione appaltante, per attestare l’avvenuto sopralluogo e da inserire nel plico contenente l’offerta (per essere poi esibita al seggio di gara), non possono andare a discapito dell’offerente incolpevole (cfr. TAR Marche, 31/10/2017 n. 829) (TAR Marche, sentenza 30.05.2018 n. 397 - link a
www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOContribuzione sull'indennità sostitutiva per ferie non godute.
La Corte di Cassazione -civile, sez. lavoro- con ordinanza 29.05.2018 n. 13473 ha affermato che l'indennità sostitutiva di ferie non godute è assoggettabile a contribuzione previdenziale a norma dell'articolo 12 della legge 153/1969, sia perché, essendo in rapporto di corrispettività con le prestazioni lavorative effettuate nel periodo di tempo che avrebbe dovuto essere dedicato al riposo, ha carattere retributivo e gode della garanzia prestata dall'articolo 2126 del codice civile, a favore delle prestazioni effettuate con violazione di norme poste a tutela del lavoratore, sia perché un eventuale suo concorrente profilo risarcitorio -oggi pur escluso dal sopravvenuto articolo 10 del Dlgs 66/2003, come modificato dal Dlgs 213/2004, in attuazione della direttiva n. 93/104/Ce- non escluderebbe la riconducibilità all'ampia nozione di retribuzione imponibile delineata dal citato articolo 12, costituendo essa comunque un'attribuzione patrimoniale riconosciuta a favore del lavoratore in dipendenza del rapporto di lavoro e non essendo ricompresa nella elencazione tassativa delle erogazioni escluse dalla contribuzione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.06.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata, essendo dovuti in assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio, con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario; pertanto, tali atti non necessitano della comunicazione di avvio del procedimento di cui all'art. 7 L. n. 241/1990.
E', quindi, legittima l'ordinanza di demolizione di un'opera abusiva che non sia stata preceduta da siffatta comunicazione, posto che, da un lato, l'obbligo di comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività vincolata e, dall'altro, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990, l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento, laddove la si considerasse al contrario dovuta, non comporta conseguenze nel caso in cui il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

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3.- Infondato è il primo motivo.
Secondo costante e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione, gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata, essendo dovuti in assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio, con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario; pertanto, tali atti non necessitano della comunicazione di avvio del procedimento di cui all'art. 7 L. n. 241/1990.
E', quindi, legittima l'ordinanza di demolizione di un'opera abusiva che non sia stata preceduta da siffatta comunicazione, posto che, da un lato, l'obbligo di comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività vincolata e, dall'altro, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990, l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento, laddove la si considerasse al contrario dovuta, non comporta conseguenze nel caso in cui il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 28.09.2017, n. 4533; questa Sezione, 01.02.2018, n. 708; idem, 10.01.2015, n. 107; Tar Napoli, sez. IV; 03.05.2017, n. 2320) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2018 n. 3537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è prospettabile una valutazione atomistica degli interventi edilizi compiuti, allorché gli stessi facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario di realizzazione di una determinata complessiva opera, risultante priva di titolo.
Ne consegue che non è ammissibile una loro valutazione astratta e separata, dovendo al contrario condursi un’analisi unitaria, sintetica e complessiva, in quanto ogni manufatto è parte di un più ampio quadro di illecito sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo regime giuridico di illegittimità.

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5.- Infondati sono il quarto e l’ottavo motivo che, per ragioni di connessione argomentativa, sono trattati congiuntamente.
5.1.- Parte delle opere contestate hanno prodotto innegabili aumenti planivolumetrici, con incremento del carico urbanistico, per i quali sono stati necessari interventi di nuova costruzione che, ai sensi dell’art. 10 d.p.r. 380/2001, avrebbero richiesto il permesso di costruire.
Riguardo alle opere indicate alle lettere C, D ed E, trattandosi rispettivamente di una tenda telescopica, di una tettoia e della veranda, il ricorrente, nel negare la produzione di nuovi volumi e superfici, fa valere per le prime due il carattere intrinsecamente temporaneo, con conseguente abnormità del richiamo all’art. 27 d.p.r. 380/2001; per la terza, la natura di pertinenza ovvero, in ogni caso, di volume tecnico.
5.2.- Come a più riprese affermato da questa Sezione, non è prospettabile una valutazione atomistica degli interventi edilizi compiuti, allorché gli stessi facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario di realizzazione di una determinata complessiva opera, risultante priva di titolo.
Ne consegue che non è ammissibile una loro valutazione astratta e separata, dovendo al contrario condursi un’analisi unitaria, sintetica e complessiva, in quanto ogni manufatto è parte di un più ampio quadro di illecito sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo regime giuridico di illegittimità (cfr. di recente, per tutte, la sentenza dell’11.01.2018 n. 194).
Riguardo alle opere interne, non può sostenersi la necessità di una loro valutazione separata in quanto tali, posto che le stesse potrebbero essere assentite solamente se riguardanti un immobile legittimamente edificato (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2018 n. 3537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Riguardo alla nozione di pertinenza, questa richiede un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale (sicché la prima non è suscettibile di autonoma e separata utilizzazione), sempreché l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico ed un apprezzabile aumento di volumetria, incidente anche sulla protezione dei luoghi accordata dalla tutela paesaggistica.
Invero, per un’analoga struttura consistente in una veranda, è stato precisato che: “l’installazione di un veranda chiusa è senza dubbio una trasformazione edilizia produttiva che aggrava il carico urbanistico, con una modificazione altresì della sagoma e del prospetto dell’edificio, in zona vincolata, comportante, con tutta evidenza, degli aumenti di volumetria non irrilevanti che, oltre ad escludere il rapporto pertinenziale, risultano ostativi al rilascio in via postuma della compatibilità paesaggistica, ai sensi dell’art. 167, co. 4, e dell’art. 146, co. 4, del d.lgs. n. 42 del 2004”.
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5.- Infondati sono il quarto e l’ottavo motivo che, per ragioni di connessione argomentativa, sono trattati congiuntamente.
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Riguardo alla nozione di pertinenza, questa richiede un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale (sicché la prima non è suscettibile di autonoma e separata utilizzazione), sempreché l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico ed un apprezzabile aumento di volumetria, incidente anche sulla protezione dei luoghi accordata dalla tutela paesaggistica (cfr., da ultimo, la sentenza della Sezione del 03.05.2017 n. 2381 che, per un’analoga struttura consistente in una veranda, ha precisato che: “l’installazione di un veranda chiusa è senza dubbio una trasformazione edilizia produttiva che aggrava il carico urbanistico, con una modificazione altresì della sagoma e del prospetto dell’edificio, in zona vincolata, comportante, con tutta evidenza, degli aumenti di volumetria non irrilevanti che, oltre ad escludere il rapporto pertinenziale, risultano ostativi al rilascio in via postuma della compatibilità paesaggistica, ai sensi dell’art. 167, co. 4, e dell’art. 146, co. 4, del d.lgs. n. 42 del 2004”) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2018 n. 3537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per le opere abusive che non hanno prodotto volumi, va osservato che l’art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 opera nei territori assoggettati a speciale protezione con il vincolo di tutela paesaggistica.
In questa ipotesi, la giurisprudenza ha elaborato un principio di indifferenza del titolo edilizio necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo anche in caso di opere soggette a mera d.i.a., questo perché a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi del menzionato art. 27, comma 2, d.p.r. 380/2001 deve essere sanzionato.
La norma citata riconosce, infatti, all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo sull’intera attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione qualora siano realizzate in zone vincolate opere prive dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall’intervento edilizio non autorizzato. Ciò mediante l’esercizio di un potere-dovere privo di margini di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con D.I.A. (ora SCIA), prive di autorizzazione paesaggistica.
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5.- Infondati sono il quarto e l’ottavo motivo che, per ragioni di connessione argomentativa, sono trattati congiuntamente.
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5.3.- Per le opere abusive che non hanno prodotto volumi, va osservato che l’art. 27 del D.P.R. n. 380 del 2001 opera nei territori assoggettati a speciale protezione con il vincolo di tutela paesaggistica (in cui è compreso il Comune di Torre del Greco).
In questa ipotesi, la giurisprudenza ha elaborato un principio di indifferenza del titolo edilizio necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo anche in caso di opere soggette a mera d.i.a. (cfr. la sentenza della Sez. VI di questo Tribunale del 26.03.2015 n. 1815), questo perché a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio in zona vincolata (DIA o permesso di costruire), ciò che rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi del menzionato art. 27, comma 2, d.p.r. 380/2001 deve essere sanzionato.
La norma citata riconosce, infatti, all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo sull’intera attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione qualora siano realizzate in zone vincolate opere prive dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall’intervento edilizio non autorizzato. Ciò mediante l’esercizio di un potere-dovere privo di margini di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con D.I.A. (ora SCIA), prive di autorizzazione paesaggistica (cfr., le sentenze di questa Sezione: 08.01.2016 n. 17 e 25.10.2017, n. 5015, con ulteriori richiami) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2018 n. 3537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’applicazione doverosa e vincolata della sanzione edilizia deriva unicamente dalla rilevazione di un intervento effettuato privo della preventiva acquisizione del prescritto titolo abilitativo, senza che possa rilevare la conformità urbanistica o meno delle opere realizzate, la quale può interessare soltanto ai fini della loro eventuale sanatoria, richiesta dall’interessato.
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Ai sensi dell'art. 36 d.p.r. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente entro il termine di sessanta giorni dal ricevimento dell’istanza di accertamento di conformità, la stessa s'intende respinta. Sull’istanza si forma infatti una fattispecie tipica, prevista dal legislatore, di silenzio-diniego che dev’essere impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo.
Il silenzio-diniego può infatti essere oggetto di azione giurisdizionale di annullamento, alla stregua di un provvedimento esplicito, con la differenza però che il diniego, in quanto tacito, non è censurabile per difetto di motivazione, di cui è strutturalmente carente per previsione legislativa, ma solo per il suo contenuto di rigetto.
Ugualmente, del silenzio-diniego non sono censurabili gli altri difetti formali propri degli atti, quali i vizi del procedimento, la mancanza di pareri o del preavviso dei motivi ostativi all’accoglimento.
Infatti, la stessa previsione normativa del silenzio-diniego è giustificabile ove si consideri che l’accertamento di conformità, come evidenziato da costante giurisprudenza, è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono, vigente al momento sia della loro realizzazione sia della presentazione dell’istanza di conformità (c.d. “doppia conformità”).
Il provvedimento di sanatoria assume, dunque, una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo l’autorità procedente valutare la conformità dell’opera alla normativa urbanistica ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i segmenti temporali considerati dalla norma.
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Come chiarito, inoltre, da costante giurisprudenza, la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità dei provvedimenti demolitori in precedenza emessi ma si limita solo a sospenderne temporaneamente gli effetti sino alla definizione del relativo procedimento, in ciò distinguendosi dagli speciali procedimenti di condono edilizio; in altri termini, l’efficacia della sanzione demolitoria resta soltanto sospesa, ossia posta in uno stato di temporanea quiescenza.
Va del resto rifiutata una diversa soluzione interpretativa che produrrebbe il paradossale vantaggio per il soggetto destinatario del provvedimento di paralizzare ad libitum la potestà amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un provvedimento autoritativo, ogni qual volta sia adottato, mediante la mera presentazione di un’istanza.
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Ne consegue che, a conclusione del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione resta privo di effetti, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia, con conseguente venire meno dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata; al contrario, in caso di rigetto dell’istanza, espresso o tacito, l’ordine demolitorio acquista di nuovo la sua originaria efficacia.
In quest’ultima ipotesi, il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione dovrà decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato; costui, infatti, non può essere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere la verifica postuma di conformità urbanistica e, pertanto, ha diritto di fruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.

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6.- Infondato è il quinto motivo.
In primo luogo, non risulta presentata alcuna domanda di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001.
In secondo luogo, come già chiarito nell’analisi dei motivi di ricorso che precedono, l’applicazione doverosa e vincolata della sanzione edilizia deriva unicamente dalla rilevazione di un intervento effettuato privo della preventiva acquisizione del prescritto titolo abilitativo, senza che possa rilevare la conformità urbanistica o meno delle opere realizzate, la quale può interessare soltanto ai fini della loro eventuale sanatoria, richiesta dall’interessato.
In ogni caso, le censure non considerano che, ai sensi del menzionato art. 36 d.p.r. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente entro il termine di sessanta giorni dal ricevimento dell’istanza di accertamento di conformità, la stessa s'intende respinta. Sull’istanza si forma infatti una fattispecie tipica, prevista dal legislatore, di silenzio-diniego che dev’essere impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo (ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. III, 09.12.2014, n. 6425; Idem, n. 3386 del 08.07.2015), nessuno dei quali risulta, allo stato, avanzato.
Il silenzio-diniego può infatti essere oggetto di azione giurisdizionale di annullamento, alla stregua di un provvedimento esplicito, con la differenza però che il diniego, in quanto tacito, non è censurabile per difetto di motivazione, di cui è strutturalmente carente per previsione legislativa, ma solo per il suo contenuto di rigetto.
Ugualmente, del silenzio-diniego non sono censurabili gli altri difetti formali propri degli atti, quali i vizi del procedimento, la mancanza di pareri o del preavviso dei motivi ostativi all’accoglimento (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 22.08.2016, n. 4088).
Infatti, la stessa previsione normativa del silenzio-diniego è giustificabile ove si consideri che l’accertamento di conformità, come evidenziato da costante giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato sez. IV, 05.05.2017 n. 2063), alla quale questa Sezione si è più volte conformata (cfr. ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. III, 05.09.2017, n. 4249), è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l’area su cui sorgono, vigente al momento sia della loro realizzazione sia della presentazione dell’istanza di conformità (c.d. “doppia conformità”).
Il provvedimento di sanatoria assume, dunque, una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo l’autorità procedente valutare la conformità dell’opera alla normativa urbanistica ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i segmenti temporali considerati dalla norma (ex multis, cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 24.10.2017, n. 4940).
Come chiarito, inoltre, da costante giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466), la presentazione di un’istanza di accertamento di conformità non incide sulla legittimità dei provvedimenti demolitori in precedenza emessi ma si limita solo a sospenderne temporaneamente gli effetti sino alla definizione del relativo procedimento, in ciò distinguendosi dagli speciali procedimenti di condono edilizio; in altri termini, l’efficacia della sanzione demolitoria resta soltanto sospesa, ossia posta in uno stato di temporanea quiescenza.
Va del resto rifiutata una diversa soluzione interpretativa che produrrebbe il paradossale vantaggio per il soggetto destinatario del provvedimento di paralizzare ad libitum la potestà amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un provvedimento autoritativo, ogni qual volta sia adottato, mediante la mera presentazione di un’istanza (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 05.09.2017, n. 4251).
Ne consegue che, a conclusione del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione resta privo di effetti, in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia, con conseguente venire meno dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata; al contrario, in caso di rigetto dell’istanza, espresso o tacito, l’ordine demolitorio acquista di nuovo la sua originaria efficacia.
In quest’ultima ipotesi, il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione dovrà decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato; costui, infatti, non può essere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere la verifica postuma di conformità urbanistica e, pertanto, ha diritto di fruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 06.04.2017, n. 1891) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2018 n. 3537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo costante e condivisa giurisprudenza non occorre una motivazione rafforzata sull’interesse pubblico alla demolizione di opere, anche laddove queste siano esistenti da tempo.
Per la legittimità dell’ordine di demolizione è sufficiente l’enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto rilevanti ai fini della individuazione della fattispecie di illecito e dell’applicazione della corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge.
Il decorso del tempo, di norma, non comporta l’estinzione del potere repressivo dell’attività edilizia abusiva, che concretizza un illecito con effetti permanenti, atteso il preminente interesse generale al corretto ed ordinato uso del territorio.
Ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che la distanza temporale nell'adozione delle misure sanzionatorie possa significare forme di sanatoria o il sorgere di affidamenti per situazioni ormai di fatto consolidate.
L'ordinamento tutela, infatti, l'affidamento solo se incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una attività volontaria del responsabile contra legem, quindi non tollerabile per l’ordinamento. In altri termini, non può ammettersi un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione illegale. Colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l'amministrazione, nel restare inerte, lo abbia in un certo modo avvantaggiato, adottando soltanto a notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell'abuso non sanabile.
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La presenza del vincolo paesaggistico sul territorio comunale impone all’amministrazione l’adozione dei provvedimenti sanzionatori di cui all’art. 27 d.p.r. 380/2001, esistendo l’esigenza della massima protezione del valore paesaggio tutelato la quale può essere raggiunta solo con la rimozione degli abusi compiuti e il ripristino della situazione preesistente.
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7.- Infondati sono anche il sesto ed il settimo motivo, da trattare congiuntamente in relazione ai profili di connessione argomentativa negli stessi presenti.
7.1.- Secondo costante e condivisa giurisprudenza non occorre una motivazione rafforzata sull’interesse pubblico alla demolizione di opere, anche laddove queste siano esistenti da tempo.
Per la legittimità dell’ordine di demolizione è sufficiente l’enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto rilevanti ai fini della individuazione della fattispecie di illecito e dell’applicazione della corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge (cfr. questa Sezione, 02.01.2018, n. 5).
Il decorso del tempo, di norma, non comporta l’estinzione del potere repressivo dell’attività edilizia abusiva, che concretizza un illecito con effetti permanenti, atteso il preminente interesse generale al corretto ed ordinato uso del territorio (cfr. la citata sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 2017 e, di recente, la sentenza della Sezione del 28.08.2017 n. 4146). Ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che la distanza temporale nell'adozione delle misure sanzionatorie possa significare forme di sanatoria o il sorgere di affidamenti per situazioni ormai di fatto consolidate (cfr. per tutte Cons. Stato sentenze nn. 1070/2017; 1774/2016; 4880/2015; 4892/2014; 5943/2013).
L'ordinamento tutela, infatti, l'affidamento solo se incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una attività volontaria del responsabile contra legem, quindi non tollerabile per l’ordinamento. In altri termini, non può ammettersi un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione illegale. Colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l'amministrazione, nel restare inerte, lo abbia in un certo modo avvantaggiato, adottando soltanto a notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell'abuso non sanabile.
7.2.- Il ricorrente contesta infine con il settimo motivo la sanzione della demolizione perché l’eventuale abuso ricadrebbe in zona territoriale B5 ed in zona Satura interna del PTP, con conseguente non sottoposizione a vincolo d’inedificabilità assoluta.
La censura non ha fondamento.
Come sopra chiarito, la presenza del vincolo paesaggistico sul territorio comunale impone all’amministrazione l’adozione dei provvedimenti sanzionatori di cui all’art. 27 d.p.r. 380/2001, esistendo l’esigenza della massima protezione del valore paesaggio tutelato la quale può essere raggiunta solo con la rimozione degli abusi compiuti e il ripristino della situazione preesistente.
Va ricordato che, in presenza di abusi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, l’art. 167, comma 4, lett. a), d.lgs. 42/2004 ammette l’autorizzazione paesaggistica postuma a condizione che “i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, … non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
L’autorizzazione paesaggistica costituisce uno dei presupposti per la conformità edilizio-urbanistica, il che rende non sostenibili gli assunti del ricorrente in ordine alla compatibilità delle diverse opere effettuate abusivamente (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2018 n. 3537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Fibre d’amianto - Operazioni di demolizione di un fabbricato - Ignoranza della presenza di amianto nei rifiuti - Obbligo supplementare di diligenza, monitoraggio e controllo - Artt. 256 e 259 d.Lgs. 152/2006 - SICUREZZA SUL LAVORO - Tutela della salute dei lavoratori - Accorgimento tecnico-preventivo - Art. 262, comma 2, d.Lgs. 81/2008.
Pur ipotizzandosi una ragionevole ignoranza della presenza di fibre d’amianto prima dell'inizio dei lavori di demolizione edilizie e relativo smaltimento dei rifiuti, deve ritenersi che, una volta avviati i lavori, il soggetto che vi abbia partecipato o che abbia diretto le operazioni sia in grado di rendersi conto del pericolo in corso e di gestire tali rifiuti secondo le prescrizioni di legge.
Pertanto, fuori da tali prescrizioni, per i lavori di demolizione di un manufatto con presenza di fibre d’amianto e rimozione dei rifiuti sono configurabile le fattispecie dei reati, di cui agli art. 256, comma 1, 2 e 5, d.Lgs. 152/2006 e 262, comma 2, d.Lgs. 81/2008, di trasporto non autorizzato di rifiuti pericolosi e omessa adozione delle misure preventive a tutela della salute dei lavoratori (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.05.2018 n. 23864 - link a
www.ambientediritto.it).

APPALTI: Suddivisione in lotti funzionali – Deroga – Adeguata motivazione.
Le stazioni appaltanti devono, ove possibile ed economicamente conveniente, suddividere gli appalti in lotti funzionali al fine di favorire l'accesso delle piccole e medie imprese; nella determina a contrarre, le P.A. medesime devono indicare la motivazione circa la mancata suddivisione dell'appalto in lotti.
Il principio della suddivisione in lotti può dunque essere derogato, seppur attraverso una decisione che deve essere adeguatamente motivata (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.09.2014, n. 4669) ed è espressione di scelta discrezionale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 16.03.2016, n. 1081), sindacabile soltanto nei limiti della ragionevolezza e proporzionalità, oltre che dell’adeguatezza dell’istruttoria (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 28.05.2018 n. 1202 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio ricorda che:
   a) atteso che, in base all'art. 11, comma primo, del t.u. edilizia, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere il rilascio di un titolo abilitativo edilizio si configura in capo non solo al proprietario del terreno, ma pure al soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo autorizzi a disporne al riguardo;
   b) v'è il contestuale onere della P.A. di accertare con serietà e rigore siffatta legittimazione a chiedere il titolo edilizio, dovendo pertanto la P.A. accertare che l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria.
Ciò premesso, al fine di dimostrare la proprietà del muro in questione, alcuna rilevanza può essere attribuita, come correttamente ritenuto dall’amministrazione procedente, alla dichiarazione sostitutiva di atto notorio presentata, ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. 28.12.2000, n. 445, dal ricorrente nel corso del procedimento dinanzi al Comune di Andria.
Al riguardo è costante la giurisprudenza del Consiglio di Stato nell’affermare l’inutilizzabilità della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà nell’ambito del processo amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione.
D’altro canto, “l'attitudine certificativa e probatoria della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà e delle autocertificazioni o auto dichiarazioni è limitata a specifici status o situazioni rilevanti in determinate attività o procedure amministrative e non vale a superare quanto attestato dall'amministrazione, sino a querela di falso, dall'esame obiettivo delle risultanze documentali”.

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6.1. L’appello è infondato e non può trovare accoglimento.
6.2.1. In primo luogo, deve essere respinta la censura attinente alla violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c. da parte del giudice di primo grado, in quanto l’accertamento della proprietà comunale del vicolo Battisti risulta essere funzionale all’accertamento della proprietà del suolo su cui sorge il muro e, conseguentemente, del muro stesso, oggetto del provvedimento impugnato.
6.2.2. Al riguardo, il Collegio ricorda che:
   a) atteso che, in base all'art. 11, comma primo, del t.u. edilizia, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere il rilascio di un titolo abilitativo edilizio si configura in capo non solo al proprietario del terreno, ma pure al soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo autorizzi a disporne al riguardo (cfr. Cons. St., sez. VI, 15.07.2010, n. 4557; id., sez. IV, 02.09.2011, n. 4968);
   b) v'è il contestuale onere della P.A. di accertare con serietà e rigore siffatta legittimazione a chiedere il titolo edilizio (arg. ex Cons. Stato, sez. IV, 07.09.2016, n. 3823), dovendo pertanto la P.A. accertare che l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (cfr. Cons. Stato, sez. V, 04.04.2012, n. 1990).
6.3. Ciò premesso, al fine di dimostrare la proprietà del muro in questione, alcuna rilevanza può essere attribuita, come correttamente ritenuto dall’amministrazione procedente, alla dichiarazione sostitutiva di atto notorio presentata, ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. 28.12.2000, n. 445, dal ricorrente nel corso del procedimento dinanzi al Comune di Andria.
Al riguardo è costante la giurisprudenza del Consiglio di Stato nell’affermare l’inutilizzabilità della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà nell’ambito del processo amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione (ex multis Cons. Stato, sez. IV, 07.08.2012, n. 4527; id., sez. VI, 08.05.2012, n. 2648; id., sez. IV, 03.08.2011, n. 4641; id., sez. IV, 03.05.2005, n. 2094; id., sez. IV, 29.04.2002, n. 2270).
D’altro canto, “l'attitudine certificativa e probatoria della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà e delle autocertificazioni o auto dichiarazioni è limitata a specifici status o situazioni rilevanti in determinate attività o procedure amministrative e non vale a superare quanto attestato dall'amministrazione, sino a querela di falso, dall'esame obiettivo delle risultanze documentali” (Cons. Stato, sez. V, 20.05.2008, n. 2352) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.05.2018 n. 3143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Ai fini dell’accertamento della proprietà pubblica giova la presunzione di appartenenza al demanio stradale comunale delle aree che sono in comunicazione diretta col suolo pubblico in modo da consentire l’accesso ad esse, ai sensi dell’art. 22 l. n. 2248/1865.
Da ciò consegue, in primo luogo, l’applicabilità al caso di specie dell’art. 881 c.c., che pone una presunzione di proprietà sui muri divisori in favore del proprietario del fondo verso il quale esiste lo spiovente ed in ragione dello spiovente medesimo.

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Deve essere ritenuta infondata, per carenza di prova, la censura volta ad affermare l’avvenuta sdemanializzazione tacita della citata porzione di suolo, risultando, per l’effetto, inusucapibile il bene medesimo.
Parte ricorrente, invero, non introduce sufficienti elementi dimostrativi della sussistenza di atti del Comune incompatibili con la volontà di conservare la destinazione della porzione di suolo ad uso pubblico, come del disuso prolungato da parte della collettività unitamente all’inerzia dell’amministrazione nella cura del bene.
Tale carenza probatoria, peraltro, va considerata alla luce della giurisprudenza limitativa sviluppatasi in materia, che, ponendosi in maniera critica verso il riconoscimento della generica ammissibilità della sdemanializzazione tacita, ritiene la stessa ravvisabile solo in presenza di atti e/o fatti che mostrino inequivocabilmente la volontà dell’amministrazione di sottrarre il bene medesimo a detta destinazione e di rinunciare definitivamente al suo ripristino, non potendosi ciò desumere dalla pura e semplice circostanza che il bene non sia più adibito, anche da lungo tempo, all’uso pubblico.
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6.4. Pertanto, ai fini dell’accertamento incidentale in ordine alla proprietà del muro oggetto del richiesto titolo edilizio, occorre considerare che il vicolo Cesare Battisti sul quale lo stesso insiste risulta essere pacificamente di proprietà comunale, in primo luogo non ravvisandosi nessuna contestazione al riguardo.
Peraltro, ai fini dell’accertamento della proprietà pubblica sul vicolo giova la presunzione di appartenenza al demanio stradale comunale delle aree che sono in comunicazione diretta col suolo pubblico in modo da consentire l’accesso ad esse, ai sensi dell’art. 22 l. n. 2248/1865, come per l’appunto avviene nel caso di specie, atteso il collegamento del vicolo Battisti con la strada comunale via Orsini. In senso opposto, del resto, non è stata addotta alcuna prova contraria, non potendo ritenersi sufficiente a tal fine, per le sopra esposte motivazioni, la dichiarazione sostitutiva di atto notorio.
6.5. Da ciò consegue, in primo luogo, l’applicabilità al caso di specie dell’art. 881 c.c., che pone una presunzione di proprietà sui muri divisori in favore del proprietario del fondo verso il quale esiste lo spiovente ed in ragione dello spiovente medesimo. Il muro in questione, per l’appunto, presenta una struttura, qualificabile come spiovente (sono presenti, in particolare, delle tegole sulla sommità del muro), che, senza dubbio, è rivolta verso l’esterno, ossia verso il citato vicolo Battisti.
Del resto, in senso contrario, a differenza di quanto sostenuto dall’appellante, non si riscontra alcuna disomogeneità tra le due entità prediali confinanti, dovendo essere entrambe qualificate alla stregua di cortili.
Invero, se con riferimento al cortile del privato ricorrente non sussistono dubbi in tal senso, il Collegio rileva che anche il vicolo C. Battisti possiede gli elementi per essere qualificato in questi termini. Il vicolo, infatti, per un estremo, risulta chiuso proprio dal muro divisorio, mentre, dalla parte opposta, sebbene collegato alla via Orsini, non risulta agevolmente transitabile, in quanto per accedere allo stesso da via Orsini è necessario scendere alcuni gradini.
In conclusione, il vicolo, essendo idoneo allo stazionamento pedonale e all’accesso pedonale alle altre proprietà private che da esso hanno ingresso, presenta chiaramente la natura di cortile e, di conseguenza, avendo carattere omogeneo al fondo privato presente al di là del muro, non pone ostacoli all’applicabilità del ridetto art. 881 c.c., in linea con la giurisprudenza in materia (Cass. Civ., sez. II, 10.03.2006, n. 5258; id., sez. II, 24.02.2000, n. 2102; id., sez. II, 24.12.1994, n. 11162; id., sez. II, 11.01.1989, n. 78).
6.6. Peraltro, ad ulteriore conferma della proprietà comunale sul muro, va considerato che dall’accertamento della proprietà comunale del suolo su cui è stato costruito il muro discende l’applicazione del principio dell’accessione di cui all’art. 934 c.c., secondo cui qualunque costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo.
6.7. In senso contrario, deve essere ritenuta infondata, per carenza di prova, la censura volta ad affermare l’avvenuta sdemanializzazione tacita della citata porzione di suolo, risultando, per l’effetto, inusucapibile il bene medesimo.
Parte ricorrente, invero, non introduce sufficienti elementi dimostrativi della sussistenza di atti del Comune incompatibili con la volontà di conservare la destinazione della porzione di suolo ad uso pubblico, come del disuso prolungato da parte della collettività unitamente all’inerzia dell’amministrazione nella cura del bene.
Tale carenza probatoria, peraltro, va considerata alla luce della giurisprudenza limitativa sviluppatasi in materia, che, ponendosi in maniera critica verso il riconoscimento della generica ammissibilità della sdemanializzazione tacita, ritiene la stessa ravvisabile solo in presenza di atti e/o fatti che mostrino inequivocabilmente la volontà dell’amministrazione di sottrarre il bene medesimo a detta destinazione e di rinunciare definitivamente al suo ripristino (Cons. Stato, sez. IV, 20.01.2015, n. 138), non potendosi ciò desumere dalla pura e semplice circostanza che il bene non sia più adibito, anche da lungo tempo, all’uso pubblico (Cass. Civ., sez. un., 29.05.2014, n. 12062).
7. Risulta infine destituito di fondamento anche l’autonomo motivo di appello con cui il ricorrente torna a censurare l’ordinanza impugnata in quanto non supportata dal necessario interesse pubblico al ripristino del muro.
Invero, in considerazione dell’accertata proprietà comunale del muro in questione, l’interesse pubblico al ripristino sotteso all’ordinanza comunale deve in effetti essere individuato proprio nella tutela delle proprietà comunali per consentire la loro adibizione all’uso della collettività (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.05.2018 n. 3143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il diritto di accesso agli atti in possesso della Pubblica Amministrazione viene disciplinato sia dall’art. 22 della L. 241/1990, sia, nella forma del c.d. accesso civico generalizzato, dall’art. 5, co. 2, del D.Lgs. n. 33/2013, come modificato dal D.Lgs. n. 97/2016 (decreto F.O.I.A.).
La nuova normativa non elimina, né rende privo di portata pratica l’accesso documentale o procedimentale, di cui all’art. 22 L. 241/1990, che è azionabile soltanto da chi abbia un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
Al contrario, il D.lgs. n. 97/2016 ha operato una considerevole estensione dei confini della trasparenza, intesa oggi come “accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”, come recita l’art. 1, co. 1, del D.Lgs. n. 33/2013.
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L'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza (art. 22, co. 2, L. 241/1990), con la conseguente introduzione del principio della massima ostensione dei documenti amministrativi, salve le limitazioni giustificate dalla necessità di contemperare il suddetto interesse con altri interessi meritevoli di tutela (cfr. il successivo co. 3) che, tuttavia, nel caso in esame non risultano ricorrere, non sussistendo dunque ostacoli all’ostensione documentale richiesta.
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La controversia de qua ha ad oggetto il diritto di accesso agli atti in possesso della Pubblica Amministrazione, il quale viene disciplinato sia dall’art. 22 della L. 241/1990, sia, nella forma del c.d. accesso civico generalizzato, dall’art. 5, co. 2, del D.Lgs. n. 33/2013, come modificato dal D.Lgs. n. 97/2016 (decreto F.O.I.A.).
La nuova normativa non elimina, né rende privo di portata pratica l’accesso documentale o procedimentale, di cui all’art. 22 L. 241/1990, che è azionabile soltanto da chi abbia un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
Al contrario, il D.lgs. n. 97/2016 ha operato una considerevole estensione dei confini della trasparenza, intesa oggi come “accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”, come recita l’art. 1, co. 1, del D.Lgs. n. 33/2013.
Nel caso di specie, la ricorrente ha presentato all’Amministrazione resistente istanza di accesso ex art. art. 5, co. 2, del D.Lgs. n. 33/2013, per la quale non è necessario pertanto motivare la sussistenza del citato “interesse diretto, concreto e attuale” richiesto invece dalla L. n. 241/1990.
Tuttavia, nonostante l’aspetto formale, l’istanza in questione appare, sotto un profilo sostanziale, più rispondente alle finalità e all’ambito applicativo di cui alla L. n. 241/1990 e ss.mm.ii.
Infatti, non v’è dubbio alcuno che la ricorrente sia titolare, nella specie, di un interesse diretto, concreto e attuale corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata ai documenti dei quali ha chiesto l’accesso (art. 22, comma 2, lettera b), l. n. 241/1990).
Peraltro, vale la regola per cui l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza (art. 22, co. 2, L. 241/1990), con la conseguente introduzione del principio della massima ostensione dei documenti amministrativi, salve le limitazioni giustificate dalla necessità di contemperare il suddetto interesse con altri interessi meritevoli di tutela (cfr. il successivo co. 3) che, tuttavia, nel caso in esame non risultano ricorrere, non sussistendo dunque ostacoli all’ostensione documentale richiesta.
Con riferimento, pertanto, agli invocati profili di inammissibilità per tardività dell’istanza, si osserva che, ai sensi dell’art. 22 della L. 241/1990, come sostituito dall’art. 15 della L. 15/2005: “il diritto di accesso è esercitabile fino a quando la pubblica amministrazione ha l’obbligo di detenere i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere” (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 24.05.2018 n. 752 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La nozione di  situazione giuridicamente rilevante  ex art. 22, l. n. 241 del 1990 comporta che la legittimazione all'accesso spetta a chiunque possa dimostrare che gli atti oggetto della domanda di ostensione abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, e ciò per l'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto, onde è a tali fini sufficiente un interesse personale e concreto, serio e non emulativo, riconducibile al soggetto in quanto titolare di una posizione soggettiva giuridicamente rilevante e qualificata dall'ordinamento come meritevole di tutela.
In coerenza con tale impostazione di fondo, è stata riconosciuta “la legittimazione all’accesso agli atti riguardanti l’attività svolta da altra impresa nel medesimo bacino d’utenza, giacché tanto consente di verificare l’eventuale sussistenza di irregolarità idonee a tradursi in un pregiudizio per la concorrenza”.
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Per quanto riguarda la richiesta di accesso civico ex art. 5 d.lgs. 33/2013, così come modificato dal d.lgs. 97/2016, è stato rilevato che <<il d.lgs. n. 97/2016 ha operato un’importante estensione dei confini della trasparenza, intesa oggi come “accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”, come recita l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013.
Inoltre, in forza del comma 3 dello stesso articolo, le disposizioni sulla trasparenza di cui al d.lgs. n. 33/2013 sono state espressamente qualificate come “livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche”, garantito, quindi, sull’intero territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., con conseguente vincolo di inderogabilità in pejus. Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso devono essere motivati con riferimento ai casi ed ai limiti stabiliti dall’articolo 5-bis.
Tale norma identifica, innanzitutto, i divieti ‘assoluti’ di accesso: l'accesso civico di cui all'articolo 5, comma 2, è rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici inerenti ai seguenti ambiti: a) la sicurezza pubblica e l'ordine pubblico; b) la sicurezza nazionale; c) la difesa e le questioni militari; d) le relazioni internazionali; e) la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato; f) la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento; g) il regolare svolgimento di attività ispettive.
Inoltre, l'accesso di cui all'articolo 5, comma 2, è altresì rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno dei seguenti interessi privati: a) la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia; b) la libertà e la segretezza della corrispondenza; c) gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali. 3. Il diritto di cui all'articolo 5, comma 2, è escluso nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'articolo 24, comma 1, della legge n. 241/1990.
In modo particolare, in questi ultimi casi relativi alla tutela di “interessi privati”, l’amministrazione non potrà respingere la domanda senza fornire un’adeguata motivazione al diniego (come invece nei casi di cui al comma 3: segreto di Stato e altri casi previsti dalla legge) ma dovrà compiere un ulteriore passaggio motivazionale, al fine di verificare se la richiesta ostensione potrebbe cagionare un pregiudizio concreto a quegli stessi interessi, che sono rilevanti ma pur sempre di natura privata. L’amministrazione, in tal caso, dovrà dimostrare che dall’accesso generalizzato deriva un pregiudizio concreto ossia che vi è un nesso di casualità tra l’accesso consentito e il pregiudizio>>.
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La ricorrente, esercente l’attività di commercio con automarket su posteggio nelle zone di Parco della Grottella e del Castello del Comune di Copertino, ha inviato al comune di Copertino numerose segnalazioni, denunce ed esposti, relative a violazioni della normativa applicabile in materia di commercio su aree pubbliche da parte di soggetti abitualmente sostanti in modo permanente, con paninoteche ambulanti, nelle vicinanze dei posteggi a lei assegnati.

Con istanza del 28.06.2017, la ricorrente ha chiesto al Comune di “conoscere lo stato della pratica, e il rilascio di copia di ogni singolo atto istruttorio e di verifica, la nomina del responsabile del procedimento, eventuali risposte e/o archiviazioni delle segnalazioni, ed eventuali provvedimenti sanzionatori e/o di contestazione applicati nei confronti di terzi, oppure i motivi della mancata attivazione dei procedimenti di verifica di quanto segnalato” con riferimento ad ogni singola segnalazione indicata nella domanda di accesso.
La ricorrente ha poi contestualmente formulato istanza per l’accesso agli atti ai sensi dell'art. 5, comma 2, d.lgs. 33/2013, come modificato dal d.lgs. 97/2016 (F.O.I.A.), relativamente a “- tutte le autorizzazioni e/o permessi e/o licenze rilasciati dal Comune di Copertino dal 2010 ad oggi per esercizio su posteggio e/o di commercio ambulante sul territorio Comunale e in particolare nella zona di Parco della Grottella e nella zona Castello. - Eventuali comunicazioni o richieste di intervento ovvero richieste di informativa effettuate dal Comune di Copertino al Comando di Polizia Municipale dalla data del 01.05.2016 sino alla data di protocollazione della presente; - Ordini di servizi disposti dall'Amministrazione, siano essi stati emessi dal Comune stesso ovvero dal Comando di Polizia Municipale aventi ad oggetto controlli sul territorio in materia di commercio ambulante, dal 01.05.2016 sino alla data di protocollazione della presente; - Esito di eventuali controlli effettuati per l'accertamento e la sanzione delle violazioni sempre nel periodo sopra richiamato ed in particolare in data 28.06.2016 presso il Parco della Grottella nei confronti dei mezzi ambulanti targanti ... e ...”.
Stante il silenzio serbato dall’amministrazione comunale, la ricorrente, con il presente ricorso, ha chiesto l’annullamento del provvedimento di diniego e l’accertamento della fondatezza della richiesta di accesso.
La ricorrente ha formulato i seguenti motivi: 1. Illegittimità del silenzio serbato sull’istanza di accesso agli atti ex artt. 22 e ss., l. 241/1990; specificità della richiesta di accesso; legittimazione attiva e sussistenza di un interesse qualificato in capo all’istante. 2. Violazione art. 3 della l. n. 241/1990; eccesso di potere, nonché violazione dei principi di trasparenza di cui al d.lgs. n. 33/2013 e di buon andamento ex art. 97 Cost..
Deduce la ricorrente: che l’istanza è dettagliata e specifica; che l’Amministrazione non poteva sottrarsi dal dare riscontro all’accesso agli atti, trattandosi di procedimenti avviati ad istanza di parte; che colui che esercita attività di commercio in una stessa zona ove opera un altro esercizio della stessa specie, trovandosi in un rapporto diretto con la struttura di vendita concorrente e ricevendo dalla stessa un pregiudizio, consistente nella distrazione di clientela, ha diritto a chiedere ed a ottenere dal Comune di verificare la regolarità delle autorizzazioni commerciali possedute dal concorrente; che l’obbligo di trasparenza di cui al d.lgs. n. 33 del 14.03.2013 va inteso come accessibilità totale ed immediata alle informazioni sull’organizzazione e sull’attività delle pubbliche amministrazioni allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche.
Con ordinanza n. 399/2018 il Collegio ha chiesto al Comune una documentata relazione sui fatti di causa.
Il Comune non ha dato alcun riscontro alla suddetta richiesta.
...
Nella fattispecie la ricorrente è titolare di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso” che, ai sensi dell'art. 22, l. n. 241/1990, la legittima alla presentazione dell’istanza di accesso e all’accoglimento della stessa.
È stato precisato dalla giurisprudenza, condivisa, che “la nozione di  situazione giuridicamente rilevante  ex art. 22, l. n. 241 del 1990 comporta che la legittimazione all'accesso spetta a chiunque possa dimostrare che gli atti oggetto della domanda di ostensione abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, e ciò per l'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto, onde è a tali fini sufficiente un interesse personale e concreto, serio e non emulativo, riconducibile al soggetto in quanto titolare di una posizione soggettiva giuridicamente rilevante e qualificata dall'ordinamento come meritevole di tutela” (Tar Trieste, Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 02.11.2012, n. 390)
In coerenza con tale impostazione di fondo, è stata riconosciuta “la legittimazione all’accesso agli atti riguardanti l’attività svolta da altra impresa nel medesimo bacino d’utenza, giacché tanto consente di verificare l’eventuale sussistenza di irregolarità idonee a tradursi in un pregiudizio per la concorrenza” (Tar Trieste, Friuli-Venezia Giulia, 390/2012, cit.).
Nel caso in esame, è indubbio che i documenti di cui si è chiesto l’accesso riguardano la posizione giuridica della ricorrente, proprio in quanto diretti alla tutela della propria autorizzazione al commercio anche con riferimento alla verifica della presenza o meno di una concorrenza sleale.
Per quanto riguarda la richiesta di accesso civico ex art. 5 d.lgs. 33/2013, così come modificato dal d.lgs. 97/2016, è stato rilevato che <<il d.lgs. n. 97/2016 ha operato un’importante estensione dei confini della trasparenza, intesa oggi come “accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”, come recita l’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013.
Inoltre, in forza del comma 3 dello stesso articolo, le disposizioni sulla trasparenza di cui al d.lgs. n. 33/2013 sono state espressamente qualificate come “livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche”, garantito, quindi, sull’intero territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., con conseguente vincolo di inderogabilità in pejus. Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso devono essere motivati con riferimento ai casi ed ai limiti stabiliti dall’articolo 5-bis.
Tale norma identifica, innanzitutto, i divieti ‘assoluti’ di accesso: l'accesso civico di cui all'articolo 5, comma 2, è rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici inerenti ai seguenti ambiti: a) la sicurezza pubblica e l'ordine pubblico; b) la sicurezza nazionale; c) la difesa e le questioni militari; d) le relazioni internazionali; e) la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato; f) la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento; g) il regolare svolgimento di attività ispettive.
Inoltre, l'accesso di cui all'articolo 5, comma 2, è altresì rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno dei seguenti interessi privati: a) la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia; b) la libertà e la segretezza della corrispondenza; c) gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali. 3. Il diritto di cui all'articolo 5, comma 2, è escluso nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'articolo 24, comma 1, della legge n. 241/1990.
In modo particolare, in questi ultimi casi relativi alla tutela di “interessi privati”, l’amministrazione non potrà respingere la domanda senza fornire un’adeguata motivazione al diniego (come invece nei casi di cui al comma 3: segreto di Stato e altri casi previsti dalla legge) ma dovrà compiere un ulteriore passaggio motivazionale, al fine di verificare se la richiesta ostensione potrebbe cagionare un pregiudizio concreto a quegli stessi interessi, che sono rilevanti ma pur sempre di natura privata. L’amministrazione, in tal caso, dovrà dimostrare che dall’accesso generalizzato deriva un pregiudizio concreto ossia che vi è un nesso di casualità tra l’accesso consentito e il pregiudizio
>> (Tar Lazio, sez. III-bis, 20.02.2018, n. 3453).
Posti questi principi, è da rilevare che il ricorrente ha diritto ad accedere ai dati e alle informazioni richiesti nei limiti della tutela di eventuali controinteressati.
L’amministrazione comunale dovrà dare comunicazione della richiesta di accesso agli eventuali controinteressati, e dovrà poi provvedere alla valutazione delle eventuali controdeduzioni di segno negativo dei medesimi controinteressati, da soppesare, in termini di sussistenza del pregiudizio, nel provvedimento finale quanto ad ampiezza dei dati e dei documenti da ostendere.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto sia per quanto riguarda l’accesso ex art. 22, l. 241/1990 sia per quanto riguarda l’accesso civico, quest’ultimo nelle modalità di cui in motivazione (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.05.2018 n. 839 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà “non costituisce elemento probatorio dirimente in ordine alla data di ultimazione dei lavori, dovendo essere supportata da ulteriori elementi, anche indiziari, purché altamente probanti”.
Più in dettaglio, le dichiarazioni sostitutive, rese dalla parte interessata o da terzi, non hanno alcun “valore” certificativo o probatorio nei confronti della pubblica amministrazione. Esse, inoltre, non sono utilizzabili nel processo amministrativo e non rivestono alcun effettivo valore probatorio in ambito processuale, potendo costituire eventualmente soltanto indizi, che comunque, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non risultano ex se idonei a scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione, ovvero le deduzioni con cui la stessa amministrazione rileva l’inattendibilità di quanto rappresentato dall’interessato.
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16.1.4 Neppure può darsi rilievo alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, sottoscritta da un privato cittadino, depositata agli atti del giudizio, che comproverebbe l’esistenza dell’immobile nel 1939.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, infatti, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà “non costituisce elemento probatorio dirimente in ordine alla data di ultimazione dei lavori, dovendo essere supportata da ulteriori elementi, anche indiziari, purché altamente probanti” (Cons. Stato, Sez. VI, 24.05.2016, n. 2179).
Più in dettaglio, le dichiarazioni sostitutive, rese dalla parte interessata o da terzi, non hanno alcun “valore” certificativo o probatorio nei confronti della pubblica amministrazione (Cons. Stato, Sez. IV, 29.05.2014, n. 2782). Esse, inoltre, non sono utilizzabili nel processo amministrativo e non rivestono alcun effettivo valore probatorio in ambito processuale, potendo costituire eventualmente soltanto indizi, che comunque, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non risultano ex se idonei a scalfire l’attività istruttoria dell’amministrazione, ovvero le deduzioni con cui la stessa amministrazione rileva l’inattendibilità di quanto rappresentato dall’interessato (in questo senso: Cons. Stato, Sez. VI, 27.07.2015, n. 3666; cfr. anche, ex multis: Cass. Civ., Sez. III, 28.04.2010 n. 10191; Cons. Stato, Sez. IV, n. 2782 del 2014, cit.; Id., 03.08.2011, n. 4641).
Peraltro, la suddetta dichiarazione è stata resa da una persona che, nel 1939, aveva solo sei anni, e che riferisce la presenza, in corrispondenza dell’attuale civico 80 di Via ..., di un capannone “adibito a mangiatoia dove c’erano le mucche”; manufatto rispetto al quale non è minimamente comprovata la continuità né rispetto al capannone di oltre 500 mq che, secondo quanto sostenuto nel ricorso, costituirebbe il nucleo originario dell’immobile, né –tanto meno– rispetto al prefabbricato di oltre 900 mq attualmente esistente e adibito a destinazione commerciale.
16.1.5 I ricorrenti producono, poi, ulteriore documentazione e, in particolare, cartografie risalenti ad anni dal 1946 al 1972 e un estratto del PRG previgente, evidenziando la presenza di un manufatto che sarebbe identificabile con il capannone originario.
Al riguardo, deve tuttavia rilevarsi che, anche a voler ritenere provata, sulla base di questi elaborati, la presenza di un fabbricato nell’area, e pure laddove fosse dimostrata la continuità di tale manufatto rispetto al capannone prefabbricato oggi esistente, non ne discenderebbe comunque la legittima realizzazione dell’opera.
La difesa dell’Amministrazione ha infatti correttamente evidenziato che l’articolo 1 del Regolamento edilizio in vigore nel Comune di Milano dal 01.08.1921 prescriveva, sull’intero territorio comunale, l’obbligo di denuncia delle opere edilizie, al fine del rilascio del nulla osta alla relativa esecuzione. Sin da allora non era, perciò, consentita la realizzazione di opere senza titolo.
Conseguentemente, la liceità del capannone presupporrebbe la prova della sua realizzazione in epoca anteriore al 01.08.1921: circostanza, questa, che non è stata neppure allegata dai ricorrenti.
16.1.6 In definitiva, deve ritenersi non censurabile il provvedimento impugnato, laddove riferisce il diniego di sanatoria e l’ordine di demolizione all’intero capannone, in quanto risultante in toto privo di titolo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, "è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria.
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico”.
La c.d. “doppia conformità” costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. “sanatoria giurisprudenziale” –consistente nel rilascio del titolo edilizio sulla base della sola conformità dell’opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente– finirebbe per dare luogo a “un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione”.
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza della regola posta dall’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 discende dall’esigenza, presa in considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico.
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Le risultanze catastali possono valere a documentare l’esistenza di un fabbricato in una certa epoca, ma non anche la sua legittima realizzazione senza titolo.
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L’istanza presentata al Comune ha ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire in parziale sanatoria.
Conseguentemente, la disciplina applicabile alla suddetta istanza non è quella relativa al rilascio dell’ordinario permesso di costruire, dettata dall’articolo 20 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dall’articolo 38 della legge regionale n. 12/2005, bensì quella dell’accertamento di conformità di cui all’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001. Previsione, quest’ultima, che interviene, peraltro, in un ambito sottratto alla legislazione regionale, in quanto è finalizzata alla sanatoria di opere abusive (cfr. C. cost. n. 232 del 2017).
Ciò posto, deve rilevarsi che il predetto articolo 36 stabilisce espressamente che “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”. E, al riguardo, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che la previsione normativa determina la formazione legale e automatica di un provvedimento di diniego una volta decorso il termine stabilito.
Nessun ritardo è, perciò, configurabile, atteso che la parte istante avrebbe potuto impugnare il provvedimento di diniego formatosi per silentium dopo sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza e che è stato poi superato dalla nuova determinazione negativa assunta espressamente dall’Amministrazione in esito all’istruttoria svolta.
In ogni caso, anche a volere –in ipotesi– ritenere applicabili le diverse norme procedimentali invocate dai ricorrenti, non sarebbe comunque ravvisabile un vizio del provvedimento a causa del mancato rispetto dei termini da essi allegati. E ciò in quanto, in base ai principi, “in assenza di una specifica disposizione che espressamente preveda il termine come perentorio, comminando la perdita della possibilità di azione da parte dell’Amministrazione al suo spirare o la specifica sanzione della decadenza, il termine stesso deve intendersi come meramente sollecitatorio o ordinatorio ed il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto, ma una semplice irregolarità non viziante”.
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16.3 Nessun rilievo può assumere, poi, ai fini del rilascio della sanatoria, la circostanza che l’opera sia conforme al PGT oggi in vigore.
16.3.1 Contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, deve infatti escludersi la possibilità che l’opera abusivamente realizzata possa essere sanata sulla base del solo riscontro della conformità agli strumenti urbanistici vigenti.
E invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria (Cons. St., Sez. V, 17.03.2014, n. 1324; Sez. V, 11.06.2013, n. 3235; Sez. V, 17.09.2012, n. 4914; Sez. V, 25.02.2009, n. 1126; Sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Infatti, solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico
.” (così Cons. Stato, Sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
La c.d. “doppia conformità” costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. “sanatoria giurisprudenziale” –consistente nel rilascio del titolo edilizio sulla base della sola conformità dell’opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente– finirebbe per dare luogo a “un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione” (Cons. Stato, Sez. VI, 18.07.2016, n. 3194).
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza della regola posta dall’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 discende dall’esigenza, presa in considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico (Cons. Stato, Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, e Id., n. 2755 del 2014, cit.).
16.3.2 Anche sotto questo profilo, le censure contenute nel terzo motivo di ricorso vanno, perciò, rigettate.
17. Con il quarto motivo, i ricorrenti affermano che la motivazione del provvedimento impugnato sarebbe inconferente, laddove afferma l’irrilevanza delle risultanze catastali al fine di provare la liceità dell’opera. E ciò in quanto i dati catastali non sarebbero stati invocati nell’istanza di permesso di costruire. Peraltro, tali dati, contrariamente a quanto ritenuto dall’Amministrazione, avrebbero comunque una propria rilevanza.
17.1 Al riguardo, deve anzitutto osservarsi che l’affermazione, contenuta nel provvedimento impugnato, secondo la quale “l’accatastamento del capannone non comprova la liceità dello stesso ai fini della regolarità urbanistica-edilizia”, fornisce riscontro, in realtà, a quanto allegato nelle osservazioni presentate nel procedimento amministrativo. Nella relativa memoria si era, infatti, sostenuta l’esistenza del capannone da tempo immemore, come sarebbe attestato anche da planimetrie reperite, tra l’altro “presso (...) il Catasto Edilizio Urbano”.
17.2 D’altro canto, l’affermazione del Comune deve ritenersi corretta, atteso che le risultanze catastali possono valere a documentare l’esistenza di un fabbricato in una certa epoca, ma non anche la sua legittima realizzazione senza titolo.
Nel caso di specie, per le ragioni sopra dette, la documentazione richiamata dai ricorrenti non permette di dimostrare la liceità dell’opera, atteso che non è comunque provata l’esistenza di alcun manufatto prima del 01.08.1921.
17.3 Il motivo va, perciò, rigettato.
18. Con il quinto motivo di impugnazione, i ricorrenti deducono la violazione del termine per provvedere, richiamando la disciplina del rilascio del permesso di costruire di cui all’articolo 38 della legge regionale n. 12 del 2005.
18.1 Al riguardo, deve anzitutto osservarsi che, nel caso oggetto del presente giudizio, il superamento del termine per provvedere è ontologicamente inconfigurabile.
L’istanza presentata al Comune, e che ha condotto all’emanazione del provvedimento impugnato, aveva, infatti, ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire in parziale sanatoria.
Conseguentemente, la disciplina applicabile alla suddetta istanza non è quella relativa al rilascio dell’ordinario permesso di costruire, dettata dall’articolo 20 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dall’articolo 38 della legge regionale n. 12 del 2005, bensì quella dell’accertamento di conformità di cui all’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001. Previsione, quest’ultima, che interviene, peraltro, in un ambito sottratto alla legislazione regionale, in quanto è finalizzata alla sanatoria di opere abusive (cfr. C. cost. n. 232 del 2017).
Ciò posto, deve rilevarsi che il predetto articolo 36 stabilisce espressamente che “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”. E, al riguardo, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che la previsione normativa determina la formazione legale e automatica di un provvedimento di diniego una volta decorso il termine stabilito (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2008, n. 2681).
Nessun ritardo è, perciò, configurabile, atteso che la parte istante avrebbe potuto impugnare il provvedimento di diniego formatosi per silentium dopo sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza e che è stato poi superato dalla nuova determinazione negativa assunta espressamente dall’Amministrazione in esito all’istruttoria svolta.
18.2 In ogni caso, deve pure tenersi presente che anche a volere –in ipotesi– ritenere applicabili le diverse norme procedimentali invocate dai ricorrenti, non sarebbe comunque ravvisabile un vizio del provvedimento a causa del mancato rispetto dei termini da essi allegati. E ciò in quanto, in base ai principi, “in assenza di una specifica disposizione che espressamente preveda il termine come perentorio, comminando la perdita della possibilità di azione da parte dell’Amministrazione al suo spirare o la specifica sanzione della decadenza, il termine stesso deve intendersi come meramente sollecitatorio o ordinatorio ed il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto, ma una semplice irregolarità non viziante” (Cons. Stato, Sez. VI, 27.02.2012, n. 1084) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La possibilità di risarcire il danno da ritardata conclusione del procedimento amministrativo presuppone, infatti, logicamente che un ritardo sia configurabile; evenienza, questa, che non si verifica in presenza di una fattispecie di silenzio c.d. significativo, quale quella riscontrabile nel caso oggetto del presente giudizio, secondo quanto sopra detto.
E’, perciò, esclusa in radice la risarcibilità del danno da ritardo ai sensi dell’articolo 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
D’altro canto, la circostanza che l’Amministrazione, anche dopo la formazione del silenzio-diniego, abbia ulteriormente approfondito l’istruttoria, pervenendo poi, a distanza di tempo, a determinarsi espressamente, non risulta essersi risolta in danno dei ricorrenti, secondo quanto da essi genericamente allegato, bensì –semmai– a loro vantaggio.
Deve, infatti, osservarsi che il lungo tempo che i ricorrenti lamentano essere trascorso tra il deposito della memoria partecipativa e l’adozione del provvedimento conclusivo ha consentito agli interessati di procrastinare la demolizione dell’opera abusiva e di continuare a trarne profitto.
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18.3 Anche il quinto e ultimo motivo di impugnazione va, perciò, rigettato.
19. I ricorrenti hanno domandato anche la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno, indicando i pregiudizi da essi subiti:
   (i) nella perdita dell’immobile a seguito della demolizione, in caso di rigetto della domanda cautelare;
   (ii) nel ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo.
19.1 Le prospettazioni dei ricorrenti sono, tuttavia, infondate sotto entrambi i profili.
19.2 Quanto al danno da perdita dell’immobile, a causa dell’esecuzione dell’ordinanza di demolizione, il Collegio rileva, anzitutto, che gli stessi ricorrenti hanno rinunciato alla domanda di sospensione del provvedimento impugnato e che, peraltro, non risulta agli atti del giudizio che il capannone sia stato poi demolito. Nessun pregiudizio risulta, perciò, riscontrabile sotto questo profilo.
In ogni caso, il rigetto della domanda di annullamento dell’ordinanza di demolizione comporta comunque, di per sé, l’inconfigurabilità di un danno ingiusto derivante dalla perdita del bene.
19.3 Per ciò che attiene, poi, all’allegato pregiudizio che i ricorrenti affermano di aver subito a causa del protrarsi del procedimento avviato su loro istanza, il Collegio ritiene di poter prescindere dall’eccezione di tardività sollevata dalla difesa comunale, stante l’infondatezza nel merito della domanda risarcitoria.
La possibilità di risarcire il danno da ritardata conclusione del procedimento amministrativo presuppone, infatti, logicamente che un ritardo sia configurabile; evenienza, questa, che non si verifica in presenza di una fattispecie di silenzio c.d. significativo, quale quella riscontrabile nel caso oggetto del presente giudizio, secondo quanto sopra detto. E’, perciò, esclusa in radice la risarcibilità del danno da ritardo ai sensi dell’articolo 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (Cons. Stato, Sez. IV, 29.09.2016, n. 4028).
D’altro canto, come correttamente rimarcato dalla difesa comunale, la circostanza che l’Amministrazione, anche dopo la formazione del silenzio-diniego, abbia ulteriormente approfondito l’istruttoria, pervenendo poi, a distanza di tempo, a determinarsi espressamente, non risulta essersi risolta in danno dei ricorrenti, secondo quanto da essi genericamente allegato, bensì –semmai– a loro vantaggio.
Deve, infatti, osservarsi che, secondo gli elementi agli atti del giudizio, il lungo tempo che i ricorrenti lamentano essere trascorso tra il deposito della memoria partecipativa e l’adozione del provvedimento conclusivo ha consentito agli interessati di procrastinare la demolizione dell’opera abusiva e di continuare a trarne profitto.
19.4 Da ciò il rigetto della domanda risarcitoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le conseguenze degli illeciti edilizi sono compiutamente disciplinate nel Titolo IV della Parte I del d.P.R. n. 380 del 2001.
E, in base alle previsioni ivi contenute, la commissione di tali illeciti comporta, tra l’altro, l’irrogazione di sanzioni amministrative, le quali –secondo i principi– hanno natura principalmente ripristinatoria dell’interesse pubblico leso, più che afflittiva nei confronti dei soggetti responsabili.
L’esigenza di riparazione del danno arrecato dall’opera abusiva all’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio è stata, perciò, già contemplata dalla normativa di fonte primaria, ove sono stabiliti specifici rimedi di carattere ripristinatorio, i quali, nella valutazione operata dal legislatore, esauriscono ogni profilo di rilevanza giuridica del danno arrecato all’interesse pubblico dall’opera abusiva.
Ne deriva che non è configurabile un danno ingiusto a carico del Comune a causa della permanenza nel tempo dell’opera abusiva, poiché tale permanenza costituisce una circostanza di mero fatto, dovuta ai tempi per l’esercizio del potere sanzionatorio, e atteso che, come detto, secondo la valutazione operata dal legislatore, il pregiudizio all’interesse pubblico derivante dall’opera abusiva deve intendersi ripristinato con l’irrogazione e l’esecuzione delle sanzioni previste dal d.P.R. n. 380 del 2001.

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La giurisprudenza ha ritenuto spettante alla giurisdizione esclusiva del G.A. la cognizione sui provvedimenti di recupero delle somme anticipate per la demolizione dell’abuso edilizio.
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20.3.2 Nel merito, la domanda non può, tuttavia, essere accolta.
Le conseguenze degli illeciti edilizi sono, infatti, compiutamente disciplinate nel Titolo IV della Parte I del d.P.R. n. 380 del 2001. E, in base alle previsioni ivi contenute, la commissione di tali illeciti comporta, tra l’altro, l’irrogazione di sanzioni amministrative, le quali –secondo i principi– hanno natura principalmente ripristinatoria dell’interesse pubblico leso, più che afflittiva nei confronti dei soggetti responsabili.
L’esigenza di riparazione del danno arrecato dall’opera abusiva all’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio è stata, perciò, già contemplata dalla normativa di fonte primaria, ove sono stabiliti specifici rimedi di carattere ripristinatorio, i quali, nella valutazione operata dal legislatore, esauriscono ogni profilo di rilevanza giuridica del danno arrecato all’interesse pubblico dall’opera abusiva.
Ne deriva che non è configurabile un danno ingiusto a carico del Comune a causa della permanenza nel tempo dell’opera abusiva, poiché tale permanenza costituisce una circostanza di mero fatto, dovuta ai tempi per l’esercizio del potere sanzionatorio, e atteso che, come detto, secondo la valutazione operata dal legislatore, il pregiudizio all’interesse pubblico derivante dall’opera abusiva deve intendersi ripristinato con l’irrogazione e l’esecuzione delle sanzioni previste dal d.P.R. n. 380 del 2001.
20.4 Anche la pretesa sub (b) rientra potenzialmente nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, atteso che la giurisprudenza ha ritenuto spettante a tale giurisdizione la cognizione sui provvedimenti di recupero delle somme anticipate per la demolizione dell’abuso edilizio (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, Sentenza 29.01.2014, n. 206; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 16.01.2012, n. 195).
La domanda è, tuttavia, infondata, in quanto l’opera non risulta essere stata demolita dall’Amministrazione, la quale non ha pertanto subito alcun danno, e considerato inoltre che la disciplina del d.P.R. n. 380 del 2001 non prevede l’anticipazione dei costi della demolizione da parte del privato responsabile, benché questi debba sopportare la relativa spesa.
Anche in questo caso, l’accoglimento della domanda comunale verrebbe a porsi, perciò, in contrasto con il carattere di tipicità e nominatività proprio delle sanzioni edilizie e –conseguentemente– non è configurabile un danno ingiusto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Affinché un’opera possa rientrare nel regime delle pertinenze in senso edilizio e/o urbanistico, essa deve assumere un rilievo oggettivamente marginale, tale da comportare una pressoché irrilevante alterazione dello stato dei luoghi.
Per giurisprudenza consolidata:
   - “la qualifica di pertinenza urbanistico-edilizia è applicabile soltanto a opere di modestissima entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici e simili, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
(…) a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini urbanistico-edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato a una esigenza oggettiva dell'edificio principale ed è inserito funzionalmente al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul <carico urbanistico> mediante la creazione di un <nuovo volume>”;
   - “… salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come una tettoia, che ne alteri la sagoma”.
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Con riguardo al I motivo d’impugnazione, mirato a demolire la prima ragione del diniego, il Collegio condivide e fa proprio quanto ripetutamente affermato dal Consiglio di Stato (tra le più recenti cfr. sez. VI, 09.03.2018, n. 1518; id., 17.05.2017, n. 2348) ovvero che “affinché un’opera possa rientrare nel regime delle pertinenze in senso edilizio e/o urbanistico, essa deve assumere un rilievo oggettivamente marginale, tale da comportare una pressoché irrilevante alterazione dello stato dei luoghi” (cfr. Sez. VI, 13.03.2017, n. 1155; id., 16.02.2017, n. 694).
Per giurisprudenza consolidata (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. Sez. VI, 02.02.2017, n. 694; id., 04.01.2016, n. 19; id., 11.03.2014, n. 3952; Sez. V, n. 817 del 2013; Sez. IV, n. 615 del 2012):
   - “la qualifica di pertinenza urbanistico-edilizia è applicabile soltanto a opere di modestissima entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici e simili, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
(…) a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini urbanistico-edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato a una esigenza oggettiva dell'edificio principale ed è inserito funzionalmente al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul <carico urbanistico> mediante la creazione di un <nuovo volume> (Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n. 615, cit.)
” (Cons. Stato n. 1518/2018 cit.).
   - “… salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come una tettoia, che ne alteri la sagoma” (Cons. Stato n. 2348/2017 cit.).
In giurisprudenza, che il Collegio condivide e fa propria, è stata anche esclusa la natura pertinenziale di un bene non coessenziale a un bene principale, suscettibile di successiva utilizzazione anche in modo autonomo e separato e privo di collegamento ad una esigenza effettiva oggettiva dell’edificio cui accede (Tar Campania, Napoli, sez. IV, 16.01.2017, n. 357 - fattispecie riguardante una tettoia in ferro e lamiere termoisolanti di 40 mq realizzata in assenza di titolo edilizio) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 21.05.2018 n. 164 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel giudizio amministrativo l’interesse a ricorrere è caratterizzato dalla presenza degli stessi requisiti che caratterizzano l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., vale a dire la prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e l’effettiva utilità che potrebbe derivare a quest’ultimo dall’eventuale annullamento dell’atto impugnato, così che il ricorso deve essere considerato inammissibile per carenza di interesse in tutte le ipotesi in cui l’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo non sia in grado di arrecare alcun vantaggio all’interesse sostanziale del ricorrente.
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7. Occorre premettere che nel giudizio amministrativo l’interesse a ricorrere è caratterizzato dalla presenza degli stessi requisiti che caratterizzano l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., vale a dire la prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e l’effettiva utilità che potrebbe derivare a quest’ultimo dall’eventuale annullamento dell’atto impugnato, così che il ricorso deve essere considerato inammissibile per carenza di interesse in tutte le ipotesi in cui l’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo non sia in grado di arrecare alcun vantaggio all’interesse sostanziale del ricorrente (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 05.02.2018, n. 707; TAR Lazio, Roma, sez. I-quater, 13.04.2018, n. 4089) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 17.05.2018 n. 537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sono inammissibili per carenza d’interesse le censure concernenti la disciplina urbanistica di aree estranee a quelle di proprietà del ricorrente, giacché le prescrizioni dello strumento urbanistico vanno considerate scindibili ai fini del loro eventuale annullamento in sede giurisdizionale, rimanendo peraltro salva la possibilità di proporre impugnativa ove la nuova destinazione di zona, pur concernendo un’area non appartenente al ricorrente, incide direttamente su interessi propri e specifici dello stesso.
Ed infatti, costituisce ius receptum il principio in base al quale nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti, il semplice rapporto di vicinitas, se dimostra al più la sussistenza di una generica legittimazione, non è però sufficiente a fondare anche l’interesse a ricorrere, occorrendo l’allegazione e la prova di uno specifico e concreto pregiudizio a carico dei suoli in proprietà della parte ricorrente per effetto degli atti di pianificazione impugnati (dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi direttamente).
Tale pregiudizio non può risolversi nel generico pregiudizio all’ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell’ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione e che, oltre tutto, porrebbe l’ulteriore problema di individuare il limite al di là del quale non si sia più in presenza di una lesione specifica e differenziata, ma di un pregiudizio assimilabile a quello che qualsiasi cittadino potrebbe lamentare.
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Affinché si possa contestare in giudizio la disciplina urbanistica di aree estranee a quelle di proprietà del ricorrente è necessario che la nuova destinazione urbanistica (per l’appunto concernente un’area non appartenente al ricorrente) incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato dell'area viciniore o comunque su interessi propri e specifici del medesimo esponente, dovendo di tanto l'interessato fornire se non una rigorosa dimostrazione, almeno idonei principi di prova.
Detto diversamente, occorre che il ricorrente medesimo alleghi in maniera specifica i pregiudizi subiti o temuti, onde evitare che l’impugnativa finisca per fondarsi sulla generica lesione all'ordinato assetto del territorio da parte di un qualunque soggetto residente nel territorio in questione.
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Ove venga impugnata la prescrizione contenuta in un piano urbanistico, qualora nelle more del giudizio tale strumento sia interamente sostituito da un altro piano, non vi è più interesse a discutere sul precedente strumento, anche laddove il nuovo abbia riprodotto la prescrizione impugnata.
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8. Orbene, alla stregua dell’indirizzo giurisprudenziale consolidato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 04.12.2017, n. 5674; Cons. Stato, sez. IV, 12.05.2014, n. 2403; Cons. Stato, sez. IV, 24.12.2007, n. 6619), sono inammissibili per carenza d’interesse le censure concernenti la disciplina urbanistica di aree estranee a quelle di proprietà del ricorrente, giacché le prescrizioni dello strumento urbanistico vanno considerate scindibili ai fini del loro eventuale annullamento in sede giurisdizionale, rimanendo peraltro salva la possibilità di proporre impugnativa ove la nuova destinazione di zona, pur concernendo un’area non appartenente al ricorrente, incide direttamente su interessi propri e specifici dello stesso.
Ed infatti, costituisce ius receptum (cfr. TAR Umbria, sez. I, 10.04.2018, n. 222) il principio in base al quale nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti, il semplice rapporto di vicinitas, se dimostra al più la sussistenza di una generica legittimazione, non è però sufficiente a fondare anche l’interesse a ricorrere, occorrendo l’allegazione e la prova di uno specifico e concreto pregiudizio a carico dei suoli in proprietà della parte ricorrente per effetto degli atti di pianificazione impugnati (dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi direttamente). Tale pregiudizio non può risolversi nel generico pregiudizio all’ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell’ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione (cfr. cit. Cons. Stato, sez. IV, 12.05.2014, n. 2403; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 22.01.2018, n. 175; TAR Toscana, sez. I, 19.09.2016, n. 1368) e che, oltre tutto, porrebbe l’ulteriore problema di individuare il limite al di là del quale non si sia più in presenza di una lesione specifica e differenziata, ma di un pregiudizio assimilabile a quello che qualsiasi cittadino potrebbe lamentare (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.12.2013, n. 6082; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 13.03.2015, n. 75).
Ritiene il Collegio di dover ulteriormente precisare che affinché si possa contestare in giudizio la disciplina urbanistica di aree estranee a quelle di proprietà del ricorrente è necessario che la nuova destinazione urbanistica (per l’appunto concernente un’area non appartenente al ricorrente) incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato dell'area viciniore o comunque su interessi propri e specifici del medesimo esponente, dovendo di tanto l'interessato fornire se non una rigorosa dimostrazione, almeno idonei principi di prova (Cons. Stato, sez. IV, 15.11.2011, n. 6016; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 28.03.2018, n. 1961); detto diversamente, occorre che il ricorrente medesimo alleghi in maniera specifica i pregiudizi subiti o temuti, onde evitare che l’impugnativa finisca per fondarsi sulla generica lesione all'ordinato assetto del territorio da parte di un qualunque soggetto residente nel territorio in questione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.02.2016, n. 719; Cons. Stato, sez. IV, 09.07.2015, n. 3432; Cons. Stato, sez. IV, 16.07.2015, n. 3579; TAR Toscana, sez. I, 06.09.2016, n. 1315).
Si deve ribadire, a questo punto, che il ricorrente -proprietario di un immobile di civile abitazione con giardino circostante, adiacente all’area interessata dalla variante, di proprietà del Sig. Ta.- si è limitato ad affermare che gli atti in epigrafe sono illegittimi e lesivi dei suoi interessi <<ad un corretto ed equilibrato uso del territorio>> (pag. 6 del ricorso); tanto, alla luce del richiamato indirizzo giurisprudenziale -dal quale il Collegio non intende decampare– in accoglimento dell’eccezione formulata dalla difesa di parte resistente (pag. 2 della memoria difensiva depositata in data 06.04.2018), fa sì che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile.
Il Collegio ritiene di dover precisare che, in difetto della ragione di inammissibilità per originaria carenza di interesse, il ricorso sarebbe stato dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, atteso che –come eccepito anche in questo caso dalla difesa di parte resistente– essendosi dotato il Comune di Noventa Vicentina di nuovi strumenti urbanistici avrebbe comunque dovuto farsi applicazione del consolidato orientamento interpretativo secondo cui ove venga impugnata la prescrizione contenuta in un piano urbanistico, qualora nelle more del giudizio tale strumento sia interamente sostituito da un altro piano, non vi è più interesse a discutere sul precedente strumento, anche laddove il nuovo abbia riprodotto la prescrizione impugnata (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 24.02.2004, n. 731; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 21.02.2017, n. 434) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 17.05.2018 n. 537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come noto, sotto il profilo della disciplina edilizia, una volta che un’opera sia realizzata per soddisfare esigenze che non hanno carattere transitorio, non hanno alcuna incidenza le caratteristiche costruttive e la sua maggiore o minore amovibilità.
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Sotto il profilo paesaggistico non qualsiasi tipo di intervento è inderogabilmente assoggettato al previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Nel caso all’esame risulta condivisibile -in ragione della lieve entità dell’intervento che consiste nell’apposizione delle lastre di pietra su una strada preesistente per pochi metri quadri con un irrilevante impatto sull’ambiente dato che la strada mantiene la funzione e destinazione che aveva in precedenza senza che vi sia stata una trasformazione dei luoghi- la sua qualificazione come intervento di manutenzione straordinaria eseguito per conto del Comune e come tale inidoneo ad alterare lo stato dei luoghi, e pertanto non necessitante dell’autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 149, comma 1, lett. a), del Dlgs. 22.01.2004, n. 42.
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Considerato:
   - che con il ricorso in epigrafe il ricorrente impugna il provvedimento del Comune di San Vito di Cadore prot. n. 10 del 21.12.2017, con il quale è stato diffidato, ai sensi dell’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, a demolire le opere abusive realizzate sul suolo demaniale adiacente all’edificio di sua proprietà;
   - che tali opere consistono nell’apposizione di alcune lastre di pietra che formano in adiacenza all’immobile un’esigua pavimentazione della strada già esistente e non asfaltata, e nella realizzazione di un pozzetto di scolo delle acque meteoriche (le tre pavimentazioni a forma triangolare sono poste in corrispondenza di tre rientranze dell’immobile, ed hanno una superficie di 2,6; 2,23; 4, 2 mq);
   - che il provvedimento è motivato con riferimento alla mancanza di un titolo edilizio e dell’autorizzazione paesaggistica, necessaria perché tutto il territorio comunale è sottoposto a vincolo paesaggistico;
   - che in fatto il ricorrente, a sostegno delle proprie deduzioni, allega la nota prot. n. 421/14 del 23.06.2000, con la quale il Comune, constatato che la posa delle lastre non impedisce il passaggio sulla strada e che è idonea ad ovviare ai problemi igienici riscontrati a causa della difficoltà a provvedere alla pulizia del fondo stradale in terra battuta, ha espressamente autorizzato l’intervento;
   - che quanto alla realizzazione del pozzetto di scolo il ricorrente allega la nota prot. 5187/10 del 24.07.2006, con la quale il Comune afferma di prendere atto delle opere realizzate proponendosi di regolarizzare l’intervento in modo espresso;
   - che con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, il travisamento e la carenza di istruttoria, in quanto il Comune non ha valutato di aver esso stesso autorizzato le opere e che difettano pertanto i presupposti per l’applicazione dell’ordine di ripristino di cui al citato art. 35, trattandosi di interventi di manutenzione straordinaria realizzati sul suolo pubblico per conto dell’Amministrazione comunale;
   - che il Comune sul punto replica che gli interventi non possono essere qualificati come eseguiti per suo conto in quanto finalizzati a salvaguardare l’edificio del ricorrente da possibili infiltrazioni, e comunque sono da rimuovere perché eseguiti senza il previo rilascio di un’autorizzazione paesaggistica;
   - che con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, il travisamento e la carenza di istruttoria, in quanto, quand’anche si volessero qualificare le opere come private, difetterebbero i presupposti dell’abusività delle stesse perché sono state autorizzate espressamente dal Comune;
   - che il Comune replica che l’autorizzazione dallo stesso rilasciata riguardava la posa di lastre in pietra non fissate al terreno, mentre quelle realizzate sono fissate, e per questo profilo, oltre che per la realizzazione della caditoia e del relativo pozzetto delle acque meteoriche, manca un titolo abilitativo e permane quindi la condizione di abusività;
   - che con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 149 del Dlgs. 22.01.2004, n. 42, perché trattandosi della parziale pavimentazione di una limitata porzione di una strada preesistente si tratta di un intervento di straordinaria manutenzione che non altera lo stato dei luoghi e l’aspetto degli edifici;
   - che il Comune replica affermando che tutte le opere realizzate ex novo devono ritenersi assoggettate all’obbligo del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica;
   - che la Soprintendenza si è costituita in giudizio rilevando la sua estraneità alla controversia;
   - che alla Camera di consiglio del 12.04.2018, fissata per l’esame della domanda cautelare, avvisate le parti della possibile definizione della controversia con sentenza resa in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm., la causa è stata trattenuta in decisione;
   - che il ricorso è fondato e deve essere accolto per tutti i motivi dedotti;
   - che infatti è comprovato che le opere sono state realizzate dal ricorrente con l’esplicito assenso del Comune;
   - che, in particolare, ciò risulta dalla nota prot. n. n. 421/14 del 23.06.2000, per quanto riguarda la pavimentazione e, contrariamente a quanto afferma il Comune, è irrilevante la circostanza che con la stessa fosse stata autorizzata la mera posa delle lastre in luogo della loro infissione;
   - che infatti, come noto, sotto il profilo della disciplina edilizia, una volta che un’opera sia realizzata per soddisfare esigenze che non hanno carattere transitorio, non hanno alcuna incidenza le caratteristiche costruttive e la sua maggiore o minore amovibilità (cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 30.06.2017 n. 1463);
   - che, per quanto riguarda il pozzetto di scolo, l’opera risulta parimenti autorizzata come emerge dalla nota prot. 5187/10 del 24.07.2006, che è stata resa in risposta alla richiesta formulata dal ricorrente con nota del 19.07.2006 (cfr. doc. 14 allegato alle difese del Comune) nella quale si faceva esplicito riferimento alla circostanza che il Comune per realizzare il pozzetto ha fornito il materiale (i tombini e i cordoli) e che il ricorrente chiedeva la formale regolarizzazione dell’intervento di regimazione delle acque di scolo, senza che sul punto il Comune, a fronte di tali richieste, avesse alcunché da obiettare;
   - che pertanto sotto il profilo edilizio difettano i presupposti per l’applicazione dell’ordine di rimozione emesso ai sensi dell’art. 35 del DPR 06.06.2001, n. 380, che richiede che le opere siano realizzate in assenza di titolo abilitativo che invece nel caso all’esame risulta rilasciato;
   - che sotto il profilo paesaggistico non qualsiasi tipo di intervento è inderogabilmente assoggettato al previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica;
   - che nel caso all’esame risulta condivisibile -in ragione della lieve entità dell’intervento che consiste nell’apposizione delle lastre di pietra su una strada preesistente per pochi metri quadri con un irrilevante impatto sull’ambiente dato che la strada mantiene la funzione e destinazione che aveva in precedenza senza che vi sia stata una trasformazione dei luoghi- la sua qualificazione come intervento di manutenzione straordinaria eseguito per conto del Comune e come tale inidoneo ad alterare lo stato dei luoghi, e pertanto non necessitante dell’autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 149, comma 1, lett. a), del Dlgs. 22.01.2004, n. 42;
   - che in definitiva pertanto il ricorso deve essere accolto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.05.2018 n. 525 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Qualificazione giuridica dell’intervento e rispetto delle norme sulle distanze.
La qualificazione giuridica dell’intervento non sempre è decisiva per stabilire quando si imponga il rispetto delle norme sulle distanze, in quanto ciò che appare rilevante è piuttosto il grado di innovatività della nuova opera rispetto alla precedente, dovendo ammettersi una deroga allorquando si tratti di interventi che comportino il recupero di un bene esistente già collocato a distanza inferiore a quella legale.
Soltanto se l’intervento, in ragione dell’entità delle modifiche apportate al fabbricato, renda l’opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente, è necessario il rispetto delle distanze di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, trattandosi di prescrizioni volte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, che potrebbero venire irrimediabilmente compromesse dalla creazione di malsane intercapedini
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3. Con la terza doglianza si deduce l’illegittimità del provvedimento di autotutela comunale nella parte in cui ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, in quanto non sarebbe stata rispettata la distanza di 10 m tra l’edificio oggetto di intervento di recupero del sottotetto e l’edificio frontistante, trattandosi di edifici realizzati ante 1968 e ricadenti nel nucleo di antica formazione, per i quali la citata norma prevede delle deroghe in tema di distanze, laddove si realizzino interventi di ristrutturazione edilizia.
3.1. La doglianza è fondata.
In sede di verificazione –similmente a quanto evidenziato dagli Uffici comunali (cfr. all. 3 al ricorso)– è stato appurato che la distanza tra i fabbricati risulta essere pari al massimo a 9,12 m, se considerata con riferimento ai parametri murari dei due fronti prospicienti, oppure al livello minimo di 8,03 m, se calcolata prendendo a riferimento altri elementi (cfr. pagg. 7 e 8 della Relazione del verificatore).
Tuttavia, trattandosi di un intervento di recupero del sottotetto e soprattutto avendo riguardo alla zona in cui sono situati gli immobili, già posti inizialmente ad una distanza inferiore ai 10 m, non è stata dimostrata l’avvenuta realizzazione di un manufatto sensibilmente difforme rispetto ai suoi caratteri originari, non apparendo rilevante ai fini di cui al presente contenzioso una qualsiasi, seppur minima, modificazione dell’immobile che non superi la soglia di apprezzabilità.
Difatti, secondo la giurisprudenza della Sezione, la qualificazione giuridica dell’intervento non sempre è decisiva per stabilire quando si imponga il rispetto delle norme sulle distanze, in quanto ciò che appare rilevante è piuttosto il grado di innovatività della nuova opera rispetto alla precedente, dovendo ammettersi una deroga allorquando si tratti di interventi che comportino il recupero di un bene esistente già collocato a distanza inferiore a quella legale.
Soltanto se l’intervento, in ragione dell’entità delle modifiche apportate al fabbricato, renda l’opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente, è necessario il rispetto delle distanze di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, trattandosi di prescrizioni volte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, che potrebbero venire irrimediabilmente compromesse dalla creazione di malsane intercapedini (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 14.03.2017, n. 646; 05.12.2016, n. 2301).
Ne deriva che la mancata evidenziazione del grado di innovatività della nuova opera, come risultante dall’intervento edilizio intrapreso dal ricorrente, rende illegittimo il provvedimento comunale anche nella parte in cui ha eccepito il mancato rispetto delle distanze tra le pareti finestrate di edifici frontistanti.
3.2. Ciò determina l’accoglimento anche della predetta censura (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.05.2018 n. 1243 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Recupero sottotetti in Lombardia.
Per giurisprudenza costante di questo Tribunale, nel consentire modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde “[...] unicamente al fine di assicurare i parametri di cui all’articolo 63, comma 6” (cioè l’altezza media ponderale di metri 2,40), l’art. 64, comma 1, della legge regionale n. 12/2005 ammette evidentemente l’incremento delle altezze nei soli limiti strettamente funzionali ad assicurare le condizioni minime di salubrità agli spazi (resi) abitativi, sicché l’altezza media di 2,40 metri deve ritenersi ad un tempo altezza minima (per l’abitabilità degli spazi) e altezza massima (se comporta l’innalzamento delle linee di colmo e di gronda del tetto).
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1. Il ricorso è fondato nei sensi di seguito specificati.
2. Si può prescindere dallo scrutinio della prima censura di ricorso e si può passare direttamente all’esame della seconda doglianza con cui si assume il difetto di istruttoria atteso che le misure eccedenti, rilevate nel corso del sopralluogo, ossia un’altezza media ponderale superiore a 2,40 m, si riferirebbero ad una fase in cui i lavori erano ancora in corso e quando non erano stata ancora posate le finiture interne, quali pavimenti e travi; inoltre, le violazioni rilevate avrebbero dovuto indurre l’Amministrazione ad adottare un provvedimento sanzionatorio per parziale difformità e non a stabilire l’annullamento del titolo edilizio; sarebbe altresì illegittimo considerare l’altezza di 2,40 m quale limite massimo per il recupero dei sottotetti e non solo alla stregua di un limite minimo.
2.1. La doglianza è fondata nei sensi dei seguito specificati.
Va premesso che, ai sensi dell’art. 63, comma 6, della legge regionale n. 12 del 2005 “il recupero abitativo dei sottotetti è consentito purché sia assicurata per ogni singola unità immobiliare l’altezza media ponderale di metri 2,40, ulteriormente ridotta a metri 2,10 per i comuni posti a quote superiori a seicento metri di altitudine sul livello del mare, calcolata dividendo il volume della parte di sottotetto la cui altezza superi metri 1,50 per la superficie relativa”.
Il successivo art. 64, comma 1, stabilisce che “gli interventi edilizi finalizzati al recupero volumetrico dei sottotetti possono comportare l’apertura di finestre, lucernari, abbaini e terrazzi per assicurare l’osservanza dei requisiti di aeroilluminazione e per garantire il benessere degli abitanti, nonché, per gli edifici di altezza pari o inferiore al limite di altezza massima posto dallo strumento urbanistico, modificazioni di altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde, unicamente al fine di assicurare i parametri di cui all’articolo 63, comma 6”.
Per giurisprudenza costante di questo Tribunale, nel consentire modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde “[...] unicamente al fine di assicurare i parametri di cui all’articolo 63, comma 6” (cioè l’altezza media ponderale di metri 2,40), l’art. 64, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005 ammette evidentemente l’incremento delle altezze nei soli limiti strettamente funzionali ad assicurare le condizioni minime di salubrità agli spazi (resi) abitativi, sicché l’altezza media di 2,40 metri deve ritenersi ad un tempo altezza minima (per l’abitabilità degli spazi) e altezza massima (se comporta l’innalzamento delle linee di colmo e di gronda del tetto) [cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 19.03.2014, n. 714; 05.07.2011, n. 1763; 29.10.2009, n. 4941].
2.2. Tuttavia nella fattispecie de qua le difformità rilevate in sede di sopralluogo in ordine all’altezza interna del piano sottotetto –ossia da un minimo di 2,82 (o 2,81) m ad un massimo di 3,00 m– si riferiscono ad una fase in cui i lavori non risultavano ancora ultimati, non essendo nemmeno state posate le finiture interne, ossia il pavimento e le travi.
Le predette difformità infatti sono state rilevate anche in sede di verificazione (cfr. Relazione depositata, par. 4 e 5, pagg. 6 e ss.), però in misura diversa e sensibilmente inferiore –da un’altezza minima di 2,64 m ad una massima di 2,82 m– rispetto a quelle risultanti dal sopralluogo comunale del 10 aprile 2014 (all. 5 del Comune); il verificatore ha poi precisato che, trattandosi di accertamenti effettuati su una struttura al rustico non ancora completata, non si può con certezza stabilire quali saranno le misure finali, ma se ne può solo ipotizzarne l’entità (Relazione depositata, par. 6).
Da quanto evidenziato in precedenza discende che soltanto alla conclusione dei lavori sarà possibile stabilire, senza alcun residuo dubbio, l’avvenuto rispetto delle misure previste nel progetto e, in caso di loro violazione, assumere i conseguenti provvedimenti, che però devono riferirsi non al progetto, non contestato nella sua legittimità, ma ai lavori eseguiti in difformità totale o parziale, secondo le previsioni di cui agli artt. 31 e ss. del D.P.R. n. 380 del 2001.
2.3. Ciò determina l’accoglimento della seconda censura di ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.05.2018 n. 1243 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le differenze che connotano il soppalco, il pergolato e la tettoia.
Il soppalco, ovvero lo spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito come nella specie, un’abitazione, interponendovi un solaio, è soggetto ad una disciplina edilizia che non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, il soppalco richiede infatti il permesso di costruire quando sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, con incremento delle relative superfici dell'immobile e in prospettiva del carico urbanistico: così per tutte C.d.S. 03.09.2014 n. 4468.
Il soppalco che non sia tale da incrementare la superficie utile dell’immobile, e in particolare quello che non sia suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno a sé stante rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto.
Applicando il principio appena delineato al caso di specie, risulta immediato affermare che il soppalco realizzato dalla ricorrente appellante rientra fra quelli che richiedono il permesso di costruire.
Esso infatti si compone di uno spazio nel quale è stata realizzata una piccola stanza da bagno, e quindi, per definizione, uno spazio fruibile dalle persone: di conseguenza, il carico urbanistico risulta incrementato, con necessità di ottenere il titolo edilizio in questione.
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Con riferimento specifico al pergolato, la Sezione ha avuto già modo di affermare che lo stesso è una struttura realizzata al fine di adornare e ombreggiare giardini o terrazze, costituita un'impalcatura formata da montanti verticali ed elementi orizzontali che li connettono ad una altezza tale da consentire il passaggio delle persone.
Di norma quindi il pergolato, come struttura aperta su tre lati e nella parte superiore, non richiede alcun titolo edilizio. Di contro, il pergolato stesso, quando sia coperto superiormente, anche in parte, con una struttura non facilmente amovibile, diventa una tettoia, ed è soggetto alla disciplina relativa.
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La disciplina della tettoia non è definita in modo univoco né nella normativa né in giurisprudenza.
Dal punto di vista normativo, va considerato anzitutto l’art. 6 del T.U. 06.06.2001 n. 380, che contiene l’elenco delle opere di cd edilizia libera, le quali non necessitano di alcun titolo abilitativo; a prescindere dalla natura esemplificativa o tassativa che si voglia riconoscere a tale elenco, va poi osservato che esso comprende voci di per sé abbastanza generiche, tali da poter ricomprendere anche opere non espressamente nominate.
Con riferimento alle tettoie, rileva in particolare la voce di cui all’art. 6, comma 1, lettera e)-quinquies, che considera opere di edilizia libera gli “elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”, concetto nel quale può sicuramente rientrare una tettoia genericamente intesa, come copertura comunque realizzata di un’area pertinenziale, come il terrazzo.
La norma è stata introdotta dall’art. 3 del d.lgs. 25.11.2016 n. 222, ma si deve considerare applicabile anche alle costruzioni precedenti, come quella per cui è causa, per due ragioni.
In primo luogo, nel diritto delle sanzioni è principio generale e notorio, e come tale non richiede puntuali citazioni, che non si possano subire conseguenze sfavorevoli per un comportamento in ipotesi illecito nel momento in cui è stato realizzato, che più non lo sia quando si tratti di applicare le sanzioni stesse.
In secondo luogo, la giurisprudenza di cui subito si dirà, anche in epoca anteriore alla modifica legislativa di cui s’è detto, distingueva all’interno della categoria in esame costruzione da costruzione assoggettandola a regime diverso a seconda delle sue caratteristiche.
In materia, è poi intervenuto di recente un chiarimento da parte del legislatore, ovvero il recente D.M. 02.03.2018, pubblicato nella G.U. 07.04.2018 n. 81, di “Approvazione del glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del citato d.lgs. 222/2016.
A sua volta, la norma dell’art. 1, comma 2, prevede che “Con riferimento alla materia edilizia, al fine di garantire omogeneità di regime giuridico in tutto il territorio nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, è adottato un glossario unico, che contiene l'elenco delle principali opere edilizie, con l'individuazione della categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del conseguente regime giuridico a cui sono sottoposte, ai sensi della tabella A di cui all'articolo 2 del presente decreto”.
Il decreto ministeriale attuativo di cui s’è detto comprende, al n. 50 del glossario delle opere realizzabili senza titolo edilizio alcuno, in particolare le cd pergotende, ovvero, per comune esperienza, strutture di copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche non modesta, formate da montanti ed elementi orizzontali di raccordo e sormontate da una copertura fissa o ripiegabile formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando la fruibilità della struttura. Si tratta quindi di un manufatto molto simile alla tettoia, che se ne distingue secondo logica solo per presentare una struttura più leggera.
Al polo opposto, v’è l’art. 10, comma 1, lettera a), del T.U. 380/2001, che assoggetta invece al titolo edilizio maggiore, ovvero al permesso di costruire, “gli interventi di nuova costruzione”. Come subito si vedrà, la giurisprudenza si fonda su tale norma per richiedere appunto il permesso di costruire nel caso di tettoie di particolari dimensioni e caratteristiche.
Si afferma infatti in via generale che tale struttura costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il permesso di costruire nel momento in cui difetta dei requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi precari, ovvero quando modifica la sagoma dell’edificio.
Da tutto ciò, emerge chiara una conseguenza: non è possibile affermare in assoluto che la tettoia richiede, o non richiede, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o non assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare nello specifico come essa è realizzata.
In proposito, quindi, l’amministrazione ha l’onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e completa istruttoria che rilevi esattamente le opere compiute e spieghi per quale ragione esse superano i limiti entro i quali si può trattare di una copertura realizzabile in regime di edilizia libera.
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... per la riforma della sentenza del TAR Sardegna, sezione II, 23.09.2011 n. 952, resa fra le parti, che ha respinto il ricorso n. 75/2010 R.G. proposto per l’annullamento dell’ordinanza 07.10.2009 n. 31, notificata il giorno 05.11.2009, con la quale il Funzionario delegato del Comune di Olbia ha ingiunto la demolizione in quanto abusive di opere realizzate sull’immobile situato in frazione di Porto Rotondo, località Punta Nuraghe, su terreno distinto al catasto al foglio 2, mappale 1056, sub 5, e costituite da un soppalco di 3 metri per 3 metri con annesso servizio igienico di 2,30 per 1,15 metri circa e nella trasformazione di un lastrico solare di circa 16 mq in veranda coperta mediante copertura installata al posto della pergola autorizzata;
...
Con l’ordinanza meglio indicata in epigrafe, il Comune intimato appellato ha ingiunto alla ricorrente appellante di demolire in quanto abusive due opere realizzate nell’abitazione di sua proprietà che si trova a Porto Rotondo, località Punta Nuraghe, su terreno distinto al catasto al foglio 2, mappale 1056, sub 5; si tratta in particolare della costruzione di un soppalco di 3 metri per 3 metri con annesso un bagno di 2,30 per 1,15 metri circa e della trasformazione di un lastrico solare di circa 16 mq in veranda mediante una copertura installata al posto della pergola che invece era stata autorizzata, il tutto costruito senza titolo in zona sottoposta a vincolo paesistico come da D.M. 30.11.1965 e 11.01.1968 (doc. 7 in I grado ricorrente appellante, ordinanza citata).
Con la sentenza meglio indicata in epigrafe, il TAR ha respinto il ricorso proposto contro tale ordinanza; in motivazione, ha ritenuto in sintesi che il soppalco in questione abbia realizzato un aumento della superficie utile dell’appartamento, e quindi del carico urbanistico, dato che ospita un bagno ed un posto letto, e che quindi esso necessitasse di permesso di costruire; ha ancora ritenuto che la veranda, costituita da una struttura in legno coperta da una guaina impermeabile, fosse difforme dalla pergola coperta di canne che invece era stata assentita.
Contro tale sentenza, l’interessata ha proposto impugnazione, con appello che contiene un unico motivo, secondo logica di violazione dell’art. 31 del T.U. 06.06.2001 n. 380, in cui sostiene che gli interventi in questione richiederebbero, al più, un titolo edilizio minore come la segnalazione certificata di inizio attività – SCIA, e in sua mancanza sarebbero passibili di sole sanzioni pecuniarie.
...
1. L’appello è parzialmente fondato, nei termini di quanto subito si dirà.
2. L’ordinanza impugnata in primo grado si riferisce a due distinte opere, ovvero alla realizzazione senza titolo di un soppalco interno all’abitazione della ricorrente appellante e alla trasformazione in veranda di un manufatto assentito come pergola esterna coperta di incannicciato.
Le opere in questione, di natura all’evidenza diversa, vanno considerate separatamente.
3. Con riferimento al soppalco, vale quanto già affermato in via generale dalla Sezione in particolare nella sentenza 02.03.2017 n. 985, che si cita per tutte.
3.1 Il soppalco, ovvero lo spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito come nella specie, un’abitazione, interponendovi un solaio, è soggetto ad una disciplina edilizia che non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, il soppalco richiede infatti il permesso di costruire quando sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, con incremento delle relative superfici dell'immobile e in prospettiva del carico urbanistico: così per tutte C.d.S. 03.09.2014 n. 4468.
Il soppalco che non sia tale da incrementare la superficie utile dell’immobile, e in particolare quello che non sia suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno a sé stante rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto.
3.2 Applicando il principio appena delineato al caso di specie, risulta immediato affermare che, come già ritenuto dal Giudice di primo grado, il soppalco realizzato dalla ricorrente appellante rientra fra quelli che richiedono il permesso di costruire.
Esso infatti si compone di uno spazio nel quale è stata realizzata una piccola stanza da bagno, e quindi, per definizione, uno spazio fruibile dalle persone: di conseguenza, il carico urbanistico risulta incrementato, con necessità di ottenere il titolo edilizio in questione.
4. Considerazioni diverse vanno svolte a proposito della veranda asseritamente realizzata mediante trasformazione del pergolato già assentito.
4.1 Con riferimento specifico al pergolato, la Sezione ha avuto già modo di affermare che lo stesso è una struttura realizzata al fine di adornare e ombreggiare giardini o terrazze, costituita un'impalcatura formata da montanti verticali ed elementi orizzontali che li connettono ad una altezza tale da consentire il passaggio delle persone.
Di norma quindi il pergolato, come struttura aperta su tre lati e nella parte superiore, non richiede alcun titolo edilizio. Di contro, il pergolato stesso, quando sia coperto superiormente, anche in parte, con una struttura non facilmente amovibile, diventa una tettoia, ed è soggetto alla disciplina relativa: così C.d.S. sez. VI 25.01.2017 n. 306.
5. La disciplina della tettoia, peraltro, non è definita in modo univoco né nella normativa né in giurisprudenza.
5.1 Dal punto di vista normativo, va considerato anzitutto l’art. 6 del T.U. 06.06.2001 n.380, che contiene l’elenco delle opere di cd edilizia libera, le quali non necessitano di alcun titolo abilitativo; a prescindere dalla natura esemplificativa o tassativa che si voglia riconoscere a tale elenco, va poi osservato che esso comprende voci di per sé abbastanza generiche, tali da poter ricomprendere anche opere non espressamente nominate.
Con riferimento alle tettoie, rileva in particolare la voce di cui all’art. 6, comma 1, lettera e)-quinquies, che considera opere di edilizia libera gli “elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”, concetto nel quale può sicuramente rientrare una tettoia genericamente intesa, come copertura comunque realizzata di un’area pertinenziale, come il terrazzo.
La norma è stata introdotta dall’art. 3 del d.lgs. 25.11.2016 n. 222, ma si deve considerare applicabile anche alle costruzioni precedenti, come quella per cui è causa, per due ragioni.
In primo luogo, nel diritto delle sanzioni è principio generale e notorio, e come tale non richiede puntuali citazioni, che non si possano subire conseguenze sfavorevoli per un comportamento in ipotesi illecito nel momento in cui è stato realizzato, che più non lo sia quando si tratti di applicare le sanzioni stesse.
In secondo luogo, la giurisprudenza di cui subito si dirà, anche in epoca anteriore alla modifica legislativa di cui s’è detto, distingueva all’interno della categoria in esame costruzione da costruzione assoggettandola a regime diverso a seconda delle sue caratteristiche.
5.2 In materia, è poi intervenuto di recente un chiarimento da parte del legislatore, ovvero il recente D.M. 02.03.2018, pubblicato nella G.U. 07.04.2018 n. 81, di “Approvazione del glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del citato d.lgs. 222/2016.
A sua volta, la norma dell’art. 1, comma 2, prevede che “Con riferimento alla materia edilizia, al fine di garantire omogeneità di regime giuridico in tutto il territorio nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, è adottato un glossario unico, che contiene l'elenco delle principali opere edilizie, con l'individuazione della categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del conseguente regime giuridico a cui sono sottoposte, ai sensi della tabella A di cui all'articolo 2 del presente decreto”.
Il decreto ministeriale attuativo di cui s’è detto comprende, al n. 50 del glossario delle opere realizzabili senza titolo edilizio alcuno, in particolare le cd pergotende, ovvero, per comune esperienza, strutture di copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche non modesta, formate da montanti ed elementi orizzontali di raccordo e sormontate da una copertura fissa o ripiegabile formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando la fruibilità della struttura. Si tratta quindi di un manufatto molto simile alla tettoia, che se ne distingue secondo logica solo per presentare una struttura più leggera.
5.3 Al polo opposto, v’è l’art. 10, comma 1, lettera a), del T.U. 380/2001, che assoggetta invece al titolo edilizio maggiore, ovvero al permesso di costruire, “gli interventi di nuova costruzione”. Come subito si vedrà, la giurisprudenza si fonda su tale norma per richiedere appunto il permesso di costruire nel caso di tettoie di particolari dimensioni e caratteristiche.
Si afferma infatti in via generale che tale struttura costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il permesso di costruire nel momento in cui difetta dei requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi precari, ovvero quando modifica la sagoma dell’edificio: fra le molte, C.d.S. sez. IV 08.01.2018 n. 12 e sez. VI 16.02.2017 n. 694.
6. Da tutto ciò, emerge chiara una conseguenza: non è possibile affermare in assoluto che la tettoia richiede, o non richiede, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o non assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare nello specifico come essa è realizzata.
In proposito, quindi, l’amministrazione ha l’onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e completa istruttoria che rilevi esattamente le opere compiute e spieghi per quale ragione esse superano i limiti entro i quali si può trattare di una copertura realizzabile in regime di edilizia libera.
7. Tutto ciò non si ritrova nel provvedimento impugnato, che come detto in narrativa si limita ad una descrizione generica di quanto rilevato; esso va allora annullato nella parte corrispondente indicata in dispositivo, con salvezza com’è ovvio di eventuali successivi provvedimenti dell’amministrazione, conseguenti a un congruo riesame della fattispecie concreta (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.05.2018 n. 2701 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Autorizzazione paesaggistica postuma - Condono ambientale - Valutazione della compatibilità paesaggistica - Ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi - Artt. 146, 167, e 181 d.lgs. n. 42/2004.
L'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto agli altri titoli edilizi legittimanti l'intervento edilizio e, al di fuori dei casi previsti dall'art. 167, commi 4 e 5, d.lgs. n. 42 del 2004, non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42/2004; Cons. Stato, Sez. 6, n. 5327 del 24/11/2015), mentre estingue il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, solo se espressamente rilasciata all'esito della speciale procedura di cui all'art. 181, comma 1-quater, stesso decreto e non ha equipollenti.
Va ricordato che, con la legge n. 308 del 2014, sono state apportate modifiche all'art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, ed è stata prevista tra l'altro, la possibilità di una valutazione postuma della compatibilità paesaggistica di alcuni interventi definibili come "minori", all'esito della quale, pur mantenendo ferma l'applicazione delle misure amministrative pecuniarie previste dall'art. 167, non si applicano le sanzioni penali stabilite per il reato contravvenzionale contemplato dall'art. 181, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004.
In ogni caso, il rilascio del provvedimento di compatibilità paesaggistica non determina automaticamente la non punibilità dei predetti reati, in quanto compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti l'applicazione del cosiddetto condono ambientale e, comunque, può avere ad oggetto le sole opere già in origine assentibili perché compatibili con il paesaggio, sì che lo stesso non può essere condizionato all'esecuzione di determinati interventi (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.05.2018 n. 19151 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Concessione edilizia in sanatoria rilasciata a seguito di accertamento di conformità - Effetti sui reati urbanistici ma non i reati paesaggistici - Art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
La concessione rilasciata a seguito di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti dal d.lgs. 22.01.2004, n. 42, che sono soggetti ad una disciplina difforme e differenziata (Sez. 3, n. 40375 del 09/09/2015, P.M. in proc. Casalanguida) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.05.2018 n. 19151 - link a
www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nelle ipotesi di impugnazione delle ordinanze adottate dal sindaco ex art. 54 T.u.e.l., adottato con d.lgs. 18.08.2000 n. 267, sussiste non solo la legittimazione passiva in capo al Comune, ma anche il difetto di legittimazione passiva di altre amministrazioni statali nelle stesse ipotesi, atteso che l'imputazione giuridica allo Stato degli effetti dell'atto dell'organo del Comune ha una natura meramente formale, nel senso che non per questo il Sindaco diventa organo di un' amministrazione dello Stato, ma resta incardinato nel complesso organizzativo dell'ente locale, senza che il suo status sia modificato.
Il Ministero dell’Interno deve pertanto essere estromesso dal giudizio per difetto di legittimazione passiva.

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Con il termine ordinanza si richiamano quei provvedimenti autoritativi che impongono o vietano o regolano. Essi esprimono un comando più articolato rispetto al semplice ordine poiché le ordinanze conseguono ad un processo valutativo. Esse, in altri termini, sono caratterizzate da ampia discrezionalità.
Le ordinanze sindacali contingibili e urgenti costituiscono attuazione concreta di un potere extra ordinem attribuito al Sindaco quale rappresentante della comunità locale per far fronte ai casi di emergenza sanitaria o igienica a carattere esclusivamente locale (art. 50, comma 5, TUEL) ovvero quale ufficiale del Governo al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minaccino l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana (art. 54, comma 4, TUEL).
Nell'ambito del “genere” ordinanza si usa distinguere le ordinanze di necessità e le ordinanze di necessità e di urgenza. Nel primo caso, si tratta di atti tipici, predeterminati nel loro contenuto e negli altri elementi essenziali, nel secondo caso, invece, il contenuto delle ordinanze non è predeterminato. Ciò non significa che esso sia del tutto libero.
I contenuti dell’ordinanza contingibile e urgente sono conformati in astratto dal fine per cui è attribuito il relativo potere. In concreto, si devono conformare alla situazione di necessità cui si deve far fronte.
Quindi l'ordinanza deve essere coerente nei contenuti con il suo specifico presupposto oggettivo.
Questo significa che solo nei casi in cui l'ordinamento non abbia disciplinato altro possibile strumento adatto alla situazione concreta, è possibile ricorrere all'ordinanza di necessità e di urgenza.
Si tratta di una soluzione eccezionale e residuale.
In presenza di norme che attribuiscono poteri idonei a regolare la situazione concreta l'amministrazione non può ricorrere a poteri extra ordinem.
Caratteristiche essenziali delle ordinanze sono, in definitiva, l'atipicità e l'indeterminatezza.
Si tratta di caratteristiche funzionali all'elasticità dei possibili contenuti ed è la ragione per cui l'adozione di questi atti deve essere circoscritta a casi eccezionali rigorosamente definiti dai presupposti della contingibilità e dell'urgenza.
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Il potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili e urgenti ha natura residuale.
Il suo esercizio presuppone la necessità di provvedere in via d'urgenza con strumenti extra ordinem per far fronte a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, cui non si può provvedere con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento; i provvedimenti in parola sono perciò connotati da provvisorietà e temporaneità quanto agli effetti e da proporzionalità rispetto al pericolo cui ovviare.
E' pertanto illegittimo adottare ordinanze contingibili e urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia "urgenza" di provvedere, cioè l'assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile a tutela della pubblica incolumità.
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Va anzitutto esaminata l’eccezione sollevata dal Ministero dell’Interno che afferma il proprio difetto di legittimazione passiva.
L’eccezione è fondata.
Nelle ipotesi di impugnazione delle ordinanze adottate dal sindaco ex art. 54 T.u.e.l., adottato con d.lgs. 18.08.2000 n. 267, sussiste non solo la legittimazione passiva in capo al Comune, ma anche il difetto di legittimazione passiva di altre amministrazioni statali nelle stesse ipotesi, atteso che l'imputazione giuridica allo Stato degli effetti dell'atto dell'organo del Comune ha una natura meramente formale, nel senso che non per questo il Sindaco diventa organo di un' amministrazione dello Stato, ma resta incardinato nel complesso organizzativo dell'ente locale, senza che il suo status sia modificato (Consiglio di Stato, sez. IV, 29.04.2014, n. 2221, Tar Sardegna, sez. I, 03.11.2017, n. 679).
Il Ministero dell’Interno deve pertanto essere estromesso dal giudizio per difetto di legittimazione passiva.
Nel merito il ricorso è fondato.
Occorre svolgere alcune considerazioni di carattere generale.
Con il termine ordinanza si richiamano quei provvedimenti autoritativi che impongono o vietano o regolano. Essi esprimono un comando più articolato rispetto al semplice ordine poiché le ordinanze conseguono ad un processo valutativo. Esse, in altri termini, sono caratterizzate da ampia discrezionalità.
Le ordinanze sindacali contingibili e urgenti costituiscono attuazione concreta di un potere extra ordinem attribuito al Sindaco quale rappresentante della comunità locale per far fronte ai casi di emergenza sanitaria o igienica a carattere esclusivamente locale (art. 50, comma 5, TUEL) ovvero quale ufficiale del Governo al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minaccino l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana (art. 54, comma 4, TUEL).
Nell'ambito del “genere” ordinanza si usa distinguere le ordinanze di necessità e le ordinanze di necessità e di urgenza. Nel primo caso, si tratta di atti tipici, predeterminati nel loro contenuto e negli altri elementi essenziali, nel secondo caso, invece, il contenuto delle ordinanze non è predeterminato. Ciò non significa che esso sia del tutto libero.
I contenuti dell’ordinanza contingibile e urgente sono conformati in astratto dal fine per cui è attribuito il relativo potere. In concreto, si devono conformare alla situazione di necessità cui si deve far fronte.
Quindi l'ordinanza deve essere coerente nei contenuti con il suo specifico presupposto oggettivo.
Questo significa che solo nei casi in cui l'ordinamento non abbia disciplinato altro possibile strumento adatto alla situazione concreta, è possibile ricorrere all'ordinanza di necessità e di urgenza.
Si tratta di una soluzione eccezionale e residuale.
In presenza di norme che attribuiscono poteri idonei a regolare la situazione concreta l'amministrazione non può ricorrere a poteri extra ordinem.
Caratteristiche essenziali delle ordinanze sono, in definitiva, l'atipicità e l'indeterminatezza.
Si tratta di caratteristiche funzionali all'elasticità dei possibili contenuti ed è la ragione per cui l'adozione di questi atti deve essere circoscritta a casi eccezionali rigorosamente definiti dai presupposti della contingibilità e dell'urgenza.
Occorre domandarsi quindi quali siano i presupposti, in concreto, per adottare un’ordinanza contingibile e urgente.
Essi sono individuati da una giurisprudenza ormai del tutto pacifica che il Collegio ha già richiamato nell’esame della domanda cautelare.
E’ qui sufficiente ribadire che il potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili e urgenti ha natura residuale; il suo esercizio presuppone la necessità di provvedere in via d'urgenza con strumenti extra ordinem per far fronte a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibile di pericolo attuale ed imminente per l'incolumità pubblica, cui non si può provvedere con gli strumenti ordinari apprestati dall'ordinamento; i provvedimenti in parola sono perciò connotati da provvisorietà e temporaneità quanto agli effetti e da proporzionalità rispetto al pericolo cui ovviare; è pertanto illegittimo adottare ordinanze contingibili e urgenti per fronteggiare situazioni prevedibili e permanenti o quando non vi sia "urgenza" di provvedere, cioè l'assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile a tutela della pubblica incolumità (ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 14/11/2017, n. 5239).
Nessuno di questi presupposti sussiste nel caso che qui occupa il Collegio.
E’ sufficiente precisare, dopo un esame degli atti di causa che:
   1) la necessità di garantire il libero transito all’arenile al fine di favorire il servizio di salvamento a mare e il ritiro dei rifiuti e l’accesso dei mezzi di soccorso medico, antincendio e di protezione civile è nota all’amministrazione da lunghissimo tempo;
   2) la ricorrente ha ripetutamente comunicato la disponibilità (si veda per esempio la nota del 19.07.2017, documento 18 produzioni dell’amministrazione) “a consentire l’agevole accesso all’arenile ed a concordare le modalità che possano garantire pienamente l’interesse pubblico alla sicurezza della balneazione”;
   3) il provvedimento adottato dal Sindaco è palesemente privo del requisito della temporaneità.
La difesa dell’amministrazione afferma che il provvedimento emanato dall’Amministrazione comunale di Ga. è da inquadrarsi (anche) nel novero delle ordinanze ex art. 378 L 2248/1865 All. F, utilizzabili dalla P.A. in esplicazione del potere di autotutela possessoria e, per altro verso, di quelli derivanti dalle norme di cui agli articoli 822 e ss. del codice civile, per ripristinare lo stato dei luoghi onde consentire il libero transito sulle vie di proprietà e/o di uso pubblico (memoria depositata il 19.02.2018).
Ma anche così configurato il provvedimento sarebbe illegittimo.
Questa Sezione ha recentemente chiarito quali sono i presupposti per l’adozione di un atto quale quello che il Comune assume di avere adottato (Tar Sardegna, sez. I, 03.11.2017, n. 679).
Ma tali presupposti non sussistono dato che la situazione in questo caso è del tutto particolare.
Il privato non ha interrotto alcun uso pubblico dei beni che da tempo sono nella disponibilità di Ba. di Ga. s.p.a. che, per inciso, ha ampiamente argomentato in ordine alla sussistenza del proprio titolo legittimante.
Quale che sia, quindi, la natura del provvedimento che il Sindaco ha adottato, esso resta illegittimo.
Difettano i presupposti per la sua adozione sia che lo si inquadri come ordinanza contingibile e urgente sia che lo si inquadri, come da ultimo classificato dalla difesa del Comune, come atto di autotutela possessoria.
Il Comune quindi, per risolvere le problematiche segnalate, dovrà utilizzare (per tempo) gli ordinari strumenti previsti dall’ordinamento.
Il ricorso è, in definitiva, fondato e deve essere accolto (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 04.05.2018 n. 406 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va evidenziata l’illegittimità del diniego di sanatoria, siccome carente sia della formale comunicazione dei motivi ostativi sia di adeguato riscontro alle osservazioni che l’interessato avrebbe ben potuto presentare.
Occorre premettere, al riguardo, che un’applicazione corretta dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 esige, non solo che l’Amministrazione enunci compiutamente nel preavviso di provvedimento negativo le ragioni che intende assumere a fondamento del diniego, ma anche che le integri, nella determinazione conclusiva (ovviamente, se ancora negativa), con le argomentazioni finalizzate a confutare la fondatezza delle osservazioni formulate dall’interessato nell’ambito del contraddittorio predecisorio attivato dall’adempimento procedurale in questione.
Infatti, solo il modus procedendi appena descritto permette che la disposizione di riferimento assolva la sua funzione di consentire un effettivo ed utile confronto dialettico con l’interessato prima della formalizzazione dell’atto negativo, evitando che si traduca in un inutile e sterile adempimento formale (peraltro neppure rispettato nel caso di specie).
In linea generale va ribadito che, a seguito delle modifiche introdotte dalla l. 11.02.2005 n. 15, l'istituto del preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 -introdotto dall'art. 6 della prima legge menzionata- stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui al citato art. 10-bis in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda.
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Considerato in diritto che:
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   - nel merito, l’appello appare prima facie fondato sotto l’assorbente profilo della violazione delle garanzie procedimentali;
   - va evidenziata l’illegittimità del diniego di sanatoria, siccome carente sia della formale comunicazione dei motivi ostativi sia di adeguato riscontro alle osservazioni che l’interessato avrebbe ben potuto presentare;
   - occorre premettere, al riguardo, che un’applicazione corretta dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 esige, non solo che l’Amministrazione enunci compiutamente nel preavviso di provvedimento negativo le ragioni che intende assumere a fondamento del diniego, ma anche che le integri, nella determinazione conclusiva (ovviamente, se ancora negativa), con le argomentazioni finalizzate a confutare la fondatezza delle osservazioni formulate dall’interessato nell’ambito del contraddittorio predecisorio attivato dall’adempimento procedurale in questione (Cons. St., sez. I, 25.03.2015, n. 80);
   - infatti, solo il modus procedendi appena descritto permette che la disposizione di riferimento assolva la sua funzione di consentire un effettivo ed utile confronto dialettico con l’interessato prima della formalizzazione dell’atto negativo, evitando che si traduca in un inutile e sterile adempimento formale (peraltro neppure rispettato nel caso di specie);
   - in linea generale va ribadito che, a seguito delle modifiche introdotte dalla l. 11.02.2005 n. 15, l'istituto del preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 -introdotto dall'art. 6 della prima legge menzionata- stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui al citato art. 10 bis in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda;
   - nel caso di specie, contrariamente a quanto desumibile dalla sentenza appellata, non è applicabile la sanatoria processuale, sia per la generale natura discrezionale del potere edilizio in oggetto sia, in termini dirimenti, per la mancanza della necessaria eccezione processuale della difesa di parte pubblica;
   - peraltro, emerge una evidente contraddittorietà della sentenza appellata laddove ha concluso nel senso che la partecipazione non avrebbe potuto incidere sul contenuto sostanziale del provvedimento, a fronte della carenza di elementi istruttori ricavabili dall’attività amministrativa confluita nel provvedimento impugnato, come all’evidenza dimostrato dal fatto che lo stesso Tar ha ritenuto necessario svolgere uno specifico accertamento istruttorio, disponendo una apposita consulenza tecnica d’ufficio;
   - se appare in generale necessario garantire il preliminare esame degli elementi istruttori prodotti da parte originaria istante nell’ambito della naturale sede procedimentale, ciò occorre a maggior ragione nel caso di specie laddove lo stesso Comune aveva evidenziato, come da nota datata 16.07.2008, l’avvenuta esecuzione della pregressa ordinanza sanzionatoria, in termini direttamente contraddittori rispetto al successivo diniego qui in contestazione;
   - alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, va accolto il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato Sez. V, sentenza 02.05.2018 n. 2615 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 15, comma 2, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori.
Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita tranne che, anteriormente alla scadenza, sia stata richiesta una proroga e l'effetto decadenziale si riconnette al mero dato fattuale del mancato avvio dei lavori entro il termine annuale fissato dalla legge.
In altri termini la decadenza del permesso di costruire costituisce effetto automatico del trascorrere del tempo, che per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo abilitativo e la pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha carattere strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga), e natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione.
Decadenza che opera di diritto, con la conseguenza che non è richiesta l'adozione di un provvedimento amministrativo espresso.
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Secondo giurisprudenza consolidata e condivisibile l'onere della prova del mancato inizio dei lavori assentiti con licenza edilizia ovvero con permesso a costruire, incombe sul Comune che ne dichiara la decadenza alla stregua del principio generale in forza del quale i presupposti dell'atto adottato devono essere accertati dall'autorità emanante.
Sempre secondo gli insegnamenti più recenti e condivisibili della giurisprudenza, l'inizio dei lavori, ai sensi dell'art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 -norma sostanzialmente conforme al citato art. 60 l.r. 11/9- deve intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati sul posto.
Pertanto i lavori debbono ritenersi «iniziati» quando consistono nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio per evitare che il termine di decadenza del permesso possa essere eluso con ricorso ad interventi fittizi e simbolici.
La mera esecuzione di lavori di sbancamento è, di per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto dell'effettivo inizio dei lavori, entro il termine di un anno dal rilascio del permesso di costruire a pena di decadenza del titolo abilitativo (art. 15 d.P.R. n. 380/2001), essendo necessario che lo sbancamento sia accompagnato dalla compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a confermare l'effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di realizzare l'opera assentita.
L'effettivo inizio dei lavori edili deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edilizio così come programmato e autorizzato; l'inizio dei lavori, idoneo ad impedire la decadenza del titolo edilizio, può ritenersi sussistente quando le opere intraprese sono tali da evidenziare l'effettiva volontà di realizzare l'opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione.
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Come sottolineato dalla giurisprudenza, nel settore edile la decadenza costituisce l'effetto automatico dell'inutile decorso del termine entro cui i lavori si sarebbero dovuti iniziare e concludere; pertanto, essa ha natura non già costitutiva, bensì dichiarativa con efficacia ex tunc di un effetto verificatosi ex se e direttamente e in tal modo va letto l'art. 15, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in virtù del quale, inutilmente decorsi detti termini, il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga.
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L'istituto della proroga dei termini, quale provvedimento di secondo grado, modifica, ancorché parzialmente, il complesso degli effetti giuridici delineati dall'atto originario, accedendo all'originaria concessione ed operando uno spostamento in avanti del suo termine finale di efficacia, ciò diversamente dal rinnovo della concessione edilizia che implica il rilascio di un nuovo ed autonomo titolo, subordinato ad una nuova ed autonoma verifica dei presupposti richiesti dalle norme urbanistiche vigenti al momento del rilascio salvo, naturalmente, che le opere ancora da eseguire rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività.
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Il motivo è infondato.
Come accennato, con il provvedimento del 16.08.2017 e quello, da quest’ultimo richiamato, datato 01.06.2017, il Comune di Courmayeur, nel rigettare l’istanza di variante alla concessione/permesso a costruire originaria n. 61 del 22.11.2011, ha ritenuto decaduta la concessione medesima perché i lavori di fatto non sono mai stati iniziati.
In tal senso, quindi, i provvedimenti impugnati, ancorché resi nell’ambito di un procedimento instaurato per la variante alla originaria concessione edilizia, contengono un accertamento ed una statuizione esplicitamente dichiarativa dell’intervenuta decadenza di quest’ultima.
Ai sensi dell’art 60, comma 6, l.r. 11/1998, decorsi i termini di cui al comma 5 (cioè quelli di inizio e fine dei lavori come previsti nella concessione-permesso a costruire), il permesso di costruire decade di diritto per la parte non eseguita, salvo che, anteriormente alla scadenza, sia richiesta una proroga. La proroga può essere accordata con provvedimento motivato per una sola volta e per un periodo non superiore a ventiquattro mesi, per cause indipendenti dalla volontà del titolare del permesso di costruire che abbiano ritardato i lavori in corso di esecuzione.
Il fatto che la declaratoria di decadenza non sia stata resa nell’ambito di un procedimento autonomo rispetto a quello sorto in conseguenza della richiesta di variante da parte del La. non rileva, in quanto è necessario e sufficiente che il provvedimento di rigetto della predetta istanza sia preceduto da una declaratoria espressa e motivata dell’intervenuta decadenza, quale effetto ex lege conseguente all’accertamento –in questo caso- del mancato inizio dei lavori.
Al riguardo, va richiamato il più recente insegnamento espresso dal Consiglio di Stato secondo il quale, ai sensi dell'art. 15, comma 2, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori; decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita tranne che, anteriormente alla scadenza, sia stata richiesta una proroga e l'effetto decadenziale si riconnette al mero dato fattuale del mancato avvio dei lavori entro il termine annuale fissato dalla legge; in altri termini la decadenza del permesso di costruire costituisce effetto automatico del trascorrere del tempo, che per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo abilitativo e la pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha carattere strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga), e natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione; decadenza che opera di diritto, con la conseguenza che non è richiesta l'adozione di un provvedimento amministrativo espresso (così, Consiglio di Stato, sez. IV, 10/07/2017, n. 3371).
Peraltro, la soluzione della questione non sarebbe differente anche qualora si considerasse il parzialmente diverso precedente principio di diritto espresso dal Consiglio di Stato secondo il quale, sebbene la decadenza del permesso di costruire ai sensi dell'art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 costituisca un effetto che discende dall'inutile decorso del termine di inizio e/o completamento nondimeno s’impone l’adozione di un provvedimento formale da parte del competente organo comunale, ancorché meramente dichiarativo e con efficacia ex tunc: questo perché la ratio della necessaria intermediazione di un formale provvedimento amministrativo di carattere dichiarativo va ravvisata nell'esigenza di assicurare il contraddittorio con il privato in ordine all'esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che giustificano la pronuncia stessa (così, Consiglio di Stato, sez. IV, 22/10/2015, n. 4823).
Nel caso di specie la finalità di consentire una forma di interlocuzione al procedimento de quo è stata comunque assicurata se è vero che con la comunicazione del 01.06.2017 la P.A. ha concretamente instaurato il contraddittorio con il La. in ordine alla stessa.
E d’altra parte non è previsto normativamente, e le pronunce sopra richiamate del Consiglio di Stato sostanzialmente escludono la necessità, che il provvedimento dichiarativo della intervenuta decadenza debba essere reso nell’ambito di un procedimento ad hoc, autonomo e precedente, ad esempio, a quello di autorizzazione alla variante.
E’ sufficiente, invece, che, come nel caso di specie, nell’ambito di un procedimento comunque connesso con quello all’esito del quale era stato adottata la concessione edilizia-permesso a costruire, la decadenza venga accertata e motivatamente dichiarata anche solo in via incidentale, come premessa per l’adozione del provvedimento conclusivo e che il soggetto controinteressato all’accertamento della decadenza sia stato messo in condizione di poter interloquire con la P.A.
Poiché nel caso di specie, come accennato, il La. ha ricevuto la missiva ai sensi dell’art. 16 l. 11/1998 (istituto sostanzialmente omologo a quello di cui all’art 10-bis l. 241/1990), attesa, altresì, la natura vincolata dell’accertamento e del provvedimento dichiarativo dell’intervenuta decadenza, la mancanza di un autonomo procedimento e di una formale comunicazione di avvio dello stesso non rileva in quanto la partecipazione del La. alla valutazione in questione è stata garantita.
Si può passare ora agli ulteriori motivi di impugnazione, in ordine ai quali è possibile procedere ad un esame unitario.
In primo luogo, il La. lamenta “violazione e falsa applicazione degli artt. 59, 60 e 60-bis della L.R. n. 11/1998, eccesso di potere per palese contraddittorietà e illogicità della motivazione, eccesso di potere per difetto di istruttoria” in quanto:
   - in data 19.10.2012 il Geom. Re. aveva comunicato formale denuncia di inizio lavori regolarmente protocollata e inviata anche alla competente Asl e alla Direzione Regionale del Lavoro indicando come data presunta di inizio lavori il 19.10.2012;
   - successivamente a tale data il Re. aveva dato effettivamente avvio ai lavori, entro il 21.11.2012, realizzando a) la picchettatura e la recinzione del cantiere; b) i lavori di sbancamento prodromici alla posa delle solette e della muratura; c) la posa delle tubature e degli allacciamenti relativi all’impianto fognario per consentire il deflusso dell’acqua; d) gli allacciamenti relativi all’acquedotto, all’acqua corrente, all’energia elettrica;
   - i rilievi effettuati dal geom. Sa. per conto delle controinteressate Be.Ro. ed El. tra il mese di settembre 2016 e il mese di maggio 2017 e quelli successivi eseguiti dai tecnici comunali in data 31.5.2017 non rilevano essendo stati eseguiti a distanza di cinque anni dalla dichiarazione di inizio lavori;
   - la mancata prosecuzione dei lavori è stata incolpevole è ha determinato un mutamento dello stato dei luoghi.
In secondo luogo, il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione dell’art. 60 della L.R. n. 11/1998 e dall’art 15 del D.P.R. 380/2001; eccesso di potere per palese contraddittorietà e illogicità della motivazione; eccesso di potere per difetto di istruttoria”, in quanto:
   - a seguito dell’avviso di inizio lavori del 19.10.2012 non era stato più possibile proseguire gli stessi sia a causa del peggioramento delle condizioni atmosferiche, e della conseguente ordinanza sindacale di chiusura della strada comunale della Val Veny sino alla primavera successiva, sia per il peggioramento delle condizioni di salute del Re., al quale, già provato per una neuropatia dal 2010, era stata diagnosticata, nel dicembre 2012, una forma tumorale alla laringe successivamente estesasi anche al polmone sinistro e alle ossa fino alla morte del predetto in data 26.02.2016;
   - il Comune resistente concedendo la proroga della data di fine lavori con provvedimento in data 14.07.2016 ha ritenuto meritevoli di accoglimento e condivisione le summenzionate motivazioni ritenendo che dall’autunno 2012 il Re. non fosse in grado svolgere il ruolo di direttore dei lavori e, implicitamente, che i lavori fossero già stati iniziati.
Nessuna delle doglianze predette è accoglibile.
Occorre muovere dalla questione relativa alla contestata erroneità dell’accertamento dei fatti e alla asserita carenza di istruttoria da parte della P.A.
La concessione edilizia n. 61/11 del 22.11.2011 ottenuta da Re.An. e ritirata dallo stesso in data 02.12.2011 prevedeva come data ultima per l’inizio dei lavori il 21.11.2012, e come termine di ultimazione dei lavori 60 giorni dalla data di inizio dei lavori.
Nella comunicazione di inizio lavori e in quella di apertura cantiere (docc. 1 e 2 parte intervenuta Re.) Re.An. ha indicato come data di inizio dei lavori quella del 19.10.2012 e se medesimo come responsabile e direttore dei lavori.
Occorre premettere che secondo giurisprudenza consolidata e condivisibile l'onere della prova del mancato inizio dei lavori assentiti con licenza edilizia ovvero con permesso a costruire, incombe sul Comune che ne dichiara la decadenza alla stregua del principio generale in forza del quale i presupposti dell'atto adottato devono essere accertati dall'autorità emanante (in questo senso si vedano Consiglio di Stato, sez. V, 11/04/1990, n. 343; TAR Campania, Napoli sez. II, 27/04/2005, n. 4817).
Sempre secondo gli insegnamenti più recenti e condivisibili della giurisprudenza, l'inizio dei lavori, ai sensi dell'art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 -norma sostanzialmente conforme al citato art. 60 l.r. 11/9- deve intendersi riferito a concreti lavori edilizi che possono desumersi dagli indizi rilevati sul posto. Pertanto i lavori debbono ritenersi «iniziati» quando consistono nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti, nella elevazione di muri e nella esecuzione di scavi preordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio per evitare che il termine di decadenza del permesso possa essere eluso con ricorso ad interventi fittizi e simbolici.
La mera esecuzione di lavori di sbancamento è, di per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto dell'effettivo inizio dei lavori, entro il termine di un anno dal rilascio del permesso di costruire a pena di decadenza del titolo abilitativo (art. 15 d.P.R. n. 380/2001), essendo necessario che lo sbancamento sia accompagnato dalla compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a confermare l'effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di realizzare l'opera assentita (Consiglio di Stato, sez. VI, 19/09/2017, n. 4381); l'effettivo inizio dei lavori edili deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edilizio così come programmato e autorizzato; l'inizio dei lavori, idoneo ad impedire la decadenza del titolo edilizio, può ritenersi sussistente quando le opere intraprese sono tali da evidenziare l'effettiva volontà di realizzare l'opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione (Consiglio di Stato, sez. V, 31/08/2017, n. 4150).
Ora nella specie, nel verbale di sopralluogo eseguito dai tecnici comunali in data 31.05.2017, sulla scorta del quale sono stati poi emessi i provvedimenti impugnati, è stato constatato che: <<all’interno dell’area oggetto di lavori non si rilevano attività edilizie in corso né opere edili considerevoli realizzate. Nel sedime del rudere sono presenti un tubo di derivazione dell’acqua con relativo rubinetto e dei passacavi corrugati in plastica. E’ presente una recinzione in legno in stato di degrado e abbandono che delimita parzialmente una parte d’area oggetto dei lavori di cui alla C.E. 61/11. Alla base della recinzione ci sono ammassate delle reti di cantiere di colore arancione e verde. Inoltre, non è stato apposto nessun cartello di cantiere>>.
Tale documento e i rilievi in esso contenuti devono ritenersi di per sé idonei a fondare un legittimo provvedimento di decadenza salva un’eventuale prova contraria, da parte del controinteressato, idonea a dimostrare l’effettiva esecuzione di opere sufficienti a integrare un’ipotesi di inizio lavori.
La documentazione prodotta dal ricorrente e dalle intervenute al riguardo non è idonea ad integrare la prova contraria di cui sopra.
In particolare, la documentazione fotografica depositata dal La. (doc 10) è priva di data, né è possibile determinarla aliunde, sicché non può essere con certezza affermato che rappresenti la situazione dei luoghi al momento del 19.10.2012; nello stesso senso, la planimetria (doc. 8) così come il regolamento utenti del nuovo collettore fognario del Cuignon nel Comune di Courmayeur (doc 9) non recano la data né è possibile accertarla aliunde. Infine, la fattura (doc. 11) è di data successiva e non consente di capire quando sono stati eseguiti i lavori indicati nella stessa.
Le opere asseritamente eseguite dal Re. e dedotte da parte ricorrente nell’atto introduttivo come sopra riportate, quindi, non risultano adeguatamente provate; del resto, se anche lo fossero, non sarebbero comunque idonee ad integrare quanto richiesto dalla giurisprudenza citata affinché i lavori possano ritenersi “iniziati”.
Il fatto, poi, che il sopralluogo da parte dei tecnici comunali e il relativo accertamento sia avvenuto solo in data 31.05.2017 non rende illegittima la declaratoria di decadenza, in quanto deve ritenersi che in mancanza di prova contraria la situazione attuale corrisponda a quella esistente alla data di inizio dei lavori (19.10.2012).
Parte ricorrente, infatti, non ha fornito idonei elementi di prova atti a dimostrare che la condizione dei luoghi attuale sia mutata in modo rilevante rispetto a tale ultima data, né ciò è possibile affermarlo in via meramente presuntiva.
Esaminiamo, quindi, la questione relativa alla –solo apparente– contraddittorietà esistente tra i provvedimenti per i quali è causa e quello di proroga del 14.07.2016 emesso dal Comune di Courmayeur e più sopra citato.
In quest’ultimo provvedimento la P.A. ha motivato richiamando l’art. 60 della L. R. 11/1998 e ritenendo, ai fini del rispetto del termine di completamento dei lavori, sussistenti cause giustificative della proroga indipendenti dalla volontà del titolare della concessione, dando atto che:
   - Re.An. era cointestatario della Concessione Edilizia n. 61/11 ed era anche direttore dei lavori architettonici e strutturali;
   - dalla documentazione presentata in data 20.06.2016 (ovvero quella medica richiamata e depositata da parte ricorrente anche nel presente giudizio) emergeva che il Re. era in precarie condizioni di salute e che dall’autunno 2012 le sue condizioni di salute erano peggiorate in maniera significativa tale da non consentirgli di svolgere il compito di direttore di lavori;
Come accennato, secondo il La. e parte intervenuta i provvedimenti impugnati sarebbero illegittimi perché l’accertamento dell’intervenuta decadenza doveva ritenersi precluso alla luce della suddetta proroga, atteso che il Comune, nell’accordare la stessa, non può non aver accertato la regolarità e tempestività dell’inizio dei lavori.
Occorre evidenziare che il provvedimento di proroga non contiene alcun accertamento espresso in ordine al rispetto del termine di inizio dei lavori, né può ritenersi che ciò sia implicito, in quanto, a ben vedere, la motivazione è integralmente incentrata sulla fondatezza dei motivi addotti, dalle allora titolari della concessione edilizia (le intervenute Re.), quali “cause indipendenti dalla volontà del titolare del permesso di costruire che abbiano ritardato i lavori in corso di esecuzione”.
Ecco, quindi, che a fronte di un provvedimento che nulla accerta in ordine alla tempestività dell’inizio dei lavori, non solo non vi erano preclusioni per il Comune, ma la declaratoria di decadenza deve ritenersi un atto dovuto da parte della P.A..
Come sottolineato dalla giurisprudenza, infatti, nel settore edile la decadenza costituisce l'effetto automatico dell'inutile decorso del termine entro cui i lavori si sarebbero dovuti iniziare e concludere; pertanto, essa ha natura non già costitutiva, bensì dichiarativa con efficacia ex tunc di un effetto verificatosi ex se e direttamente e in tal modo va letto l'art. 15, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in virtù del quale, inutilmente decorsi detti termini, il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga (così, Consiglio di Stato, sez. IV, 15/04/2016, n. 1520).
Pertanto, al momento dell’adozione della proroga la concessione originaria aveva già perduto ogni effetto, sicché, non solo la variante richiesta dal La. non poteva essere autorizzata, non essendovi più alcuna concessione efficace, ma anche la stessa proroga è provvedimento che, se, da un lato, non avrebbe dovuto essere adottato, dall’altro in ogni caso, essendo meramente accessorio della concessione originaria, partecipa delle sorti di quest’ultimo.
Infatti, l'istituto della proroga dei termini, quale provvedimento di secondo grado, modifica, ancorché parzialmente, il complesso degli effetti giuridici delineati dall'atto originario, accedendo all'originaria concessione ed operando uno spostamento in avanti del suo termine finale di efficacia, ciò diversamente dal rinnovo della concessione edilizia che implica il rilascio di un nuovo ed autonomo titolo, subordinato ad una nuova ed autonoma verifica dei presupposti richiesti dalle norme urbanistiche vigenti al momento del rilascio salvo, naturalmente, che le opere ancora da eseguire rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività (così, Consiglio di Stato, sez. IV, 05/07/2017, n. 3283).
Essendo priva di autonomia, quindi, la proroga subisce inevitabilmente l’effetto caducatorio, ex tunc e operante di diritto, della decadenza dell’originaria concessione (TAR Valle d'Aosta, sentenza 18.04.2018 n. 26 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Per pacifica giurisprudenza, il provvedimento amministrativo, preceduto da atti istruttori, può ritenersi adeguatamente motivato per relationem anche con il mero richiamo ad essi giacché tale richiamo sottintende l'intenzione dell'Autorità emanante di farli propri, assumendoli a causa giustificativa della determinazione adottata, purché dal complesso degli atti del procedimento siano evincibili le ragioni giuridiche che supportano la decisione, onde consentire al destinatario di contrastarle con gli strumenti offerti dall'ordinamento e al giudice amministrativo, ove investito della relativa controversia, di sindacarne la fondatezza.
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Va soggiunto che l'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 -che attribuisce ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti la facoltà di "presentare memorie scritte e documenti, che l'amministrazione ha l'obbligo di valutare ove siano pertinenti all'oggetto del procedimento"- non impone la puntuale, analitica confutazione delle osservazioni presentate dalla parte privata a seguito della ricezione della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, essendo sufficiente ai fini della giustificazione del provvedimento adottato la motivazione complessivamente resa a sostegno dell'atto stesso che renda nella sostanza percepibili le ragioni del mancato adeguamento alle deduzione difensive dei privati.
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3. Con il secondo e quarto motivo la ricorrente lamenta che il provvedimento di diniego è motivato con il mero richiamo “per relationem” ai motivi ostativi all’accoglimento della istanza, riprodotti nella premessa e che le articolate osservazioni dalla medesima presentate siano state del tutto ignorate, in quanto ritenute “inidonee ad apportare elementi tali da far riconsiderare quanto già comunicato”.
La censura non ha pregio.
3.1. Va premesso che, per pacifica giurisprudenza, il provvedimento amministrativo, preceduto da atti istruttori, può ritenersi adeguatamente motivato per relationem anche con il mero richiamo ad essi giacché tale richiamo sottintende l'intenzione dell'Autorità emanante di farli propri, assumendoli a causa giustificativa della determinazione adottata, purché dal complesso degli atti del procedimento siano evincibili le ragioni giuridiche che supportano la decisione, onde consentire al destinatario di contrastarle con gli strumenti offerti dall'ordinamento e al giudice amministrativo, ove investito della relativa controversia, di sindacarne la fondatezza (Cons. St., sez. VI, 24.02.2011, n. 1156; id. sez. IV, 03.08.2010, n. 5150).
Va soggiunto che l'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 -che attribuisce ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti la facoltà di "presentare memorie scritte e documenti, che l'amministrazione ha l'obbligo di valutare ove siano pertinenti all'oggetto del procedimento"- non impone la puntuale, analitica confutazione delle osservazioni presentate dalla parte privata a seguito della ricezione della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, essendo sufficiente ai fini della giustificazione del provvedimento adottato la motivazione complessivamente resa a sostegno dell'atto stesso che renda nella sostanza percepibili le ragioni del mancato adeguamento alle deduzione difensive dei privati (TAR Emilia Romagna, Parma, 16.11.2015; TAR Friuli-Venezia Giulia, 15.05.2015 n. 214; TAR Campania, Salerno, sez. I, 25.03.2014 n. 604)
.
...
12. Con il settimo motivo ci si duole del mancato esame delle osservazioni presentate in seno al procedimento sanzionatorio dovendo “l'Amministrazione dare conto in modo chiaro e comprensibile delle ragioni sostanziali del mancato adeguamento dell'azione amministrativa alle osservazioni presentate, poste a fondamento della decisione maturata” (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 29.04.2016, n. 4893).
Anche tale doglianza è stata esaminata, rigettandola, nella trattazione del ricorso principale.
E’ sufficiente rammentare che l'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 non impone la puntuale, analitica confutazione delle osservazioni presentate dalla parte privata a seguito della ricezione della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, essendo sufficiente ai fini della giustificazione del provvedimento adottato la motivazione complessivamente resa a sostegno dell'atto stesso che renda nella sostanza percepibili le ragioni del mancato adeguamento alle deduzione difensive dei privati (TAR Emilia Romagna, Parma, 16.11.2015; TAR Friuli-Venezia Giulia, 15.05.2015 n. 214; TAR Campania, Salerno, sez. I, 25.03.2014 n. 604).
D’altra parte è decisiva la circostanza che l’ordine di demolizione consegue a un procedimento sfociato in un diniego di sanatoria a sua volta preceduto da un altro procedimento sanzionatorio concluso con una prima diffida a demolire del 2016, e in tali occasioni la ricorrente ha avuto modo di proporre osservazioni del medesimo tenore di quelle di cui ora si lamenta il mancato esame, già scrutinate e non ritenute accoglibili dalla PA
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.04.2018 n. 556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il gazebo non precario non è deputato ad un uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale dell'attività svolta.
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5. Con il quinto e sesto motivo si lamenta che il provvedimento di diniego ponga a fondamento anche l’assenza di autorizzazione all’utilizzo del passo carrabile, dovendo atteso che il rilascio della sanatoria presuppone il solo rispetto delle norme urbanistiche e non di quelle in materia di occupazione di aree e spazi pubblici.
L’affermazione, finalizzata a far assumere rilevanza a tale aspetto del tutto secondario del provvedimento, non può essere condivisa.
5.1. Invero il diniego avversato è fondato sulla mancanza del requisito della doppia conformità urbanistica e il provvedimento impugnato menziona per mera completezza d’argomentazione anche l’assenza dell’autorizzazione ai passi carrabili “fermo restando i contrasti sopra indicati” e dunque assumendo che la sanatoria veniva respinta per ragioni urbanistiche e non per altre motivazioni.
5.2. Ci si duole, altresì, dell’ultimo capoverso della parte motiva dell’atto avversato, ovvero quello inerente alla non sanabilità dei piccoli manufatti presenti sull’area, e in particolare del gazebo; e ciò sia perché la sanatoria non comprendeva il gazebo sia perché lo stesso sarebbe opera precaria, non soggetta né a titolo edilizio, né alle norme in materia di distanza dagli edifici né al preventivo deposito della pratica al Genio civile.
Come rilevato dalla difesa del Comune la censura, sul punto, si palesa inammissibile per difetto di interesse.
Infatti, se il gazebo non rientra fra le opere che la ricorrente aveva interesse a sanare (prevedendosene nella relazione tecnica allegata alla domanda di sanatoria lo smantellamento) pare evidente che non vi sia interesse a contestare tale profilo del provvedimento.
Peraltro, non può ritenersi che il gazebo sia un’opera precaria e perciò priva di rilevanza urbanistica, risultando dal verbale della Polizia municipale che in realtà si tratta di un manufatto con struttura in tubi di ferro ed infissi in una platea di cemento cementati al suolo e copertura in plastica trattandosi perciò di un manufatto urbanisticamente rilevante e soggetto a permesso di costruire.
5.3. In proposito è pacifico l’orientamento della giurisprudenza secondo cui i gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il gazebo non precario non è deputato ad un uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale dell'attività svolta.
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11. Con il sesto motivo la ricorrente lamenta che l’ordinanza di demolizione abbia riguardato anche il “gazebo” adibito a “rimessa di attrezzature”, trattandosi di manufatto di piccole dimensioni (mq. 24) in struttura metallica leggera, senza parti in muratura, con copertura in plastica e, quindi, in materiale non rigido né durevole, come tale privo di rilevanza edilizia.
La censura è infondata.
Si è già rilevato, analizzando il quinto motivo del ricorso principale, che non può ritenersi che il gazebo costituisca un’opera precaria priva di rilevanza urbanistica, trattandosi in realtà di un manufatto con struttura in tubi di ferro ed infissi in una platea di cemento cementati al suolo e copertura in plastica e quindi di un manufatto urbanisticamente rilevante e soggetto a permesso di costruire.
In ogni caso è pacifico che i gazebo non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati manufatti alteranti lo stato dei luoghi, con sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto (peraltro non rilevabile nella fattispecie), la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il gazebo non precario non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo per soddisfare esigenze durature nel tempo e rafforzate dal carattere permanente e non stagionale dell'attività svolta (Cons. St., sez. IV, 04.04.2013, n. 4438; id., sez. VI, 03.06.2014, n. 2842). (tra le tante, TAR Molise, 21.09.2016 n. 353; TAR Lazio, sez. I, 21.09.2016 n. 9881, TAR Umbria, 16.02.2015 n. 81)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.04.2018 n. 556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’ordinamento nazionale è informato dai principi enunciati dalla “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, peraltro già affermati dalla Costituzione (cfr. artt. 24, 41, 42 e 97).
Per quanto attiene al procedimento amministrativo la legge n. 241 del 1990, più volte emendata e integrata, regola compiutamente le modalità di svolgimento dell’azione amministrativa assicurando al cittadino adeguate guarentigie affinché l’azione della pubblica amministrazione si svolga nel rispetto di quei principi e valori richiamati dalla ricorrente, non da ultimo il diritto al contraddittorio.
Peraltro i principi suddetti devono coniugarsi anche con quello di buon andamento i cui corollari si traducono nell’esigenza di efficacia, efficienza, economicità e qualità di tale azione.
Il principio di proporzionalità ad essi sotteso comporta anche la necessità che il procedimento si svolga con ragionevole speditezza e dunque il diniego alla richiesta di una integrazione dell’istruttoria cui fa riferimento al ricorrente trova piena legittimità una volta che l’amministrazione, avendo già posto in essere la fase del contraddittorio con l’interessato, sia in possesso di tutti gli elementi necessari all’emanazione del provvedimento finale.
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6. Da ultimo, con il settimo motivo la società contesta la violazione della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, la quale prescrive il diritto di “ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento che le rechi pregiudizio” e quella del diritto di difesa. Ciò in quanto l’amministrazione non avrebbe aderito alla richiesta di supplemento di istruttoria avanzata dall’interessata.
L’assunto non merita adesione.
6.1. L’ordinamento nazionale è informato dai principi enunciati dalla “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, peraltro già affermati dalla Costituzione (cfr. artt. 24, 41, 42 e 97).
Per quanto attiene al procedimento amministrativo la legge n. 241 del 1990, più volte emendata e integrata, regola compiutamente le modalità di svolgimento dell’azione amministrativa assicurando al cittadino adeguate guarentigie affinché l’azione della pubblica amministrazione si svolga nel rispetto di quei principi e valori richiamati dalla ricorrente, non da ultimo il diritto al contraddittorio.
Peraltro i principi suddetti devono coniugarsi anche con quello di buon andamento i cui corollari si traducono nell’esigenza di efficacia, efficienza, economicità e qualità di tale azione. Il principio di proporzionalità ad essi sotteso comporta anche la necessità che il procedimento si svolga con ragionevole speditezza (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.06.2013 n. 3402) e dunque il diniego alla richiesta di una integrazione dell’istruttoria cui fa riferimento al ricorrente trova piena legittimità una volta che l’amministrazione, avendo già posto in essere la fase del contraddittorio con l’interessato, sia in possesso di tutti gli elementi necessari all’emanazione del provvedimento finale.
Le ragioni esposte conducono, in conclusione, al rigetto del ricorso
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.04.2018 n. 556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si è condivisibilmente ritenuto che l’amministrazione comunale potrebbe del tutto ragionevolmente compendiare in un unico atto, recante plurime statuizioni, tanto il diniego di sanatoria che il consequenziale ordine di demolizione e ciò, anzitutto, per l'evidente condivisione, da parte di questi atti, dei medesimi presupposti fattuali e giuridici nonché, poi, per la stretta e doverosa consequenzialità che indissolubilmente lega siffatti provvedimenti.
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Il rigetto dei ricorsi avverso gli atti che hanno negato l'accertamento dell'istanza di conformità rende intangibile il consequenziale provvedimento di demolizione e di riduzione in pristino laddove lo stesso sia censurato in via derivata rispetto ai precedenti provvedimenti e non per vizi autonomi, tra i quali non può certo farsi rientrare la prospettazione di censure che riguardando il diniego di sanatoria avrebbero dovuto essere prospettate in quella sede.

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9. Inammissibile si palesa il quarto motivo con cui la società solleva la questione dell’asserita compatibilità urbanistica dell’intervento sia con la disciplina del progetto norma 2.3. che consentirebbe la realizzazione di parcheggi e piazze sulle aree interessate dall’abuso, sia con l’art. 85 del Regolamento urbanistico a tenore del quale sarebbe ammissibile la realizzazione di piazzali espositivi commerciali.
Invero, il provvedimento sanzionatorio impugnato è sorretto dal diniego di rilascio della sanatoria, impugnato con l’atto introduttivo del giudizio, ma in tale sede detto profilo non è stato contestato dall’interessata di talché la coltivazione di siffatta doglianza in sede di motivi aggiunti si palesa tardiva e inammissibile.
Si è infatti condivisibilmente ritenuto che l’amministrazione comunale potrebbe del tutto ragionevolmente compendiare in un unico atto, recante plurime statuizioni, tanto il diniego di sanatoria che il consequenziale ordine di demolizione e ciò, anzitutto, per l'evidente condivisione, da parte di questi atti, dei medesimi presupposti fattuali e giuridici nonché, poi, per la stretta e doverosa consequenzialità che indissolubilmente lega siffatti provvedimenti (TAR Campania, Napoli, sez. IV, 05.10.2017 n. 4646; id. sez. VI, 15.07.2010 n. 16807).
9.1. D’altro canto, il rigetto dei ricorsi avverso gli atti che hanno negato l'accertamento dell'istanza di conformità rende intangibile il consequenziale provvedimento di demolizione e di riduzione in pristino laddove lo stesso sia censurato in via derivata rispetto ai precedenti provvedimenti e non per vizi autonomi, tra i quali non può certo farsi rientrare la prospettazione di censure che riguardando il diniego di sanatoria avrebbero dovuto essere prospettate in quella sede (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 15.09.2016 n. 1679
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.04.2018 n. 556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' noto che la realizzazione di opere di recinzione può ritenersi esente dal regime del permesso di costruire solo ove le recinzioni non configurino un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quindi, ad esempio, recinzioni in rete metallica, sorretta da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), essendo per contro necessario il titolo abilitativo quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio.
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10. Con il quinto motivo si censura l’ordine di demolizione nella parte in cui ingiunge il ripristino anche di opere (la recinzione, l’impianto di illuminazione e le colonnine antifurto) che, in sé, non avrebbero rilevanza urbanistica e dunque non potrebbero essere oggetto di sanzione ripristinatoria.
La tesi non appare condivisibile dal momento che, come rilevato dalla difesa del Comune, l’ordine di demolizione è atto diretto alla repressione dell’abuso nel suo complesso e quindi a tutte le singole opere che concorrono a determinarlo, tenuto conto fra l’altro che esse sono fra loro “evidentemente legate e mirate al compimento di un medesimo e complesso illecito, ossia la trasformazione in un’area inedificata in un piazzale commerciale” che “solo in quanto tale è stato pavimentato, recintato, dotato di antifurto e impianto di illuminazione”.
In ogni caso, è noto che la realizzazione di opere di recinzione può ritenersi esente dal regime del permesso di costruire solo ove le recinzioni non configurino un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quindi, ad esempio, recinzioni in rete metallica, sorretta da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), essendo per contro necessario il titolo abilitativo quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio (TAR Lazio. sez. II, 04.09.2017 n. 9529; TAR Marche, 23.012017 n. 69)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.04.2018 n. 556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' pacifico che l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l'inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene.
Infatti, l'acquisizione gratuita dell'area non è una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, e, pertanto, essa si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento.

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13. Con l’ottavo motivo la deducente si duole dell’errata e generica indicazione del bene e dell’area di sedime delle aree da acquisire in caso di mancata spontanea demolizione delle opere eseguite. Inoltre, il provvedimento non avrebbe dato conto dei criteri e del meccanismo di calcolo utilizzati che, per contro, devono essere concretamente esplicati.
La censura si palesa carente di interesse.
Invero la ricorrente è solo conduttrice in locazione delle aree dove sono stati eseguiti gli abusi e dunque spetta al proprietario del bene la tutela del proprio interesse ad evitare l’acquisizione gratuita dell’area di sedime al patrimonio del Comune.
In proposito è pacifico che l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l'inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene.
Infatti, l'acquisizione gratuita dell'area non è una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, e, pertanto, essa si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento (TAR Campania, Salerno, sez. I, 09.06.2017 n. 1049; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 18.11.2014, n. 2889)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.04.2018 n. 556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale ed è subordinato unicamente all'accertamento dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi, senza che l'Amministrazione sia tenuta a motivare le ragioni di interesse pubblico sottese all'acquisizione.
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14. Il nono motivo si incentra sulla mancata valutazione della sussistenza di un interesse pubblico al mantenimento delle opere per fini di pubblica necessità, in asserita violazione dell’art. 196, comma 5, della l.reg. n. 65/2014, e dell’art. 31, comma 5, D.P.R. n. 380/2001.
La censura non coglie nel segno.
Fermo restando quanto già esposto in ordine al precedente motivo relativamente alla carenza di interesse della ricorrente, vale rammentare il consolidato principio per cui l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive è un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale ed è subordinato unicamente all'accertamento dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi, senza che l'Amministrazione sia tenuta a motivare le ragioni di interesse pubblico sottese all'acquisizione (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 29.09.2017 n. 4547; id., sez. IV, 05.05.2017 n. 2053, id. sez. V, 26.01.2000 n. 341)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.04.2018 n. 556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Revisione prezzi negli appalti pubblici.
Con la previsione dell’obbligo di revisione del prezzo di un appalto di durata su base periodica il legislatore ha inteso munire i contratti di forniture e servizi di un meccanismo che, a cadenze determinate, comporti la definizione di un nuovo corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto, conseguente alla dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale, con beneficio per entrambi i contraenti, in quanto incidente sull’equilibrio contrattuale; da un lato, l’appaltatore vede ridotta, anche se non eliminata, l’alea propria dei contratti di durata, dall’altro, la stazione appaltante vede diminuito il pericolo di un peggioramento della qualità o quantità di una prestazione, divenuta per l’appaltatore eccessivamente onerosa o, comunque, non remunerativa.
Il riferimento normativo alla clausola revisionale, avente carattere di norma imperativa e al quale si applicano gli artt. 1339 e 1419 c.c., non attribuisce alle parti ampi margini di libertà negoziale, ma impone di tradurre sul piano contrattuale l'obbligo legale, definendo anche i criteri e gli essenziali momenti procedimentali per il corretto adeguamento del corrispettivo.
In definitiva, può ritenersi che la previsione di cui all’art. 115 del codice dei contratti ponga ex lege un rimedio manutentivo, in funzione del mantenimento dell’equilibrio economico del contratto, per la gestione di sopravvenienze giuridicamente rilevanti intervenute nel corso dell'esecuzione del rapporto contrattuale
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
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      II.1) La questione oggetto del presente giudizio verte dunque intorno ai criteri e alla metodologia di quantificazione della misura della revisione prezzi, non essendo contestato il diritto ad ottenere la revisione del prezzo dell’appalto, ma la misura della stessa.
      II.2) Va in proposito precisato, in punto di giurisdizione, che
ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. e.2), c.p.a. le controversie in tema di revisione prezzi sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sia che la contestazione riguardi la spettanza della stessa, sia l'esatto suo importo come quantificato dal concreto provvedimento applicativo (TAR Lecce sez. III 10.10.2013 n. 2111).
La disposizione richiamata trova il suo antecedente positivo nell’art. 244, comma 3, del Codice dei contratti che ha superato, nel solco tracciato dall'art. 6, l. n. 537 del 1993, la tradizionale distinzione in base alla quale erano devolute alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie relative al quantum della revisione prezzi e al giudice amministrativo quelle afferenti all'an debeatur, imponendo la concentrazione dinanzi alla stessa autorità giurisdizionale di tutte le cause relative all'istituto negli appalti pubblici ad esecuzione continuata o periodica, con conseguente potere del giudice amministrativo di conoscere della misura della revisione e di emettere condanna al pagamento delle relative somme.
      II.3)
Con la previsione dell’obbligo di revisione del prezzo di un appalto di durata su base periodica il legislatore ha inteso munire i contratti di forniture e servizi di un meccanismo che, a cadenze determinate, comporti la definizione di un "nuovo" corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto, conseguente alla dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale, con beneficio per entrambi i contraenti, in quanto incidente sull’equilibrio contrattuale. Da un lato l’appaltatore vede ridotta, anche se non eliminata, l’alea propria dei contratti di durata, dall’altro la stazione appaltante vede diminuito il pericolo di un peggioramento della qualità o quantità di una prestazione, divenuta per l’appaltatore eccessivamente onerosa o, comunque, non remunerativa (Tar Lazio–Roma sez. III-quater 18.03.2014 n. 2953).
Il riferimento normativo alla clausola revisionale, avente carattere di norma imperativa e al quale si applicano gli artt. 1339 e 1419 c.c., non attribuisce alle parti ampi margini di libertà negoziale, ma impone di tradurre sul piano contrattuale l'obbligo legale, definendo anche i criteri e gli essenziali momenti procedimentali per il corretto adeguamento del corrispettivo (Tar Lecce sez. I 11.12.2013 n. 2423; Cons. Stato sez. III 09.05.2012 n. 2648; Cons. Stato, Sez. III, 01.02.2012, n. 504; TAR Bari sez. II 11.07.2013 n. 1141).
In definitiva può ritenersi che la previsione di cui all’art. 115 del codice dei contratti ponga ex lege un rimedio manutentivo, in funzione del mantenimento dell’equilibrio economico del contratto, per la gestione di sopravvenienze giuridicamente rilevanti intervenute nel corso dell'esecuzione del rapporto contrattuale (cfr. Corte Cost. n. 447/2006).
   III) Ciò precisato, il Collegio ritiene di cominciare l’esame delle censure dalla terza, che attiene al periodo di riferimento del calcolo della revisione.
      III.1) Va premesso in punto di fatto che la scadenza del contratto era stabilita al 30.04.2010. Successivamente l’Amministrazione comunale ha valutato l’opportunità di accorpare i servizi rientranti nel contratto di global service per la manutenzione ordinaria e straordinaria delle aree a verde pubblico –affidato all’odierno ricorrente- con quelli effettuati sulle stesse aree da altri operatori (svuotamento cestini, pulizia, disinfezione aree cani, apertura/chiusura cancelli dei parchi cittadini).
Nelle more dell’allineamento temporale della scadenza di tali affidamenti, al fine di promuovere un’unica procedura ad evidenza pubblica per l’accorpamento dei servizi, ha disposto con tre distinti atti la “proroga” del contratto in essere con la ricorrente, rispettivamente per i periodi 01.05.2010-31.12.2010, 01.01.2011-31.03.2011 e 01.04.2011-30.06.2011.
      III.2) In proposito si fronteggiano due posizioni: a detta della ricorrente si tratterebbe di veri e propri atti di proroga, con i quali è stata meramente variata la durata del contratto; trattandosi di proroga sarebbero periodi “utili” ai fini dell’applicazione dell’istituto della revisione prezzi. Secondo l’Amministrazione invece si tratterebbe di nuovi e autonomi rapporti giuridici di durata complessiva inferiore all’anno e dunque non soggetti all’applicazione della revisione prezzi.
      III.3) L’indagine circa la natura dei predetti atti deve essere condotta a prescindere dal nomen utilizzato dall’Amministrazione, indagando l’effettiva volontà delle parti.
Il Collegio osserva che la deliberazione n. 1216/2010 con cui è stata disposta la prima “proroga” costituisce l’esito di una istruttoria nell’ambito della quale l’Amministrazione ha specificamente valutato sia l’economicità della scelta di riaffidare al ricorrente il contratto per un periodo di 8 mesi, convenendo di applicare al costo del servizio complessivo richiesto lo stesso ribasso d’asta presentato dall’appaltatore in fase di offerta economica, sia l’efficacia dell’operazione negoziale, tenuto conto della conoscenza del territorio da parte dell’operatore in rapporto al breve periodo di affidamento, che non avrebbe consentito ad un nuovo soggetto di operare appunto con le stesse caratteristiche di efficacia.
I contenuti motivazionali della deliberazione danno quindi atto di una negoziazione e di una ampia valutazione circa la convenienza economica dell’operazione, che non si risolve in un mero differimento del termine di scadenza del precedente contratto, ma consiste in un nuovo rapporto negoziale.
Ad identica conclusione si giunge esaminando gli atti relativi alle altre due “proroghe”.
Quella relativa al periodo 01.01.2011-31.03.2011 è stata motivata dal fatto che, a seguito di una proposta di AMSA s.p.a. (affidataria dei servizi di pulizia), si era reso necessario modificare il progetto di manutenzione ordinaria programmata delle aree verdi che avrebbe formato oggetto della futura gara, con la conseguente esigenza di procrastinare l’indizione della procedura.
Nel relativo atto di sottomissione sottoscritto dalla ricorrente e dall’Amministrazione, il contratto originario risulta essere stato integrato da ulteriori clausole (precisamente riguardanti gli obblighi dell’appaltatore relativi alla tracciabilità dei flussi finanziari, la clausola risolutiva espressa e l’autorizzazione del subappalto) e vi è ancora l’espressa accettazione dell’appaltatore di mantenere il ribasso del 6,68% per le attività di manutenzione sia ordinaria che straordinaria.
Anche in tal caso quindi vi sono sufficienti elementi per ritenere che si tratti di un nuovo rapporto contrattuale posto in essere a seguito di un’attività di negoziazione che non ha riguardato la mera scadenza del contratto precedente.
Infine, quanto alla “proroga” per il periodo 01.04.2011-30.06.2011, motivata dalla dilazione dei tempi per la conclusione della procedura di affidamento del servizio, anche in questo caso l’appaltatore ha confermato di mantenere il ribasso del 6,68%; inoltre nella relazione tecnica allegata alla deliberazione 584/2011 si è dato conto della possibilità di dar corso ad interventi con caratteristiche straordinarie, subordinatamente alla stesura e all’approvazione di un elaborato progettuale conforme alle linee guida comunali. Anche in questa occasione dunque il contenuto complessivo degli atti portano a ritenere che vi sia stata un’autonoma negoziazione che ha condotto ad un nuovo rapporto contrattuale.
Tale qualificazione dei tre contratti intervenuti successivamente alla scadenza del 30.04.2010 (ovvero la scadenza originaria del contratto sottoscritto a seguito della procedura ad evidenza pubblica) rende inapplicabile l’istituto della revisione prezzi, trattandosi appunto di nuovi rapporti che costituiscono autonome operazioni negoziali.
E’ sufficiente in proposito far rinvio alla costante giurisprudenza secondo la quale
la revisione dei prezzi si applica solo alle proroghe contrattuali, previste come tali ab origine negli atti di gara ed oggetto di consenso a monte nonché note ai concorrenti della procedura selettiva per l'affidamento del contratto originario (e quindi coinvolte nell'offerta economica da costoro presentata), ma non anche negli atti successivi al contratto originario, con i quali, mediante specifiche manifestazioni di volontà, è stato dato corso tra le parti a distinti, nuovi ed autonomi rapporti giuridici, pur se di contenuto identico a quello originario in merito alla remunerazione del servizio, senza che sia stata avanzata alcuna proposta di modifica del corrispettivo, che pure la parte privata era libera di formulare, nel contesto di un rinnovato esercizio dell'autonomia negoziale, attraverso cui vengono liberamente pattuite le condizioni del rapporto (TAR Lazio-Roma sez. II, 04.09.2017, n. 9531).
L'impresa che ha beneficiato di una speciale ed autonoma valutazione della stazione appaltante e che si compendia nella possibilità di rinnovo del contratto senza gara a condizione di un prezzo concordato, non può poi pretendere di applicare allo stesso contratto il meccanismo della revisione dei prezzi, che condurrebbe ad effetti del tutto opposti rispetto al corrispettivo pattuito per la prosecuzione (extra ordinem) del rapporto contrattuale (cfr., in tal senso, TAR Lazio-Roma, Sez. III, 30.05.2016 n. 6252, con la giurisprudenza ivi elencata).
Nel caso di specie, come sopra già rilevato, il ricorrente, in sede di rinnovo contrattuale, ha convenuto di applicare lo stesso ribasso d’asta offerto in sede di gara per l’assegnazione del servizio, sul presupposto, evidentemente, di una propria convenienza economica non essendo obbligato ad assentire alla proposta. Tale determinazione, che poi si è tradotta nell’accordo contrattuale, stride con la successiva della richiesta di revisione prezzi in relazioni a tali contratti, ciascuno dei quali di durata contenuta e realisticamente, quindi, non suscettibili di variazioni sotto il profilo del sinallagma economico.
Per le ragioni che precedono, la pretesa del ricorrente che il calcolo della revisione prezzi tenga conto del periodo fino al 30.06.2011 non può essere accolta.
   IV) Secondo il ricorrente, poi, il calcolo della revisione prezzi effettuato dal Comune sarebbe errato in quanto l’Amministrazione, nel far riferimento agli indici ISTAT, avrebbe dovuto prendere in considerazione le variazioni dal mese di un certo anno al mese corrispondente dell’anno successivo (es. da maggio 2008 a maggio 2009).
Va precisato in punto di fatto che il Comune ha considerato e applicato gli indici ISTAT relativi ai seguenti periodi: 01/05/2007–30/04/2008; 01/05/2008-30/04/2009; 01/05/2009–30/04/2010.
La censura del ricorrente non può essere condivisa.
Ed invero i periodi considerati dall’Amministrazione corrispondono esattamente ad un anno solare, in conformità alla disciplina dell’istituto in questione che opera con cadenza annuale. L’argomento della ricorrente porta di contro a considerare un periodo maggiore dell’anno.
Il calcolo operato dall’Amministrazione, sotto il profilo esaminato, risulta quindi corretto.
Anche tale doglianza non è pertanto meritevole di accoglimento.
   V) Infine secondo il ricorrente il calcolo effettuato dall’Amministrazione sarebbe errato in quanto il Comune avrebbe applicato gli indici FOI agli importi dei canoni trimestrali, determinati detraendo le penali applicate nei singoli stati di avanzamento.
Va rammentato che
la ratio dell’istituto della revisione -dal punto di vista dell’appaltatore- è quello di “tenere indenni gli appaltatori delle amministrazioni pubbliche da quegli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che, incidendo sulla percentuale di utile stimata al momento della formulazione dell'offerta, potrebbero indurre l'appaltatore a svolgere il servizio o ad eseguire la fornitura a condizioni deteriori rispetto a quanto pattuito o, addirittura, a rifiutarsi di proseguire nel rapporto, con inevitabile compromissione degli interessi pubblici (TAR Campania-Napoli sez. VIII 05.02.2015 n. 887).
Deve quindi ritenersi che la revisione dei prezzi sia giustificata solo in relazione allo squilibrio (effettivamente determinatosi) dei costi (concretamente sostenuti) che incidono sull’utile di impresa (TAR Milano sez. III 22.06.2015 n. 1433).
In tale ottica non può che farsi riferimento a costi le cui oscillazioni in aumento non solo non siano prevedibili ma anche non siano imputabili all’imprenditore.
Certamente il pagamento di penali incide sull’utile di impresa, ma è imputabile all’inadempimento dell’appaltatore.
Se così è, ai fini del calcolo della revisione prezzi, la decurtazione dal canone concordato dell’importo delle penali applicate risulta corretta.
Diversamente opinando si giungerebbe al risultato paradossale per cui le somme che sono state sottratte dal compenso contrattuale a causa degli inadempimenti concorrono invece alla determinazione del prezzo revisionato, con l’esito di abbattere nella sostanza l’importo delle penali.
Per le ragioni sopra illustrate non pare conducente l’argomento del ricorrente secondo cui, in sintesi, se si tenesse conto delle penali, il relativo importo dovrebbe essere compensato con la maggior somma ottenuta dall’appaltatore in sede di accordo bonario sulle riserve iscritte dall’impresa.
A prescindere dall’irrilevanza della questione, posto che lo stesso ricorrente, nell’atto introduttivo del giudizio “dichiara sin d’ora di rinunciare al delta differenziale” fra l’importo relativo all’accordo bonario e l’importo riconosciuto a titolo di revisione decurtato dalle penali, va osservato che quanto corrisposto in sede di accordo bonario –volto a risolvere le riserve apposte– deve ritenersi completamente satisfattivo di ogni possibile ulteriore pretesa, regolandosi in quel (solo) contesto l’eventuale squilibrio del sinallagma contrattuale.
La censura esaminata pertanto va rigettata, dovendosi ritenere corretto il calcolo effettuato dall’Amministrazione sotto il profilo contestato dal ricorrente.
   VI) Da ultimo il ricorrente ha lamentato la mancata corresponsione degli interessi di mora per il ritardato pagamento a decorrere da ciascuna delle scadenza oggetto del compenso revisionale sino alla data dell’effettivo soddisfo. Va osservato che seppur nel solo frontespizio dell’atto introduttivo il ricorrente ha chiesto altresì la rivalutazione monetaria.
Secondo un costante orientamento dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi “
Data la natura di debito di valuta propria del compenso a titolo di revisione dei prezzi in materia di contratti ad esecuzione periodica o continuativa, lo stesso è soggetto alla corresponsione degli interessi di mora per ritardato pagamento, dal momento in cui sono dovuti e sino all'effettivo soddisfo, in applicazione del d.lgs. 09.10.2002 n. 231, di attuazione della Direttiva n. 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento della P.A. nelle transazioni, mentre non è dovuta la rivalutazione monetaria, in mancanza della prova da parte dell'impresa creditrice di aver subito un danno maggiore dell'importo corrispondente agli interessi legali” (TAR Lecce sez. II 25.09.2017 n. 1518; TAR Lazio-Roma, sez. II, 04.09.2017 n. 9531).
Nel caso di specie va riconosciuto il diritto della ricorrente ad ottenere la corresponsione degli interessi per ritardato pagamento dal momento in cui sono dovuti e sino all'effettivo soddisfo, mentre non v’è spazio per il riconoscimento del diritto alla rivalutazione monetaria, non avendo la ricorrente dato prova della sussistenza di un maggior danno.
Pertanto in parziale accoglimento della domanda va disposto che l’Amministrazione ricalcoli la somma dovuta computando gli interessi di mora dovuti alla ricorrente.
   VII) Per le ragioni che precedono il ricorso va accolto soltanto limitatamente al riconoscimento degli interessi moratori sulle somme riconosciute a titolo di revisione prezzi.
Considerata l’assenza di precedenti giurisprudenziali in termini, sussistono eccezionali ragioni per disporre la compensazione delle spese di lite (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 28.02.2018 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
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Le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree.
Pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse, essendo sufficiente per la loro reiezione il mero contrasto con i principi ispiratori del piano.
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Le scelte di pianificazione territoriale, in quanto espressione di tale ampia discrezionalità, sono sindacabili dal giudice amministrativo entro limiti alquanto ristretti: a tale riguardo le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, tanto che non è configurabile neppure il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti.
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2. Passando all’esame della restante parte del ricorso, ossia quella attraverso la quale si contesta la classificazione in zona agricola del mappale n. 106, la stessa è infondata.
3. Con le censure contenute nel ricorso si deduce il difetto di motivazione in relazione al rigetto delle osservazioni presentate dai ricorrenti, non essendo stata considerata la vocazione produttiva oggettivamente rilevabile dell’area, pure in passato sancita dagli strumenti urbanistici e altresì riconosciuta agli ambiti limitrofi.
3.1. Le doglianze sono infondate.
L’area in cui insiste il mappale n. 106 è inserita in un contesto agricolo, considerato che su tre lati la stessa confina con terreni agricoli, qualificati quali ambiti destinati all’attività agricola di interesse strategico. La zona a vocazione produttiva, in cui i ricorrenti hanno chiesto di inserire anche la loro proprietà, si trova invece sul lato opposto della strada provinciale n. 31, come verificabile dalla consultazione degli allegati al P.G.T. (tavola PDR.01c: all. 14 del Comune) e al P.T.C.P. (tavola 6: all. 20 del Comune). Pertanto, correttamente l’Amministrazione non ha accolto le osservazioni formulate dai ricorrenti che chiedevano
   (i) la variazione dell’azzonamento dell’area da produttiva a commerciale,
   (ii) la possibilità di ristrutturare in ampliamento l’edificio esistente e
   (iii) la possibilità di ricavare dei parcheggi di pertinenza nell’area di cui al mappale n. 177, oltre che
   (iv) l’eliminazione della fascia di rispetto stradale della SP31.
Difatti, nelle controdeduzioni comunali si è evidenziato che l’area rientra nelle “emergenze puntuali – attività incompatibili” di cui all’art. 36-bis delle N.T.A. del P.d.R. (all. 3 del Comune), ovvero si è al cospetto di una zona con la presenza di attività incompatibili con l’intorno agricolo e rurale, come rilevabile dall’esame delle strategie di Piano poste a fondamento del P.G.T. (cfr. all. 6 del Comune).
Del resto, il contesto in cui è inserita l’area non poteva che condurre a qualificarla come parte essenziale del sistema della ruralità, come chiarito sia dal Documento di Piano, che ha imposto di evitare nuovo consumo di suolo nel settore est della S.P. n. 31, Via Garibaldi, ossia nella zona in cui è collocato il mappale n. 106 (pag. 220, punto A.8: all. 19 del Comune), sia dall’inserimento del predetto mappale nella Classe 4 (alta) di sensibilità paesaggistica (PDR.04: all. 17 del Comune). Comunque, l’art. 36-bis delle N.T.A. del P.d.R. non ha escluso affatto la possibilità di effettuare interventi (conservativi) di recupero edilizio sul manufatto preesistente, a patto però di non dar luogo ad incrementi rilevanti dello stesso.
Tali valutazioni, quindi, appaiono pienamente ragionevoli e assolutamente giustificate e coerenti con le linee strategiche poste alla base del disegno pianificatorio. Del resto, le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 20.06.2017, n. 1371; 27.02.2017, n. 451).
Va altresì evidenziato che nemmeno può trovare tutela in sede giurisdizionale una aspettativa non giuridicamente qualificata in relazione ad una migliore collocazione o destinazione della propria area (TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2017, n. 761).
Inoltre, gli specifici rilievi formulati dalle parti ricorrenti, oltre ad impingere nel merito delle scelte dell’Amministrazione, non si fondano su elementi obiettivi in grado di dimostrare l’abnormità o l’evidente irragionevolezza delle determinazioni dell’Amministrazione in relazione ai dati fattuali posti alla base delle stesse, soprattutto avuto riguardo alla decisione di salvaguardare al massimo livello l’area in questione; in assenza, peraltro, di un affidamento tutelato al cambio di destinazione dell’area in capo ai ricorrenti, la scelta dell’Amministrazione non può essere ritenuta illegittima (cfr., in tal senso, TAR Lombardia, Milano, II, 25.05.2017, n. 1166; 30.11.2016, n. 2271).
3.2. Quanto all’eccepito difetto di motivazione della scelta pianificatoria posta in essere dal Comune, oltre ad apparire in fatto infondato, risulta smentito anche dal consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, secondo il quale “le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree; pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse, essendo sufficiente per la loro reiezione il mero contrasto con i principi ispiratori del piano” (TAR Lombardia, Milano, II, 15.12.2017, n. 2396; 20.06.2017, n. 1371; 30.03.2017, n. 761; altresì, TAR Toscana, I, 06.09.2016, n. 1317; TAR Lombardia, Milano, II, 26.07.2016, n. 1505).
Nel caso de quo, l’Amministrazione ha evidenziato l’inopportunità delle modifiche proposte dalle parti private rispetto alle scelte poste alla base del Piano, giacché si è inteso tutelare la valenza paesaggistica della zona in cui è situata l’area di proprietà dei predetti soggetti; ciò appare satisfattivo degli obblighi imposti in tal senso dalla legge all’Autorità comunale, titolare del potere pianificatorio (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 15.12.2017, n. 2396; 20.06.2017, n. 1371; 27.02.2017, n. 451).
3.3. Poi, la diversa collocazione della proprietà dei ricorrenti rispetto a quelle di altri soggetti, seppure poste tra loro in rapporto di prossimità, giustifica certamente una differente classificazione urbanistica delle stesse, anche in conseguenza della disomogeneità degli interventi da effettuarsi nei vari comparti edificatori e in ragione della loro consistenza.
Pertanto, in assenza di omogeneità delle zone poste in comparazione, affatto dimostrata nel presente giudizio, non è possibile invocare pretese finalizzate ad ottenere una parità di trattamento, tanto meno in relazione all’assetto urbanistico del territorio, dove l’Amministrazione dispone della più ampia discrezionalità.
Le scelte di pianificazione territoriale, in quanto espressione di tale ampia discrezionalità, sono sindacabili dal giudice amministrativo entro limiti alquanto ristretti: a tale riguardo le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, tanto che non è configurabile neppure il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti (TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2017, n. 761; 09.04.2015, n. 903; si veda pure Consiglio di Stato, IV, 16.01.2012, n. 119).
3.4. Infine, il mancato accoglimento della richiesta formulata dai ricorrenti di eliminare la fascia di rispetto stradale appare giustificato dall’inidoneità del procedimento pianificatorio urbanistico a regolamentare una materia attinente nello specifico alla disciplina del traffico stradale.
3.5. Ciò determina il rigetto delle suesposte doglianze.
4. Di conseguenza, il ricorso deve, in parte, essere dichiarato inammissibile e, in parte, deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.02.2018 n. 567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Programma integrato di intervento e verifica postuma di assoggettabilità a vas.
Il fatto che la verifica di assoggettabilità alla VAS nei confronti di un piano integrato di intervento intervenga solo successivamente all’approvazione del PII non costituisce un vizio insanabile.
In realtà, ove l’esito della verifica postuma sia negativo, prevale l’aspetto sostanziale della conformità dell’intervento al diritto comunitario e, pertanto, il PII è da ritenersi convalidato e rimane efficace; nel caso opposto, invece, ossia qualora la verifica evidenzi la necessità della VAS, l’approvazione del PII viene travolta, con conseguente obbligo per l’amministrazione di intervenire nuovamente per conformare il programma alle risultanze della VAS ovvero per cancellarlo definitivamente se del tutto incompatibile
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
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13. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
...
Sui presupposti del PII
17. Per quanto riguarda i presupposti del PII, si ritiene condivisibile la tesi del Comune, che afferma la presenza di tutte le condizioni poste dall’art. 87, comma 2, della LR 12/2005 (pluralità di destinazioni e di funzioni; compresenza di tipologie e modalità d'intervento integrate; rilevanza territoriale con effetto di riorganizzazione dell'ambito urbano). La norma, peraltro, ammette il PII anche quando solo due di queste condizioni siano presenti.
18. Nel progetto sono previste, e tra loro coordinate, due destinazioni d’uso principali (residenziale e commerciale). La seconda è a sua volta suddivisa in una pluralità di utilizzazioni differenziate. Appare quindi evidente la finalità di dare una nuova impronta urbanistica a questa parte del territorio. Non è necessario che nel PII siano previste infrastrutture pubbliche o destinate a servizi pubblici, in quanto la riorganizzazione dell’ambito urbano può riguardare anche le sole destinazioni di interesse dei privati, quando il disegno complessivo corrisponda a un interesse pubblico.
Perché sussista un interesse pubblico non occorre che vi sia il passaggio da una condizione di degrado a una di recupero ambientale delle aree interessate. Questa è certamente una delle finalità perseguibili con il PII, ma nello schema flessibile di tale strumento urbanistico possono rientrare molti altri interventi (l’art. 88, comma 2, della LR 12/2005 stabilisce, con formula ampia, che il PII persegue obiettivi di riqualificazione urbana e ambientale).
È quindi ammissibile anche un programma come quello in esame, che riscrive completamente le caratteristiche di una porzione di territorio. La circostanza che la trasformazione urbanistica aumenti il peso insediativo è del tutto normale, purché l’effetto sia ben regolato e funzionale.

Sul bilanciamento degli interessi pubblici e privati
19.
L’incremento dei diritti edificatori non è solo normale, ma spesso è indispensabile per garantire la fattibilità economica del PII. Non sarebbe corretto desumere da questa circostanza che l’amministrazione finisca per favorire i privati. L’utilità conseguita dai privati è perfettamente legittima, se bilanciata da una corrispondente utilità pubblica. Le valutazioni che portano alla definizione dell’equilibrio si collocano in una sfera di ampia discrezionalità per l’amministrazione, e non sono, né potrebbero essere, vincolate a un tetto insuperabile stabilito direttamente dal legislatore.
Il limite di incentivo (pari al 15% della volumetria ammessa) previsto dall’art. 11, comma 5, della LR 12/2005 per i piani attuativi finalizzati alla riqualificazione urbana e all’edilizia residenziale pubblica riguarda interventi edilizi che non richiedono la modifica dello strumento urbanistico. È quindi sempre possibile andare oltre il suddetto limite attraverso una variante allo strumento urbanistico.
20. Il documento di inquadramento territoriale non pone ostacoli all’incremento dei diritti edificatori del PII tramite variante urbanistica. È vero che viene individuato l’obiettivo prioritario di migliorare il sistema del verde, dei servizi e della viabilità (v. paragrafo 8.1.1), e sono presenti inoltre direttive specifiche sul recupero dei siti produttivi dismessi (v. paragrafo 7.0). Tra gli obiettivi prioritari è però espressamente affermato anche quello di ottimizzare il riuso del territorio urbanizzato (v. paragrafo 8.1.1).
Il PII è quindi uno strumento perfettamente utilizzabile per inserire nuova volumetria all’interno di aree già trasformate, e occupate da edilizia a bassa densità, in modo da evitare il consumo di suolo agricolo. La possibilità di progettare unitariamente un intero ambito territoriale garantisce che la maggiore volumetria sia disposta razionalmente, e sia impiegata per destinazioni d’uso ritenute utili alla collettività.
...
Sulla VAS
24. L’assoggettabilità del PII alla VAS è stata espressamente esclusa dal Comune con la deliberazione consiliare n. 3/2010, sul presupposto che i potenziali impatti sarebbero di modesta entità e gestibili attraverso le migliori tecniche disponibili, in particolare in materia di efficienza energetica.
25. La procedura seguita è coerente con le direttive formulate dalla Regione nell’allegato 1-M alla DGR 27.12.2007 n. 8/6420. Correttamente, le direttive regionali impongono la VAS nella fase transitoria soltanto alle varianti al PRG che producano gli stessi effetti delle varianti al Documento di Piano del PGT, essendo quest’ultimo il caso previsto a regime dall’art. 4, comma 2, della LR 12/2005. Nei confronti delle altre modifiche al PRG, equivalenti a varianti al Piano dei Servizi e al Piano delle Regole, è applicabile in via residuale soltanto la verifica di assoggettabilità alla VAS.
26. Il contenuto del PII che costituisce variante al PRG riguarda specifici indici edificatori (densità fondiaria, altezza massima consentita), e dunque è sovrapponibile alla materia del Piano delle Regole. Di conseguenza, l’unico adempimento necessario era la verifica di assoggettabilità alla VAS.
27.
Il fatto che tale verifica sia avvenuta solo successivamente all’approvazione del PII non costituisce un vizio insanabile. In realtà, poiché l’esito della verifica postuma è stato negativo, prevale l’aspetto sostanziale della conformità dell’intervento al diritto comunitario, e pertanto il PII è convalidato e rimane efficace. Nel caso opposto, invece, ossia qualora la verifica avesse evidenziato la necessità della VAS, l’approvazione del PII sarebbe stata travolta, e l’amministrazione avrebbe dovuto intervenire nuovamente per conformare il programma alle risultanze della VAS, o per cancellarlo definitivamente se del tutto incompatibile.
28. Sotto il profilo sostanziale, il giudizio sulla modesta entità dei potenziali impatti del PII trova conferma nella relazione ambientale del progettista, che costituisce l’allegato H al progetto (v. doc. 9 del Comune). In effetti, l’intensità dell’impatto non si misura quantitativamente in relazione alla nuova volumetria insediata, ma con un metodo qualitativo, analizzando il modo in cui tale volumetria si inserisce nel contesto. Se dunque le conseguenze della nuova edificazione possono essere importanti per gli edifici preesistenti collocati nelle immediate vicinanze, la valutazione è necessariamente differente quando il problema è esaminato in uno scenario più ampio, dove le innovazioni tendono a diluirsi e ad amalgamarsi con il resto del territorio (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 19.02.2018 n. 192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Limiti all’insediamento di nuove attività negli atti di programmazione aventi natura economica e non economica.
La distinzione tra atti di programmazione economica, che in linea di principio non possono più essere fonte di limitazioni all’insediamento di nuove attività, e atti di programmazione aventi natura non economica, i quali, invece, nel rispetto del principio di proporzionalità, possono imporre limiti rispondenti ad esigenze annoverabili fra i motivi imperativi di interesse generale, deve essere operata anche nell’ambito degli atti di programmazione territoriale.
Detti atti non vanno infatti esenti dalle verifiche prescritte dalla direttiva servizi per il solo fatto di essere adottati nell’esercizio del potere di pianificazione urbanistica, dovendosi verificare se in concreto essi perseguano finalità di tutela dell’ambiente urbano o, comunque, riconducibili all’obiettivo di dare ordine e razionalità all’assetto del territorio, oppure perseguano la regolazione autoritativa dell’offerta sul mercato dei servizi attraverso restrizioni territoriali alla libertà di insediamento delle imprese
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
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In via preliminare vanno respinte entrambe le eccezioni preliminari opposte dal Comune resistente.
Con riguardo all’eccezione di irricevibilità occorre considerare che, già al tempo dei fatti di causa, si era affermato, nella giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 16.02.1993 n. 62; 19.03.1996 n. 79) e amministrativa (Consiglio di Stato, sez. V, 29.01.2002 n. 491; id, sez IV, 08.07.1999, n. 1193), l’orientamento favorevole a riconoscere alla conferenza di servizi (sia a quella istruttoria sia a quella decisoria, come nel caso di specie) la qualificazione di “modulo procedimentale (organizzativo) suscettibile di produrre un’accelerazione dei tempi procedurali e, nel contempo, un esame congiunto degli interessi pubblici coinvolti (…), precipuamente finalizzato all’assunzione concordata di determinazioni sostitutive, a tutti gli effetti, di concerti, intese, assensi, pareri, nulla osta, richiesti dal procedimento pluristrutturale specificatamente conformato dalla legge” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 07.07.2000 n. 3830) e che si conclude con l’emissione della deliberazione finale, la quale “è un vero e proprio atto complesso e, come tale, deve essere unitariamente imputato a tutte le Autorità amministrative che, in qualità di membri necessari, hanno partecipato al suo perfezionamento. Detta delibera deve, poi, essere fatta propria dal Comune sul cui territorio la grande struttura deve essere eseguita” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 08.05.2007, n. 2107).
Gli approdi interpretativi formatisi in sede pretoria sono rimasti, nella sostanza, inalterati anche a seguito dell’evoluzione normativa che ha riguardato la conferenza di servizi (fino alle recenti modifiche di cui alla legge 124/2015 e al d.lgs. 127/2016), essendosi confermata la natura bifasica di tale istituto, connotato da una fase che si conclude con una determinazione (anche se di tipo c.d. decisorio) che ha valenza endoprocedimentale, e in una successiva fase che si traduce nell’adozione di un provvedimento con efficacia esterna.
Ne deriva che soltanto con la determinazione conclusiva è sostanziato l’onere di impugnazione.
Quanto, invece, all’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza d’interesse in capo alla ricorrente, è persuasivo rilevare che quest’ultima ha partecipato alla costituzione del “Consorzio Vulcano”, che ha poi sottoscritto in data 23.12.1998 una convenzione con l’Amministrazione comunale per attuare il piano particolareggiato oggetto del contendere e che, in data 23.04.2004, ha ottenuto l’autorizzazione all’apertura del centro commerciale: presupposti più che solidi per ritenere diretto, concreto e attuale l’interesse all’annullamento dell’impugnato provvedimento.
Ancorché tempestivo e ammissibile, il ricorso è, tuttavia, infondato nel merito e va, pertanto, respinto.
Non coglie nel segno, per almeno due ragioni, il primo motivo, con cui è stata censurata la lesione delle prerogative di partecipazione al procedimento e la violazione dell’art. 10-bis della legge 241/1990.
Anzitutto, occorre osservare che, prima della comunicazione del provvedimento di diniego (22.05.2007), con raccomandata del 02.05.2007 la Regione Lombardia ha reso noto alla ricorrente “ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 9, commi 3 e 5, del D.Lgs. 114/1998, nonché dell'art. 5, comma 10, della L.R. 14/1999, (…) che in data 19.04.2007 la conferenza di servizi ha ritenuto non ammissibile la domanda presentata dalla Ma. S.r.l. prendendo atto dell'attestazione di non conformità urbanistica effettuata dal Comune”.
Oltre a ciò, alla conferenza di servizi ha partecipato l’amministratore unico della ricorrente e i suoi consulenti, i quali hanno esplicitato le proprie argomentazioni tecniche e giuridiche in interventi puntualmente verbalizzati.
Parimenti infondato è il secondo motivo, incentrato sulla violazione della legislazione nazionale e regionale sul commercio, della deliberazione regionale sulle “modalità applicative del programma triennale per lo sviluppo del settore commerciale 2003-2005 in materia di grandi strutture di vendita” e delle norme tecniche del piano attuativo Vulcano, nonché sull’eccesso di potere in cui sarebbe incorso il Comune resistente.
Sul punto, va esaminato il contenuto dell’istanza presentata dalla ricorrente il 21.02.2007.
In tale domanda è stato espressamente significato che “all'interno del “comparto operativo uffici”, adiacente al “comparto integrato di servizi e commercio", è previsto l'ampliamento della superficie di vendita del centro commerciale de quo”, nel senso che “all'interno del “comparto operativo uffici” è prevista la realizzazione di una superficie lorda di pavimento di mq. 63.398, di cui mq. 12.900 destinati alla funzione commerciale, in conformità alla prescrizioni dello strumento attuativo vigente”, riconoscendo che, in rapporto alla distribuzione della SLP per tipologie di destinazione sull’intero piano attuativo, “la superficie lorda di pavimento complessivamente destinata alla funzione commerciale risulta essere pari a mq. 40.000, in ottemperanza a quanto disposto dal vigente strumento urbanistico attuativo”.
Ciò conferma la disciplina delineata dalle norme di attuazione del Piano Vulcano, nella quale si è previsto che lo sviluppo edificatorio di ciascun comparto attuativo (definito come “area operativa, interna al Piano attuativo, oggetto di interventi unitari, anche se realizzati in fasi successive”, cfr. art. 5) debba correlarsi ai “limiti quantitativi” di cui al precedente art. 3.
Sotto tale profilo, nel “comparto operativo centro integrato servizi e commercio” è stato stabilito che si sarebbero potuti insediare esercizi di vicinato, medie strutture di vendita, grandi strutture di vendita, centri commerciali al dettaglio, mentre negli altri cinque comparti sarebbe stato ammissibile soltanto l’insediamento di esercizi di vicinato e medie strutture di vendita.
Il tutto nel rispetto degli inderogabili limiti di SLP complessivamente determinati dal piano, non altrimenti modificabili a pena di alterazione della ripartizione dei complessivi mq. 261.000.
La tesi della ricorrente ha preso le mosse dal presupposto che “all’interno del centro commerciale “Vulcano” risulta autorizzata una superficie di vendita di mq. 4.200 per il settore alimentare e di mq. 22.300 per il settore non alimentare, per un totale di mq. 26.500, come da provvedimento n. 3683 rilasciato dal Comune di Sesto San Giovanni in data 23.04.2004”, e che, dunque, l’istanza “di rilascio di una autorizzazione per l'ampliamento della superficie di vendita del Centro Commerciale Vulcano esistente riguarda una superficie di vendita di mq. 12.000, afferente esclusivamente il settore non alimentare”, e che, quindi, non violerebbe il limiti massimo di mq. 40.000 destinati alla funzione commerciale, in quanto “ad ampliamento avvenuto la superficie di vendita complessiva risulterebbe pari a mq. 38.500, di cui mq. 4.200 per il settore alimentare e mq. 34.300 per il settore non alimentare”.
A sostegno di tale prospettazione ha richiamato il contenuto della relazione di compatibilità urbanistica-territoriale allegata alla domanda, deducendo che “il giudizio di conformità di un insediamento con le previsioni degli strumenti urbanistici generali ed attuativi, riguardando la corrispondenza della fattispecie concreta con un assetto di interessi già prefigurato dalla disciplina urbanistica applicabile implica una valutazione eminentemente doverosa e vincolata, priva di contenuti discrezionali e, di talché il provvedimento di accertamento di conformità assume una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di appezzamenti discrezionali” (cfr. pag. 65).
Ad avviso del Collegio, però, tali assunti non possono essere condivisi.
È la stessa ricorrente ad aver evidenziato che “nell'ambito di trasferimenti di superficie lorda di pavimento di cui sopra, è stata attribuita dal progetto al Comparto Uffici una superficie lorda di pavimento commerciale pari a mq. 12.900 che, sommata a quella attualmente "utilizzata" dal Centro Commerciale esistente (mq. 27.100), satura la capacità edificatoria massima prevista dal Piano Particolareggiato vigente per la funzione commerciale (mq. 40.000)” e che, quindi, il reale intento oggetto della domanda di inequivoco oggetto (“ampliamento”) è stato quello di potenziare l’esistente centro commerciale, il quale –come ha soggiunto sempre la ricorrente– “si caratterizza (…), in tutto o in parte, per i seguenti elementi: unicità della struttura o dell'insediamento commerciale; destinazione specifica o prevalente della struttura; spazi di servizio gestiti unitariamente; infrastrutture comuni”.
A compendio della sussistenza di oggettivi indici di accorpamento va, inoltre, considerata la disposizione di cui all’art. 4, comma 1, lett. g), del D.lgs. 114/1998, secondo cui “ai fini del presente decreto per superficie di vendita di un centro commerciale si intende quella risultante dalla somma delle superfici di vendita degli esercizi al dettaglio in esso presenti”.
Proprio l’aumento della superficie di vendita si appalesa costituire, nella specie, il peculiare l’obiettivo della domanda del 21.02.2007, avendo la ricorrente chiesto il “rilascio dell'autorizzazione commerciale per l'ampliamento della superficie di vendita di una grande struttura - centro commerciale autorizzato”, ma non tenendo conto della previsione essenziale e dirimente che preclude l’insediamento, nel comparto operativo contiguo a quello ove attualmente sorge il centro commerciale, di una grande struttura di vendita.
Non solo.
La disciplina trasfusa nelle norme tecniche attuative del piano è informata all’osservanza di un preciso criterio dimensione per le grandi strutture di vendita; l’art. 3 delle NTA ha, infatti, previsto che, per la destinazione commerciale (la quale, come sopra si è detto, è soggetta al complessivo limite quantitativo di SLP di 40.000 mq.), sia ammessa la realizzazione di varie tipologie merceologiche (testualmente “ad esempio: centro commerciale, negozi di generi di prima necessità, negozi specializzati, attività artigianali di servizio”), ma con la sostanziale precisazione che “gli spazi destinati alla grande distribuzione non potranno avere una Slp maggiore di m. 14.000”.
Una precisazione che, ad avviso del Collegio, sottende una finalità di impulso alla concorrenza, cioè favorire l’apertura di grandi strutture da parte di più operatori commerciali, così impedendo il consolidamento di posizioni di quasi monopolio, e che, per inciso, pone qualche dubbio sulla legittimità del procedimento che ha condotto al rilascio dell’originaria autorizzazione alla società ricorrente nel “Comparto operativo centro integrato servizi e commercio” per una superficie di 26.500 mq.
Dato il citato limite dimensionale, deve ritenersi che la richiesta della ricorrente (ad avviso della quale “l’inserimento di esercizi di vicinato e di medie strutture di vendita all'interno del Comparto Uffici, nell'ambito della s.l.p. commerciale residua summenzionata, è conforme a quanto stabilito dal vigente P.R.G., ma configura tale insediamento, alla luce della sopraggiunta normativa regionale in materia di commercio, quale centro commerciale”) non può che deporre per la volontà di insediare, nel “comparto operativo uffici”, una grande struttura di vendita (12.900 mq), perché altro non potrebbe essere in base alla definizione legale di “centro commerciale”, ossia “una media o una grande struttura di vendita nella quale più esercizi commerciali sono inseriti in una struttura a destinazione specifica e usufruiscono di infrastrutture comuni e spazi di servizio gestiti unitariamente” (art. 4, comma 1, lett. g), del D.lgs. 114/1998).
Ma tale tipo di insediamento è espressamente escluso dalla normativa di piano (anche volendo prescindere dalla contestazione dell’Amministrazione comunale sull’artificioso accorpamento tra le superfici oggetto della domanda del 21.02.2007 e quelle già assentite con l’autorizzazione del 23.04.2004), né potrebbe ritenersi ugualmente ammissibile in ragione dell’inevitabile alterazione dell’assetto del territorio urbano, della dotazione di parcheggi pertinenziali, delle aree per il carico e lo scarico delle merci, degli standard urbanistici, dell’impatto sul sistema viario, insomma del carico urbanistico che graverebbe sul comparto c.d. “contiguo”.
È, perciò, giustificato il giudizio di inammissibilità –per “mancanza della conformità urbanistica” del programmato insediamento– espresso dalla conferenza di servizi del 19.04.2007 per violazione dell’art. 4.2 della deliberazione di G.R. n. VII/15701 del 18.12.2003, nella quale si prevede che “qualora dovesse ricorrere un motivo di inammissibilità (mancanza degli elementi essenziali, non conformità urbanistica, obbligo di sottoporre l’intervento a procedura di verifica o di valutazione di impatto ambientale non soddisfatto alla presentazione della domanda di autorizzazione) della domanda, la conferenza ne prende atto e si chiude il procedimento in corso”.
Tale concetto, inoltre, è stato ribadito nella parte del verbale di conferenza di servizi ove si è evidenziato che “la concentrazione di tutta la superficie ad uso commerciale in due comparii contigui non sia opportuna, sia rispetto ad una corretta pianificazione commerciale, sia con riferimento all'articolazione funzionale che deve essere garantita nell'attuazione di un complesso comprensorio di trasformazione come quello del P.A.”.
Assumendo tale posizione il Comune resistente ha, infatti, inteso difendere le scelte di pianificazione tradottesi nel piano attuativo, ossia l’individuazione di “sei comparti operativi (ciascuno comprendente più unità di intervento) (…) cui sono correlate le opere di urbanizzazione primaria e secondaria e le opere di collegamento ai pubblici servizi” (art. 2, comma 1, delle NTA del piano attuativo).
Sotto tale profilo, è necessario precisare che la vicenda per cui è causa non prospetta questioni riguardanti una limitazione all’insediamento di una grande struttura perpetrata mediante l’esercizio (sviato) della potestà di pianificazione: profilo, del resto, non dedotto neppure dalla ricorrente.
Non si profila, dunque, la questione sulla rilevanza della distinzione tra atti di programmazione economica –che in linea di principio non possono più essere fonte di limitazioni all’insediamento di nuove attività– e atti di programmazione aventi natura non economica, i quali, invece, nel rispetto del principio di proporzionalità, possono imporre limiti rispondenti ad esigenze annoverabili fra i motivi imperativi di interesse generale (principio, questo, articolato nella direttiva 2006/123/CE, c.d. Bolkestein, che, comunque, nel nostro ordinamento è stata recepita con il D.lgs. 59/2010, quindi successivamente all’emissione dell’impugnato provvedimento).
Una distinzione che –come si è osservato in giurisprudenza– “deve essere operata anche nell’ambito degli atti di programmazione territoriale, i quali non vanno esenti dalle verifiche prescritte dalla direttiva servizi per il solo fatto di essere adottati nell’esercizio del potere di pianificazione urbanistica, dovendosi verificare se in concreto essi perseguano finalità di tutela dell’ambiente urbano o, comunque, riconducibili all’obiettivo di dare ordine e razionalità all’assetto del territorio, oppure perseguano la regolazione autoritativa dell’offerta sul mercato dei servizi attraverso restrizioni territoriali alla libertà di insediamento delle imprese” (cfr. TAR Lombardia–Milano, 10.10.2013, n. 2271).
Nella specie, al contrario, non vi è stata compressione alcuna della libertà di stabilimento, avendo l’Amministrazione più semplicemente rilevato l’inammissibilità di una domanda di ampliamento che avrebbe palesemente violato la disciplina urbanistica sugli insediamenti commerciali, vale a dire i limiti fissati per le grandi strutture di vendita, e ciò in totale autonomia dai principi in tema di liberalizzazione del mercato dei servizi (cfr., sul punto, TAR Emilia Romagna–Parma, 17.03.2016, n. 110).
La legittimità del provvedimento che ha decretato l’inammissibilità dell’ampliamento richiesto dalla società ricorrente determina, quale naturale effetto, l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse, del terzo motivo, con cui è stata dedotta la violazione della disciplina legislativa sulla dotazione di aree a standard urbanistici (in particolare, i parcheggi pubblici), giustificata dal Comune di Sesto San Giovanni mediante una motivazione conseguenziale all’abnormità della superficie commerciale richiesta dalla ricorrente (“considerata la dimensione del prospettato "ampliamento" del centro commerciale -di oltre il 47% rispetto alla SLP commerciale in esercizio- si ritiene qualificante per l'insediamento e opportuno ai fini di contenere il suo impatto sul contesto, il reperimento di una dotazione di standard urbanistici nella misura del 200% della superficie lorda di pavimento, ferma restando la dotazione di comparto già stabilita dal piano particolareggiato”).
In conclusione, il ricorso è in parte infondato e in parte improcedibile, nei sensi espressi in motivazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.02.2018 n. 460 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI -TRIBUTISulla Pec il ricorso è blindato. Il giudice deve attenersi all'eccezione del contribuente.
Notifica della cartella via Pec, il giudice deve attenersi all'eccezione sollevata con il ricorso del contribuente.
Mentre si va consolidando il maggioritario orientamento delle pronunce dei giudici di merito sulla nullità delle notifiche via Pec di cartelle allegate in Pdf (da ultima si veda Ctp Siracusa sentenza 14.02.2018 n. 881/2/2018 - link a www.dirittoitaliano.com), di converso non pare sia dato il giusto risalto alla diversa normativa alla quale si rifanno le Commissioni tributarie per accertarne la violazione di legge.
Ci si intende riferire al fatto che, nella sua attuale versione, l'art. 26, comma 2 del dpr n. 602/1973 prevede che la notifica della cartella possa essere eseguita tramite Pec «con le modalità di cui al dpr n. 68/2005» all'indirizzo del destinatario risultante dall'indice nazionale dell'indirizzo di posta elettronica certificata (Ini–Pec).
Quindi, mentre non c'è dubbio che l'Agente della Riscossione possa valersi del servizio di posta elettronica certificata, altrettanto pacifico è che debbano essere rispettate le modalità previste dal citato dpr n. 68/2005. Nonostante tale decreto sia stato oggetto di numerosi interventi legislativi, modificativi e abrogativi di molti articoli che lo compongono –tanto da rendere arduo stabilire quali parti di esso siano ancora in vigore e secondo quale testo– piaccia o non piaccia, questo è il dispositivo di legge atto a stabilire quale siano «le modalità di trasmissione» da rispettare.
A dimostrazione della «attualità» della norma, basti pensare che il dpr 68/2005 è quello nuovamente richiamato dall'art. 60 del dpr 600/1973, come modificato dalla legge 225/2016 (all'art. 7-quater, nono comma).
La questione si pone perché tale normativa –in gran parte– si sovrappone a quella regolamentata dal dlgs 82/2005 (Codice dell'Amministrazione digitale-Cad), la cui obbligatorietà di applicazione è oramai estesa ad ogni branca della pubblica amministrazione, nonché alle società a controllo pubblico. Senza volere qui appesantire la lettura, ci troviamo quindi di fronte a due fonti di legge di primo livello che regolamentano –in modo spesso non uniforme– la stessa materia (ad esempio si vedano «le regole tecniche», regolamentate sia dall'art. 17 del dpr n. 68/2005, sia dall'art. 71 del dlgs n. 82/2005, che rinviano a loro volta l'uno al dm 02.11.2005, e l'altro al dpcm 13.11.2014, i quali –manifestamente– si occupano in gran parte dei medesimi argomenti).
Inaspettatamente quasi tutte le sentenze –al fine di escludere la conformità dell'allegato (la cartella) al «documento informatico» previsto da ambedue le disposizioni– fanno normalmente riferimento all'art. 20 (ed altri) del dlgs n. 82/2005 anziché –per esemplificare e non per esaurire– agli articoli 1 e 3 del dpr n. 68/2005 (quello richiamato espressamente dall'art. 26, comma 2 del dpr n. 602/1973), il quale ultimo decreto contiene tutti gli elementi necessari per costituire il quadro normativo da utilizzare per l'esame della disciplina cui deve soggiacere la comunicazione Pec con i suoi allegati.
La questione non è di poco conto in quanto, soprattutto qualora il contribuente non abbia eccepito nel suo ricorso presunte violazioni dell'Amministrazione finanziaria alla normativa prevista dal dlgs n. 82/2005, non pare che d'ufficio i giudici del merito possano attestare la nullità della notifica, avvalendosi di tale ultima norma. E neanche si intravvede a ciò utilità alcuna, per via delle puntuali ed esaustive previsioni (si vedano ad esempio gli art. 9 e 11 del dpr n. 68/2005, nonché il dm del 02/11/2005 al quale rinvia l'art. 17 Regole tecniche) riportate nel dpr. Esse da sole sono tutte più che sufficienti a supportare la necessità dell'allegazione del file in formato «p7m» (busta CAdES) o altre (PAdES o XAdES).
Infatti, con il solo riferimento a questi ultimi dispositivi –tralasciandone molti altri– risulta chiaro che si deve avere riguardo a un «documento informatico» non già a una «copia informatica» (ossia una scansione del documento precedentemente emesso in forma cartacea)
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.04.2018).

TRIBUTITributi locali prescritti in cinque anni.
Nella riscossione dei tributi locali si applica il termine di prescrizione quinquennale, decorrente dalla data di notifica della cartella di pagamento divenuta definitiva per mancata impugnazione. L'Ufficio non potrà, dunque, applicare il termine di prescrizione decennale, in via analogica rispetto a quanto avviene nel caso in cui la pretesa erariale sia stata accertata con sentenza passata in giudicato.

A tali considerazioni, proprie anche delle sezioni unite della Cassazione, perveniva la III Sez. della Ctr del Lazio con sentenza 23.01.2018 n. 310/3/2018.
Il collegio laziale accoglieva parzialmente l'appello del contribuente dopo l'intervenuto rigetto del ricorso di primo grado con cui erano state impugnate diverse intimazioni di pagamento, per il pagamento di tributi locali, che si reputavano notificate a intervenuta prescrizione, in violazione, dunque, della disciplina sul termine breve di prescrizione. L'Ufficio ribadiva invece la definitività delle cartelle non opposte, attribuendo alle stesse effetti del tutto equiparabili al passaggio in giudicato della sentenza, e legittimando, in tal modo, la prescrizione della pretesa a dieci anni anziché ai cinque.
Veniva, tuttavia, precisato che nella riscossione dei tributi locali, l'ente impositore deve attenersi al termine di prescrizione quinquennale previsto per le obbligazioni periodiche ex art. 2948 c.c., categoria a cui sono ascrivibili i tributi in parola. I giudici nella sentenza, infatti, richiamando l'orientamento delle sezioni unite (Cass. civ. Sez. unite, sent. n. 23397 del 17/11/2016), specificano che la cartella esattoriale, pur avendo le caratteristiche di un titolo esecutivo, resta un atto amministrativo privo dell'attitudine ad acquisire efficacia di giudicato, il che significa che la decorrenza del termine per l'opposizione, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, mentre non determina alcun effetto processuale. Per tali motivi non potrà trovare applicazione l'art. 2953 cod. civ. ai fini della operatività della conversione del termine di prescrizione breve dei 5 anni in quello ordinario decennale.
Alla luce di ciò, contro un'intimazione di pagamento per tributi locali, che si riferisca a una cartella notificata oltre il termine quinquennale, è possibile proporre ricorso dinanzi al giudice tributario e ottenerne l'annullamento, come accadeva, pur se parzialmente con riferimento ad alcune cartelle, nel caso di specie.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) L'appello è parzialmente fondato. Assorbente rispetto a ogni altra questione risulta il problema della prescrizione. Non appare condivisibile la motivazione rassegnata dal primo giudice con riferimento al generico effetto interruttivo della prescrizione e all'operare, in ogni caso, del termine ordinario di prescrizione per effetto della notifica della cartella esattoriale.
La Corte di legittimità a Sezioni unite con la sentenza n. 23397 del 17/11/2016 ha affermato il principio di carattere generale secondo cui la scadenza del termine perentorio sancito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo, o comunque di riscossione coattiva, produce soltanto l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo, ma non anche la c.d. «conversione» del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell'art. 2953 cod. civ.
Pertanto, ove per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l'opposizione, non consente di fare applicazione dell'art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo. La cartella di pagamento, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell'attitudine ad acquistare efficacia di giudicato.
Non essendo più ermeneuticamente assimilabile la cartella, non opposta, alla condanna passata in giudicato occorre considerare la specifica prescrizione della cartella in relazione al singolo tributo. ( ) i tributi locali si strutturano come prestazioni periodiche ( ) l'utente è tenuto al pagamento di essi in relazione al prolungarsi, sul piano temporale, della prestazione erogata dall'ente impositore, senza che sia necessario, per ogni singolo periodo contributivo, un riesame dell'esistenza dei presupposti impositivi.
Essi, quindi vanno considerati come obbligazioni periodiche o di durata e sono sottoposti alla prescrizione quinquennale di cui all'art. 2948, n. 4 cod. civ. Applicando gli esposti principi al caso in esame si evince che le cartelle oggetto delle intimazioni di pagamento ( ) sono relative a tributi locali dovuti per gli anni 1996, 1997, 1993-1998 in relazione ai quali risulta ampiamente decorso il termine quinquennale di prescrizione considerato peraltro che la notifica delle cartelle è intervenuta negli anni 2002-2003-2004 e 2005. ( )
Ne consegue l'accoglimento parziale dell'appello nei termini sopra precisati. ( )
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.04.2018).

TRIBUTIUffici postali, niente imposta sulle insegne.
Le insegne degli uffici pubblici di Poste Italiane non avendo la valenza di messaggio pubblicitario atto a stimolare il pubblico alla consumazione del bene o alla fruizione del servizio in vendita, ma limitandosi a fornire agli interessati le informazioni per l'individuazione del luogo in cui è possibile fruire del servizio, non scontano l'imposta sulla pubblicità se sono al di sotto delle dimensioni che la normativa in materia prescrive per dette installazioni.

Sono queste le precisazioni con cui la Ctp di Pavia, con la sentenza 13.12.2017 n. 353/2/2017, accoglieva il ricorso della società Poste Italiane contro l'avviso di accertamento con cui le veniva contestato l'omesso versamento dell'imposta sulla pubblicità da parte del comune di Mortara. La ricorrente fondava il ricorso proprio sulla non corretta applicazione della disciplina relativa all'imposta comunale sulla pubblicità e sulle pubbliche affissioni introdotta con dlgs 507/1993.
La stessa considera rilevanti ai fini dell'assoggettamento tutti quei messaggi diffusi nell'esercizio di una attività economica che abbiano lo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero che siano finalizzati a migliorare l'immagine del soggetto pubblicizzato. La ricorrente aggiungeva, inoltre, che le insegne, anche per dimensioni, non superavano i limiti fissati dalla legge oltre i quali l'imposta era dovuta.
Pertanto la Ctp di Pavia esaminava la documentazione allegata che illustrava funzione e dimensioni delle suddette insegne pubblicitarie. Le stesse, da intendersi come ogni scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da simboli o da marchi installata nella sede dell'attività, non solo si limitavano a contraddistinguere il luogo in cui i servizi sono resi, ma erano di superficie complessiva inferiore a 5 mq.
Il comma 1-bis dell'art. 17 del dlgs 507/1993 istitutivo del canone sulla pubblicità, introdotto dall'art. 10 della legge 28/12/2001 n. 448, stabilisce infatti che il canone «non è dovuto per le insegne di esercizio delle attività commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si riferiscono, per la superficie complessiva sino a cinque metri quadrati».
Nel caso di specie la società delegata all'accertamento e alla riscossione dal comune di Mortara utilizzava un errato sistema di misurazione delle affissioni dell'ufficio pubblico che, comunque, non superavano le soglie metriche fissate dalla legge ai fini dell'assoggettamento all'imposta. La Ctp Pavia, pertanto, accoglieva il ricorso, annullando l'atto di accertamento.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
(Omissis) Con l'avviso di accertamento di cui in epigrafe, il Concessionario del servizio I. srl, addetto al servizio accertamento e riscossione dell'imposta comunale sulla pubblicità e diritto sulle pubbliche affissioni del comune di Mortara, accertava a carico della ricorrente
Società Poste italiane spa ( ) ai fini dell'imposta sulla pubblicità per l'anno 2016, la somma complessiva di € 153,00 per imposta dovuta, interessi moratori, sanzioni e spese.
Motivi dell'impugnazione.
La società Poste italiane spa proponeva ricorso contestando l'avviso in epigrafe ed eccependo: in via preliminare e assorbente la violazione e falsa applicazione dell'art. 17, comma 1-bis, dlgs 507/1993 e della risoluzione del ministero dell'economia e delle finanze 24/04/2009, n. 2F. La società contesta infatti di aver omesso il versamento dell'imposta di pubblicità in quanto questo non era dovuto: la I. srl avrebbe infatti effettuato un calcolo errato della superficie delle insegne recanti la scritta Poste italiane e Mortara
( )
Motivi della decisione.
Il ricorso è fondato e merita accoglimento. Dalla disamina della documentazione allegata risulta evidente che le insegne non hanno valenza di messaggio pubblicitario atto a stimolare il pubblico alla consumazione del bene o alla fruizione del servizio in vendita, bensì vanno inquadrate nella categoria degli avvisi al pubblico e svolgono la mera funzione di fornire agli interessati le informazioni atte a facilitare e individuare la fruizione dei servizi resi e la loro sede. ( )
A ciò si deve aggiungere che nessuna di esse, oltre che anche complessivamente, supera le superfici minime esenti previste dal legislatore. Il dlgs 507 del 1993, innovato dall'art. 10, comma 1, lett. C legge 28/12/2001 n. 448, stabilisce che l'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni e di servizi, che contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a 5 mq. ( ) nella fattispecie, non viene superato il limite massimo di esenzione dei 5 mq. Le spese del giudizio seguono la soccombenza.
Le stesse si liquidano a favore di Poste Italiane in complessivi 200,00, oltre accessori di legge dovuti.
P.Q.M. Accoglie il ricorso e condanna il comune di Mortara alla rifusione delle spese del grado liquidate in complessivi 200,00, oltre accessori di legge dovuti
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.04.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ABBANDONO DI RIFIUTI AD OPERA DI IGNOTI: PROVA PROVENIENZA.
Rifiuti - Abbandono di rifiuti ad opera di ignoti - Provenienza certa dei rifiuti da una determinata impresa - Mancata dimostrazione da parte del titolare di averli consegnati a terzi autorizzati - Responsabilità per lo smaltimento illegale - Prova logica - Legittimità
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 110, cod. pen.; art. 192, c.p.p.
In caso di abbandono e smaltimento illegale di rifiuti speciali, legittimamente il Giudice può ricorrere alla prova logica secondo cui, allorquando sia certa la provenienza dei rifiuti (nella specie da un’attività di autocarrozzeria), i soggetti titolari dell’impresa, cui siano riferibili i rifiuti, sono responsabili del loro abbandono e smaltimento illegale, salvo che non dimostrino di averli consegnati a terzi autorizzati.
Il Tribunale condannava P. e F. per aver abbandonato, in concorso con ignoti, rifiuti speciali non pericolosi, costituiti da parti di autoveicoli prodotti dall’attività di autocarrozzeria di cui erano titolari, rinvenuti all’interno di un’area verde interessata da un più vasto abbandono di rifiuti di diversa natura e provenienza.
La Suprema Corte ha respinto il proposto ricorso, in cui si sosteneva il travisamento della prova, osservando che il Giudice aveva precisato che il teste P. della Polizia Provinciale di Firenze aveva riferito che, a seguito della segnalazione di un cittadino, erano stati trovati, sul terreno di proprietà di due persone estranee al processo, rifiuti di vario genere (carcasse di elettrodomestici, calcinacci in cartongesso, rifiuti di demolizioni e pezzi di automobili) e che, da un’esplorazione più accurata dei rifiuti, era emerso un pezzo di automobile con una targa intestata ad una donna, la quale aveva dichiarato di aver fatto riparare la sua auto in una carrozzeria di Firenze.
A loro volta, gli imputati, gestori della carrozzeria in questione, avevano dichiarato che i rifiuti pericolosi venivano gestiti da una ditta e quelli non pericolosi da tale E.F., successivamente risultato titolare di una ditta edile che faceva anche demolizioni di strutture metalliche e sgomberi di cantine, senza avere alcuna autorizzazione per lo smaltimento dei rifiuti.
Secondo la Cassazione, condivisibilmente il Giudice era ricorso alla prova logica: siccome i rifiuti erano riferibili indiziariamente agli imputati, i quali non avevano dimostrato di averli consegnati a terzi, doveva arguirsi che gli stessi erano responsabili del loro abbandono e smaltimento illegale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.11.2017 n. 52631 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 1/2018).

EDILIZIA PRIVATA: Demolizione di costruzioni abusive.
E' legittima l'ordinanza di demolizione basata sul presupposto dell'assenza del titolo paesaggistico, ex D.Lgs. n. 42/2004, di una pergotenda che, in ragione delle sue dimensioni, è idonea ad alterare l'aspetto dell'edificio, e dunque ha un impatto sull'estetica e sulla "fotografia" del paesaggio a prescindere infatti dalla sua natura precaria e amovibile (di per sé irrilevante per l'applicazione delle disposizioni dell'indicato Codice dei beni culturali e del paesaggio).
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Ritenuto che i motivi di appello non sono fondati, poiché:
   - la sentenza impugnata ha correttamente considerato dirimente il fatto che l’ingiunzione n. 17 del 22.03.2016 (sulla quale si è nel corso del giudizio trasferito l’interesse a ricorrere) trova autonomo fondamento giuridico nella norma speciale che sanziona la violazione del vincolo paesaggistico;
   - come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, mentre l’ingiunzione di demolizione oggetto del ricorso introduttivo era basata sul solo difetto di titolo edilizio, la successiva ordinanza n. 17 del 2016 risulta basata sul presupposto dell’assenza del titolo paesaggistico, in quanto in essa si fa espresso riferimento al fatto che la parte ricorrente aveva presentato un’istanza ai sensi dell’art. 167 d.lgs. n. 42 del 2004, e che tale istanza era stata dichiarata archiviata per mancata integrazione documentale (con nota n. 4561 del 03.03.2016);
   - il Comune di Sant’Agnello è collocato in un’area geografica ‒la penisola sorrentina‒ interamente sottoposta al vincolo paesaggistico, e ciò importa che anche per l’opera in contestazione si impone la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica ‒atto autonomo e presupposto rispetto ai titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio‒ in mancanza della quale l’applicazione della riduzione in pristino è doverosa;
   - a prescindere infatti dalla sua (peraltro contestata da controparte) natura precaria e amovibile (di per sé irrilevante per l’applicazione delle disposizioni del codice n. 42 del 2004), la pergotenda oggetto dell’ingiunzione, in ragione delle sue dimensioni, è idonea ad alterare l’aspetto dell’edificio, e dunque ha un impatto sull’estetica e sulla “fotografia” del paesaggio;
   - l’art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 attribuisce all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia, imponendo l’adozione di provvedimenti di demolizione anche in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato;
   - da ultimo, quanto all’asserito vincolo discendente dal cosiddetto ‘giudicato’ cautelare, è dirimente considerare che l’ordinanza cautelare del giudice amministrativo è un provvedimento meramente interinale, destinato ad essere superato dal giudizio di merito;
   - per le ragioni che precedono, l’appello è infondato e va respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.10.2017 n. 4736 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’inottemperanza all’ordine di demolizione non può essere giustificata dalla circostanza che le opere abusive siano state oggetto di sequestro adottato dall’Autorità giudiziaria, in quanto nelle ipotesi suddette è sempre possibile richiedere il dissequestro allo scopo di eseguire l’ordine stesso, sfuggendo al rischio dell’acquisizione di diritto del bene e dell’area di sedime al patrimonio del Comune.
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8. Deve rilevarsi l’infondatezza del motivo di cui al primo ricorso per motivi aggiunti con cui è stato impugnato il verbale di accertamento di inottemperanza all’ordinanza di demolizione, con cui si è rilevato che tale atto non può essere adottato in pendenza di ricorso avverso l’ordinanza di demolizione. In assenza di provvedimento giurisdizionale di sospensione tale ultimo atto esplica pienamente i suoi effetti, per cui il destinatario è tenuto a eseguirlo.
Per identiche ragioni analoghe è infondato il secondo motivo, con cui i ricorrenti hanno dedotto che l’eventuale demolizione del manufatto comprometterebbe il proprio diritto di difesa da esercitare in sede di giudizio penale e di giudizio amministrativo.
Del tutto infondato il rilievo secondo cui, in presenza di sequestro, non era possibile procedere alla demolizione.
La giurisprudenza ha, infatti, precisato che l’inottemperanza all’ordine di demolizione non può essere cioè giustificata dalla circostanza che le opere abusive siano state oggetto di sequestro adottato dall’Autorità giudiziaria, in quanto nelle ipotesi suddette è sempre possibile richiedere il dissequestro allo scopo di eseguire l’ordine stesso, sfuggendo al rischio dell’acquisizione di diritto del bene e dell’area di sedime al patrimonio del Comune (tra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 28.01.2016 n. 335) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 13.03.2017 n. 409 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Occorre ben distinguere tra oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
Si afferma, infatti, in sede pretoria che per stabilire in quali casi sussiste l'obbligo di versamento del contributo di costruzione, occorre distinguere fra importi dovuti a titolo di oneri di urbanizzazione ed importi dovuti a titolo di costo di costruzione.
Per quanto riguarda specificamente i primi, si ritiene che, poiché la loro funzione è quella di far sì che il costruttore partecipi ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la costruzione ne ritrae, essi vanno corrisposti solo nel caso in cui l'intervento determini un aumento del carico urbanistico, e cioè determini la necessità di dotare l'area di nuove opere di urbanizzazione ovvero l'esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti.
Nel sistema vigente il contributo per oneri di urbanizzazione è infatti un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere stesse; tali oneri sono pertanto dovuti anche al di là di un nesso di stretta inerenza delle opere di urbanizzazione rispetto alle singole aree.
Il costo di costruzione, invece, essendo una percentuale rapportata non ad opere da fare per la collettività ma ai costi di costruzione per tipologia edilizia, adeguati annualmente, non sono suscettibili di entrare nel meccanismo dello scomputo, che è appunto disciplinato da detta norma della convenzione.

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II.2. Con il terzo mezzo, parte ricorrente evidenzia che l’intervento avrebbe ad oggetto, tra l’altro, la realizzazione di interventi di edilizia residenziale sociale, con conseguente diritto all’esonero dal contributo di costruzione a norma dell’art. 17 d.P.R. n. 380/2001, il cui primo comma prevede che “Nei casi di edilizia abitativa convenzionata, relativa anche ad edifici esistenti, il contributo afferente al permesso di costruire è ridotto alla sola quota degli oneri di urbanizzazione qualora il titolare del permesso si impegni, a mezzo di una convenzione con il comune, ad applicare prezzi di vendita e canoni di locazione determinati ai sensi della convenzione-tipo prevista dall'articolo 18”.
Si afferma così in giurisprudenza che “L'unico presupposto richiesto dall'art. 17, D.P.R. n. 380 citato, invero, è la realizzazione di alloggi e l'impegno a venderli a prezzi agevolati, previa sottoscrizione di apposita convenzione con il Comune” (cfr. Cons. Giust. Amm. Sic., 21.12.2015, n. 713).
Parte ricorrente ha fornito dimostrazione del presupposto costitutivo del diritto, avendo versato in atti la convenzione Rep. n. 3562 del 24.01.2012, stipulata dalle società Or. 85 S.c.a.r.l. e dalla Società Ga. S.r.l. con il Comune di Pontecagnano, i cui artt. 2, 3 e 5 prevedono l’impegno della ricorrente a realizzare intervento di edilizia residenziale sociale per “una quota non inferiore al 30% dell’edificato residenziale assentito”, pari a n. 33 alloggi con prezzo di trasferimento che “dovrà essere determinato nel rispetto della disciplina in tema di edilizia sociale” (cfr. art. 5.5. della citata convenzione).
Occorre ben distinguere tra oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
Si afferma, infatti, in sede pretoria (TAR Milano-Lombardia, sez. II, 04.08.2016, n. 1561) che per stabilire in quali casi sussiste l'obbligo di versamento del contributo di costruzione, occorre distinguere fra importi dovuti a titolo di oneri di urbanizzazione ed importi dovuti a titolo di costo di costruzione.
Per quanto riguarda specificamente i primi, si ritiene che, poiché la loro funzione è quella di far sì che il costruttore partecipi ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la costruzione ne ritrae, essi vanno corrisposti solo nel caso in cui l'intervento determini un aumento del carico urbanistico, e cioè determini la necessità di dotare l'area di nuove opere di urbanizzazione ovvero l'esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti.
Nel sistema vigente il contributo per oneri di urbanizzazione è infatti un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere stesse; tali oneri sono pertanto dovuti anche al di là di un nesso di stretta inerenza delle opere di urbanizzazione rispetto alle singole aree.
Il costo di costruzione, invece, essendo una percentuale rapportata non ad opere da fare per la collettività ma ai costi di costruzione per tipologia edilizia, adeguati annualmente, non sono suscettibili di entrare nel meccanismo dello scomputo, che è appunto disciplinato da detta norma della convenzione.
Or dunque, va sottolineato che parte resistente, nelle sue articolazioni difensive non ha contestato la effettiva realizzazione degli alloggi secondo quanto previsto in progetto nella percentuale prevista per l’edilizia residenziale pubblica, circostanza che quindi va reputata processualmente acquisita e destinata ad integrare, unitamente al visto impegno convenzionale, il presupposto costituivo del diritto, in questa sede azionato, all’esenzione dal pagamento del costo di costruzione.
Tanto è sufficiente, risultando recessiva ogni deduzione afferente all’adeguatezza motivazionale dell’atto impugnato, per l’accoglimento del motivo in esame (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 31.01.2017 n. 179 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ATTIVITÀ DI RAGGRUPPAMENTO E ABBRUCIAMENTO.
Rifiuti - Materiali vegetali - Attività di raggruppamento e abbruciamento - Condizioni di liceità
Artt. 182, 185, 256, 256-bis, D.Lgs. n. 152/2006
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli in quantità giornaliere non superiori a 3 m steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all’art. 185, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 152/2006, effettuate nel luogo di produzione, sono sottratte dalla disciplina sui rifiuti, poiché sonoconsiderate normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non costituiscono perciò attività di gestione di rifiuti.
Tal A., condannato per il reato di cui all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 per aver smaltito scarti di tessuti vegetali, senza la prescritta autorizzazione, proponeva impugnazione assumendo di aver ritenuto, per errore, che esistessero circostanze di esclusione della pena e di aver agito per lo stato di necessità determinato dall’urgenza di smaltire una serie di rifiuti, per evitare lo sviluppo di incendi.
La Corte ha ritenuto che il ricorso, nel suo complesso, fosse fondato per la sussistenza delle condizioni di esclusione dalla disciplina dei rifiuti previste dall’art. 182, comma 6-bis, D.Lgs. n. 152/2006 introdotto dalla Legge 11.08.2014, n. 116.
Infatti -così osserva la Corte- la disposizione richiamata stabilisce che “le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all’articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti. Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata. I comuni e le altre amministrazioni competenti in materia ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale di cui al presente comma all’aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)”.
Si tratta, con tutta evidenza, di una disciplina in deroga che ha ad oggetto i materiali vegetali di cui all’art. 185, comma 1, lett. f) (richiamato dal nuovo comma 6-bis dell’art. 182) ossia: “(...) paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia data le biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana”.
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali, di cui all’art. 185, comma 1, lett. f), effettuate nel luogo di produzione, sono, quindi, sottratte, dalla disciplina sui rifiuti, poiché sono considerate (costituiscono) normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non costituiscono più attività di gestione di rifiuti.
Quindi il loro “raggruppamento” ed “abbruciamento”, se eseguito nel rispetto delle condizioni imposte dal comma 6- bis dell’art. 182, non costituisce attività di gestione di rifiuti, e conseguentemente non può integrare alcun illecito previsto dalla normativa di riferimento, per la fondamentale ragione che, a condizioni esatte, le sostanze non rientrano ope legis nel novero dei rifiuti.
Richiamate le norme applicabili alla fattispecie, la Corte ha concluso che dal capo d’imputazione e dalla motivazione della sentenza non fosse possibile evincere il quantitativo dei residui vegetali bruciati, sicché non vi erano elementi per poter ritenere che vi fossero state le condizioni oggettive per la violazione di legge contestata (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.10.2016 n. 45406 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 1/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIUTILIZZO INERTI DA DEMOLIZIONE.
Rifiuti - Riutilizzo di inerti da demolizione - Attività di recupero - Sussistenza
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Tenuto conto della definizione di “recupero” dettata dall’art. 183, comma 1, lett. t), D.Lgs. n. 152/2006, va ricondotta alla citata nozione l’attività consistente nell’utilizzare rifiuti per realizzare un’opera edile (nella specie il proprietario di un terreno era stato colto alla guida di un escavatore nell’atto di spingere, all’interno di un fosso demaniale, materiale di risulta da costruzione edile misto a terra per rinsaldare il confine del terreno di sua proprietà).
Il Tribunale condannava A. per la contravvenzione di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006 perché, nella sua qualità di proprietario di un terreno, era stato trovato alla guida di un escavatore nell’atto di spingere, all’interno di un fosso demaniale, del materiale di risulta da costruzione edile misto a terra: il Tribunale, ritenuta non contestabile la natura di rifiuto dei beni movimentati, essendo emerso dalle stesse dichiarazioni dell’imputato la sua volontà di disfarsi definitivamente del materiale di risulta, presente nel terreno di sua proprietà fin dal 2002, aveva opinato che la preventiva raccolta del materiale e la successiva movimentazione con l’escavatore, realizzate senza alcuna autorizzazione ed al fine di realizzare un argine al confine della proprietà, configurasse una attività non autorizzata di raccolta e di recupero/smaltimento di rifiuti.
Nel proposto ricorso per cassazione, l’imputato sosteneva invece che, escluso che egli fosse titolare di una impresa o di un ente, come erroneamente contestatogli, la giurisprudenza di legittimità configurava nelle condotte di occasionale abbandono/deposito incontrollato di un proprio rifiuto e nel trasporto dello stesso nel luogo destinato all’abbandono, un mero illecito amministrativo ex art. 255 laddove sia la condotta di raccolta che quella successiva di trasporto si esaurivano nella fase preparatoria e preliminare rispetto alla condotta finale e principale di abbandono, restando in essa esaurite, senza assumere autonoma rilevanza ai fini penali.
Pertanto, il primo giudice aveva errato nell’attribuire valenza penale al mero “spostamento” dei rifiuti, compiuto da un privato ed in modo del tutto occasionale, essendo tale condotta unicamente indirizzata all’abbandono dei materiali, già giacenti nei pressi della propria abitazione, all’interno del fosso demaniale.
La Cassazione ha respinto il ricorso ritenendo corretta, alla stregua della destinazione dei rifiuti dichiarata dallo stesso imputato (il quale aveva riferito che gli stessi dovevano essere utilizzati per rinsaldare il confine del terreno di sua proprietà), la qualificazione operata dal primo giudice, il quale ha ricondotto tale attività alla nozione di “recupero”.
Infatti, secondo l’art. 183, comma 1, lett. t), D.Lgs. n. 152/2006, per “recupero” deve intendersi “qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all’interno dell’impianto o nell’economia in generale”.
Rispetto a tale condotta, che, se svolta senza autorizzazione, configura già di per sé il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), secondo la Corte l’imputato si era reso responsabile di una ulteriore azione penalmente illecita, consistita nel raccogliere il materiale di risulta, compattarlo e spingerlo, con un escavatore, nel vicino fosso demaniale posto al confine con la sua proprietà; condotta che, correttamente, il primo giudice aveva sussunto nella nozione legislativa di “raccolta”.
Infatti, in base alla definizione offerta dall’art. 183, comma 1, lett. o), per “raccolta” deve, infatti, intendersi “il prelievo dei rifiuti, compresi la cernita preliminare e il deposito preliminare alla raccolta”.
La sentenza ha inoltre osservato che il richiamo che l’imputato aveva fatto ai principi dettati in Cass. n. 41352 del 06.10.2014, Parpaiola, Rv. 260648 (1), non era pertinente non ricorrendo nella specie, per le ragioni già chiarite, una condotta di abbandono o di deposito incontrollato di rifiuti, riconducibile, invece, alla previsione dell’art. 255, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006.
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Nota: (1) In questa Rivista, 2015, pag. 53 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.10.2016 n. 44900 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 12/2016)

AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO RIFIUTI FERROSI.
Rifiuti - Trasporto di rifiuti ferrosi - Reato - Fattispecie
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Integra la contravvenzione di cui all’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006 il trasportare su un autocarro rifiuti, in gran parte ferrosi, pacificamente destinati allo smaltimento (nella specie, l’imputato trasportava due lavastoviglie fuori uso, una lavatrice dismessa, una rete con doghe in legno, una rete in metallo, una bici, un motore elettrico e ferraglia varia e la Cassazione ha escluso che, per l’eterogeneità ed il quantitativo dei materiali rinvenuti, l’attività di trasporto concernesse rifiuti prodotti dall’imputato il quale non era stato neppure in grado di dimostrare come il trasporto fosse finalizzato all’esercizio di attività commerciale in forma ambulante).
Per avere effettuato, per mezzo di un autocarro, la raccolta e il trasporto di rifiuti non pericolosi senza autorizzazione (nella parte cassonata del mezzo, furono rinvenuti dei rifiuti, in gran parte ferrosi, costituiti da due lavastoviglie fuori uso, una lavatrice dismessa, una rete con doghe in legno, una rete in metallo, una bici, un motore elettrico e ferraglia varia), tal C.M.M. veniva condannato per la contravvenzione di cui all’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Secondo il ricorrente il Tribunale aveva però omesso di argomentare sulla natura imprenditoriale e non occasionale del trasporto, non essendo stato dimostrato che avesse partecipato alla raccolta e allo smaltimento rifiuti per conto di un terzo imprenditore; inoltre, il quantitativo di rifiuti non pericolosi era esiguo, l’episodio era isolato, l’autocarro non era di sua proprietà e tutto ciò avrebbe dovuto indurre il primo giudice a ritenere che il trasporto fosse in realtà funzionale allo svolgimento dell’attività di commercio ambulante, e non a quella di trasportatore di rifiuti; in ogni caso, non rivestendo l’imputato la qualità di titolare di impresa o di un ente, l’occasionale trasporto di rifiuti configurava un mero illecito amministrativo ai sensi dell’art. 255, D.Lgs. n. 152/2006.
La Suprema Corte ha ritenuto che la sentenza impugnata avesse adeguatamente esplicato le ragioni per le quali era stata ritenuta integrata la fattispecie contestata, avendo il giudice dato conto, in maniera puntuale, del rinvenimento dell’imputato a bordo di un mezzo che trasportava materiali ferrosi in disuso, pacificamente destinati allo smaltimento; né l’imputato era stato in grado di dimostrare come il trasporto fosse finalizzato all’esercizio di attività commerciale in forma ambulante, considerato che la giurisprudenza esclude la configurabilità del reato di gestione non autorizzata di rifiuti a condizione che l’imputato sia in possesso del titolo che lo abilitati all’esercizio del commercio ambulante.
La Corte ha anche ritenuto che proprio per la eterogeneità ed il quantitativo dei materiali di risulta trasportati, l’attività di trasporto concernesse rifiuti non prodotti dall’imputato e destinati ad essere da lui abbandonati e tale fatto configurava il reato di cui all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, il quale, nel punire l’attività di gestione di rifiuti non autorizzata, contempla espressamente la condotta di chiunque effettui, tra le altre, una “attività di trasporto” (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.10.2016 n. 44593 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 12/2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ABBANDONO RIFIUTI: RESPONSABILITÀ DEL PROPRIETARIO DEL TERRENO.
Rifiuti - Abbandono di rifiuti ad opera di terzi - Responsabilità del proprietario del terreno - Mancata rimozione dei rifiuti scaricati - Esclusione - Partecipazione consapevole all’abbandono - Sussistenza
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Nel caso in cui proprietario di un terreno, sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, non si attivi per la rimozione dei rifiuti non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006; la responsabilità però sussiste quando il proprietario consapevolmente partecipi all’attività illecita, mettendo a disposizione il terreno per il deposito di rifiuti, con conseguente trasformazione dell’area.
Il Tribunale condannava D. e A. per il reato di cui all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 per aver conferito su un terreno di loro proprietà, senza la prescritta autorizzazione, terra e roccia da scavo.
Nel proposto ricorso, i prevenuti sostenevano che il giudice era pervenuto all’affermazione della loro responsabilità senza esplicitare il percorso argomentativo attraverso cui era pervenuto alla configurazione del reato e all’attribuibilità della condotta alle ricorrenti, responsabilità fondata sulla mera presenza sul luogo del fatto.
La Suprema Corte ha rilevato che la sentenza impugnata aveva sviluppato una motivazione congrua, adeguata e corretta sul piano del diritto per l’affermazione della responsabilità delle ricorrenti in ordine al reato di deposito non autorizzato di rifiuti. Infatti, il giudice, dopo aver ricostruito il fatto, per come accertato dal Corpo Forestale dello Stato che aveva rilevato l’esistenza, all’interno di un fondo, di proprietà delle ricorrenti, di un cumulo di terra e rocce da scavo, con innalzamento del piano di campagna, e dunque di un cumulo di rilevanti dimensioni, aveva dato atto che le ricorrenti, presenti sul posto, interpellate non avevano esibito l’autorizzazione al deposito di rifiuti, e che non ricorreva l’esclusione dall’applicazione della disciplina sui rifiuti per le terre e rocce da scavo in assenza di prova positiva, gravante sulle ricorrenti, della loro riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente compatibile.
La Cassazione ha inoltre ritenuto che il Tribunale aveva correttamente evidenziato, oltre alla circostanza che le ricorrenti erano proprietarie del fondo, sul quale erano state depositate le terre e rocce da scavo, la materiale disponibilità del fondo desunta dall’essere residenti presso il luogo del deposito e dall’essere presenti sul luogo al momento dell’accertamento.
Infine, la Suprema Corte ha evidenziato che il Tribunale aveva fatto corretta applicazione del principio secondo cui non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, perché tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell’evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti, ed ha condannato le ricorrenti non già per la loro qualità di possessore dell’area di deposito, ma per avere consapevolmente partecipato all’attività illecita, mettendo a disposizione il terreno per il deposito di rocce e terra da scavo, con conseguente trasformazione dell’area che, per le dimensioni di questa, era necessariamente assentita dalle ricorrenti integrando, così, un atto di gestione (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2016 n. 39797 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 12/2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO RIFIUTI SENZA FORMULARIO O CON DATI FALSI.
Rifiuti - Trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario di identificazione o recante dati falsi - Intervenuta depenalizzazione del reato
Art. 258, 260-bis, D.Lgs. n. 152/2006
In tema di rifiuti, il trasporto di rifiuti pericolosi senza il prescritto formulario, o con un formulario con dati incompleti o inesatti, eseguito sino al 16 agosto 2011 non è più sanzionato penalmente né dal nuovo testo dell’art. 258, comma 4, D.Lgs. n. 152/2006, che si riferisce alle imprese che trasportano i propri rifiuti e che prevede la sanzione penale per altre condotte, né dall’art. 260-bis stesso dec., che punisce il trasporto di rifiuti pericolosi non accompagnato dalla scheda SISTRI.
Nella sentenza che si riporta integralmente, la sez. feriale della Cassazione ha colto l’occasione per ribadire, con una serrata analisi delle norme succedutesi in materia di trasporto di rifiuti pericolosi con formulario identificativo (FIR) recante false attestazioni, le conclusioni cui è giunta la prevalente giurisprudenza.
La Corte ha osservato che “il reato di illecito trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario, ovvero con indicazione nel formulario stesso di dati incompleti o inesatti, era originariamente previsto dall’art. 52, comma 3, D.Lgs. n. 22/1997, il quale prevedeva l’applicabilità della pena di cui all’art. 483 cod. pen.".
L’abrogazione del citato Decreto ad opera del D.Lgs. n. 152/2006, non ha prodotto, inizialmente, alcun effetto rilevante, in quanto l’art. 258, comma 4, aveva contenuto pressoché identico a quello della disposizione previgente. Il quadro normativo è rimasto immutato fino al 25.12.2010, data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 205/2010, il quale, con l’art. 35, comma 1, lett. c), ha disposto la sostituzione dell’art. 258, comma 4.
Per effetto di tale intervento correttivo, l’art. 258, comma 4, nella sua attuale formulazione così recita: “Le imprese che raccolgono e trasportano i propri rifiuti non pericolosi di cui all’art. 212, comma 8, che non aderiscono, su base volontaria, al sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) di cui all’art. 188-bis, comma 2, lett. a), ed effettuano il trasporto di rifiuti senza il formulario di cui all’art. 193 ovvero indicano nel formulario stesso dati incompleti o inesatti sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria da milleseicento euro a novemilatrecento euro. Si applica la pena di cui all’art. 483 cod. pen., a chi, nella predisposizione di un certificato di analisi di rifiuti, fornisce false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti e a chi fa uso di un certificato falso durante il trasporto”.
L’intervento modificativo è stato effettuato in previsione della pressoché concomitante piena operatività del SISTRI, il sistema informatico di controllo della tracciabilità dei rifiuti la cui introduzione era prevista dall’art. 189, comma 3-bis, D.Lgs. n. 152/2006 (introdotto con il D.Lgs. n. 4/2008) e che era finalizzato alla trasmissione e raccolta di informazioni su produzione, detenzione, trasporto e smaltimento di rifiuti ed alla realizzazione, in formato elettronico, del formulario di identificazione dei rifiuti, dei registri di carico e scarico e del MUD, da stabilirsi con apposito Decreto ministeriale, che il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare ha emanato il 17.12.2009, dando dunque attuazione alla disposizione richiamata.
Il contenuto del Decreto ministeriale è stato successivamente modificato ed integrato prorogando, però, anche i termini originariamente fissati per la piena operatività del sistema. Il D.Lgs. n. 205/2010, sempre considerando l’imminente entrata in funzione del SISTRI, che sostanzialmente comporterebbe la sostituzione della documentazione cartacea precedentemente utilizzata (MUD, Registri di carico e scarico e FIR), ha provveduto, con l’art. 16, alla sostituzione degli artt. 188, 189, 190 e 193, all’introduzione degli artt. 188-bis e 188-ter, nonché, con l’art. 36, alla previsione di specifiche sanzioni, contemplate dagli artt. 260-bis e 260-ter.
Il D.Lgs. n. 205/2010, art. 16, comma 2, prevedeva, tuttavia, che le disposizioni in esso contenute entrassero in vigore a decorrere dal giorno successivo alla scadenza del termine di cui al D.M. 17.12.2009, art. 12, comma 2, (quindi all’effettivo avvio del SISTRI), termine che però, come già evidenziato, è stato più volte prorogato.
Al medesimo termine faceva riferimento anche il D.Lgs. n. 205/2010, art. 39, recante disposizioni transitorie e finali, per ciò che concerneva le sanzioni relative SISTRI, prevedendone peraltro la graduazione nel primo periodo di attività del nuovo sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti.
Nessun termine, invece, era previsto per l’entrata in vigore dell’art. 35, con la conseguenza di una immediata efficacia delle modifiche apportate al D.Lgs. n. 152/2006, art. 258 (contestato nel caso di specie), comportanti, come si è visto, un restringimento dell’ambito soggettivo di applicabilità della disposizione non riferita più a ‘chiunque effettui il trasporto’, bensì alle sole ‘imprese che raccolgono e trasportano i propri rifiuti non pericolosi di cui all’art. 212, comma 8, che non aderiscono, su base volontaria, al sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI)’ e l’assenza dello specifico richiamo all’art. 483 cod. pen., per il trasporto di rifiuti pericolosi senza formulario ovvero con indicazione nel formulario stesso di dati incompleti o inesatti.
A fronte di quello che è stato da più parti (compresi i ricorrenti) qualificato come vuoto normativo, è dunque intervenuto nuovamente il legislatore, con il D.Lgs. n. 121/2011, il quale, con l’art. 4, comma 2, ha apportato modificazioni al D.Lgs. n. 205/2010, art. 39, disponendo, tra l’altro, l’inserimento dei commi 2-bis e 2-ter, che si riferiscono all’ambito di efficacia temporale del D.Lgs. n. 152/2006, art. 258.
Stabilisce, in particolare, il comma 2-bis, che “anche in attuazione di quanto disposto al comma 1, i soggetti di cui al D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, art. 188-ter, commi 1, 2, 4 e 5, e successive modificazioni, che fino alla decorrenza degli obblighi di operatività del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) di cui al D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, art. 188-bis, comma 2, lett. a), e successive modificazioni, non adempiono alle prescrizioni di cui all’art. 28, comma 2, del Decreto del Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare 18.02.2011, n. 52, sono soggetti alle relative sanzioni previste dal D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, art. 258, nella formulazione precedente all’entrata in vigore del presente Decreto”.
Il D.M. n. 52/2011, art. 28, comma 2, come modificato dal successivo D.M. 10.11.2011, n. 219, stabilisce che ‘al fine di garantire l’adempimento degli obblighi di legge e la verifica della piena funzionalità del SISTRI, fino al termine di cui all’art. 12, comma 2, del Decreto del Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare del 17.12.2009 e successive modifiche e integrazioni, i soggetti di cui agli artt. 3, 4 e 5 del presente Regolamento rimangono comunque tenuti agli adempimenti di cui al D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, artt. 190 e 193, e successive modificazioni e sono soggetti alle relative sanzioni previste dal medesimo Decreto legislativo precedentemente all’entrata in vigore del D.Lgs. 03.12.2010, n. 205’.
Il richiamo all’applicabilità delle previgenti sanzioni risulta contenuto anche nel D.L. 22.06.2012, n. 83, art. 52, comma 1, convertito con modificazioni dalla I. 07.08.2012, n. 134, ove, nel sospendere il termine di entrata in operatività del SISTRI, si precisa che i soggetti di cui all’art. 188-ter, “rimangono comunque tenuti agli adempimenti di cui al D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, artt. 190 e 193, ed all’osservanza della relativa disciplina, anche sanzionatoria, vigente antecedentemente all’entrata in vigore del D.Lgs. 03.12.2010, n. 205”.
In esito all’emanazione del D.Lgs. n. 121/2011, si è posto quindi il tema della natura - interpretativa od innovativa - della medesima disciplina; orbene, ritiene questa Corte che debba essere confermato l’indirizzo secondo cui il trasporto di rifiuti pericolosi senza il prescritto formulario, o con un formulario con dati incompleti o inesatti, non è più sanzionato penalmente né dal nuovo testo dell’art. 258, comma 4, D.Lgs. n. 152/2006 (come modificato nei termini suddetti) -che si riferisce alle imprese che trasportano i propri rifiuti e che prevede la sanzione penale per altre condotte (in particolare, per chi, nella predisposizione di certificati di analisi di rifiuti, fornisca false indicazioni sulla tipologia del rifiuto o fa uso del certificato falso)- né dall’art. 260-bis che punisce il trasporto di rifiuti pericolosi non accompagnato dalla scheda SISTRI.
Deve ritenersi, pertanto, che le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 205/2010, eliminando (con evidente effetto immediato) dall’art. 258, comma 4, il riferimento al trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario contenente dati incompleti o inesatti, abbia sottratto tali condotte alla sanzione penale.
Vi sarebbe stato quindi un vuoto normativo nel periodo intercorrente tra il 25.12.2010, data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 205/2010 ed il 16.08.2011, data che segna l’inizio della vigenza dell’intervento c.d. riparatore effettuato con il D.Lgs. n. 121/2011, art. 4, comma 2, con conseguente applicabilità dell’art. 2 cod. pen. Al citato Decreto n. 121, pertanto, non può attribuirsi se non una natura di norma penale innovativa, con la conseguenza della applicabilità della norma penale più favorevole per i fatti commessi in epoca antecedente al 16.08.2011.
Non pare condivisibile, per contro, la tesi che attribuisce alla disposizione in esame natura di norma interpretativa, con conseguente effetto retroattivo e reviviscenza anche per il passato di una norma sanzionatrice penale già espressamente abrogata dal legislatore con cessazione della sua efficacia [in tal senso, sez. 3, n. 3692 del 17.12.2013, La Valle (1)]; in senso contrario, infatti, depone la mancanza di qualsivoglia, esplicita manifestazione di volontà del legislatore al riguardo, di tal ché non pare consentito pervenire al medesimo risultato attraverso un intervento dell’interprete, per di più in malam partem. In senso contrario, ancora, depone la circostanza -pacifica- per cui l’effetto abrogativo opera di norma automaticamente, al momento dell’entrata in vigore della norma abrogatrice.
Con la precisazione ulteriore secondo la quale il futuro legislatore può certamente abrogare una norma (a sua volta) abrogatrice e disporre la reviviscenza della disposizione precedentemente abrogata, ma -qualora si tratti di norma penale- la stessa potrà tornare in vigore solo dalla vigenza di quella disposizione che, per così dire, l’ha richiamata in vita attraverso l’eliminazione dal sistema della norma che l’aveva abrogata.
Alla luce di quanto precede, occorre quindi concludere che, con il D.Lgs. n. 121/2011, art. 4, comma 2, il legislatore ha appunto inteso porre rimedio alla situazione normativa scaturente dal D.Lgs. n. 205/2010, introducendo nuovamente norme penali per sanzionare quelle stesse violazioni o, meglio, disponendo che riprendessero vigore quelle disposizioni penali precedentemente abrogate. Ma, in forza del principio costituzionale di legalità e di irretroattività delle norme penali, tale nuova efficacia non può che decorrere ex nunc e non ex tunc.
Né questa efficacia retroattiva può essere conferita mediante l’attribuzione alla disposizione di una natura di norma meramente interpretativa, anche per la necessità di seguire un’interpretazione adeguatrice che non ponga il risultato dell’esegesi in possibile contrasto con l’art. 25 Cost. e con il principio di irretroattività della norma penale sanzionatoria.
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Nota: (1) In questa Rivista, 2014, pag. 479 (Corte di Cassazione, Sez. feriale penale, sentenza 01.09.2016 n. 36275 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 11/2016).

EDILIZIA PRIVATA: ARGINI FLUVIALI.
Distanze dei fabbricati dagli argini fluviali, diversi regimi per opere di bonifica e altre acque pubbliche ex R.D. n. 523/1904, vigenza, trasposizione nella normativa urbanistica comunale, legittimità
Art. 144, D.Lgs. n. 152/2006; artt. 133, lett. a) e 96, lett. f), R.D. n. 523/1904
In tema di distanze dei fabbricati dagli argini fluviali, restano vigenti, pur in seguito all’entrata in vigore del c.d. codice dell’ambiente (art. 144, D.Lgs. n. 152/2006), gli artt. 133, lett. a) e 96, lett. f), R.D. n. 523/1904, i quali fissano, in tema di opere di bonifica, una distanza minima tra 4 a 10 metri e, con riferimento a tutte le altre acque pubbliche, la distanza minima di 10 metri.
Pertanto, legittimamente un’amministrazione comunale può trasporre nella propria normativa urbanistica i diversi regimi per ciascuno dei diversi corsi d’acqua.
Con la pronuncia in commento la Cassazione, a sezioni Unite, si è occupata della tematica dei regimi di distanze dei fabbricati dagli argini fluviali per ragioni di tutela idrica, con particolare riferimento, in tema di opere di bonifica e acque pubbliche, alle regole applicabili in seguito all’entrata in vigore del c.d. codice dell’ambiente.
Nel caso in esame, due Associazioni per la tutela ambientale chiedevano al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche l’annullamento della deliberazione di un consiglio comunale con la quale era stata approvata una variante al piano regolatore generale, con riduzione da 10 a 5 metri delle distanze delle costruzioni dai corsi d’acqua pubblici.
Il Tribunale adito, però, respingeva il ricorso con cui si sosteneva che il limite di rispetto di mt. 10 dagli argini fluviali poteva essere superato solo sulla scorta di ponderata valutazione di interventi per la miglior tutela idrica. Il TSAP, in particolare, osservava che il suddetto limite è vincolante non per la generalità dei corpi idrici nel territorio comunale, bensì solo per quelli non inerenti al sistema di bonifica; per i corpi idrici sottoposti alle specifiche competenze di gestione del Consorzio di Bonifica il limite di mt. 10 è, dunque, superabile.
La questione giungeva così in Cassazione la quale, ricorda innanzitutto la normativa applicabile al caso di specie:
   • R.D. n. 268/1904, art. 133, lett. a): che, in tema di opere di bonifica e loro pertinenze, prevede, secondo la loro importanza, una distanza minima per i fabbricati che può essere fissata da 4 a 10 metri;
   • R.D. n. 523/1904, art. 96, lett. f): che, con riferimento a tutte le altre acque pubbliche, le loro sponde, alvei e difese, fissa la distanza minima di 10 metri per le fabbriche.
Sussistono, quindi, due diversi regimi, i quali, illustra la Cassazione, sono tuttora in vigenti. In particolare:
   • l’oggetto e le esigenze posti a fondamento di detti regimi continuano a giustificarne il vigore, anche in seguito all’entrata in vigore del c.d. codice dell’ambiente;
   • l’avvento della disposizione del D.Lgs. n. 152/2006, art. 144, secondo cui “tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, appartengono al demanio dello Stato”, non consente di ritener detti regimi implicitamente abrogati.
Da tali considerazioni consegue dunque che legittimamente l’amministrazione comunale può trasporre nella propria normativa urbanistica i diversi regimi per ciascuno dei diversi corsi d’acqua (Corte di Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 01.07.2016 n. 13532 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 11/2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: TERRE E ROCCE DA SCAVO.
Rifiuti - Terre e rocce da scavo - Abrogazione dell’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006 - Esclusione - Natura di norma temporanea - È tale
Art. 186, 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 2, cod. pen.
Ai sensi dell’art. 39, comma 4, D.Lgs. n. 205/2010, l’abrogazione dell’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006 è destinata ad operare solo a seguito dell’entrata in vigore dei D.M. previsti dall’art. 184-bis del cit. decreto dovendo corrispondere il sottoprodotto ai requisiti qualitativi o quantitativi stabiliti da tali provvedimenti. Considerato che il citato art. 39, comma 4, prevede che l’abrogazione dell’art. 186 operi solo a far data dall’entrata in vigore dei D.M. in materia di sottoprodotti, il predetto articolo ha assunto natura di norma temporanea, con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 2 cod. pen. la relativa disciplina si applica in ogni caso ai fatti commessi nella vigenza della normativa in materia di terre e rocce da scavo.
Non sarebbe, infatti, possibile attribuire la qualifica di sottoprodotto a determinati materiali sulla base di disposizioni amministrative inesistenti all’epoca della loro produzione.
A G.P. (in concorso con G.G.) veniva addebitato di avere effettuato una gestione non autorizzata di rifiuti non pericolosi (terre e rocce da scavo) e di non avere osservato le condizioni richieste con le iscrizioni, in quanto, in luogo di una attività di recupero ambientale mediante utilizzo di rifiuti in un’area estesa circa 9000 mq. come da comunicazione alla Provincia di Lucca del 09.06.2009 con la specifica prescrizione di riutilizzare nel recupero ambientale i rifiuti di cui al punto 12.7 dell’all. 1 sub all. 1 D.M. 05.02.1998 (fanghi costituiti da inerti - codice CER 010412), veniva invece riscontrata, nel corso di un controllo effettuato il 09.12.2009 nella località “Roccalberti” destinata al recupero ambientale, la presenza di rifiuti non pericolosi costituiti da terre e rocce da scavo provenienti dalla escavazione della Galleria di Castelnuovo non autorizzate dalla Provincia.
In relazione a tale fatto, il Tribunale dichiarava i due fratelli colpevoli del reato di cui all’art. 256 D.Lgs. n. 152/2006. Il proposto ricorso per cassazione è stato respinto. La Cassazione ha, in primo luogo, notato che il Tribunale, nel qualificare la condotta contestata, aveva ritenuto applicabile la disciplina di cui all’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006 dovendosi le terre e rocce da scavo considerare rifiuti in quanto la loro destinazione non era prevista nel progetto di recupero ambientale e non erano state espletate tutte le procedure previste per la esclusione di tali prodotti dalla normativa sui rifiuti: in particolare, secondo il Tribunale, il materiale in questione non poteva essere qualificato come sottoprodotto in assenza dei requisiti richiesti dal comma 1 dell’art. 186 e ciò anche dopo la modifica del menzionato art. 186 intervenuta con la Legge n. 49/2009 in quanto il comma 7-bis dell’art. 186 suddetto, come modificato dalla legge ora menzionata, prescrive che “le terre e rocce da scavo qualora ne siano accertate le caratteristiche ambientali possono essere utilizzate per interventi di miglioramento ambientale anche in siti non degradati per il miglioramento della qualità della copertura arborea o delle condizioni idrogeologiche o della percezione paesaggistica”.
Il Tribunale aveva ritenuto comunque applicabile la norma di cui all’art. 186 cit. interpretandola come norma di carattere temporaneo insuscettibile della applicazione dell’art. 2 cod. pen., rilevando che l’intera materia è stata poi compiutamente disciplinata dal D.M. n. 161 del 10.08.2012 entrato in vigore il successivo 6 ottobre. Pertanto, mancando all’epoca del sopralluogo previsioni specifiche in ordine al riutilizzo di quei rifiuti e non potendosi essi qualificare come sottoprodotti, come peraltro deciso dalla stessa azienda, tale materiale doveva considerarsi all’atto del controllo (09.12.2009) rifiuto.
La difesa, con il primo motivo, aveva ipotizzato invece l’intervenuta abrogazione dell’art. 186 per effetto di quanto disposto dall’art. 39, D.Lgs. n. 205/2010, abrogazione confermata, secondo la tesi difensiva, anche dall’art. 49 D.L. n. 1/2012 convertito nella Legge n. 27/2012 secondo la quale “l’utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con Decreto del Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del mare di concerto con il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti precisando che l’abrogazione della norma sopra richiamata veniva differita alla data di entrata in vigore del D.M.”.
Da qui il rilievo in ordine alla erronea applicazione della legge penale per avere il Tribunale ritenuto l’inapplicabilità dell’art. 2 cod. pen. affermando la natura temporanea dell’art. 186 più volte citato; in ogni caso, la qualifica di norma temporanea sarebbe stata assunta solo con decorrenza 10.12.2010 e non oltre il 06.10.2012, con la conseguenza che all’epoca del controllo (09.10.2009) la norma speciale non era più in vigore, dovendosi applicare, per i fatti antecedenti al 10.12.2010, la disposizione di cui all’art. 2, comma, cod. pen.
Il ricorso è stato giudicato infondato dalla Cassazione: premesso che la possibilità di utilizzazione diretta delle terre e rocce da scavo, che determina l’esclusione della disciplina dei rifiuti, è subordinata alla prova positiva, gravante sull’imputato, della loro riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente compatibile, la Corte ha osservato che non basta dimostrare che le terre e rocce non siano inquinate in vista dalla applicabilità della speciale normativa ad esse inerenti. Nel caso in esame, secondo le risultanze della sentenza impugnata, il G. era in possesso di un’autorizzazione per il recupero ambientale nel Comune di Camporgiano, le cui prescrizioni non erano state rispettate, con la conseguente insussistenza dei requisiti richiesti dalla legge per sottrarre il materiale sequestrato alla disciplina dei rifiuti.
L’affermazione difensiva, secondo la quale le rocce e terre da scavo rispondevano ai requisiti per il loro impiego, era di tipo fattuale e non emergeva dalla sentenza, avendo, anzi, il giudice di merito affermato che i rifiuti da utilizzare per l’attività di recupero dovevano essere quelli identificati nel punto 12.7 dell’Allegato 1 Sub all. 1 al D.M. 05.02.1998 (fanghi costituiti da inerti con codice CER 01.04.12), mentre in sede di sopralluogo, oltre a fanghi alternati con strati di terra ed a un cumulo di fanghi circa 750 metri cubi, vi era un cumulo di terre e rocce da scavo da considerare come rifiuti ex art. 186 in quanto la loro destinazione per il riutilizzo non era prevista nel progetto che aveva poi dato luogo all’autorizzazione e in ogni caso non erano state portate a compimento tutte le procedure necessarie per l’esclusione di quel materiale estraneo dalla normativa sui rifiuti.
Ciò chiarito circa gli aspetti fattuali, la Suprema Corte ha ribadito l’orientamento secondo cui, in relazione all’abrogazione dell’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006, ai sensi dell’art. 39, comma 4, D.Lgs. n. 205/2010, la stessa è destinata ad operare solo a seguito dell’entrata in vigore dei D.M. previsti dall’art. 184-bis del Testo Unico, dovendo corrispondere il sottoprodotto ai requisiti qualitativi o quantitativi stabiliti da tali provvedimenti. Considerato che il citato art. 39, comma 4, prevedeva che l’abrogazione dell’art. 186 operasse solo a far data dall’entrata in vigore dei D.M. in materia di sottoprodotti, il predetto art. 186 ha assunto natura di norma temporanea, con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 2 cod. pen. la relativa disciplina si applica in ogni caso ai fatti commessi nella vigenza della normativa in materia di terre e rocce da scavo. Non sarebbe, infatti, possibile attribuire la qualifica di sottoprodotto a determinati materiali sulla base di disposizioni amministrative inesistenti all’epoca della loro produzione.
Analoga sorte è stata riservata alla asserita inapplicabilità del regime previsto dall’art. 186 D.Lgs. n. 152/2006 in forza del principio di retroattività della legge più favorevole conseguente all’emissione del D.M. n. 161/2012 entrato in vigore il 06.10.2012 (epoca successiva ai fatti oggetto del processo).
Infatti, la Suprema Corte ha ritenuto di confermare l’orientamento secondo il quale l’abrogazione dell’art. 186 opera soltanto a decorrere dall’entrata in vigore del Decreto Interministeriale in materia di sottoprodotti, con la conseguenza che la disposizione va qualificata come norma temporanea, sicché ai sensi dell’art. 2 cod. pen. la relativa disciplina trova applicazione in ogni caso per i fatti commessi nella vigenza della normativa precedente in tema di terre e rocce da scavo, in quanto non è possibile attribuire la qualifica di sottoprodotto a materiali sulla base di disposizioni amministrative inesistenti al momento della loro produzione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.06.2016 n. 25429 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 10/2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: MATERIALI DA COSTRUZIONE E DEMOLIZIONE.
Rifiuti - Materiali provenienti da attività di costruzioni e/o demolizioni - Raccolta, trasporto e avviamento a smaltimento illecito - Responsabilità del titolare dell’impresa
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Nel caso di attività di raccolta, trasporto e avviamento a smaltimento illecito di rifiuti provenienti da attività di costruzioni e/o demolizioni, è responsabile il titolare dell’impresa, se di piccole dimensioni, ove risulti essere a conoscenza degli spostamenti dei mezzi aziendali sul territorio e dell’intenzione - manifestata da un soggetto coimputato del quale non era stata comunque impedita l’iniziativa - di riutilizzare in futuro quello stesso materiale giacché tali circostanze ricollegano logicamente il trasporto alle “attività produttive dell’azienda”.
La titolare dell’impresa individuale R. Costruzioni di R. G., veniva condannata - unitamente al fratello - per il reato previsto dall’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006, perché operava la raccolta, il trasporto e l’avviamento a smaltimento illecito di rifiuti non pericolosi provenienti da attività di costruzioni e/o demolizioni (CER 17.09.04) utilizzando un autocarro Fiat Iveco in assenza di iscrizione all’Albo nazionale dei gestori ambientali.
Nel ricorrere per cassazione, l’imputata sosteneva che il Tribunale non aveva tenuto conto che ella non era a bordo dell’autocarro al momento del controllo da parte del personale del NIPAF di Avellino, e che il fratello aveva ammesso ogni responsabilità in ordine al trasporto dei rifiuti. Contestava anche la disposta confisca stante il grave ed irreparabile danno economico per una impresa di costruzione di  modeste dimensioni.
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte che ha svolto le seguenti considerazioni.
La censura oggetto del primo motivo era diretta a conseguire una diversa valutazione dei fatti posti a fondamento della affermazione di responsabilità dell’imputata, senza tuttavia individuare vizi specifici della motivazione tali da intaccarne la intrinseca coerenza strutturale e logicità. La sentenza impugnata comunque aveva ritenuto provata la realizzazione, da parte della R., della contestata attività di raccolta, trasporto e avviamento a smaltimento illecito di rifiuti (non pericolosi) provenienti da attività di costruzioni e/o demolizioni, sul rilievo che l’imputata era la titolare di una impresa di piccole dimensioni, che in tale qualità era a conoscenza degli spostamenti dei mezzi aziendali sul territorio, oltre che del fatto che proprio il fratello aveva riferito dell’intenzione di riutilizzare in futuro il materiale residuo per l’installazione di una baracca di cantiere, circostanza che ricollegava logicamente il trasporto alle “attività produttive dell’azienda”.
Il fatto che il coimputato si fosse accollato la responsabilità dell’accaduto non costituiva elemento dimostrativo dell’estraneità della ricorrente alla realizzazione del reato, anche sotto il profilo soggettivo, non avendo l’imputata comunque impedito l’iniziativa del fratello.
Quanto al secondo motivo, la Cassazione ha osservato che il Tribunale aveva puntualmente richiamato l’art. 259, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, disposizione che prevede la confisca obbligatoria, in deroga al regime generale di tipo facoltativo di cui all’art. 240 cod. pen. sicché il mezzo di trasporto utilizzato per il trasporto illecito di rifiuti è oggetto di una presunzione legislativa di pericolosità che ne giustifica la confisca (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.06.2016 n. 23690 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 8-9/2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: VEICOLI FUORI USO.
Rifiuti - Autovetture fuori uso - Natura di rifiuto pericoloso - Condizioni
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Hanno natura di rifiuto pericoloso le autovetture fuori uso destinate alla demolizione, in relazione alle quali non risulti la tenuta di documentazione cartacea idonea a dimostrare la provenienza e le condizioni di manutenzione, né l’adozione di alcuna procedura conforme al D.Lgs. n. 209/2003 per il recupero ed il riciclaggio dei materiali componenti i veicoli a fine vita, e comunque non risulti la bonifica di tali mezzi mediante scomposizione delle parti meccaniche e prelievo dell’olio esausto dalle parti meccaniche (nella specie, era emersa la presenza di batterie al piombo esauste e di autovetture prive di targa e destinate alla demolizione, comprese di motore e quindi di parti meccaniche miste ad olio, con la conseguente qualificabilità di tali veicoli come rifiuti pericolosi in ragione della presenza di scarti di olio per motore).
La Corte d’Appello confermava la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a) e b), D.Lgs. n. 152/2006 emessa a carico di un soggetto che aveva effettuato attività abusiva di raccolta, smaltimento e stoccaggio di rifiuti speciali pericolosi e non, in mancanza della prescritta autorizzazione.
Nel proposto ricorso per cassazione, l’imputato evidenziava la contraddittorietà tra la affermazione della natura di rifiuti pericolosi di quelli presenti nell’area nella sua disponibilità e quanto dichiarato dal teste Pensa, secondo cui nel momento in cui aveva provveduto a ritirare il materiale presente nell’area le batterie erano ancora efficienti, le autovetture erano state bonificate ed i motori d’auto non contenevano oli.
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile a causa della sua genericità.
La Cassazione ha infatti osservato che la Corte territoriale aveva ribadito la natura di rifiuti pericolosi di parte dei materiali depositati nell’area nella disponibilità dell’imputato, quantomeno con riferimento alle autovetture fuori uso rinvenute e destinate alla demolizione, in relazione alle quali non era emersa la tenuta di alcuna documentazione cartacea idonea a dimostrare la loro provenienza e le loro condizioni di manutenzione, né l’adozione di alcuna procedura conforme al D.Lgs. n. 209/2003 per il recupero ed il riciclaggio dei materiali componenti i veicoli a fine vita, ed in particolare della bonifica di tali mezzi mediante scomposizione delle loro parti meccaniche e prelievo dell’olio esausto dalle parti meccaniche, essendo, per contro, emersa, in occasione del sopralluogo della polizia giudiziaria, la presenza di batterie al piombo esauste e di autovetture prive di targa e destinate alla demolizione, comprese di motore e quindi di parti meccaniche miste ad olio, con la conseguente qualificabilità di tali veicoli come rifiuti pericolosi in ragione della presenza di scarti di olio per motore.
La Corte d’Appello aveva anche ritenuto irrilevante la deposizione del teste indotto dalla difesa che aveva dichiarato di aver riscontrato che nel settembre 2009 (successivamente al sopralluogo ed al sequestro eseguiti il 06.08.2009) le batterie presenti nel sito erano ancora funzionanti, le automobili erano state bonificate ed i motori non contenevano oli, non essendo tali dichiarazioni incompatibili con gli accertamenti in precedenza eseguiti dalla polizia giudiziaria e dovendo, anzi, presumersi che le operazioni di bonifica fossero state compiute successivamente, a seguito del provvedimento autorizzatorio del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lucera del 02.09.2009.
La Suprema Corte ha dunque concluso che, a fronte di tale analitica ed articolata ricostruzione, l’imputato si era limitato a ribadire quanto esposto nell’atto d’appello circa la mancata dimostrazione della natura di rifiuti pericolosi di quelli rinvenuti nell’area nella sua disponibilità, omettendo di confrontarsi in modo critico con la motivazione del provvedimento impugnato, nella quale, invece, sono state approfonditamente illustrate le ragioni sia della qualificazione di rifiuti pericolosi di parte di quelli rinvenuti nell’area nella disponibilità del ricorrente, sia della irrilevanza delle dichiarazioni apparentemente inconciliabili del teste indicato dalla difesa, di cui è stata spiegata la compatibilità con le risultanze del sopralluogo eseguito dalla polizia giudiziaria e con le deposizioni dei testi dell’accusa (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.05.2016 n. 20149 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 7/2016).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere di sospensione dei lavori edili in corso, attribuito all'Autorità comunale dall'art. 27 comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l'Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia, mentre, nell'ipotesi di emanazione del provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario con conseguente assorbimento dell'ordine di sospensione dei lavori.
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Il Collegio deve innanzitutto esaminare le questioni di inammissibilità/improcedibilità del ricorso per carenza di interesse in relazione all’ordine di sospensione dei lavori ed al diniego di autorizzazione alla somministrazione di alimenti e bevande, rilevate d’ufficio, ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a., all’udienza di discussione del 23.03.2016.
In relazione all’ordinanza di sospensione dei lavori n. 07/2012, prot. n. 1345, emessa dal Comune di Caserta in data 21.02.2012, si osserva che la costante giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, ha sempre interpretato in termini categorici la disposizione di cui all'art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001 pervenendo al convincimento per cui (ex aliis, cfr. TAR Calabria Catanzaro Sez. I, 27.07.2012, n. 840) “il potere di sospensione dei lavori edili in corso, attribuito all'Autorità comunale dall'art. 27 comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti definitivi. Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l'Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia, mentre, nell'ipotesi di emanazione del provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario con conseguente assorbimento dell'ordine di sospensione dei lavori” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.06.2014, n. 3115, TAR Milano, Sez. II, 20.01.2015, n. 218, TAR Campania, Napoli, VIII, 26.02.2016, n. 1080)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.05.2016 n. 2282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: DEPOSITO TEMPORANEO.
Rifiuti - Deposito temporaneo - Condizioni di legittimità - Stoccaggio dei rifiuti alla rinfusa - Reato
Artt. 183, 256, D.Lgs. n. 152/2006
Lo stoccaggio dei rifiuti alla rinfusa esclude la regolarità del deposito temporaneo.
I legali responsabili della società A.C. s.a.s. di G.R. & C. venivano condannati per aver effettuato un deposito preliminare di rifiuti non prodotti nell’esercizio della propria attività (ritagli di guaina bituminosa e guaina rimossa durante la fase di demolizione e costruzione raggruppati in un luogo diverso rispetto a quello dove erano stati prodotti).
La condanna si fondava sui seguenti fatti e considerazioni:
   a) a seguito di sopralluoghi erano stati rinvenuti nel piazzale dell’impresa due cassoni pieni: l’uno, di guaina bituminosa (ritagli di rotoli di materia prima e di guaina sostituita durante le fasi di demolizione e costruzione); l’altro, di imballaggi misti costituiti da barattoli che in origine avevano contenuto sostanze utilizzate per la posa in opera della guaina;
   b) tali rifiuti, accatastati alla rinfusa, provenivano dai vari cantieri gestiti dall’impresa che svolgeva attività di impermeabilizzazione e coperture per l’edilizia;
   c) sul registro di carico e scarico mancava ogni indicazione sui rifiuti in questione essendo registrati solo i movimenti di quelli (rifiuti misti da demolizione) conferiti per lo smaltimento ad altra impresa;
   d) i rifiuti non erano stati prodotti nel luogo del loro rinvenimento ove erano situati esclusivamente gli Uffici amministrativi della società;
   e) non era stata provata la tesi difensiva per cui tali rifiuti fossero destinati alla commercializzazione.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso proposto avverso la sentenza sotto il profilo della natura di rifiuto delle guaine e della regolarità del deposito.
La Cassazione ha premesso che, per escludere la natura di rifiuto delle guaine bituminose, i ricorrenti avevano utilizzato argomenti di natura fattuale (attingendo a tal fine a dati estrinseci al testo della sentenza) e nel merito ha osservato che:
   a) il Tribunale aveva dato atto che le guaine erano anch’esse destinate allo smaltimento tramite impresa specializzata;
   b) tale affermazione -di natura dirimente- si fondava su elementi di prova indicati in sentenza di cui i ricorrenti non solo non eccepivano il travisamento, limitandosi ad opporre la testimonianza della Coppo, secondo cui le guaine e le latte venivano selezionate per decidere se riutilizzarle in altri impieghi o disfarsene, ma di cui riconoscevano la veridicità allorquando opponevano l’inadempimento dell’impresa in questione, a loro non imputabile;
   c) in ogni caso, l’argomentazione difensiva (fondata sulla testimonianza prima citata) secondo cui si trattava di materie prime secondarie, oltre ad essere contraddittoria con la tesi dell’affidamento del deposito a terzi, non considerava che tali erano solo quelle che rispettavano i requisiti e le condizioni di cui ai decreti ministeriali indicati nell’art. 181- bis, D.Lgs. n. 152/2006, non i residui della lavorazione dei quali sia incerta la destinazione all’effettivo riutilizzo;
   d) allo stesso modo, l’eccezione secondo cui il deposito era regolare perché i rifiuti erano depositati nel “luogo di produzione” (dovendosi per tale intendere, secondo la tesi difensiva, anche la sede dell’impresa produttrice) non era decisiva perché non considerava che lo stoccaggio alla rinfusa esclude “ex se” la regolarità del deposito stesso e che in ogni caso il rispetto di tutte le modalità tecniche del deposito costituisce preciso onere di chi lo effettua, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria del deposito temporaneo rispetto alla disciplina ordinaria, onere che non può essere assolto per la prima volta in sede di legittimità con l’inammissibile allegazione di dati fattuali;
   e) peraltro, era da escludere che la sede dell’impresa non funzionalmente ed immediatamente collegata al luogo di materiale produzione del rifiuto potesse esser considerata anch’essa “luogo di produzione” del rifiuto e ciò a prescindere dal fatto che tale collegamento, se non emerge “ictu oculi”, deve essere provato in modo rigoroso da chi lo deduce.
  La Corte ha motivato anche perché non ha ritenuto astrattamente applicabile la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto: infatti, la richiesta contrastava con la decisione del Tribunale di sanzionare la condotta degli imputati con una pena che, ancorché pecuniaria, non era in alcun modo prossima al minimo edittale il che escludeva l’esiguità del pericolo di danno per l’ambiente (e, dunque, la particolare tenuità dell’offesa) che deve essere minimo, trascurabile.
Secondo la Corte, la natura esigua del danno (o del pericolo) concorre a rendere non punibile un fatto che è comunque offensivo, sicché essa non può essere confusa con le ipotesi di “speciale (o particolare) tenuità” o di “lieve entità” del fatto che attenuano il reato, senza escluderne l’offensività. Si tratta di concetti non sovrapponibili che collocano la non punibilità per particolare tenuità del fatto nella angusta area schiacciata tra la totale inoffensività della condotta e il reato attenuato dalla speciale o particolare tenuità del fatto o dalla sua lieve entità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.04.2016 n. 17184 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 7/2016)

AMBIENTE-ECOLOGIA: RAGGRUPPAMENTO E ABBRUCIAMENTO DI MATERIALI VEGETALI.
Rifiuti - Materiali vegetali - Attività di raggruppamento e abbruciamento - Disciplina applicabile
Artt. 182, 185, 256, 256-bis, D.Lgs. n. 152/2006
Costituisce attività di gestione di rifiuti, esulando dalle normali pratiche agricole, ogni attività di raggruppamento e abbruciamento dei materiali vegetali di cui all’art. 185, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 152/2006 eseguita fuori dal luogo di produzione o, se eseguita nel luogo di produzione, per una finalità diversa dal reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti; ovvero che sia eseguita nel luogo di produzione, per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, ma in cumuli non piccoli o, se in cumuli piccoli, in quantità giornaliere superiori a tre metri steri per ettaro.
Nel ricorso per cassazione deciso dalla sentenza che si riporta, il ricorrente, condannato per avere effettuato tramite combustione a cielo aperto, sul nudo terreno lo smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi costituiti da residui della trebbiatura del riso e in particolare da cumuli di pula e paglia di riso, assumeva che il Tribunale aveva ritenuto provata la natura “dolosa” della combustione esclusivamente sulla base della deposizione testimoniale del militare in servizio presso il Corpo dei Vigili del fuoco senza che questi avesse in alcun modo accertato l’origine dolosa dell’abbruciamento del cumulo di pula di riso dal quale fuoriusciva il fumo.
Inoltre, il ricorrente, in relazione alla qualifica di rifiuto della pula di riso, sosteneva che il giudice aveva escluso la qualifica dei materiali come sottoprodotto partendo dal presupposto, non provato, che fosse stato l’imputato a dare fuoco alla pula e alla paglia di riso presente sul fondo agricolo: in altri termini, il Tribunale, partendo dal presupposto che il cumulo di pula di riso fosse stato deliberatamente bruciato dal ricorrente, aveva dedotto che lo stesso dovesse essere considerato a tutti gli effetti un rifiuto.
L’imputato assumeva invece che la pula di riso rispettasse le condizioni indicate dalla legge per essere considerata un sottoprodotto, essendo indiscusso che la stessa fosse originata da un processo di produzione, quale è la produzione del riso; la stessa era certamente utilizzata, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi, dal momento che sono molteplici le modalità di utilizzo di tale prodotto, quale mangime per bovini e ovini, lettiera per gli animali, utilizzo farmaceutico o per la produzione di energia nelle centrali biogas; inoltre era prevista un’altra possibilità di utilizzo, utilizzata dal ricorrente ed incentivata dalla comunità europea (Regolamento Ce n. 73/2009), ovvero la sua utilizzazione come concime, in considerazione delle altissime qualità energetiche, provvedendo al suo reinterramento sul campo.
La Cassazione, nell’esaminare il primo motivo, ha osservato che era stato accertato che i Vigili del fuoco ricevettero una segnalazione di incendio presso l’azienda del ricorrente; che, sopraggiungendo sul posto, rinvennero all’interno dell’azienda un cumulo di circa 80 mc. di pula di riso che stava bruciando; che il ricorrente era la sola persona presente e che, all’arrivo degli operanti, stava chiudendo il cancello di accesso all’azienda. Il teste, che aveva coordinato l’intervento, escluse che si trattasse di autocombustione, rilevando che il fuoco era stato senz’altro appiccato dall’esterno in quanto il fumo proveniva dalla superficie esteriore del cumulo, tant’è che, quando i pompieri ruppero la crosta esterna del cumulo, il fuoco si spense perché all’interno il materiale era incombusto.
Successivamente, agenti del Corpo forestale si recarono presso la citata azienda agricola e, alla presenza del ricorrente e di un suo dipendente, presero visione del cumulo, oggetto dell’intervento dei pompieri e ormai ridotto in cenere, a ridosso del quale constatarono un nuovo abbruciamento di residui vegetali derivanti dalla lavorazione del riso; giusto nei pressi era infatti in funzione un essiccatoio, in cui il riso veniva deumidificato e dai cui vagli uscivano paglia di riso, cariossidi vuote, resti di erbe infestanti eccetera (nel piazzale vi erano anche cumuli di riso).
Sulla base di tali acquisizioni, il Tribunale aveva perciò logicamente escluso l’ipotesi dell’autocombustione.
Quanto al secondo motivo, la Cassazione, partendo dal fatto che il fuoco era stato appiccato dall’imputato, proprietario dell’azienda (recintata) ed unica persona presente al momento dell’arrivo dei Vigili del fuoco, ha osservato che il Tribunale aveva ritenuto che l’attività di incenerimento in questione andasse senz’altro considerata come attività di smaltimento dei rifiuti, essendo volta a eliminare (impropriamente) degli scarti, peraltro di quantità significativa, tanto che il fatto storico era ampiamente sussumibile nella fattispecie astratta descritta dalla norma incriminatrice, non potendosi ritenere che, nel caso in esame, i residui vegetali bruciati fossero dei sottoprodotti. Infatti la condotta di bruciare tali materiali denotava la chiara intenzione del detentore di disfarsene.
Secondo la Corte, il Tribunale aveva giustamente escluso che l’abbruciamento in questione fosse penalmente irrilevante ai sensi dell’art. 185, lett. f), D.Lgs. n. 152/2006 in quanto tale norma, ai fini dell’esclusione dal campo di applicazione della disciplina dei rifiuti, richiede, tra l’altro, che i residui vegetali siano destinati al reimpiego in agricoltura (circostanza esclusa nel caso concreto in quanto il periodo della concimazione della semina era già ampiamente decorso) e che i metodi di utilizzo non danneggino l’ambiente e non mettano in pericolo la salute umana (il rispetto di tale requisito era da escludersi posto che la combustione era avvenuta nei pressi di un edificio ed in periodo in cui l’accensione dei fuochi era vietata sul territorio regionale).
In ordine alla reclamata natura di sottoprodotto della pula di riso, la Suprema Corte ha osservato che nella specie non solo il ricorrente non aveva fornito la prova certa che la sostanza (pula di riso) fosse utilizzata “nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi”, ma il giudice del merito aveva anche evidenziato l’esistenza della prova contraria in quanto il periodo della semina era ampiamente decorso e i residui vegetali non erano stati utilizzati nei campi; né tali residui potevano essere successivamente utilizzati perché la condotta di bruciarli denotava, di fatto, la chiara intenzione del detentore di disfarsene, trattandoli non come sottoprodotto, ma come rifiuto, attraverso lo smaltimento di essi mediante combustione.
La Cassazione, su sollecitazione del Procuratore Generale, ha infine affrontato la questione dello ius superveniens nel senso che i fatti, così come ricostruiti nella sentenza impugnata, inducevano a ritenere non sussistenti nel caso di specie le ulteriori condizioni di esclusione dalla disciplina dei rifiuti previste dall’art. 182, comma 6-bis, D.Lgs. n. 152/2006 introdotto dall’art. 14, comma 8, lett. b), D.L. 24.06.2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.08.2014, n. 116, svolgendo in proposito due considerazioni:
   a) che nella stessa sentenza impugnata si dava atto che i pompieri, sopraggiunti sul posto, avevano rinvenuto all’interno dell’azienda un cumulo di circa 80 mc di pula di riso che stava bruciando, per cui era stato superato il limite di 3 metri steri per ettaro che l’art. 182, comma 6-bis, fissa per la irrilevanza penale del fatto, e
   b) perché la stessa sentenza dava atto che nel periodo interessato l’accensione dei fuochi era vietata sul territorio regionale.
La disposizione richiamata (art. 182, comma 6-bis) detta una disciplina in deroga che ha ad oggetto i materiali vegetali di cui all’art. 185, comma 1, lett. f), D.Lgs. n. 152/2006 (richiamato dal nuovo comma 6-bis dell’art. 182) ossia: “ (...) paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana”.
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali, di cui all’art. 185, comma 1, lett. f), effettuate nel luogo di produzione, sono, quindi, sottratte, dalla disciplina sui rifiuti, poiché sono considerate (costituiscono) normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non costituiscono più attività di gestione di rifiuti.
Quindi il loro “raggruppamento” ed “abbruciamento”, se eseguito nel rispetto delle condizioni imposte dal comma 6-bis dell’art. 182, non costituisce attività di gestione di rifiuti, e conseguentemente non può integrare alcun illecito previsto dalla normativa di riferimento, per la fondamentale ragione che, a condizioni esatte, le sostanze non rientrano ope legis nel novero dei rifiuti.
Infatti, letta “in controluce”, la disposizione stabilisce che costituisce invece attività di gestione di rifiuti, esulando dalle normali pratiche agricole, ogni attività di raggruppamento e abbruciamento dei materiali vegetali di cui all’art. 185, comma 1, lett. f), eseguita fuori dal luogo di produzione o, se eseguita nel luogo di produzione, per una finalità diversa dal reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti; ovvero che sia eseguita nel luogo di produzione, per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, ma in cumuli non piccoli o, se in cumuli piccoli, in quantità giornaliere superiori a tre metri steri per ettaro.
Da ciò si ricava che l’art. 182, comma 6-bis, va coordinato con la disciplina di cui all’art. 185, comma 1, lett. f), il quale dispone che gli stessi materiali non rientrano nel campo di applicazione della normativa sui rifiuti qualora siano “utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana”, richiedendosi pertanto un reimpiego finalisticamente orientato (“come sostanze concimanti o ammendanti” e quindi l’utilizzazione in agricoltura che è realisticamente fattibile se le attività sono eseguite nei luoghi di produzione), nonché richiedendo processi o metodi ambientalmente salubri e non pericolosi (interessi, entrambi, compromessi da incendi indiscriminati di enormi quantità di materiali, non controllabili), e in tal senso spiegandosi, cioè nell’intima connessione esistente tra l’art. 182, comma 6-bis e l’art. 185, comma 1, lett. f), il secondo periodo inserito nella prima norma, apparentemente sganciato dalla disciplina di deroga dettata dalla prima parte della medesima disposizione ex 182, comma 6-bis D.Lgs. n. 152/2006 secondo cui “nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle Regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata. I Comuni e le altre amministrazioni competenti in materia ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale di cui al presente comma all’aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)”.
Pur nell’oggettiva difficoltà interpretativa, originata da interventi normativi, in materia, cronologicamente stratificati e sistematicamente non omogenei, la Cassazione ha ritenuto che -quando il materiale (non pericoloso) di cui all’art. 185, comma 1 lett. f) viene bruciato al di fuori delle condizioni previste dall’art. 182, comma 6-bis, primo e secondo periodo, e, quindi, quando mancano le condizioni richieste per l’esclusione dell’abbruciamento dalle attività di gestione di rifiuti- è configurabile, contrariamente ad una precedente decisione della stessa Corte (07.10.2014, Urcioli, Ced Cass., rv. 261790) il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), relativo alle attività di gestione di rifiuti non autorizzate e non invece la disciplina sanzionatoria di cui all’art. 256-bis in conformità all’approdo cui è giunta in parte qua la richiamata pronuncia, in virtù della clausola di riserva espressa nel secondo periodo del comma 6 dell’art. 256-bis secondo il quale “fermo restando quanto previsto dall’art. 182, comma 6-bis, le disposizioni del presente articolo (ossia dell’art. 256-bis) non si applicano all’abbruciamento di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato”.
Nel caso di specie, il ricorrente aveva ampiamente superato (bruciando circa 80 metri cubi di pula di riso) il limite di 3 metri steri per ettaro, che la norma fissa per la irrilevanza penale del fatto (come noto, un metro stero rappresenta l’unità di volume apparente, cioè comprendente il materiale vegetale e gli spazi vuoti, che corrisponde ad una catasta delle dimensioni di 1 metro x 1 metro x 1 metro), avendo inoltre svolto l’attività di abbruciamento nel periodo in cui, come emerge dal testo della sentenza impugnata, l’accensione dei fuochi era vietata sul territorio regionale (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.02.2016 n. 5504 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 4/2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RUMORE, RAPPORTI TRA PRIVATI PROPRIETARI DI FONDI VICINI.
Rumore non superiore alla soglia massima di rumorosità fissata dalle norme speciali, tollerabilità, valutazione del giudice in base al caso concreto
Artt. 844 e 2043 cod. civ.
In tema di immissioni rumorose con riferimento ai rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini, un rumore superiore di 3,5 rispetto al rumore di fondo che si protragga per cinque-dieci minuti al giorno, in orari non destinati al riposo e non più di una volta al giorno, non può essere ritenuto intollerabile, dovendosi peraltro precisare che non essendo tale valore superiore alla soglia massima di rumorosità fissata dalle norme speciali (5 decibel in orario diurno), ben può il giudice valutare, sulla base di un prudente apprezzamento che tenga conto della peculiarità della specifica fattispecie, se si sia o meno in presenza di immissioni intollerabili.
Con la pronuncia in commento la Suprema Corte illustra alcuni fondamentali principi in tema di immissioni rumorose e applicabilità dell’art. 844 cod. civ. nei rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini.
In particolare, ricorreva per cassazione l’originario attore la cui domanda ex artt. 844 e 2043 cod. civ. (cessazione o riconduzione dei rumori provenienti dal macchinario della proprietà adiacente, nonché condanna del convenuto al risarcimento del danno biologico e morale) veniva rigettata dal Tribunale, con pronuncia confermata in appello.
La Cassazione rigetta il ricorso chiarendo quanto segue con riferimento ai seguenti tre aspetti:
   1) art. 844 cod. civ. e carattere relativo del limite di tollerabilità delle immissioni;
   2) parametri fissati dalle norme speciali a tutela dell’ambiente e poteri del giudice nello stabilire la tollerabilità o meno delle immissioni nell’ambito privatistico;
   3) Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 01.03.1991 e applicabilità dell’art. 844 cod. civ., nei rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini.
Quanto al primo aspetto, la Suprema Corte ricorda, in armonia con la giurisprudenza di legittimità (si vedano al riguardo, tra le tante, Cass. 03.08.2001, n. 10735; Cass. 06.06.2000, n. 7545; Cass. 12.02.2000, n. 1565; Cass. 11.11.1997, n. 11118), che il limite di tollerabilità delle immissioni, a norma dell’art. 844 cod. civ., non ha carattere assoluto, ma relativo; ciò vuol dire che esso deve essere fissato con riguardo al caso concreto, tenendo conto delle condizioni naturali e sociali dei luoghi e delle abitudini della popolazione.
Quanto al secondo aspetto, i giudici osservano poi che i parametri fissati dalle norme speciali a tutela dell’ambiente (dirette alla protezione di esigenze della collettività, di rilevanza pubblicistica), pur potendo essere considerati come criteri minimali di partenza al fine di stabilire l’intollerabilità delle emissioni che li eccedano, non sono necessariamente vincolanti per il giudice civile. Il giudice, infatti, nello stabilire la tollerabilità o meno dei relativi effetti nell’ambito privatistico, può anche discostarsene, pervenendo al giudizio di intollerabilità ex art. 844 cod. civ. delle emissioni, ancorché contenute in quei limiti; ciò sulla scorta di un prudente apprezzamento che consideri la particolarità della situazione concreta e dei criteri fissati dalla norma civilistica (sul punto si veda Cass. 25.08.2005, n. 17281).
Da ultimo, con riferimento ai valori fissati dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 01.03.1991, la Cassazione ricorda che esso, nel determinare le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti di tollerabilità in materia di immissioni rumorose -al pari dei regolamenti comunali limitativi dell’attività rumorosa- fissa, quale misura da non superare per le zone non industriali, una differenza rispetto al rumore ambientale pari a 3 db in periodo notturno e in 5 db in periodo diurno: tali previsioni perseguono, precisa la Suprema Corte, finalità di carattere pubblico ed opera nei rapporti fra i privati e la PA. Dette disposizioni, perciò, conclude la Corte, non escludono l’applicabilità dell’art. 844 cod. civ., nei rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini (Cass. 01.02.2011, n. 2319; Cass. 03.08.2001, n. 10735).
Ciò considerato, la Cassazione osserva che nella specie la Corte d’Appello ha:
   • accertato emissioni sonore che superavano il rumore di fondo di 3,5 decibel nelle ore diurne e di 4,5 nelle ore notturne;
   • dato atto che tali valori risultano superiori a quello di 3 decibel del rumore di fondo, normalmente individuato dalla giurisprudenza quale limite di tollerabilità delle immissioni rumorose;
   • evidenziato che l’attore non ha provato né la frequenza delle immissioni, né se avvenivano in orario notturno o di riposo pomeridiano;
   • ritenuto (esclusa per quanto detto la produzione di rumori notturni o in orari destinati al riposo, e valutate tutte le circostanze del caso concreto) che un rumore diurno superiore di 3,5 rispetto al rumore di fondo (che nella specie si protraeva per cinque-dieci minuti al giorno e presumibilmente, non più di una volta al giorno) non può essere considerato obiettivamente intollerabile;
   • precisato che tale valore non risultava superiore alla soglia massima di rumorosità fissata dalle norme speciali richiamate nei citati precedenti giurisprudenziali (5 decibel in orario diurno);
   • osservato, di conseguenza, che ben poteva valutarsi, sulla base di un prudente apprezzamento che tenga conto della peculiarità della specifica fattispecie, se si era o meno in presenza di immissioni intollerabili;
   • valutato che si era in presenza di immissioni non intollerabili.
Alla luce di tutto ciò, la Cassazione conclude confermando che il giudizio così espresso nella sentenza impugnata circa la non intollerabilità delle immissioni in questione è sorretto da una motivazione immune da vizi logici e giuridici (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 29.10.2015 n. 22105 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 4/2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: IMMISSIONI ACUSTICHE, INTOLLERABILITÀ, RISARCIMENTO DEL DANNO.
Immissioni, intollerabilità, danno, prova per presunzioni Artt. 844 e 2043 cod. civ.
In tema di immissioni, le conseguenze dannose della loro intollerabilità possono essere provate anche in via presuntiva. Dunque, pur in difetto di un’accertata lesione psico-fisica, può essere accertata una significativa lesione degli interessi della persona umana costituzionalmente garantiti quale il diritto al riposo e alla tranquillità e, accertata l’effettività del danno, la sua liquidazione può avvenire in via equitativa in quanto ancorata alla peculiarità del caso concreto.
Venivano proposte domande di inibitoria e di risarcimento del danno in dipendenza di lamentate immissioni provenienti da fabbricato adibito ad attività artigianale. In esito al giudizio di primo grado, la Corte d’Appello riteneva accertato che si fossero verificate immissioni acustiche eccedenti la normale tollerabilità. Per l’effetto, condannava il convenuto al risarcimento dei danni in favore dell’attore.
In particolare, il giudice d’appello osservava che:
   • il superamento del limite di tollerabilità delle immissioni rumorose previsto dalla normativa di settore risultava accertato (con C.T.U.), anche se solo durante l’utilizzo di un muletto e non, invece, durante il funzionamento delle altre apparecchiature;
   • era stato chiesto il risarcimento del pregiudizio “alla salute” e alla “qualità della vita”, cagionato dalle immissioni intollerabili o meno, mentre non era stata riproposta la domanda inibitoria;
   • l’intollerabilità dei rumori in questione e la loro incidenza pregiudizievole sulle occupazioni e il riposo delle persone, in misura tale da compromettere la normale fruibilità dell’abitazione e la qualità della vita al suo interno, erano risultate confermate anche dalla prova testimoniale;
   • rispetto a tale rumore, superiore alla soglia della tollerabilità, il danno era in re ipsa ed era risarcibile ai sensi degli artt. 2043 e 2049 cod. civ., risultando liquidabile in via equitativa, avuto riguardo alla circostanza del caso concreto.
Con ricorso per cassazione, l’originario convenuto denunciava che il giudice di appello, ricorrendo ad una valutazione di tipo equitativo e riconoscendo il risarcimento pur in assenza di lesioni medicalmente accertate, si era sottratto al compito di verificare l’effettività di un danno giuridicamente apprezzabile.
La Cassazione rigetta il ricorso, confermando la correttezza della pronuncia impugnata.
Ciò sulla base delle seguenti argomentazioni:
   • la Corte territoriale non ha confuso l’evento di danno con le sue conseguenze, piuttosto, ha ritenuto provato siffatte conseguenze dannose in via presuntiva;
   • è stata infatti considerata “natura” e “alientità” del rumore (così come misurato dai tecnici), nonché la sua frequenza discontinua nell’arco della giornata e la sua protrazione negli anni;
   • l’impianto motivazionale della decisione impugnata, infatti, espone puntualmente gli elementi probatori (c.t.u. e prova testimoniale) da cui è stata desunta:
      a) l’intollerabilità delle immissioni;
      b) l’incidenza pregiudizievole di dette immissioni sulle occupazioni e il riposo delle persone, con un danno né futile, né meramente immaginario;
Tutto ciò, prosegue la Cassazione, in linea con la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 19.12.2014, n. 26899) secondo cui l’accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili può determinare una lesione del diritto al riposo notturno e alla vivibilità della propria abitazione, la cui prova può essere fornita dal danneggiato anche mediante presunzioni sulla base delle nozioni di comune esperienza.
Dunque, osservano i giudici di legittimità, pur in difetto di un’accertata lesione psico-fisica, il pregiudizio accertato dai giudici d’appello esprime una “significativa lesione degli interessi della persona umana costituzionalmente garantiti, e segnatamente il diritto al riposo e alla tranquillità, inevitabilmente impedito dal protrarsi dei rumori anche nelle ore del pomeriggio”.
In tale contesto, conclude la Suprema Corte, è postulato il sicuro accertamento dell’effettività del danno, pure nelle obiettive difficoltà della sua quantificazione; ne consegue, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, che la liquidazione equitativa non si rivela in tali casi affatto arbitraria, risultando, invece, ancorata alla peculiarità del caso concreto (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 20.10.2015 n. 21173 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 4/2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RUMORE, CONTEMPERAMENTO DELLE ESIGENZE DELLA PRODUZIONE CON LE RAGIONI DELLA PROPRIETÀ.
Immissioni superiori ai limiti di tollerabilità, illiceità, ambito operativo dell’attività di contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni dei proprietari lesi dalle immissioni
Art. 844, comma 2, cod. civ.
Le immissioni acustiche determinate da un'attività produttiva che superino i normali limiti di tollerabilità fissati, nel pubblico interesse, da leggi o regolamenti, e da verificarsi in riferimento alle condizioni del fondo che le subisce, sono da reputarsi illecite, sicché il giudice, dovendo riconoscerle come tali, può addivenire ad un contemperamento delle esigenze della produzione soltanto al fine di adottare quei rimedi tecnici che consentano l'esercizio della attività produttiva nel rispetto del diritto dei vicini a non subire immissioni superiori alla normale tollerabilità.
Con la sentenza in commento, la Cassazione torna a pronunciarsi sull’art. 844 cod. civ. e, in particolare, sull’ambito applicativo del comma 2.
Nel caso di specie, i titolari di un locale e di un albergo venivano chiamati in giudizio al fine di far accertare la provenienza di immissioni rumorose, eccedenti la normale tollerabilità, provenienti da detti ambienti. Gli attori, in particolare, chiedevano l'accertamento della responsabilità dei convenuti e la condanna degli stessi alla cessazione delle immissioni in questione, nonché il risarcimento dei danni dagli stessi subiti.
Il giudice adito accertava e dichiarava la sussistenza di immissioni rumorose eccedenti la normale tollerabilità, provenienti dal locale, accertando quindi la responsabilità solidale dei convenuti nella causazione del danno biologico da inabilità temporanea parziale subita da alcuni degli attori, e condannando di conseguenza i convenuti in solido al risarcimento, anche del danno morale, oltre che per il danno patrimoniale da temporaneo deprezzamento dell'immobile di proprietà degli attori.
In seguito all’appello proposto da uno dei due convenuti, la pronuncia di primo grado venne parzialmente riformata, con conseguente ricorso per cassazione proposto dagli originari attori.
Questi denunciavano tra l’altro violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (ex art. 360 cod. proc. civ., n. 3) in relazione all'art. 844 cod. civ., nonché omessa/insufficiente/contraddittoria motivazione in ordine alla sussistenza di immissioni intollerabili. In particolare, col ricorso in parola veniva osservato che:
   - non è necessario il superamento dei limiti legali stabiliti dalla normativa sull'inquinamento acustico, laddove sia accertata l'intollerabilità delle immissioni, tenuto conto dello stato dei luoghi ed anche della priorità dell'uso;
   - nel caso in esame andavano prioritariamente tutelate le esigenze abitative ed il diritto alla salute degli odierni ricorrenti.
La Cassazione giudica detta doglianza infondata.
Come noto in tema di immissioni l’art. 844 cod. civ. dispone, al primo comma, quanto segue: “il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi”.
Al secondo comma, poi, si precisa che “nell'applicare questa norma l'autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso”.
I Giudici di legittimità osservano al riguardo che, l'art. 844 cod. civ., comma 2, nella parte in cui prevede la valutazione, da parte del giudice, del contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, considerando eventualmente la priorità di un determinato uso, deve essere letto, “tenendo conto che il limite della tutela della salute è da ritenersi ormai intrinseco nell'attività di produzione oltre che nei rapporti di vicinato, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, dovendo considerarsi prevalente rispetto alle esigenze della produzione il soddisfacimento di una normale qualità della vita”.
Da ciò, illustra la Cassazione richiamando la propria giurisprudenza in materia (si veda in particolare Cass., 08.03.2010, n. 5564), discende che le immissioni acustiche determinate da un'attività produttiva che superino i normali limiti di tollerabilità fissati, nel pubblico interesse, da leggi o regolamenti, e da verificarsi in riferimento alle condizioni del fondo che le subisce, sono da reputarsi illecite; con la conseguenza che il giudice, dovendo riconoscerle come tali, “può addivenire ad un contemperamento delle esigenze della produzione soltanto al fine di adottare quei rimedi tecnici che consentano l'esercizio della attività produttiva nel rispetto del diritto dei vicini a non subire immissioni superiori alla normale tollerabilità”.
Sulla base di tali principi la Cassazione osserva che nella specie, secondo la sentenza impugnata, non sussiste la prova che i rumori fossero intollerabili. Pertanto, non poteva essere applicato l'art. 844 cod. civ., comma 2. La doglianza proposta è quindi infondata (
Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 22.09.2015 n. 18624 - tratto da Ambiente & sviluppo n. 2/2016).

EDILIZIA PRIVATA: Le controversie sul contributo di concessione (ora contributo di costruzione), devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a partire dalla legge 28.01.1977 n. 10 (art. 16), introducono un giudizio sul rapporto, che prescinde dall’impugnazione di atti.
La determinazione del contributo è, infatti, cosa diversa ed autonoma rispetto al rilascio del permesso di costruire, sia perché persegue finalità sue proprie, sia perché si conclude con un atto -concettualmente diverso da quello concessivo del titolo a costruire- che può essere contestato e caducato in sede giurisdizionale senza ripercussioni sul titolo edilizio.
Ciò dipende dalla natura del contributo, che, pur non avendo carattere strettamente tributario, si configura come corrispettivo di diritto pubblico connesso al rilascio della concessione edilizia, a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione ai benefici che la nuova costruzione ne ritrae.
Si tratta, più specificamente, di una prestazione patrimoniale imposta (dovuta cioè a prescindere dall’utilità che riceve il concessionario e dalle spese effettivamente necessarie per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione: da determinarsi sulla base delle norme che regolano i relativi criteri di conteggio, le quali sono cogenti sia per il contribuente (tenuto nei limiti di ciò che la legge dispone, in osservanza del principio enunciato dall’art. 23 Cost.), sia per l’Amministrazione (che non può richiedere importi diversi, in eccesso o in difetto, da quelli dovuti per legge).
Ciò implica, tra l’altro, che:
   (a) relativamente al contributo, il rapporto tra titolare del permesso edilizio e Amministrazione ha carattere paritetico, e non autoritativo, con conseguente esigenza di determinare ciò che è dovuto per legge, restando improponibili le censure tipiche dell’impugnativa dei provvedimenti amministrativi volte a far valere i c.d. vizi sintomatici dell’eccesso di potere;
   (b) la c.d. “’impugnazione” dell’atto di determinazione del contributo per vizi propri (per es., computo errato), comportando la lesione di un diritto (e non di un interesse legittimo), è proponibile nei termini di prescrizione;
   (c) in caso di errore (per difetto) nella liquidazione del contributo la P.A. può parimenti pretenderne l’integrazione (o il conguaglio) nel termine di prescrizione, così come a prescrizione è soggetta l’azione di ripetizione dell’interessato che, dopo avere pagato il contributo, ne chieda la restituzione -totale o parziale- per indebito oggettivo.
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... per l'annullamento del provvedimento 26/27.10.2007, prot. n. 17310, emesso dal responsabile dell’Area Tecnica, con cui il Comune ha rideterminato il contributo di costruzione per gli interventi edilizi eseguiti sull’area del complesso produttivo “ex Mellin” ed ha ingiunto alla ricorrente il pagamento di € 615.883,31 quale maggior somma dovuta a tale titolo; con la condanna del Comune al risarcimento del danno.
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1. La Società ricorrente, già proprietaria dell’area denominata ex Mellin e dei sovrastanti immobili, siti in zona D1 “industriale e artigianale di completamento”, nel periodo 2003~2007 ha realizzato su detti immobili, successivamente alienati a terzi, interventi di ristrutturazione, sulla base di diverse denunce di inizio attività.
2. In base ad un accordo sostitutivo di provvedimento, ex art. 11 legge n. 241/1990, recepito con delibera consiliare 29.06.2005 n. 15, ha inoltre realizzato opere di urbanizzazione primaria (tratti di viabilità interna ed esterna al complesso industriale), a totale proprio carico e, a scomputo del contributo concessorio, interventi edilizi (rifacimento del tetto e opere di adeguamento igienico sanitario e impiantistico) su un edificio scolastico di proprietà comunale.
3. A due anni di distanza dall’accordo il Comune ha avviato un procedimento di riesame delle pratiche edilizie, finalizzato alla corretta qualificazione dell’intervento (cfr. avviso in data 26.05.2007, prot. n. 8477).
4. Al termine del contraddittorio procedimentale, con l’impugnato provvedimento 26/27.10.2007, emesso dal responsabile dell’Area Tecnica, il Comune ha riqualificato l’intervento, ha rideterminato il contributo di costruzione applicando la tariffa relativa agli interventi di nuova costruzione (anziché di ristrutturazione), ed ha ingiunto alla Società il pagamento di € 615.883,31 quale maggior somma dovuta a tale titolo.
5. La Società ha impugnato il provvedimento sulla base di tre motivi di ricorso, chiedendone l’annullamento, con la condanna del Comune al risarcimento del danno; danno concretatosi “nei costi tecnici, progettuali e di esecuzione che la ricorrente ha dovuto sostenere [per] le opere oggetto dell’accordo… completate e già in uso …” (ricorso, pag. 25), nonché (memoria 29.04.2010, pag. 24) per la stipula della polizza fideiussoria e le spese legali.
6. Con ordinanza 19.12.2007 n. 1971 la Sezione ha accolto la domanda cautelare per motivi esclusivamente attinenti al periculum in mora, subordinandola alla prestazione di garanzia fideiussoria.
7. Ciò premesso, il Collegio osserva quanto segue.
Con il primo motivo la Società assume che, essendo stati eseguiti gli interventi di ristrutturazione negli anni 2003-2006, sulla base di titoli edilizi consolidati, e per giunta confluiti nell’accordo sostitutivo, il Comune non avrebbe avuto alcun potere di procedere ad una nuova istruttoria volta alla riqualificazione dell’intervento, tanto meno dopo il silenzio-assenso formatosi sulle domande di agibilità presentate dalla ricorrente e dalla sua avente causa.
8. Con il secondo motivo assume che il Comune non avrebbe potuto rideterminarsi unilateralmente in difformità da quanto concordato in sede di accordo sostitutivo ex art. 11 legge 241/1990; che dal provvedimento impugnato non è dato evincere quale sia l’interesse pubblico che avrebbe indotto il Comune a riliquidare gli oneri concessori discostandosi da quanto pattuito; che l’art. 11, quarto comma, della legge 241/1990 prevede sì il recesso dall’accordo, ma solo per sopravvenuti motivi di interesse pubblico e previo indennizzo.
9. Con il terzo motivo assume che la ristrutturazione è una tipologia di intervento che comprende anche la demolizione e la ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente; nel caso di specie le opere realizzate in base a d.i.a. rientrerebbero appunto nella nozione di ristrutturazione, essendo la s.l.p. dell’edificio realizzato inferiore a quella dell’edificio originario; viceversa, il provvedimento impugnato, emesso in base a pareri redatti da professionisti esterni e ad una sentenza del TAR Marche, non recherebbe alcuna motivazione che dimostri un ipotetico errore di calcolo atto a giustificare, nell’esercizio dell’autotutela, una quantificazione degli oneri diversa da quella convenuta tra le parti in sede di accordo sostitutivo.
10. Il ricorso, cui resiste il Comune, è infondato.
Va premesso che le controversie sul contributo di concessione (ora contributo di costruzione), devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a partire dalla legge 28.01.1977 n. 10 (art. 16), introducono un giudizio sul rapporto, che prescinde dall’impugnazione di atti.
11. La determinazione del contributo è, infatti, cosa diversa ed autonoma rispetto al rilascio del permesso di costruire, sia perché persegue finalità sue proprie, sia perché si conclude con un atto -concettualmente diverso da quello concessivo del titolo a costruire- che può essere contestato e caducato in sede giurisdizionale senza ripercussioni sul titolo edilizio (cfr. Cons. Stato IV 21.04.2009 n. 2438).
12. Ciò dipende dalla natura del contributo, che, pur non avendo carattere strettamente tributario, si configura come corrispettivo di diritto pubblico connesso al rilascio della concessione edilizia, a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione ai benefici che la nuova costruzione ne ritrae (Cons. Stato 2^, 21.11.2007 n. 11073 e 10060/2004).
13. Si tratta, più specificamente, di una prestazione patrimoniale imposta (dovuta cioè a prescindere dall’utilità che riceve il concessionario e dalle spese effettivamente necessarie per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione: Cons. Stato V, 21.04.2006 n. 2258), da determinarsi sulla base delle norme che regolano i relativi criteri di conteggio, le quali sono cogenti sia per il contribuente (tenuto nei limiti di ciò che la legge dispone, in osservanza del principio enunciato dall’art. 23 Cost.), sia per l’Amministrazione (che non può richiedere importi diversi, in eccesso o in difetto, da quelli dovuti per legge).
14. Ciò implica, tra l’altro, che:
   (a) relativamente al contributo, il rapporto tra titolare del permesso edilizio e Amministrazione ha carattere paritetico, e non autoritativo, con conseguente esigenza di determinare ciò che è dovuto per legge, restando improponibili le censure tipiche dell’impugnativa dei provvedimenti amministrativi volte a far valere i c.d. vizi sintomatici dell’eccesso di potere (TAR Milano 2^, 13.07.1998 nn. 1817 e 1820);
   (b) la c.d. “’impugnazione” dell’atto di determinazione del contributo per vizi propri (per es., computo errato), comportando la lesione di un diritto (e non di un interesse legittimo), è proponibile nei termini di prescrizione (Cons. Stato V, 03.05.2006 n. 2463);
   (c) in caso di errore (per difetto) nella liquidazione del contributo la P.A. può parimenti pretenderne l’integrazione (o il conguaglio) nel termine di prescrizione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2008 n. 2686; Sez. 2^, 21.11.2007 n. 11073 e 10060/2004), così come a prescrizione è soggetta l’azione di ripetizione dell’interessato che, dopo avere pagato il contributo, ne chieda la restituzione -totale o parziale- per indebito oggettivo.
15. Nel caso in esame, non sono dunque pertinenti le censure di difetto di motivazione, specie se riferite al provvedimento del Comune come atto di autotutela assunto in difetto di un interesse pubblico specificamente individuato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.05.2010 n. 1566 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 15.06.2018

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Sull'obbligo di arretrare la costruzione anche nell'ipotesi in cui i fondi, anziché essere contigui, siano separati da una striscia di terreno di proprietà di terzi.

EDILIZIA PRIVATA: Anche la presenza di una striscia di proprietà aliena tra due costruzioni poste a distanza inferiore a quella minima non preclude la possibilità di invocare il rispetto delle distanze in questione, sebbene con l'adozione di opportuni accorgimenti al fine di ripartire equamente l'onere del rispetto delle distanze, alla luce dell'esistenza del fondo alieno interposto.
Invero,
l'obbligo di arretrare la costruzione, posto dalla disciplina urbanistica, va rispettato anche nell'ipotesi in cui i fondi, anziché essere contigui, siano separati da una striscia di terreno di proprietà di terzi.
Ed ancora,
nell'ipotesi di fondi non confinanti, perché separati da una striscia di terreno di proprietà di un terzo e di larghezza inferiore alla distanza minima legale, sebbene non operi il principio della prevenzione, non essendo oggettivamente configurabile l'ipotesi di una costruzione "sul confine", giacché quella eretta sulla demarcazione tra ciascun fondo e lo spazio intermedio si presenta, rispetto all'altro fondo, come distaccata dal confine medesimo, trova piuttosto applicazione la disciplina delle costruzioni "con distacco".
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Il primo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione dell'art. 873 c.c. e del DM n. 1444/1968 nonché delle previsioni di cui all'art. 6, co. 2, delle NTA del PRG del Comune di Bosco Chiesanuova.
Deducono i ricorrenti che, sebbene fosse emerso che la sopraelevazione degli attori fosse risultata collocata ad una distanza di appena un metro dalla loro costruzione, da reputarsi preveniente, distanza largamente inferiore a quella minima imposta dalla legge e dal regolamento locale, tuttavia la domanda riconvenzionale è stata disattesa sol perché tra i due fondi era collocata una striscia di terreno di proprietà di terzi, sebbene di larghezza inferiore alla distanza minima tra costruzioni.
Il motivo è fondato, risultando la decisione gravata non conforme alla precedente giurisprudenza di questa Corte a mente della quale anche la presenza di una striscia di proprietà aliena tra due costruzioni poste a distanza inferiore a quella minima, non preclude la possibilità di invocare il rispetto delle distanze in questione, sebbene con l'adozione di opportuni accorgimenti al fine di ripartire equamente l'onere del rispetto delle distanze, alla luce dell'esistenza del fondo alieno interposto.
In tal senso si veda tra i precedenti di questa Corte, Cass. n. 627/2003 a mente della quale l'obbligo di arretrare la costruzione, posto dalla disciplina urbanistica, va rispettato anche nell'ipotesi in cui i fondi, anziché essere contigui, siano separati da una striscia di terreno di proprietà di terzi.
In termini analoghi Cass. n. 5874/2017, secondo cui nell'ipotesi di fondi non confinanti, perché separati da una striscia di terreno di proprietà di un terzo e di larghezza inferiore alla distanza minima legale, sebbene non operi il principio della prevenzione, non essendo oggettivamente configurabile l'ipotesi di una costruzione "sul confine", giacché quella eretta sulla demarcazione tra ciascun fondo e lo spazio intermedio si presenta, rispetto all'altro fondo, come distaccata dal confine medesimo, trova piuttosto applicazione la disciplina delle costruzioni "con distacco" (per altri precedenti in presenza di una striscia di terreno interposta, Cass. n. 3968/2013; Cass. n. 7525/2002).
Ne deriva che il rigetto della riconvenzionale in ragione della sola presenza di un fondo intermedio contravviene a quanto affermato dalla giurisprudenza ed impone la cassazione della sentenza gravata in parte qua, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Venezia per un nuovo esame, anche al fine di riscontrare, in assenza di una specifica indicazione da parte del giudice di appello,  che ha esaminato la questione nel merito, la inammissibilità della relativa domanda come lamentata nelle memorie di parte controricorrente (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 08.05.2018 n. 11011).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il prevalente orientamento di questa Corte l'espressione di cui all'art. 873 c.c., che disciplina le distanze tra costruzioni su "fondi finitimi", non va intesa in senso letterale di fondi confinanti, ma in quello di fondi "vicini".
Infatti quando il codice ha inteso riferirsi a fondi -confinanti" ha sempre usato l'attributo "finitimo" e non anche quello "contiguo" e che l'art. 873 c.c. riguardi anche fondi non confinanti si desume dal contenuto dell'art. 879 c.c., nel quale sono escluse dall'osservanza della distanza legale le costruzioni a confine con piazze o vie pubbliche;i1 che, implicitamente, porta ad ammettere l'applicabilità della norma dell'art. 873 alle costruzioni su fondi confinanti con vie private o, comunque, con terreo comune o altrui.
Costituisce del resto consolidato principio della giurisprudenza di questa Corte quello per cui l'obbligo del rispetto delle distanze da osservarsi nelle costruzioni esistenti, previsto dall'art. 873 c.c. o dallo strumento urbanistico locale, ad integrazione della predetta norma del codice civile, è preordinato al fine di prevenire che tra gli edifici privati esistenti o da edificarsi "su fondi finitimi" (ovverossia "vicini" e non "confinanti") si formino strette ed insalubri intercapedini tali da ostacolare il godimento dell'aria e della luce, oltre che il favorire del propagarsi di incendi.
Le ragioni igieniche ispiratrici della norma, aventi finalità pubblicistiche, non vengono dunque meno né quando tra gli edifici posti a distanza minore di quella legale vi sia una zona di terreno comune alle stesse parti, né quando detta zona sia di proprietà di un terzo estraneo alla lite.
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Secondo il consolidato indirizzo di questa Corte nell'ipotesi di fondi non confinanti, in quanto tra i fondi suddetti intercorra una striscia di terreno di proprietà di un terzo, di larghezza inferiore a quella legale, non opera il principio della prevenzione, atteso che non è oggettivamente configurabile l'ipotesi di una costruzione "sul confine", secondo la disciplina degli artt. 874-877 c.c., in quanto quella eretta sulla demarcazione tra ciascun fondo e lo spazio intermedio si presenta, rispetto all'altro fondo, come distaccata dal confine.
In tale situazione deve escludersi l'attuazione del diritto di prevenzione, nella forma della costruzione sul confine e deve affermarsi l'applicazione della disciplina delle costruzioni "con distacco".
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Con il secondo motivo i ricorrenti denunziano la violazione e falsa applicazione degli artt. 873 c.c. e 16 Reg. edilizio del Comune di San Giovanni in Persiceto, dell'art. 4 delle NTA del PRG e del principio di prevenzione, deducendo che le disposizioni sulle distanze dovevano ritenersi applicabili alle sole superfici coperte confinanti, situazione non ravvisabile nel caso di specie.
Deducono inoltre che la legittimità della sopraelevazione derivava dal fatto che essa era stata eseguita su quanto in precedenza edificato in aderenza all'edificio di Sc.Od., sulla base di un progetto unitario presentato da tutti i proprietari interessati, vale a dire essi ricorrenti e Sc.Od., con esclusione di Sc.Gi. che non era confinante.
Pure tale motivo è infondato.
Secondo il prevalente orientamento di questa Corte l'espressione di cui all'art. 873 c.c. che disciplina le distanze tra costruzioni su "fondi finitimi" non va intesa in senso letterale di fondi confinanti, ma in quello di fondi "vicini".
Infatti quando il codice ha inteso riferirsi a fondi "confinanti" ha sempre usato l'attributo "finitimo" e non anche quello "contiguo" e che l'art. 873 c.c. riguardi anche fondi non confinanti si desume dal contenuto dell'art. 879 c.c., nel quale sono escluse dall'osservanza della distanza legale le costruzioni a confine con piazze o vie pubbliche;i1 che, implicitamente, porta ad ammettere l'applicabilità della norma dell'art. 873 alle costruzioni su fondi confinanti con vie private o, comunque, con terreo comune o altrui (Cass. 627/2003).
Costituisce del resto consolidato principio della giurisprudenza di questa Corte quello per cui l'obbligo del rispetto delle distanze da osservarsi nelle costruzioni esistenti, previsto dall'art. 873 c.c. o dallo strumento urbanistico locale, ad integrazione della predetta norma del codice civile, è preordinato al fine di prevenire che tra gli edifici privati esistenti o da edificarsi "su fondi finitimi" (ovverossia "vicini" e non "confinanti") si formino strette ed insalubri intercapedini tali da ostacolare il godimento dell'aria e della luce, oltre che il favorire del propagarsi di incendi.
Le ragioni igieniche ispiratrici della norma, aventi finalità pubblicistiche, non vengono dunque meno né quando tra gli edifici posti a distanza minore di quella legale vi sia una zona di terreno comune alle stesse parti, né quando detta zona sia di proprietà di un terzo estraneo alla lite (Cass. 3849/1978; 1015/1983; 627/2003 e da ultimo 5154/2012).
Del pari infondata la dedotta violazione del c.d. principio di prevenzione.
Ed invero secondo il consolidato indirizzo di questa Corte nell'ipotesi di fondi non confinanti, in quanto tra i fondi suddetti intercorra una striscia di terreno di proprietà di un terzo, di larghezza inferiore a quella legale, non opera il principio della prevenzione, atteso che non è oggettivamente configurabile l'ipotesi di una costruzione "sul confine", secondo la disciplina degli artt. 874-877 c.c., in quanto quella eretta sulla demarcazione tra ciascun fondo e lo spazio intermedio si presenta, rispetto all'altro fondo, come distaccata dal confine.
In tale situazione deve escludersi l'attuazione del diritto di prevenzione, nella forma della costruzione sul confine e deve affermarsi l'applicazione della disciplina delle costruzioni "con distacco" (Csss. Ss.Uu. 5349/1982 e Cass. 627/2003).
Si osserva peraltro che nel caso di specie non si pone un problema di prevenzione tra costruzioni, posto che la dedotta violazione deriva non già dall'ampliamento originario, ma dalla soprelevazione successivamente eseguita.
I ricorrenti non possono inoltre giovarsi, contrariamente a quanto da essi dedotto, della disposizione di cui all'art. 4 norma attuazione del PRG del Comune di San Giovanni in Persiceto, che al punto 3 stabilisce che:
   - nel caso di edifici preesistenti costruiti a muro cieco sul confine, le nuove costruzioni possono essere edificate in aderenza;
   - nel caso di due o più lotti contigui, la costruzione in aderenza è concessa a condizione che sia presentato dai proprietari un progetto unitario equivalente a vincolo reciproco di costruire in aderenza.
La citata disposizione non consentiva infatti ai ricorrenti di sopraelevare, mediante la presentazione di un progetto unitario a vincolo reciproco di costruire in aderenza, senza il consenso di Sc.Gi., quale proprietario del secondo piano, frontistante la soprelevazione dei ricorrenti, non essendo al riguardo sufficiente il consenso prestato dall'altro fratello Sc.Od. (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 08.03.2017 n. 5874).

EDILIZIA PRIVATA: Allorché due terreni finitimi sono separati da una striscia intermedia, inedificata o per qualsiasi ragione inedificabile, e di larghezza inferiore al distacco dal confine prescritto per le costruzioni, ciascuno dei proprietari deve costruire sul proprio fondo ad una distanza, rispetto al confine con il terreno di proprietà aliena, che non sia inferiore alla metà della differenza che residua sottraendo dal distacco imposto dalla normativa edilizia la misura dello spazio occupato dalla striscia di terreno interposta.
 
A tale orientamento, che stabilisce, in sostanza, che nel computo della distanza minima imposta dalla legge o dal regolamento locale la larghezza della striscia di terreno interposta tra i due fondi debba essere "neutralizzata", cioè eliminata concettualmente, anche nel caso in cui la distanza sia imposta tra la costruzione ed il confine, occorre dare continuità, soffermata l'attenzione su due aspetti della problematica.
Quanto al primo,
è ben vero che "finitimo" è perfettamente sinonimico rispetto a "confinante" e che dunque a rigori un'area interposta tra due fondi rende questi ultimi non reciprocamente confinanti.
Tuttavia occorre osservare che allorquando l'area interposta e inedificabile abbia una larghezza inferiore a quella prescritta per il distacco tra costruzioni o tra costruzione e confine, e non si versi nell'ipotesi di cui all'art. 879, cpv. c.c., l'inapplicabilità della regola del distacco comporterebbe esattamente le medesime conseguenze negative che l'art. 873 c.c. e le disposizioni locali integrative sono dirette ad evitare.
Del tutto assenti indicazioni normative di segno diverso, tali, cioè, da rendere plausibile la volontà del legislatore di accettare un tale effetto pratico, s'impone mediante lo strumento dell'analogia o dell'interpretazione estensiva una soluzione che collochi la fattispecie entro l'ambito di applicazione delle regole dettate in materia di distanze.
Per di più, va considerato che la stessa nozione di distanza non definisce un dato meramente strutturale, ma disciplina la relazione dinamica fra contrapposte facoltà edificatorie, sicché anche il concetto di fondi confinanti o finitimi deve essere inteso in funzione dello scopo normativo ogni qual volta l'esercizio di tali facoltà incroci le esigenze d'ordine pubblico e privato tutelate congiuntamente dagli artt. 873 e ss. c.c.

La seconda considerazione è data dal fatto che
la giurisprudenza di questa Corte è ormai da tempo attestata nel senso di ritenere che le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o come spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o in rapporto con l'altezza delle stesse, ancorché inserite in un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a regolare l'assetto del territorio, conservano il carattere integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo equo l'utilizzazione edilizia dei suoli privati, e pertanto la loro violazione consente al privato di ottenere la riduzione in pristino.
Nel contesto edilizio, pertanto, le norme degli strumenti urbanistici che impongono l'osservanza di una determinata distanza della costruzione dal confine non esprimono una regola diversa rispetto a quella codicistica basata sulla distanza tra fabbricati, ma una differente tecnica di protezione interna alla medesima regola del distacco, che in tutte le sue applicazioni va declinata unitariamente.

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7. - I primi due motivi, da esaminare congiuntamente perché inerenti alla medesima quaestio iuris, sono infondati, anche se per ragioni che richiedono una parziale correzione ex art. 384, ult. comma c.p.c. della motivazione in diritto della sentenza impugnata (basata sul fatto che della particella di terreno intermedia i Ma. siano comproprietari).
7.1. - Questa Corte ha già avuto modo di osservare che allorché due terreni finitimi sono separati da una striscia intermedia, inedificata o per qualsiasi ragione inedificabile, e di larghezza inferiore al distacco dal confine prescritto per le costruzioni, ciascuno dei proprietari deve costruire sul proprio fondo ad una distanza, rispetto al confine con il terreno di proprietà aliena, che non sia inferiore alla metà della differenza che residua sottraendo dal distacco imposto dalla normativa edilizia la misura dello spazio occupato dalla striscia di terreno interposta (Cass. nn. 3506/1999 e 7129/1993; vedi anche Cass. n. 20606/2004, che però si limita a richiamare detto principio, applicato dal giudice di merito; una soluzione sostanzialmente analoga era stata accolta da Cass. n. 3480/1978, che tuttavia, a differenza dell'indirizzo in esame, non aveva escluso l'applicabilità sia pur parziale del principio della prevenzione).
7.2. - A tale orientamento, che stabilisce, in sostanza, che nel computo della distanza minima imposta dalla legge o dal regolamento locale la larghezza della striscia di terreno interposta tra i due fondi debba essere "neutralizzata" (così, in motivazione, la n. 3506/1999 cit.), cioè eliminata concettualmente, anche nel caso in cui la distanza sia imposta tra la costruzione ed il confine, occorre dare continuità, soffermata l'attenzione su due aspetti della problematica.
7.2.1. - Quanto al primo, è ben vero che "finitimo" è perfettamente sinonimico rispetto a "confinante" e che dunque a rigori un'area interposta tra due fondi rende questi ultimi non reciprocamente confinanti.
Tuttavia occorre osservare che allorquando l'area interposta e inedificabile abbia una larghezza inferiore a quella prescritta per il distacco tra costruzioni o tra costruzione e confine, e non si versi nell'ipotesi di cui all'art. 879, cpv. c.c., l'inapplicabilità della regola del distacco comporterebbe esattamente le medesime conseguenze negative che l'art. 873 c.c. e le disposizioni locali integrative sono dirette ad evitare.
Del tutto assenti indicazioni normative di segno diverso, tali, cioè, da rendere plausibile la volontà del legislatore di accettare un tale effetto pratico, s'impone mediante lo strumento dell'analogia o dell'interpretazione estensiva una soluzione che collochi la fattispecie entro l'ambito di applicazione delle regole dettate in materia di distanze.
Per di più, va considerato che la stessa nozione di distanza non definisce un dato meramente strutturale, ma disciplina la relazione dinamica fra contrapposte facoltà edificatorie, sicché anche il concetto di fondi confinanti o finitimi deve essere inteso in funzione dello scopo normativo ogni qual volta l'esercizio di tali facoltà incroci le esigenze d'ordine pubblico e privato tutelate congiuntamente dagli artt. 873 e ss. c.c.
7.2.2. - La seconda considerazione, che dà conto della preferenza dell'indirizzo predetto rispetto a quello di Cass. n. 7525/2002 invocato dal ricorrente, è data dal fatto che la giurisprudenza di questa Corte è ormai da tempo attestata nel senso di ritenere che le norme degli strumenti urbanistici che prescrivono le distanze nelle costruzioni, o come spazio tra le medesime, o come distacco dal confine, o in rapporto con l'altezza delle stesse, ancorché inserite in un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a regolare l'assetto del territorio, conservano il carattere integrativo delle norme del codice civile, perché tendono a disciplinare i rapporti di vicinato e ad assicurare in modo equo l'utilizzazione edilizia dei suoli privati, e pertanto la loro violazione consente al privato di ottenere la riduzione in pristino (Cass. nn. 7384/2001, 6209/1996 e 12918/1991).
Nel contesto edilizio, pertanto, le norme degli strumenti urbanistici che impongono l'osservanza di una determinata distanza della costruzione dal confine non esprimono una regola diversa rispetto a quella codicistica basata sulla distanza tra fabbricati, ma una differente tecnica di protezione interna alla medesima regola del distacco, che in tutte le sue applicazioni va declinata unitariamente.
7.3. - Pertanto, ricondotta la fattispecie sotto gli artt. 873 e ss. c.c. così come integrati dall'intera disciplina degli strumenti urbanistici locali in tema di distanze, viene meno anche il rilievo della giusta obiezione mossa a Cass. n. 7525/2002, ossia di non dare contezza del fondamento normativo del reciproco diritto dei proprietari dei fondi confinanti di pretendere il rispetto di una distanza maggiore di quella legale e calcolata non dal confine comune, ma da quello col fondo intermedio (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 18.02.2013 n. 3968).

 

Piano Commerciale e correlate connotazioni urbanistiche:

URBANISTICA: Rilevanza dell’aspetto urbanistico nella localizzazione degli esercizi commerciali.
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Commercio – Piano di commercio – Aspetto urbanistico – Dopo direttiva comunitaria Bolkestein n. 123/2006/CEE - Rilevanza.
L’aspetto urbanistico mantiene piena rilevanza nella disciplina relativa alla localizzazione degli esercizi commerciali anche a seguito della direttiva comunitaria n. 123/2006/CEE, meglio nota come direttiva "Bolkestein", volta a ridurre i vincoli procedimentali e sostanziali gravanti sui servizi privati, nel cui ambito rientra il commercio, al fine di favorire la creazione nei vari Stati membri di un regime comune mirato a dare concreta attuazione ai principi di libertà di stabilimento e libera prestazione (1)
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   (1) Ha chiarito il Tar che le prescrizioni contenute nei piani urbanistici in ragione dell'interesse pubblico tutelato impediscono di attribuire prevalenza al piano commerciale rispetto a quello urbanistico e le previsioni di un piano commerciale devono avvenire ed attuarsi in conformità e comunque in coerenza con le scelte di pianificazione territoriale recate dallo strumento urbanistico disciplinante i vari modi di utilizzo del territorio, inclusi quelli relativi al commercio.
Lo Strumento di Intervento per l'Apparato Distributivo (SIAD) costituisce uno strumento integrativo del PRG vigente. Anzi, nello specifico, il SIAD appare essere tendenzialmente uno strumento pianificatorio unico in materia di commercio, in quanto esaustivo ed integrato, in cui vengono considerati sia i profili i commerciali, che le esigenze di carattere urbanistico. In sostanza, quindi, il SIAD dovrebbe contenere tutte le prescrizioni di natura pianificatoria, comprese quelle di natura urbanistica, inerenti alle strutture di commercio, tra cui le medie strutture di vendita.
In tale ottica il SIAD si presenta come strumento che, da un lato, ha una funzione integrativa degli strumenti prettamente urbanistici, potendo dettare la disciplina dettagliata su specifici punti inerenti alle localizzazioni commerciali, e, dall'altro, ha una capacità regolatoria tendenzialmente esaustiva, tale da contenere l'intera disciplina per la localizzazione di strutture di commercio sull'area interessata, senza necessità di ravvisare la disciplina in diversi atti, taluni inerenti agli aspetti urbanistici e tali altri agli aspetti di natura commerciale.
Allo stesso tempo il contenuto integrativo ed esaustivo, riconducendo l’intera disciplina pianificatoria al SIAD, dovrebbe comportare che si non presentino delle difformità tra la disciplina dettata dagli strumenti specificamente urbanistici, come il PRG, e il SIAD (per la parte relativa alla pianificazione del commercio). In tale ottica, pertanto, nel SIAD va ricercata l’intera disciplina dell’area interessata dalla localizzazione di insediamenti commerciali e, nel caso di non coincidenza tra la disciplina del SIAD e quella degli strumenti urbanistici, quali il PRG, tale difformità andrebbe interpretata, qualora possibile, in ottica integrativa da parte delle disposizioni del SIAD rispetto a quelle del PRG (TAR Capmnaia-Napoli, Sez. VIII, sentenza 29.05.2018 n. 3501 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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... per l'annullamento del provvedimento del 30/06/2017 prot. n. 21006 di diniego ed archiviazione pratica di rilascio di permesso di costruire per realizzazione di un edificio ad uso commerciale in Marcianise alla Via XXIV Maggio Angolo Via Vicenza con domanda di autorizzazione all'apertura di media struttura di vendita ai sensi della L.R. n. 1/2014 presentata il 23/05/2017 prot. n. 16365; nonché degli atti presupposti fra cui la delibera C.C. n. 41 del 28/10/2005 se e in quanto lesiva;
- per la condanna al risarcimento danni con interessi e rivalutazione monetaria.
...
1) Il ricorso si rivela infondato.
In via preliminare il Collegio ritiene di effettuare alcune precisazioni in ordine alla disciplina inerente al SIAD e ai suoi rapporti con gli strumenti di natura urbanistica.
In via generale, si deve osservare la rilevanza dell’aspetto urbanistico nella disciplina relativa alla localizzazione degli esercizi commerciali anche a seguito dell'importante direttiva comunitaria n. 123/2006/CEE, meglio nota come direttiva "Bolkestein", volta a ridurre i vincoli procedimentali e sostanziali gravanti sui servizi privati, nel cui ambito rientra il commercio, al fine di favorire la creazione nei vari Stati membri di un regime comune mirato a dare concreta attuazione ai principi di libertà di stabilimento e libera prestazione.
La direttiva “Bolkestein” prevede che l'iniziativa economica non possa, di regola, essere assoggettata ad autorizzazioni e limitazioni (specie se dirette al governo autoritativo del rapporto fra domanda ed offerta), essendo ciò consentito solo qualora sussistano motivi imperativi di interesse generale rientranti nel catalogo formulato dalla Corte di Giustizia
(TAR Campania Napoli, Sez. III, 10/08/2015, n. 4227).
In tale ambito, che ha visto susseguirsi diversi interventi del legislatore nazionale, si rileva come, comunque, da un lato non si è operata una liberalizzazione incondizionata del commercio e, dall’altro, rimane la rilevanza degli aspetti urbanistici.
Sì è, infatti, osservato in giurisprudenza che le prescrizioni contenute nei piani urbanistici in ragione dell'interesse pubblico tutelato impediscono di attribuire prevalenza al piano commerciale rispetto a quello urbanistico
(Cons. Stato, Sez. IV, sentenza 17.10.2012, n. 5343), così come si è precisato che le previsioni di un piano commerciale devono avvenire ed attuarsi in conformità e comunque in coerenza con le scelte di pianificazione territoriale recate dallo strumento urbanistico disciplinante i vari modi di utilizzo del territorio, inclusi quelli relativi al commercio, di guisa che la disciplina urbanistica deve essere la prima ad essere tenuta in considerazione al fine di valutare l'assentibilità di un'attività commerciale (Cons. Stato Sez. IV 27.04.2004 n. 2521; idem, 07.06.2005 n. 2928).
In ogni caso,
per quanto riguarda il settore del commercio, è stato previsto lo strumento di intervento per l'apparato distributivo (SIAD), che prevede un livello integrato di programmazione e pianificazione del territorio ai fini urbanistico-commerciali.
In particolare
, come rilevato da una decisione di questo TAR (Sez. II, 17.11.2017, n. 5435), l'art. 6 del D.Lgs. 31.03.1998 n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio) prevede che le Regioni devono "fissare i criteri di programmazione urbanistica riferiti al settore commerciale" (comma 2), in specie individuando "le aree da destinare agli insediamenti commerciali" (comma 2, lett. a), "i vincoli di natura urbanistica" (lett. c), nonché altri aspetti di carattere edilizio ed urbanistico.
In attuazione del suddetto D.Lgs. n. 114 del 1998, la L.R. 07.01.2000 n. 1 (Direttive regionali in materia di distribuzione commerciale) -abrogata dall'art. 64, comma 1, L.R. n. 1 del 2014 (Nuova disciplina in materia di distribuzione commerciale)- aveva previsto tra l'altro, all'art. 13, che i Comuni "devono provvedere a dotarsi dello specifico strumento di intervento per l'apparato distributivo, concernente ... le localizzazioni delle grandi strutture di vendita, nel rispetto delle destinazioni d'uso delle aree e degli immobili stabilite dallo stesso strumento, che costituisce il piano di strumento integrato del P.R.G.", tant'è che è sottoposto dopo l'approvazione al visto di conformità regionale.
Il successivo art. 14 (intitolato "criteri di programmazione urbanistica") disponeva che le strutture di media e grande distribuzione possono essere realizzate solo su aree ricadenti in zone urbanistiche espressamente dichiarate compatibili, dotate di idonee infrastrutture e dimensionate in proporzione all'esercizio commerciale da impiantare su di esse.
Attualmente l’indicata L.R. n. 1 del 2014, nel sostituire la L.R. n. 1 del 2000, ha introdotto la nuova disciplina generale e di principio in materia di esercizio delle attività commerciali nella Regione Campania. In particolare l'art. 1, comma 2, della citata L.R. n. 1 del 2014 statuisce che "2. Secondo la disciplina dell'Unione Europea e statale in materia di concorrenza, di libertà di stabilimento e di prestazione di servizi, costituisce principio generale dell'ordinamento l'apertura di nuovi esercizi commerciali nel territorio regionale senza contingenti, limiti territoriali o vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute dei lavoratori, dell'ambiente, incluso l'ambiente urbano e dei beni culturali."
L'art. 1, comma 3, aggiunge, tuttavia, che "L'introduzione di un regime amministrativo volto a sottoporre ad autorizzazione le medie strutture e le grandi strutture di vendita, nonché gli esercizi per le merci ingombranti ed il commercio in aree pubbliche, è giustificato sulla base dell'esistenza di un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l'ordinamento comunitario, nel rispetto del principio di proporzionalità, riferito esclusivamente alle materie di ambiente, di edilizia, di urbanistica, di tutela della sanità pubblica, di tutela della pubblica sicurezza, di tutela dei lavoratori e di tutela dell'incolumità delle persone".
L'art. 10 reintroduce la disciplina relativa allo Strumento comunale d'intervento per l'apparato distributivo, denominato dalla legge stessa SIAD. La predetta disposizione normativa al comma 1 prevede che "I Comuni adeguano gli strumenti urbanistici generali ed attuativi, i regolamenti di polizia locale e lo strumento d'intervento per l'apparato distributivo, se vigente, oppure si dotano dello stesso strumento, se ancora non vigente, recependo i criteri e gli indirizzi di programmazione stabiliti dalla presente legge entro centottanta giorni dalla sua entrata in vigore". Il comma 2 attribuisce al SIAD la valenza di istituto centrale per l'attività distributiva; lo stesso infatti "costituisce lo strumento integrato del piano urbanistico comunale", tramite il quale si individuano le aree da destinare ad insediamenti commerciali, "con funzione esaustiva del potere di programmazione e pianificazione del territorio ai fini urbanistico-commerciali".
Come già affermato da questa Sezione (TAR Campania, sez. VIII, 08.11.2016, n. 5149),
dall'esame della normativa nazionale e regionale emerge la chiara volontà del legislatore di assegnare al SIAD una funzione esaustiva di ogni esigenza di carattere sia commerciale sia urbanistico nel settore della media e grande distribuzione di vendita.
Si è quindi dedotto, in primo luogo, che il legislatore non ha inteso duplicare la programmazione dell'utilizzazione del territorio, separando in distinti atti la programmazione urbanistica e la programmazione commerciale (cfr. art. 6, comma 2, ove si fa espresso riferimento a "criteri di programmazione urbanistica riferiti al settore commerciale"). In secondo luogo, l'atto di individuazione delle aree da destinare agli insediamenti commerciali costituisce "strumento urbanistico", ed è in tale strumento che devono essere sia individuate le predette aree sia dettate tutte le prescrizioni urbanistiche di specie.
D'altronde, tale interpretazione risulta del tutto ragionevole anche sul piano logico-sistematico, non essendo coerente col principio di buon andamento amministrativo l'eventuale duplicazione e distinzione di funzioni di programmazione e pianificazione con riferimento al medesimo territorio, con la conseguente, paradossale intersecazione di atti generali e/o di pianificazione.
Il criterio ispiratore dell'art. 6 del D.Lgs. n. 114 del 1998 è fondamentalmente improntato all'integrazione della pianificazione territoriale ed urbanistica con la programmazione commerciale; per questo -tra i criteri di programmazione riferiti al settore commerciale- pretende la correlazione tra titolo edilizio e autorizzazione all'esercizio, eventualmente anche in modo contestuale.
Ciò esprime la necessità che -ai fini del rilascio dell'autorizzazione commerciale- venga attentamente considerata la conformità del nuovo insediamento ai vigenti parametri urbanistici; è chiaro pertanto che non si può prescindere dalle destinazioni d'uso previste dal P.R.G. ove non modificate o integrate dal SIAD (TAR Campania, sez. VIII, 30.04.2014, n. 2407).
Alla luce del quadro legislativo nazionale e regionale sinteticamente esposto, nonché della giurisprudenza di questo TAR,
deve ritenersi che il SIAD costituisca uno strumento integrativo del PRG vigente. Anzi, nello specifico, il SIAD appare essere tendenzialmente uno strumento pianificatorio unico in materia di commercio, in quanto esaustivo ed integrato, in cui vengono considerati sia i profili i commerciali, che le esigenze di carattere urbanistico. In sostanza, quindi, il SIAD dovrebbe contenere tutte le prescrizioni di natura pianificatoria, comprese quelle di natura urbanistica, inerenti alle strutture di commercio, tra cui le medie strutture di vendita.
In tale ottica il SIAD si presenta come strumento che, da un lato, ha una funzione integrativa degli strumenti prettamente urbanistici, potendo dettare la disciplina dettagliata su specifici punti inerenti alle localizzazioni commerciali, e, dall'altro, ha una capacità regolatoria tendenzialmente esaustiva, tale da contenere l'intera disciplina per la localizzazione di strutture di commercio sull'area interessata, senza necessità di ravvisare la disciplina in diversi atti, taluni inerenti agli aspetti urbanistici e tali altri agli aspetti di natura commerciale.

Allo stesso tempo il contenuto integrativo ed esaustivo, riconducendo l’intera disciplina pianificatoria al SIAD, dovrebbe comportare che si non presentino delle difformità tra la disciplina dettata dagli strumenti specificamente urbanistici, come il PRG, e il SIAD (per la parte relativa alla pianificazione del commercio). In tale ottica, pertanto, nel SIAD va ricercata l’intera disciplina dell’area interessata dalla localizzazione di insediamenti commerciali e, nel caso di non coincidenza tra la disciplina del SIAD e quella degli strumenti urbanistici, quali il PRG, tale difformità andrebbe interpretata, qualora possibile, in ottica integrativa da parte delle disposizioni del SIAD rispetto a quelle del PRG.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Natura programmatoria del Piano di commercio.
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Commercio – Piano di commercio – Natura – Individuazione.
Il Piano di commercio ha natura di atto di programmazione economica, finalizzato a conformare, anche sotto il profilo urbanistico, la distribuzione commerciale (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che natura di atto di programmazione economica, è, infatti, desunta dal giudice di primo grado dall’obiettivo del Piano di perseguire la “salvaguardia del sistema economico esistente”, con l’ulteriore precisazione che “i nuovi insediamenti non devono alterare l’organizzazione del sistema commerciale esistente”, ritenendo “l’organizzazione programmata sia già funzionale allo sviluppo coerente delle varie tipologie di vendita presenti nel territorio comunale”.
A tale finalità economica, si sono poi aggiunte, nello stesso Piano, diverse prescrizioni urbanistiche e territoriali. In particolare, quelle relative a “salvaguardare la sostenibilità territoriale e ambientale, l’equilibrio del sistema urbano, di ridurre il consumo del suolo e di riqualificare le aree di degrado”.
Sotto quest’ultimo profilo, il Piano del Commercio al dettaglio su aree private, contenente la pianificazione delle medie e grandi strutture di vendita, ha assunto anche natura di atto di programmazione territoriale o urbanistica per l’insediamento di nuovi esercizi commerciali.
Ha aggiunto la Sezione che la connessione tra pianificazione commerciale e territoriale è ormai un dato acquisito al sistema (Corte cost. n. 176 del 2014), essendo le due materie preordinate a finalità diverse (tutela della concorrenza e corretto uso del territorio) ma tra loro interferenti (Cons. St., sez. VI, n. 2928 del 2005) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.05.2018, n. 2762 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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... per la riforma, in entrambi i ricorsi di appello (n. 1599/2017 e n. 1745/2017), della sentenza 29.12.2016 n. 1423 del Tar per il Veneto, Sez. III, resa tra le parti, concernente l’annullamento:
   - della deliberazione della Giunta comunale di Padova n. 2015/115 del 10.03.2015 avente ad oggetto: “Il Piano del Commercio al dettaglio su area privata – Pianificazione locale delle medie e grandi strutture di vendita. Approvazione”;
   - della deliberazione del Consiglio comunale di Padova n. 2015/62 del 14.09.2015 avente ad oggetto: “Variante al P.I. relativa all'art. 21 Zona Industriale delle N.T.A., alla modifica delle destinazioni specifiche di aree a servizi ed all'inserimento di nuovi perimetri. Controdeduzioni alle osservazioni. Approvazione”;
   - della deliberazione del Consiglio comunale di Padova n. 2015/63 del 19.04.2015 avente ad oggetto: “Variante al P.I. per l'adeguamento alle previsioni del Piano del Commercio al dettaglio su area privata – Controdeduzioni alle osservazioni – Approvazione”.
...
11. Gli appelli non sono fondati.
12. In entrambi i ricorsi si prospetta innanzitutto il tema della competenza della Giunta comunale di Padova all’adozione del Piano di Commercio. Sia il -OMISSIS-, sia la società In.It., lamentano una erronea interpretazione del Tar in ordine all’accoglimento del vizio di incompetenza prospettato in primo grado dalla Sa.Ma.Fi..
Come detto, il giudice di primo grado ha rilevato che la funzione di programmazione, a cui avrebbe dovuto essere ricondotto il Piano di Commercio, rientrava nelle competenze del Consiglio comunale ai sensi dell'art. 42, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 267 del 2000 (di seguito TUEL).
Secondo gli appellanti, invece, il Piano del Commercio, di cui alla deliberazione della Giunta comunale n. 115/2015, avrebbe rappresentato solo un “documento preliminare” alla successiva variante, adottata ai sensi della legge regionale n. 50/2012 e della legge regionale n. 11/2004, di adeguamento del Piano degli Interventi alle previsioni del Piano per il commercio al dettagli su area privata.
13. La tesi non può essere condivisa.
A prescindere dalla letterale dizione “Piano di Commercio” riportata nelle premesse del documento approvato dalla Giunta comunale con la deliberazione n. 115/2015, non sembra esservi dubbio sui contenuti dello stesso atto deliberativo nel quale sono disposte una serie di prescrizioni in ordine all’allocazione delle strutture commerciali.
Partendo da questa constatazione, è corretta la conclusione del Tar che ne ha rilevato la natura di atto di programmazione economica, finalizzato a conformare, anche sotto il profilo urbanistico, la distribuzione commerciale.

La natura di atto di programmazione economica, è, infatti, desunta dal giudice di primo grado dall’obiettivo del Piano di perseguire la “salvaguardia del sistema economico esistente”, con l’ulteriore precisazione che “i nuovi insediamenti non devono alterare l’organizzazione del sistema commerciale esistente”, ritenendo “l’organizzazione programmata sia già funzionale allo sviluppo coerente delle varie tipologie di vendita presenti nel territorio comunale”.
A tale finalità economica, si sono poi aggiunte, nello stesso Piano, diverse prescrizioni urbanistiche e territoriali. In particolare, quelle relative a “salvaguardare la sostenibilità territoriale e ambientale, l’equilibrio del sistema urbano, di ridurre il consumo del suolo e di riqualificare le aree di degrado”.

Sotto quest’ultimo profilo,
il Piano del Commercio al dettaglio su aree private, contenente la pianificazione delle medie e grandi strutture di vendita, ha assunto anche natura di atto di programmazione territoriale o urbanistica per l’insediamento di nuovi esercizi commerciali.
E, come ha rilevato il Tar,
solo per questo aspetto di razionale gestione del territorio il Piano ha potuto avere l’effetto di apporre restrizioni ai generali principi di libertà di concorrenza e di stabilimento.
14. D’altra parte,
la connessione tra pianificazione commerciale e territoriale è ormai un dato acquisito al sistema (cfr. Corte cost., sentenza n. 176/2014), essendo le due materie preordinate a finalità diverse (tutela della concorrenza e corretto uso del territorio) ma tra loro interferenti (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI, n. 2928/2005).
Per questa ragione, al di là di quanto affermato dagli appellati sulla valenza urbanistica del Piano, in concreto lo stesso ha determinato vincoli all’insediamento di strutture produttive commerciali tra le quali quelle di media e grande vendita.
15.
Tali limitazioni di insediamento, giustificabili in astratto sotto il profilo del diritto comunitario (cfr. Corte di giustizia 24.03.2011 causa C-400/08) per il contemperamento con le altre esigenze di ordinato sviluppo del territorio, avrebbero dovuto, in ragione del loro rilievo, essere comunque adottate dall’organo consiliare, in quanto solo quest’ultimo è chiamato dalla legge ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale nella materia (cfr. elenco art. 42, comma 2, lett. b), TUEL: “piani territoriali ed urbanistici”).
16.
La Giunta, seppure dotata di una competenza residuale per tutti gli atti non compresi nel suddetto elenco, nonché per quelli di attuazione degli indirizzi generali del Consiglio comunale (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 3137/2014 e n. 4192/2013), nel caso di specie, non poteva sostituirsi, tenuto conto che lo stesso Piano è stato il presupposto di principio per le successive deliberazioni urbanistiche di attuazione.
17. Con la conseguenza che anche le innovazioni normative contenute nell’art. 15, comma 13, del DL. n. 70/2011, cosiddetto decreto sviluppo, non avrebbero potuto avere rilievo in quanto collegate al riconoscimento della competenza delle Giunte comunali all’approvazione dei piani attutivi conformi allo strumento urbanistico vigente.
Non sarebbe stato possibile, infatti, che la Giunta, preso atto della necessità di una variante alla strumento urbanistico generale, avesse potuto decidere in merito per poi attivare la competenza del Consiglio comunale, così determinando una duplicazione di procedure in contrasto con la disciplina acceleratoria del citato art. 15, comma 13, del DL n. 70/2011 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 888/2016).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza del Giudice di appello:
   - il potere di pianificazione urbanistica si pone su di un piano di prevalenza rispetto agli atti di gestione attinenti la materia commerciale;
   - l'art. 6, d.lgs. 31.03.1998 n. 114, è comunque finalizzato ad assicurare l'integrazione tra la pianificazione territoriale ed urbanistica e la programmazione commerciale, in quanto pone la stretta correlazione tra titoli edilizi e autorizzazioni all'esercizio, nel novero dei criteri di programmazione riferiti al settore commerciale;
   - le prescrizioni e le disposizioni del piano urbanistico sono sempre prevalenti su quelle del piano commerciale, in quanto rispondono all'esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, e le relative disposizioni possono legittimamente porre limiti alla libertà di iniziativa economica.
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C.3 – Anche il sesto motivo è fondato.
Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza del Giudice di appello:
   "- il potere di pianificazione urbanistica si pone su di un piano di prevalenza rispetto agli atti di gestione attinenti la materia commerciale (cfr. Consiglio Stato sez. V 12.07.2004 n. 5057),
   - l'art. 6, d.lgs. 31.03.1998 n. 114, è comunque finalizzato ad assicurare l'integrazione tra la pianificazione territoriale ed urbanistica e la programmazione commerciale, in quanto pone la stretta correlazione tra titoli edilizi e autorizzazioni all'esercizio, nel novero dei criteri di programmazione riferiti al settore commerciale (cfr. Consiglio Stato, sez. IV 08.06.2007 n. 3027);
   - le prescrizioni e le disposizioni del piano urbanistico sono sempre prevalenti su quelle del piano commerciale, in quanto rispondono all'esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, e le relative disposizioni possono legittimamente porre limiti alla libertà di iniziativa economica (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI 10.04.2012 n. 2060)…"
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.02.2013, n. 1202).
Orbene -pur potendo il Consiglio Comunale, in sede di scelte di pianificazione urbanistica, ritenere prevalente l’interesse pubblico ad un ordinato assetto del territorio rispetto all’interesse commerciale del singolo- nel caso di specie vi è solo un generico riferimento alla mancanza di una pianificazione commerciale e ad uno studio sull’impatto che tale variazione della destinazione potrebbe avere.
E, sotto tale specifico profilo, l’organo consiliare pare avere surrettiziamente riproposto una questione già affrontata da questo TAR, e risolta in senso favorevole alla ricorrente (v. TAR Sicilia, ord. n. 354/2015).
Peraltro, allo stato -tenuto conto dei chiarimenti forniti dal responsabile con l’ulteriore integrazione istruttoria richiesta dai consiglieri comunali- in quell’area non potrebbe essere svolta alcuna attività industriale, in quanto a ridosso del centro abitato; e, in base al progetto presentato, è prevista anche una riduzione di cubatura e il rispetto dei parametri urbanistici (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 08.03.2018 n. 570 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L’impugnato Piano del Commercio, con il quale l’Ente Civico ha riconfermato le 14 grandi strutture di vendita previste dai precedenti strumenti commerciali e urbanistici e disatteso oltre 20 proposte di localizzazione di nuove medie o grandi strutture di vendita, ha un contenuto obiettivamente equivoco e rende difficile l’individuazione delle autentiche finalità perseguite dal pianificatore.
Il Piano sembra mostrare una doppia anima: in parte atto di programmazione economica, in parte atto di programmazione territoriale o urbanistica.
La natura di atto di programmazione economica pare desumersi dall’obiettivo del Piano di perseguire la “salvaguardia del sistema economico esistente”, con l’ulteriore precisazione che “i nuovi insediamenti non devono alterare l’organizzazione del sistema commerciale esistente”.
Con particolare riferimento alle grandi strutture di vendita, il pianificatore mostra, poi, di ritenere che “l’organizzazione programmata sia già funzionale allo sviluppo coerente delle varie tipologie di vendita presenti nel territorio comunale”.
Tali obiettivi e considerazioni, costituenti verosimilmente il retaggio della tradizione o il frutto di incrostazioni del passato, parrebbero assegnare al Piano del Commercio del Comune di Padova il compito di perseguire finalità di programmazione economica, non più consentite a seguito dell’entrata in vigore delle normativa, europea e nazionale, di liberalizzazione del commercio.
La natura di atto di programmazione territoriale o urbanistica traspare, invece, dalle enunciazioni che assegnano al Piano la finalità di “salvaguardare la sostenibilità territoriale e ambientale, l’equilibrio del sistema urbano, di ridurre il consumo del suolo e di riqualificare le aree di degrado”.
Tali considerazioni sembrano attribuire al Piano del Commercio al dettaglio su aree private, contenente la pianificazione delle medie e grandi strutture di vendita, la natura di atto di programmazione territoriale o urbanistica, consentendogli di porre limitazioni, purché proporzionate, all’insediamento di nuovi esercizi commerciali.
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Con particolare riferimento alle grandi strutture di vendita la Corte di giustizia dell’Unione europea ha, invero, ammesso, restrizioni alla libertà di stabilimento giustificate da motivi imperativi d’interesse generale, a condizione che siano idonee a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso. Fra i motivi imperativi riconosciuti dalla Corte europea figurano, tra gli altri, la protezione dell’ambiente e la razionale gestione del territorio.
Analoghe considerazioni sono estensibili alla libertà di concorrenza, considerato che la disciplina europea e nazionale sulle liberalizzazioni prevede che la libertà d’iniziativa economica possa essere limitata o esclusa per effetto di motivi imperativi d’interesse generale (compresa la tutela dell’ambiente urbano) che prendono in considerazione l’attività commerciale non per conformare il relativo mercato, ma per tutelare altri interessi (si veda il combinato disposto dell’art. 8, co. 1, lett. h), e art. 12, d.lgs. n. 59/2010 nonché l’art. 11, comma 1, lett. e), del medesimo D.lgs. n. 59 del 2010).
Anche il Manuale curato dalla Commissione europea per l’attuazione della direttiva servizi (Manuale, p. 15), pur manifestando la preoccupazione che la pianificazione urbanistica possa essere utilizzata per eludere le finalità della direttiva, ribadisce che le norme urbanistiche possono porre limitazioni all’esercizio dell’attività economica in alcune zone.
Nell’esaminare il tema dei rapporti tra programmazione della rete distributiva e pianificazione urbanistica, il Consiglio di Stato ha affermato che le prescrizioni contenute nei piani urbanistici, rispondendo all’esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, possono porre limiti agli insediamenti commerciali, dunque alla libertà di iniziativa economica, non già per considerazioni di politica economica, ormai estranee al contesto di liberalizzazione di cui il settore in esame risulta pervaso, bensì nell’esercizio della funzione cui i suddetti piani sono preordinati, che è quella di assicurare un ordinato assetto del territorio, con la conseguenza che, proprio la diversità degli interessi pubblici tutelati, consente di attribuire prevalenza al piano urbanistico rispetto a quello commerciale.
La stessa giurisprudenza amministrativa ha, tuttavia, precisato che anche gli atti di programmazione territoriale non vanno esenti dalle verifiche prescritte dalla direttiva servizi per il solo fatto di essere adottati nell’esercizio del potere di pianificazione urbanistica, dovendosi verificare se in concreto essi perseguano finalità di tutela dell’ambiente urbano o, comunque, riconducibili all’obiettivo di dare ordine e razionalità all’assetto del territorio, oppure perseguano la regolazione autoritativa dell’offerta sul mercato dei servizi attraverso restrizioni territoriali alla libertà di insediamento delle imprese.
Il legislatore ha stabilito, infatti, che:
   a) ricadono nell’ambito delle limitazioni vietate (salvo la sussistenza di motivi imperativi d’interesse generale) non solo i piani commerciali che espressamente sanciscono il contingentamento numerico delle attività economiche, ma anche gli atti di programmazione che impongano “limiti territoriali” al loro insediamento (artt. 31, comma 1, e 34, comma 3, del D.L. 201/2011);
   b) debbono, perciò, considerarsi abrogate le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongano limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscano, condizionino o ritardino l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici (art. 1 del D.L. n. 1/2012).
Si è aggiunto che le norme di liberalizzazione impongono al giudice chiamato a sindacare la legittimità degli atti di pianificazione urbanistica che dispongono limiti o restrizioni all'insediamento di nuove attività economiche in determinati ambiti territoriali, l'obbligo di effettuare un riscontro molto più penetrante di quello che si riteneva essere consentito in passato; e ciò per verificare, attraverso un'analisi degli atti preparatori e delle concrete circostanze di fatto che a tali atti fanno da sfondo, se effettivamente i divieti imposti possano ritenersi correlati e proporzionati a effettive esigenze di tutela dell'ambiente urbano o afferenti all'ordinato assetto del territorio sotto il profilo della viabilità, della necessaria dotazione di standard o di altre opere pubbliche, dovendosi, in caso contrario, reputare che le limitazioni in parola non siano riconducibili a motivi imperativi di interesse generale e siano, perciò, illegittime.
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Comunque si qualifichi l’impugnato atto di pianificazione delle medie e grandi strutture di vendita (atto di programmazione economica e di contingentamento all’apertura di nuove medie o grandi strutture di vendita ovvero atto di pianificazione territoriale o urbanistica, idoneo, quanto meno in astratto, a porre restrizioni all’insediamento di nuovi insediamenti commerciali), il Piano del Commercio del Comune di Padova non poteva essere approvato dalla Giunta Comunale.
La funzione di programmazione (atti di programmazione e di pianificazione) è, infatti, devoluta al Consiglio Comunale dall’art. 42, comma 2, lett. b), del T.U.E.L., che attribuisce espressamente all’organo consiliare, rappresentativo anche delle minoranze, la competenza ad adottare sia gli atti di programmazione economica che quelli di pianificazione territoriale o urbanistica (“Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali:… programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie”).
La Giunta non poteva, pertanto, sostituirsi al Consiglio nell’adozione di un atto di programmazione recante le scelte strategiche in tema di localizzazione delle medie e grandi strutture di vendita, considerato che, in base al cit. art. 42, persino le semplice deroghe e i pareri relativi ad atti di programmazione e di pianificazione sono riservati all’organo consiliare.
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... per l'annullamento della deliberazione della Giunta Comunale n. 2015/115 del 10/03/2015 ad oggetto "Il Piano del Commercio al dettaglio su area privata - Pianificazione locale delle medie e grandi strutture di vendita. Approvazione";
e con i motivi aggiunti depositati il 22.12.2015 per l'annullamento:
   - della deliberazione del Consiglio Comunale n. 2015/62 del 14/09/2015 ad oggetto: "Variante al P.I. relativa all'art. 21 Zona Industriale delle N.T.A., alla modifica delle destinazioni specifiche di aree a servizi ed all'inserimento di nuovi perimetri. Controdeduzioni alle osservazioni. Approvazione";
   - della deliberazione del Consiglio Comunale n. 2015/63 del 19/04/2015 ad oggetto: «Variante al P. I. per l'adeguamento alle previsioni del Piano del Commercio al dettaglio su area privata — Controdeduzioni alle osservazioni - Approvazione»;
   - di ogni altro atto comunque connesso per presupposizione o consequenzialità ivi compresi, per quanto occorra, gli elaborati allegati alla deliberazione consiliare di adozione della variante al P.I. per l'adeguamento alle previsioni del Piano del Commercio n. 2015/37 del 30/04/2015, che pure si impugna, in quanto assunti "come parte integrante e contestuale" della suddetta delibera di approvazione.
...
1.- La presente vertenza ha per oggetto l’impugnazione, da parte di una società che aspira a realizzare una grande struttura di vendita, del Piano del Commercio al dettaglio su aree private, contenente la pianificazione delle medie e grandi strutture di vendita, adottato dal Comune di Padova nel 2015, successivamente alla cd. liberalizzazione del commercio, e attuato a mezzo di successive varianti urbanistiche.
2.- La società ricorrente sostiene che il Piano e le collegate varianti urbanistiche sono atti di programmazione economica e mirano a conformare la distribuzione commerciale in chiave dirigista e in violazione delle recenti norme che hanno liberalizzato il mercato della distribuzione commerciale (direttiva servizi 2006/123/CE; art. 31 del d.l. 201/2011, conv. in l. 214/2011; art. 1 del d.l. 1/2012, conv. in l. 27/2012).
3.- Replica l’Ente Civico affermando la natura schiettamente urbanistica delle restrizioni poste dal Piano di sviluppo commerciale e dalle collegate varianti urbanistiche all’insediamento di medie e grandi strutture di vendita.
...
La censura è fondata e merita accoglimento.
5.1.- Giova premettere che l’impugnato Piano del Commercio, con il quale l’Ente Civico ha riconfermato le 14 grandi strutture di vendita previste dai precedenti strumenti commerciali e urbanistici e disatteso oltre 20 proposte di localizzazione di nuove medie o grandi strutture di vendita, ha un contenuto obiettivamente equivoco e rende difficile l’individuazione delle autentiche finalità perseguite dal pianificatore.
Il Piano sembra mostrare una doppia anima: in parte atto di programmazione economica, in parte atto di programmazione territoriale o urbanistica.
La natura di atto di programmazione economica pare desumersi dall’obiettivo del Piano di perseguire la “salvaguardia del sistema economico esistente”, con l’ulteriore precisazione che “i nuovi insediamenti non devono alterare l’organizzazione del sistema commerciale esistente”.
Con particolare riferimento alle grandi strutture di vendita, il pianificatore mostra, poi, di ritenere che “l’organizzazione programmata sia già funzionale allo sviluppo coerente delle varie tipologie di vendita presenti nel territorio comunale”.
Tali obiettivi e considerazioni, costituenti verosimilmente il retaggio della tradizione o il frutto di incrostazioni del passato, parrebbero assegnare al Piano del Commercio del Comune di Padova il compito di perseguire finalità di programmazione economica, non più consentite a seguito dell’entrata in vigore delle normativa, europea e nazionale, di liberalizzazione del commercio.
La natura di atto di programmazione territoriale o urbanistica traspare, invece, dalle enunciazioni che assegnano al Piano la finalità di “salvaguardare la sostenibilità territoriale e ambientale, l’equilibrio del sistema urbano, di ridurre il consumo del suolo e di riqualificare le aree di degrado”.
Tali considerazioni sembrano attribuire al Piano del Commercio al dettaglio su aree private, contenente la pianificazione delle medie e grandi strutture di vendita, la natura di atto di programmazione territoriale o urbanistica, consentendogli di porre limitazioni, purché proporzionate, all’insediamento di nuovi esercizi commerciali.
Con particolare riferimento alle grandi strutture di vendita la Corte di giustizia dell’Unione europea ha, invero, ammesso, restrizioni alla libertà di stabilimento giustificate da motivi imperativi d’interesse generale, a condizione che siano idonee a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso. Fra i motivi imperativi riconosciuti dalla Corte europea figurano, tra gli altri, la protezione dell’ambiente e la razionale gestione del territorio (Corte di Giustizia Unione europea, sentenza del 24.03.2011 pronunciata in causa C-400/08).
Analoghe considerazioni sono estensibili alla libertà di concorrenza, considerato che la disciplina europea e nazionale sulle liberalizzazioni prevede che la libertà d’iniziativa economica possa essere limitata o esclusa per effetto di motivi imperativi d’interesse generale (compresa la tutela dell’ambiente urbano) che prendono in considerazione l’attività commerciale non per conformare il relativo mercato, ma per tutelare altri interessi (si veda il combinato disposto dell’art. 8, co. 1, lett. h), e art. 12, d.lgs. n. 59/2010 nonché l’art. 11, comma 1, lett. e), del medesimo D.lgs. n. 59 del 2010).
Anche il Manuale curato dalla Commissione europea per l’attuazione della direttiva servizi (Manuale, p. 15), pur manifestando la preoccupazione che la pianificazione urbanistica possa essere utilizzata per eludere le finalità della direttiva, ribadisce che le norme urbanistiche possono porre limitazioni all’esercizio dell’attività economica in alcune zone.
Nell’esaminare il tema dei rapporti tra programmazione della rete distributiva e pianificazione urbanistica, il Consiglio di Stato ha affermato che le prescrizioni contenute nei piani urbanistici, rispondendo all’esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, possono porre limiti agli insediamenti commerciali, dunque alla libertà di iniziativa economica, non già per considerazioni di politica economica, ormai estranee al contesto di liberalizzazione di cui il settore in esame risulta pervaso, bensì nell’esercizio della funzione cui i suddetti piani sono preordinati, che è quella di assicurare un ordinato assetto del territorio, con la conseguenza che, proprio la diversità degli interessi pubblici tutelati, consente di attribuire prevalenza al piano urbanistico rispetto a quello commerciale (Cons. St., sez. VI, 10.04.2012, n. 2060).
La stessa giurisprudenza amministrativa ha, tuttavia, precisato che anche gli atti di programmazione territoriale non vanno esenti dalle verifiche prescritte dalla direttiva servizi per il solo fatto di essere adottati nell’esercizio del potere di pianificazione urbanistica, dovendosi verificare se in concreto essi perseguano finalità di tutela dell’ambiente urbano o, comunque, riconducibili all’obiettivo di dare ordine e razionalità all’assetto del territorio, oppure perseguano la regolazione autoritativa dell’offerta sul mercato dei servizi attraverso restrizioni territoriali alla libertà di insediamento delle imprese.
Il legislatore ha stabilito, infatti, che:
   a) ricadono nell’ambito delle limitazioni vietate (salvo la sussistenza di motivi imperativi d’interesse generale) non solo i piani commerciali che espressamente sanciscono il contingentamento numerico delle attività economiche, ma anche gli atti di programmazione che impongano “limiti territoriali” al loro insediamento (artt. 31, comma 1, e 34, comma 3, del D.L. 201/2011);
   b) debbono, perciò, considerarsi abrogate le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongano limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscano, condizionino o ritardino l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici (art. 1 del D.L. n. 1/2012).
Si è aggiunto che le norme di liberalizzazione impongono al giudice chiamato a sindacare la legittimità degli atti di pianificazione urbanistica che dispongono limiti o restrizioni all'insediamento di nuove attività economiche in determinati ambiti territoriali, l'obbligo di effettuare un riscontro molto più penetrante di quello che si riteneva essere consentito in passato; e ciò per verificare, attraverso un'analisi degli atti preparatori e delle concrete circostanze di fatto che a tali atti fanno da sfondo, se effettivamente i divieti imposti possano ritenersi correlati e proporzionati a effettive esigenze di tutela dell'ambiente urbano o afferenti all'ordinato assetto del territorio sotto il profilo della viabilità, della necessaria dotazione di standard o di altre opere pubbliche, dovendosi, in caso contrario, reputare che le limitazioni in parola non siano riconducibili a motivi imperativi di interesse generale e siano, perciò, illegittime (ex aliis TAR Lombardia Milano Sez. I, 15.10.2013, n. 2305, TAR Lombardia Milano Sez. I, 10.10.2013, n. 2271, le cui motivazioni sono richiamate da Consiglio di Stato n. 5494 del 2014; in termini anche TAR Abruzzo, L’Aquila, n. 14 del 2016)
5.2.- Tutto ciò premesso osserva peraltro il Collegio che, comunque si qualifichi l’impugnato atto di pianificazione delle medie e grandi strutture di vendita (atto di programmazione economica e di contingentamento all’apertura di nuove medie o grandi strutture di vendita ovvero atto di pianificazione territoriale o urbanistica, idoneo, quanto meno in astratto, a porre restrizioni all’insediamento di nuovi insediamenti commerciali), il Piano del Commercio del Comune di Padova non poteva essere approvato dalla Giunta Comunale.
La funzione di programmazione (atti di programmazione e di pianificazione) è, infatti, devoluta al Consiglio Comunale dall’art. 42, comma 2, lett. b), del T.U.E.L., che attribuisce espressamente all’organo consiliare, rappresentativo anche delle minoranze, la competenza ad adottare sia gli atti di programmazione economica che quelli di pianificazione territoriale o urbanistica (“Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali:… programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie”).
La Giunta non poteva, pertanto, sostituirsi al Consiglio nell’adozione di un atto di programmazione recante le scelte strategiche in tema di localizzazione delle medie e grandi strutture di vendita, considerato che, in base al cit. art. 42, persino le semplice deroghe e i pareri relativi ad atti di programmazione e di pianificazione sono riservati all’organo consiliare.
5.3.- L’accoglimento del vizio d’incompetenza determina l’assorbimento degli ulteriori motivi di ricorso (secondo i principi enunciati da Cons. St., Ad. Pl. n. 5/2015 e desumibili dall’art. 34, comma 2, c.p.a.) e comporta l’illegittimità derivata delle collegate varianti urbanistiche, impugnate con i motivi aggiunti, nella parte in cui recepiscono le scelte strategiche in tema di localizzazione degli esercizi commerciali assunte a monte dalla Giunta Municipale e “adeguano” lo strumento urbanistico generale al piano commerciale.
5.4.- Non può ritenersi che le varianti urbanistiche approvate dal Consiglio abbiano inteso ratificare o convalidare l’operato della Giunta (ipotesi, peraltro, neppure prospettata dal Comune), considerato che la fattispecie scrutinata non rientra nell’ipotesi derogatoria di cui all’art. 42, comma 4, T.U.E.L. e che dagli atti non emergono elementi che denotino la consapevolezza del vizio e la volontà di rimuoverlo (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 29.12.2016 n. 1423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il completamento dell’esistente secondo piano configura in ogni caso una “sopraelevazione”, con la conseguenza che per detta attività era comunque necessario il previo rilascio dell’autorizzazione ai sensi dell’art. 90 d.p.r. n. 380/2001.
A tal riguardo, va evidenziato che ai sensi della citata disposizione: «1. È consentita, nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti:
   a) la sopraelevazione di un piano negli edifici in muratura, purché nel complesso la costruzione risponda alle prescrizioni di cui al presente capo;
   b) la sopraelevazione di edifici in cemento armato normale e precompresso, in acciaio o a pannelli portanti, purché il complesso della struttura sia conforme alle norme del presente testo unico.
2. L’autorizzazione è consentita previa certificazione del competente ufficio tecnico regionale che specifichi il numero massimo di piani che è possibile realizzare in sopraelevazione e l’idoneità della struttura esistente a sopportare il nuovo carico.».
In ogni caso, per quanto l’art. 94 d.p.r. n. 380/2001 limita la necessità del conseguimento della previa autorizzazione agli interventi edilizi da realizzare in zone sismiche “ad eccezione di quelle a bassa sismicità all’uopo indicate nei decreti di cui all’articolo 83” (e quindi certamente rientra in detta eccezione il Comune di -OMISSIS- in quanto territorio classificato a bassa sismicità (ndr: zona 3), va tuttavia evidenziato che la disposizione di portata più generale in precedenza analizzata (i.e. art. 90 d.p.r. n. 380/2001) impone la necessità in via generale della previa autorizzazione per opere particolarmente impattanti dal punto di vista della statica dell’edificio quale la sopraelevazione, senza specificazione alcuna e quindi a prescindere che l’opera sia realizzata in un Comune a bassa sismicità ovvero ad elevato livello di sismicità.
Ne consegue che nel caso di specie la ricorrente avrebbe dovuto richiedere ed ottenere l’autorizzazione ai sensi dell’art. 90 d.p.r. n. 380/2001.
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1. - In data 10.12.2015 l’odierna ricorrente -OMISSIS- presentava DIA (n. 670/15) per la “manutenzione straordinaria di piccola copertura esistente al secondo piano dell’immobile di proprietà sito in -OMISSIS- alla via -OMISSIS- ed ampliamento nel limite del 20% ex c.d. Piano Casa (L.R. 14/2009)”.
I lavori subivano una sospensione con ordinanza dell’UTC n. 3 del 04.02.2016 al fine di verificare l’eventuale inosservanza delle norme di legge e di regolamento, delle prescrizioni degli strumenti urbanistici o delle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
La ricorrente provvedeva, inoltre, ad una integrazione istruttoria ed al pagamento dell’oblazione al fine di estinguere il procedimento penale nel frattempo attivato.
Con successiva ordinanza n. 4/2016 l’Amministrazione, preso atto del deposito dei calcoli statici da parte della -OMISSIS-, revocava la precedente ordinanza di sospensione.
I lavori, pertanto, riprendevano quando, in prossimità della loro ultimazione, veniva dapprima notificato l’avvio del procedimento di annullamento in autotutela del titolo abilitativo, poi conclusosi con l’adozione della gravata ordinanza n. -OMISSIS- di revoca del titolo abilitativo, e successivamente ordinata la riduzione in pristino dei luoghi con la censurata ordinanza n. 11/2017.
La violazione constatata dalla Amministrazione nei censurati provvedimenti consisteva nella: “… mancanza di conformità tra la documentazione fotografica allegata relativa allo stato dei luoghi con la planimetria catastale e l’assenza della preventiva autorizzazione per opere di sopraelevazione ai sensi dell’art. 90 del D.P.R. n. 380/2001 e s.m.i., al piano lastrico solare facente parte dell’immobile sito in -OMISSIS- via -OMISSIS-, distinto in catasto al fg. 22 p.lla 373 sub 22”.
La -OMISSIS- impugnava le citate ordinanze, deducendo censure così sinteticamente riassumibili:
   1) inesistenza dei presupposti fattuali per l’adozione del provvedimento; difetto di motivazione e vizio di presupposizione: l’incongruenza tra la documentazione fotografica allegata e la planimetria catastale (incongruenza pur ammessa dalla stessa interessata, non essendovi stato accatastamento dell’originaria struttura) non può comportare l’annullamento del titolo, dovendo al più l’Amministrazione richiedere alla istante in fase istruttoria di procedere all’accatastamento della struttura esistente al secondo piano, la cui consistenza e risalenza non può essere posta in dubbio, essendo attestata anche dall’atto pubblico di acquisto; inoltre, l’intervento per cui è causa non sarebbe soggetto ad autorizzazione alla sopraelevazione ai sensi dell’art. 90 d.p.r. n. 380/2001, in quanto non si tratterebbe di sopraelevazione, ma di completamento fisiologico di costruzione preesistente (secondo piano);
in ogni caso, per la mera sopraelevazione anche in base alla disciplina regionale di cui alla DGR 26.07.2016 n. 1166 dettata con riferimento ai territori a bassa sismicità è sufficiente il semplice deposito ex art. 93 d.p.r. n. 380/2001, anziché l’autorizzazione di cui all’art. 94 d.p.r. n. 380/2001 non necessaria per i territori a bassa sismicità come appunto nel caso di -OMISSIS-;
   2) eccesso di potere per contraddittorietà tra le ordinanze gravate ed i precedenti atti e comportamenti tenuti dall’Amministrazione (ordinanza di revoca della sospensione n. 4/16 e nota di trasmissione prot. n. 7608 del 16.03.2016): sarebbe contraddittorio l’atteggiamento assunto dall’Amministrazione; questa, infatti, in precedenza revocava con il provvedimento n. 4/2016 l’ordinanza di sospensione dei lavori n. 3/2016; subito dopo la ricorrente provvedeva al deposito delle calcolazioni ex art. 93 d.p.r. n. 380/2001; l’Amministrazione comunale avrebbe avuto tutte le possibilità di verificare la compatibilità del progetto con la disciplina antisismica ed eventualmente chiedere al privato di ottenere la supposta necessaria autorizzazione dal Genio civile (attualmente la Provincia).
La istante invocava, infine, tutela risarcitoria per lesione dell’affidamento.
...
4. - Ciò premesso in punto di fatto, ritiene questo Giudice che il ricorso debba essere respinto in quanto infondato.
Invero, il completamento dell’esistente secondo piano configura in ogni caso una “sopraelevazione” come correttamente evidenziato nelle censurate ordinanze e come emerge anche dalla documentazione fotografica in atti, con la conseguenza che per detta attività era comunque necessario il previo rilascio dell’autorizzazione ai sensi dell’art. 90 d.p.r. n. 380/2001.
A tal riguardo, va evidenziato che ai sensi della citata disposizione: «1. È consentita, nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti:
   a) la sopraelevazione di un piano negli edifici in muratura, purché nel complesso la costruzione risponda alle prescrizioni di cui al presente capo;
   b) la sopraelevazione di edifici in cemento armato normale e precompresso, in acciaio o a pannelli portanti, purché il complesso della struttura sia conforme alle norme del presente testo unico.
2. L’autorizzazione è consentita previa certificazione del competente ufficio tecnico regionale che specifichi il numero massimo di piani che è possibile realizzare in sopraelevazione e l’idoneità della struttura esistente a sopportare il nuovo carico
.».
In ogni caso, per quanto l’art. 94 d.p.r. n. 380/2001 limita la necessità del conseguimento della previa autorizzazione agli interventi edilizi da realizzare in zone sismiche “ad eccezione di quelle a bassa sismicità all’uopo indicate nei decreti di cui all’articolo 83” (e quindi certamente rientra in detta eccezione il Comune di -OMISSIS- in quanto territorio classificato a bassa sismicità (ndr: zona 3), va tuttavia evidenziato che la disposizione di portata più generale in precedenza analizzata (i.e. art. 90 d.p.r. n. 380/2001) impone la necessità in via generale della previa autorizzazione per opere particolarmente impattanti dal punto di vista della statica dell’edificio quale la sopraelevazione, senza specificazione alcuna e quindi a prescindere che l’opera sia realizzata in un Comune a bassa sismicità ovvero ad elevato livello di sismicità.
Ne consegue che nel caso di specie la ricorrente avrebbe dovuto richiedere ed ottenere l’autorizzazione ai sensi dell’art. 90 d.p.r. n. 380/2001 (disposizione correttamente richiamata nella motivazione dei censurati provvedimenti).
Stante il carattere assorbente della citata ragione ostativa rispetto alla legittimità dell’opera, ragione di per sé sola idonea a sorreggere la motivazione dei provvedimenti impugnati, può quindi prescindersi dalla disamina di quanto evidenziato dalla istante con il motivo di ricorso sub 2) in linea con l’insegnamento di cui alla pronunzia dell’Adunanza Plenaria n. 5/2015 (punto 9.3.4.3 della motivazione).
5. - Dalle argomentazioni espresse in precedenza discende la reiezione del ricorso.
In ogni caso non può trovare accoglimento la domanda risarcitoria formulata dalla ricorrente.
Invero, non sussiste alcun legittimo affidamento maturato dalla -OMISSIS- suscettibile di tutela risarcitoria, posto che il potere di autotutela è stato legittimamente esercitato dalla P.A. nella osservanza del termine di 18 mesi prescritto dall’art. 21-nonies, comma 1 legge n. 241/1990 nella formulazione ratione temporis applicabile alla fattispecie de qua (cfr. legge n. 124/2015) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 08.06.2018 n. 860 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ad eccezione dei soli interventi di semplice manutenzione ordinaria, qualsiasi intervento edilizio in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato, deve essere previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi controlli; necessita, inoltre, del rilascio del preventivo titolo abilitativo.
Il relativo progetto deve essere redatto da un professionista abilitato ed allegato alla denuncia di esecuzione dei lavori; questi ultimi devono essere parimenti diretti da un professionista abilitato, conseguendone, in difetto, la violazione del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 95
e ciascuna violazione, risolvendosi nell'inosservanza di specifiche prescrizioni, costituisce un titolo autonomo di reato.
Ne consegue che
l'intervento edilizio realizzato dall'imputato rientra, dunque, nella nozione di costruzione assoggettata agli obblighi di cui ai citati artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001, non trattandosi di intervento di semplice manutenzione ordinaria, ma della realizzazione di due manufatti in cemento di apprezzabile consistenza (ndr: due piattaforme in cemento, una del perimetro di m. 2x3 e dell'altezza di m. 5x0,2, su cui è stato posizionato un gruppo refrigerante, e l'altra del perimetro di m. 1,2x1,6, destinata al posizionamento di insegne), come tali rientranti nella nozione di costruzione, soggetti agli obblighi richiamati, in considerazione della loro potenziale idoneità a porre in pericolo la pubblica incolumità.
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Il reato previsto dall'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 è configurabile in relazione a qualsiasi opera, eseguita in assenza della prescritta autorizzazione antisismica, in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità, senza che le Regioni possano adottare in via amministrativa deroghe per particolari categorie di interventi
.
Ne consegue l'infondatezza della doglianza, stante l'assenza di rilievo della suddetta delibera della Giunta regionale della Calabria, in considerazione della entità delle opere, tali, per la loro estensione e la loro dimensione, da costituire un possibile pericolo per la pubblica incolumità in caso di eventi sismici.
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Come già evidenziato in relazione al secondo motivo, la
delibera della Giunta regionale della Calabria n. 330 del 22/07/2011
  tale delibera non poteva, comunque, creare ex novo la categoria delle "opere minori" che non sarebbero soggette alla disciplina antisismica, in aperta violazione del disposto del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 83, il quale prevede che tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità sono soggette alla normativa antisismica, senza consentire alle Regioni di adottare in via amministrativa deroghe per particolari categorie di opere.
L'affidamento su essa riposto dal ricorrente non consente, dunque, di escludere la negligenza del ricorrente nella verifica della necessità delle comunicazioni ed autorizzazioni richieste dagli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001, trattandosi di delibera illegittima, inidonea ad escludere l'applicabilità di norme di rango primario, considerando, tra l'altro, le dimensioni e l'estensione delle due piattaforme in cemento fatte realizzare dall'imputato, come tali certamente non riconducibili alla categoria delle opere minori, sottratte alle leggi nazionali e regionali in materia antisismica, con la conseguenza che essere esclusa l'incolpevolezza della condotta dell'imputato.
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2. Per quanto riguarda il primo motivo, mediante il quale sono stati denunciati violazione dell'art. 93 d.P.R. 380/2001 e vizio della motivazione, sulla base del rilievo che le opere fatte realizzare dall'imputato sarebbero escluse dall'obbligo di comunicazione stabilito dall'art. 93 d.P.R. 380/2001, che lo contempla esclusivamente in relazione a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni, va evidenziato che le opere oggetto della contestazione, realizzate in zona sottoposta a vincolo sismico, consistono in due piattaforme in cemento, una del perimetro di m. 2x3 e dell'altezza di m. 5x0,2, su cui è stato posizionato un gruppo refrigerante, e l'altra del perimetro di m. 1,2x1,6, destinata al posizionamento di insegne, e da tre strutture metalliche, con copertura in plexiglass, destinate a deposito dei carrelli per la spesa.
Alla luce di tale consistenza delle opere oggetto della contestazione il
Tribunale, dato atto del rilascio della sanatoria e della conseguente estinzione della violazione dell'art. 44 d.P.R. 380/2001, ha escluso che in relazione alle tre strutture metalliche con copertura in plexiglass fosse configurabile la violazione degli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001, essendo asservite all'edificio principale e qualificabili, quindi, come pertinenze, mentre ne ha ravvisato la configurabilità in relazione alle due piattaforme in cemento, sottolineando che le contravvenzioni di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001 sono integrate dalla realizzazione di qualsiasi intervento edilizio, con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria.
2.1. Dette conclusioni risultano del tutto corrette e sfuggono, di conseguenza, ai rilievi di violazione di legge e vizio di motivazione formulati dal ricorrente.
L'art. 93 d.P.R. n. 380 del 2001 prescrive, tra l'altro, che nelle zone sismiche, di cui all'art. 83 d.P.R. n. 380 del 2001, chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a trasmettere al competente ufficio tecnico della regione copia della domanda e del progetto che ad esso deve essere allegato (comma 2).
L'art. 94 del medesimo d.P.R. n. 380 del 2001 prescrive poi che nelle località sismiche non si possono iniziare lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione. Il quarto comma della medesima disposizione dispone infine che i lavori devono essere diretti da un ingegnere, un architetto, un geometra o un perito edile iscritto nell'albo, nei limiti delle rispettive competenze.
Ne deriva che, ad eccezione dei soli interventi di semplice manutenzione ordinaria, qualsiasi intervento edilizio in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato, deve essere previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi controlli; necessita, inoltre, del rilascio del preventivo titolo abilitativo; il relativo progetto deve essere redatto da un professionista abilitato ed allegato alla denuncia di esecuzione dei lavori; questi ultimi devono essere parimenti diretti da un professionista abilitato, conseguendone, in difetto, la violazione del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 95 (cfr., Sez. 3, n. 19185 del 14/01/2015, Garofano, Rv. 263376; Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi, Rv. 261155; Sez. 3, n. 34604 del 17/06/2010, Todaro, Rv. 248330) e ciascuna violazione, risolvendosi nell'inosservanza di specifiche prescrizioni, costituisce un titolo autonomo di reato.
Ne consegue che l'intervento edilizio realizzato dall'imputato rientra, dunque, nella nozione di costruzione assoggettata agli obblighi di cui ai citati artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001, non trattandosi di intervento di semplice manutenzione ordinaria, ma della realizzazione di due manufatti in cemento di apprezzabile consistenza, come tali rientranti nella nozione di costruzione, soggetti agli obblighi richiamati, in considerazione della loro potenziale idoneità a porre in pericolo la pubblica incolumità.
3. Per quanto riguarda il secondo motivo, mediante è stata denunciata l'erronea applicazione della delibera della Giunta regionale della Calabria n. 330 del 22/07/2011, che ha individuato gli interventi edilizi per i quali è disposta l'esenzione da qualsiasi comunicazione al comune ed anche dalla preventiva autorizzazione scritta regionale, interventi tra i quali dovrebbe ritenersi compreso anche quello oggetto della contestazione, rientrante tra le opere minori di cui all'allegato A di tale delibera, va osservato che questa Corte ha già avuto modo di affrontare la questione della portata di tale delibera, escludendone la rilevanza, sulla base della considerazione, che il Collegio condivide e ribadisce, che il reato previsto dall'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 è configurabile in relazione a qualsiasi opera, eseguita in assenza della prescritta autorizzazione antisismica, in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità, senza che le Regioni possano adottare in via amministrativa deroghe per particolari categorie di interventi (Sez. 3, n. 19185 del 14/01/2015, Garofano, Rv. 263376, relativa alla realizzazione di opere di sostegno di cartellonistica pubblicitaria di rilevanti dimensioni, illegittimamente qualificate da delibera della regione Calabria come "opere minori" sottratte alle leggi nazionali e regionali in materia di edilizia sismica).
Ne consegue l'infondatezza della doglianza, stante l'assenza di rilievo della suddetta delibera della Giunta regionale della Calabria, in considerazione della entità delle opere, tali, per la loro estensione e la loro dimensione, da costituire un possibile pericolo per la pubblica incolumità in caso di eventi sismici.
4. Tali considerazioni determinato l'infondatezza anche del terzo motivo, mediante il quale è stata prospettata violazione di legge penale in ordine alla sussistenza dell'elemento soggettivo dei reati e vizio di motivazione, per l'omessa o, comunque, insufficiente considerazione dell'affidamento riposto dal ricorrente sulla predetta delibera della Giunta regionale, nonché sulla relazione tecnica commissionata ad un esperto in vista della realizzazione delle medesime opere, perché, come già evidenziato in relazione al secondo motivo, tale delibera non poteva, comunque, creare ex novo la categoria delle "opere minori" che non sarebbero soggette alla disciplina antisismica, in aperta violazione del disposto del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 83, il quale prevede che tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità sono soggette alla normativa antisismica, senza consentire alle Regioni di adottare in via amministrativa deroghe per particolari categorie di opere.
L'affidamento su essa riposto dal ricorrente, come pure sulla suddetta relazione tecnica commissionata in vista della realizzazione di tali opere, non consente, dunque, di escludere la negligenza del ricorrente nella verifica della necessità delle comunicazioni ed autorizzazioni richieste dagli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001, trattandosi di delibera illegittima, inidonea ad escludere l'applicabilità di norme di rango primario, considerando, tra l'altro, le dimensioni e l'estensione delle due piattaforme in cemento fatte realizzare dall'imputato, come tali certamente non riconducibili alla categoria delle opere minori, sottratte alle leggi nazionali e regionali in materia antisismica, con la conseguenza che essere esclusa l'incolpevolezza della condotta dell'imputato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.12.2016 n. 51683).

EDILIZIA PRIVATA: La deliberazione della Giunta regionale della Calabria n. 330 del 22/07/2011 (Approvazione elenco opere dichiarate «minori». Indirizzi interpretativi in materia di sopraelevazione di edifici esistenti), per la parte che qui rileva, deve essere ritenuta illegittima, perché crea ex novo la categoria delle "opere minori" che non sarebbero soggette alla disciplina antisismica, in aperta violazione del disposto dell'art. 83 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale prevede che tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità sono soggette alla normativa antisismica, senza consentire alle Regioni di adottare in via amministrativa deroghe per particolari categorie di opere.
E l'illegittimità della deliberazione regionale emerge dalla sua stessa formulazione laterale, laddove nel preambolo si riconosce espressamente che «le norme legislative nonché quelle tecniche in vigore non dettano, espressamente, alcuna particolare limitazione o esclusione delle opere da assoggettare alle discipline di cui sopra».

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3. - Il ricorso non è fondato.
3.1. — Le articolate argomentazioni poste dal ricorrente a sostegno del primo motivo di doglianza si scontrano con il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui la sistemazione di un'insegna o tabella pubblicitaria richiede il rilascio del preventivo permesso di costruire quando per le sue rilevanti dimensioni comporti mutamento territoriale; atteso che soltanto un sostanziale mutamento del territorio nel suo contesto preesistente, sia sotto il profilo urbanistico che edilizio, fa assumere rilevanza penale alla violazione del regolamento edilizio, con conseguente integrazione del reato di cui all'art. 44, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001 (sez. 3, 15.01.2004, n. 5328, rv. 227402; sez. 4, 18.01.2007, n. 6382, rv. 236104; sez. 3, 22.10.2010, n. 43249, rv. 248724).
Deve osservarsi, in particolare, che non vi è rapporto di specialità tra la disciplina sanzionatoria penale dettata in materia urbanistica e antisismica dal d.P.R. n. 380 del 2001 e quella, amministrativa pecuniaria, dettata dal decreto legislativo n. 507 del 1993, in materia di imposta comunale sulla pubblicità e pubbliche affissioni, in quanto si tratta di sanzioni poste a tutela di interessi giuridici diversi, presidiando la prima la pubblica incolumità e l'altra il controllo sulle pubbliche affissioni, in relazione al loro contenuto, alla loro natura commerciale, all'applicazione dell'imposta sulla pubblicità.
Né a tale ricostruzione vale obiettare, come fa il ricorrente, che l'art. 168 del d.lgs. n. 42 del 2004 richiama, per l'apposizione di cartelli con mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni poste a tutela del paesaggio, le stesse sanzioni amministrative previste dal codice della strada, perché la tutela del paesaggio rappresenta un interesse diverso e ulteriore rispetto al corretto assetto del territorio e, soprattutto, alla tutela dell'incolumità pubblica nelle zone sismiche (ex plurimis, Cass., sez. 3, 22.10.2010, n. 43249, rv. 248724; sez. 3, 10.04.2013, n. 39796, rv. 257677).
E tale giurisprudenza ha ampiamente superato il contrario orientamento isolatamente espresso dalla sentenza sez. 3, 03.05.2006, n. 323, richiamata dalla difesa.
Né può valere ad escludere la sussistenza del reato il riferimento alla deliberazione della Giunta regionale della Calabria n. 330 del 22/07/2011 (Approvazione elenco opere dichiarate «minori». Indirizzi interpretativi in materia di sopraelevazione di edifici esistenti).
Si tratta infatti, a ben vedere, di una delibera che, per la parte che qui rileva, deve essere ritenuta illegittima, perché crea ex novo la categoria delle "opere minori" che non sarebbero soggette alla disciplina antisismica, in aperta violazione del disposto dell'art. 83 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale prevede che tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità sono soggette alla normativa antisismica, senza consentire alle Regioni di adottare in via amministrativa deroghe per particolari categorie di opere. E l'illegittimità della deliberazione regionale emerge dalla sua stessa formulazione laterale, laddove nel preambolo si riconosce espressamente che «le norme legislative nonché quelle tecniche in vigore non dettano, espressamente, alcuna particolare limitazione o esclusione delle opere da assoggettare alle discipline di cui sopra».
Anche a prescindere dalle considerazioni appena svolte, deve in ogni caso rilevarsi che
tale deliberazione —contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente— non opera una liberalizzazione generalizzata dell'istallazione di strutture di sostegno per pannelli pubblicitari.
Non vi è dubbio che l'art. 2 del provvedimento stabilisca che le opere minori individuate nell'allegato A sono esentate dalla trasmissione del progetto presso gli uffici regionali al fine dell'ottenimento dell'autorizzazione ai sensi delle leggi nazionali e regionali in materia edilizia sismica, e che in tale allegato siano comprese le «strutture di sostegno per dispositivi di illuminazione, segnaletica stradale, pannelli pubblicitari, insegne e simili, isolate e non ancorati agli edifici, e qualora ancorati agli edifici, aventi un  peso complessivo uguale o inferiore a 1 KN [...]» (punto 17 dell'allegato A).
Nondimeno, tale esenzione risulta sottoposta a due condizioni. La prima, prevista dal successivo art. 3, è che «la rispondenza della progettazione e della realizzazione delle opere di che trattasi alle norme tecniche in vigore dovrà essere certificata presso l'Ufficio tecnico del Comune interessato, da un tecnico abilitato che dovrà dichiarare, altresì che le stesse sono quelle riportate nel citato elenco A». La seconda è fissata dal richiamato punto 17 dell'allegato A, il quale prevede che siano escluse dall'assoggettabilità alle procedure previste in materia edilizia sismica le strutture di sostegno, anche per pannelli pubblicitari, alla condizione che esse siano dotate di certificato e/o brevetto ministeriale.
Ne consegue che,
anche a prescindere dalla già rilevata illegittimità della deliberazione, la stessa non può avere in nessun caso l'effetto di depenalizzare la condotta del ricorrente, perché la realizzazione di sostegni per pannelli pubblicitari non è libera, ma sottoposta ai regimi di certificazione sopra richiamati. E del resto nel caso di specie il ricorrente non ha neanche prospettato che il sostegno da lui realizzato fosse dotato di certificazione ai sensi dell'art. 3 e di certificato e/o brevetto ministeriale ai sensi dell'art. 17 dell'allegato A alla richiamata deliberazione regionale del 22.07.2011.
In relazione, infine, alle dimensioni del manufatto, va osservato che le stesse sono molto significative, trattandosi di un sostegno di 60 cm di diametro e di un'altezza all'incirca corrispondente a quella di un edificio di due piani; con la conseguenza che le considerazioni svolte dalla difesa circa l'esclusione dei manufatti di piccole dimensioni dall'ambito di applicazione della disciplina antisismica risultano comunque irrilevanti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2015 n. 19185).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Falso ideologico al tecnico del Comune che rilascia un’autorizzazione paesaggistica illecita.
Integra il reato previsto dall'art. 479 cod. pen. - "Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici" (ma i termini del problema non cambiano in caso di sussistenza del reato di cui all'art. 480 - "Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in certificati o in autorizzazioni amministrative") il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per raccoglimento della relativa domanda.
L'autorizzazione paesaggistica ha natura di atto pubblico -comprovando l'attività di esame e valutazione da parte dell'organo tecnico dei documenti prodotti dal richiedente e producendo un effetto ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario- il cui rilascio impone in capo all'organo competente l'obbligo giuridico di svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni
.
Si tratta di insegnamento che affonda le radici nella nota sentenza Sezz. U. 02.02.1995 n. 1827 che affermò il principio, mai più posto in discussione, secondo il quale
anche nell'atto dispositivo -che consiste in una manifestazione di volontà e non nella rappresentazione o descrizione di un fatto- è configurabile la falsità ideologica in relazione alla parte "descrittiva" in esso contenuta e, più precisamente, in relazione all'attestazione, non conforme a verità, dell'esistenza di una data situazione di fatto costituente il presupposto indispensabile per il compimento dell'atto, a nulla rilevando che tale attestazione non risulti esplicitamente dal suo tenore formale, poiché, quando una determinata attività del pubblico ufficiale, non menzionata nell'atto, costituisce indefettibile presupposto di fatto o condizione normativa dell'attestazione, deve logicamente farsi riferimento al contenuto o tenore implicito necessario dell'atto stesso, con la conseguente irrilevanza dell'omessa menzione (talora scaltramente preordinata) ai fini della sussistenza della falsità ideologica.
I provvedimenti amministrativi emessi all'esito di una valutazione discrezionale di tipo tecnico non si sottraggono a tale principio.
Se il pubblico ufficiale chiamato ad esprimere un giudizio è libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che lo rappresenta non è destinato a provare la verità di alcun fatto.
Diversamente, se l'atto da compiere fa riferimento implicito a previsioni normative, che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di quella che, in sede amministrativa, si denomina discrezionalità tecnica, la quale vincola la valutazione ad una verifica. In tal caso il pubblico ufficiale esprime pur sempre un giudizio, ma l'atto potrà essere obiettivamente falso se il giudizio di conformità, non sarà rispondente ai parametri cui il giudizio stesso è implicitamente vincolato.

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2. Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.
3.1 primi due motivi, comuni per l'oggetto, possono essere esaminati congiuntamente.
3.1. L'imputato risponde «del reato di cui agli artt. 110, 479, cod. pen., per aver concorso, con la proprietaria committente (Ad.Li.Co.), nell'illecito rilascio dell'autorizzazione paesaggistica predisponendo e presentando, la proprietaria, la relazione paesaggistica nella quale, nonostante l'illecito asservimento prevedesse la realizzazione sul sito di volumetrie non consentite (in particolare la zona qualificata E3 - verde agricolo fascia costiera - con indice di fabbricabilità mc/mq 0,01 avrebbe potuto esprimere una volumetria di circa mc. 45,32, mentre veniva progettata una costruzione avente una volumetria di mc. 352,52, utilizzando illecitamente volumetrie di fondi distanti e con caratteristiche E2 ed indice di fabbricabilità mc/mq 0,03), si affermava falsamente la compatibilità ambientale dell'intervento e che lo stesso valorizzava l'assetto del sito, sul quale veniva prevista invece una densità di costruzione non consentita, con conseguente pregiudizio ambientale, costituendo così gli indispensabili falsi presupposti che consentivano al Re., come tecnico comunale, l'emissione dell'autorizzazione paesaggistica, presupposto necessario per il rilascio del permesso di costruire, fondata su tali qualificazioni nella consapevolezza della loro falsità».
Il fatto è contestato come commesso in Morciano di Leuca il 14/12/2009.
3.2. La Corte di appello ha diversamente rubricato il fatto qualificandolo ai sensi dell'art. 480, cod. pen.. Non rileva in questa sede la diversa qualificazione del fatto (della quale si giova l'imputato) derivante dalla ritenuta diversità dell'oggetto della condotta (un'autorizzazione piuttosto che un atto pubblico), perché ciò non muta i termini del problema.
3.3. Secondo la ricostruzione della vicenda, così come concordemente operata dai Giudici di merito senza contestazioni del ricorrente, risulta quanto segue:
   3.3.1. il 27/10/2009, la sig.ra Ad.Li.Co. aveva chiesto al Comune di Morciano il rilascio del permesso di costruire per realizzare una civile abitazione stagionale estesa 119 mq. (oltre porticato) che sviluppava una volumetria di 352,52 mc.;
   3.3.2. l'area di sedime era situata in zona classificata dal Programma di Fabbricazione vigente come "E3 - verde agricolo fascia costiera" (art. 18 delle relative NTA), che prevedeva un indice di fabbricabilità fondiaria pari a 0,01 mc/mq, in base al quale avrebbe potuto essere sviluppata una volumetria di soli 45,32 mc.;
   3.3.3. la realizzazione dell'ulteriore volumetria era stata progettualmente prevista mediante l'accorpamento di terreni situati altrove, in zona classificata dal PdF come "E2 - verde agricolo", che prevedeva un indice di fabbricabilità pari a 0,03, mc/mq (art. 17 delle relative NTA);
   3.3.4. secondo quanto previsto dal PdF e dalla legge regionale Puglia n. 56 del 1980, come costantemente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità e amministrativa, l'accorpamento dei fondi era consentito solo all'imprenditore agricolo e solo ove fosse compatibile con la effettiva vocazione agricola dell'intervento;
   3.3.5. nel fascicolo relativo alla richiesta di permesso di costruire erano stati rinvenuti unicamente un certificato di iscrizione alla camera di commercio della Colella come imprenditore agricolo ed un certificato di attribuzione della partita IVA per lo svolgimento dell'attività di "coltivazione di frutti oleosi", ma nessun documento che correlasse l'intervento edilizio all'attività agricola;
   3.3.6. l'area oggetto di intervento era stata inserita dal P.U.T.T. della Regione Puglia, nell'ambito territoriale esteso "C", soggetto a particolare regime di tutela che richiedeva il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica;
   3.3.7. il 14/12/2009 era stata rilasciata l'autorizzazione paesaggistica nella quale si affermava che: «l'intervento previsto si ritiene conforme allo strumento urbanistico - PdF vigente, in quanto rispetta gli indici plano volumetrici prescritti nelle zone agricole (...) non incide in maniera sconvolgente sull'aspetto architettonico e paesaggistico dei luoghi (...) facendo salvi tipologia, volumi e standards urbanistici previsti dal vigente PdF (...) l'intervento risulta conforme al PUTT, così come riportato nella relazione paesaggistica allegata al progetto (...) accertata la conformità urbanistica dell'intervento allo strumento urbanistico vigente, nonché al PUTT ed alla normativa in materia».
3.4. Secondo i Giudici di merito, l'autorizzazione non avrebbe potuto essere rilasciata ostandovi i seguenti presupposti di fatto, ben noti all'imputato:
   a) il progetto prevedeva la realizzazione di una "casa di civile abitazione in campagna";
   b) l'intervento edilizio non era funzionale alla conduzione di un'impresa agricola inesistente;
   c) i lotti da accorpare non erano confinanti, né contigui;
   d) gli indici di utilizzazione fondiaria non erano omogenei, non essendo consentito utilizzare i maggiori indici di utilizzazione fondiaria di un fondo per incrementare quelli ben minori dell'area di sedime.
3.5. Di qui l'affermazione della falsità dell'autorizzazione paesaggistica nella parte in cui ha dato per esistenti i presupposti per il suo rilascio.
4. E' necessario premettere che, come anticipato, il ricorrente non contesta le basi fattuali del ragionamento dei Giudici di merito. Sin dall'appello, infatti, si era limitato a contestare la configurabilità giuridica del reato di falso ideologico e a dedurre la mancanza dell'elemento soggettivo.
4.1. La tesi difensiva della insussistenza del reato è totalmente infondata alla luce del costante insegnamento di questa Corte secondo il quale
integra il reato previsto dall'art. 479 cod. pen. (ma i termini del problema non cambiano in caso di sussistenza del reato di cui all'art. 480) il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per raccoglimento della relativa domanda. L'autorizzazione paesaggistica ha natura di atto pubblico -comprovando l'attività di esame e valutazione da parte dell'organo tecnico dei documenti prodotti dal richiedente e producendo un effetto ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario- il cui rilascio impone in capo all'organo competente l'obbligo giuridico di svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni (Sez. 3, n. 42064 del 30/06/2016, Quaranta, Rv. 268083).
4.2. Lo stesso principio, peraltro, è già stato affermato con sentenza Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, Rv. 267953, che ha definito altro processo a carico dell'odierno imputato, reo di aver rilasciato un'autorizzazione paesaggistica falsa nei suoi presupposti.
4.3. Si tratta di insegnamento che affonda le radici nella nota sentenza Sez. U, n. 1827 del 02/02/1995, Proietti, Rv. 200117, che affermò il principio, mai più posto in discussione, secondo il quale
anche nell'atto dispositivo -che consiste in una manifestazione di volontà e non nella rappresentazione o descrizione di un fatto- è configurabile la falsità ideologica in relazione alla parte "descrittiva" in esso contenuta e, più precisamente, in relazione all'attestazione, non conforme a verità, dell'esistenza di una data situazione di fatto costituente il presupposto indispensabile per il compimento dell'atto, a nulla rilevando che tale attestazione non risulti esplicitamente dal suo tenore formale, poiché, quando una determinata attività del pubblico ufficiale, non menzionata nell'atto, costituisce indefettibile presupposto di fatto o condizione normativa dell'attestazione, deve logicamente farsi riferimento al contenuto o tenore implicito necessario dell'atto stesso, con la conseguente irrilevanza dell'omessa menzione (talora scaltramente preordinata) ai fini della sussistenza della falsità ideologica.
4.4.
I provvedimenti amministrativi emessi all'esito di una valutazione discrezionale di tipo tecnico non si sottraggono a tale principio.
Se il pubblico ufficiale chiamato ad esprimere un giudizio è libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che lo rappresenta non è destinato a provare la verità di alcun fatto.
Diversamente, se l'atto da compiere fa riferimento implicito a previsioni normative, che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di quella che, in sede amministrativa, si denomina discrezionalità tecnica, la quale vincola la valutazione ad una verifica. In tal caso il pubblico ufficiale esprime pur sempre un giudizio, ma l'atto potrà essere obiettivamente falso se il giudizio di conformità, non sarà rispondente ai parametri cui il giudizio stesso è implicitamente vincolato
(Sez. 5, n. 14283 del 17/11/1999, Pinto, Rv. 216123; Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, Platamone, Rv. 254305; Sez. F, n. 39843 del 04/08/2015, Di Napoli, Rv. 264364, che ha ribadito la sussistenza del reato in caso di omessa indicazione, in provvedimenti urbanistici di tipo abilitativo, da parte di funzionari e dirigenti comunali, della reale consistenza delle opere, della loro incidenza sulla realtà territoriale e della normativa correttamente applicabile nel caso concreto).
4.5. La tesi del cd. "falso indotto" è radicalmente priva di fondamento fattuale prima ancora che giuridico poiché mai è stata messa in discussione la conformità a vero dei fatti rappresentati negli elaborati progettuali a corredo della richiesta di autorizzazione, tant'è che il Tribunale ha potuto agevolmente ricostruire la vicenda esaminando proprio gli atti prodotti dalla proprietaria/ committente.
E dunque il ricorrente/pubblico ufficiale aveva ben presenti i presupposti fattuali della condotta amministrativa e tutte le informazioni necessarie a esprimere un giudizio tecnico consapevole e coerente con i fatti documenti, senza necessità di sopralluoghi.
Torna utile ricordare che, come detto, lo stesso ricorrente non ha mai messo in discussione la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito secondo i quali la violazione delle norme e degli strumenti urbanistici era talmente eclatante da non poter passare inosservata ad un pubblico ufficiale esperto come l'odierno ricorrente.
4.6. I primi due motivi sono dunque manifestamente infondati (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.05.2018 n. 18890).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Beni ambientali. Richiesta di autorizzazione paesaggistica e false attestazioni del richiedente circa la sussistenza delle condizioni per l'accoglimento.
Integra il reato previsto dall'art. 479 cod. pen. il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa domanda.
(In motivazione, la S.C. ha precisato che l'autorizzazione paesaggistica ha natura di atto pubblico -comprovando l'attività di esame e valutazione da parte dell'organo tecnico dei documenti prodotti dal richiedente e producendo un effetto ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario- il cui rilascio impone in capo all'organo competente l'obbligo giuridico di svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni)
(massima tratta da www.lexambiente.it).
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5.5. Venendo al ricorso presentato da Re., con il primo motivo egli deduce, innanzitutto, profili di censura sostanzialmente già formulati dagli altri due imputati, sicché gli stessi debbono essere rigettati sulla scorta delle argomentazioni già svolte.
Ciò vale, in primo luogo, per l'evidente falsità della documentazione allegata alla D.I.A., attestante la preesistenza dell'immobile oggetto dell'intervento edilizio, rispetto alla quale i Giudici di secondo grado non avrebbero replicato alle osservazioni del consulente di parte, Arch. El., circa l'esistenza, in quella zona, di altri antichi manufatti simili a quello in contestazione, composti anche da conci squadrati, con la conseguenza che Re. non avrebbe avuto motivo di nutrire sospetti in merito alla autenticità dell'immobile oggetto della D.I.A.. Sul punto, appare dunque opportuno rinviare, per ragioni di economia espositiva, alle osservazioni già svolte al paragrafo 5.1.
Una volta affermata la correttezza della lettura processuale compiuta dai giudici di merito sia in relazione all'affermata falsità della rappresentazione documentale allegata alla D.I.A., sia in relazione alla percepiblità ictu oculi (ovvero sulla base dei meri rilievi fotografici) della stessa, in specie per un soggetto tecnicamente attrezzato ed esperto come Re. (tanto più ove si consideri che, come osservato da Ba. in sede di ricorso, la richiesta di intervento conservativo su una "muratura perimetrale" priva di copertura solare, sarebbe stata comunque destinata all'immediato "diniego"), deve poi rilevarsi come sia esente da censure, sul piano logico-giuridico, l'ulteriore passaggio motivazionale con cui le due sentenze di primo e secondo grado hanno ricondotto al delitto di cui all'art. 479 cod. pen. il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica n. 2/09 da parte di un soggetto che, per le ragioni già esposte, era consapevole della falsità di quanto attestato negli atti a corredo della D.I.A..
Sul punto, Re. ha dedotto di non aver compiuto, con l'autorizzazione paesaggistica, alcuna attestazione in ordine all'epoca dell'immobile né alla sua fattura, essendosi limitato a prendere atto del contenuto della relazione tecnica e della allegata documentazione prodotta dal richiedente ed asseverata da un professionista, così come previsto dalla legislazione in materia edilizia.
Tali atti, del resto, avrebbero pacificamente natura certificativa in ordine alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all'attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio; sicché, a fronte della relativa attestazione, il potere dell'amministrazione si sostanzierebbe nel verificare la corrispondenza di quanto dichiarato dall'interessato rispetto ai canoni normativi stabiliti per l'attività in questione.
Le argomentazioni difensive testé riassunte sono, tuttavia, prive di pregio.
Come osservato, in passato, da questa Corte in una ipotesi del tutto identica contestata all'odierno imputato, l'autorizzazione paesaggistica, rilasciata da Gi.Re., aveva certamente la natura di atto pubblico, "comprovando l'attività di esame dei documenti prodotti dal richiedente svolta dal dirigente dell'Ufficio tecnico, esprimendo la sua valutazione tecnica e producendo il consistente effetto ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario a costruire il manufatto, senza attivare la procedura per ottenere il permesso a costruire" (così, in motivazione, Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, non massimata); ciò che pertanto consente pacificamente di escludere l'applicabilità della meno grave ipotesi di cui all'art. 480 cod. pen..
In secondo luogo, i giudici di merito hanno puntualmente chiarito che, avendo attestato la sussistenza delle condizioni per il rilascio dell'autorizzazione, Re. implicitamente asseverò l'esistenza dei presupposti di fatto, della cui insussistenza, per le ragioni già chiarite, egli era, tuttavia, pienamente consapevole.
In altri termini,
il rilascio del titolo abilitativo rilevante sul piano paesaggistico presupponeva, in ogni caso, un preventivo vaglio della sussistenza delle relative condizioni, giuridiche e di fatto; sicché la dolosa affermazione della sussistenza di presupposti che Re. era perfettamente consapevole non esistessero integra, come correttamente ritenuto dalla sentenza impugnata, il delitto contestato.
Sotto altro profilo, del tutto inconferente è l'ulteriore deduzione secondo cui il ricorrente non avrebbe avuto alcun obbligo di effettuare preventive verifiche circa la conformità della rappresentazione dello stato di fatto alla reale situazione dei luoghi e in ordine alla preesistenza del fabbricato.
E', infatti, evidente, proprio alla luce delle menzionate caratteristiche dell'autorizzazione paesaggistica, che in capo all'organo competente incomba, diversamente da quanto opinato dal ricorrente, un vero e proprio obbligo giuridico di accertare la sussistenza delle condizioni giuridico-fattuale per l'accoglimento della richiesta; obbligo che, ovviamente, può essere assolto in qualunque forma, e dunque non necessariamente con un sopralluogo, che in ogni caso Re. avrebbe potuto svolgere nell'esercizio dei poteri di ufficio. E dalla circostanza che egli non abbia ritenuto di svolgere alcuna verifica, i giudici hanno coerentemente tratto ulteriori conferme del fatto che egli fosse partecipe della complessiva operazione illecita.
Per quanto, infine, concerne le censure mosse con riferimento al dolo dell'abuso di ufficio, deve ribadirsi che i giudici di merito hanno esplicitato, con motivazione congrua e logicamente ineccepibile, e quindi incensurabile in sede di legittimità, le ragioni sulla base delle quali hanno ritenuto ravvisarlo.
Infatti,
una volta affermata l'avvenuta commissione del delitto di falso, le due sentenze hanno posto in luce come, pur in assenza di documentati contatti tra Re. e i due coimputati, potesse affermarsi l'esistenza, oltre che della consapevolezza delle condotte illegittime accertate -costituite, sia dalla falsità in atto pubblico, sia dalla violazione, non contestata ricorso per cassazione, dell'obbligo, sancito dall'art. 23 del d.p.r. n. 380 del 2001, di ordinare alla committenza di non effettuare il richiesto intervento edilizio- di un deliberato intento di far conseguire ad An.Vi.Qu. l'ingiusto profitto patrimoniale (per la tesi secondo cui il vantaggio patrimoniale di cui all'art. 323 cod. proc. pen., va riferito al complesso dei rapporti giuridici a carattere patrimoniale e quindi non solo quando l'abuso sia volto a procurare beni materiali o altro, ma anche quando sia volto a creare un accrescimento della situazione giuridica soggettiva, cfr. Sez. 3, n. 10810 del 17/01/2014, Altieri e altri, Rv. 258894; Sez. 6, n. 12370 del 30/01/2013, P.C. e Baccherini, Rv. 256004; Sez. 6, n. 43302 del 27/10/2009, Rocca, Rv. 244945; Sez. 6, n. 49554 del 22/10/2003, Cianflone e altri, Rv. 227204, relativo al caso del rilascio di una concessione edilizia; in questi ultimi termini v. anche Sez. 6, n. 37531 del 14/06/2007, Serione e altri, Rv. 238028) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.10.2016 n. 42064).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Il delitto ex art. 480 cp si articola sotto il profilo oggettivo su due presupposti fondamentali: che gli atti compiuti dal pubblico ufficiale siano certificati o autorizzazioni amministrative e che la falsa attestazione riguardi fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità.
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Dagli atti si ricava che con l'illegittima autorizzazione paesaggistica l'imputato pose in essere le condizioni affinché il proprietario realizzasse l'intervento edilizio illecito, essendo, pertanto, l'atto di per sé perfezionato -salvo l'intervento successivo della Sovrintendenza di annullamento- e quindi pienamente in grado di produrre gli effetti costitutivi ed ampliativi della sfera patrimoniale e giuridica del coimputato derivanti dall'illecita costruzione del manufatto.
Tali caratteristiche consentono di inquadrare il provvedimento incriminato nella categoria degli atti pubblici ex art. 476-479 cp, riguardo ai quali deve ricordarsi l'antico ma consolidato orientamento di questa Corte, per cui
il possibile contenuto dell'atto pubblico può essere diretto a documentare attività compiute dal pubblico ufficiale o comunque da lui percepite; sotto un secondo profilo, verificabile in via congiuntiva o anche solo alternativa al precedente, l'atto pubblico contemplato dagli artt. 476, 479 cp è quello caratterizzato dalla produttività di effetti costitutivi, traslativi, dispositivi, modificativi od estintivi rispetto a situazioni giuridiche di rilevanza pubblicistica.
Alla luce di tali principi appare chiaro che
il provvedimento di autorizzazione paesaggistica deve essere sussunto nella categoria degli atti pubblici, comprovando l'attività di esame dei documenti prodotti dal richiedente svolta dal dirigente dell'Ufficio tecnico, esprimendo la sua valutazione tecnica e producendo il consistente effetto ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario a costruire il manufatto, senza attivare la procedura per ottenere il permesso a costruire, che nel caso in esame non era rilasciabile, a causa della destinazione agricola del terreno.

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Il ricorso è infondato.
1. Occorre premettere che, secondo le sentenze di merito, Re., in qualità di dirigente l'ufficio tecnico comunale, aveva attestato falsamente che l'intervento edilizio illustrato negli atti tecnici presentati dai coimputati, Le. e Ba.  il primo proprietario del terreno ed il secondo suo tecnico di fiducia- riguardava il recupero di un volume già esistente, allo scopo di consentirne la realizzazione in zona sottoposta a vincolo, mediante presentazione di sola DIA e non del necessario permesso di costruire, mentre il manufatto era in sostanza inesistente.
2. Quanto ai motivi di ricorso, va osservato che il primo ha proposto un nuovo apprezzamento del merito del ragionamento decisorio, non confrontandosi con la congrua motivazione, che ha logicamente desunto l'elemento psicologico del reato dall'evidenza delle falsificazioni propinate a Re. dai coimputati e, pertanto, da questi agevolmente rilevabili dagli atti prodotti; dalle foto allegate alla pratica, che l'imputato aveva necessariamente visionato, emergeva in modo evidente l'epoca recente della costruzione, anche per i modi dì costruzione dei muri, che era stata creata ad arte al solo scopo di eludere la necessità della richiesta di permesso a costruire; tale conclusione è stata adeguatamente giustificata anche attraverso il richiamo alle deposizioni conformi del CT della difesa e del tenente dei Vigili urbani, che avvalendosi di aerofotogrammetrie, ha testimoniato dell'inesistenza del manufatto appena due anni prima dell'istruzione della pratica;la situazione falsamente rappresentata nella relazione tecnica e nella relazione paesaggistica ed attestata dal ricorrente nell'autorizzazione paesaggistica a sua firma faceva, invece, riferimento ad un antico rudere crollato, addirittura costruito secondo tecniche tradizionali dell'architettura rurale salentina.
3. La critica sulla qualificazione giuridica del provvedimento di autorizzazione paesaggistica, secondo il ricorrente qualificabile ai sensi dell'art. 480 cp, non è fondata.
3.1 In linea generale deve ricordarsi che
il delitto ex art. 480 cp si articola sotto il profilo oggettivo su due presupposti fondamentali: che gli atti compiuti dal pubblico ufficiale siano certificati o autorizzazioni amministrative e che la falsa attestazione riguardi fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità (Sez. 6, 21.01.2004 n. 22396 RV 229394).
3.2 Nella fattispecie concreta, la funzione del provvedimento non fu quella di provare la verità dei fatti attestati.
Invero, dagli atti a disposizione della Corte, si ricava che
con l'illegittima autorizzazione paesaggistica l'imputato pose in essere le condizioni affinché il proprietario Le. realizzasse l'intervento edilizio illecito, essendo, pertanto, l'atto di per sé perfezionato -salvo l'intervento successivo della Sovrintendenza di annullamento- e quindi pienamente in grado di produrre gli effetti costitutivi ed ampliativi della sfera patrimoniale e giuridica del coimputato derivanti dall'illecita costruzione del manufatto.
3.3 Tali caratteristiche consentono di inquadrare il provvedimento incriminato nella categoria degli atti pubblici ex art. 476-479 cp, riguardo ai quali deve ricordarsi l'antico ma consolidato orientamento di questa Corte, per cui
il possibile contenuto dell'atto pubblico può essere diretto a documentare attività compiute dal pubblico ufficiale o comunque da lui percepite; sotto un secondo profilo, verificabile in via congiuntiva o anche solo alternativa al precedente, l'atto pubblico contemplato dagli artt. 476, 479 cp è quello caratterizzato dalla produttività di effetti costitutivi, traslativi, dispositivi, modificativi od estintivi rispetto a situazioni giuridiche di rilevanza pubblicistica (Cass. SU n 10929/1981; conformi Cass. 5 n. 10149 del 1984; Cass. 17.06.1987, Iorio).
3.4 Alla luce di tali principi appare chiaro che
il provvedimento di autorizzazione paesaggistica deve essere sussunto nella categoria degli atti pubblici, comprovando l'attività di esame dei documenti prodotti dal richiedente svolta dal dirigente dell'Ufficio tecnico, esprimendo la sua valutazione tecnica e producendo il consistente effetto ampliativo della sfera giuridico-patrimoniale del proprietario a costruire il manufatto, senza attivare la procedura per ottenere il permesso a costruire, che nel caso in esame non era rilasciabile, a causa della destinazione agricola del terreno (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 26.08.2016 n. 35556).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: La resurrezione di un provvedimento amministrativo fatto oggetto di sostituzione mediante un nuovo provvedimento successivo non è l'automatico effetto dell'annullamento del secondo provvedimento, giacché in tal caso altro non residua che la potestà amministrativa di riprovvedere, se del caso, sull'intera vicenda: dovendosi peraltro tener conto altresì del c.d. effetto conformativo eventualmente scaturente dal giudicato di annullamento.
Il fenomeno della reviviscenza della norma abrogata a seguito di annullamento della norma abrogativa riguarda la successione di norme nel tempo ed è ammessa in via eccezionale dalla giurisprudenza costituzionale per evitare che si crei un vuoto normativo.
Nel caso di provvedimenti amministrativi, invece, non v’è tale esigenza, poiché non si crea mai un insolubile vuoto normativo o di disciplina, trovandosi il provvedimento amministrativo, anche se a carattere generale o normativo, pur sempre a valle della gerarchia delle fonti; fermo restando che nel caso di specie le ordinanze in esame sono proprio prive dei requisiti formali degli atti regolamentari.
Peraltro, come giustamente evidenziato dalla giurisprudenza appena richiamata, tale supposto effetto di reviviscenza non potrebbe mai operare in contrasto con un giudicato vanificandone l’effettività e costringendo il ricorrente vittorioso a impugnare, man mano, a ritroso nel tempo, tutti i provvedimenti che hanno preceduto quello annullato, e per i quali emergerebbe di volta in volta l’interesse al gravame in virtù della caducazione del successivo.
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Nel merito, il ricorso è fondato.
E’ tra l’altro la stessa difesa dell’Amministrazione a citare la giurisprudenza, che il Collegio condivide, secondo cui “la resurrezione di un provvedimento amministrativo fatto oggetto di sostituzione mediante un nuovo provvedimento successivo non è l'automatico effetto dell'annullamento del secondo provvedimento, giacché in tal caso altro non residua che la potestà amministrativa di riprovvedere, se del caso, sull'intera vicenda: dovendosi peraltro tener conto altresì del c.d. effetto conformativo eventualmente scaturente dal giudicato di annullamento” (cfr. CGA sentenza n. 371 del 2015).
Il fenomeno della reviviscenza della norma abrogata a seguito di annullamento della norma abrogativa riguarda la successione di norme nel tempo ed è ammessa in via eccezionale dalla giurisprudenza costituzionale per evitare che si crei un vuoto normativo (cfr. Corte costituzionale sentenza n. 13 del 2012).
Nel caso di provvedimenti amministrativi, invece, non v’è tale esigenza, poiché non si crea mai un insolubile vuoto normativo o di disciplina, trovandosi il provvedimento amministrativo, anche se a carattere generale o normativo, pur sempre a valle della gerarchia delle fonti; fermo restando che nel caso di specie le ordinanze in esame sono proprio prive dei requisiti formali degli atti regolamentari.
Peraltro, come giustamente evidenziato dalla giurisprudenza appena richiamata (cfr. CGA sentenza n. 371 del 2015), tale supposto effetto di reviviscenza non potrebbe mai operare in contrasto con un giudicato vanificandone l’effettività e costringendo il ricorrente vittorioso a impugnare, man mano, a ritroso nel tempo, tutti i provvedimenti che hanno preceduto quello annullato, e per i quali emergerebbe di volta in volta l’interesse al gravame in virtù della caducazione del successivo.
Ne consegue che l’annullamento dell’ordinanza del 2015 non ha comportato il riespandersi degli effetti di quella del 2014, sostituita a suo tempo dalla successiva.
Con la conseguenza ulteriore che, come correttamente evidenziato dalla parte ricorrente, la nota del 02.08.2017 del Comune di San Salvo deve essere considerata nulla, per violazione dei giudicati di cui alla sentenza n. 145 del 2016 del Tar Pescara e 2799 del 2017 del Consiglio di Stato, nella parte in cui afferma nei confronti della stessa ricorrente la vigenza dell’ordinanza del 2014, di identico contenuto e emessa dalla medesima Autorità di quella del 2015 già impugnata e annullata, e ciò poiché, viceversa, per le ragioni sopra indicate, detta ordinanza del 2014 deve ritenersi ormai definitivamente priva di efficacia.
Questa nota del 02.08.2017, nella parte in cui mira autoritativamente a riaffermare tra le parti la sopravvenienza di una disciplina pregiudizievole per la ricorrente, ha un indubbio effetto conformativo delle sue posizioni giuridiche e quindi valenza provvedimentale.
In ogni caso, ad avviso del Collegio, nella domanda dichiarativa di nullità della succitata nota è contenuta anche la domanda tesa a ottenere una sentenza dichiarativa della inefficacia definitiva dell’ordinanza sindacale del 2014, e v’è un interesse concreto e attuale a una pronuncia dichiarativa di accertamento, in presenza di una potestà amministrativa che è stata già esercitata contestando i limiti e la valenza di un giudicato favorevole alla parte ricorrente (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 04.06.2018 n. 186 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Deve escludersi l’automatica reviviscenza di un precedente provvedimento quale automatico effetto dell'annullamento, in sede giurisdizionale, di un successivo provvedimento che sia stato adottato dall’Amministrazione in luogo ed in sostituzione del primo.
Invero, siffatto effetto automatico (di resurrezione di un atto non più esistente) non si verifica neppure, nell'ipotesi -comunque più opinabile e maggiormente problematica- di successione di leggi nel tempo, in presenza dell'abrogazione di una norma che a, sua volta, avesse abrogato un'altra norma previgente.
A fortiori, la resurrezione di un provvedimento amministrativo fatto oggetto di sostituzione mediante un nuovo provvedimento successivo non è l'automatico effetto dell'annullamento del secondo provvedimento, giacché in tal caso altro non residua che la potestà amministrativa di riprovvedere, se del caso, sull'intera vicenda: dovendosi peraltro tener conto altresì del c.d. effetto conformativo eventualmente scaturente dal giudicato di annullamento.
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La sentenza appellata ha dichiarato l’originario ricorso inammissibile per difetto di interesse, rilevando –sulla premessa che “parte ricorrente impugna le determinazioni in epigrafe, con cui il Comune resistente ha disposto in ordine alle autorizzazioni a suo tempo concesse ad altre società operanti nel settore della gestione degli spazi pubblicitari”– che “un eventuale annullamento dei provvedimenti impugnati farebbe … rivivere le precedenti autorizzazioni, risultando così privo di alcun effetto utile per la società ricorrente. Né tali precedenti autorizzazioni, pur formalmente impugnate, in disparte profili di tempestività di tale impugnativa, sono state assoggettate ad alcuna censura nel corpo del ricorso”.
Il primo motivo di appello deduce che avrebbe “errato il Tribunale laddove ha pronunciato la inammissibilità del ricorso in violazione ed in totale assenza dei presupposti indicati dall’art. 35, comma 1, lett. b), c.p.a.”.
Secondo un primo argomento, il giudice amministrativo dovrebbe annullare i provvedimenti illegittimi senza curarsi delle relative conseguenze, e dunque ripristinando una situazione di legittimità senza dover verificare che il ricorrente abbia interesse a realizzare quest’ultima.
La palese infondatezza di siffatto assunto consegue direttamente dalla natura soggettiva della giurisdizione amministrativa, in forza della quale nessuna domanda può essere proposta al giudice (ex art. 100 c.p.c., pacificamente applicabile al processo amministrativo proprio in base al carattere soggettivo della relativa giurisdizione) se il ricorrente non abbia concreto interesse a ottenerne l’accoglimento; conseguentemente, risulterebbe del tutto corretta la declaratoria di inammissibilità resa dal primo giudice se fosse vero il relativo assunto, ossia se davvero l’annullamento di un provvedimento sostitutivo facesse rivivere automaticamente il precedente provvedimento sostituito.
Viceversa, la declaratoria resa in primo grado merita riforma in questo giudizio di appello, proprio in ragione del fatto che questo Collegio non condivide la tesi dell’automatica reviviscenza di un precedente provvedimento (nella specie si tratta di autorizzazioni ad affissioni pubblicitarie) quale automatico effetto dell’annullamento, in sede giurisdizionale, di un successivo provvedimento che sia stato adottato dall’Amministrazione in luogo ed in sostituzione del primo.
Invero, siffatto effetto automatico (di resurrezione di un atto non più esistente) non si verifica neppure, secondo il prevalente insegnamento di dottrina e giurisprudenza, nell’ipotesi –comunque più opinabile e maggiormente problematica di quella qui in esame– di successione di leggi nel tempo, in presenza dell’abrogazione di una norma che a, sua volta, avesse abrogato un’altra norma previgente.
Certamente, ed a fortiori, la resurrezione di un provvedimento amministrativo fatto oggetto di sostituzione mediante un nuovo provvedimento successivo non è l’automatico effetto dell’annullamento del secondo provvedimento, giacché in tal caso altro non residua che la potestà amministrativa di riprovvedere, se del caso, sull’intera vicenda: dovendosi peraltro tener conto altresì del c.d. effetto conformativo eventualmente scaturente dal giudicato di annullamento (CGARS, sentenza 08.05.2015 n. 371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Costituisce principio consolidato in giurisprudenza quello secondo il quale la proroga dei termini di efficacia di un atto amministrativo presuppone necessariamente che il termine da prorogare non sia ancora scaduto.
Il principio è applicabile in relazione ad ogni provvedimento amministrativo che sia stato sottoposto ad un termine finale di efficacia atteso che, un conto è disporre la prosecuzione dell'efficacia nel tempo di un originario provvedimento, altra cosa è consentire nuovamente lo svolgimento di una attività in precedenza preclusa per sopravvenuta inefficacia dell'atto abilitativo, occorrendo, in questo secondo caso, una nuova e più approfondita valutazione che tenga conto della situazione di fatto e delle regole giuridiche sopravvenute.
E’ opinione del Collegio che questo principio valga anche per le proroghe disposte con atti normativi.
Invero, in assenza di disposizioni contrarie, si deve ritenere che il legislatore, quando emana norme che hanno il solo fine di estendere la validità temporale di un provvedimento, intenda incidere solo sull’efficacia temporale della disciplina di regolazione dell’interesse pubblico ancora vigente e non sostituirsi alle amministrazioni nelle valutazioni riguardanti la possibilità e l’opportunità di reintrodurre una regolazione dell’interesse pubblico ormai priva di efficacia (in proposito si veda anche quanto illustrato nel prosieguo).
Inoltre, in assenza di disposizioni specifiche contrarie, non può che valere la regola di irretroattività degli effetti della legge, regola che impedisce l’intervento su fattispecie ormai esaurite.
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... per l’annullamento della delibera 17.10.2016 n. 215 della Giunta del Comune di Carate Brianza, trasmessa con nota del Responsabile del Settore Tecnico Urbanistica del Comune del 19.10.2016 e ricevuta dai ricorrenti il 24-25.10.2016, con la quale è stata dichiarata inaccoglibile la proposta di Piano attuativo relativa all’ambito A7 presentata dai ricorrenti medesimi l’11.07.2016;
...
FATTO
Con ricorso notificato in data 16.12.2016 e depositato il 10.01.2017, i ricorrenti hanno impugnato la delibera 17.10.2016 n. 215 della Giunta del Comune di Carate Brianza, trasmessa con nota del Responsabile del Settore Tecnico Urbanistica del Comune del 19.10.2016 e ricevuta il 24-25.10.2016, con la quale è stata dichiarata inaccoglibile la proposta di Piano attuativo relativa all’ambito A7 presentata in data 11.07.2016.
I ricorrenti sono comproprietari di alcune aree del tutto inedificate, aventi una superficie territoriale di mq. 9.600,00, site nel Comune di Carate Brianza e identificate catastalmente al foglio 15, mappali 84 e 85, limitrofe alle Vie Milano, Brianza e Bergamo.
Tali aree sono inserite nell’Allegato A “Modalità di attuazione della Città da trasformare” del documento di piano del P.G.T. nella scheda n. 6 relativa all’Ambito di trasformazione n. A7, dove sono specificati i parametri per l’edificazione, le superfici da destinare a parcheggi, le destinazioni d’uso ammesse (residenziale, commerciale di vicinato e di media struttura di vendita, direzionale, ricettivo, servizi di interesse generale, artigianale di servizio, produttivo a ridotto impianto e le direttive da seguire), lasciando ampia discrezionalità di intervento ai privati proponenti.
In data 11.07.2016 i ricorrenti hanno presentato una proposta di Piano attuativo redatta in conformità alla scheda dell’Ambito, allegando cinque tavole, lo schema di convenzione, la relazione tecnica, il computo metrico, il cronoprogramma e gli atti di proprietà.
Con la delibera 17.10.2016 n. 215 della Giunta del Comune di Carate Brianza è stata dichiarata inaccoglibile la proposta di Piano attuativo relativa all’ambito A7 presentata dai ricorrenti.
Assumendo l’illegittimità della predetta determinazione, i ricorrenti l’hanno impugnata, eccependo la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 5, della legge regionale n. 31 del 2014 e l’eccesso di potere per difetto di motivazione.
Si è costituito in giudizio il Comune di Carate Brianza, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
In prossimità dell’udienza di trattazione del merito della controversia, i difensori delle parti hanno depositato memorie e documentazione a sostegno delle rispettive posizioni.
Alla pubblica udienza del 31.01.2018, su conforme richiesta dei difensori delle parti, la controversia è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
2. Con l’unica censura del ricorso si assume l’illegittimità della delibera della Giunta comunale che ha ritenuto inapplicabile la proroga prevista dall’art. 5 della legge regionale n. 31 del 2014 anche ai documenti di piano scaduti –disattendendo quindi il parere contenuto nel comunicato regionale 25.03.2015 n. 50 e ponendosi in contrasto anche quanto affermato nella sentenza del Consiglio di Stato, IV, 14.05.2015, n. 2424– con la conseguenza di ritenere inefficace il documento di piano del P.G.T. e pertanto non accoglibile la proposta di Piano attuativo presentata dai ricorrenti.
2.1. La doglianza è infondata.
Il Collegio, con riguardo all’applicabilità della proroga prevista dall’art. 5 della legge regionale n. 31 del 2014 anche ai documenti di piano scaduti, sostenuta con il comunicato regionale 25.03.2015 n. 50, pur prendendo atto anche della sentenza del Consiglio di Stato, IV, 14.05.2015, n. 2424, che ha ritenuto “corretta l’interpretazione secondo cui la proroga valga anche [per] i documenti scaduti prima dell’entrata in vigore della nuova legge, per non rendere altrimenti monca la pianificazione comunale”, ritiene di aderire al consolidato orientamento espresso dalla Sezione (sentenza 17.10.2017, n. 1985; in precedenza, 07.06.2017, n. 1272), all’esito di una articolata e convincente motivazione.
Come noto, in base all’art. 8, quarto comma, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) il documento di piano ha efficacia quinquennale. Scaduto questo termine le statuizioni in esso contenute non possono più essere attuate.
Il legislatore regionale ha poi previsto due ipotesi di proroga.
La prima
è quella contenuta nel successivo comma cinque, nel quale si prevede che i consigli comunali hanno <<… la facoltà di prorogare sino al 31.12.2014 la validità dei documenti di piano approvati entro il 31.12.2009>>. Altra eccezione è contenuta nell’art. 5, comma 5, della legge regionale n. 31 del 2014, invocato da parte dei ricorrenti.
La legge regionale n. 31 del 2014 ha l’obiettivo di contenere il consumo di suolo e, a tal fine, prevede che gli strumenti di governo del territorio orientino gli interventi edilizi prioritariamente verso le aree già urbanizzate, degradate o dismesse.
L’art. 5, commi 1, 2 e 3, stabilisce che la Regione, le province, le città metropolitane ed i comuni devono adeguare, entro i termini ivi stabiliti, i propri strumenti di governo del territorio alle nuove disposizioni ed ai nuovi principi contenuti nella legge stessa. Per quanto riguarda in particolare i comuni, il comma 3 dell’art. 5 prevede che questi debbano adeguare i propri piani di governo del territorio in occasione della prima scadenza del documento di piano successiva agli atti di adeguamento regionali e provinciali.
L’ultimo periodo del comma 5 stabilisce poi che <<La validità dei documenti comunali di piano, la cui scadenza intercorra prima dell’adeguamento della pianificazione provinciale e metropolitana di cui al comma 2, è prorogata di dodici mesi successivi al citato adeguamento>>.
Come anticipato, secondo i ricorrenti, questa disposizione si applicherebbe anche ai documenti di piano scaduti prima dell’entrata in vigore della legge regionale n. 31 del 2014.
Ritiene il Collegio che questa conclusione non sia condivisibile per tre ordini di ragioni.
Innanzitutto per motivi di carattere dogmatico, in quanto, come noto, costituisce principio consolidato in giurisprudenza quello secondo il quale la proroga dei termini di efficacia di un atto amministrativo presuppone necessariamente che il termine da prorogare non sia ancora scaduto.
Il principio è applicabile in relazione ad ogni provvedimento amministrativo che sia stato sottoposto ad un termine finale di efficacia atteso che, un conto è disporre la prosecuzione dell'efficacia nel tempo di un originario provvedimento, altra cosa è consentire nuovamente lo svolgimento di una attività in precedenza preclusa per sopravvenuta inefficacia dell'atto abilitativo, occorrendo, in questo secondo caso, una nuova e più approfondita valutazione che tenga conto della situazione di fatto e delle regole giuridiche sopravvenute (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 27.08.2014, n. 4384; id., sez. IV, 22.05.2006, n. 3025; id., 22.12.2003, n. 8462; id., 25.03.2003, n. 1545; id., sez. VI, 10.10.2002, n. 5443).
E’ opinione del Collegio che questo principio valga anche per le proroghe disposte con atti normativi.
Invero, in assenza di disposizioni contrarie, si deve ritenere che il legislatore, quando emana norme che hanno il solo fine di estendere la validità temporale di un provvedimento, intenda incidere solo sull’efficacia temporale della disciplina di regolazione dell’interesse pubblico ancora vigente e non sostituirsi alle amministrazioni nelle valutazioni riguardanti la possibilità e l’opportunità di reintrodurre una regolazione dell’interesse pubblico ormai priva di efficacia (in proposito si veda anche quanto illustrato nel prosieguo).
Inoltre, in assenza di disposizioni specifiche contrarie, non può che valere la regola di irretroattività degli effetti della legge, regola che impedisce l’intervento su fattispecie ormai esaurite.
In secondo luogo, la conclusione dei ricorrenti non può essere condivisa per ragioni di carattere testuale, posto che l’utilizzo del termine “intercorra”, contenuto nell’art. 5, comma 5, della legge regionale n. 31 del 2014, lascia chiaramente intendere che legislatore regionale ha voluto disporre la proroga dei documenti di piano che vengano a scadenza in un arco temporale delimitato e successivo a quello di entrata in vigore della norma.
In terzo luogo, la conclusione dei ricorrenti non può essere condivisa per ragioni di carattere teleologico.
La finalità della norma è, infatti, quella di intervenire in favore dei comuni che –proprio perché aventi documenti di piano che vengono a scadenza dopo l’entrata in vigore della legge ma prima dell’approvazione degli atti di adeguamento provinciale– verrebbero forzatamente privati di tale atto di pianificazione: tali comuni, invero, non potrebbero approvarne uno nuovo fino all’approvazione dell’atto di adeguamento provinciale.
L’intervento non è invece giustificato nei casi in cui i comuni abbiano liberamente deciso di lasciar scadere il documento di piano prima dell’entrata in vigore della legge regionale n. 31 del 2014. Si tratterebbe invero di intervento in contrasto con la loro volontà, dato che a questi enti verrebbe imposta la vigenza di un atto che (proprio perché lasciato liberamente scadere) è ormai evidentemente ritenuto non più rispondente all’interesse pubblico.
Né si può opporre che la soluzione qui seguita pregiudichi eccessivamente gli interessi dei privati, atteso che questi hanno comunque avuto a disposizione un periodo di cinque anni per presentare proposte di piani attuativi.
Si deve pertanto ritenere che l’art. 5, comma 5, della legge regionale n. 31 del 2014 non si riferisca ai documenti di piano già scaduti e che, quindi, non possa far rivivere la disciplina contenuta nel previgente documento di piano, ormai definitivamente privo di efficacia (TAR Lombardia, Milano, II, 17.10.2017, n. 1985; altresì, 07.06.2017, n. 1272).
2.2. Va aggiunto, inoltre, che con la legge regionale n. 16 del 2017 è stato altresì modificato il secondo periodo dell’art. 5, comma 5, della legge regionale n. 31 del 2014, attribuendo al Consiglio comunale la facoltà di scelta in ordine alla proroga della validità dei documenti di piano già scaduti [‘La validità dei documenti di piano dei PGT comunali la cui scadenza è già intercorsa può essere prorogata di dodici mesi successivi all’adeguamento della pianificazione provinciale e metropolitana di cui al comma 2, con deliberazione motivata del consiglio comunale, da assumersi entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge regionale recante “Modifiche all’articolo 5 della legge regionale 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per lo riqualificazione del suolo degradato)”, ferma restando la possibilità di applicare quanto previsto al comma 4’].
Pur volendo ritenere, non senza qualche dubbio, la disposizione priva di efficacia retroattiva, dalla stessa si ricava comunque la conferma dell’indirizzo seguito dalla Sezione anche nel presente contenzioso.
2.3. Ciò conduce al rigetto della censura e quindi dell’intero ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.03.2018 n. 734 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Prevenzione incendi, online i nuovi modelli che entreranno in vigore l'11.06.2018.
Modificata parte della modulistica relativa alla presentazione delle istanze, delle segnalazioni e delle dichiarazioni concernenti i procedimenti di prevenzione incendi
Come previsto dall' articolo 11, comma 2, del decreto del Ministro dell'interno 07.08.2012, con decreto del Direttore Centrale per la Prevenzione e la Sicurezza Tecnica, è stata modificata parte della modulistica relativa alla presentazione delle istanze, delle segnalazioni e delle dichiarazioni concernenti i procedimenti di prevenzione incendi.
I nuovi modelli, riportati in allegato al decreto DCPST n. 72, entreranno in vigore il prossimo 11 giugno sostituendo, contestualmente, la corrispondente modulistica attualmente in uso (29.05.2018 - commento tratto da www.casaeclima.com).

SICUREZZA LAVORO: Il D.Lgs. 09.04.2008 n. 81 -noto come Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro- in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, integrato con circolari, accordi Stato Regioni, interpelli ed altre fonti normative ed amministrative (aggiornato nell'edizione maggio 2018 - tratto da www.ispettorato.gov.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Linee guida sulle procedure concorsuali (direttiva 24.04.2018 n. 3/2018).

SINDACATI & ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: NUOVE ALIQUOTE DELLO STRAORDINARIO DALL'01.04.2018 E DIFFERENZE DALL'01.01.2016 AL 30.4.2018 (CSA-Milano, 08.06.2018).

PUBBLICO IMPIEGO: Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del comparto FUNZIONI LOCALI - periodo 2016-2018 - Raccolta sistematica delle disposizioni non disapplicate (CGIL-FP di Bergamo, 22.05.2018).

PUBBLICO IMPIEGO: Aran e Organizzazioni sindacali hanno firmato in via definitiva il contratto collettivo nazionale di lavoro 2016-2018 del comparto Funzioni Locali (21.05.2018 - link a www.aranagenzia.it).
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Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del comparto FUNZIONI LOCALI - Periodo 2016-2018 (ARAN, 21.05.2018).

PUBBLICO IMPIEGO: FIRMATO IL CONTRATTO NAZIONALE FUNZIONI LOCALI - Partono gli aumenti, arrivano gli arretrati (CGIL-FP, 21.05.2018).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Indicazioni applicative in merito alle tolleranze costruttive, alla verifica dello stato legittimo degli edifici da demolire, alla sanatoria di immobili soggetti a vincolo paesaggistico e al divieto di modificare la Modulistica Unificata Edilizia e di richiedere altra documentazione (Regione Emilia Romagna, nota 05.06.2018 n. 410371 di prot.).
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La Circolare fornisce indicazioni applicative in merito alla tolleranza costruttiva disciplinata dall’art. 19-bis, della L.R. n. 23 del 2004 sulla vigilanza in materia edilizia.
In seguito alle importanti modifiche apportate dalla L.R. n. 12 del 2017 e dalla L.R. n. 24 del 2017, si distinguono quattro fattispecie di opere edilizie realizzate in parziale difformità dal titolo abilitativo che non sono considerate violazioni edilizie e non comportano l’applicazione delle relative sanzioni amministrative.
La circolare chiarisce le modalità per accertare e rappresentare nelle pratiche edilizie le difformità tollerate.
Sono trattate, inoltre, la verifica dello stato legittimo degli edifici interessati da demolizione e ricostruzione, la sanatoria degli abusi commessi in immobili soggetti a vincolo paesaggistico e il divieto di modificare la Modulistica Unificata Edilizia regionale e di richiedere altra documentazione”.

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Ricorso al TAR Lazio-Roma per l'annullamento del decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, di concerto con il Ministero dell'Interno e il Capo Dipartimento della Protezione Civile, del 17.01.2018 (Consiglio Nazionale dei Geologi, circolare 01.06.2018 n. 428).
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Con la presente si conferma che, come già reso ampiamente noto per le vie brevi, in data 20 aprile u.s., è stato promosso, mediante notifica, il ricorso in oggetto, avvalendosi della co-difesa del Prof. Avv. An.Cl. e dell'Avv. Ot.Em..
La domanda di annullamento, previe misure cautelari, si riferisce ai paragrafi 2.2.6, 5.1, 6.1.1, 6.2.1, 6.2.2, 6.10, 6.12, 7.11.2, 8.2, 8.3, 8.4, 10.1 e 12, nonché ai paragrafi 3.2.2, 6.4.3.1.1, 7.11.3.4.3. e di quelli contenenti previsioni similari, delle «Norme Tecniche per le Co-struzioni» (pubblicate sul S.O. alla G.U. n. 42 del 20.02.2018 – Serie generale), oltre che ad ogni altro atto presupposto, istruttorio, prodromico, connesso e conseguenziale, ove lesivo ed an-corché non conosciuto. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Ausiliari del commercio – disposizione introdotta dalla legge di bilancio 2018 per i mediatori immobiliari (Ministero dello Sviluppo Economico, circolare 21.05.2018 n. 3705/C - prot. n. 164140).
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Si fa riferimento alla legge 27.12.2017, n. 205, recante “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020”, entrata in vigore il 01.01.2018 ed in particolare alle disposizioni dettate dall’articolo 1, comma 993, con le quali è stata introdotta per la prima volta una specifica sanzione pecuniaria a carico degli agenti di affari in mediazione immobiliare.
In proposito, si riporta il predetto Art. 1, comma 993 della legge finanziaria in questione, che testualmente recita: (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Applicazione artt. 71 e 72 della L.r. 12/2005, come modificati dalla L.r. 2/2015. Principi per la pianificazione delle attrezzature per i servizi religiosi (Regione Lombardia, nota 16.05.2018 n. 5870 di prot.).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Privacy - Regolamento Europeo 2016/679 - Fac-simile informative (ANCE di Bergamo, circolare 14.05.2018 n. 126).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Interpello art. 11, legge 27.07.2000, n.212- Riconducibilità degli interventi di demolizione e ricostruzione tra gli interventi relativi alla adozione di misure antisismiche per le quali è possibile fruire della detrazione di imposta ai sensi dell’art. 16 del Decreto Legge 04.06.2013, n. 63 (Agenzia delle Entrate, risoluzione 27.04.2018 n. 34/E).

URBANISTICA: OGGETTO: Trattamento fiscale dei corrispettivi ricevuti a seguito di costituzione e cessione di diritto reale di superficie (Agenzia delle Entrate, circolare 20.04.2018 n. 6/E).
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Premessa
Con la circolare 19.12.2013, n. 36/E sono stati forniti chiarimenti in merito al trattamento fiscale dei corrispettivi percepiti a seguito di costituzione di un diritto reale di superficie su un terreno al fine di consentire l’installazione di impianti di produzione di energia alternativa.
In tale documento di prassi si precisa che il trattamento fiscale di tali corrispettivi si differenzia in base alle modalità di acquisizione del diritto reale di superficie.
In particolare, nell’ipotesi in cui il diritto reale di superficie sia stato acquistato a titolo oneroso da un precedente titolare, la plusvalenza realizzata va considerata reddito diverso ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lettera b), del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22.12.1986, n. 917 (TUIR) e, dunque, soggetta a tassazione esclusivamente se realizzata entro cinque anni dal momento in cui si era verificata l’acquisizione del medesimo diritto.
Diversamente, nell’ipotesi in cui ... (...continua).

PATRIMONIO: Oggetto: DM 21.03.2018. Attività scolastiche e asili nido. Controlli in materia di salute e sicurezza sul lavoro (Ministero dell'Interno, nota 18.04.2018 n. 5264 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Nuove Istruzioni CNR per strutture in legno (Consiglio Nazionale Ingegneri, circolare 12.04.2018 n. 226).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Aggiornamento delle Norme Tecniche per le Costruzioni (NTC 2018) - fase transitoria ed entrata in vigore - richiesta di proroga della entrata in vigore delle norme tecniche  - riscontro (Consiglio Nazionale Ingegneri, circolare 21.03.2018 n. 214).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Aggiornamento delle Norme Tecniche per le Costruzioni (NTC 2018) - DM 17.01.2018 - ambito di applicazione, fase transitoria ed entrata in vigore - primi chiarimenti e considerazioni (Consiglio Nazionale Ingegneri, circolare 14.03.2018 n. 206).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Nuove Norme Tecniche 2018 - pubblicazione (Consiglio Nazionale Ingegneri, circolare 23.02.2018 n. 203).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Inquadramento dell’attività “parco avventura”- Riscontro (Ministero dell'Interno, nota 18.01.2018 n. 717 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAVigilanza cantieri 2018 - ATS di Bergamo (A.T.S. di Bergamo, nota 21.12.2017 n. 118396 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 14.06.2018, "Determinazione per l’anno 2018 della percentuale di maggiorazione del contributo base ex art. 6, C. 1, lett. I) e C. 10 del r.r. 27.07.2009, n. 2 e s.m.i., attuativo della l.r. 27.06.2008, n. 19 al fine dell’erogazione del contributo ordinario per il medesimo anno alle unioni di comuni lombarde per la gestione associata di funzioni e servizi comunali" (decreto D.S. 05.06.2018 n. 8215).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 dell'11.06.2018, "Determinazioni in merito ai corsi di aggiornamento professionale per tecnici competenti in acustica" (decreto D.U.O. 07.06.2018 n. 8330).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 dell'11.06.2018, "Approvazione di indicazioni per i corsi abilitanti alla professione di tecnico competente in acustica di cui al d.lgs. 42/2017" (decreto D.U.O. 07.06.2018 n. 8327).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 dell'11.06.2018, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 31.05.2018, in attuazione della legge 26.10.1995, n. 447 e del decreto legislativo 17.02.2017, n. 42" (comunicato regionale 07.06.2018 n. 96).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 05.06.2018, "D.lgs. 42/2017. Iscrizione nell’elenco nazionale dei tecnici competenti in acustica ai sensi dell’articolo 21, comma 5. determinazioni regionali a seguito della comunicazione del ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare – direzione generale per i rifiuti e l’inquinamento protocollo 8753 del 29.05.2018" (comunicato regionale 31.05.2018 n. 93).

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: G.U. 31.05.2018 n. 125 "Criteri ambientali minimi per la fornitura di calzature da lavoro non dpi e dpi, articoli e accessori di pelle" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 17.05.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 28.05.2018 n. 122 "Trasferimento di talune funzioni all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA)" (Ministero dell'Ambiente ed ella Tutela del Territorio e del Mare, decreto 01.03.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 24.05.2018 n. 119 "Attuazione della direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.04.2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio" (D.Lgs. 18.05.2018 n. 51).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Disposizioni sull’applicazione dei principi dell'invarianza idraulica ed idrologica. Modifica dell’articolo 17 del regolamento regionale 23.11.2017, n. 7 (Regolamento recante criteri e metodi per il rispetto del principio dell'invarianza idraulica ed idrologica ai sensi dell'articolo 58-bis della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) (deliberazione G.R. 21.05.2018 n. 128).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLinee di indirizzo per la predisposizione dei piani dei fabbisogni di personale da parte delle pubbliche amministrazioni (Dipartimento Funzione Pubblica, decreto 08.05.2018).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATAInfrastrutture e impianti di comunicazioni elettroniche - REPERTORIO DI GIURISPRUDENZA (07.06.2018 - tratto da www.dirittopa.it).

EDILIZIA PRIVATA: V. Lippolis, Appalti privati: responsabilità solidale anche per i liberi professionisti (06.06.2018 - tratto da www.ipsoa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: I. A. Nicotra, Dall’accesso generalizzato in materia ambientale al Freedom of information act (06.06.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa - 2. La Convenzione di Aarhus: diritto alla trasparenza e partecipazione ai processi decisionali sulle tematiche ambientali - 3. Il diritto all’informazione ambientale nella Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28.01.2003 n. 4 - 4. L’accesso generalizzato in materia ambientale secondo il d.lgs. n. 195 del 2005 - 5. Pubblicazione e accesso alle informazioni ambientali: il nuovo paradigma del d.lgs. n. 33 del 2013 - 6. Freedom of informatiom act di fronte agli interessi pubblici e privati di rilevanza costituzionale: alla ricerca di un delicato bilanciamento, le Linee Guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione.

EDILIZIA PRIVATA: APPALTI PRIVATI: Responsabilità dell’appaltatore - Approfondimento normativo e casistica giurisprudenziale (ANCE, 30.05.2018).

EDILIZIA PRIVATAEcobonus e sismabonus - Guida operativa (ANCE, 30.05.2018).

APPALTI: G. Guzzo, I criteri di selezione delle offerte negli appalti pubblici: sistemi a confronto (28.05.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Premessa. 2. Aspetti generali. 3. La ponderazione dei “pesi” o “punteggi”. 3.1. La valutazione degli elementi quantitativi. 3.2. La valutazione degli elementi quantitativi ed i criteri motivazionali. 3.3. La formazione della graduatoria. 4. La struttura del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. 5. L’elencazione dei criteri di valutazione nel caso di aggiudicazione dell'appalto con il sistema dell'offerta economicamente più vantaggiosa. 6. La posizione dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici. 7. Le “Linee Guida” n. 2 ANAC del 16.10.2016. 8. I criteri di valutazione ed il rating di legalità. 9. La ponderazione dei punteggi. 10. la valutazione degli elementi quantitativi. 11. La valutazione degli elementi qualitativi ed i criteri motivazionali. 12. I casi in cui in una gara da affidare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa il punteggio numerico può essere sufficiente ad aggiudicare il contratto. 13. La strutturazione del criterio di aggiudicazione dell'offerta denominato “del prezzo più basso”. 14. Il regolamento di attuazione del vecchio Codice degli appalti. 15. Il problema delle offerte anomale e dell'esclusione dalle gare. 16. Le scansioni del procedimento di verifica. 17. Considerazioni finali.

APPALTI: A. Berti Suman, L’immediata impugnazione delle clausole del bando di gara e il ruolo dell’interesse strumentale nel (nuovo) contenzioso appalti - A margine della Adunanza Plenaria n. 4/2018 (28.05.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Premessa - 2. La distinzione tra clausole immediatamente lesive e non: l’arresto dell’Adunanza Plenaria n. 3/2001– 3. Le correnti successive tese ad ampliare il novero delle clausole immediatamente impugnabili – 4. La terza sezione sull’impugnabilità immediata della clausola del bando relativa al criterio di aggiudicazione – 4.1 Il “blocco normativo” indice della vocazione generale e autonoma del bene della vita rappresentato dalla competizione secondo il miglior rapporto qualità/prezzo - 4.2 La necessità (o meno) della domanda di partecipazione alla gara quale condizione di impugnabilità del bando – 4.3 L’influenza del diritto europeo: la logica pro-concorrenziale e l’anticipazione della tutela. Il problema dell’overruling – 5. La giurisprudenza di primo grado sulla impugnazione immediata del criterio di aggiudicazione. Le pronunce “contrarie” all’indirizzo evolutivo - 5.1 Segue: Le pronunce “favorevoli” all’indirizzo evolutivo - 6. La Plenaria n.4/2018 conferma l’impostazione tradizionale – 6.1 L’assenza di legittimazione dell’impresa non partecipante (o definitivamente esclusa) dalla gara ad impugnare le clausole non escludenti – 6.2 La postergazione della tutela avverso il bando non immediatamente lesivo - 7. Conclusioni: il “ridimensionamento” del ruolo dell’interesse strumentale nel (nuovo) contenzioso appalti.

ATTI AMMINISTRATIVI: V. Parisio, La tutela dei diritti di accesso ai documenti amministrativi e alle informazioni nella prospettiva giurisdizionale (23.05.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Abstract [It]: L’Autrice analizza alcuni profili concernenti la protezione giurisdizionale riconosciuta alle diverse forme di accesso ai documenti amministrativi dagli artt. 116 e 133 del c.p.a. (d.lgs. n. 104 del 2010). I diversi tipi di accesso ai documenti e alle informazioni sono descritti nei loro principali elementi di differenziazione, sebbene il legislatore abbia stabilito lo stesso tipo di protezione giurisdizionale. Con particolare riferimento al diritto di accesso civico nelle sue due forme: semplice e generalizzato, viene evidenziato che l’ampia legittimazione riconosciuta in fase procedimentale non trova corrispondenza, in considerazione dei caratteri del processo amministrativo italiano, in quella prevista nella fase processuale davanti al giudice amministrativo, con la conseguenza che l’accesso civico rischia di perdere una gran parte della sua rilevanza e incisività.
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Sommario: 1. Introduzione - 2. I diritti di accesso davanti al giudice amministrativo - 2.1. Il rapporto tra diritto di accesso documentale e diritto di accesso civico - 2.2. Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e modelli processuali a confronto - 2.2.1. Un giudizio ibrido 3. Art. 116 c.p.a. e poteri del giudice amministrativo – 3.1. I poteri di accertamento e condanna del giudice tra accelerazioni e semplificazioni - 4. Diritti di accesso e azione popolare - 5. La tutela nei confronti del diniego e/o del silenzio nelle ipotesi di accesso civico – 6. Conclusioni.

EDILIZIA PRIVATA: E. Tatì, La sentenza TAR Toscana, Sez. III, 28.07.2017 n. 1009: un’occasione per riflettere sull’evoluzione dei regimi edilizi all’indomani del d.lgs. n. 222/2016 e sulla rigenerazione urbana (23.05.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Il fatto. 2. Il quadro normativo e i precedenti giurisprudenziali. 2.1. I regimi edilizi e le recenti modifiche. 2.2. Le categorie degli interventi edilizi e le interpretazioni giurisprudenziali. 2.3. La zona omogenea A e i centri storici. 2.4. La legislazione della Regione Toscana sul governo del territorio: regimi, interventi e valorizzazione dell’esistente. 2.5. Gli sviluppi recenti della regolazione urbanistica ed edilizia del Comune di Firenze: verso la rigenerazione e la valorizzazione dell’esistente. 3. La sentenza. 4. Conclusioni: l’evoluzione continua dei regimi edilizi e la rigenerazione urbana.

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Regolamento per gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, come modificato dall’art. 76 del D.Lgs. 19.04.2017, n. 56 - Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI, quaderno n. 12 del maggio 2018).
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Ecco il fac-simile di regolamento in formato .doc compilabile/modificabile a piacimento.

EDILIZIA PRIVATA: Sismabonus: la detrazione spetta anche in caso di demolizione e fedele ricostruzione (27.04.2018 - tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Impianti fotovoltaici e autorizzazione paesaggistica (07.04.2018 - link a www.dirittopa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: A. Galbiati, Codice dell'ambiente: tabella riepilogativa dei termini nei procedimenti di VAS e VIA (05.04.2018 - link a www.dirittopa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Codice dei beni paesaggistici: tabella riepilogativa dei termini (04.04.2018 - link a www.dirittopa.it).

URBANISTICA: L. Spallino, Consumo di suolo: l.r. Lombardia n. 31/2014 e proroga della validità dei Documenti di Piano (03.04.2018 - link a www.dirittopa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: V. Riello, L’agente provocatore tra esigenze politico-criminali e diritti inviolabili (De Iustitia n. 2/2018 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Evoluzione dell’agente provocatore fino alla sua tipizzazione. - 3. Il dibattito dottrinale sulla punibilità dell’agente provocatore. - 3.1 Il reato impossibile. - 3.2. Cause di esclusione dell’antigiuridicità: a) art. 50 c.p.: il consenso dell’avente diritto; b) art. 51 c.p.: l’adempimento del dovere; c) art. 52 c.p.: la legittima difesa; d) scriminante atipica: l’azione socialmente adeguata. - 3.3. Assenza di colpevolezza. - 4. La posizione della giurisprudenza nazionale. - 5. La posizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La responsabilità del provocato. - 6. Le figure specifiche di agente provocatore: il fictus emptor e il soggetto passivo del reato. - 7. Riflessioni conclusive.

APPALTI: A. Foglia, La disciplina dei contratti misti alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici: il global service (De Iustitia n. 2/2018 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: Premessa. 1. I contratti misti stipulati dalla Pubblica Amministrazione. - 2. Il contratto di global service. - 3. Brevi conclusioni.

INCARICHI PROFESSIONALI: N. Durante, Qualificazione giuridica e rilevanza sociale dell’incarico tecnico-professionale affidato dalla stazione appaltante in assenza di corrispettivo economico (22.03.2018 - tratto da www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino – A. Galbiati – F. Donegani, Le fasce di rispetto cimiteriali, inedificabilità assoluta o derogabilità? I piani cimiteriali e i PGT (02.03.2018 - tratto da www.dirittopa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: L’attuazione negli Enti Locali del nuovo Regolamento UE n. 679/2016 sulla protezione dei dati personali - Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI, quaderno n. 11 del gennaio 2018).

A.N.AC.

LAVORI PUBBLICI: Livello di progettazione necessario per l’affidamento di una concessione di lavori (delibera 09.05.2018 n. 437 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Linee guida art. 84, comma 12, del codice dei contratti pubblici. Possibili sistemi alternativi per la qualificazione degli operatori economici (Comunicato del Presidente 09.05.2018 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Linee Guida n. 2, di attuazione del D.lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti “Offerta economicamente più vantaggiosa” - Approvate dal Consiglio dell’Autorità con Delibera n. 1005, del 21.09.2016. Aggiornate al D.lgs 19.04.2017, n. 56 con Delibera del Consiglio n. 424 del 02.05.2018 (delibera 02.05.2018 n. 424 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Rassegna ragionata delle massime di precontenzioso in tema di “avvalimento” e “soccorso istruttorio” anno 2017 (aprile 2018).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOTriennio riferimento per calcolo resti assunzionali.
Domanda
Qual è il giusto periodo da prendere a riferimento per calcolare il triennio precedente ai fini del turn-over?
Risposta
Come noto, l’art. 3, comma 5, del D.L. 90/2014 consente di cumulare il budget assunzionale non utilizzato per un arco di tre anni rispetto all’anno in cui tale capacità cumulata viene spesa. Detto x l’anno in cui si vuole spendere un budget assunzionale formato nell’anno x-3 sulla base delle cessazioni avvenute nell’anno x-4, si tratta di chiarire se, per non perdere tale capacità assunzionale, sia sufficiente programmare il reclutamento nell’anno x, oppure sia invece necessario che in tale anno sia bandito il concorso, oppure anche assunto il vincitore.
Con deliberazione n. 18/2018/PAR del 23.05.2018, la Corte dei Conti – Sezione regionale di controllo per la Sardegna ha chiarito che per individuare il “triennio precedente” ai fini della determinazione dei resti delle capacità assunzionali ancora utilizzabili si deve fare riferimento alla programmazione dei fabbisogni di personale.
È infatti in tale contesto che l’ente verifica le esigenze di personale, la ricorrenza dei presupposti per procedere a nuove assunzioni e il rispetto dei vincoli di spesa. Per individuare il triennio di provvista del budget assunzionale bisognerà fare riferimento al primo anno considerato dal piano dei fabbisogni, e risalire a ritroso fino al terzo anno antecedente tale anno.
Per utilizzare la capacità derivante dai resti assunzionali di tre anni prima è quindi sufficiente che un’assunzione sia programmata nel primo anno del piano dei fabbisogni, anche se poi, in concreto, l’assunzione si perfeziona in un momento successivo (14.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIRotazione e numero minimo di appaltatori.
Domanda
Considerato quanto previsto dall’articolo 36 del codice dei contratti e dalle Linee Guida ANAC n. 4 circa il numero minimo di soggetti da invitare ai procedimenti di gara (in particolare stiamo predisponendo l’avviso pubblico per l’aggiudicazione di una fornitura (…) di importo di 60 mila euro, IVA esclusa) ci siamo posti questo problema: qualora ad un avviso di indagine di mercato senza limitazione di partecipazione manifestino interesse in numero inferiore rispetto al minimo previsto dalla normativa, come si deve comportare la Stazione appaltante?
Il RUP può invitare soli i soggetti manifestanti? Oppure è opportuno e corretto indicare nell’avviso tale scelta? E nel caso di avviso nel quale era previsto il sorteggio la situazione è diversa?
Risposta
La problematica posta nel quesito, oggettivamente, è attuale e richiede una risposta articolata anche perché, a ben valutare, non è dato rinvenire un sicuro approdo chiarificatore né nella norma del codice ma neppure nelle linee di guida (che a questo avrebbero dovuto tendere).
Le recenti linee guida ANAC n. 4 (in tema di acquisizione degli appalti sotto la soglia comunitaria), adeguate alle modifiche apportate con il decreto legislativo correttivo n. 56/2017 prevedono la possibilità di predisporre un avviso a manifestare interesse senza che il RUP si ponga il problema della rotazione.
Nel senso che, se pubblica un avviso “aperto” chiarendo che tutti gli operatori che manifestassero interesse verranno invitati al procedimento, allo stesso potranno presentare offerta sia il pregresso affidatario sia i soggetti già invitati al pregresso procedimento (avente lo stesso oggetto od oggetto riconducibile alla stessa categoria, settore, servizio).
Se l’avviso è “aperto” è opportuno che il RUP lo chiarisca immediatamente non potendo successivamente applicare la rotazione (in questo senso il Tar Sardegna, Cagliari, sentenza n. 492/2018).
Allo stesso modo, se il RUP –perché magari ciò è previsto in un regolamento interno della stazione appaltante o in un indirizzo di tipo generale, ad esempio fissato dal dirigente/responsabile del servizio o dal piano di prevenzione della corruzione– intendesse utilizzare la rotazione, naturalmente, dovrà specificare nell’avviso che il pregresso affidatario non verrà invitato né verranno invitati i soggetti che siano già stati invitati al pregresso procedimento (sempre che il contratto da affidare sia “uguale” e si tratti di evitare, in sostanza, una scorretta continuità di affidamenti).
Correttamente, nel quesito si pone l’ulteriore questione –non disciplinata da norme (ma come si vedrà già affrontata in giurisprudenza)– del caso in cui manifestino interesse a partecipare alla gara un numero esiguo di operatori economici (e magari lo stesso pregresso affidatario).
Il problema, in questo caso, è comprendere se il RUP debba estendere ulteriori inviti fino a giungere al numero minimo di appaltatori imposto dalla norma (nel caso del quesito) fino a 5 operatori o se un numero esiguo possa ritenersi sufficiente con conseguente invito solamente ai soggetti che hanno aderito alla richiesta di manifestazione di interesse.
La prima considerazione che occorre esprimere è quella di verificare in che modo ci si sia auto- vincolati con l’avviso pubblico.
E’ chiaro che se il RUP avesse scritto nell’avviso che a fronte di un numero esiguo di manifestazioni di interesse si sarebbe proceduto con ulteriori inviti in modo da impiguare la partecipazione fino al numero minimo degli appaltatori fissati dalla legge, a questo occorrerà attenersi.
Se invece il RUP nulla ha specificato, la stessa giurisprudenza ha chiarito che l’appalto semplificato si può svolgere con i soli soggetti che abbiano manifestato interesse anche se sono in numero inferiore al minimo fissato dalla norma (la sentenza del Tar Cagliari sopra citata).
In sostanza, è come se il mercato avesse espresso solamente quei soggetti e non risulta possibile reperirne ulteriori (sempre che l’avviso sia stato pubblico per un termine congruo e siano stati rispettati i principi di trasparenza e pubblicità).
Pertanto, salvo limitazioni interne (poste nell’avviso o in specifici regolamenti), qualora un numero minimo di appaltatori abbia manifestato interesse (meno di 5) l’appalto potrà essere svolto invitando solo questi soggetti.
Se il RUP avesse indicato nell’avviso l’intendimento di applicare il principio di rotazione si pone il problema del rispetto di tale indicazione in presenza di un numero irrisorio di partecipanti.
Anche in questo caso la giurisprudenza ha chiarito che in presenza di un numero minimo di operatori il RUP può non applicare la rotazione e non estromettere, ad esempio, il pregresso affidatario che abbia manifestato interesse a partecipare alla gara semplificata. Le ragioni che legittimano questo comportamento poggiano sul fatto che estromettendo la pregressa affidataria viene meno il principio della concorrenza.
Alla luce di quanto evidenziato, sotto il profilo pratico, si ritiene che nell’avviso debba essere precisato, in caso si ritenesse di applicare il principio della rotazione, che l’alternanza verrà applicata solo se il numero dei soggetti che manifestassero interesse a partecipare alla competizione è superiore a 5. Precisando anche che nel caso di un numero inferiore non si darà seguito –per ragioni di concorrenza– alla rotazione (13.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIPubblicazione dati spese rappresentanza.
Domanda
In quale sotto-sezione di Amministrazione trasparente vanno pubblicate le spese di rappresentanza sostenute dagli organi di governo, del comune?
Risposta
Nel decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, anche nella versione ampiamente modificata e integrata dal d.gs. 25.05.2016, n. 97, non compare mai la locuzione “spese di rappresentanza”, né la medesima voce è presente nel cosiddetto Albero della trasparenza, approvato, da ultimo, dall’ANAC, come allegato 1, alla deliberazione n. 1310 del 28.12.2016.
L’obbligo di pubblicare le spese di rappresentanza, sostenute dagli organi di governo degli enti locali, è previsto all’articolo 16, comma 26, del decreto legge 13.08.2011, convertito, con modificazioni ed integrazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148.
Il testo della disposizione recita: "26. Le spese di rappresentanza sostenute dagli organi di governo degli enti locali sono elencate, per ciascun anno, in apposito prospetto allegato al rendiconto di cui all’articolo 227 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000. Tale prospetto è trasmesso alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti ed è pubblicato, entro dieci giorni dall’approvazione del rendiconto, nel sito internet dell’ente locale. Con atto di natura non regolamentare, adottato d’intesa con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali ai sensi dell’articolo 3 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, il Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, adotta uno schema tipo del prospetto di cui al primo periodo.".
In pratica, il prospetto delle spese sostenute deve risultare nel rendiconto di gestione, approvato entro il 30 aprile dell’anno successivo, dal Consiglio comunale. Il prospetto deve essere trasmesso alla Sezione regionale della Corte dei conti e pubblicato entro dieci giorni dall’approvazione, su: Amministrazione trasparente > Bilanci > Bilancio preventivo e consuntivo.
Il già citato allegato 1, alla delibera ANAC n. 130/2016, per tale sezione prevede l’obbligo di pubblicare “Documenti e allegati del bilancio consuntivo, nonché dati relativi al bilancio consuntivo di ciascun anno in forma sintetica, aggregata e semplificata, anche con il ricorso a rappresentazioni grafiche” (art. 29, comma 1, d.lgs. 33/2013) ed anche “Dati relativi alle entrate e alla spesa dei bilanci consuntivi in formato tabellare aperto in modo da consentire l’esportazione, il trattamento e l’utilizzo” (art. 29, comma 1-bis, d.lgs. 33/2013).
Per completezza di informazione, si fa presente che in attuazione dell’art. 29, comma 1-bis, del d.lgs. 33/2013, è stato adottato il DPCM 22.09.2014, successivamente modificato dal DPCM 29.04.2016, recante “Definizione degli schemi e delle modalità per la pubblicazione su internet dei dati relativi alle entrate e alla spesa dei bilanci preventivi e consuntivi e dell’indicatore annuale di tempestività dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni”.
In ultimo, si evidenzia che alcuni enti, oltre all’obbligo sopra meglio ricordato, hanno previsto la pubblicazione del prospetto delle spese di rappresentanza anche nella sezione Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Dati ulteriori. L’obbligo è sempre relativo ai dati degli ultimi cinque anni (12.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Gli acquisti.
DOMANDA:
Dalle tabelle consip emerge che per gli acquisti informatici degli enti locali è possibile utilizzare il Mepa (strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip ecc.).
Si chiede se sia sufficiente procedere con rdo o gara secondo gli importi sul Mepa.
Per quanto riguarda le convenzioni Consip su prodotti diversi da forniture specifiche (carburanti, energia ecc) ad esempio efficientamento pubblica illuminazione si chiede se sia possibile aderire con eventuale personalizzazione senza procedere a nuova gara.
RISPOSTA:
   - Va ricordato che sul Mercato Elettronico della PA (MEPA) le Amministrazioni possono acquistare beni o servizi di valore inferiore alla soglia comunitaria tramite due alternativi canali d’acquisto e cioè o tramite Ordini Diretti d’Acquisto (ODA) o tramite Richieste di Offerta (RDO);
   - Con gli ODA, l’Amministrazione acquista il bene/servizio direttamente dal Catalogo del fornitore abilitato, compilando e firmando digitalmente l’apposito modulo d’ordine presente sul Portale;
   - Se procede con l’Ordine Diretto questo ha l’efficacia di accettazione dell’offerta contenuta nel Catalogo del fornitore, e quindi il contratto di fornitura si perfeziona nel momento in cui l’Ordine viene ricevuto e registrato nel sistema dall’Amministrazione;
   - La trattativa diretta si configura in sostanza come una modalità di negoziazione, semplificata rispetto alla tradizionale RDO, rivolta ad un unico operatore economico;
   - Tale trattativa può essere peraltro avviata da un’offerta a catalogo o da un oggetto generico di fornitura (metaprodotto) presente nella vetrina della specifica iniziativa merceologica;
   - Quindi non sussistendo l’esigenza di garantire pluralità di partecipazione, tale sistema non presenta le usuali e tipiche richieste di informative (criterio di aggiudicazione, parametri di peso/punteggio, invito dei fornitori, gestione dei chiarimenti, gestione delle Buste di Offerta, fasi di aggiudicazione), essendo indirizzata ad un unico Fornitore (dal punto di vista normativo il fondamento va individuato nella disciplina dell’affidamento diretto, con procedura negoziata di cui ai sensi dell’art. 36, comma 2, lettera A) del codice dei contratti pubblici e della procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando, con un solo operatore economico, di cui all’art. 63 d.lgs. 50/2016 (per importi fino al limite della soglia comunitaria nel caso di beni e servizi, per importi fino a 1 milione di € nel caso di lavori di manutenzione);
   - Con le Richieste d’Offerta (RDO), invece, l’Amministrazione individua e descrive i beni/servizi che intende acquistare, invitando i fornitori abilitati a presentare le specifiche offerte che saranno oggetto di confronto concorrenziale;
   - Il sistema predispone automaticamente una graduatoria delle offerte ricevute sulla base dei criteri di valutazione scelti dall'Amministrazione appaltante, che aggiudicherà la fornitura all'offerta risultata prima in graduatoria (in particolare ai sensi dell’art. 52 delle Regole di E-procurement della PA (disponibili sul Portale www.acquistinretepa.it), il Contratto di fornitura che segue ad una RDO si intende validamente perfezionato nel momento in cui il Documento di Accettazione dell’Offerta, sottoscritto digitalmente, risulta caricato a sistema dall’ente aggiudicatore;
   - Per quanto attiene all'altra problematica posta relativa all'efficientamento del servizio di pubblica illuminazione si rileva che, come osservato dall'ANAC, con il Comunicato del Presidente del 14.12.2016, trattasi di un servizio pubblico locale avente rilevanza economica ed il cui affidamento, come tale, risulta assoggettato alla disciplina comunitaria, mediante procedure ad evidenza pubblica (cd. esternalizzazione), attraverso l’appalto di lavori e/o servizi, la concessione di servizi con la componente lavori, il project financing ovvero il finanziamento tramite terzi (FTT);
   - Resta salvo l’affidamento ad una società mista pubblico-privata, nonché l’affidamento diretto a società a totale capitale pubblico corrispondente al modello cd. in house providing;
   - Inoltre, la scelta sulla gestione del servizio di pubblica illuminazione deve essere preceduta dalla pubblicazione della relazione di cui all’art. 34, comma 20, del D.L. 179/2012, da cui risultino le ragioni della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

PUBBLICO IMPIEGORiproporzionamento permessi.
Domanda
Come vanno riproporzionate nei part-time verticali le 18 ore annue di permesso retribuito disciplinato all’art. 32 del CCNL del 21.05.2018?
Risposta
L’articolo 32 del contratto sottoscritto il 21 maggio scorso, disciplina i permessi orari per particolari motivi personali o familiari, fruibili complessivamente nel tetto massimo delle 18 ore annue. La norma precisa che questi permessi non possono essere cumulati con altri permessi orari disciplinati da fonte legale e/o contrattuale; tuttavia, possono essere utilizzati anche per coprire l’assenza dell’intera giornata lavorativa. In questo caso, l’incidenza dell’assenza sul monte ore a disposizione del dipendente è convenzionalmente pari a 6, prescindendo quindi dal numero delle ore teoriche che il lavoratore avrebbe dovuto rendere in caso di presenza in servizio.
Dettando le istruzioni di applicazione dell’istituto il contratto precisa che detti permessi orari, in caso di rapporto di lavoro a tempo parziale devono essere riproporzionati.
Il contatto, nel definire la regola del riproporzionamento, non opera alcuna distinzione tra rapporto di lavoro in regime di part-time orizzontale e verticale. L’ipotesi interpretativa volge a ritenere che il riproporzionamento vada fatto non soltanto sul montante complessivo delle ore a disposizione (se il part time è al 50% le ore di permesso sono 9) ma anche sulla durata convenzionale della giornata di lavoro di un part-time verticale, qualora venissero fruiti per coprire l’assenza di una intera giornata lavorativa.
Meno plausibile appare l’ipotesi interpretativa del riproporzionamento dei corrispondenti tre giorni derivanti dall’equivalenza 6h per 3 gg = 18h.
Questo in ragione del fatto che i permessi nascono come permessi orari e non come permessi giornalieri (07.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVIDati Comitato Unico di Garanzia CUG.
Domanda
Nel nostro Ente è stato da poco nominato il Comitato Unico di Garanzia (CUG). In quale sezione di Amministrazione Trasparente deve essere pubblicato il provvedimento di nomina?
Risposta
Il “Comitato Unico di Garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni” (acronimo: C.U.G.) opera all’interno delle Amministrazioni al fine di garantire parità e pari opportunità tra uomini e donne, oltre a verificare l’assenza di ogni forma di discriminazione e di violenza, diretta e indiretta, nell’accesso al lavoro, nel trattamento e nelle condizioni di lavoro, nella formazione professionale, nelle promozioni e nella sicurezza sul lavoro.
La normativa di riferimento (legge 04.11.2010, n. 183) prevede che ciascuna Amministrazione istituisca –senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica– il C.U.G. che assume tutte le funzioni dei comitati per le pari opportunità e dei comitati paritetici sul fenomeno del mobbing, costituiti in applicazione della contrattazione collettiva, sostituendoli ed unificando le competenze in un solo organismo.
Analizzando il provvedimento di nomina del C.U.G. –nell’ambito della disciplina sulla Trasparenza– ci si trova di fronte ad un “dato residuale”, rispetto al novero dei contenuti soggetti a precisi obblighi di pubblicazione, definiti nel Decreto Trasparenza (decreto legislativo 33/2013).
Le modificazioni introdotte dal Decreto Legislativo 97/2017 hanno, infatti, rimosso una sotto sezione dedicata proprio a questa tipologia di informazioni, denominata > BENESSERE ORGANIZZATIVO.
In assenza di una sottosezione specifica, pertanto, il provvedimento di nomina del C.U.G. può essere, opportunamente, collocato in Amministrazione trasparente> Altri contenuti > Dati ulteriori.
L’ANAC, sul punto, consiglia ad ogni Amministrazione di pubblicare dati ulteriori oltre a quelli espressamente indicati e richiesti dalla legge, in una logica di piena apertura verso l’esterno. Tali contenuti ulteriori dovrebbero essere previsti nell’ambito del Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e la Trasparenza (PTPCT) (05.06.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIMancata convocazione consiglio comunale straordinario. Applicazione dell’art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000.
Sintesi/Massima
Convocazione consiglio comunale ex art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000.
 Il diritto ex art. 39, comma 2, " ... è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve di venti giorni” (TAR Puglia, Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
Qualora l’intenzione dei proponenti non sia diretta a provocare una delibera in merito del Consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell’art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella competenza del Consiglio comunale in qualità di “ … organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo” anche la trattazione di “questioni” che, pur non rientrando nell’elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di “questioni” e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2, dell’art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale.

Testo
E’ stato chiesto un parere in ordine all’applicazione dell’art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000.
Alcuni consiglieri del comune in oggetto, in numero superiore a un quinto, hanno segnalato la mancata convocazione del consiglio da parte del vicesindaco, nella veste di Presidente del consiglio comunale, malgrado fosse stata presentata apposita istanza ai sensi del citato art. 39, comma 2.
Il presidente del consiglio ha riferito di non aver provveduto alla convocazione dell’assemblea in quanto la relativa istanza non risultava essere corredata da una proposta di delibera, come richiesto dall’art. 24 del regolamento per il funzionamento del consiglio comunale.
Al riguardo va rilevato che il diritto ex art. 39, comma 2, "... è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve di venti giorni” (TAR Puglia, Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
L'orientamento che vede riconosciuto e definito “... il potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del Consiglio medesimo” come “diritto” dal legislatore è, quindi, ormai ampiamente consolidato (sentenza TAR Puglia, Lecce, Sez. I del 04.02.2004, n. 124).
La questione sulla sindacabilità dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, si è orientata nel senso che al Presidente del Consiglio spetti solo la verifica formale della richiesta prescritto numero di consiglieri, non potendo comunque sindacarne l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, “al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno” (TAR Piemonte, n. 268/1996, Tar Sardegna, n. 718 del 2003 ).
Si soggiunge che il TAR Sardegna, con la sentenza n. 718 del 2003, ha respinto un ricorso avverso un provvedimento prefettizio ex art. 39, comma 5, del citato decreto legislativo in quanto, ad avviso del giudice amministrativo, il Prefetto non poteva esimersi dal convocare d’autorità il Consiglio Comunale, “essendosi verificata l’ipotesi di cui all’art. 39 del T.U.O.E.L. n. 267/2000”.
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne debba rinviare la discussione (questione sospensiva) (TAR Puglia, Lecce, Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre TAR Puglia, Lecce, Sez. 1, 04.02.2004,n.124).
Va peraltro rilevato che l’art. 43 del T.U.O.E.L. demanda alla potestà statutaria e regolamentare dei Comuni e delle province la disciplina delle modalità di presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative risposte, che devono comunque essere fornite entro trenta giorni.
Con riguardo a quest’ultimo ambito, occorre osservare che, qualora l’intenzione dei proponenti non sia diretta a provocare una delibera in merito del Consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell’art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella competenza del Consiglio comunale in qualità di “
organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo” anche la trattazione di “questioni” che, pur non rientrando nell’elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo. Del resto, la dizione legislativa che parla di “questioni” e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2, dell’art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale.
Sulla base di tali argomentazioni, si ritiene, pertanto, che il Prefetto sia tenuto alla applicazione della normativa prevista dall’art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, invitando il presidente del consiglio comunale a voler provvedere alla convocazione dell’assemblea.
Si soggiunge, per completezza, che l’ente potrebbe valutare l’opportunità di modificare l’art. 24 del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale nella parte in cui prevede che la richiesta di convocazione sia corredata da uno “schema di deliberazione”. Ciò in quanto la normativa in parola, limitando all’esame delle “deliberazioni” la possibilità di accedere all’istituto previsto dall’art. 39, comma 2, citato, restringe il perimetro dei diritti riconosciuti ai consiglieri comunali dalla legge statale.
Infine, si precisa che l’adozione da parte dell’ente locale di una specifica normativa regolamentare in materia di atti di sindacato ispettivo non impatta in alcun modo sul diverso istituto disciplinato dall’art. 39 citato dal momento che quest’ultimo riguarda atti esercitabili da un quinto dei consiglieri mentre il diritto di presentare interrogazioni, mozioni o ordini del giorno è riconosciuto al consigliere comunale anche singolarmente (01.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

PUBBLICO IMPIEGOPrevisione turno spezzato.
Domanda
Nell’ambito di un’organizzazione del lavoro per turni, può essere istituito un turno spezzato?
Risposta
Le modalità di turnazione dei dipendenti degli enti locali sono contenute nell’art. 22 del CCNL del 14.09.2000 ed i primi quattro commi ne disciplinano l’effettiva ricorrenza: “1. Gli enti, in relazione alle proprie esigenze organizzative o di servizio funzionali, possono istituire turni giornalieri di lavoro. Il turno consiste in un’effettiva rotazione del personale in prestabilite articolazioni giornaliere.
2. Le prestazioni lavorative svolte in turnazione, ai fini della corresponsione della relativa indennità, devono essere distribuite nell’arco del mese in modo tale da far risultare una distribuzione equilibrata e avvicendata dei turni effettuati in orario antimeridiano, pomeridiano e, se previsto, notturno, in relazione alla articolazione adottata nell’ente.
3. I turni diurni, antimeridiani e pomeridiani, possono essere attuati in strutture operative che prevedano un orario di servizio giornaliero di almeno 10 ore.
4. I turni notturni non possono essere superiori a 10 nel mese, facendo comunque salve le eventuali esigenze eccezionali o quelle derivanti da calamità o eventi naturali. Per turno notturno si intende il periodo lavorativo ricompreso tra le 22 e le 6 del mattino
”.
Il turno consiste perciò in un’effettiva rotazione del personale in prestabilite articolazioni giornaliere dell’orario di lavoro, che presuppongono l’esistenza di una programmazione dei turni di lavoro.
Tali articolazioni giornaliere dell’orario di lavoro, secondo una sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza n. 8254/2010), per dar luogo all’erogazione della relativa indennità devono avere le seguenti caratteristiche generali, contemporaneamente ricorrenti:
   a) un orario di servizio di almeno 10 ore;
   b) l’orario di servizio deve essere continuativo e non può prevedere interruzioni;
   c) distribuzione equilibrata e avvicendata dei turni nell’arco del mese.
La condizione di cui alla lettera b) –un orario di servizio continuativo che non può prevedere interruzioni– contenuta nella citata sentenza della Corte Cassazione, non è rinvenibile nella lettera dell’art. 22 del CCNL del 14.09.2000, ed è possibile desumerla solo in via interpretativa.
Di recente l’ARAN ha pubblicato un parere (RAL_1968) confermando l’orientamento della Cassazione, ripercorrendo le condizioni legittimanti la corresponsione dell’indennità di turno, e ribadendo l’impossibilità di ricondurre alla disciplina del turno la fattispecie del cosiddetto “turno spezzato” sulla base del presupposto che l’effettiva rotazione tra i turni è garantita a condizione che non via sia soluzione di continuità tra un turno e l’altro e che gli stessi siano continuativi.
Disciplina peraltro confermata nell’art. 23, comma 3, lett. b), del contratto collettivo la cui ipotesi è stata sottoscritta il 21.02.2018 (31.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIDiritto di accesso dei consiglieri comunali.
Sintesi/Massima
Al consigliere comunale che abbia difficoltà di accesso alla strumentazione informatica non potrebbe negarsi il rilascio anche di copie cartacee (conforme, parere C.d.S. 02183/2014 del 27/06/2014) di atti che non siano complessi e voluminosi.
E’ legittima l’eventuale previsione di disposizioni che consentono l’utilizzo da parte dei consiglieri di apparecchiature di proprietà dell’Ente, al fine proprio di agevolare il corretto svolgimento delle funzioni istituzionali.

Testo
Due consiglieri del Comune di …, lamentando la presunta illegittimità delle modifiche introdotte nel nuovo regolamento del Consiglio comunale in materia di diritto al rilascio di copie di atti e documenti in favore dei consiglieri, hanno chiesto un parere da parte di questa Direzione Centrale sia in ordine alla legittimità del rifiuto dell’Amministrazione di consegnare i documenti in formato cartaceo e sia all’obbligo per l’Ente di fornire la strumentazione informatica al consigliere che ne faccia richiesta.
Al riguardo, si evidenzia che il “diritto di accesso” dei consiglieri comunali riconosciuto dall’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell’ente) e non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazione al diritto stesso (Consiglio di Stato, sez. V, n. 6963/2010).
Proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del Comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr. parere del 29.11.2009). Inoltre, appare utile segnalare che il Tribunale Amministrativo Regionale della Sardegna con la sentenza n. 29/2007 ha ritenuto che “la notevole mole della documentazione da consegnare può, nel caso, giustificare la distribuzione nel tempo del rilascio delle copie richieste”.
Qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, appare, altresì, legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee (v. C.d.S. n. 6742/07 del 28/12/2007).
Tale modalità è conforme alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82 del 07.03.2005), che all'art. 2, prevede che anche “le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate e nel modo più adeguato al soddisfacimento degli interessi degli utenti le tecnologie dell'informazione e della comunicazione”.
Rilevata, dunque, la legittimità delle norme regolamentari che dispongono il rilascio di copie degli atti in formato digitale, parimenti, dovendosi garantire il diritto ad esercitare la propria funzione, al consigliere comunale che abbia difficoltà di accesso alla strumentazione informatica non potrebbe negarsi il rilascio anche di copie cartacee (conforme, parere C.d.S. 2183/2014 del 27/06/2014) di atti che, comunque, ad avviso di questa Direzione Centrale, non siano complessi e voluminosi.
Parimenti, in virtù dell’art. 38, comma 2 del d.lgs. n. 267/2000 che, tra l’altro, riconosce autonomia funzionale e organizzativa ai consigli, i quali con norme regolamentari fissano le modalità per acquisire servizi, attrezzature e risorse finanziarie, anche in favore dei gruppi consiliari regolarmente costituiti, appare legittima l’eventuale previsione di disposizioni che consentono l’utilizzo da parte dei consiglieri di apparecchiature di proprietà dell’Ente, al fine proprio di agevolare il corretto svolgimento delle funzioni istituzionali (30.05.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

APPALTIRotazione e appalto quantitativamente diverso.
Domanda
Come RUP sto predisponendo un avviso a manifestare interesse per l’aggiudicazione di un appalto di servizi ed ora sto affrontando la questione della rotazione. L’appalto, tengo a precisare, non è identico al precedente, nel senso che pur avendo lo stesso oggetto in questo caso sarà triennale (e non più annuale).
Studiando la recente giurisprudenza, alcuni commenti e, soprattutto le linee guida n. 4 –come recentemente modificate– ho qualche dubbio sull’applicazione “integrale” della rotazione. In sostanza, vorrei capire se posso effettivamente escludere anche dalla partecipazione a manifestare interesse l’attuale affidataria (l’appalto scade tra qualche settimana) o se, con una debita motivazione posso ammetterne la partecipazione.
Risposta
Effettivamente, la questione della rotazione o dell’alternanza dell’affidatario e degli inviti è tutt’altro che chiarita anche con le nuove linee guida n. 4 (adeguate con la recente deliberazione ANAC n. 206/2018).
Le deroghe, infatti ed a ben vedere, sembrano comunque rimesse alla necessità di adottare un regolamento (o al limite un indirizzo generale) o alla formalizzazione delle cc.dd. fasce di importo (nel caso di appalti uguali o riconducibili allo stesso settore).
Al netto di queste ipotesi sembra farsi strada in giurisprudenza –in particolare quella recentissima– una importante indicazione operativa desumibile dalle stesse linee guida ma anche dal dato esperienziale pratico.
Se il procedimento contrattuale si atteggia come aperto senza limitazione alcuna (e quindi senza riferimento alla rotazione) e tutti i soggetti che abbiano manifestato interesse vengano invitati a partecipare alla competizione, motivando quindi anche l’invito al pregresso affidatario (con riferimento alla struttura del mercato) la competizione può svolgersi anche con il precedente appaltatore e questi –se presenta una offerta migliore– può anche aggiudicarsi l’appalto.
Il RUP, e questo è fondamentale, se non stabilisce a monte del procedimento (già in fase di avviso o di inviti) alcun vincolo circa l’alternanza non potrà sollevarla successivamente in fase di aggiudicazione (di recente il Tar Sardegna, Cagliari, sezione I, con la sentenza del 22.05.2018 n. 492).
Venendo al caso specifico di un mutamento di tipo “quantitativo” ovvero un nuovo appalto triennale (mentre quello precedente era di durata annuale), ovviamente di diverso importo, l’ipotesi sembrerebbe rientrare nella deroga delle fasce di importo che, a leggere dalle linee guida sembrano esigere un atto “generale” della stazione appaltante (declinate in un regolamento ad esempio).
E questa posizione sembra anche condivisibile perché non si può pensare che ogni RUP decida discrezionalmente come atteggiare la competizione e quindi, a piacimento applicare o disattendere la rotazione.
Anche in questo caso sopravviene, però, recente giurisprudenza che sembra considerare il nuovo appalto, che differisca sotto il profilo “quantitativo” rispetto al precedente a stesso oggetto, come un gara diversa circostanza che di per sé finisce per rendere illegittima l’eventuale inibizione alla partecipazione del pregresso appaltatore. In questo senso si è espresso il Tar Friuli Venezia Giulia, sez. I, con la sentenza n. 166/2018.
Nel caso di specie, si trattava di appalto (ex art. 36 del codice) per la “concessione biennale del servizio di somministrazione bevande/merende a favore dei dipendenti INPS FVG e di uso dello spazio pubblico presso alcune Sedi INPS FVG, mediante acquisizione in comodato d’uso di molteplici distributori automatici”. Il precedente appalto riguardava solo alcune sedi regionali (con 7 distributori) mentre il nuovo appalto, relativo ad un territorio più ampio prevedeva il servizio con 22 distributori.
La stazione appaltante non ha ammesso in gara il precedente appaltatore ed il giudica ha annullato tale decisione fondandola proprio sulla differenza tra i due contratti.
In sostanza, dalla sentenza emergono nuovi limiti all’attività istruttoria del RUP che può applicare integralmente la rotazione solo per evitare la continuità di affidamenti che si pongano come una costante “rinnovazione” dello stesso contratto.
Nel caso di specie, pertanto, a sommesso parere si può ritenere che l’inibizione alla partecipazione alla gara del pregresso appaltatore possa ritenersi non corretta. Sempre che venga assicurata la totale partecipazione di ogni soggetto che possa avere interesse a partecipare all’appalto semplificato (30.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

PATRIMONIODevoluzione del patrimonio sociale a scopi di pubblica utilità.
Le società espressione del “cooperativismo sociale” hanno l’obbligo di prevedere nei propri statuti la devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale –dedotto soltanto il capitale versato e i dividendi eventualmente maturati– a scopi di pubblica utilità conformi allo spirito mutualistico.
Il Comune, nel riferire di essere proprietario di un immobile allo stesso trasferito da una società in liquidazione, chiede un parere circa la destinazione a pubblica utilità del bene stesso, atteso l’onere posto nell’atto di trasferimento della proprietà immobiliare in riferimento.
Più in particolare, ai fini di chiarire la situazione in essere, precisa di avere ricevuto, nell’anno 1997, da una società “latteria sociale turnaria”, ormai sciolta e posta in liquidazione, a titolo di devoluzione del patrimonio sociale, un immobile con l’obbligo, espressamente indicato nel contratto di cessione, “di destinare il bene a pubblica utilità e in particolare a sede delle varie associazioni culturali, sportive, ricreative e simili”.
Tanto premesso, l’Ente riferisce di aver concesso una parte dell’indicato fabbricato in favore delle associazioni culturali, sportive e ricreative locali e che ulteriori sale del medesimo immobile sono state destinate ad uso civico e centro di aggregazione giovanile attrezzato, nonché all’occorrenza, quale luogo per seggi elettorali.
Nel precisare di aver soddisfatto “tutte le richieste di locali per gli scopi sociali di cui sopra”, l’Ente avrebbe intenzione di locare una unità abitativa del fabbricato in riferimento, utilizzando le somme che percepirebbe a titolo di canone per “recuperare almeno in parte i costi di gestione e manutenzione che l’immobile richiede”. Desidera, a tal fine, sapere se una tale volontà contrasti o meno con l’onere apposto nell’atto di devoluzione.
In via preliminare, si osserva che i pareri espressi da questo Ufficio in materia giuridico-amministrativa sono privi di qualsiasi efficacia vincolante. In particolare, con riferimento alla fattispecie in essere giova da subito precisare che, ferme le considerazioni che nel prosieguo verranno espresse, l’interpretazione delle clausole contrattuali compete unicamente alle parti contraenti o, in caso di contestazione, all’autorità giudiziaria eventualmente adita.
Tutto ciò premesso, si osserva che le società espressione del “cooperativismo sociale” hanno l’obbligo di prevedere nei propri statuti la “devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale –dedotto soltanto il capitale versato e i dividendi eventualmente maturati– a scopi di pubblica utilità conformi allo spirito mutualistico
[1].
La finalità delle norme volte a porre tale vincolo di destinazione al patrimonio residuo di tali società è stata concordemente identificata in quella di “garantire che i benefici conseguiti grazie alle agevolazioni previste per incentivare lo scopo mutualistico non siano destinati allo svolgimento di un’attività priva di tale carattere e, comunque, non siano fatti propri da coloro che ne hanno fruito”
[2]. Al contenuto dell’obbligo di devoluzione è stata fornita una interpretazione ampia “comprensiva di tutti i casi nei quali sussisteva l’esigenza di evitare che benefici conseguiti grazie alle agevolazioni stabilite in favore dell’attività mutualistica fossero eterodestinati rispetto a questo scopo[3].
Ciò premesso, pare che la finalità -di destinazione a pubblica utilità del bene- che la disposizione contrattuale, attuativa di norme di legge, mira a realizzare possa considerarsi non disattesa qualora una parte dell’immobile venga concessa in locazione col vincolo della destinazione delle somme riscosse a titolo di canone locatizio per sopperire alle spese di gestione e manutenzione del fabbricato medesimo.
Infatti, una volta che l’Ente abbia concesso i locali a vantaggio delle associazioni indicate, in modo tale da soddisfare pienamente le esigenze delle stesse per gli scopi sociali in argomento, si è dell’avviso che la destinazione a pubblica utilità delle rimanenti parti dell’immobile in oggetto possa avvenire anche indirettamente, consentendo, con i proventi della locazione, di mantenere i locali medesimi in uno stato di funzionalità e di decoro tali da migliorarne l’utilizzo da parte delle associazioni stesse.
Si consideri, altresì, che la disposizione contrattuale che impone l’onere all’atto di devoluzione del bene in riferimento
[4] utilizza una formulazione ampia, atteso che la stessa, nell’individuare le possibili forme di utilizzo del bene per pubblica utilità, individua in termini meramente esemplificativi e non tassativi –come è confermato dall’utilizzo dell’inciso “in particolare [5]– le possibili modalità di utilizzo dei locali in oggetto.
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[1] In questo senso si veda l’articolo 26 del D.Lgs. C.P.S. 14.12.1947, n. 1577.
[2] Corte Costituzionale, sentenza 19-23.05.2008, n. 170.
[3] Corte Cost., sentenza n. 170 del 2008.
[4] La quale, si ribadisce, prevede l’obbligo di “destinare il bene a pubblica utilità e in particolare a sede delle varie associazioni culturali, sportive, ricreative e simili”.
[5] Tale espressione linguistica viene usata di norma nei casi in cui si voglia fornire un’elencazione meramente esemplificativa e non tassativa delle fattispecie da ricomprendere. Si veda, ad esempio, “Regole e suggerimenti per la redazione dei testi normativi”, Manuale per le Regioni promosso dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, dicembre 2007, pag. 26 ove si afferma che «il carattere esemplificativo di un’enumerazione si esprime attraverso l’uso di locuzioni quali “in particolare”, “tra l’altro”»
(29.05.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAdempimenti nuovo CCNL.
Domanda
A seguito della stipula definitiva del CCNL Funzioni locali, ci sono obblighi particolari di pubblicazione di qualche documento, nel sito web dell’ente, nella sezione Amministrazione trasparente?
Risposta
In ordine di tempo, il primo obbligo a cui l’ente deve dare adempimento è la pubblicazione nella sezione Amministrazione trasparente > Disposizioni generali > Atti generali, del codice disciplinare, composto dagli articoli da 55 a 55-novies, del d.lgs. 165/2001, integrato dagli articoli da 57 a 63 del CCNL Funzioni locali del 21.05.2018.
L’obbligo deve essere assolto entro 15 giorni dalla data di stipulazione del CCNL ed è previsto dalle seguenti disposizioni:
   • articolo 55, comma 2, ultimo periodo, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165;
   • articolo 59, commi 11 e 12, del CCNL;
   • articolo 12, comma 1, del d.lgs. 14.03.2013, n. 33.
In aggiunta –ma senza imposizione di legge– potrebbe essere opportuno consegnare copia del codice disciplinare anche al personale dipendente dell’ente, utilizzando, ove possibile, la casella e-mail dell’ufficio di appartenenza.
Si ricorda, infine, che la pubblicazione sul sito istituzionale dell’amministrazione del codice disciplinare, con l’indicazione delle infrazioni e relative sanzioni, equivale a tutti gli effetti alla sua affissione all’ingresso della sede di lavoro (29.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Oggetto: Codice antimafia. Richiesta di informazioni ai sensi dell’art. 91 del d.lgs. 06.09.2011, n. 159. Quesito (Ministero dell'Interno, nota 25.05.2018 n. 11001/119/20(8)-A di prot.).

PUBBLICO IMPIEGO: Retribuzione posizione e convenzione tra enti.
Domanda
Con il nuovo CCNL sono cambiate le regole per il calcolo della retribuzione di posizione in caso di convenzione tra enti. Potreste riassumerci lo stato attuale delle cose, con particolare riferimento ai limiti esistenti?
Risposta
L’istituto del cosiddetto “scavalco condiviso” è disciplinato dall’art. 14 del CCNL 22.01.2004 e ad esso occorre riferirsi, in modo scrupoloso, per una corretta applicazione dei vari istituti in esso contemplati. Nel CCNL per il comparto Funzioni locali, firmato il 21/05/2018 (consultabile nel sito web dell’ARAN) la questione viene trattata –con conferma delle disposizioni sopra meglio richiamate– nell’art. 17, commi 6 e 7, relativamente al personale incarico di Posizione organizzativa.
Premesso quanto segue, si ricorda che:
   • in caso di convenzione tra enti, ex art. 14 CCNL 2004, occorre acquisire, in via preventiva l’assenso del dipendente. La convenzione deve essere approvata, nel medesimo testo, da parte di tutti gli enti aderenti all’accordo e stipulata dopo la formale approvazione delle deliberazioni;
   • ogni ente (comma 1, secondo periodo) è tenuto a coprire la spesa relativa alle ore di utilizzo del dipendente per le proprie finalità.
   • l’ente di provenienza “A” continua a corrispondere, per intero, al suo dipendente il trattamento economico spettante in base alla categoria e livello retributivo (Progressioni economiche, RIA, eccetera), incamerando le somme rimborsate da ciascuno dei comuni convenzionati;
   • per ciò che riguarda il trattamento accessorio del dipendente, si applicano i commi 4, 5 e 7, dell’art. 14, laddove si specifica che ogni ente dovrà far fronte alla somma di spettanza, rimborsando all’ente “A” –che eroga le somme– la propria quota. E’ chiaro che –in via preventiva– potrà essere rivista la “pesatura” della Posizione organizzativa, secondo quanto previsto dall’art. 10, comma 2, del CCNL 31/03/1999 e dall’articolo 15, comma 2, del CCNL 2018.
Per quanto riguarda, inoltre, il calcolo della spesa del salario accessorio, ai fini del rispetto dell’art. 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017, per un principio di logica e razionalità, si ritiene che la quota di retribuzione di posizione e di risultato, “rimborsata” dai comuni, non vada calcolata nel “tetto di spesa” dell’ente “A”, mentre dovrà essere calcolata dai comuni “utilizzatori” nel proprio tetto, riferito all’anno 2016.
Si specifica, infine, che la quota rimborsata va conteggiata come aggregato di spesa di personale e non va conteggiata come tetto per il lavoro flessibile, ex art. 9, comma 28, d.l. 78/2010 (24.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Cartellini marcatempo e tutela privacy.
Domanda
Il nostro comune ha autorizzato un proprio dipendente a prestare dodici ore settimanali di lavoro aggiuntive, presso un ente piccolo, ex art. 1, comma 557, legge 311/2004.
Ai fini della verifica del rispetto delle 48 ore di lavoro, abbiamo richiesto i cartellini marcatempo del nostro dipendente, al secondo ente, il quale ci ha comunicato l’impossibilità di fornirceli, per ragioni di “privacy”. È corretto il diniego?
Risposta
Il rifiuto teso a non far acquisire dei documenti detenuti da un ente locale ad un’altra PA, per lo svolgimento di attività di verifica e controllo che riguardano l’utilizzo congiunto di un dipendente che risulta giuridicamente inquadrato nel primo ente, dovrebbe essere sempre debitamente motivato, facendo riferimento alle norme in materia di tutela dei dati personali delle persone fisiche (d.lgs. 196/2003 – sino al 24.05.2018) e a norme, anche di natura regolamentare, presenti nell’ente.
Non basta, infatti, invocare genericamente “ragioni di privacy” per sottrarsi, negandolo, al diritto di accesso.
Nel caso di specie, il comune “A” (titolare del rapporto) chiedeva all’ente “B” di acquisire i cartellini marcatempo, onde verificare il rispetto della durata media dell’orario di lavoro, fissato in 48 ore settimanali, così come previsto dall’art. 4, del d.lgs. 66/2003.
I dati richiesti (le timbrature da cui desumere l’orario di lavoro settimanale) possono classificarsi come dati personali “comuni”, non rinvenendosi in essi elementi aventi natura di dato “sensibile” o dato “giudiziario” che ne reclamano una diffusione limitata.
A parere di chi scrive, il comune “B” (ente utilizzatore) avrebbe dovuto, accogliere la richiesta dell’ente “A”, trasmettendo la documentazione richiesta, che sarebbe stata utilizzata solamente per finalità “interne”, nel rispetto delle norme in materia di segreto d’ufficio.
In aggiunta, va specificato che l’istituto utilizzato (cosiddetto “scavalco di eccedenza”) prevede, comunque, un raccordo tra i due enti, per ciò che concerne la verifica sui giorni di riposo settimanale (art. 7, d.lgs. 66/2003); il godimento delle ferie (art. 10); la durata massima dell’orario settimanale e le pause (art. 8): tutti istituti a cui il lavoratore ha diritto, a prescindere dal fatto che, il medesimo, svolga i suoi compiti presso due enti locali (22.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Appalto di servizi. Costo del lavoro. Congruità dell’offerta economica.
Secondo la giurisprudenza prevalente, poiché le tabelle ministeriali riportano un costo del lavoro medio, ricostruito su basi statistiche, i valori ivi contenuti (eccezion fatta per i “minimi salariali retributivi” o “trattamenti salariali minimi”, inderogabili ex lege ai sensi dell’art. 97, commi 5 e 6, del D.Lgs. 50/2016) rappresentano solo un parametro di congruità dell’offerta e non un limite inderogabile, e come tali sono suscettibili di scostamento, in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali evidenzianti una particolare organizzazione in grado di giustificare la sostenibilità di costi inferiori.
Il Comune rappresenta di aver indetto –per il tramite della Centrale Unica di Committenza cui aderisce– una procedura negoziata per l’affidamento del servizio di organizzazione e gestione dei centri estivi comunali, di valore stimato inferiore alla soglia di rilievo comunitario, da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo.
Poiché nel calcolo del costo orario del personale un operatore economico avrebbe presumibilmente utilizzato la “media effettiva di ore lavorate in base allo storico della propria azienda
[1], anziché –come indicato dalle altre ditte partecipanti alla gara– le ore mediamente lavorate indicate nella tabella ministeriale del pertinente settore di attività [2], il Comune, al fine di verificare la congruità dell’offerta economica, chiede di conoscere se il ricorso a tale parametro possa ritenersi corretto [3].
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa Direzione centrale si esprimono le seguenti considerazioni.
Per risolvere la questione posta occorre, anzitutto, richiamare il contenuto delle previsioni normative di riferimento, tutte recate dal decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici).
L’art. 30, comma 3, stabilisce che nell’esecuzione degli appalti pubblici gli operatori economici sono tenuti al rispetto degli obblighi in materia sociale e del lavoro stabiliti dalla normativa europea e nazionale, dai contratti collettivi o da disposizioni internazionali
[4].
L’art. 95, comma 10, dispone che:
   - nell’offerta economica l’operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali per l’adempimento delle prescrizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;
   - relativamente ai costi della manodopera, le stazioni appaltanti, prima di procedere all’aggiudicazione, verificano il rispetto di quanto previsto dall’art. 97, comma 5, lett. d), vale a dire che il costo del personale non sia inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle tabelle richiamate dall’art. 23, comma 16.
Il predetto art. 23, comma 16, prevede –per quanto qui rileva– che:
   - il costo del lavoro è stabilito annualmente, in apposite tabelle, dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sulla scorta dei valori economici definiti dalla contrattazione collettiva nazionale tra le organizzazioni sindacali e le organizzazioni datoriali comparativamente più rappresentative, delle disposizioni in materia previdenziale ed assistenziale, dei vari settori merceologici e delle diverse aree territoriali;
   - in assenza di contratto collettivo applicabile, il costo del lavoro è fissato facendo riferimento al contratto collettivo del settore merceologico più vicino a quello considerato;
   - fino all’adozione delle predette tabelle, continuano ad applicarsi le disposizioni contenute nei decreti ministeriali già emanati in materia;
   - per determinare l’importo da porre a base di gara (dal cui ambito vanno esclusi i costi della sicurezza, non essendo questi assoggettabili a ribasso
[5]) la stazione appaltante individua i costi della manodopera sulla scorta delle predette indicazioni.
L’art. 97, comma 5, stabilisce che l’offerta è anormalmente bassa –e deve, perciò, essere esclusa– qualora venga accertato il mancato rispetto degli obblighi di cui all’art. 30, comma 3 o qualora il costo del personale risulti inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle tabelle richiamate dall’art. 23, comma 16.
L’art. 97, comma 6, chiarisce che non sono ammesse giustificazioni volte a superare il sospetto di anomalia dell’offerta in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge.
Ciò posto si rappresenta che, sulla questione dell’inderogabilità, o meno, dei valori contenuti nelle tabelle ministeriali sul costo del lavoro (eccezion fatta per i “minimi salariali retributivi” o “trattamenti salariali minimi”, inderogabili ex lege ai sensi del predetto art. 97, commi 5 e 6, del D.Lgs. 50/2016
[6]), la giustizia amministrativa ha reso innumerevoli pronunce (prevalentemente riferite alle analoghe disposizioni recate dall’art. 86, comma 3-bis [7] e dall’art. 87, commi 2, lett. g) [8] e 3 [9] del previgente decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 [10]), dalle quali si evincono posizioni non univoche.
Secondo un orientamento, che risulta minoritario, lo scostamento dalle tabelle ministeriali costituisce un indicatore automatico di anomalia
[11], o perlomeno un importante indice di anomalia dell’offerta, che dovrà comunque essere verificata attraverso un giudizio complessivo di rimuneratività [12].
Detto filone sostiene, in particolare, che «il costo del lavoro è ritenuto indice di anomalia dell’offerta quando non risultino rispettati i livelli salariali che la normativa vigente –anche a base pattizia– rende obbligatori. Una determinazione complessiva dei costi basata su un costo del lavoro inferiore ai livelli economici minimi fissati normativamente (o in sede di contrattazione collettiva) per i lavoratori del settore può costituire, infatti, indice di inattendibilità economica dell’offerta e di lesione del principio della par condicio dei concorrenti ed è fonte di pregiudizio per le altre imprese partecipanti alla gara che abbiano correttamente valutato i costi delle retribuzioni da erogare»
[13].
Pertanto, in base a detta impostazione, un’offerta che si discosti dai dati contenuti nelle tabelle ministeriali è ammissibile solo se lo scostamento è minimo e debitamente motivato in sede di verifica dell’anomalia
[14].
A tale orientamento si contrappone quello maggioritario, che fonda il proprio convincimento sulla constatazione che le tabelle ministeriali riportano un costo del lavoro medio, ricostruito su basi statistiche, cosicché i valori ivi contenuti rappresentano solo un parametro di congruità dell’offerta e non un limite inderogabile.
L’indirizzo prevalente afferma, infatti, che «un’offerta non può ritenersi anomala ed essere esclusa da una gara per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi, occorrendo, perché possa dubitarsi della sua congruità, che la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata»
[15].
Va, poi, segnalato che la giustizia amministrativa rileva che:
   - il costo del lavoro non è un costo standardizzato e uguale per tutte le imprese, potendo esso variare in relazione all’organizzazione del lavoro dell’impresa e all’efficienza della stessa
[16];
   - una possibile differenza del costo del lavoro può essere concretamente giustificata dalle diverse e particolari situazioni aziendali e territoriali e dalla capacità organizzativa dell’impresa che possono rendere possibile, in determinati contesti particolarmente virtuosi, anche una riduzione dei costi del lavoro
[17].
Esaminando più propriamente l’elemento delle ore mediamente lavorate, che costituisce l’oggetto del quesito che si riscontra, si segnala che la giurisprudenza, dopo aver evidenziato che nell’ambito di tale elemento sono compresi eventi (quali malattie, infortuni e maternità) che non rientrano nella disponibilità dell’impresa e che quindi, per definizione, necessitano di stima di carattere prudenziale
[18], afferma che:
   - l’offerta contenente un numero di assenze del personale inferiore a quello indicato nelle tabelle ministeriali, per essere reputata affidabile, deve essere accompagnata da univoci dati probatori
[19];
   - a fronte di un’offerta che espone una riduzione delle assenze dal lavoro al di sotto della media prevista dalle tabelle ministeriali, la stazione appaltante deve operare un’attenta verifica di sostenibilità, alla luce, in particolare, delle giustificazioni fornite dall’offerente
[20];
   - le tabelle ministeriali sul costo del lavoro esprimono soltanto il costo medio della manodopera quale parametro di riferimento né assoluto né inderogabile cosicché, svolgendo esso una funzione meramente indicativa, suscettibile di scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali evidenzianti una particolare organizzazione in grado di giustificare la sostenibilità di costi inferiori, è ben possibile discostarsi da tali valori, in sede di giustificazioni dell’anomalia, sulla scorta di una dimostrazione puntuale e rigorosa
[21].
Secondo un Tribunale amministrativo regionale
[22], invece, il monte delle ore annue mediamente non lavorate, indicato nelle tabelle ministeriali, va interamente computato.
Infatti –osserva quel giudice– poiché tali ore annue mediamente non lavorate sono calcolate in base a dati statistici a livello nazionale, in parte non suscettibili di oscillazione
[23] ed in parte suscettibili di oscillazione [24], il relativo costo del lavoro non può essere ridotto facendo riferimento alle statistiche della propria azienda, «in quanto tutte le Tabelle Ministeriali prevedono la possibilità di ridurre il costo del lavoro determinato soltanto in base ai benefici contributivi e/o fiscali previsti dalla legge, ai benefici o minori oneri derivanti dalla contrattazione collettiva ed agli investimenti derivanti dall’applicazione della normativa in materia di sicurezza del lavoro». [25]
E, comunque –prosegue il TAR– anche se le componenti del costo del lavoro indicate nelle tabelle ministeriali, che esprimono valori medi (e non valori minimi inderogabili), possono teoricamente essere stimate in riduzione, tali operazioni non riescono a garantire in modo certo il rispetto degli stessi valori minimi inderogabili stabiliti dalla contrattazione collettiva e dalla normativa previdenziale e/o assistenziale, atteso che la riduzione in base alla statistica aziendale del costo del lavoro, con riferimento sia all’andamento aziendale degli infortuni, sia alle predette ore mediamente non lavorate, non poggerebbe su dati che analizzano i vari fenomeni in modo complessivo e, perciò, si presterebbe ad una più probabile variazione nel breve periodo, che esporrebbe l’impresa offerente ad un possibile aumento del costo del lavoro anche durante l’esecuzione dell’appalto.
Occorre ora evidenziare che dalle già citate previsioni dell’art. 97, commi 5
[26] e 6 [27], del D.Lgs. 50/2016 si ricava l’assoluta impossibilità, per l’operatore economico, di formulare un’offerta che vada ad intaccare i “minimi salariali retributivi” o “trattamenti salariali minimi inderogabili”, stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge.
L’art. 97, comma 5, del D.Lgs. 50/2016 dispone, infatti, che la stazione appaltante –dopo aver ottenuto le spiegazioni richieste al concorrente la cui offerta appare anomala– esclude l’offerta medesima se ha accertato che questa «è anormalmente bassa in quanto: […] d) il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all’articolo 23, comma 16».
L’effetto espulsivo dalla gara di una siffatta offerta
[28], che –si ribadisce– è anomala ex lege, è confermato dal comma 6 del medesimo art. 97, secondo il quale sono inammissibili giustificazioni aventi ad oggetto trattamenti salariali minimi inderogabili previsti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge.
Si segnala che la pluralità delle sentenze esaminate
[29] non si sofferma su tale elemento o si limita a sostenere che esso non è ricavabile dalle tabelle ministeriali [30].
Invero, si ritiene che detto elemento sia rinvenibile al primo rigo delle tabelle medesime, alla voce “minimi contrattuali conglobati mensili”.
Ciò posto occorre, infine, osservare che il numero di ore mediamente lavorate indicato nell’offerta cui il quesito fa riferimento (1976) coincide con il numero di “Ore teoriche (38 ore x 52 settimane)” di lavoro indicato nella tabella allegata al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 02.10.2013.
Tale coincidenza consente di ipotizzare che l’offerta potrebbe essere stata formulata non in considerazione della media effettiva di ore lavorate in base allo storico dell’azienda, bensì del predetto monte ore teorico.
Anche con riferimento al parametro da utilizzare per elaborare correttamente l’offerta la giurisprudenza esprime una posizione costante e consolidata, in base alla quale il costo del lavoro a tal fine rilevante è solo quello medio ed effettivo.
Viene, infatti, evidenziato che il costo orario medio distinto per livelli e categorie è dato dal rapporto fra costo annuo medio e ore annue mediamente lavorate e non dal rapporto fra detto costo annuo e ore annue teoriche, giacché non vi è corrispondenza biunivoca fra la determinazione del trattamento economico (che deve tenere conto delle ore annue teoriche, comprensive delle cause di assenza legittima dal lavoro) e la determinazione del costo –per il datore di lavoro– di un’ora effettivamente lavorata, che deve includere, al proprio interno, anche la frazione di retribuzione spettante per le ore annue mediamente non lavorate, in quanto già preso in considerazione nel trattamento annuo complessivo di ciascun lavoratore, calcolato per categoria e livello
[31].
Ne consegue che per il costo orario del personale, da dimostrare in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta, non va assunto a criterio di calcolo il “monte-ore teorico”, comprensivo cioè anche delle ore medie annue non lavorate (per ferie, festività, assemblee, studio, malattia, formazione, etc.) di un lavoratore che presti servizio per tutto l’anno, ma va considerato il “costo reale” (o costo ore lavorate effettive, comprensive dei costi delle sostituzioni), atteso che il costo tabellare medio è indicativo di quello “effettivo”, che include i costi delle sostituzioni cui il datore di lavoro deve provvedere per ferie, malattie e tutte le altre cause di legittima assenza del lavoratore
[32].
Come si evince da una recente pronuncia
[33], la regola trova applicazione anche nell’ipotesi in cui –come nel caso oggetto di quesito– il servizio da affidare abbia durata inferiore all’anno solare.
Trattando di un servizio da svolgere nel corso dell’anno scolastico, il Consiglio di Stato afferma che «In sede di gara pubblica, il costo orario del lavoro stimato a livello ministeriale è quello sostenuto in via ordinaria dall’impresa e, sulla base di un divisore ottenuto sottraendo il tasso di assenza medio dal lavoro (per ferie, festività, malattia, infortunio, gravidanza, ecc.), rappresenta il costo reale per il datore di lavoro, benché esso non coincida con le ore lavorate dal dipendente; si tratta in altri termini del costo effettivo del lavoro, che ingloba le ore comunque retribuite, anche se il dipendente sia materialmente assente».
Il supremo giudice amministrativo precisa che anche dall’esame della struttura della tabella ministeriale risulta evidente che il costo sostenuto dal datore di lavoro per determinate assenze del lavoratore, quali ferie e festività, è comunque un costo ordinario e non, invece, aggiuntivo per sostituzioni, in quanto tali assenze sono comunque obbligatoriamente fruibili dal dipendente, mentre per quanto riguarda altre cause (in particolare malattia, infortunio, gravidanza) l’onere economico è assunto dall’ente previdenziale competente
[34].
Ma ciò –prosegue il giudice– non implica necessariamente che il dato ministeriale sia immodificabile e vada applicato in modo indistinto con riguardo a qualunque tipologia di realtà imprenditoriale o di contratto: è dunque astrattamente possibile la realizzazione di economie sul costo del lavoro, ove si abbia riguardo al costo della specifica “commessa”.
Poiché, nella fattispecie esaminata dal Consiglio di Stato, la realizzazione di economie sul costo del lavoro deriverebbe dalla concentrazione del monte ferie annuo dei dipendenti nei periodi di chiusura della scuola presso il quale il servizio deve essere prestato, il giudice osserva che tale organizzazione del lavoro, consentita dalla natura del servizio da eseguire, si traduce in una riduzione dell’onere economico imputabile a detta voce di spesa, rispetto al dato medio previsto a livello ministeriale.
Pertanto –precisa il Consiglio di Stato– a fronte di un servizio che deve essere prestato in un periodo non coincidente sul piano temporale con l’anno solare, invece preso a base dalla tabella ministeriale, il tasso medio di assenza dal lavoro, ed in particolare per ferie, è suscettibile di riduzione, senza alcun pregiudizio per i diritti inviolabili del dipendente.
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[1] Che dalla documentazione integrativa fornita dall’Ente risulta essere pari a 1976 ore.
[2] Nel caso di specie, vedasi la tabella allegata al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 02.10.2013 (Determinazione del costo orario del lavoro per le lavoratrici ed i lavoratori delle cooperative del settore socio-sanitario-assistenziale-educativo e di inserimento lavorativo - Cooperative sociali).
[3] Il par. 17 del disciplinare di gara, dopo aver disposto che la busta C contiene, oltre all’offerta economica, alcuni elementi, tra i quali «la stima dei costi della manodopera, ai sensi dell’art. 95, comma 10 del Codice» (dei contratti pubblici), prevede, a mero titolo collaborativo, che alla predetta offerta debbano essere allegati i prospetti analitici del costo del personale (anche per le attività retribuite a corpo) nei quali, «tenuto conto delle tabelle pubblicate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, delle agevolazioni fiscali locali e/o della contrattazione di secondo livello», viene esplicitato come è stato ricavato il costo contrattuale del lavoro.
[4] Si veda l’Allegato X (Elenco delle convenzioni internazionali in materia sociale e ambientale) al D.Lgs. 50/2016.
[5] Come dispone lo stesso art. 23, comma 16, all’ultimo periodo.
[6] Di cui si tratterà più puntualmente in seguito.
[7] «Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture. Ai fini del presente comma il costo del lavoro è determinato periodicamente, in apposite tabelle, dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali. In mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione.».
[8] «Le giustificazioni possono riguardare, a titolo esemplificativo: […] g) il costo del lavoro come determinato periodicamente in apposite tabelle dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale e assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali; in mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione.».
[9] «Non sono ammesse giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge.».
[10] «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE».
[11] Cfr. Cons. Stato – Sez. III, 13.10.2015, n. 4699.
[12] Cfr. Cons. Stato – Sez. VI, 21.07.2010, n. 4783.
[13] Così Cons. Stato – Sez. III, n. 4699/2015, cit..
[14] Cfr. Cons. Stato – Sez. IV, 05.08.2005, n. 4196; Sez. V, 07.10.2008, n. 4847; Sez. VI, n. 4783/2010, cit..
[15] Così Cons. Stato – Sez. V, 30.03.2017 n. 1465. In senso conforme: Sez. III, 02.03.2015, n. 1020, 03.07.2015, n. 3329, 19.10.2015, n. 4789, 09.12.2015, n. 5597, 17.06.2016, n. 2685, 25.11.2016, n. 4989, 21.07.2017, n. 3623 e 13.03.2018, n. 1609; Sez. IV 22.03.2013, n. 1633 e 29.02.2016, n. 854; Sez. V 14.06.2013, n. 3314, 13.03.2014, n. 1176, 24.07.2014, n. 3937, 18.06.2015, n. 3105, 06.02.2017, n. 501, 25.10.2017, n. 4916 e 18.12.2017, n. 5939; Sez. VI, 31.03.2017, n. 1495.
[16] Cfr. Cons. Stato – Sez. III, 10.02.2016, n. 589; Sez. V, 12.06.2017, n. 2844.
[17] Cfr. Cons. Stato – Sez. III, 15.05.2017, n. 2252.
[18] Cfr. Cons. Stato – Sez. V, n. 1465/2017, cit..
[19] Cfr. Cons. Stato – Sez. V, 09.04.2015, n. 1813, il quale precisa che si rende necessaria una doverosa verifica in ordine al rispetto del vincolo di coerenza con le tabelle anzidette, mediante la ricerca di una giustificazione specifica e adeguata dello scostamento delle voci di costo individuali dai relativi parametri.
[20] Cfr. Cons. Stato – Sez. V, n. 4916/2017, cit..
[21] Cfr. TAR Lazio–Roma, Sez. I-ter, 30.12.2016, n. 12873; Sez. III-quater, 19.03.2018, n. 3081.
[22] Cfr. TAR Basilicata – Sez. I, 19.10.2005, n. 957, 05.03.2010, n. 104 e 04.07.2017, n. 457.
[23] Ferie, festività, riduzione orario contrattuale.
[24] Assemblee e permessi sindacali, diritto allo studio, malattia, infortuni, maternità, ecc..
[25] Il D.M. 02.10.2013 stabilisce, all’art. 2, che: «La tabella prescinde:
   a) da eventuali benefici previsti da norme di legge di cui l’impresa può usufruire;
   b) dagli oneri derivanti dalla gestione aziendale e accordi di secondo livello;
   c) dagli oneri derivanti da specifici adempimenti connessi alla normativa sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (Decreto legislativo 09.04.2008, n.81 e s.m.).».
[26] «La stazione appaltante richiede per iscritto, assegnando al concorrente un termine non inferiore a quindici giorni, la presentazione, per iscritto, delle spiegazioni. Essa esclude l’offerta solo se la prova fornita non giustifica sufficientemente il basso livello di prezzi o di costi proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4 o se ha accertato, con le modalità di cui al primo periodo, che l’offerta è anormalmente bassa in quanto: […] d) il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all’articolo 23, comma 16.».
[27] «Non sono ammesse giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi inderogabili stabiliti dalla legge o da fonti autorizzate dalla legge. […]».
[28] E ciò indipendentemente dalla congruità della stessa, valutata nel suo complesso (cfr. TAR Calabria–Reggio Calabria, 15.12.2016, n. 1315).
[29] Alcune delle quali sembrano impropriamente utilizzare come sinonimi i termini riferiti a trattamenti salariali minimi obbligatori e quelli concernenti valori previsti dalle tabelle ministeriali.
[30] Cfr. TAR Lazio–Roma, Sez. I-ter, n. 12873/2016, cit.; TAR Trentino Alto Adige–Bolzano, 30.10.2017, n. 299.
[31] Cfr. Cons. Stato – Sez. III, 13.12.2013, n. 5984; Sez. V, 24.08.2006, n. 4969.
[32] Cfr. Cons. Stato – Sez. III, n. 1020/2015, cit.; Sez. V, 12.06.2017, n. 2815; TAR Emilia Romagna–Bologna, Sez. I, 19.12.2017, n. 854; TAR Lombardia–Milano, Sez. IV, 23.01.2018, n. 185. Il TAR Lombardia puntualizza che occorre fare riferimento al costo medio effettivo, corrispondente al costo realmente sostenuto dal datore di lavoro e non ad un costo meramente teorico, rilevando che il ricorso a quest’ultimo parametro «consente la formulazione di un’offerta economica apparentemente più competitiva, ma in realtà totalmente sviata ed anomala».
[33] V. Cons. Stato – Sez. V, 04.12.2017, n. 5700.
[34] Cfr. Cons. Stato – Sez. III, 02.03.2017, n. 974 e n. 3623/2017, cit.
(18.05.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIComposizione delle Commissioni consiliari permanenti. Impossibilità insediamento.
Sintesi/Massima
Commissioni consiliari permanenti.
E’ stato chiesto un parere in merito alla impossibilità di insediamento delle commissioni consiliari a causa della mancata designazione dei rappresentanti di uno dei due gruppi di minoranza presenti in consiglio.
Al riguardo, si fa presente che le commissioni consiliari non sono organi necessari dell’ente locale, bensì organi strumentali dei consigli ed, in quanto tali, costituiscono componenti interne dell’organo assembleare, prive di una competenza autonoma e distinta da quella ad esso attribuita.
A fronte della oggettiva impossibilità di insediare validamente le commissioni a causa della indisponibilità manifestata da alcuni consiglieri di minoranza, la situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in ragione del principio della continuità amministrativa, il riespandersi della competenza piena del consiglio comunale.

Testo
E’ stato prospettato un quesito in materia di commissioni consiliari permanenti.
A seguito delle elezioni amministrative dello scorso giugno, il consiglio comunale risulta composto da un gruppo di maggioranza formato da 11 consiglieri, da un gruppo di minoranza di 4 consiglieri e da un secondo gruppo di minoranza a cui appartiene un solo consigliere.
Ai sensi del regolamento del funzionamento del consiglio del Comune in oggetto sono previste tre commissioni consiliari permanenti a cui sono assegnate funzioni consultive. Il Consiglio ha fissato il numero complessivo dei componenti delle tre commissioni permanenti e indicato il numero di rappresentanti da designarsi da parte di ciascun gruppo presente in consiglio.
Tuttavia il gruppo di minoranza composto da 4 consiglieri non ha provveduto a nominare i propri rappresentanti in seno alle citate commissioni adducendo presunte illegittimità nell’iter amministrativo seguito dal comune.
Nella seduta di insediamento delle commissioni si è proceduto alla nomina dei rispettivi Presidenti e Vice Presidenti ma gli organi in parola non hanno ancora iniziato a svolgere le attività di competenza loro assegnate dalle fonti di autonomia locale.
Attesa la mancata designazione dei rappresentanti di uno dei due gruppi di minoranza presenti in consiglio, si chiede un parere in merito all’operatività delle Commissioni consiliari permanenti.
Al riguardo si osserva, in via preliminare, che in base a quanto disposto dall’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall’apposito regolamento comunale con l’inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Le forze politiche presenti in consiglio devono, pertanto, essere il più possibile rappresentate anche nelle commissioni.
Ai sensi dell’art. 22, comma 2, lett. c), del regolamento sul funzionamento del consiglio del comune in oggetto è previsto che “ogni gruppo, in linea di principio, partecipa alla composizione delle commissioni in proporzione alla sua rappresentanza consiliare. Deve essere comunque garantita la presenza di tutti i gruppi in ciascuna commissione….”.
In base al principio consolidato in materia di organi collegiali, secondo il quale all’atto del primo insediamento l’organo deve essere completo in tutte le sue componenti per potersi dire legittimamente costituito e poter validamente operare, e alla luce di quanto riferito dal sindaco, si ritiene che la mancata designazione dei rappresentanti di uno dei due gruppi di minoranza abbia impedito, di fatto, la costituzione delle commissione in argomento.
In assenza di specifiche previsioni recate dalle fonti di autonomia locale la questione deve essere esaminata alla luce di quei principi generali dai quali trarre utili orientamenti nel caso di specie.
Al riguardo, rileva anzitutto la natura delle commissioni consiliari. Esse non sono organi necessari dell’ente locale, cioè non sono componenti indispensabili della sua struttura organizzative, bensì organi strumentali dei consigli ed, in quanto tali, costituiscono componenti interne dell’organo assembleare, prive di una competenza autonoma e distinta da quella ad esso attribuita. In altri termini, le commissioni consiliari operano sempre e comunque nell’ambito della competenza dei consigli.
A fronte della oggettiva impossibilità di insediare validamente le commissioni a causa della indisponibilità manifestata da alcuni consiglieri di minoranza, la situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in ragione del principio della continuità amministrativa, il riespandersi della competenza piena del consiglio comunale.
Ovviamente ciò non esclude che l’argomento della ricostituzione delle commissioni comunali possa essere iscritto all’ordine del giorno delle sedute consiliari fino alla sua positiva trattazione (24.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

COMPETENZE GESTIONALIAttribuzione al Commissario straordinario della responsabilità degli Uffici e servizi.
Sintesi/Massima
L’affidamento dei poteri gestionali ai componenti dell'organo esecutivo trova fondamento nel comma 23 dell'art. 53 della legge 23.12.2000, n. 388 poi modificato dall’ art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001, n. 448 (legge finanziaria 2002) che introduce una deroga al principio generale della separazione dei poteri (in particolare, rispetto alle competenze dirigenziali di cui all’art. 107 del T.U.O.E.L. e all’art. 4 del decreto legislativo n. 165/2001) nell'ambito delle amministrazioni pubbliche, rimanendo esclusi i compiti meramente esecutivi o operativi.
Le disposizioni legislative predette non necessariamente indicano l’approvazione di un regolamento, essendo sufficiente che il relativo provvedimento sia deliberato dalla Giunta comunale, quale organo competente in materia di adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi (cfr. Consiglio di Stato, IV, 23.02.2009, n. 1070; V, 06.03.2007, n. 1052; TAR Lombardia, Milano, II, 18.05.2011, n. 1278; TAR Lazio, Roma, II-ter, 22.03.2011, n. 2534).
Nella fattispecie di comune con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, fatte salve eventuali espresse limitazioni scaturenti dallo Statuto comunale, il Commissario straordinario può legittimamente attribuire a sé, con i poteri della Giunta comunale, la facoltà di gestione di un settore dell’Amministrazione.

Testo
E’ stato chiesto un parere in ordine alla possibilità dell’assunzione diretta della responsabilità degli uffici e dei servizi, con il potere di adottare atti anche di natura tecnico- gestionale, in sostituzione di un responsabile di servizio, che ha chiesto un lungo periodo di aspettativa.
Ciò alla luce dell’articolo 53, comma 23, della legge n. 388/2000 come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge n. 448/2001.
Al riguardo, si osserva che il citato comma 23 dell'art. 53 della legge 23.12.2000, n. 388 (legge finanziaria 2001) consentiva agli “enti locali” con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti, in mancanza di figure professionali idonee nell'ambito dei dipendenti, di adottare disposizioni regolamentari organizzative, anche in deroga all'art. 107 del decreto legislativo n. 267/2000, mirate ad attribuire ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale.
Detta disposizione, com'è noto, è stata poi modificata sempre dal citato art. 29, comma 4, della legge 28.12.2001, n. 448 (legge finanziaria 2002), che ha ribadito la predetta facoltà, estendendola agli enti fino a 5.000 abitanti, senza necessità di dimostrare la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee, con la conseguenza che risulta irrilevante anche la presenza all’interno dell’Amministrazione di tali figure professionali (conforme, TAR Lombardia n. 1644/2017 del 18/07/2017).
L'applicazione della norma deve essere finalizzata, tuttavia, al contenimento della spesa, la quale deve essere documentata ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione di bilancio (art. 53, comma 23, l. 388/2000).
Quindi l'affidamento dei poteri gestionali ai componenti dell'organo esecutivo trova fondamento nella succitata disposizione che introduce una deroga al principio generale della separazione dei poteri (in particolare, rispetto alle competenze dirigenziali di cui all’art. 107 del T.U.O.E.L. e all’art. 4 del decreto legislativo n. 165/2001) nell'ambito delle amministrazioni pubbliche, rimanendo esclusi i compiti meramente esecutivi o operativi.
Nella fattispecie, si segnala la decisione n. 4688 del 2.10.2006 con la quale il TAR Puglia–Lecce, ha precisato che tale facoltà può essere esercitata previe “disposizioni regolamentari organizzative”.
Tuttavia, più recentemente il TAR Lombardia con la già citata sentenza n. 1644/2017 del 18/07/2017, ha stabilito, altresì, che alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale, la disposizione legislativa non necessariamente indica l’approvazione di un regolamento, essendo sufficiente che il relativo provvedimento sia deliberato dalla Giunta comunale, quale organo competente in materia di adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi (cfr. Consiglio di Stato, IV, 23.02.2009, n. 1070; V, 06.03.2007, n. 1052; TAR Lombardia, Milano, II, 18.05.2011, n. 1278; TAR Lazio, Roma, II-ter, 22.03.2011, n. 2534).
Trattandosi di comune con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e sembrando sussistere anche le altre condizioni per l’applicazione della norma (fatte salve eventuali espresse limitazioni scaturenti dallo Statuto comunale), si ritiene, pertanto, che il Commissario straordinario possa legittimamente attribuire a sé, con i poteri della Giunta comunale, la facoltà di gestione di un settore dell’Amministrazione (10.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIDeleghe ai consiglieri.
Sintesi/Massima
Il conferimento di deleghe ai consiglieri comunali ed al Presidente del Consiglio comunale da parte del sindaco, fatta salva una ristrettissima serie di funzioni sindacali delegabile in virtù di specifiche previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di Governo), sono ammissibili sulla base di norme statutarie dell'ente locale, che stabiliscano il riparto di attribuzioni tra gli organi di governo dell'ente, integrando ma non derogando alle vigenti norme di legge.
Pertanto, potrebbe essere configurabile la mancata conformità dell’atto di delega alle disposizioni specifiche dettate in materia dagli articoli 42 e 48 del T.U.O.E.L. n. 267/2000 solo in carenza di una espressa indicazione dei limiti in ordine all’esercizio delle predette deleghe che escludano compiti di amministrazione attiva.

Testo
E’ stato chiesto un parere in ordine alla legittimità dei decreti con cui il Sindaco ha conferito deleghe ai consiglieri comunali ed al Presidente del Consiglio comunale.
In merito, ribadendo quanto sostenuto dall’esponente nelle premesse della propria nota –il quale ha fatto proprie alcune considerazioni già espresse da questo Ufficio in ordine alla disciplina delle deleghe interorganiche- va detto, altresì, che una ristrettissima serie di funzioni sindacali può essere delegabile in virtù di specifiche previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di Governo).
Va osservato, ancora, che il TAR Toscana, con decisione n. 1248/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da comportare “l'inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato”.
Il Consiglio di Stato, con parere n. 4883/2011 (4992/2012) in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in quanto l'atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva, determinava “una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto di interesse”.
Pertanto, la normativa statutaria dell'ente locale, nel disciplinare la materia de qua, potrebbe prevedere disposizioni che stabiliscano il riparto di attribuzioni tra gli organi di governo dell'ente, integrando ma non derogando alle vigenti norme di legge.
Nel caso specifico, anche secondo quanto riferito dall’esponente, il vigente statuto del comune di … prevede la possibilità di conferire anche ai consiglieri incarichi per attività di istruzione e di studio per determinati problemi e progetti… che non costituiscono delega di competenza ... e che non siano conclusi con un atto amministrativo ad efficacia esterna.
Al riguardo, premesso che il decreto n. 2453/2017 è stato revocato dal decreto n. 2627/2017, si osserva che con il successivo decreto n. 2629 il sindaco ha puntualizzato che l’incarico non costituisce delega di funzioni e deve intendersi esclusa l’adozione di atti a rilevanza (esterna) o atti di gestione spettanti agli organi burocratici e che il consigliere comunale incaricato non ha poteri decisionali di alcun tipo diversi o ulteriori rispetto a quelli che derivano dallo status di consigliere.
Ciò posto, ad avviso di questa Direzione Centrale, potrebbe essere configurabile la mancata conformità dell’atto alle disposizioni specifiche dettate in materia dagli articoli 42 e 48 del TUEL n. 267/2000 solo in carenza di una espressa indicazione dei limiti in ordine all’esercizio delle predette deleghe.
Tali limiti, nel caso specifico sembrano invece esplicitati chiaramente nell’ambito del decreto sindacale n. 2629 del 17.07.2017 di conferimento delle deleghe ai consiglieri comunali (05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIDeleghe ai consiglieri.
Sintesi/Massima
Deleghe ai consiglieri.
Nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del citato decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie e di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.

Testo
E’ stato formulato un quesito in ordine alla attuazione dell’art. 22, comma 10, dello statuto del comune di …. recante il potere del Sindaco di attribuire ai singoli consiglieri “incarichi temporanei per affari determinati”.
In particolare è stato rappresentato che il sindaco, ai sensi della citata normativa, ha assegnato a diversi consiglieri incarichi di collaborazione in ordine a specifiche materie. Nel decreto è precisato che gli incarichi in questione non costituiscono delega di funzione, non attribuiscono alcun potere a rilevanza esterna né comportano incarichi gestionali. Ciò posto, si chiede di conoscere se siffatto decreto sia compatibile con la disciplina dettata in materia dal decreto legislativo n. 267/2000.
Al riguardo si rappresenta che nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del citato decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce. Occorre considerare che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie e di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Atteso che il consiglio svolge attività di indirizzo e controllo politico-amministrativo, partecipando "…alla verifica periodica dell'attuazione delle linee programmatiche da parte del Sindaco … e dei singoli assessori" (art. 42, comma 3, del T.U.O.E.L.), ne scaturisce l'esigenza di evitare una incongrua commistione nell'ambito dell'attività di controllo.
In proposito, va osservato che il TAR Toscana, con decisione n. 1284/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da comportare “…l’inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato…”.
Si aggiunge, altresì, che il Consiglio di Stato, con parere n. 4883/2011 reso in data 17.10.2012, ha ritenuto fondato un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in quanto l’atto sindacale impugnato, nel prevedere la delega ai consiglieri comunali di funzioni di amministrazione attiva, determinava “…una situazione, per lo meno potenziale, di conflitto di interesse.”.
Tanto premesso, il decreto sindacale in questione sembrerebbe essere stato adottato in coerenza con la normativa vigente nonché con le elaborazioni giurisprudenziali in materia (05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIMancata attuazione normativa in tema di parità di genere nelle giunte comunali.
Sintesi/Massima
Parità di genere nelle giunte comunali.
Il comma 137, dell’art. 1 della legge n. 56/2014 dispone che “nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico”.
Al riguardo, si osserva che il Consiglio di Stato, sez. V, n. 4626 del 05/10/2015, ha precisato che tutti gli atti adottati nella vigenza dell’art. 1, comma 137, citato trovano in esso “un ineludibile parametro di legittimità” e, pertanto, un’interpretazione che riferisse l’applicazione della norma alle sole nomine assessorili effettuate all’indomani delle elezioni e non anche a quelle adottate in corso di consiliatura consentirebbe un facile aggiramento della suddetta normativa.
Circa l’adeguatezza dell’istruttoria effettuata dal sindaco e del corredo motivazionale addotto quale giustificazione del mancato rispetto della normativa in questione, appare utile richiamare la sentenza n. 1 del 2015 con la quale il Tar Calabria, Sez. Catanzaro, nel pronunciarsi per l’annullamento del decreto di nomina della giunta, ha ritenuto che l’atto impugnato fosse sprovvisto di adeguata istruttoria finalizzata al reperimento di “… idonee personalità di sesso femminile nella società civile, nell’ambito del bacino territoriale di riferimento, limitandosi a comprovare soltanto la rinuncia di due consigliere.”. (cfr Tar Calabria sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2015).

Testo
E’ stato chiesto l’intervento della scrivente amministrazione in merito alla mancata attuazione della vigente normativa in tema di parità di genere nella composizione delle giunte.
In particolare, è stato segnalato che il sindaco del Comune in oggetto, nel prendere atto delle dimissioni di un assessore di genere femminile, ha provveduto alla nomina di un assessore uomo. Tale sostituzione, non corredata da alcuna motivazione in ordine alla difficoltà riscontrata nell’attuazione della normativa in parola, ha alterato l’equilibrio di genere della compagine giuntale, riducendo la rappresentanza del genere femminile ad un solo componente.
Come noto, il comma 137, dell’art. 1 della legge n. 56/2014 dispone che “nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40%, con arrotondamento aritmetico”.
Al riguardo, si osserva che il Consiglio di Stato, sez. V, n. 4626 del 5/10/2015, ha precisato che tutti gli atti adottati nella vigenza dell’art. 1, comma 137, citato trovano in esso “un ineludibile parametro di legittimità” e, pertanto, un’interpretazione che riferisse l’applicazione della norma alle sole nomine assessorili effettuate all’indomani delle elezioni e non anche a quelle adottate in corso di consiliatura consentirebbe un facile aggiramento della suddetta normativa.
Circa l’adeguatezza dell’istruttoria effettuata dal sindaco e del corredo motivazionale addotto quale giustificazione del mancato rispetto della normativa in questione, appare utile richiamare la sentenza n. 1 del 2015 con la quale il Tar Calabria, Sez. Catanzaro, nel pronunciarsi per l’annullamento del decreto di nomina della giunta, ha ritenuto che l’atto impugnato fosse sprovvisto di adeguata istruttoria finalizzata al reperimento di “… idonee personalità di sesso femminile nella società civile, nell’ambito del bacino territoriale di riferimento, limitandosi a comprovare soltanto la rinuncia di due consigliere.”. (cfr Tar Calabria sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2015).
Da ultimo, il Consiglio di Stato, con sentenza n. 406/2016, ha osservato che l’effettiva impossibilità di assicurare nella composizione della giunta comunale la presenza dei due generi nella misura stabilita dalla legge deve essere “adeguatamente provata”.
Nella citata pronuncia, il Supremo Consesso Amministrativo ha, inoltre, dato conto della ragionevolezza delle indicazioni fornite dalla scrivente amministrazione nella circolare n. 6508 del 24.04.2014 laddove si fa presente che occorre lo svolgimento di una preventiva e necessaria attività istruttoria preordinata ad acquisire la disponibilità dello svolgimento delle funzioni assessorili da parte di persone di entrambi i generi e di fornire un’adeguata motivazione sulle ragioni della mancata applicabilità del principio di pari opportunità.
Tanto premesso, si osserva che, come noto, il vigente ordinamento non prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo a questa Amministrazione e, pertanto, gli eventuali vizi di legittimità degli atti adottati potranno essere fatti valere nelle competenti sedi (05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIRichiesta di parere sui locali di seduta del Consiglio comunale.
Sintesi/Massima
Previa disciplina regolamentare di dettaglio, nell’ambito delle previsioni statutarie, non sussiste un impedimento in ordine allo svolgimento delle adunanze del consiglio comunale anche in locali diversi rispetto alla ordinaria aula sita presso la sede comunale.
Tuttavia, ferma restando la verifica dell’opportunità di sostenere i relativi costi aggiuntivi, è necessario non arrecare disagi ai consiglieri partecipanti e che anche la non ordinaria sala sia fornita della dotazione tecnico-logistica occorrente per il corretto svolgimento delle riunioni consiliari.

Testo
E’ stato posto un quesito in ordine alla legittimità dello svolgimento delle sedute consiliari all’interno di una villa, di proprietà di un consorzio di cui l’Ente fa parte con quota non di maggioranza, ubicata nel territorio del Comune ma distante dalla sede comunale.
Al riguardo, si osserva che secondo quanto stabilito dall’articolo 3, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000, “i comuni hanno autonomia statutaria, normativa, organizzativa e amministrativa”.
Secondo la previsione dell’articolo 6 del citato d.lgs. n. 267/2000, lo statuto stabilisce anche “i criteri generali in materia di organizzazione dell’Ente”.
L’articolo 7, infine, conferisce al comune, nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto, la potestà regolamentare “in particolare per l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni… per il funzionamento degli organi…”.
La materia è, dunque soggetta all’autorganizzazione dell’ente.
Lo statuto comunale prevede all’articolo 3, comma 4, che le adunanze degli organi collegiali si svolgono normalmente nella sede del Comune di …, lasciando altresì la possibilità di riunione in luoghi diversi in caso di necessità o per particolare esigenze.
Ciò posto, ferma restando l’opportunità dell’adozione di una disciplina regolamentare di dettaglio, alla luce del disposto statutario non sembra che vi sia un impedimento assoluto in ordine allo svolgimento delle adunanze del consiglio comunale anche in locali diversi rispetto alla ordinaria aula sita presso la sede comunale.
Tuttavia, resta ferma la necessità di non arrecare disagi ai consiglieri partecipanti e che anche la non ordinaria sala sia fornita della dotazione tecnico-logistica occorrente per il corretto svolgimento delle riunioni consiliari.
Ritenendo, altresì che debbano osservarsi anche i principi generali relativi al contenimento della spesa pubblica, si demanda alla valutazione diretta del Comune –che andrà a verificare i relativi costi aggiuntivi- l’opportunità del mantenimento della duplicazione della sede consiliare (05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALIProcedura approvazione modifiche statutarie.
Sintesi/Massima
Procedura approvazione modifiche statutarie.
L'approvazione dello statuto, attesa la natura di atto normativo "fondamentale" sua propria, comporta che su di esso converga il più elevato numero di consensi attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare. Tale particolare esigenza ha determinato, conseguentemente, la previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum, rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle sue modifiche comporta che in sede di prima votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37 del citato testo unico. Si osserva, infatti, che nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso computare il sindaco, o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la validità di una seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula “senza computare a tal fine il sindaco ed il presidente della provincia".
Ove tale quorum non venga raggiunto, si apre un’ulteriore fase procedimentale per la quale lo statuto è approvato “se ottiene per due volte il voto favorevole dalla maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati”. Si precisa che, nell’ipotesi in cui lo statuto non sia approvato alla prima votazione con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati, è sempre necessario procedere alle previste ulteriori due votazioni a “maggioranza assoluta”, con la conseguenza che, complessivamente, le votazioni assommeranno al numero di tre.
Circa il rispetto del termine di trenta giorni previsto dal citato art. 6, comma 4, giova richiamare il contenuto del parere n. 291 del 2010 reso dal Consiglio di Stato su ricorso Straordinario al Capo dello Stato, laddove è stato osservato che “…la non perentorietà del termine sopra detto vanificherebbe la finalità della norma che è diretta a prevedere un tempo determinato entro il quale deve concludersi la procedura di approvazione dello statuto”.

Testo
Un consigliere comunale ha lamentato asserite irregolarità concernenti la procedura di approvazione delle modifiche dello statuto del comune in oggetto.
In particolare, l’esponente ha rappresentato che il consiglio comunale, con deliberazione n. 56 del 28.07.2017, ha approvato, con il voto favorevole di 11 consiglieri su 15 presenti, una modifica allo statuto comunale. Tale deliberazione è stata considerata quale approvazione delle modifiche statutarie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, in base al criterio dell’arrotondamento per difetto della cifra decimale.
Il consiglio, con deliberazione n. 67 del 30.09.2017, ritenendo il criterio dell’arrotondamento per difetto non aderente al dettato legislativo, ha approvato l’annullamento parziale della precedente deliberazione nella parte in cui aveva proclamato l’avvenuta modifica statutaria. Con la medesima delibera ha inoltre convalidato la votazione tenutasi in data 28.07.2017 avente ad oggetto “approvazione modifica allo statuto comunale” per mancato raggiungimento del quorum richiesto in prima votazione.
Sempre in data 30.9.2017, durante la medesima seduta consiliare, è stata adottata la seconda delibera di approvazione della modifica statutaria mentre in data 31.10.2017, è stata adottata la terza ed ultima delibera.
Entrambe le deliberazioni, identificate rispettivamente con i numeri 68 e 79, risultano adottate a maggioranza assoluta dei componenti, avendo ottenuto il voto favorevole di 10 consiglieri.
Ad avviso del consigliere esponente, la procedura seguita per l’approvazione delle modifiche statutarie sarebbe viziata atteso che la delibera n. 68 del 2017 sarebbe intervenuta il 30.09.2017, ovvero nello stesso giorno della delibera n. 67, violando il consolidato indirizzo giurisprudenziale in base al quale le eventuali ulteriori votazioni successive alla prima devono intervenire in sedute diverse. Inoltre, la deliberazione n. 79 del 31.10.2017 sarebbe stata adottata oltre il termine di trenta giorni previsto dall’art 6, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al riguardo, si rappresenta che la normativa in esame ha previsto un “procedimento aggravato" per l'approvazione delle norme statutarie, nonché delle relative modifiche, sia disponendo che, in caso di mancata approvazione dei due terzi dell'assemblea si debba ripetere la votazione entro 30 giorni, che prescrivendo che lo statuto sia approvato se ottiene per due volte - in sedute successive - il voto favorevole della maggioranza assoluta dei membri assegnati al collegio.
L'approvazione dello statuto, pertanto, attesa la natura di atto normativo "fondamentale" sua propria, comporta che su di esso converga il più elevato numero di consensi attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare. Tale particolare esigenza ha determinato, conseguentemente, la previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum, rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle sue modifiche comporta che in sede di prima votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37 del citato testo unico.
Si osserva, infatti, che nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso computare il sindaco, o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la validità di una seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula “senza computare a tal fine il sindaco ed il presidente della provincia". Ove tale quorum non venga raggiunto, si apre un’ulteriore fase procedimentale per la quale lo statuto è approvato “se ottiene per due volte il voto favorevole dalla maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati”. Si precisa che, nell’ipotesi in cui lo statuto non sia approvato alla prima votazione con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati, è sempre necessario procedere alle previste ulteriori due votazioni a “maggioranza assoluta”, con la conseguenza che, complessivamente, le votazioni assommeranno al numero di tre.
Con riferimento alla doglianza concernente la contestualità dell’approvazione delle deliberazioni n. 67 e n. 68, entrambe adottate il 30.9.2017, si osserva che la data a cui occorre fare riferimento per computare il termine di inizio della procedura di approvazione delle modifiche statutarie è il 28.07.2017 e non il 30.09.2017. Ciò in quanto la convalida operata con la deliberazione n. 67 dell’atto consiliare n. 56 del 28.07.2017 configura un provvedimento nuovo ma che si collega all’atto convalidato al fine di mantenerne fermi gli effetti fin dal momento in cui questo venne emanato (efficacia ex tunc).
Circa il rispetto del termine di trenta giorni previsto dal citato art. 6, comma 4, giova richiamare il contenuto del parere n. 291 del 2010 reso dal Consiglio di Stato su ricorso Straordinario al Capo dello Stato, laddove è stato osservato che “…la non perentorietà del termine sopra detto vanificherebbe la finalità della norma che è diretta a prevedere un tempo determinato entro il quale deve concludersi la procedura di approvazione dello statuto” (05.01.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

NEWS

APPALTIAppalti, obbligo di contabilità digitale. Professionisti tecnici: in cantiere più responsabilità sui materiali. Contratti pubblici. Entrano in vigore domani le nuove regole sull’esecuzione di lavori, servizi e forniture.
Un nuovo decreto di riferimento per la fase esecutiva di tutti gli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture. Con una novità che spicca sulle altre: l’adozione di strumenti elettronici nella contabilità diventa obbligatori.
Parte domani il percorso del Dm del ministero delle Infrastrutture 49 del 2018, il provvedimento destinato a sostituire il vecchio regolamento appalti (Dpr 207/2010) sulla scrivania degli operatori. Un provvedimento che, rispetto al passato, dà un peso molto rilevante proprio ai servizi e alle forniture, diventati nel tempo un pezzo fondamentale del mercato.
In generale, se l’elenco dei documenti contabili con il nuovo provvedimento resta invariato, cambia sostanzialmente l’infrastruttura della quale sarà necessario dotarsi: finora, infatti, l’utilizzo di programmi contabili computerizzati era una semplice facoltà. Adesso, in caso di mancato utilizzo, la pubblica amministrazione dovrà dare una motivazione, comunicare l’inadempimento all’Anac e, poi, adeguarsi in tempi rapidi. La digitalizzazione diventa, insomma, obbligatoria.
Gli strumenti elettronici devono essere in grado di garantire autenticità, sicurezza dei dati inseriti e provenienza dei dati dai soggetti competenti. Uniformando i linguaggi, sarà possibile condividere e verificare più facilmente le informazioni relative alla contabilità dei lavori, dei servizi e delle forniture.
È evidente che questa novità amplia il mercato a disposizione dei produttori di software. Così, il testo specifica che le piattaforme telematiche dovranno essere «interoperabili» e funzionare «a mezzo di formati aperti non proprietari», per evitare limitazioni alla concorrenza tramite la creazione di situazioni di monopolio. Solo per i lavori di importo minimo, al di sotto della soglia di 40mila euro, sarà possibile tenere una contabilità semplificata.
Non si tratta della sola novità contenuta nel decreto. Un altro aspetto decisivo riguarda il tema delle riserve: sono, in sostanza, le richieste di maggiori compensi che, tramite iscrizione nei documenti contabili, vengono effettuate in fase di esecuzione di un appalto, per effetto di fatti sopravvenuti che rendono necessario riequilibrare il contratto.
Nel vecchio sistema le riserve venivano regolate per legge. Adesso cambia tutto: il Dm, infatti, rimanda alle regole previste dalla singola amministrazione nel capitolato. In pratica, ogni appalto avrà una storia diversa. Un approccio che, secondo i costruttori dell’Ance, è forierio «di possibile aumento del contenzioso», perché mette nelle mani di una delle parti uno degli istituti chiave per fissare il punto ottimale di equilibrio nel contratto.
Guardando ai soli lavori, vengono reintrodotte nel sistema le cosiddette «varianti non varianti», modifiche di dettaglio che possono essere disposte con una semplice comunicazione al responsabile unico del procedimento, a condizione che non comportino «aumento o diminuzione dell’importo contrattuale». Resta ferma la regola del quinto dell’importo del contratto: se non si sfora questo tetto, l’impresa non potrà chiedere la risoluzione del rapporto.
Sono, infine, più responsabilizzati i professionisti che si occupano di direzione lavori. L’articolo 6 del provvedimento, infatti, rafforza di molto gli oneri a loro carico, in fase di accettazione dei materiali in cantiere. C’è, allora, l’obbligo (e non più la facoltà) per il direttore di disporre prove e analisi ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge per stabilire l’idoneità dei materiali. Ma non solo.
C’è anche l’obbligo di rifiutare i materiali che risultano deperiti dopo l’introduzione in cantiere. E, a completare il quadro delle responsabilità a carico dei professionisti, c’è l’obbligo di verificare il rispetto delle norme in materia di sostenibilità ambientale. I criteri ambientali minimi diventano, così, un pezzo strategico dell’esecuzione dei contratti (articolo Il Sole 24 Ore del 29.05.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOLe posizioni organizzative hanno la proroga automatica. Funzionari. Gli incarichi proseguono senza atto esplicito.
Il contratto delle funzioni locali salva le posizioni organizzative in corso. Ogni ente dovrà rivedere i criteri per nomina e revoca degli incarichi e per l’attribuzione della retribuzione di posizione e di risultato. Nel frattempo le nomine in essere possono continuare, ma al massimo per un anno.

Il contratto rivede a fondo l’istituto delle posizioni organizzative e riscrive i confini in cui possono muoversi gli enti locali. L’articolo 14 afferma che la nomina e la revoca degli incarichi deve avvenire con criteri predeterminati dall’ente, e questo vale sia per la scelta dei soggetti sia per la quantificazione della retribuzione di posizione e di risultato. I tempi di adeguamento non potranno però essere immediati perché comportano sempre precise relazioni sindacali.
I criteri per nomina e revoca e per la graduazione della retribuzione sono oggetto di confronto, mentre quelli per l’erogazione delle indennità di risultato vanno al tavolo della contrattazione integrativa.
Ma nel frattempo cosa accade agli attuali responsabili di posizione organizzativa? L’articolo 13, comma 3, disciplina il regime transitorio. Ogni ente dovrà definire i criteri generali e, dopo, dovrà definire il nuovo assetto delle posizioni organizzative. L’ipotesi di contratto prevedeva che si potessero prorogare gli incarichi già conferiti e ancora in atto alla data dal 21 maggio. La stipula definitiva però aggiunge una sola parola: «proseguono». Intervento provvidenziale, in quanto, nella precedente versione, sembrava comunque necessario un atto di proroga, mentre con la versione definitiva si crea un automatismo per gli incarichi in essere fino alla definizione del nuovo assetto organizzativo e, comunque, al massimo fino al 20.05.2019.
Ma non finisce qui. Le amministrazioni devono subito riflettere anche su due ulteriori aspetti: il primo riguarda la retribuzione di posizione che il nuovo contratto definisce nel valore massimo per la categoria D, fino a 16mila euro. Va però ricordato che l’eventuale incremento, oltre ad essere quantificato con criteri oggettivi, deve tener conto del limite complessivo al trattamento accessorio (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017) che vieta di superare il livello del 2016.
L’altra novità riguarda l’individuazione della retribuzione di risultato. Mentre prima ogni posizione organizzativa poteva contare su un valore dal 10 al 25% della propria retribuzione di posizione, oggi si crea un budget complessivo per tutte le posizioni e, quindi, saranno necessari nuovi criteri per erogare gli importi. Il contratto definitivo conferma quanto già previsto nell’errata corrige, per cui il valore della retribuzione di risultato complessiva per tutti le posizioni deve essere almeno il 15% della somma di quanto destinato a retribuzione di posizione e risultato.
Si crea un meccanismo simile a quello che già c’è per il fondo dei dirigenti, per il quale i criteri di riparto diventano innovativi (articolo Il Sole 24 Ore del 28.05.2018).

INCENTIVI FUNZIONI TECNICHEIncentivi tecnici, prima va individuato il «gruppo di lavoro». La somma comprende contributi e Irap. Le istruzioni Anci/1. Regolamento-tipo sui premi ai dipendenti.
Dopo i chiarimenti contenuti nella deliberazione 26.04.2018 n. 6 della sezione Autonomie della Corte dei Conti, la corsa alla liquidazione degli incentivi per le funzioni tecniche registra un’accelerazione, più che giustificata dopo due anni di stallo.
Ovviamente, prima di procedere è necessario adottare il regolamento, partendo dai criteri e dalle modalità di riparto decisi con la contrattazione decentrata.
Un utile contributo al tema viene proposto dall’Anci, che ha elaborato un quaderno tecnico (n. 12 - maggio 2018) con istruzioni, linee guida, note e modulistica (si veda anche il fac-simile di regolamento in formato .doc compilabile/modificabile a piacimento).
In questo documento, in primo luogo, si disegna il quadro normativo di riferimento. Oltre ai richiami di legge, opportunamente vengono evidenziati gli orientamenti prevalenti delle Corte dei Conti. Da segnalare, fra questi, il richiamo alla la deliberazione 13.05.2016 n. 18 della sezione Autonomie, in cui si identificano le caratteristiche necessarie al dipendente per assumere la qualità di collaboratore ai fini della liquidazione dei compensi.
L’Anci propone uno schema di regolamento, che può rappresentare un valido strumento guida per le amministrazioni. Queste, però, dovranno adattarne il contenuto alle proprie caratteristiche. Alcuni suggerimenti presenti nello schema di regolamento meritano di essere segnalati.
Innanzitutto, la formalizzazione del gruppo di lavoro prevista dall’articolo 3. Spesso, nelle realtà medio-grandi e talvolta anche nei piccoli Comuni, non sono chiaramente individuati i dipendenti che hanno svolto le funzioni oggetto di incentivazione. La costituzione del gruppo di lavoro, con provvedimento del dirigente o del responsabile del servizio, toglie ogni dubbio fin dall’origine. Con questa operazione, il personale che ne fa parte assume la responsabilità del procedimento o di parte di esso, e si pongono le basi per il diritto al compenso.
Interessante la modulazione del fondo, contenuta nell’articolo 5. Viene chiarito che le somme destinate agli incentivi sono comprensive «degli oneri previdenziali, assistenziali e del contributo fiscale Irap a carico dell’amministrazione». Finalmente viene presa una posizione chiara sull’argomento. In verità, la Corte dei Conti già si è espressa in tal senso (sezioni Riunite,
deliberazione 30.06.2010 n. 33), ma alcune letture della stessa delibera dubitano ancora oggi sulla portata di quanto affermato dai magistrati contabili. La previsione regolamentare potrebbe mettere fine ad ogni discussione. Un altro punto di forza dello schema di regolamento proposto dall’Anci è rappresentato dalle ipotesi di «esclusione dalla disciplina di costituzione del fondo».
Oltre ai lavori in amministrazione diretta e ai contratti a cui non si applica il Codice appalti, è opportuna la previsione di un importo minimo dei lavori e degli acquisti di beni e servizi, al di sotto del quale nessun compenso compete a titolo di incentivazione. Si ritiene che, in questa sede, fra le ulteriori ipotesi individuate dall’amministrazione, possa essere affrontato anche il problema delle manutenzioni, ordinarie e straordinarie, per chiarire se i lavori sono incentivabili o meno.
La posizione della Corte dei Conti non è univoca, quindi possono essere portati validi argomenti sia per l’inclusione sia per l’esclusione.
Condivisibile la graduazione del fondo incentivante suddivisa fra lavori, all’interno dei quali sono distinte le opere puntuali da quelle di rete, e servizi e forniture. L’Anci non si spinge a formulare una proposta di percentuali da destinare alle singole funzioni. È la parte più delicata del regolamento, in cui le singole amministrazioni devono contemperare i diversi interessi in gioco: quelli dei dipendenti destinatari dei compensi rispetto al restante personale e le disponibilità finanziarie a disposizione (che possono assumere importi rilevanti) rispetto a una gestione dell’intero bilancio.
Infine, da evidenziare la disciplina transitoria, che chiarisce sia le attività alle quali si applica il regolamento sia come trattare le funzioni svolte fra l’emanazione del codice degli appalti e l’adozione dello stesso regolamento.
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I punti chiave
01 GRUPPO DI LAVORO
Per erogare gli incentivi è necessario prima adottare il regolamento comunale. L’Anci propone uno schema-tipo di regolamento, che parte dall’individuazione dei dipendenti che svolgono le funzioni oggetto dell’incentivo. La previsione vale per i Comuni medio-grandi, ma è utile anche per quelli più piccoli. La base per il diritto al compenso risiede nella responsabilità del procedimento assunta dal personale che fa parte del gruppo.
02 ONERI A CARICO
Secondo le istruzioni dell’Anci, le somme complessive comprendono contributi e Irap.
03 LE ESCLUSIONI
Sono esclusi dall’incentivazione i lavori in amministrazione diretta e i contratti a cui non si applica il Codice appalti. Il regolamento tipo chiede anche di indicare una soglia minima delle opere “incentivate” (articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2018).

INCARICHI PROGETTUALIIngegneri e architetti in gara solo se c’è l’assicurazione. Affidamenti. Linee guida Anac in consultazione fino al 13 giugno.
Gli enti devono affidare i servizi di ingegneria e di architettura sulla base di un articolato quadro di criteri, e, per concorrere, gli operatori economici devono avere un’assicurazione professionale.

L’Anac ha posto in consultazione (con scadenza al 13 giugno) lo schema di bando-tipo per l’affidamento di servizi di ingegneria e architettura sopra i 100mila euro, fornendo molti elementi di dettaglio per la valutazione delle offerte e per la regolazione del rapporto con gli affidatari.
Il disciplinare di gara segue l’impostazione del bando generale per servizi e forniture (n. 1/2017), proponendo molte differenze legate alla natura dei servizi tecnici: ad esempio, essendo servizi intellettuali, non è prevista l’applicazione della clausola sociale.
Lo schema e la nota illustrativa chiariscono le modalità di specificazione dell’importo dell’appalto e del metodo di calcolo dei compensi in base al Dm Giustizia del 17.06.2016, specificando le tabelle per le categorie e le tariffe che le stazioni appaltanti devono compilare fornendo il dettaglio degli elementi utilizzati per il calcolo, in relazione al tipo di incarico. All’esito di queste operazioni, il disciplinare riporta l’importo a base di gara al netto dell’Iva e oneri previdenziali e assistenziali.
L’Anac evidenzia anche l’importanza di alcune innovazioni determinate dal Codice appalti, focalizzando l’attenzione sull’obbligo di applicazione dei criteri ambientali minimi sia alle specifiche tecniche sia, in relazione alla gara, al sistema criteriale. Proprio l’impostazione dei criteri per la valutazione con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa è l’elemento di maggior interesse del bando.
Anche se formulato in chiave dimostrativa, il sistema dei criteri discrezionali e tabellari è molto articolato e replica in forma operativa gli elementi elaborati dall’Anac nelle linee-guida n. 1, strutturandoli in tre gruppi relativi alla professionalità e all’adeguatezza dell’offerta, alle caratteristiche metodologiche e ai criteri ambientali minimi.
Sulla copertura assicurativa per l’attività professionale, lo schema fa riferimento all’articolo 3, comma 5, lettera e), della legge 148/2011, che prevede, per tutti i professionisti, l’obbligo di stipulare un’assicurazione per la copertura della responsabilità civile professionale, e a quanto previsto dall’articolo 24, comma 4 del Codice, che impone ai professionisti di munirsi di copertura assicurativa contro i rischi professionali.
Tenuto conto della responsabilità del progettista (articolo 106, del Codice) la polizza deve coprire anche i rischi derivanti da errori e omissioni nella redazione del progetto esecutivo o definitivo che abbiano determinato, a carico della stazione appaltante, nuove spese di progettazione o maggiori costi: la copertura di questi rischi va verificata dalle stazioni appaltanti al momento della stipula del contratto (articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATADal condizionatore al prato, più semplici i lavori dell'estate. Effetto combinato di «sconti» e liberalizzazione. Ma sui titoli abilitativi valutazione caso per caso.
Difendersi dal calore, raffrescare gli ambienti interni, rendere più "fruibile" uno spazio outdoor, con opere di riqualificazione del verde o grazie all'inserimento di gazebo e pergolati.
Sono molti i lavori che -con l'arrivo della stagione estiva- possono essere affrontati in casa. Piccole e (in alcuni casi) anche più corpose manutenzioni che da una parte -dopo il 22 aprile- fruiscono di una corsia preferenziale sotto l'aspetto autorizzativo e dall'altra possono talora essere agevolate grazie a detrazioni fiscali. A seconda dell'intervento che si affronta, il percorso è diverso.
Con un denominatore comune.
Che sia un pergolato, una schermatura solare o l'inserimento di un impianto di raffrescamento, quest'anno sarà più semplice (almeno sulla carta) procedere. Perché dallo scorso 22 aprile, con l'entrata in vigore del glossario dell'edilizia libera (Dm Infrastrutture 02.03.2018), molte fra queste opere rientrano nelle 58 che possono essere realizzate senza titolo abilitativo, in edilizia libera. Facciamo qualche esempio.
Prendiamo la realizzazione di un pergolato: la norma specifica che sedi limitate dimensioni o non stabilmente infisso al suolo, il manufatto non necessita di uno specifico permesso. Ciò non significa che si possa agire senza limiti.
Lo stesso glossario, infatti, precisa chele opere devono essere effettuate «nel rispetto delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e di tutte le normative di settore». Dunque se esistono vincoli e norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico- sanitarie, relative all'efficienza energetica, di tutela dal rischio idrogeologico, o prescrizioni paesaggistiche vanno rispettate e potrebbe essere necessario un permesso o un nulla osta (si veda il Sole 24 Ore del 7 maggio). Così come va salvaguardato l'eventuale diritto di terzi e, in condominio, l'osservanza di ciò che è prescritto dal regolamento.
Da aggiungere che una recente sentenza del Consiglio di Stato (2715 del 7 maggio) precisa come per alcuni manufatti (in questo caso una tettoia a tenda) vada valutato caso per caso e spetti ai Comuni più in generale disegnare i confini di azione. Altro aspetto è quello delle agevolazioni fiscali. Prima premessa: laddove i lavori non sono soggetti a titolo abilitativo, poter chiedere l'accesso al bonus, è necessario dotarsi di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, in cui va indicata la data di inizio dei lavori e deve essere attestata la conformità urbanistica. In pratica, un'autocertificazione da conservare in caso di controlli.
Entrando nel merito, non tutti i lavori godono di bonus fiscali. Ad esempio, la tinteggiatura nelle singole unità edilizie, da sola, è esclusa in quanto manutenzione ordinaria. Diversi bonus sono invece possibili per l'impianto di condizionamento: l'iter da seguire dipende dal contesto. Se l'impianto è a pompa di calore è possibile fruire della detrazione del Sodo per le ristrutturazioni (anche per installazione ex novo), nel capitolo degli interventi finalizzati al risparmio energetico. In alternativa, scatta l'ecobonus al 65% se si sostituisce un impianto preesistente di riscaldamento con un sistema per il caldo e il freddo. In questo caso, occorre inviare all'Enea, entro 90 giorni dalla fine lavori, la scheda informativa prescritta.
Sempre per il condizionamento, se l'impianto è alimentato da fonte rinnovabile è possibile anche chiedere un contributo diretto (non una detrazione) a valere sul conto termico.
Da quest'anno, per effetto del cosiddetto bonus verde, sono infine agevolate molte piccole e grandi opere di restyling di giardini e spazi verdi: è il caso della risistemazione delle aree verdi o della installazione di sistemi di irrigazione. L'agevolazione prevista è del 36% fino a un tetto di spesa di 5mila curo (articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2018 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOStipendi illegittimi. Danno erariale e obblighi di recupero. Compensi, l’ok dei dirigenti non cancella la responsabilità.
La violazione delle norme contrattuali che dettano le modalità di erogazione del salario accessorio può determinare di per sé, anche se si tratta di risorse quantificate in modo legittimo, la maturazione di responsabilità amministrativa, e quindi le amministrazioni devono procedere al recupero di queste somme. La responsabilità può nascere anche in capo agli amministratori, e non li esime la circostanza che la deliberazione sia stata assunta con il parere positivo dei dirigenti. Di questi elementi gli enti devono tenere conto nelle decisioni sulla sanatoria della contrattazione decentrata illegittima. Una materia sulla quale le norme offrono una risposta parziale, limitata al recupero per le illegittimità commesse nella quantificazione dei fondi, non prevedendo nulla sulle modalità di recupero direttamente a carico dei percettori dei compensi illegittimi.
Le disposizioni sono dettate dal Dl 16/2014 e dal Dlgs 75/2017; esse dispongono per tutte le Pa l’obbligo di recupero delle somme illegittimamente o erroneamente inserite in aumento nei fondi per la contrattazione decentrata. Queste somme vanno recuperate entro un numero di anni non superiore a quello in cui le illegittimità hanno prodotto effetti: l’arco temporale va allungato se il recupero annualmente incide per oltre il 25% del fondo.
Regioni ed enti locali possono inoltre allungare il periodo per altri cinque anni se dimostrano di aver attivato i recuperi e di dar corso alla razionalizzazione delle partecipate. Tutte le Pa effettuano il recupero destinando una parte dei fondi a questo fine, quindi attraverso una reversale, anziché dare corso alla loro erogazione.
Regioni ed enti locali possono inoltre effettuare il recupero dando corso al collocamento di personale o dirigenti in eccedenza, destinando a questo scopo fino al 100% dei proventi derivanti dai piani di razionalizzazione, attraverso i risparmi conseguiti con il non integrale utilizzo delle proprie capacità assunzionali.
Non ci sono disposizioni sul recupero del salario accessorio illegittimamente erogato, quanto meno per i compensi erogati dopo il 31.12.2012. Per quelli erogati fino a quella data ci sono letture discordanti sull’applicazione di una “sanatoria tombale” e sulla sua estensione a tutti gli enti o solo a quelli virtuosi.
La giurisprudenza della Corte dei Conti, da ultimo con la sentenza 00.00.2018 n. 137 della sezione giurisdizionale della Campania, con riferimento alla produttività conferma che l’erogazione illegittima, nel caso specifico per obiettivi assegnati tardivamente che non hanno determinato miglioramenti e senza la valutazione dei loro effetti, determina di per sé la maturazione di responsabilità.
La responsabilità non matura solo sui dirigenti, ma si allarga agli amministratori: l’esimente della buona fede non può essere invocata sulla base della considerazione che il provvedimento è stato adottato con i pareri positivi dei dirigenti, perché il compito della giunta non è quello di dar corso alla «mera ratifica di decisioni assunte da chi esprime il parere tecnico o contabile».
Non si deve considerare in alcun modo acquisita la possibilità di calcolare la prescrizione quinquennale della responsabilità amministrativa non dal momento del pagamento, ma dal quello della “scoperta” dell’illegittimità da parte della Corte dei Conti: è una lettura che, se si consolidasse, circoscriverebbe non poco gli ambiti di maturazione della responsabilità amministrativa (articolo Il Sole 24 Ore del 14.05.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSul tetto al fondo accessorio l’incognita degli incarichi. Integrativi. Il punto dopo l’esclusione degli incentivi di progettazione.
È il momento di tirare le fila sulle limitazioni al trattamento accessorio degli enti locali. Dopo le ultime interpretazioni della Corte dei conti è possibile ricostruire il riassunto delle tipologie lavorative che rientrano nel campo di applicazione dell’articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 75/2017, cioè della norma che impone di non far superare al fondo accessorio il livello raggiunto nel 2016.
La disposizione prevede che il vincolo si applichi «all’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale». Questo aggregato, in principio, era stato riferito al concetto di “fondo”. Successivamente è però emerso che non tutti i trattamenti accessori transitano dal fondo delle risorse decentrate. Si pensi ad esempio alla retribuzione dei dipendenti o dei dirigenti per gli incarichi ex articolo 110 del Tuel, o alla maggiorazione della retribuzione di posizione eventualmente corrisposta ai segretari comunali. Quali sono, quindi, oltre ai trattamenti accessori dei dipendenti, i compensi delle altre tipologie lavorative che vanno conteggiate nel limite?
La pietra miliare nell’esaminare la questione è costituita dalla Deliberazione 26/2014 della sezione Autonomie della Corte dei conti, in cui si afferma il principio generale per il quale il limite non vale solo sui “fondi”, ma per ogni tipologia di trattamento accessorio. In questo contesto, assume particolare rilievo la retribuzione di posizione e di risultato dei dipendenti incaricati di posizione organizzativa, per la quale i magistrati contabili affermano sicuramente l’assoggettabilità ai paletti delle norme che si sono succedute sui compensi accessori.
Ma c’è un altro caso, “irrisolto”. Ai dirigenti o ai responsabili incaricati a contratto in base all’articolo 110 del Tuel è possibile riconoscere, come prevede il comma 3, un assegno ad personam. Dal punto di vista della retribuzione (busta paga) si tratta certamente di un trattamento accessorio ma, in questo caso, le sezioni regionali della Corte dei conti sono spaccate sull’applicabilità o meno dell’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017. I magistrati del Piemonte, con la delibera 144/2017, fanno capire che rientra tutto nel limite; quelli della Basilicata, con la delibera 69/2017, pensano il contrario.
È poi emerso il problema della maggiorazione della retribuzione di posizione che può essere corrisposta, in determinate situazioni, ai segretari comunali. L’incremento, che è discrezionale, è stato ritenuto dalla Corte dei conti della Lombardia, nella delibera 116/2018, rilevante ai fini del rispetto del tetto del trattamento accessorio.
C’è infine un’ultima esclusione dal tetto introdotta con la circolare 2/2018 del Dipartimento della Funzione pubblica, ovvero la possibilità di aumentare il limite fissato dall’articolo 23, comma 2, di «un valore pari alla misura già percepita a titolo di trattamento accessorio» dal personale a tempo determinato che viene stabilizzato, ma solo se questi compensi erano posti in precedenza a carico del bilancio e non del fondo.
Quello che risulta è, quindi, un quadro dai contorni ancora sfocati al quale è impossibile apporre una cornice definitiva (articolo Il Sole 24 Ore del 07.05.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConcorsi, regolamenti da adeguare. Personale. Le istruzioni vincolano la Pa centrale, ma le altre amministrazioni devono «correggere» le regole su requisiti e procedure. Gli effetti per gli enti locali delle Linee guida della Funzione pubblica sul reclutamento.
Obbligo per le amministrazioni statali ed invito a quelle regionali e locali a concorsi unici, ad aderire al portale nazionale e a formare albi dei componenti delle commissioni tra cui scegliere con sorteggio.

Sono queste le scelte di maggiore rilievo contenute nelle Linee Guida sui concorsi che sono state predisposte dal ministro per la Semplificazione e la Pubblica amministrazione e che, avendo ottenuto il parere positivo della Conferenza Unificata, stanno per essere emanate dopo l’ultimo passaggio in Corte dei conti.
Occorre ricordare che non è definito se e quanto questo documento sia vincolante per le amministrazioni non statali. In ogni caso, tutte le Pubbliche amministrazioni devono adeguare i propri regolamenti, soprattutto per gli aspetti principali. In primo luogo, va rilevata la necessità di trovare un punto di incontro ragionevole tra i requisiti, la preferenza per procedure semplici anche automatizzate e la procedura concorsuale (esami, titoli, titoli ed esami, corso concorso o selezione per l'accertamento della professionalità richiesta).
Il documento impone alle amministrazioni statali e suggerisce a quelle non statali (quindi a regioni, enti locali e sanità) il ricorso, soprattutto per la dirigenza e per i profili comuni, a concorsi unici indetti dalla Funzione pubblica, che si avvale al riguardo della Commissione Ripam e dell'associazione Formez Pa.
Alle amministrazioni regionali e locali viene inoltre suggerito di dare corso a esperienze di gestione associata delle procedure concorsuali, per evitare la “polverizzazione” del reclutamento.
Allo stesso scopo risponde un’altra indicazione presente nelle istruzioni, vale a dire lo stimolo a realizzare procedure unificate per parti comuni delle procedure concorsuali, a partire dalle preselezioni. Viene dettato il vincolo per le amministrazioni statali, che si trasforma in un suggerimento per gli altri enti, di aderire al portale nazionale del reclutamento, che dovrà contenere le informazioni sia sui concorsi che vengono indetti sia su quelli già espletati.
Nell’individuazione dei requisiti che i candidati devono possedere, viene suggerito di tener conto sia del collegamento con la professionalità sia della platea dei soggetti che ne sono in possesso, così da evitare di ridurre eccessivamente il numero dei partecipanti.
Gli enti possono prevedere per le figure apicali anche non dirigenti, il possesso del requisito del dottorato di ricerca, oltre alla sua valorizzazione in termini di punteggio.
Nella scelta dei titoli, da bilanciare tra quelli di servizio (che privilegiano chi è già un dipendente pubblico) e gli altri, si devono il più possibile evitare discriminazioni nei confronti dei più giovani e dei candidati esterni.
Le prove concorsuali, siano esse scritte, orali o pratiche, si devono caratterizzare soprattutto per l'accertamento della capacità di mettere in pratica le conoscenze possedute e, in questo modo, di risolvere i problemi aperti, evitando quindi gli eccessi di nozionismo.
Già nelle eventuali preselezioni, la riduzione della platea dei candidati deve essere perseguita privilegiando soprattutto il merito, le competenze professionali e le capacità operative.
La Funzione pubblica per i concorsi unici per le amministrazioni statali attiverà un albo dei commissari tra cui scegliere sulla base di sorteggi: lo stesso metodo viene suggerito a tutte le Pubbliche amministrazioni, ferma restando la necessità di dare applicazione ai vincoli dettati dalla normativa anticorruzione e di rispettare i tetti di spesa previsti per ogni comparto (articolo Il Sole 24 Ore del 30.04.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODeroghe ai concorsi pubblici, torna a vincere il «fai-da-te». Pa. Niente portale e modello unico per Regioni, sanità ed enti locali.
Regioni, sanità ed enti locali potranno evitare di aderire al Portale nazionale del reclutamento e al “modello unico” dei concorsi che la riforma della Pa ha messo in campo nel tentativo di cambiare modi e procedure del reclutamento nel pubblico impiego. E potranno decidere in base alla propria «autonomia organizzativa» come utilizzare le istruzioni per definire i «fabbisogni di personale», alla base dell’impianto che la stessa riforma ha indicato per superare le vecchie, e rigide, dotazioni organiche; il tutto con l’idea di concentrare le assunzioni sul personale impegnato nelle «funzioni fondamentali» dei vari enti, nei servizi ai cittadini e nello sviluppo digitale delle amministrazioni.
I testi delle Linee guida sui concorsi pubblici e del decreto con le istruzioni sui fabbisogni di personale, nelle versioni finali rivedute e corrette per accogliere le condizioni poste dalle amministrazioni locali per dare il proprio via libera, vanno ora alla Corte dei conti (le Linee guida) e al ministero dell’Economia (il decreto sui fabbisogni) per gli ultimi passaggi. E nel loro testo finale mostrano che anche in fatto di assunzioni, come accaduto per molti capitoli della riforma Madia, quello attraverso l’intesa obbligata con Regioni ed enti locali è stato un passaggio tutt’altro che formale.
La filosofia dei due provvedimenti è chiara. Alla vigilia di una gobba di pensionamenti che in quattro anni farà uscire dalla Pa almeno 500mila persone, la riforma ha provato a mettere ordine nei nuovi ingressi con tre ingredienti: una modifica delle prove di concorso, per introdurre prove pratiche come «la redazione di note, di pareri, di atti, di grafici, la soluzione di problemi di calcolo o progettazione» e verificare le «capacità» oltre alle conoscenze teoriche dei candidati; una dose di trasparenza, attraverso concorsi unificati anche a livello territoriale e un portale nazionale con un censimento in tempo reale delle prove e dei loro esiti; l’addio alla pianta organica, per modulare i nuovi ingressi in base ai bisogni effettivi e non a fotografie sgranate delle organizzazioni.
Dalla filosofia alla pratica, però, la strada è lunga, e complicata dal confronto serrato necessario a ottenere l’accordo con gli enti territoriali. E il risultato finale indica che concorsi unici e portale nazionale riguarderanno in via diretta solo le assunzioni nei ministeri e nella Pa centrale, che peraltro in genere passano già attraverso decreti di Palazzo Chigi: per gli enti territoriali sarà tutto facoltativo.
La prima deroga importante colpisce proprio il portale nazionale: a dare valore a un censimento di questo tipo è la sua completezza ma, come si legge nelle Linee guida finali, «l’adesione e la conseguente trasmissione delle informazioni alla banca dati da parte degli enti territoriali è rimessa alla determinazione degli stessi in merito a modalità e oggetti». In pratica, solo chi vorrà aderire al nuovo sistema manderà bandi, valutazioni e graduatorie al portale nazionale, mentre gli altri continueranno come oggi. E tutti, compresi gli enti più piccoli, potranno mantenersi autonomi anche nei mini-concorsi, perché di correttivo in correttivo l’adesione alle selezioni uniche a livello territoriale è stata degradata a «opportunità comunque consigliata».
Per non coglierla non servirà nemmeno una motivazione esplicita, che rimane obbligatoria solo per le articolazioni territoriali della Pa centrale che vorranno avviare concorsi in autonomia. In questo quadro, l’obiettivo di Funzione pubblica diventa quello di attrarre le amministrazioni tramite i servizi del portale, dalla modulistica alla raccolta delle candidature, per ottenere con gli incentivi l’adesione che non si riesce a garantire per via normativa.
Simile l’evoluzione della direttiva sui fabbisogni che fin dalle premesse, nel definire l’ambito di applicazione, richiamano l’«autonomia organizzativa» di Regioni ed enti locali nell’applicare le nuove regole. In questo caso, l’impatto è meno rilevante perché gli enti locali già da tempo programmano il reclutamento in termini di fabbisogni. Le novità più importanti dovrebbero invece arrivare per la sanità, che dall’intesa ha spuntato il via libera a una revisione dei parametri sulla spesa di personale (articolo Il Sole 24 Ore del 27.04.2018).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIMail aziendali da conservare, private da distruggere.
Il datore di lavoro deve distinguere le mail scambiate tramite le caselle in uso ai dipendenti per scopi aziendali e conservare solo quelle.
Ci vuole, infatti, un sistema di gestione dei flussi documentali, altrimenti la posta elettronica e anche la conservazione totale ed indiscriminata delle comunicazioni elettroniche diventano un controllo a distanza (vietato).

La necessità di fare una cernita delle e-mail da tenere è stata dichiarata dal Garante della privacy in un articolato provvedimento, che ha accolto la tesi di un lavoratore (provvedimento 01.02.2018 n. 53).
Nel caso in questione ad una società è stata contestata la conservazione di tutta la posta elettronica (anche quella privata) scambiata da un dipendente e parte della quale (relativa a un biennio) è stata usata per contestazioni disciplinari.
La società ha dichiarato di tenere tutte le mail per un periodo amplissimo e cioè un anno oltre la cessazione del rapporto di lavoro; questo per esigenze lavorative e anche per conservare eventuali prove da utilizzare a propria difesa. Il Garante ha bocciato tale operato e ha formulato tre principi.
Il primo dice che la conservazione integrale di tutte le mail, per un tempo amplissimo, anche in vista di possibili contenziosi, viola la disciplina del trattamento dei dati.
Non basta una generica finalità difensiva, perché la conservazione è legittima se riferita a contenziosi in atto o a situazioni precontenziose e non a ipotesi astratte. Inoltre, il datore di lavoro non può accedere alle mail individuali dopo il licenziamento del lavoratore: al cessare del rapporto di lavoro la casella di posta elettronica deve essere disattivata e al suo posto di devono attivare account alternativi.
Il secondo principio afferma che i sistemi di posta elettronica, in quanto tali, non garantiscono la archiviazione selezionata e la reperibilità delle e-mail necessarie all'efficiente svolgimento e alla continuità dell'attività aziendale.
Il terzo principio riferisce che la raccolta massiva, prolungata ed indiscriminata delle mail contrasta con il divieto di controllo a distanza, anche dopo la modifica dell'articolo 4 dello statuto dei lavoratori ad opera del Jobs Act.
Fin qui la parte che sottolinea che cosa non deve essere fatto. Il Garante, però, indica anche i rimedi per essere in regola con la privacy. In particolare il datore di lavoro deve predisporre sistemi di gestione documentale in grado di individuare selettivamente i documenti che devono essere via via archiviati. Altro accorgimento, se del caso, è quello di individuare limiti temporali di conservazione delle e-mail, anche diversificati in base alle funzioni svolte e coerenti con i limiti di spazio a disposizione e/o fornendo indicazioni sulla necessità di effettuare periodicamente la selezione e cancellazione dei messaggi conservati, al fine di evitare eccessivi appesantimenti del sistema di gestione della posta elettronica.
Altri adempimenti riguardano le informazioni da dare ai dipendenti, che devono dettagliare se ci sia o meno accesso ai contenuti delle e-mail da parte di eventuali amministratori di sistema
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2018).

GIURISPRUDENZA

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO DEL SUOLO – Prevenzione, riparazione e bonifica dei siti contaminati – Disciplina – Attività di tutela ambientale – Compressione delle attribuzioni regionali – Diretta conseguenza delle esigenze di tutela ambientale – Forme di coinvolgimento degli enti locali.
Spetta allo Stato disciplinare, pure con disposizioni di dettaglio e anche in sede regolamentare, le procedure amministrative dirette alla prevenzione, riparazione e bonifica dei siti contaminati. È evidente che le relative attività e i conseguenti interventi sono strettamente condizionati alla definizione di un adeguato e puntuale programma di rigenerazione urbana, che postula l’esercizio di funzioni propriamente programmatorie a livello urbanistico. Tuttavia, l’attività di tutela dell’ambiente può implicare anche il coinvolgimento delle funzioni appartenenti ad altre materie, limitando in tal modo le competenze regionali.
D’altronde, la disciplina in tema di bonifica dei siti contaminati (artt. da 239 a 253 del d.lgs. n. 152 del 2006) tiene conto della necessaria incidenza sul «governo del territorio», poiché gli interventi ivi previsti sono strettamente connessi alla destinazione urbanistica delle singole aree da bonificare. In particolare, per i siti d’interesse nazionale si stabilisce la competenza dell’amministrazione statale alla bonifica, qualora a ciò non provvedano il responsabile dell’inquinamento (o lo stesso non sia individuabile), il proprietario o altro soggetto interessato. Ed in base a tale disciplina l’autorizzazione del progetto e dei relativi interventi costituisce esplicitamente variante urbanistica e comporta dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori (art. 252, comma 6).
Dunque, per tutti gli aspetti concernenti la bonifica dell’area interessata, la compressione delle attribuzioni regionali in materia urbanistica è diretta conseguenza delle esigenze di tutela ambientale, di competenza esclusiva statale, senza che possa profilarsi una violazione delle disposizioni costituzionali sul riparto di competenze. Nell’allocare in capo allo Stato le varie funzioni, il legislatore statale ha tuttavia previsto varie forme di coinvolgimento della Regione e del Comune. Tali enti, infatti, partecipano alla cabina di regia, alla quale è demandata la definizione degli indirizzi strategici per l’elaborazione del programma di risanamento ambientale e rigenerazione urbana.
Il Soggetto attuatore, inoltre, deve acquisire ed esaminare le proposte del Comune ai fini della predisposizione del programma e le stesse, ove non accolte, devono essere necessariamente rivalutate nella Conferenza di servizi. È in tale sede, a cui partecipano Comune e Regione, che le amministrazioni coinvolte devono raggiungere un accordo sul programma e solo nel caso in cui ciò non avvenga la decisione può essere rimessa ad una deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata però con la necessaria partecipazione alla relativa seduta del Presidente della Regione interessata.
Il superamento del dissenso delle amministrazioni coinvolte, dunque, non può avvenire in via unilaterale da parte dello Stato, ma è frutto di una complessa attività istruttoria, articolata secondo numerosi meccanismi di raccordo, i quali, pur disegnando un procedimento diverso dall’intesa, assicurano una costante e adeguata cooperazione istituzionale. Anzi, in caso di mancato accordo, il procedimento si conclude proprio con le stesse modalità previste per il superamento del dissenso in assenza d’intesa, ossia con una deliberazione del Consiglio dei ministri adottata in una seduta a cui deve necessariamente partecipare il Presidente della Regione interessata (Corte Costituzionale, sentenza 13.06.2018 n. 126 - massima tratta da
www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Smaltimento rifiuti di plastica provenienti da utenze domestiche.
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Rifiuti – Plastica – Smaltimento – Operatore privato che non gestisce il servizio pubblico dei rifiuti – Autorizzazione – Diniego – Legittimità.
E’ legittimo il provvedimento con il quale un Comune nega la possibilità ad un operatore privato, che non sia gestore del servizio pubblico dei rifiuti, di raccogliere presso esercizi commerciali, che hanno messo a disposizione proprie aree private, i rifiuti di plastica provenienti da utenze domestiche (verso corrispettivo premiale) da avviare al recupero attraverso la cessione alle aziende specializzate (1).
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   (1) Ha chiarito il Tribunale che alla luce del quadro regolatorio vigente in materia, la plastica consegnata dal cittadino agli eco-conferitori non trasformata e non ancora recuperata costituisce rifiuto di imballaggio ai sensi dell’art. 218, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 152 del 2006.
Si tratta, in particolare, di rifiuti che derivano da imballaggi primari ovvero quelli concepiti in modo da costituire, nel punto di vendita, un’unità di vendita per l’utente finale o per il consumatore (art. 218, lett. b, d.lgs. n. 152 del 2006); essi costituiscono, pertanto, rifiuti domestici ai sensi dell’art. 184, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006 in quanto provenienti da locali e luoghi adibiti ad uso di civile abitazione ed in particolare rifiuti domestici destinati al recupero;
Ha aggiunto il Tar che ai sensi dell’art. 198, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, i Comuni continuano la gestione dei rifiuti in regime di privativa relativamente a due categorie di rifiuti ossia i rifiuti urbani e i rifiuti assimilati agli urbani avviati allo smaltimento; non è condivisibile la tesi del Comune, secondo cui la dicitura di cui all’art. 198, d.lgs. n. 152 del 2006 “avviati allo smaltimento” si riferirebbe non ai “rifiuti urbani” ma solo ai “rifiuti assimilati”, sicché il regime di privativa sarebbe escluso solo per questi ultimi ove non avviati allo smaltimento ma al recupero; ergo tale regime sarebbe riferibile “a due categorie di rifiuti: a) i rifiuti urbani ( tutti i rifiuti urbani ); b) rifiuti assimilati (agli urbani) avviati allo smaltimento”.
In realtà, oltre alla formulazione letterale dell’art. 198, è l’intenzione del legislatore quale già espressa nell’art. 21, d.lgs. n. 22 del 1997 e poi nell’art. 23, l. n. 179 del 2002, a indurre a ritenere che la dicitura avviati allo smaltimento faccia riferimento sia al rifiuto che agli assimilati.
La norma in questione, quindi, costituisce conferma di una volontà che il legislatore ha già esplicitato (da ultimo) nell’art. 23, comma 1, lett. e), l. n. 179 del 2002, secondo cui “La privativa comunale non si applica alle attività di recupero dei rifiuti urbani e assimilati a far data dal 01.01.2003”, ponendosi l’art. 198 in questione in linea con tale ultima norma.
Conseguentemente, l’attività disimpegnata dalla società ricorrente, volta al recupero e non allo smaltimento, non rientra nella privativa comunale nella gestione dei rifiuti. La liberalizzazione dell’attività di recupero e nello specifico dell’attività svolta dalla ricorrente –qualificabile come attività di pubblico interesse ai sensi dell’art. 177, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006– non comporta che la stessa possa svolgersi al di fuori di qualsivoglia programmazione con l’ente pubblico e al di fuori di un convenzionamento con il Comune (artt. 199 e segg., d.lgs. n. 152 del 2006).
In caso contrario, in presenza di attività private autonoma, ancorché autorizzate, l’attività di monitoraggio della raccolta potrebbe subire menomazioni, potenzialmente determinando una alterazione della percentuale di raccolta rilevata rispetto a quella effettiva ed esponendo di contro il Comune al rischio di penali qualora la percentuale rilevata sia inferiore all’obiettivo minimo sancito dalla legge.
In particolare, per quel che rileva, l’attività di raccolta della plastica svolta da soggetti privati, al di fuori di convenzioni con i Comuni, sfuggirebbe quindi al controllo della P.A., con pregiudizio per l’attività di gestione dei rifiuti. Ai detti fini non può considerarsi sufficiente né il possesso dell’autorizzazione in capo alla società (prevista all’art. 212, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006) né la mera disponibilità della stessa a fornire al Comune tutti i dati relativi alla raccolta.
In assenza di un preciso accordo giuridicamente vincolante che regolamenti i rapporti tra impresa privata e comune l’attività di raccolta di rifiuti di plastica tramite ecoconferitori svolta dalla ricorrente, deve quindi considerarsi illegittima in quanto al di fuori del sistema integrato, come previsto dal d.lgs. n. 152 del 2006 (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 12.06.2018 n. 1253 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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1. La controversia in esame mira ad accertare la legittimità del provvedimento impugnato con il quale il Comune nega la possibilità ad un operatore privato, che non sia gestore del servizio pubblico dei rifiuti, di raccogliere presso esercizi commerciali, che hanno messo a disposizione proprie aree private, i rifiuti di plastica provenienti da utenze domestiche (verso corrispettivo premiale) da avviare al recupero attraverso la cessione alle aziende specializzate.
In particolare, tra le parti i punti controversi sostanzialmente afferiscono alla natura di “rifiuto” del materiale plastico raccolto dalla ricorrente (sostenendo l’amministrazione che trattasi di rifiuto e parte ricorrente di risorsa) ed alla sussistenza del regime di privativa o meno con riferimento all’attività de qua (sostenendo parte ricorrente, contrariamente al Comune, che trattasi di attività liberalizzata).
La società ricorrente assume che nella gestione dei rifiuti sussisterebbe una netta distinzione tra i rifiuti da avviare allo smaltimento e quelli da avviare al recupero, essendo i primi soggetti ad un regime di privativa, regime che, invece, sarebbe escluso per i secondi, soggetti al libero mercato aperto anche agli operatori privati dotati delle relative autorizzazioni e iscrizioni previste dalla legge.
Fonda le proprie deduzioni sull’art. 21, comma 7, del D.lgs. 22/1997, così come confluito negli artt. 198, 217 e 218, lett. m), del D.lgs. 152/2006.
Assume, altresì, che la fase del “recupero”, oggetto di liberalizzazione, secondo un criterio teleologico, comprenderebbe l’intera catena delle operazioni preliminari e intermedie (e quindi anche raccolta e trasporto), contrariamente a quanto ritenuto dal Comune resistente; tale assunto si fonderebbe sull’art. 183, comma 1, lett. t), del D.lgs. n.152/2006.
2. Il ricorso è infondato.
2.1. Occorre, preliminarmente, affrontare la tematica della qualifica del bene in questione per accertare se esso rientri o meno nella nozione di rifiuto, per poi esaminare la conseguente questione della modalità della sua gestione.
Ai sensi dell’art. 183 del D.lgs. n. 152/2006, comma 1, lett. a), è “rifiuto”: “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”.
In relazione alla nozione di “rifiuto” la giurisprudenza ritiene che in essa rientri qualsiasi sostanza o oggetto di cui il detentore si disfi, in qualsiasi maniera detta operazione sia compiuta
(Corte di Giustizia, sez. V, 15.06.2000; TAR Lombardia Milano sez. IV, 27.02.2014, n. 534).
In particolare,
la nozione di rifiuto non dipende dalla natura del materiale (che abbia o meno valore economico, che sia riutilizzabile o meno), né dall’uso che terzi faranno del materiale stesso una volta che questo sia uscito dalla sfera di controllo del produttore/detentore, ma esclusivamente dalla volontà di quest’ultimo di non voler più utilizzare il materiale stesso, secondo la sua funzione economica di origine (Cass. Pen. Sez. III, 20.01.2015, n.29069).
A supporto di quanto appena detto,
l’art. 184-ter del D.Lgs. n. 152/2006 stabilisce, al primo comma, che un rifiuto cessa di essere tale, quando è sottoposto ad un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo (ma non prima).
Il successivo comma 5 dello stesso art. 184-ter prevede che “
la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino alla cessazione della qualifica di rifiuto”.
È stato, altresì, affermato che "
Rientrano nella nozione di "rifiuto", ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 22 del 1997 (come risultante dalla interpretazione autentica effettuata dall'art. 14 della L. n. 187 del 2002) tutti i materiali e i beni di cui il soggetto produttore "si disfi", con ciò intendendo qualsiasi comportamento attraverso il quale, in modo diretto o indiretto, una sostanza un materiale o un bene siano avviati e sottoposti ad attività di smaltimento o anche di "recupero", e che sia da altri recuperato e messo in riserva, con esclusione del solo deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui i materiali o beni sono prodotti, non rilevando ad escludere la natura di rifiuto del bene l'intenzione di chi effettua il recupero, o anche la reale possibilità di reimpiego dei materiali nel ciclo produttivo (Cassazione civile sez. II 13.09.2006 n. 1964): nella fattispecie decisa dalla sentenza citata, la Corte Suprema ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto costituissero rifiuti i materiali ferrosi stoccati presso una ditta di recupero e destinati parzialmente a recupero previa separazione” (TAR Torino sez. II, 04.12.2012, n. 1303).
2.2. Alla luce della superiore ricostruzione,
ritiene il Collegio che la plastica consegnata dal cittadino agli eco-conferitori non trasformata e non ancora recuperata costituisca rifiuto.
Quelli in questione, in particolare, costituiscono rifiuti di imballaggio ai sensi dell’art. 218, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 152/2006. Si tratta, nella specie, di rifiuti che derivano da imballaggi primari ovvero quelli concepiti in modo da costituire, nel punto di vendita, un’unità di vendita per l’utente finale o per il consumatore (art. 218, lett. b, del D.Lgs. cit.).
Essi costituiscono, pertanto, rifiuti domestici ai sensi dell’art. 184, comma 2, lettera a), del d.lgs. n.152/06, in quanto provenienti da locali e luoghi adibiti ad uso di civile abitazione ed in particolare rifiuti domestici destinati al recupero.
3. Occorre a questo punto esaminare la contestazione mossa da parte ricorrente al Comune, secondo il quale, indipendentemente dall’avvio al recupero, la gestione di tutti i rifiuti, ai sensi dell’art. 198 del D.Lgs. n. 152/2006, sarebbe soggetta a privativa.
Parte ricorrente ritiene, invece, che, ai sensi dell’art. 198 e dell’art. 217 del testo unico, l’attività in questione, avviata al recupero e non allo smaltimento, sarebbe stata liberalizzata.
3.1. La tesi di parte ricorrente, al riguardo, va accolta.
Infatti,
ai sensi dell’art. 198, comma 1, del D.lgs. 152/2006, i Comuni continuano la gestione dei rifiuti in regime di privativa relativamente a due categorie di rifiuti ossia i rifiuti urbani e i rifiuti assimilati agli urbani avviati allo smaltimento.
In particolare: “
1. I comuni concorrono, nell'ambito delle attività svolte a livello degli ambiti territoriali ottimali di cui all'articolo 200 e con le modalità ivi previste, alla gestione dei rifiuti urbani ed assimilati. Sino all'inizio delle attività del soggetto aggiudicatario della gara ad evidenza pubblica indetta dall'Autorità d'ambito ai sensi dell'articolo 202, i comuni continuano la gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento in regime di privativa nelle forme di cui all'articolo 113, comma 5, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.”.
Inoltre, a mente dell’art. 217, comma primo, ultimo periodo, del D.Lgs. 152/2006 (Testo Unico Ambientale) “
I sistemi di gestione (degli imballaggi) devono essere aperti alla partecipazione degli operatori economici interessati”. Tale regola di mercato, continua il secondo comma, riguarda: “la gestione di tutti gli imballaggi immessi sul mercato dell’Unione europea e di tutti i rifiuti di imballaggio derivanti dal loro impiego, utilizzati o prodotto da industrie, esercizi commerciali, uffici, negozi, servizi, nuclei domestici o da qualunque altro soggetto che produce o utilizza imballaggi o rifiuti di imballaggio, qualunque siano i materiali che li compongono”.
Ai sensi della normativa citata, non è, invece, condivisibile la tesi del Comune, secondo cui la dicitura dell’art. 198 “avviati allo smaltimento” si riferirebbe non ai “rifiuti urbani” ma solo ai “rifiuti assimilati”, sicché il regime di privativa sarebbe escluso solo per questi ultimi ove non avviati allo smaltimento ma al recupero; ergo tale regime sarebbe riferibile “a due categorie di rifiuti:
   a) i rifiuti urbani ( tutti i rifiuti urbani );
   b) rifiuti assimilati ( agli urbani ) avviati allo smaltimento
”.
Invero, oltre alla formulazione letterale dell’art. 198 cit,, è anche l’intenzione del legislatore, quale già espressa nell’art. 21, del D.lgs. n. 22/1997 e poi nell’art. 23 della legge 179/2002, a indurre a ritenere che la dicitura “avviati allo smaltimento” faccia riferimento sia al rifiuto che agli assimilati (TAR Brescia, sez. II, 30.01.2018, n. 138).
L’art. 198 in questione, quindi, costituisce conferma di una volontà che il legislatore ha già esplicitato (da ultimo) nell’art. 23, comma 1, lett. e), della legge n. 179/2002, secondo cui “La privativa comunale non si applica alle attività di recupero dei rifiuti urbani e assimilati a far data dal 01.01.2003”, ponendosi in linea con tale ultima norma.
Conseguentemente,
l’attività disimpegnata dalla società ricorrente –volta al recupero e non allo smaltimento- non rientra nella privativa comunale della gestione dei rifiuti.
4. Tuttavia, la nota impugnata fonda il diniego, oltre che sull’argomentazione della privativa nella gestione del servizio dei rifiuti urbani, anche sulla tesi per cui l’eventuale venir meno della privativa, comunque, non sottrarrebbe l’attività di recupero all’attività di pianificazione regionale e provinciale, ciò in quanto:
   - la gestione dei rifiuti urbani, complessivamente intesa, è da intendersi come servizio pubblico essenziale (art. 1 L. n. 146/1990), che anche indipendentemente dal diritto di privativa è comunque soggetta a disciplina pubblica specifica nonché a regime tariffario;
   - l’eventuale restituzione al mercato dell’attività non influisce sulla disciplina complessiva della gestione dei rifiuti urbani e nello specifico sulle competenze di pianificazione come definite dal d.lgs. 152/2006 e LL.RR. successive, che riguarderebbero la gestione dei rifiuti urbani nel suo complesso;
   - il principio dell’autosufficienza impiantistica nell’ambito territoriale ottimale permane pienamente;
   - solo in assenza di impianti pubblici già in esercizio in territorio provinciale, che possano soddisfare l’intero fabbisogno, è ipotizzabile che la pianificazione possa prevedere la realizzazione di nuovi impianti o soluzioni alternative di gestione.
4.1. Il Collegio ritiene che il provvedimento impugnato, in tale parte motivazionale, resista alle censure sollevate da parte ricorrente nei termini che seguono.
Superato il diritto di privativa, viene introdotto, con riferimento alle attività di recupero, il possibile esercizio di attività di pubblico interesse aperta al mercato e, quindi, agli operatori privati.
L’apertura al mercato per l’attività de qua –qualificabile come attività di pubblico interesse ai sensi dell’art. 177, co. 1, del D.Lgs. n. 152/2006– non esclude, però, alla luce dell’attuale sistema normativo, le competenze programmatorie e pianificatorie regionali, provinciali e comunali quali previste dal d.lgs. 152/2006 (art. 199 e segg.), che riguardano la gestione dei rifiuti urbani nel suo complesso.
Per quel che qui interessa,
in base alla normativa vigente, riutilizzare, riciclare e recuperare materie prime dai rifiuti costituiscono sì azioni prioritarie, ma in un organico sistema di gestione integrata.
A tal riguardo, il titolo II del codice ambientale (art. 205) -così come l’art. 9 della L.R. 9/2010- fissa gli obiettivi minimi di recupero e di riciclaggio e indica che la gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai princìpi di responsabilizzazione e cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti.
In particolare, l’art. 205 cit. prescrive che ogni Comune debba assicurare la raccolta differenziata nelle percentuali indicate e, a tali fini, è indispensabile che il Comune abbia il completo monitoraggio dell’attività di raccolta dei rifiuti svolta sul territorio.
In presenza di attività private autonome, ancorché autorizzate, l’attività di monitoraggio della raccolta potrebbe subire menomazioni, potenzialmente determinando un’alterazione della percentuale di raccolta rilevata rispetto a quella effettiva ed esponendo, di contro, il Comune al rischio di penali qualora la percentuale rilevata sia inferiore all’obiettivo minimo sancito dalla legge.
Per quel che rileva,
l’attività di raccolta della plastica svolta da soggetti privati, al di fuori di convenzioni con i Comuni, sfuggirebbe al controllo della P.A., con pregiudizio per l’attività di gestione dei rifiuti.
Né ai detti fini può considerarsi sufficiente il possesso dell’autorizzazione in capo alla società (prevista all’art. 212, c. 5, d.lgs. 152/2006) o la mera disponibilità della stessa a fornire al Comune tutti i dati relativi alla raccolta, non potendo la gestione di tali essenziali dati essere lasciata alla mera volontà dell’operatore privato.
Ne consegue che,
in assenza di un preciso accordo giuridicamente vincolante che regolamenti i rapporti tra impresa privata e Comune, l’attività di raccolta di rifiuti di plastica tramite eco-conferitori svolta dalla ricorrente deve considerarsi illegittima, in quanto svolta al di fuori del sistema integrato, come previsto dal D.Lgs. 152/2006 e della programmazione allo stesso relativa.
4.2. Nondimeno, occorre dare atto che, il Piano di Gestione Rifiuti Regionale del giugno 2012, allegato al ricorso, recita che: “E’ importante sottolineare il valore dell’iniziativa privata ad integrazione e supporto dell’azione pubblica. Tale principio deve governare: da un lato, la possibilità di accogliere e sostenere iniziative di istituzione di Ecopunti o altri circuiti di prelievo di materiali suscettibili di valorizzazione (cenciaioli, associazioni di carità) tipicamente fondati sulla iniziativa imprenditoriale ed associativa; dall’altro la collaborazione tra Amministrazioni e operatori del servizio nella definizione di dettaglio dei sistemi a livello locale, e nel feedback di sistema allo scopo di individuare adattamenti e campagne di informazione”.
Alla luce dei superiori principi, espressi nel piano regionale, quindi,
l’attività del privato di intercettazione del rifiuto con gli eco-compattatori è possibile ed anzi da incentivare; tuttavia essa deve inserirsi all’interno del circuito complessivo di gestione del RU delle attività in questione, quale iniziativa che si ponga ad integrazione e supporto dell’attività dell’ente pubblico e dell’attività programmatoria dello stesso nei termini di cui si è detto; essa, pertanto, ai fini della sua ammissibilità, va previamente regolamentata e fatta oggetto di convenzionamento con il comune, alla luce della logica del sistema integrato voluto dal D.Lgs. n. 152/2006.
Da un punto di vista pratico, del resto,
un’iniziativa del genere, al di fuori di una programmazione dell’ente (e quindi “fuori convenzione”), oltre alle dette problematiche in termini di certezza del dato relativo alla percentuale di raccolta differenziata raggiunta, potrebbe comportare conseguenze anche nell’ambito dei rapporti con il gestore del servizio di igiene ambientale, alla luce delle previsioni del capitolato elaborato sulla base di valutazioni pianificatorie che non tengono conto di simili iniziative.
5. Da quanto esposto deriva la legittimità del provvedimento impugnato nella parte in cui fonda il diniego sulla necessità di una programmazione dell’ente pubblico per l’esercizio dell’attività in questione, esimendo ciò il Collegio dall’esame delle ulteriori censure sin qui non esaminate, per difetto di interesse (Cons. di St., sez. III, 05.12.2017, n. 5739).
Rimane salva l’ulteriore attività del Comune in materia alla luce dei suesposti principi e della normativa vigente, nonché delle indicazioni e delle sollecitazioni fornite dalla relativa programmazione regionale sul tema.
6. Dall’infondatezza del ricorso discende il rigetto della domanda risarcitoria.

PATRIMONIOSulla legittimità del disposto annullamento d’ufficio di una convenzione avente ad oggetto la concessione di un bene pubblico (ndr: campi da tennis comunali), il cui avvenuto affidamento s'è verificato al di fuori di un’apposita procedura ad evidenza pubblica.
Com’è noto un’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, che trae origine dai principi di concorrenzialità di derivazione eurounitaria, impone che le concessioni demaniali, in quanto concernenti beni economicamente contendibili, siano affidate mediante procedura di gara.
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Quando il vizio che inficia l’atto amministrativo è significativamente grave, in quanto implica la violazione di regole e principi posti a presidio di beni di particolare rilevanza, il potere di autotutela, pur non assumendo natura meramente vincolata, si caratterizza per una più intensa considerazione dell’interesse pubblico rispetto a quello privato con la conseguenza che il giudizio di prevalenza del primo sul secondo richiede una motivazione meno pregnante.
E’ stato, infatti, affermato che “che l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi”.
Nel caso di specie l’amministrazione ha correttamente rilevato che:
   a) l’impianto sportivo era stato affidato in via diretta e quindi con grave violazione delle norme e dei principi che impongono, a tutela sia della concorrenza, sia dell’interesse pubblico al più conveniente sfruttamento della risorsa, l’assegnazione mediante procedure ad evidenza pubblica;
   b) l’annullamento in autotutela non avrebbe arrecato alcun danno all’interessato non essendo stata la struttura mai consegnata.
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... per la riforma della sentenza del TAR Campania–Napoli, Sezione VIII, n. 3898/2016, resa tra le parti, concernente l’annullamento in autotutela di una convenzione avente ad oggetto la concessione di un bene pubblico.
...
9.3. I due mezzi di gravame, così sinteticamente riassunti, si prestano ad una trattazione congiunta e meritano accoglimento.
Invero l’appellante ha condivisibilmente rilevato che il giudice di prime cure non ha adeguatamente considerato la principale ragione posta a base del disposto annullamento d’ufficio, ovvero l’avvenuto affidamento della concessione al di fuori di un’apposita procedura ad evidenza pubblica.
Com’è noto un’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, che trae origine dai principi di concorrenzialità di derivazione eurounitaria, impone che le concessioni demaniali, in quanto concernenti beni economicamente contendibili, siano affidate mediante procedura di gara (Cons. Stato, A.P. 25/02/2013, n. 5; Sez. V, 23/11/2016, n. 4911 e 05/12/2014, n. 6029; Sez. VI 31/01/2017 n. 394; 04/04/2011 n. 2097; 30/10/2010 n. 7239 e 17/02/2009, n. 902, in veda anche Corte Giust. UE, Sez. V, 14/07/2016, in C-458/14, che ha ritenuto contraria al diritto dell’Unione la proroga automatica delle suddette concessioni).
Orbene, ritiene la Sezione che quando il vizio che inficia l’atto amministrativo è significativamente grave, in quanto implica la violazione di regole e principi posti a presidio di beni di particolare rilevanza, il potere di autotutela, pur non assumendo natura meramente vincolata, si caratterizza per una più intensa considerazione dell’interesse pubblico rispetto a quello privato con la conseguenza che il giudizio di prevalenza del primo sul secondo richiede una motivazione meno pregnante.
E’ stato, infatti, affermato che “che l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi” (Cons. Stato, A.P. 17/10/2017, n. 8).
Nel caso di specie l’amministrazione ha correttamente rilevato che:
   a) l’impianto sportivo era stato affidato in via diretta e quindi con grave violazione delle norme e dei principi che impongono, a tutela sia della concorrenza, sia dell’interesse pubblico al più conveniente sfruttamento della risorsa, l’assegnazione mediante procedure ad evidenza pubblica;
   b) l’annullamento in autotutela non avrebbe arrecato alcun danno all’interessato non essendo stata la struttura mai consegnata.
Vero è che l’omessa consegna è dipesa dall’inadempimento di uno specifico obbligo assunto dal comune con la concessione e la stipula della relativa convenzione.
Ma ciò, se da un lato può assumere rilevanza ai fini di un eventuale responsabilità per danni, esclude, dall’altro, il radicarsi, in capo al privato, di un interesse alla conservazione del bene attenuandone la posizione di affidamento.
A ciò aggiungasi che il primo annullamento d’ufficio è intervenuto entro un arco di tempo non eccessivamente lungo (6 mesi) dall’adozione del provvedimento di primo grado.
Alla luce delle esposte considerazioni deve ritenersi che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione sia stato nella specie adeguatamente soddisfatto.
10. L’appello va, in definitiva, accolto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.06.2018 n. 3588 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla Corte di Giustizia i limiti del ricorso al subappalto ex art. 118, d.lgs. n. 163 del 2006.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Subappalto – Quote - Limiti exart. 118, d.lgs. n. 163 del 2006 – Conformità alla disciplina europea – rimessione alla Corte di Giustizia Ue.
Deve essere rimessa alla corte di giustizia la questione se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli artt. 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), gli artt. 25 della Direttiva 2004/18 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31.03.2004 e 71 della Direttiva 2014/24 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26.02.2014, che non contemplano limitazioni per quanto concerne la quota subappaltatrice ed il ribasso da applicare ai subappaltatori, nonché il principio eurounitario di proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’art. 118, commi 2 e 4, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, secondo la quale il subappalto non può superare la quota del trenta per cento dell’importo complessivo del contratto e l’affidatario deve praticare, per le prestazioni affidate in subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione, con un ribasso non superiore al venti per cento (1).
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   (1) Ad avviso della Sezione la previsione, contenuta nell’art. 118, commi 2 e 4, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, dei limiti generali dettati dai due commi dell’art. 118 in questione (contenenti rispettivamente un limite generale del 30% per il subappalto, con riferimento all’importo complessivo del contratto, impedendo agli operatori economici di subappaltare a terzi una parte cospicua delle opere, pari al 70%, nonché un limite del 20% al ribasso da applicare ai subappaltatori), può rendere più difficoltoso l’accesso delle imprese, in particolar modo di quelle di piccole e medie dimensioni, agli appalti pubblici, così ostacolando l’esercizio della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi e precludendo, peraltro, agli stessi acquirenti pubblici l’opportunità di ricevere offerte più numerose e diversificate; tale limite, non previsto dalla direttiva 2004/18, impone una restrizione alla facoltà di ricorrere al subappalto per una parte del contratto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, e ciò a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità di eventuali subappaltatori e senza menzione alcuna del carattere essenziale degli incarichi di cui si tratterebbe, in contrasto con gli obiettivi di apertura alla concorrenza e di favore per l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 11.06.2018 n. 3553 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Avvalimento per il possesso di requisiti integranti la capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Avvalimento - Possesso di requisiti integranti la capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria – Indicazione referente tecnico con riferimento ai requisiti esperienziali – Sufficienza.
E’ legittimo il contratto di avvalimento per il possesso di requisiti integranti la capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria che, con riferimento ai requisiti esperienziali caratterizzati da astrattezza, indichi un referente tecnico, non essendo necessaria la messa a disposizione di mezzi e attrezzature (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che la giurisprudenza ha in più occasioni affrontato la distinzione tra avvalimento c.d. di garanzia e avvalimento c.d. tecnico od operativo, sulla quale si sono diffusamente soffermate le parti nelle rispettive memorie.
Il Tar ha richiamato Cons. St., sez. V, 28.02.2018, n. 1216 secondo cui l’avvalimento c.d. di garanzia «ricorre nel caso in cui l’ausiliaria metta a disposizione dell’ausiliata la propria solidità economica e finanziaria, rassicurando la stazione appaltante sulle sue capacità di far fronte agli impegni economici conseguenti al contratto d’appalto, anche in caso di inadempimento: tale è l’avvalimento che abbia ad oggetto i requisiti di carattere economico-finanziario e, in particolare, il fatturato globale o specifico», mentre l’avvalimento c.d. tecnico od operativo «ricorre, per contro, nel caso in cui l’ausiliaria si impegni a mettere a disposizione dell’ausiliata le proprie risorse tecnico-organizzative indispensabili per l’esecuzione del contratto di appalto: tale è l’avvalimento che abbia ad oggetto i requisiti di capacità tecnico-professionale tra i quali, ad esempio, la dotazione di personale».
Il giudice di appello ha poi ribadito che «nel primo caso (in cui l’impresa ausiliaria si limita a “mettere a disposizione” il suo valore aggiunto in termini di solidità finanziaria e di acclarata esperienza di settore), non è, in via di principio, necessario che la dichiarazione negoziale costitutiva dell’impegno contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o ad indici materiali atti ad esprimere una certa e determinata consistenza patrimoniale e, dunque, alla messa a disposizione di beni da descrivere ed individuare con precisione, ma è sufficiente che dalla ridetta dichiarazione emerga l’impegno contrattuale a prestare ed a mettere a disposizione dell’ausiliata la complessiva solidità finanziaria ed il patrimonio esperienziale, così garantendo una determinata affidabilità e un concreto supplemento di responsabilità»; di converso «nel caso di avvalimento c.d. tecnico od operativo (che ha ad oggetto requisiti diversi rispetto a quelli di capacità economico-finanziaria) sussiste sempre l’esigenza di una messa a disposizione in modo specifico di risorse determinate: onde è imposto alle parti di indicare con precisione i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata per eseguire l’appalto».
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche il Consiglio di Stato ha concluso (con riferimento al caso sottoposto al suo esame) che «per la messa a disposizione dell’esperienza professionale, nella specie, per giunta, correlata a servizi di natura intellettuale, come tali ad esecuzione necessariamente personale, quali la progettazione o la direzione dei lavori, la vigilanza e controllo sull’esecuzione del contratto di servizio» era necessario «che nel contratto fossero puntualmente indicati (e messi quindi, come tali, effettivamente e concretamente a disposizione dell’impresa ausiliata) i mezzi, gli strumenti e le competenze adeguati. E ciò anche al fine di consentire alla stazione appaltante la puntuale ed obiettiva verifica della effettività ed utilità dell’impegno promesso. In realtà, nei contratti di avvalimento per cui è causa risulta omessa l’indicazione del professionista che aveva maturato l’esperienza nei settori in questione (vigilanza e controllo sull’esecuzione del contratto di servizio; progettazione e direzione dei lavori) e che avrebbe fatto parte del gruppo di professionisti incaricati di svolgere le attività concretamente oggetto di appalto» (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 11.06.2018 n. 128 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: All’Adunanza plenaria la corretta applicazione del computo del cd. ”fattore di correzione.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte - Cd. ”fattore di correzione” – Computo - Art. 97, comma 2, lett. b), secondo alinea, d.lgs. n. 50 del 2016 – Criterio – Dubbi in giurisprudenza – Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
Deve essere rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione relativa alla corretta interpretazione dell’art. 97, comma 2, lett. b), secondo alinea, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, nella parte in cui si richiamano i “concorrenti ammessi” per il computo del cd. ”fattore di correzione”, per stabilire se vi rientrano anche i concorrenti le cui offerte sono state escluse dal punto di vista aritmetico per il calcolo del cd. taglio delle ali (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che secondo una prima tesi, alla quale aderisce, dalla lettera del disposto di cui all’art. 97, comma 2, lett. b), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, si evidenzia la necessità di procedere al c.d. “taglio delle ali” per la determinazione della media aritmetica dei ribassi, senza precisare alcunché quanto al calcolo della somma dei ribassi offerti, necessario ai fini del calcolo del fattore di correzione.
Se il legislatore avesse voluto escludere le offerte che residuano dopo il taglio delle ali, oltre che nel calcolo della media, anche nella determinazione del fattore di correzione della media stessa, lo avrebbe esplicitato, anziché fare genericamente riferimento ai “ribassi offerti dai concorrenti ammessi”.
Pertanto, l’operazione di somma dei ribassi è diversa dalla media aritmetica prevista dalla prima parte dell’art. 97, comma 2, lett. b).
Secondo un’altra tesi, condivisa da una parte della giurisprudenza amministrativa sia di appello che di primo grado (cfr., per il grado di appello, le recenti sentenze sez. V, 23.01.2018, n. 435 e 17.05.2018, n. 2959), per il calcolo della media aritmetica non vanno considerate le offerte previamente escluse in virtù del taglio delle ali, non ritenendosi che il legislatore abbia inteso applicare il calcolo della media limitatamente ai ribassi ammessi dopo il taglio delle ali per poi successivamente calcolare, all’opposto, la somma dei ribassi prendendo in considerazione tutti i ribassi originali, seppur già esclusi.
Ha ricordato la Sezione che l'Adunanza plenaria si è già occupata del tema (ma non del caso di specie), già chiarendo il criterio di calcolo delle offerte da accantonare nel c.d. taglio delle ali (Cons. St., A.P., 19.09.2017, n. 5, su remissione della Sezione III con ord. 13.03.2017, n. 1151, stabilendo che, avuto riguardo al criterio di calcolo delle offerte da accantonare nel c.d. taglio delle ali, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso, devono applicarsi i seguenti principi di diritto:
   a) il comma 1 dell’art. 86, d.lgs. n. 163 del 2006 deve essere interpretato nel senso che, nel determinare il dieci per cento delle offerte con maggiore e con minore ribasso (da escludere ai fini dell’individuazione di quelle utilizzate per il computo delle medie di gara), la stazione appaltante deve considerare come ‘unica offerta’ tutte le offerte caratterizzate dal medesimo valore, e ciò sia se le offerte uguali si collochino ‘al margine delle ali’, sia se si collochino ‘all’interno’ di esse;
   b) il secondo periodo del comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010 (secondo cui “qualora nell'effettuare il calcolo del dieci per cento di cui all'art. 86, comma 1, del codice siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia”) deve a propria volta essere interpretato nel senso che l’operazione di accantonamento deve essere effettuata considerando le offerte di eguale valore come ‘unica offerta’ sia nel caso in cui esse si collochino ‘al margine delle ali’, sia se si collochino ‘all’interno’ di esse.
Tale pronuncia conferma l’importanza di massima della questione del corretto criterio di calcolo delle soglie di anomalia, a valle delle incertezze (e delle conseguenti divergenti pronunce giurisprudenziali, specie di primo grado) derivanti dalla infelice formulazione lessicale delle relative norme, essenziale per garantire la correttezza degli appalti pubblici e la sostenibilità delle relative offerte (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 08.06.2018 n. 3472 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAVAS: nozione di piani e programmi.
Il Conseil d’État belga ha sottoposto alla Corte di Giustizia UE la seguente questione relativa alla nozione di piani e programmi sottoposti alla direttiva VAS:
«Se l’articolo 2, lettera a), della direttiva VAS debba essere interpretato nel senso che è compreso nella nozione di “piani e programmi” un regolamento urbanistico adottato da un’autorità regionale il quale:
   – contiene una cartografia che ne fissa il perimetro di applicazione, limitato a un solo quartiere, e che individua all’interno di tale perimetro diversi isolati per i quali valgono norme distinte in materia di tracciamento e di altezza degli edifici;
   – prevede anche disposizioni specifiche di pianificazione per aree adiacenti agli immobili, nonché indicazioni precise sull’applicazione spaziale di talune norme da esso stesso stabilite prendendo in considerazione le strade, linee dritte tracciate perpendicolarmente alle strade e distanze rispetto all’allineamento delle strade;
   – persegue l’obiettivo di trasformare il quartiere interessato; e
   – istituisce regole per la presentazione delle domande di autorizzazione urbanistica soggette a valutazione ambientale in detto quartiere
».
La Corte di Giustizia UE, rispondendo alla questione sottoposta, ha così statuito:
«
L’articolo 2, lettera a), l’articolo 3, paragrafo 1, e l’articolo 3, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.06.2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, devono essere interpretati nel senso che un regolamento urbanistico regionale, come quello di cui al procedimento principale, che contiene determinate prescrizioni per l’esecuzione di progetti urbanistici, rientra nella nozione di «piani e programmi» che possono avere effetti significativi sull’ambiente, ai sensi di detta direttiva, e va, di conseguenza, sottoposto ad una valutazione ambientale» (Corte di Giustizia UE, Sez. II, sentenza 07.06.2018 - causa C-671/16) (commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).

URBANISTICAVAS: nozione di piani e programmi.
Il Conseil d’État belga ha sottoposto alla Corte di Giustizia UE anche l'ulteriore questione relativa alla nozione di piani e programmi sottoposti alla direttiva VAS:
«Se l’articolo 2, lettera a), della direttiva VAS debba essere interpretato nel senso che è compreso nella nozione di “piano o programma” un perimetro previsto da una disposizione di natura legislativa e adottato da un’autorità regionale il quale:
   – abbia per oggetto unicamente la definizione dei contorni di un’area geografica in cui potrebbe essere realizzato un progetto di urbanizzazione, fermo restando che detto progetto, che dovrà perseguire un obiettivo determinato –vertente, nella specie, sulla riqualificazione e sullo sviluppo di funzioni urbane e necessitante la creazione, la modifica, l’ampliamento, la soppressione o il rifacimento della rete stradale e degli spazi pubblici–, costituisce il fondamento dell’adozione del perimetro, la quale implica dunque l’accoglimento del relativo principio, ma dovrà essere oggetto di ulteriore rilascio di permessi soggetti ad una valutazione degli effetti;
   – abbia per effetto, sul piano procedurale, che le richieste di permessi per opere o lavori da effettuare nell’ambito del perimetro beneficino di una procedura in deroga, fermo restando che le prescrizioni urbanistiche applicabili ai suoli interessati prima dell’adozione del perimetro continuano ad applicarsi, ma diventa più facile derogarvi;
   – e benefici di una presunzione di pubblica utilità per le espropriazioni da eseguire nel quadro del piano di espropriazione ad esso allegato
».
La Corte di Giustizia UE, rispondendo alla questione sottoposta, ha così statuito:
«
L’articolo 2, lettera a), l’articolo 3, paragrafo 1, e l’articolo 3, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.06.2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, devono essere interpretati nel senso che un decreto che adotta un perimetro di consolidamento urbano, che ha l’unico obiettivo di definire un’area geografica all’interno della quale potrà essere realizzato un progetto urbanistico di riqualificazione e sviluppo delle funzioni urbane che necessiti la creazione, la modifica, la soppressione o il rifacimento della rete stradale e degli spazi pubblici, per la realizzazione del quale sarà consentito derogare a talune disposizioni urbanistiche, rientra, in ragione di tale facoltà di deroga, nella nozione di «piani o programmi» che possono avere effetti significativi sull’ambiente, ai sensi di detta direttiva, e richiede una valutazione ambientale» (Corte di Giustizia UE, Sez. II, sentenza 07.06.2018 - causa C-160/17) (commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ noto al Collegio il consolidato orientamento giurisprudenziale per cui la struttura costituita da due pali poggiati sul pavimento di un terrazzo a livello e da quattro traverse con binario di scorrimento a telo in pvc, ancorata al sovrastante balcone e munita di copertura rigida a riparo del telo retraibile (c.d. pergotenda) non configura né un aumento del volume e della superficie coperta, né la creazione o la modificazione di un organismo edilizio, né l'alterazione del prospetto o della sagoma dell'edificio cui è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la destinazione d'uso degli spazi interni interessati, della sua facile e completa rimovibilità, dell'assenza di tamponature verticali e della facile rimovibilità della copertura orizzontale.
La stessa va, pertanto, qualificata come arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla migliore fruizione temporanea dello spazio esterno all'appartamento cui accede ed è riconducibile agli interventi manutentivi liberi, ossia non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai sensi dell'art. 6, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380.

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Nella fattispecie non sono ravvisabili i presupposti per ricondurre la struttura realizzata dalla ricorrente alla categoria dell’edilizia libera, per la presenza di tamponature verticali, costituite da pannelli di vetro scorrevole richiudibili a pacchetto.
Per aversi una costruzione definibile come pergotenda occorre che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'immobile al cui servizio è posta, con la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda.
Nella fattispecie, quindi, è stata realizzata un’opera che non rientra nella nozione di pergotenda e configura un'ipotesi di intervento di ristrutturazione edilizia, avendo una consistenza ben più rilevante di una mera tenda, alterando il prospetto e la sagoma dell'edificio, risultando ancorata stabilmente al suolo ed essendo di conseguenza non qualificabile alla stregua di una facile rimovibilità.
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Con il provvedimento impugnato è ordinata la demolizione degli interventi di ristrutturazione edilizia abusivi consistenti nella realizzazione di una pergotenda ritraibile di m 9 per m 4,30 di altezza variabile da m 2,60 a m 2,25 circa, comandata elettricamente, tamponata su due lati con pannelli di vetro scorrevole richiudibili a pacchetto; il terrazzo risulta arredato con tavoli e sedie da giardino e sono stati installati due climatizzatori.
...
Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente sostiene che la pergotenda non costituirebbe intervento di ristrutturazione edilizia bensì edilizia libera, in base all’articolo 6 del d.p.r. numero 380 del 2001, laddove alla lettera “e-quinquies” vengono richiamati gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici.
Il motivo è infondato.
E’ noto al Collegio il consolidato orientamento giurisprudenziale (Consiglio di Stato sez. VI 11.04.2014 n. 1777) per cui la struttura costituita da due pali poggiati sul pavimento di un terrazzo a livello e da quattro traverse con binario di scorrimento a telo in pvc, ancorata al sovrastante balcone e munita di copertura rigida a riparo del telo retraibile (c.d. pergotenda) non configura né un aumento del volume e della superficie coperta, né la creazione o la modificazione di un organismo edilizio, né l'alterazione del prospetto o della sagoma dell'edificio cui è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la destinazione d'uso degli spazi interni interessati, della sua facile e completa rimovibilità, dell'assenza di tamponature verticali e della facile rimovibilità della copertura orizzontale: la stessa va pertanto qualificata come arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla migliore fruizione temporanea dello spazio esterno all'appartamento cui accede ed è riconducibile agli interventi manutentivi liberi, ossia non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai sensi dell'art. 6, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
Nella fattispecie, peraltro, non sono ravvisabili i presupposti per ricondurre la struttura realizzata dalla ricorrente alla categoria dell’edilizia libera, per la presenza di tamponature verticali, costituite da pannelli di vetro scorrevole richiudibili a pacchetto.
Per aversi una costruzione definibile come pergotenda occorre che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'immobile al cui servizio è posta, con la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda (TAR Lazio, sez. II, 22.12.2017, n. 12632).
Nella fattispecie, quindi, a giudizio del Collegio, è stata realizzata un’opera che non rientra nella nozione di pergotenda e configura un'ipotesi di intervento di ristrutturazione edilizia, avendo una consistenza ben più rilevante di una mera tenda, alterando il prospetto e la sagoma dell'edificio, risultando ancorata stabilmente al suolo ed essendo di conseguenza non qualificabile alla stregua di una facile rimovibilità (TAR Liguria, 12.02.2015 n. 177).
Ne consegue l’infondatezza del primo motivo (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 06.06.2018 n. 6319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione è sufficientemente motivato con la qualificazione dell’intervento edilizio in termini di ristrutturazione abusiva, rinviando implicitamente alla definizione della suddetta categoria edilizia, alla quale sono riconducibili le opere modificative del prospetto e della sagoma dell’edificio preesistente, tra le quali ricade quella oggetto del provvedimento impugnato.
Sotto il profilo della istruttoria, nessuna ulteriore accertamento è richiesto qualora sia stata verificata la consistenza dell’opera edilizia realizzata in assenza del titolo abilitativo e la stessa sia stata esattamente individuata, come nel caso concreto.
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Con il 2º motivo, la ricorrente lamenta difetto di istruttoria e di motivazione.
A suo avviso, il provvedimento impugnato non sarebbe motivato correttamente, non essendo qualificata in termini giuridici l’opera abusiva, non essendo specificato sotto quale profilo l’intervento sarebbe riconducibile alla fattispecie della ristrutturazione edilizia; inoltre, sotto il profilo istruttorio, sarebbe carente uno specifico accertamento da cui desumere la riconducibilità della pergotenda agli interventi di ristrutturazione edilizia determinanti un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, determinanti modifiche della volumetria complessiva dell’edificio o del prospetto.
Anche il 2º motivo è da ritenersi infondato.

L’ordine di demolizione è sufficientemente motivato con la qualificazione dell’intervento edilizio in termini di ristrutturazione abusiva, rinviando implicitamente alla definizione della suddetta categoria edilizia, alla quale sono riconducibili le opere modificative del prospetto e della sagoma dell’edificio preesistente, tra le quali ricade quella oggetto del provvedimento impugnato.
Sotto il profilo della istruttoria, nessuna ulteriore accertamento è richiesto qualora sia stata verificata la consistenza dell’opera edilizia realizzata in assenza del titolo abilitativo e la stessa sia stata esattamente individuata, come nel caso concreto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 06.06.2018 n. 6319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve essere richiamato l’indirizzo, costantemente affermato dalla giurisprudenza, secondo cui il rilascio del permesso di costruire in sanatoria impone “l'accertamento della conformità alle prescrizioni urbanistiche dell'intervento edilizio realizzato senza titolo abilitativo, vale a dire di opere che, pur essendo effettuate senza il preventivo rilascio del titolo abilitativo edilizio, risultino ammissibili sotto l'aspetto urbanistico.
Tale istituto è dunque finalizzato a sanare violazione di carattere puramente formale, laddove un intervento edilizio è comunque abusivo per effetto della mera mancanza del prescritto titolo abilitativo, anche se per ipotesi le opere siano assentibili, nel qual caso l'interessato ha l'onere di chiedere tempestivamente la sanatoria, per il cui rilascio la normativa richiede la cd. ‘doppia conformità’.
Infatti, le opere abusive possono essere sanate solo se sia provata la conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
La doppia conformità è condicio sine qua non della sanatoria ed investe entrambi i segmenti temporali, cioè il tempo della realizzazione dell'illecito ed il tempo della presentazione dell'istanza”.
Il provvedimento possiede pertanto carattere oggettivo e vincolato, risultando del tutto scevro da apprezzamenti discrezionali. L'Amministrazione è infatti tenuta ad accertare i requisiti di assentibilità dell'intervento edilizio sulla base della normativa urbanistica ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i momenti considerati dall’art. 49, L.R. n. 19 del 2009, conducendo, a tal fine, una valutazione essenzialmente doverosa, rigidamente ancorata alle prescrizioni fissate dalla strumentazione applicabile.
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La contrarietà originaria dell’intervento, rispetto alla strumentazione urbanistica, esclude il prescritto requisito della doppia conformità.
Né tale conclusione può essere contraddetta, in ragione della modesta consistenza materiale degli abusi, ovvero della loro riferibilità alla sola dotazione degli standard urbanistici richiesti, essendo preclusa, per le considerazioni anzidette, qualsiasi valutazione discrezionale afferente l’importanza della violazione oggetto della sanatoria, la quale, come visto, può essere rilasciata solo se l’intervento risulta conforme e dunque assentibile sulla base sia della strumentazione urbanistica vigente sia di quella in essere all’epoca della sua realizzazione.
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3. Il ricorso è infondato e come tale merita di essere respinto.
3.1 Deve essere richiamato in proposito l’indirizzo, costantemente affermato dalla giurisprudenza, secondo cui il rilascio del permesso di costruire in sanatoria impone “l'accertamento della conformità alle prescrizioni urbanistiche dell'intervento edilizio realizzato senza titolo abilitativo, vale a dire di opere che, pur essendo effettuate senza il preventivo rilascio del titolo abilitativo edilizio, risultino ammissibili sotto l'aspetto urbanistico.
Tale istituto è dunque finalizzato a sanare violazione di carattere puramente formale, laddove un intervento edilizio è comunque abusivo per effetto della mera mancanza del prescritto titolo abilitativo, anche se per ipotesi le opere siano assentibili, nel qual caso l'interessato ha l'onere di chiedere tempestivamente la sanatoria, per il cui rilascio la normativa richiede la cd. ‘doppia conformità’.
Infatti, le opere abusive possono essere sanate solo se sia provata la conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
La doppia conformità è condicio sine qua non della sanatoria ed investe entrambi i segmenti temporali, cioè il tempo della realizzazione dell'illecito ed il tempo della presentazione dell'istanza
” (da ultimo: TAR Campania, Sez, III, n. 4249 del 2017).
Il provvedimento possiede pertanto carattere oggettivo e vincolato, risultando del tutto scevro da apprezzamenti discrezionali. L'Amministrazione è infatti tenuta ad accertare i requisiti di assentibilità dell'intervento edilizio sulla base della normativa urbanistica ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i momenti considerati dall’art. 49, L.R. n.19 del 2009, conducendo, a tal fine, una valutazione essenzialmente doverosa, rigidamente ancorata alle prescrizioni fissate dalla strumentazione applicabile (così TAR Campania, Napoli, sez. III, n. 6305 del 2014).
3.2 Deve così essere osservato che, nel caso di specie, l’intervento edilizio non avrebbe potuto essere eseguito sulla base della disciplina urbanistica vigente all’epoca della sua realizzazione, il che è sufficiente a precludere il rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
Tale rilievo prescinde del tutto dalla valutazione a posteriori della natura o della consistenza dell’abuso, sollecitata dal ricorrente, dovendosi considerare, specie in ragione del carattere rigidamente vincolato del potere esercitato dall’Amministrazione, che la contrarietà originaria dell’intervento, rispetto alla strumentazione urbanistica, esclude il prescritto requisito della doppia conformità.
Né tale conclusione può essere contraddetta, in ragione della modesta consistenza materiale degli abusi, ovvero della loro riferibilità alla sola dotazione degli standard urbanistici richiesti, essendo preclusa, per le considerazioni anzidette, qualsiasi valutazione discrezionale afferente l’importanza della violazione oggetto della sanatoria, la quale, come visto, può essere rilasciata solo se l’intervento risulta conforme e dunque assentibile sulla base sia della strumentazione urbanistica vigente sia di quella in essere all’epoca della sua realizzazione.
Requisito, quest’ultimo, che non può certo essere ravvisato nella vicenda oggetto del giudizio, salvo soggiungere che l’attuale congruità dell’immobile rispetto al complesso della disciplina urbanistica ed edilizia, ora in vigore, potrà se del caso essere valutata dall’Amministrazione in sede di esecuzione dell’ordinanza di demolizione, già notificata al ricorrente, anche disponendo, specie in relazione ai principi di proporzionalità e di leale collaborazione, e pur sempre secondo il proprio apprezzamento discrezionale, l’eventuale conversione in sanzioni di minore gravità.
Nondimeno, per le ragioni sopra esposte, il ricorso deve essere respinto (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 06.06.2018 n. 187 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: È sempre vigente ed applicabile, non contrastando con il diritto comunitario, la normativa nazionale secondo cui la progettazione e la direzione lavori su beni di interesse storico e/o artistico è riservata agli architetti.
La riserva di competenza degli architetti sussiste per ogni tipologia di intervento su immobili gravati da vincolo storico-artistico, ad eccezione delle attività propriamente tecniche di edilizia civile per le quali il citato art. 52 prevede la competenza anche degli ingegneri.
La competenza degli architetti, poi, si estende anche agli interventi realizzati su immobili non assoggettati a vincolo quando presentino “rilevante interesse artistico”.

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Il Consiglio di Stato, richiamando anche giurisprudenza comunitaria, ha chiarito come non sia esatto affermare che l’ordinamento comunitario riconosca a tutti gli ingegneri di Paesi dell’U.E. diversi dall’Italia (con esclusione dei soli ingegneri italiani) l’indiscriminato esercizio delle attività tipiche della professione di architetto (tra cui le attività relative ad immobili di interesse storico-artistico); al contrario, giusta la normativa comunitaria, si è ritenuto che l’esercizio di tali attività -in regime di mutuo riconoscimento– è consentito ai soli professionisti che (al di là del nomen iuris del titolo posseduto) possano vantare un percorso formativo adeguatamente finalizzato all’esercizio delle attività tipiche della professione di architetto.
In altri termini, è sempre vigente ed applicabile, non contrastando con il diritto comunitario, la su citata normativa nazionale secondo cui la progettazione e la direzione lavori su beni di interesse storico e/o artistico è riservata agli architetti, ovvero a coloro che hanno compiuto un percorso formativo equiparabile a quello che in Italia è necessario per conseguire tale titolo.
Quindi, la giurisprudenza amministrativa ha concluso sul punto che la norma in questione, nella misura in cui vuole garantire che a progettare interventi edilizi su immobili di interesse storico-artistico siano professionisti forniti di una specifica preparazione nel campo delle arti, e segnatamente di una adeguata formazione umanistica, deve ritenersi tuttora vigente.
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Nel merito, il ricorso è infondato per i motivi di seguito riportati.
E’ stata prodotta agli atti di causa la nota della Soprintendenza BB.AA.CC. di Caserta e Benevento prot. n. 20145 del 10.10.2013 recante parere favorevole ex art. 21 del D.Lgs. n. 42/2004 in ordine ai lavori di “riqualificazione ed adeguamento della struttura comunale adiacente al palazzo Sant’Antonio” (cfr. doc. 1 depositato il 06.05.2015) con cui l’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali rappresenta l’opportunità di affidare i lavori de quibus ad impresa qualificata per la categoria del restauro (OG2), dato l’interesse storico–artistico dell’immobile.
Alla luce di tale situazione di fatto, non si appalesa illegittima la scelta dell’amministrazione comunale resistente di riservare la direzione dei lavori ad un professionista in possesso della qualifica di architetto. Tanto in virtù dell’art. 52 del R.D. n. 2537/1925 recante il regolamento per le professioni di ingegnere e di architetto, secondo cui “le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”.
A tale proposito, non è condivisibile la tesi di parte ricorrente che riconduce l’intervento a meri lavori a carattere edile di completamento e di natura impiantistica; invero, la deduzione collide con le risultanze di causa e, segnatamente, con il descritto parere della Soprintendenza che, come si è visto, ha ritenuto imprescindibile la qualificazione della impresa incaricata per la categoria OG2 che, come noto, attiene più in generale al restauro e manutenzione dei beni immobili sottoposti a tutela ai sensi delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali (quindi ad un complesso di interventi più ampio rispetto alla mera attività di impiantistica e di completamento edile prospettato dalla parte istante).
Ciò posto, secondo l’indirizzo espresso dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, n. 21/2014; TAR Lazio, Roma, n. 7997/2011 e TAR Campania, Salerno, n. 149/2015) la riserva di competenza degli architetti sussiste per ogni tipologia di intervento su immobili gravati da vincolo storico-artistico, ad eccezione delle attività propriamente tecniche di edilizia civile per le quali il citato art. 52 prevede la competenza anche degli ingegneri; la competenza degli architetti, poi, si estende anche agli interventi realizzati su immobili non assoggettati a vincolo quando presentino “rilevante interesse artistico” (cfr. TAR Lazio, Roma, n. 7997/2011), come nel caso in trattazione.
Nel dettaglio, con sentenza n. 21/2014 (richiamata nella pronuncia del TAR Veneto n. 743/2014, a sua volta citata nel provvedimento impugnato) il Consiglio di Stato, richiamando anche giurisprudenza comunitaria, ha chiarito come non sia esatto affermare che l’ordinamento comunitario riconosca a tutti gli ingegneri di Paesi dell’U.E. diversi dall’Italia (con esclusione dei soli ingegneri italiani) l’indiscriminato esercizio delle attività tipiche della professione di architetto (tra cui le attività relative ad immobili di interesse storico-artistico); al contrario, giusta la normativa comunitaria, si è ritenuto che l’esercizio di tali attività -in regime di mutuo riconoscimento– è consentito ai soli professionisti che (al di là del nomen iuris del titolo posseduto) possano vantare un percorso formativo adeguatamente finalizzato all’esercizio delle attività tipiche della professione di architetto.
In altri termini, è sempre vigente ed applicabile, non contrastando con il diritto comunitario, la su citata normativa nazionale secondo cui la progettazione e la direzione lavori su beni di interesse storico e/o artistico è riservata agli architetti, ovvero a coloro che hanno compiuto un percorso formativo equiparabile a quello che in Italia è necessario per conseguire tale titolo.
Quindi, la giurisprudenza amministrativa ha concluso sul punto che la norma in questione, nella misura in cui vuole garantire che a progettare interventi edilizi su immobili di interesse storico-artistico siano professionisti forniti di una specifica preparazione nel campo delle arti, e segnatamente di una adeguata formazione umanistica, deve ritenersi tuttora vigente (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 05.06.2018 n. 3718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Requisiti soggettivi nella fase di interpello conseguente a scorrimento della graduatoria.
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Contratti della pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione – Momento del possesso – Scorrimento della graduatoria ex art. 140, d.lgs. n. 163 del 2006 – Individuazione.
E’ legittimo il mancato affidamento, per carenza di requisiti, di un appalto ad un concorrente, interpellato con scorrimento della graduatoria ex art. 140, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 a seguito di riscontrata impossibilità di aggiudicare al primo classificato, dovendo tali requisiti sussistere anche al momento dell’interpello e della stipula del contratto (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che la giurisprudenza pronunciatasi sull’art. 140, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 ha affermato, dapprima, che “la fase procedimentale disciplinata dall'art. 140 d.lgs. cit.…… si configura come un segmento di un'unica procedura di affidamento, avviata con la pubblicazione del bando, con la conseguenza, per quanto qui rileva, che i requisiti di partecipazione, attesa l'unicità e l'inscindibilità del procedimento selettivo, devono essere ininterrottamente posseduti dal suo avvio (e, cioè, dalla pubblicazione dell'avviso pubblico) fino alla sua conclusione (e, cioè, alla data dell'affidamento dell'appalto in esito all'interpello)” (Cons. St., sez. III, 13.01.2016, n. 76).
Successivamente, con la sentenza 06.03.2017, n. 1050, la stessa Sezione ha diversamente opinato che nell’ambito della procedura di “scorrimento della graduatoria” è irragionevole pretendere dall’offerente non aggiudicatario il possesso continuo dei requisiti per il periodo nel quale venga disposta l’aggiudicazione in favore di un terzo, essendo dunque sufficiente, ai fini del rispetto del principio di continuità nel possesso dei requisiti sancito dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2015, che il concorrente possieda i requisiti al momento della presentazione dell’offerta originaria nonché all’atto della conferma di quest’ultima nella fase di interpello ex art. 140, d.lgs. n. 163 del 2006.
Ciò in quanto, nella citata pronunzia della Plenaria, il possesso dei requisiti di ammissione si impone a partire dall'atto di presentazione della domanda di partecipazione, e per tutta la durata della procedura di evidenza pubblica, non in virtù di un astratto e vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza della serietà e della volontà dell'impresa di presentare un'offerta credibile e dunque della sicurezza per la stazione appaltante dell'instaurazione di un rapporto con un soggetto, che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all'adempimento dell'obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e speciale per contrattare con la P.A.
La più recente decisione, tuttavia, nell’affermare che “nelle ipotesi in cui l'amministrazione decida legittimamente di scorrere la graduatoria non vi è l'indizione di una nuova selezione concorsuale, né formulazione di nuove offerte”, in merito alla natura del procedimento in esame non ha modificato l’orientamento già espresso dalla precedente sentenza del 2016, da ritenersi pertanto non superato.
Si tratta, quindi, di un'attività amministrativa vincolata dalla legge in un duplice senso: soggettivo ed oggettivo (Cons. St., sez. VI, 14 novembre 2012, n. 5747) atteso che sotto il primo profilo, la stazione appaltante, se decide di esercitare la facoltà riconosciutale dall'art. 140 d.lgs. cit., resta tenuta ad indirizzare la proposta alle (sole) imprese che seguono quella appaltatrice nella graduatoria che si è consolidata in esito alla gara già svolta, mentre, sotto il secondo profilo, le condizioni del nuovo contratto devono coincidere con quelle "già proposte dall'originario aggiudicatario in sede di offerta” e che “sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, dunque, l'azione amministrativa preordinata alla scelta dell'impresa alla quale affidare il completamento dei lavori in seguito alla risoluzione del contratto d'appalto per uno degli eventi tassativamente elencati nella disposizione in esame risulta vincolata dal rispetto delle risultanze della gara inizialmente bandita, restando preclusi sia l'interpello di imprese diverse da quelle utilmente classificatesi all'esito della selezione già svolta, sia la modificazione delle condizioni del contratto" (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 05.06.2018 n. 318 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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6. Il ricorso deve, tuttavia, essere respinto perché infondato.
6.1. L’art. 140 commi 1 e 2 del D.Lgs. n. 163/2006, pacificamente applicabile ratione temporis al procedimento in esame, prevede che: “1. Le stazioni appaltanti, in caso di fallimento dell'appaltatore o di liquidazione coatta e concordato preventivo dello stesso o di risoluzione del contratto ai sensi degli articoli 135 e 136 o di recesso dal contratto ai sensi dell'articolo 11, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 03.06.1998, n. 252, potranno interpellare progressivamente i soggetti che hanno partecipato all'originaria procedura di gara, risultanti dalla relativa graduatoria, al fine di stipulare un nuovo contratto per l'affidamento del completamento dei lavori. Si procede all'interpello a partire dal soggetto che ha formulato la prima migliore offerta, fino al quinto migliore offerente escluso l'originario aggiudicatario.
2. L'affidamento avviene alle medesime condizioni già proposte dall'originario aggiudicatario in sede in offerta
.”
6.2. La giurisprudenza pronunciatasi sulla norma in esame ha affermato, dapprima, che “
la fase procedimentale disciplinata dall'art. 140 d.lgs. cit.…… si configura come un segmento di un'unica procedura di affidamento, avviata con la pubblicazione del bando, con la conseguenza, per quanto qui rileva, che i requisiti di partecipazione, attesa l'unicità e l'inscindibilità del procedimento selettivo, devono essere ininterrottamente posseduti dal suo avvio (e, cioè, dalla pubblicazione dell'avviso pubblico) fino alla sua conclusione (e, cioè, alla data dell'affidamento dell'appalto in esito all'interpello)” (Consiglio di Stato sez. III, 13.01.2016 n. 76).
6.3. Successivamente, con la sentenza del 06.03.2017 n. 1050, la medesima Sezione
ha diversamente opinato che nell’ambito della procedura di “scorrimento della graduatoria” è irragionevole pretendere dall’offerente non aggiudicatario il possesso continuo dei requisiti per il periodo nel quale venga disposta l’aggiudicazione in favore di un terzo, essendo dunque sufficiente, ai fini del rispetto del principio di continuità nel possesso dei requisiti sancito dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 8/2015, che il concorrente possieda i requisiti al momento della presentazione dell’offerta originaria nonché all’atto della conferma di quest’ultima nella fase di interpello ex art. 140 del più volte citato D.Lgs. n. 163/2006.
Ciò in quanto, nella citata pronunzia della Plenaria, il possesso dei requisiti di ammissione “
si impone a partire dall'atto di presentazione della domanda di partecipazione, e per tutta la durata della procedura di evidenza pubblica, non in virtù di un astratto e vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza della serietà e della volontà dell'impresa di presentare un'offerta credibile e dunque della sicurezza per la stazione appaltante dell'instaurazione di un rapporto con un soggetto, che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all'adempimento dell'obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e speciale per contrattare con la P.A.” (C.d.S., sent. n. 1050 cit.).
6.4.
La più recente decisione, tuttavia, nell’affermare che “nelle ipotesi in cui l'amministrazione decida legittimamente di scorrere la graduatoria non vi è l'indizione di una nuova selezione concorsuale, né formulazione di nuove offerte”, in merito alla natura del procedimento in esame non ha modificato l’orientamento già espresso dalla precedente sentenza del 2016, da ritenersi pertanto non superato.
Ribadisce, infatti, la III sezione del Consiglio di Stato che “
si tratta, quindi, di un'attività amministrativa vincolata dalla legge in un duplice senso: soggettivo ed oggettivo (Cons. St., sez. VI, 14.11.2012, n. 5747) atteso che “sotto il primo profilo, la stazione appaltante, se decide di esercitare la facoltà riconosciutale dall'art. 140 d.lgs. cit., resta tenuta ad indirizzare la proposta alle (sole) imprese che seguono quella appaltatrice nella graduatoria che si è consolidata in esito alla gara già svolta", mentre, sotto il secondo profilo, le condizioni del nuovo contratto devono coincidere con quelle "già proposte dall'originario aggiudicatario in sede di offerta” e che “sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, dunque, l'azione amministrativa preordinata alla scelta dell'impresa alla quale affidare il completamento dei lavori in seguito alla risoluzione del contratto d'appalto per uno degli eventi tassativamente elencati nella disposizione in esame risulta vincolata dal rispetto delle risultanze della gara inizialmente bandita, restando preclusi sia l'interpello di imprese diverse da quelle utilmente classificatesi all'esito della selezione già svolta, sia la modificazione delle condizioni del contratto”.
6.5. Precisato quanto sopra in merito al procedimento ex art. 140 D.Lgs. n. 163/2006, i motivi di impugnazione, finalizzati a sostenere la legittimità del ricorso all’avvalimento –non previsto in fase di presentazione dell’originaria offerta– nell’ambito dello stesso, non sono fondati.
6.6 Va, infatti, evidenziato che l’impresa, al momento della manifestazione di disponibilità alla stipulazione del contratto, avvenuta in data 15.09.2017, non possedeva i requisiti per la stipulazione del contratto di appalto, essendo venuta meno successivamente all’espletamento dell’originaria procedura di gara l’attestazione SOA nella categoria OG1 classifica VI e OG11 classifica III ed avendo stipulato il contrato di avvalimento, avente ad oggetto le citate attestazioni SOA, solo il successivo 16.10.2017.
Pertanto, pur volendo accedere al più recente orientamento prima richiamato, il ricorso è infondato in quanto il concorrente possedeva i requisiti al momento della presentazione dell’offerta originaria, ma ne era sprovvisto all’atto della conferma di quest’ultima nella fase di interpello ex art. 140.
7. Rileva inoltre il Collegio come per il caso in esame si debba considerare pure la normativa in materia di avvalimento di cui all’art. 49 del D.Lgs. n. 163/2006 ed agli artt. 47 e 48 della Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi.
7.1.. Secondo quanto affermato dalla Corte di Giustizia, l'articolo 48, paragrafo 3, della Direttiva 2004/18 citata è formulato “in termini generali, e non indica espressamente le modalità con cui un operatore economico possa fare affidamento sulle capacità di altri soggetti nell'ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico” (Corte di Giustizia UE sez. I, 14.09.2017 nella causa C-223/16, che richiama sul punto la precedente sentenza del 07.04.2016, Partner Apelski Dariusz, C-324/14, EU:C:2016:214, punti 87 e 88).
La stessa sentenza della Corte UE –sebbene a proposito della possibilità di sostituire l’impresa ausiliaria che abbia perso i requisiti nel corso del procedimento di evidenza pubblica, ma comunque esprimendo principi del tutto confacenti al caso oggetto del presente ricorso– ha avuto modo di precisare che “conformemente al considerando 46 e all'articolo 2 della direttiva 2004/18, le amministrazioni aggiudicatrici devono trattare gli operatori economici su un piano di parità, in modo non discriminatorio e trasparente (sentenze del 07.04.2016, Partner Apelski Dariusz, C-324/14, EU:C:2016:214, punto 60, e del 04.05.2017, Esaprojekt, C-387/14, EU:C:2017:338, punto 35)” e che pertanto “i principi di parità di trattamento e di non discriminazione nonché l'obbligo di trasparenza ostano a qualsiasi trattativa tra l'amministrazione aggiudicatrice e un offerente nell'ambito di una procedura di aggiudicazione di appalti pubblici, il che implica che, in linea di principio, un'offerta non può essere modificata dopo il suo deposito su iniziativa dell'amministrazione aggiudicatrice o dell'offerente”.
7.2. La Corte ha pertanto stabilito che,
nel vigore della direttiva 2004/18, la sostituzione dell’impresa ausiliaria che abbia perduto i requisiti configura una modificazione dell’offerta, la quale obbligherebbe l'amministrazione aggiudicatrice a procedere a nuovi controlli procurando, inoltre, un vantaggio competitivo al partecipante, il quale potrebbe tentare di ottimizzare la sua offerta per meglio far fronte alle offerte dei suoi concorrenti nella procedura di aggiudicazione dell'appalto in questione, precisando che “una tale situazione sarebbe contraria al principio di parità di trattamento, che impone che i concorrenti dispongano delle medesime possibilità nella formulazione dei termini della loro offerta e che implica che tali offerte siano soggette alle medesime condizioni per tutti i concorrenti, e costituirebbe una distorsione della concorrenza sana ed effettiva tra imprese che partecipano a un appalto pubblico”.
7.3.
Il contesto oggetto della pronuncia della Corte UE è equiparabile, in quanto accomunato da identica ratio, a quello presupposto al presente ricorso, riguardante l’introduzione di una impresa ausiliaria in fase di scorrimento della graduatoria ex art. 140 D.Lgs. n. 163/2006, con conseguente piana applicabilità dei principi nella stessa espressi.
7.4. A tali considerazioni deve aggiungersi che secondo la giurisprudenza amministrativa
l’istituto dell’avvalimento, in relazione alle gare disciplinate dalle direttive del 2004 e dal D.Lgs. n. 163/2006, non può porsi in contrasto con il principio generale di sostanziale immodificabilità soggettiva del concorrente (Consiglio di Stato, sez. V, 21.02.2018, n. 1101; TAR Roma, (Lazio), sez. II, 10.01.2018, n. 226).
Pertanto
nella fase di interpello ex art. 140 D.Lgs. n. 163/2006, costituente appendice dell’originaria procedura di gara, non possono essere effettuate modificazioni dell’offerta né in senso oggettivo né in termini soggettivi, con la conseguenza che l’introduzione dell’avvalimento in tale ambito, nonostante l’ampia portata dell’istituto e la sua finalizzazione a consentire la massima partecipazione alle procedure di affidamento dei pubblici appalti, si porrebbe in contrasto con il principio generale di parità di trattamento, come evidenziato dalla Corte di Giustizia.
8. Il provvedimento impugnato è pertanto esente dalle prime due censure avverso lo stesso sollevate dall’impresa ricorrente.
9. Né, infine, può determinare illegittimità alcuna dello stesso l’avere la stazione appaltante richiesto un parere all’ANAC per poi determinarsi autonomamente, considerato sia che il parere non è stato reso, sia la facoltatività della richiesta.
10. Quanto, poi, alla differente motivazione dei provvedimenti del 12.03.2018 e del 06.04.2018 la stessa è dovuta al contraddittorio procedimentale con la ricorrente e non può, pertanto, in alcun modo viziare il provvedimento impugnato.
11. In conclusione, il ricorso deve, per quanto esposto, essere respinto.

EDILIZIA PRIVATA: La legittimazione alla presentazione della domanda di condono, ai sensi dell'art. 31 della l. n. 47 del 1985, deve essere riconosciuta, oltre che a coloro che hanno titolo per richiedere la concessione edilizia (oggi permesso di costruire), anche ad "ogni altro soggetto interessato" al conseguimento della sanatoria.
La giurisprudenza ha, in particolare, rilevato che tale legittimazione compete anche al responsabile dell'abuso, per tale dovendosi intendere lo stesso esecutore materiale, ovvero chi abbia la disponibilità del bene, al momento dell'emissione della misura repressiva; ciò in quanto, la relativa maggiore ampiezza della legittimazione a richiedere la sanatoria, rispetto al preventivo permesso di costruire, trova giustificazione nella possibilità da accordare al predetto responsabile -ove coincidente con l'esecutore materiale delle opere abusive- di evitare le conseguenze penali dell'illecito commesso, ferma restando la salvezza dei diritti di terzi.
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Nel caso di specie si tratta invece di un diniego, sia pure adottato a distanza di un notevole lasso di tempo dall’inoltro dell’istanza –circostanza che di per sé però non è motivo di illegittimità dell’atto– ad una istanza di condono edilizio, con la quale viene esercitato un potere vincolato, in cui non vi alcuna ponderazione di interessi da compiere, ma solo la verifica della sussistenza, in concreto, dei presupposti predeterminati dalla legge per il riconoscimento del bene giuridico preteso.
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7. Il ricorso è fondato.
8. La questione dirimente sollevata con il primo motivo di ricorso non è quella –civilistica e controversa tra le parti– circa la titolarità del diritto di proprietà del suolo e, per accessione, dell’immobile nel quale sono stati realizzati gli interventi in difformità dall’originaria concessione edilizia (risalente al 1981), ma quella concernente la legittimazione a richiedere il titolo in sanatoria; ovvero se, come indicato dal Comune nel provvedimento gravato, la mancata prova documentale della titolarità del diritto di proprietà del bene, in capo al richiedente (e, per di più, come nel caso di specie, in assenza del consenso del terzo che si affermi proprietario del suolo) giustifichi il diniego del rilascio del titolo edilizio.
9. Ritiene il Collegio che, come già osservato dalla Sezione in precedenti analoghi (TAR Napoli, sez. II, 12.01.2016, n. 119) alla questione debba darsi soluzione negativa.
La legittimazione alla presentazione della domanda di condono, ai sensi dell'art. 31 della l. n. 47 del 1985, deve essere riconosciuta, oltre che a coloro che hanno titolo per richiedere la concessione edilizia (oggi permesso di costruire), anche ad "ogni altro soggetto interessato" al conseguimento della sanatoria.
La giurisprudenza ha, in particolare, rilevato che tale legittimazione compete anche al responsabile dell'abuso, per tale dovendosi intendere lo stesso esecutore materiale, ovvero chi abbia la disponibilità del bene, al momento dell'emissione della misura repressiva (cfr. Cons. St., sez. V, 08.06.1994, n. 614; Consiglio Giust. Amm. Sic. 29.07.1992, n. 229; Cons. St., sez. V, 23.11.2006, n. 6906); ciò in quanto, la relativa maggiore ampiezza della legittimazione a richiedere la sanatoria, rispetto al preventivo permesso di costruire, trova giustificazione nella possibilità da accordare al predetto responsabile -ove coincidente con l'esecutore materiale delle opere abusive- di evitare le conseguenze penali dell'illecito commesso, ferma restando la salvezza dei diritti di terzi.
10. Nel caso di specie, parte ricorrente ha comprovato la sussistenza di un interesse specifico all’ottenimento del titolo in sanatoria, avendo formulato l’istanza mentre risiedeva con il proprio nucleo familiare presso l’immobile; ha, in ogni caso, allegato documenti (quali la scrittura privata stipulata tra la propria dante causa e Ar.Ch., dante causa del terzo che oggi si oppone alla conclusione favorevole del procedimento) circa la natura tuttora controversa del titolo di proprietà sul bene.
11. Né, ad avviso del Collegio, è applicabile la condizione prevista dall’art. 32 della L. 47/1985, ovvero il necessario consenso dell’ente proprietario a concedere l’uso del suolo, riguardando essa solo le ipotesi in cui il suolo appartenga ad ente pubblico territoriale, come indicato chiaramente dalla norma, cui corrisponde anche il modello di domanda predisposto per l’inoltro della richiesta di condono, in cui è previsto uno spazio destinato alla indicazione sul se l’opera è stata realizzata “su aree di proprietà dello Stato o di altri enti pubblici territoriali”; fattispecie non ricorrente nel caso in esame.
12. Ne consegue la fondatezza del primo motivo di ricorso, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato.
13. Non possono invece condividersi le doglianze dedotte sulla presupposta qualificazione dell’atto gravato come annullamento in autotutela: nel caso di specie si tratta invece di un diniego, sia pure adottato a distanza di un notevole lasso di tempo dall’inoltro dell’istanza –circostanza che di per sé però non è motivo di illegittimità dell’atto– ad una istanza di condono edilizio, con la quale viene esercitato un potere vincolato, in cui non vi alcuna ponderazione di interessi da compiere, ma solo la verifica della sussistenza, in concreto, dei presupposti predeterminati dalla legge per il riconoscimento del bene giuridico preteso.
14. In conclusione il ricorso va accolto (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 04.06.2018 n. 3666 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso edilizio – Risalenza nel tempo – Affidamento ingeneratosi in conseguenza del rilascio del titolo edilizio – Misura ripristinatoria – Motivazione rafforzata.
La risalenza nel tempo dell’abuso contestato, l’affidamento ingeneratosi in conseguenza del rilascio del titolo edilizio del locale (nella specie, locale tecnico-deposito poi utilizzato come garage), integrano, complessivamente considerati, parametri oggettivi di riferimento da valutare, decorsi oltre quaranta anni dalla realizzazione dell’abuso, prima d’adottare la misura ripristinatoria ovvero da dover indurre il Comune a fornire adeguata motivazione sull’interesse pubblico attuale al ripristino dello stato dei luoghi (cfr., in termini, da ultimo, Cons. Stato, ad plen n. 9 del 2017) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.06.2018 n. 3372 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo non richiede una particolare motivazione in ordine alla sussistenza di uno specifico interesse pubblico al ripristino della legittimità violata, e ciò nonostante sia decorso un considerevole lasso di tempo dalla commissione dell'abuso.
In base all'orientamento in parola deve infatti escludersi la configurabilità di un legittimo affidamento in capo al responsabile dell'abuso o al suo avente causa nonostante il decorso del tempo dal commesso abuso.
Si è osservato al riguardo che l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né -ancora- una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Si è inoltre osservato al riguardo che, laddove si annettesse rilievo in siffatte ipotesi al decorso del tempo -sia pure, al solo fine di incidere sul quantum di motivazione richiesto all'amministrazione-, si perverrebbe in via pretoria a delineare una sorta di 'sanatoria extra ordinem', la quale opererebbe anche nelle ipotesi in cui il soggetto interessato non abbia potuto -o voluto- avvalersi delle disposizioni normative in tema di sanatoria di abusi edilizi.
Peraltro, in caso di abusi edilizi, l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né –ancora– una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
Difatti, una giurisprudenza ormai costante ha riconosciuto all’illecito edilizio natura di illecito permanente in quanto un immobile interessato da un intervento illegittimo conserva nel tempo la sua natura abusiva tale per cui l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata è “in re ipsa”, quindi l’interesse del privato deve intendersi necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico all'osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio.
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L
a mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio.

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Ritiene la Sezione che l’appello sia fondato e vada accolto, sicché –in riforma della sentenza del TAR– il ricorso di primo grado va respinto.
Al riguardo, vanno richiamati i principi più volte affermati dal Consiglio di Stato, circa le conseguenze derivanti dalla commissione di abusi edilizi e l’indefettibile applicazione in materia del principio di legalità, ribaditi anche dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, con la sentenza n. 9 del 2017.
L'ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo non richiede una particolare motivazione in ordine alla sussistenza di uno specifico interesse pubblico al ripristino della legittimità violata, e ciò nonostante sia decorso un considerevole lasso di tempo dalla commissione dell'abuso. In base all'orientamento in parola deve infatti escludersi la configurabilità di un legittimo affidamento in capo al responsabile dell'abuso o al suo avente causa nonostante il decorso del tempo dal commesso abuso (in tal senso -ex multis-: Cons. Stato, VI, 10.05.2016, n. 1774; id., VI, 23.10.2015, n. 4880; id., VI, 11.12.2013, n. 5943).
Si è osservato al riguardo che l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né -ancora- una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (in tal senso: Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908).
Si è inoltre osservato al riguardo che, laddove si annettesse rilievo in siffatte ipotesi al decorso del tempo -sia pure, al solo fine di incidere sul quantum di motivazione richiesto all'amministrazione-, si perverrebbe in via pretoria a delineare una sorta di 'sanatoria extra ordinem', la quale opererebbe anche nelle ipotesi in cui il soggetto interessato non abbia potuto -o voluto- avvalersi delle disposizioni normative in tema di sanatoria di abusi edilizi (in tal senso: Cons. Stato, VI, 15.01.2015, n. 13)
” (cfr. Ad. plen., n. 9/2017 cit.).
Peraltro, in caso di abusi edilizi, l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una valutazione specifica delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né –ancora– una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (in tal senso, v. Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908).
Difatti, una giurisprudenza ormai costante ha riconosciuto all’illecito edilizio natura di illecito permanente in quanto un immobile interessato da un intervento illegittimo conserva nel tempo la sua natura abusiva tale per cui l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata è “in re ipsa”, quindi l’interesse del privato deve intendersi necessariamente recessivo rispetto all'interesse pubblico all'osservanza della normativa urbanistico-edilizia e al corretto governo del territorio (v., ex plurimis, Cons. Stato, VI, n. 474/2015, IV, n. 3182/2013, VI, n. 6072/2012 e IV, nn. 4403/2011, 79/2011, 5509/2009 e 2529/2004).
Ciò posto, alla luce della menzionata sentenza dell’Adunanza plenaria n. 9 del 2017, emerge che “la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio…
” (conf. Cons. Stato, sez. VI, n. 1893 del 2018).
Nella specie, emerge la fondatezza della impugnazione nella parte in cui il Comune sottolinea la insussistenza –o comunque la irrilevanza- di un legittimo affidamento sulla liceità dell’intervento.
Non sono cioè individuabili atti o comportamenti dell’Amministrazione comunale dai quali possa desumersi l’avvenuta formazione di un affidamento legittimo in capo al responsabile dell’abuso.
Difatti, il periodo di tempo intercorrente tra la realizzazione dell’opera abusiva e il provvedimento repressivo non può assurgere a circostanza legittimante l’intervento abusivo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell’opera che il protrarsi del comportamento inerte del Comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell’abuso, sia in relazione a un ipotizzato ulteriore obbligo, per l’Amministrazione emanante, di motivare in maniera specifica il provvedimento in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, posto che il permanere nel tempo dell’opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza solo il suo carattere abusivo.
Fermo quanto rilevato, l’ordinanza di demolizione impugnata in primo grado risulta comunque adeguatamente motivata e sorretta da indicazioni adeguate su un bilanciamento tra i diversi interessi coinvolti, pubblico e privato.
Le considerazioni esposte sono risolutive ai fini dell’accoglimento dell’appello e, in riforma della sentenza impugnata, per respingere il ricorso di primo grado.
Non rileva quanto osservato dal TAR, secondo cui dagli atti di causa la realizzazione del manufatto risulterebbe comprovata, con ragionevole probabilità, negli anni Sessanta (più che negli anni Settanta), e comunque prima della nascita del Parco nazionale dei Monti Sibillini, potendo il Collegio considerarsi esonerato dall’obbligo di verificare quale possa essere stata la data di realizzazione del manufatto abusivo.
Peraltro, come rilevato al p. 1, il Comune ha dato prova del fatto che sin dal 1935, e indipendentemente quindi dall’epoca –comunque successiva- alla quale risale la costruzione del manufatto su cui si controverte, esistevano norme locali volte a regolare e controllare gli interventi edilizi, così obbligando il privato a dotarsi di una licenza edilizia per poter realizzare un immobile.
Ugualmente, si può prescindere dal rimarcare che il manufatto in questione si trova all’interno del Parco nazionale dei Monti Sibillini, zona entro la quale le norme del Piano territoriale di coordinamento provinciale (cfr. art. 38) consentono solo interventi che non alterino le caratteristiche peculiari del luogo, la sua immagine e le prospettive panoramiche e dei punti di affaccio.
L’appello va dunque accolto e, in riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo grado va respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.06.2018 n. 3351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Come noto, in materia ambientale ai fini della legittimazione va seguito un approccio necessariamente non restrittivo nell'individuazione della lesione che potrebbe astrattamente fondare l'interesse all'impugnazione, essendo sul punto sufficiente rammentare come -anche sotto la spinta del diritto europeo- la materia della tutela dell'ambiente si connoti per una peculiare ampiezza del riconoscimento della legittimazione partecipativa e del coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati, come è dimostrato dalle scelte legislative in materia, in specie in tema di valorizzazione degli interessi “diffusi”.
Pacificamente, nel processo amministrativo la legittimazione al ricorso in materia ambientale va riconosciuta alle persone fisiche anche in base al criterio della "prossimità dei luoghi interessati" ovvero della sussistenza di uno "stabile collegamento" ambientale, come per la materia edilizia.
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Il rito del silenzio, come noto, è azionabile ogni qual volta la condotta inerte della P.A. non assuma valenza provvedimentale, di accoglimento o di diniego dell’istanza del privato, e quando l’iniziativa dell’istante sia idonea a generare l’obbligo -in capo all’Amministrazione- di adottare un provvedimento espresso.
Non può ritenersi idoneo a definire il procedimento un atto qualificabile quale “soprassessorio”, che, rinviando il soddisfacimento dell’interesse pretensivo ad un accadimento futuro ed incerto nel quando, determina un arresto a tempo indeterminato del procedimento amministrativo generando un’immediata lesione della posizione giuridica dell’interessato.
Siffatto atto, in quanto soprassiede sull’istanza del privato, non può costituire un provvedimento terminativo del procedimento –che l’Amministrazione ha l’obbligo di emanare in forza dell’articolo 2 della legge 07.08.1990, n. 241, quale che sia il contenuto– ma un rinvio sine die della conclusione del procedimento in violazione dell’obbligo di concluderlo entro il termine fissato. L’Amministrazione ha l’obbligo di emanare il provvedimento finale, senza che siffatto obbligo possa essere vanificato dalla configurazione di un provvedimento fittizio, pena altrimenti la deminutio di tutela a danno del ricorrente.
L’instaurazione del giudizio in tal caso è quindi strumentale all’emanazione di una pronuncia che, verificata la natura dell’atto impugnato, dichiari la permanenza in capo alla P.A. dell’obbligo di provvedere e la condanni all’emanazione dell’atto terminativo del procedimento (o all’emanazione di un atto di contenuto predeterminato qualora l’attività sia –o sia divenuta– vincolata).
L’adozione dell’atto soprassessorio non determina pertanto la declaratoria di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse ad agire, stante la permanenza di una “situazione di inerzia colpevole (e, dunque, il corrispondente interesse ad agire ex art. 117 c.p.a.) se l’amministrazione adotta un atto soprassessorio; tanto nel decisivo presupposto che una tale attività non dà vita ad un autentico provvedimento ultimativo del procedimento che l’amministrazione ha l’obbligo di concludere, ma ad un rinvio sine die”.
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2.1 Il ricorso è fondato e merita accoglimento
Preliminarmente va riconosciuta la legittimazione dei ricorrenti, quali cittadini proprietari di immobili e residenti, che si trovano in situazione di stabile collegamento ambientale con una zona del territorio comunale interessata da fenomeni di inquinamento acustico, e lamentino un pregiudizio dalla mancata adozione da parte del Comune di misure di riduzione e contenimento dell’impatto acustico derivante dal traffico veicolare, nonché il deprezzamento degli immobili di rispettiva proprietà.
Come noto, in materia ambientale ai fini della legittimazione va seguito un approccio necessariamente non restrittivo nell'individuazione della lesione che potrebbe astrattamente fondare l'interesse all'impugnazione, essendo sul punto sufficiente rammentare come -anche sotto la spinta del diritto europeo- la materia della tutela dell'ambiente si connoti per una peculiare ampiezza del riconoscimento della legittimazione partecipativa e del coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati, come è dimostrato dalle scelte legislative in materia, in specie in tema di valorizzazione degli interessi “diffusi”.
Pacificamente, nel processo amministrativo la legittimazione al ricorso in materia ambientale va riconosciuta alle persone fisiche anche in base al criterio della "prossimità dei luoghi interessati" ovvero della sussistenza di uno "stabile collegamento" ambientale, come per la materia edilizia (cfr. ex plurimis Cons. St. sez. III, 15.02.2012 n. 784).
2.2 Sussiste nella specie l’inerzia dell’amministrazione rispetto agli atti di diffida inoltrati, il primo dal ricorrente D’Agnese Mauro anche per conto dei propri familiari in data 16.06.2017 ed il secondo in data 08.01.2018, di cui solo il primo è stato riscontrato con una sola nota “soprassessoria” del Servizio Patrimonio prot. n. 40781/2017 con cui l’amministrazione comunale non si è pronunciata in maniera espressa sulle richieste dei ricorrenti.
Con la nota predetta il Comune si è limitato a rimandare sine die la soluzione delle problematiche di inquinamento rappresentate in vista della realizzazione di una nuova rotatoria ancora in fase di programmazione, ed ha dato atto dell’apertura al traffico di una nuova bretella per convogliare il traffico dalla galleria della variante Anas verso via Chiarini senza tuttavia aver esperito nessun previo accertamento teso a verificare, sui luoghi in oggetto, l’attuale compatibilità dei rumori provenienti dal traffico veicolare con i limiti massimi prescritti ex lege per le immissioni acustiche.
Trattasi evidentemente di una nota con cui l’amministrazione non si è pronunciata sulla sussistenza o meno dei presupposti per intervenire con le misure di riduzione richieste dal ricorrente che aveva sollecitato l’adozione di interventi di risanamento acustico, l’apposizione di barriere di contenimento del rumore o comunque l’adozione di ogni altro accorgimento utile a preservare l’area dai disagi registrati.
La nota in questione si appalesa pertanto assolutamente inidonea a definire in modo espresso il procedimento, ed è evidentemente elusiva dell’obbligo di provvedere.
Il rito del silenzio, come noto, è azionabile ogni qual volta la condotta inerte della P.A. non assuma valenza provvedimentale, di accoglimento o di diniego dell’istanza del privato, e quando l’iniziativa dell’istante sia idonea a generare l’obbligo -in capo all’Amministrazione- di adottare un provvedimento espresso. Non può ritenersi idoneo a definire il procedimento un atto qualificabile quale “soprassessorio”, che, rinviando il soddisfacimento dell’interesse pretensivo ad un accadimento futuro ed incerto nel quando, determina un arresto a tempo indeterminato del procedimento amministrativo generando un’immediata lesione della posizione giuridica dell’interessato.
Siffatto atto, in quanto soprassiede sull’istanza del privato, non può costituire un provvedimento terminativo del procedimento –che l’Amministrazione ha l’obbligo di emanare in forza dell’articolo 2 della legge 07.08.1990, n. 241, quale che sia il contenuto– ma un rinvio sine die della conclusione del procedimento in violazione dell’obbligo di concluderlo entro il termine fissato. L’Amministrazione ha l’obbligo di emanare il provvedimento finale, senza che siffatto obbligo possa essere vanificato dalla configurazione di un provvedimento fittizio, pena altrimenti la deminutio di tutela a danno del ricorrente.
L’instaurazione del giudizio in tal caso è quindi strumentale all’emanazione di una pronuncia che, verificata la natura dell’atto impugnato, dichiari la permanenza in capo alla P.A. dell’obbligo di provvedere e la condanni all’emanazione dell’atto terminativo del procedimento (o all’emanazione di un atto di contenuto predeterminato qualora l’attività sia –o sia divenuta– vincolata).
L’adozione dell’atto soprassessorio non determina pertanto la declaratoria di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse ad agire, stante la permanenza di una “situazione di inerzia colpevole (e, dunque, il corrispondente interesse ad agire ex art. 117 c.p.a.) se l’amministrazione adotta un atto soprassessorio; tanto nel decisivo presupposto che una tale attività non dà vita ad un autentico provvedimento ultimativo del procedimento che l’amministrazione ha l’obbligo di concludere, ma ad un rinvio sine die”.
3. Nel merito occorre evidenziare che con la diffida dell’08.01.2018 parte ricorrente insisteva per porre fine alla grave situazione di inquinamento acustico dell’area con l’adozione degli interventi più opportuni per il contenimento delle immissioni rumorose derivanti dal traffico veicolare.
Pertanto, la conclusione del procedimento instaurato dai ricorrenti richiede, come ben evidenziato in fatto, l’espletamento di specifici accertamenti onde valutare la situazione delle immissioni acustiche all’attualità e porre in essere gli interventi adeguati nell’ambito delle proprie competenze, come delineate dalla legislazione vigente, ampiamente richiamata in fatto.
Pertanto, accertata la inerzia del Comune intimato per l’inutile decorso dei termini di conclusione del procedimento in assenza di un provvedimento espresso, può quindi accogliersi la domanda con assegnazione al Comune del termine di sessanta giorni per definire il procedimento con un provvedimento espresso (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 04.06.2018 n. 188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il ricorso amministrativo contro l’esclusione da una gara pubblica, proposto prima del provvedimento finale di aggiudicazione dell’appalto, non comporta l’onere di notifica ai controinteressati, sia perché a tale stadio del procedimento di gara non sussiste un interesse protetto in capo agli altri concorrenti che potrebbe essere leso dall’eventuale accoglimento del ricorso, sia perché comunque il loro interesse non emerge direttamente dal provvedimento impugnato.
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Considerato che:
   1. Va innanzitutto rigettata la sollevata eccezione di inammissibilità dal momento che, per giurisprudenza pressoché costante, “il ricorso amministrativo contro l’esclusione da una gara pubblica, proposto prima del provvedimento finale di aggiudicazione dell’appalto, non comporta l’onere di notifica ai controinteressati, sia perché a tale stadio del procedimento di gara non sussiste un interesse protetto in capo agli altri concorrenti che potrebbe essere leso dall’eventuale accoglimento del ricorso, sia perché comunque il loro interesse non emerge direttamente dal provvedimento impugnato” (cfr. TAR Umbria, sez. I, 31.05.2017, n. 429. Si veda altresì, in questa stessa direzione, TAR L’Aquila, sez. I, 09.01.2017, n. 17; TAR Molise, sez. I, 24.11.2016, n. 486; TAR Bari, sez. I, 09.06.2016, n. 766; TAR Lazio, sez. III, 08.06.2016, n. 6616) (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 01.06.2018 n. 6148 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI:  a) fatte salve le ipotesi in cui la lex specialis preveda una espressa comminatoria di esclusione, l’omesso versamento del contributo Anac non comporta in linea di principio l’estromissione dalla gara;
      b) ciò anche in linea con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (cfr. sentenza 02.06.2016, C 27/15) nella parte in cui è stato affermato “che i principi di tutela del legittimo affidamento, certezza del diritto e proporzionalità ostano ad una regola dell’ordinamento di uno Stato membro che consenta di escludere da una procedura di affidamento di un contratto pubblico l’operatore economico non avvedutosi di una simile conseguenza, perché non espressamente indicata dagli atti di gara”;
      c) di conseguenza, in presenza di una siffatta omissione ben dovrebbe innescarsi il meccanismo del soccorso istruttorio di cui all’art. 83, comma 9, del decreto legislativo n. 50 del 2016, trattandosi di adempimento (si ripete: versamento contributo ANAC) sicuramente estraneo all’alveo dell’offerta economica e di quella tecnica: di qui la possibile regolarizzazione della connessa posizione da parte dell’impresa partecipante;
   3) una simile impostazione era stata peraltro già anticipata da diverse decisioni di primo grado, tutte opportunamente richiamate dalla difesa di parte ricorrente;
   4) orbene, poiché nel caso di specie la suddetta esclusione è stata disposta proprio per il mancato versamento del contributo di cui all’art. 1, comma 67, della legge n. 266 del 2005, ed appurato che la disciplina di gara non prevedeva in modo espresso l’esclusione per il caso di mancato versamento di tale somma, ne consegue che la gravata determinazione con cui è stata disposta l’estromissione dalla gara della odierna ricorrente (con particolare riguardo ai lotti sopra evidenziati) deve necessariamente essere reputata come illegittimamente adottata.
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   2. Nel merito il ricorso è peraltro fondato in quanto, come anche di recente affermato dalla Sezione V del Consiglio di Stato 19.04.2018, n. 2386:
      a) fatte salve le ipotesi in cui la lex specialis preveda una espressa comminatoria di esclusione, l’omesso versamento del contributo Anac non comporta in linea di principio l’estromissione dalla gara;
      b) ciò anche in linea con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (cfr. sentenza 02.06.2016, C 27/15) nella parte in cui è stato affermato “che i principi di tutela del legittimo affidamento, certezza del diritto e proporzionalità ostano ad una regola dell’ordinamento di uno Stato membro che consenta di escludere da una procedura di affidamento di un contratto pubblico l’operatore economico non avvedutosi di una simile conseguenza, perché non espressamente indicata dagli atti di gara”;
      c) di conseguenza, in presenza di una siffatta omissione ben dovrebbe innescarsi il meccanismo del soccorso istruttorio di cui all’art. 83, comma 9, del decreto legislativo n. 50 del 2016, trattandosi di adempimento (si ripete: versamento contributo ANAC) sicuramente estraneo all’alveo dell’offerta economica e di quella tecnica: di qui la possibile regolarizzazione della connessa posizione da parte dell’impresa partecipante;
   3) una simile impostazione era stata peraltro già anticipata da diverse decisioni di primo grado, tutte opportunamente richiamate dalla difesa di parte ricorrente (cfr. TAR Lazio, sez. III-bis, 06.11.2017, n. 11031; TAR Bari, sez. III, 04.122017, n. 1240; TAR Veneto, sez. I, 15.06.2017, n. 563);
   4) orbene, poiché nel caso di specie la suddetta esclusione è stata disposta proprio per il mancato versamento del contributo di cui all’art. 1, comma 67, della legge n. 266 del 2005, ed appurato che la disciplina di gara non prevedeva in modo espresso l’esclusione per il caso di mancato versamento di tale somma, ne consegue che la gravata determinazione con cui è stata disposta l’estromissione dalla gara della odierna ricorrente (con particolare riguardo ai lotti sopra evidenziati) deve necessariamente essere reputata come illegittimamente adottata (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 01.06.2018 n. 6148 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è necessaria l’indicazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione delle opere abusive anche se il provvedimento è adottato a distanza di tempo dalla loro realizzazione.
Il decorso del tempo non può, infatti, incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'adozione della relativa sanzione.
Deve, quindi, conseguentemente essere escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
D’altra parte, l'attività sanzionatoria dell’Amministrazione concernente l'attività edilizia abusiva è caratterizzata dal carattere vincolato e non discrezionale.
Il giudizio di difformità dell'intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell'irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare.
In definitiva, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è quindi un atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
Trattandosi di attività doverosa e vincolata, certamente non occorre, per giustificare l'adozione dell'ingiunzione di ripristino, una motivazione ulteriore rispetto all'indicazione delle norme violate e al riferimento per relationem ai presupposti di fatto contenuti nei verbali accertativi.
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24. In ordine, poi, all’omessa esplicitazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione delle opere abusive, va rilevato che non è necessaria l’indicazione delle stesse anche se il provvedimento è adottato a distanza di tempo dalla loro realizzazione.
Il decorso del tempo non può, infatti, incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'adozione della relativa sanzione. Deve, quindi, conseguentemente essere escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 26.03.2018, n. 1893; Ad. Plen. 17.10.2017, n. 9).
D’altra parte, l'attività sanzionatoria dell’Amministrazione concernente l'attività edilizia abusiva è caratterizzata dal carattere vincolato e non discrezionale. Il giudizio di difformità dell'intervento edilizio rispetto al titolo abilitativo rilasciato, che costituisce il presupposto dell'irrogazione delle sanzioni, non è connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto e, pertanto, l'ordine di demolizione di opere abusive non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare (Cons. Stato, sez. VI, 06.09.2017, n. 4243).
In definitiva, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è quindi un atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi. Trattandosi di attività doverosa e vincolata, certamente non occorre, per giustificare l'adozione dell'ingiunzione di ripristino, una motivazione ulteriore rispetto all'indicazione delle norme violate e al riferimento per relationem ai presupposti di fatto contenuti nei verbali accertativi (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.06.2018 n. 3309 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’Adunanza Plenaria ha richiamato la consolidata giurisprudenza del Consiglio che ha enucleato “le ipotesi” delle “clausole immediatamente escludenti” e cioè:
   “a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale;
   b) regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile;
   c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta;
   d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente;
   e) clausole impositive di obblighi contra ius (es. cauzione definitiva pari all'intero importo dell'appalto);
   f) bandi contenenti gravi carenze nell'indicazione di dati essenziali per la formulazione dell'offerta (come ad esempio quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli retributivi e anzianità del personale destinato ad essere assorbiti dall'aggiudicatario), ovvero che presentino formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di "0" pt.);
   g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza "non soggetti a ribasso”.
Per converso, ha ricordato che “è stato ribadito il principio generale secondo il quale le rimanenti clausole, in quanto non immediatamente lesive, devono essere impugnate insieme con l'atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva e postulano la preventiva partecipazione alla gara”.
Pertanto, sul punto di interesse, ha affermato che: “le clausole del bando di gara che non rivestano portata escludente devono essere impugnate unitamente al provvedimento lesivo e possono essere impugnate unicamente dall’operatore economico che abbia partecipato alla gara o manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura”.
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I – Osserva il Collegio che viene all’esame della Sezione nuovamente un tema largamente dibattuto, ovvero quello attinente alla portata escludente delle clausole di bando ed alla loro immediata lesività ai fini della conseguente necessità di immediata impugnazione delle stesse.
Non si può prescindere, nella decisione sul punto, che forma oggetto di appello, dal prendere le mosse dai principi riaffermati recentemente dall’Adunanza Plenaria n. 4 del 26.04.2018.
L’Adunanza Plenaria ha richiamato la consolidata giurisprudenza del Consiglio che ha enucleato “le ipotesi” delle “clausole immediatamente escludenti”:
   “a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale (si veda Cons. Stato sez. IV, 07.11.2012, n. 5671);
   b) regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile (così l’Adunanza plenaria n. 3 del 2001);
   c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta (cfr. Cons. Stato sez. V, 24.02.2003, n. 980);
   d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2011 n. 6135; Cons. Stato, sez. III, 23.01.2015 n. 293);
   e) clausole impositive di obblighi contra ius (es. cauzione definitiva pari all'intero importo dell'appalto: Cons. Stato, sez. II, 19.02.2003, n. 2222);
   f) bandi contenenti gravi carenze nell'indicazione di dati essenziali per la formulazione dell'offerta (come ad esempio quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli retributivi e anzianità del personale destinato ad essere assorbiti dall'aggiudicatario), ovvero che presentino formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di "0" pt.);
   g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza "non soggetti a ribasso" (cfr. Cons. Stato, sez. III, 03.10.2011 n. 5421)
”.
Per converso, ha ricordato che “è stato ribadito il principio generale secondo il quale le rimanenti clausole, in quanto non immediatamente lesive, devono essere impugnate insieme con l'atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva (Cons. Stato, sez. V, 27.10.2014, n. 5282) e postulano la preventiva partecipazione alla gara”.
Pertanto, sul punto di interesse, ha affermato che: “le clausole del bando di gara che non rivestano portata escludente devono essere impugnate unitamente al provvedimento lesivo e possono essere impugnate unicamente dall’operatore economico che abbia partecipato alla gara o manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura” (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 01.06.2018 n. 3299 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli apprezzamenti in ordine alla idoneità o alla inidoneità tecnica delle offerte dei vari partecipanti alla gara pubblica, in quanto espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale a carattere complesso, sono sindacabili in sede giurisdizionale solo se affetti da macroscopici vizi logici, disparità di trattamento, errore manifesto, contraddittorietà ictu oculi rilevabile, rientrando tipicamente nel potere valutativo quello di ritenere migliore un’offerta rispetto ad un’altra.
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È costante la giurisprudenza di questo Consiglio nell’affermare che gli apprezzamenti in ordine alla idoneità o alla inidoneità tecnica delle offerte dei vari partecipanti alla gara pubblica, in quanto espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale a carattere complesso, sono sindacabili in sede giurisdizionale solo se affetti da macroscopici vizi logici, disparità di trattamento, errore manifesto, contraddittorietà ictu oculi rilevabile, rientrando tipicamente nel potere valutativo quello di ritenere migliore un’offerta rispetto ad un’altra (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 26.01.2012, n. 249) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 01.06.2018 n. 3299 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sia il responsabile dell’abuso edilizio che il proprietario della res (qualora le due qualità non si identifichino nella stessa persona) possono divenire destinatari della sanzione reale contemplata dall’art. 31, co. 2, d.P.R. 380/2001.
Invero, ai sensi dell'art. 31, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di demolizione non occorre stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa disposizione nazionale si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo accertamento di una qualche responsabilità. Il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non è l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistica ed edilizia e l'individuazione di un soggetto che abbia la titolarità ad eseguire l'ordine ripristinatorio e, quindi, il proprietario in virtù del suo diritto dominicale. In considerazione di ciò, la misura ripristinatoria è posta a carico non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del proprietario del bene e dei suoi aventi causa.
Ed ancora: <<L'ordinanza di demolizione di opere abusive è legittimamente adottata nei confronti del proprietario dell'immobile sia estraneo alla realizzazione delle stesse, venendo in rilievo la sua posizione di estraneità all'esecuzione dell'abuso, nella fase successiva dell'acquisizione gratuita delle stesse al patrimonio comunale, conseguente alla inottemperanza dell'ordine demolitorio>>.
Tale ultima affermazione è astrattamente corretta, al riguardo rilevandosi in giurisprudenza che se è vero che il proprietario del fabbricato deve ritenersi passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell'abuso, <<è altrettanto vero che qualora egli dimostri la sua assoluta estraneità all'abuso edilizio commesso da altri e manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi consentitigli dall'ordinamento per la rimozione dell'opera abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso sia stato impossibilitato ad eseguire; in altri termini, l'estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto -che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità- non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l'inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene>>.
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Tutti i motivi di ricorso sono infondati.
Con il primo motivo parte ricorrente contesta la legittimità dell’ordine di ripristino, in quanto adottato nei confronti di un proprietario che pacificamente non detiene da oltre un decennio la disponibilità materiale dell’area oggetto del provvedimento.
Al riguardo il Collegio condivide l’orientamento giurisprudenziale secondo cui sia il responsabile dell’abuso edilizio che il proprietario della res (qualora le due qualità non si identifichino nella stessa persona) possono divenire destinatari della sanzione reale contemplata dall’art. 31, co. 2, d.P.R. 380/2001.
Al riguardo si rileva in giurisprudenza che, ai sensi dell'art. 31, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di demolizione non occorre stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa disposizione nazionale si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l'effettivo accertamento di una qualche responsabilità. Il presupposto per l'adozione di un'ordinanza di ripristino non è l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma l'esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistica ed edilizia e l'individuazione di un soggetto che abbia la titolarità ad eseguire l'ordine ripristinatorio e, quindi, il proprietario in virtù del suo diritto dominicale. In considerazione di ciò, la misura ripristinatoria è posta a carico non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del proprietario del bene e dei suoi aventi causa (cfr. TAR Firenze (Toscana), sez. III, 28/02/2017, n. 313); ed, ancora: <<L'ordinanza di demolizione di opere abusive è legittimamente adottata nei confronti del proprietario dell'immobile sia estraneo alla realizzazione delle stesse, venendo in rilievo la sua posizione di estraneità all'esecuzione dell'abuso, nella fase successiva dell'acquisizione gratuita delle stesse al patrimonio comunale, conseguente alla inottemperanza dell'ordine demolitorio>> (TAR Campania, Salerno, sez. I, 05/01/2017, n. 29).
Tale ultima affermazione è astrattamente corretta (salvo quanto si dirà in occasione della disamina della successiva censura), al riguardo rilevandosi in giurisprudenza che se è vero che il proprietario del fabbricato deve ritenersi passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell'abuso, <<è altrettanto vero che qualora egli dimostri la sua assoluta estraneità all'abuso edilizio commesso da altri e manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi consentitigli dall'ordinamento per la rimozione dell'opera abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso sia stato impossibilitato ad eseguire; in altri termini, l'estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto -che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità- non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l'inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene>> (TAR Potenza, (Basilicata), sez. I, 24/10/2017, n. 653) (TAR Molise, sentenza 01.06.2018 n. 326 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ noto che in materia edilizia il carattere vincolato della determinazione sanzionatoria, dipendente unicamente dall’accertamento dell’abuso compiuto, esclude la necessità di una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto non è configurabile alcun affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che non può di norma essere sanata dal mero trascorrere del tempo.
Peraltro, l'esercizio del potere repressivo delle opere edilizie realizzate in assenza del titolo edilizio mediante l'applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto e tale atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.

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Nel concetto di abuso rientra pacificamente anche l’alterazione della destinazione d’uso, atteso che essa incide profondamente sul carico urbanistico e sulla relativa pianificazione oltre che sulle previsioni antisismiche.
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Con il secondo articolato motivo di ricorso parte ricorrente si duole, in primo luogo, che il provvedimento impugnato non indicherebbe l’interesse pubblico sotteso all’ordinanza, laddove sarebbe stato necessario tenuto conto del lungo lasso di tempo trascorso tra il momento in cui il Comune ha acquisito consapevolezza della situazione e l’intervento repressivo.
Tale profilo di censura non merita positiva considerazione.
E’ noto, infatti, che in materia edilizia il carattere vincolato della determinazione sanzionatoria, dipendente unicamente dall’accertamento dell’abuso compiuto, esclude la necessità di una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto non è configurabile alcun affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che non può di norma essere sanata dal mero trascorrere del tempo (cfr. Cons. St., sez. IV, 29/04/2014, n. 2228; TAR Napoli Campania, sez. IV, n. 3614/2016; TAR Campania, Salerno, sez. II, 13.12.2013, n. 2480; TAR Basilicata, sez. I, 06.12.2013, n. 770); inoltre (TAR Napoli sez. VI, 20/03/2014, n. 1616).
Peraltro, confutandosi così anche la censura sul difetto di motivazione, secondo condivisa giurisprudenza, l'esercizio del potere repressivo delle opere edilizie realizzate in assenza del titolo edilizio mediante l'applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto e tale atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell'abuso accertato (nella specie, come rilevasi dalla relazione tecnica redatta dal Servizio Antiabusivismo edilizio prot. 80273/2011 del 09.12.2011), presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria (cfr. TAR Napoli, (Campania), sez. VI, 03/08/2016, n. 4017 e C. di S., sez. V, 11.06.2013, n. 3235).
Nel concetto di abuso rientra poi pacificamente anche l’alterazione della destinazione d’uso, atteso che essa incide profondamente sul carico urbanistico e sulla relativa pianificazione oltre che sulle previsioni antisismiche. Peraltro nel caso di specie sono state rilevate violazioni che attengono anche alla realizzazione di manufatti abusivi che non possono non incidere sugli interessi a cui risultano preordinati i vincoli di cui al d.lgs. n. 42/2004 insistenti sulla zona così come anche sulle previsioni antisismiche.
Anche sotto questo profilo il provvedimento si rileva immune dai vizi denunciati e tanto meno dal lamentato eccesso di potere, avendo il comune correttamente e doverosamente esercitato il proprio potere di vigilanza e repressione degli abusi edilizi, dapprima a monte con riguardo alla proposta SCIA e, successivamente, a valle dopo aver eseguito il sopralluogo e constatato la commissione dei segnalati abusi.
In definitiva il ricorso deve essere respinto. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo (TAR Molise, sentenza 01.06.2018 n. 326 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La lettera di invito alla procedura negoziata conseguente ad una gara pubblica andata deserta, nel caso non contenga una disciplina compiuta, deve ritenersi integrata dalle disposizioni prescritte nella precedente lex specialis.
Pur costituendo la procedura negoziata ex art. 125, co. 1, lett. a), d.lgs. 50/2016, un segmento procedimentale autonomo rispetto alla originaria gara pubblica, nel caso in cui la lettera di invito alla stessa procedura non contenga una disciplina compiuta ed autosufficiente avente ad oggetto la puntuale regolamentazione dei relativi adempimenti concorsuali, ma è strutturata quale appendice della gara pubblica che è richiamata nelle premesse e di cui sostanzialmente viene rinnovata la disciplina, si deve ritenere reiterativa dell'integrale disciplina della gara pubblica.
Altrimenti, la lettera di invito rappresenterebbe un guscio vuoto e non consentirebbe la presentazione di un'offerta consapevole, né tanto meno lo svolgimento delle operazioni concorsuali (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 31.05.2018 n. 1132 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Gara andata deserta e procedura negoziata.
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Contratti pubblici – Procedura negoziata – Conseguente a gara bandita deserta - Art. 125, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 50 del 2018 - Lettera di invito - Integrazione con le disposizioni prescritte nella precedente lex specialis - Necessità - Limiti
In materia di contratti pubblici, la lettera di invito alla procedura negoziata indetta ai sensi dell’art. 125, comma 1, lett.a), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, dopo l’originaria gara pubblica andata deserta, deve ritenersi integrata dalle disposizioni prescritte nella precedente lex specialis, ove essa non contenga una disciplina compiuta (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che, pur costituendo la procedura negoziata un segmento procedimentale autonomo rispetto all’originaria gara pubblica andata deserta, i concorrenti restano comunque vincolati al necessario rispetto delle prescrizioni della lex specialis della gara pubblica e, pertanto, la lettera di invito alla stessa procedura, ove non contenga un sistema di regole compiuto ed autosufficiente avente ad oggetto la puntuale regolamentazione dei relativi adempimenti concorsuali, deve ritenersi reiterativa dell’integrale disciplina della gara pubblica. Diversamente, la lettera di invito rappresenterebbe un guscio vuoto e non consentirebbe la presentazione di un’offerta consapevole né lo svolgimento delle operazioni concorsuali (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 31.05.2018 n. 1132 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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3. Ciò premesso, si osserva che,
pur costituendo la procedura negoziata un segmento procedimentale autonomo rispetto alla originaria gara pubblica, nel concreto caso di specie la lettera di invito alla stessa procedura non contiene una disciplina compiuta ed autosufficiente avente ad oggetto la puntuale regolamentazione dei relativi adempimenti concorsuali, ma è strutturata quale appendice della gara pubblica che è richiamata nelle premesse e di cui sostanzialmente viene rinnovata la disciplina.
Vero è che nella lettera di invito alla procedura negoziata è esplicitamente richiamato soltanto il capitolato speciale della gara pubblica, ma è anche vero che la stessa lettera di invito è chiaramente concepita quale rinnovazione integrale della disciplina della gara pubblica, dal momento che, diversamente opinando, la stessa lettera di invito costituirebbe una sorta di “guscio vuoto” e non consentirebbe la presentazione di una offerta consapevole, né tanto meno lo svolgimento dello operazioni concorsuali.
In particolare, la lettera di invito sollecita i concorrenti a presentare un'offerta tecnica ed un'offerta prezzo, ma non precisa esplicitamente quali siano i relativi criteri di valutazione, di talché sul punto è evidente l'implicito richiamo alla disciplina di cui alla presupposta gara pubblica.
Lo stesso dicasi con riferimento al tempo di consegna, la cui indicazione è richiesta dalla lettera di invito, in mancanza di ulteriori precisazioni in ordine alla relativa rilevanza, ciò che inevitabilmente vale a richiamare la statuizione del disciplinare della gara pubblica in ordine all'obbligo di provvedere alla consegna dei mezzi entro cento venti giorni dalla stipulazione del contratto (art. 7, norma a sua volta coerente con la prescrizione del bando che prevedeva il completamento dell'appalto al 30.10.2018, e con i vincoli imposti dalla DGR 392/2017 per la concessione del finanziamento).
In buona sostanza,
l'unico modo per attribuire un senso compiuto alla disciplina di cui alla lettera di invito, secondo un criterio di buona fede volto alla individuazione di una soluzione interpretativa logicamente sostenibile e del significato che il destinatario può ragionevolmente intendere (art. 1366 c.c.), è di ritenere che essa, in ossequio al criterio di cui all’art. 125, co. 1, lett. a), d.lgs. 50/2016, sia pedissequamente reiterativa delle condizioni essenziali delle lex specialis della gara pubblica indicata nelle premesse della stessa lettera di invito, prima fra tutte quella volta alla conservazione del finanziamento, mediante la fissazione di un termine essenziale per il completamento della fornitura, che pur non essendo precisato nel capitolato speciale, era puntualmente indicato nel bando di gara e nel disciplinare della gara pubblica, che com’è noto, per costante giurisprudenza, prevalgono sulle norme del capitolato, essendo questo chiamato ad integrare, e non a modificare, il bando (TAR Lazio, Sez. III, 27.11.2017 n. 11746).
Di qui l'infondatezza della censura in esame.
4. Per vero la stessa ricorrente è consapevole del fatto che la lettera di invito non contiene un sistema di regole compiuto ed autosufficiente che possa risultare autonomo rispetto alla (e sostitutivo della) disciplina di cui alla gara pubblica, tant'è che, senza considerare la possibilità di coordinarne i contenuti con quelli della originaria lex specialis, ne censura in via gradata l'illegittimità sotto il profilo della carenza regolamentare in merito ai criteri di valutazione delle offerte ed alle ulteriori condizioni di partecipazione (cfr motivo sub A, punto. 3, pag. 9 del ricorso).
La censura, essendo volta a contestare la carenza dei presupposti per la formulazione di un'offerta consapevole e puntuale, avrebbe dovuto essere proposta immediatamente avverso la lettera di invito, senza attendere l'esito della procedura negoziata, ed è quindi tardiva per violazione del termine di cui all'art. 120, co. 5, c.p.a., dal momento che il ricorso è stato notificato in data 12.05.2018, nel mentre la lettera di invito era stata inviata a mezzo pec sin dal 30.03.2018.

APPALTI: Profili di incompatibilità del Presidente di Commissione di gara pubblica.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Impugnazione atti di gara – Legittimazione passiva – Commissione di gara – Non è legittimata passiva.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Commissione di gara – Incompatibilità – Presidente della Commissione nominato Direttore della UOC Acquisizione Beni e Servizi durante la gara – Art. 77, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016 – Non è incompatibile - Condizione.
  
Il Presidente della commissione di gara non è controinteressato nel giudizio proposto avverso la procedura di gara, con la conseguenza che allo stesso non va notificato il ricorso, e ciò in quanto la Commissione è un organo tecnico, privo di rilevanza esterna, la cui attività viene trasfusa – previa apposita approvazione – nel provvedimento finale della procedura di gara, e cioè l’aggiudicazione, adottata dalla stazione appaltante (1).
  
Ai sensi dell’art. 77, comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, non sussiste un profilo di incompatibilità nel Presidente della Commissione di Gara che, durante il corso della procedura, sia stato nominato Direttore della UOC Acquisizione Beni e Servizi, avente funzioni di amministrazione attiva (stipula dei contratti, controllo della esecuzione del servizio, richiesta dei servizi, pagamento dei corrispettivi) su tutti i contratti di fornitura di beni e servizi della stazione appaltante se non ha partecipato alla stesura del bando (2).
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   (1) Ha ricordato il Tar che l'onere di immediata impugnativa è circoscritto alle clausole del bando di gara impeditive della partecipazione alla procedura o impositive di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, e, pertanto, immediatamente lesive sotto questi profili, mentre ogni altra questione, ivi compresa la legittima composizione della Commissione di gara, è rimessa all'impugnazione contro l'altrui aggiudicazione, perché è solo in tale momento che si concretizza la lesione —e quindi l'interesse al ricorso— per gli altri partecipanti alla procedura e può conseguentemente ritenersi sorto l'onere di impugnazione.
   (2) Il Tar ha evidenziato come l’art. 77, comma 4, d.lgs. 18.04.2018, n. 50 ha il duplice scopo di garantire la libertà di elaborazione delle offerte e l'imparzialità della valutazione delle stesse, a garanzia tanto dei concorrenti quanto della Stazione appaltante, impedendo che i medesimi soggetti possano influire sul contenuto del servizio da aggiudicare e sul risultato della procedura di gara. Ha aggiunto che il principio di imparzialità dei componenti del seggio di gara va declinato nel senso di garantire loro la c.d. virgin mind, ossia la totale mancanza di un pregiudizio nei riguardi dei partecipanti alla gara stessa che nell’ipotesi di specie non appare messa in discussione, non avendo il Presidente della Commissione, solo successivamente nominato quale Direttore della UOC Acquisizione Beni e Servizi, partecipato alla predisposizione della lex specialis.
Il Tar ha quindi aderito all’interpretazione del disposto dell’art. 77, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016, fatta proprio dall’ANAC con delibera n. 436 del 27.04.2017, secondo cui occorre comunque tenere presente, al fine di evitare forme di automatica incompatibilità a carico del RUP, quell’approccio interpretativo di minor rigore della norma fornito nel tempo dalla giurisprudenza amministrativa circa, ad esempio, la previsione di cui all’art. 84, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 che non comporta, di per sé, l’incompatibilità a far parte della Commissione giudicatrice di tutti i soggetti che, in quanto dipendenti della stazione appaltante, siano in qualche misura coinvolti, per obbligo di ufficio, nello specifico lavoro, servizio o fornitura che è oggetto dell’appalto (
TAR Camania-Napoli, Sez. V, sentenza 30.05.2018 n. 3587 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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8. In via preliminare vanno vagliate le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate da parte resistente.
9. Le stesse sono infondate alla stregua dei seguenti rilievi.
10. Quanto all’eccezione di inammissibilità (rectius di irricevibilità) del ricorso per tardiva impugnazione del provvedimento di nomina della Commissione di gara, il Collegio aderisce al costante orientamento giurisprudenziale, di cui al noto arresto dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 1/2003 che ha escluso l’onere di immediata impugnazione delle clausole del bando riguardanti la composizione ed il funzionamento del seggio di gara sulla base dei seguenti rilievi “Non può, altresì, essere condivisa quella tesi volta ad imporre l’onere di immediata impugnazione delle clausole del bando riguardanti la composizione ed il funzionamento del seggio di gara. Non può, infatti, essere configurato un autonomo interesse del ricorrente ad una certa composizione del seggio di gara ed a certe sue modalità di funzionamento, diverso dall’interesse (sostanziale) all’aggiudicazione, e cioè al conseguimento di quell’assetto degli interessi in gioco a lui favorevole che è lo scopo che l’interessato intende perseguire con la presentazione della domanda di partecipazione. D’altra parte, una lesione concreta ed attuale della situazione soggettiva del partecipante alla procedura concorsuale potrà derivare soltanto dal diniego di aggiudicazione, dal momento che soltanto con esso diviene effettiva la potenziale illegittimità connessa con la sua composizione e con le sue regole di funzionamento. E’ solo, infatti, con il diniego di aggiudicazione che si verifica l’evento lesivo, e con esso, quel fenomeno in base al quale la possibile anomalia della composizione e del funzionamento del seggio di gara si traduce in una certa ed effettiva anomalia dell’intera procedura concorsuale e del suo esito”.
10.1. Detto orientamento giurisprudenziale è da condividersi anche alla luce della più recente giurisprudenza (ex multis Cons. Stato 06/12/2016 n. 5154) secondo la quale
nelle procedure concorsuali per costante orientamento giurisprudenziale “l’onere di impugnazione immediata riguarda le sole clausole che concernono i requisiti soggettivi di partecipazione, ovvero quelle che impediscono la stessa formulazione dell’offerta. Esso non si estende, invece, alle modalità di valutazione delle offerte o di svolgimento della gara in cui rientra anche la formazione e la nomina della Commissione di gara, la quale com’è noto, deve avvenire dopo la presentazione delle offerte”.
Anche questo Tar con la sentenza sez. VIII, 31/10/2017, n. 5100 si è espresso in tal senso affermando che “
l'onere di immediata impugnativa è circoscritto alle clausole del bando di gara impeditive della partecipazione alla procedura o impositive di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, e, pertanto, immediatamente lesive sotto questi profili, mentre ogni altra questione, ivi compresa la legittima composizione della Commissione di gara, è rimessa all'impugnazione contro l'altrui aggiudicazione, perché è solo in tale momento che si concretizza la lesione —e quindi l'interesse al ricorso— per gli altri partecipanti alla procedura e può conseguentemente ritenersi sorto l'onere di impugnazione (cfr. Cons. di Stato sez. sez. V, n. 61 del 18.01.1996; TAR Lazio Roma n. 5063 del 04.05.2016)".
In senso analogo è del resto la costante giurisprudenza (ex multis Consiglio di Stato, sez. III, 18.06.2012, n. 3550; id. sez. V 07.10.2002, n. 5279; TAR Reggio Calabria 23.10.2008 n. 542).
11. Parimenti da disattendere è l’eccezione di inammissibilità del ricorso fondata sul rilievo della mancata notifica al Presidente della Commissione di gara, da considerarsi, nella prospettazione dalla Asl resistente, quale controinteressata, stante la questione di incompatibilità formulata avverso la medesima.
11.1 In primo luogo va evidenziato che
ai fini dell’ammissibilità del ricorso è sufficiente la notifica del ricorso ad un solo controinteressato ex art. 41, comma 2, c.p.a., nell’ipotesi di specie evocato in giudizio (l’aggiudicataria So.Ge.Si. S.r.l.), essendo per contro obbligo dell’adito Tar disporre ex art. 49, comma 1, c.p.a. l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli altri controinteressati.
11.2. Peraltro
deve escludersi che il Presidente della commissione di gara sia controinteressato rispetto all’impugnativa della procedura di gara o comunque soggetto cui va notificato quale parte resistente il ricorso in quanto come noto “la Commissione è un organo tecnico, privo di rilevanza esterna, la cui attività viene trasfusa –previa apposita approvazione– nel provvedimento finale della procedura di gara, e cioè l’aggiudicazione, adottata dalla stazione appaltante”.
Pertanto la legittimazione processuale non spetta alla commissione, essendo l’amministrazione l’unico soggetto legittimato a contraddire
(ex multis Consiglio di Stato Sez. III 12.04.2012 n. 2082; in senso analogo Consiglio di Stato, sez. IV, 30.12.2003, n. 9189; TAR Palermo, sez. I 09.11.2005 n. 4992; TAR Catanzaro, sez. II, 09/12/2003, n. 3442; TAR Lazio, Sez. II 07.11.2001, n. 9049).
11.3. Né appare applicabile all’ipotesi di specie il precedente di cui alla sentenza del Consiglio di Stato n. 1775/2016, citato da parte resistente, che ha evidenziato la qualità di controinteressato in capo al Presidente della Commissione di gara di cui era stata dedotta l’incompatibilità in ragione del rapporto di parentela con l’(ex) collaboratrice della società divenuta aggiudicataria, comportante obbligo di astensione ex art. 51 c.p.c. ex art. 84, comma 7, dlgs. 163, comma 6, e 77, comma 6, dlgs. 50/2016, in quanto detta decisione è fondata sul rilievo dell’interesse del Presidente della Commissione non solo alla conservazione degli atti della procedura oggetto di impugnativa ma anche alla tutela della propria onorabilità e correttezza (...) posti in dubbio dal principale ed unico motivo d’impugnazione, laddove nell’ipotesi di specie in ragione della dedotta causa di incompatibilità del Presidente –tra l’altro sopravvenuta- fondata su una ragione “istituzionale” e non personale, ovvero sulla nomina dello stesso quale Direttore della UOC Acquisizione Beni e Servizi, non sussiste(va) detto interesse- comportante l’obbligo di astensione - autonomo ed indipendente rispetto all’interesse della stazione appaltante.
12. Nel merito peraltro il ricorso è infondato.
13. Quanto al primo motivo di ricorso, fondato sulla violazione del disposto dell’art. 77, comma 4, Dlgs. 50/2016,
vale la pena ricordare quanto già evidenziato in sede cautelare in ordine alla ratio di siffatto disposto che definisce le regole in tema di composizione della Commissione giudicatrice.
Lo stesso ha infatti il duplice scopo di garantire la libertà di elaborazione delle offerte e l'imparzialità della valutazione delle stesse, a garanzia tanto dei concorrenti quanto della Stazione Appaltante, impedendo che i medesimi soggetti possano influire sul contenuto del servizio da aggiudicare e sul risultato della procedura di gara (cfr. Tar Lombardia Brescia, sez. I, 28.08.2017 n. 1073).
Nell’ipotesi di specie la censura relativa alla dedotta incompatibilità del Presidente della Commissione giudicatrice non è assistita da elementi di fondatezza, atteso che la dott.ssa Co. non ha partecipato alla stesura della lex specialis di gara né è allegato in ricorso dalla società ricorrente alcun elemento concreto che consenta di ravvisare (in questa fase) nella nomina del Presidente della Commissione, in ragione delle funzioni solo successivamente svolte come Direttore dell’UOC Acquisizione Beni e Servizi, un pericolo per i due obiettivi perseguiti dalla norma sopra richiamata (imparzialità della gara; limitazione della libertà nella formulazione delle offerte), (cfr in tal senso TAR Puglia–Lecce Sez. II 29.06.2017 n. 1074 secondo cui “
E’ infatti evidente la finalità, perseguita dall’art. 77, comma 4 citato, di evitare che uno dei componenti della Commissione, proprio per il fatto di avere svolto in precedenza attività strettamente correlata al contratto del cui affidamento si tratta, non sia in grado di esercitare la delicatissima funzione di giudice della gara in condizione di effettiva imparzialità e di terzietà rispetto agli operatori economici in competizione tra di loro…Tale pregiudizio può essere agevolmente rintracciato in un caso come quello qui in esame, posto che la predisposizione, da parte del Presidente della Commissione di gara, addirittura delle c.d. regole del gioco può influenzare la successiva attività di arbitro della gara.”).
Ed infatti
il principio di imparzialità dei componenti del seggio di gara va declinato nel senso di garantire loro la cd virgin mind, ossia la totale mancanza di un pregiudizio nei riguardi dei partecipanti alla gara stessa che nell’ipotesi di specie non appare messa in discussione, non avendo la dott.ssa Co., solo successivamente nominata quale Direttore della UOC Acquisizione Beni e Servizi, partecipato alla predisposizione della lex specialis.
13.1. Ritiene al riguardo il Collegio di aderire al riguardo a quella interpretazione del disposto dell’art. 77, comma 4, fatta proprio dall’ANAC con delibera 436 del 27.04.2017 secondo cui
occorre comunque tenere presente, al fine di evitare forme di automatica incompatibilità a carico del RUP, quell’approccio interpretativo di minor rigore della norma fornito nel tempo dalla giurisprudenza amministrativa circa, ad esempio, la previsione di cui all’art. 84, che non comporta, di per sé, l’incompatibilità a far parte della Commissione giudicatrice di tutti i soggetti che, in quanto dipendenti della stazione appaltante, siano in qualche misura coinvolti, per obbligo di ufficio, nello specifico lavoro, servizio o fornitura che è oggetto dell’appalto (TAR Lazio, Roma, sez. III, 07.02.2011, n. 1172), (cfr. Cons. Stato, sez. V, sentenza n. 1565/2015; Cons. Stato, parere n. 1767 del 02.08.2016). <<L’articolo in questione prevede l’incompatibilità, quale componente della commissione giudicatrice, soltanto di coloro che hanno svolto funzione decisorie autonome, nella predisposizione degli atti di gara e non è sufficiente un mero ausilio tecnico o esecutivo nella predisposizione del capitolato in quanto in quest’ultima ipotesi non vi sarebbe alcun pericolo effettivo di effetti disfunzionali nella valutazione delle offerte» (cfr. TAR Emilia Romagna–Bologna, sez. II, sentenza 13.7.2015, n. 675)>>.
Infatti, in base alle coordinate ermeneutiche fornite dalla consolidata giurisprudenza amministrativa, la previgente disposizione, dettata a garanzia della trasparenza e imparzialità amministrative nella gara, impediva la presenza nella commissione di gara di soggetti che avessero svolto un’attività idonea a interferire con il giudizio di merito sull’appalto di che trattasi (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21.07.2011, n. 4438; parere n. 46 del 21.03.2012).
Pertanto in base alla citata delibera ANAC “
al fine di evitare forme di automatica incompatibilità a carico del RUP, l’eventuale situazione di incompatibilità con riferimento alla funzione di commissario di gara e presidente della commissione giudicatrice, deve essere valutata in concreto verificando la capacità di incidere sul processo formativo della volontà tesa alla valutazione delle offerte, potendone condizionare l’esito”.
Quindi laddove, come nell’ipotesi di specie, in ragione della sopravvenienza della nomina detto giudizio di merito non appaia inficiato non è predicabile la dedotta illegittimità della procedura di gara, avuto tra l’altro riguardo alla circostanza che in ricorso non è dedotto alcun specifico rilievo circa la tipologia di (pre)giudizio espresso quale presidente della commissione di gara che sarebbe stata influenzata dalla nomina di Direttore della UOC Acquisizione Beni e Servizi.
14. Parimenti destituito di fondamento è il secondo motivo di ricorso, relativo alla dedotta inidoneità dei componenti della Commissione di gara.
Al riguardo occorre applicare quell’orientamento giurisprudenziale formatosi sotto il vigore del codice previgente secondo il quale
il requisito generale dell'esperienza “nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto”, previsto dall’art. 84, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006 per i componenti della Commissione giudicatrice di una gara per l’affidamento di un appalto pubblico, deve essere inteso gradatamente ed in modo coerente con la poliedricità delle competenze di volta in volta richieste in relazione alla complessiva prestazione da affidare, non essendo pertanto necessario che l’esperienza professionale di ciascun componente copra tutti i possibili ambiti oggetto di gara, con la conseguenza che la competenza nello specifico settore al quale si riferisce l’oggetto dell’appalto e del relativo contratto va valutata compatibilmente con la struttura degli enti appaltanti, senza esigere, necessariamente, che l’esperienza professionale copra tutti gli aspetti oggetto della gara" (cfr. Tar Lazio, Roma, sez. III, 13.06.2016 n. 6761).
Nell’ipotesi di specie occorre in primo luogo evidenziare che l’appalto per cui è causa concerne l’affidamento di servizi di sorveglianza non armata, la valutazione delle cui caratteristiche non comporta la necessità di complesse conoscenze tecniche; da ciò la piena idoneità dei membri della commissione, avuto riguardo alla loro esperienza, quale evincibile dai rispettivi curriculum vitae.
La dott.ssa Co., presidente della Commissione, ha sempre svolto funzioni di direzione amministrativa, e come evincibile anche dai convegni e corsi cui ha preso parte, è esperta di spending review, nonché di economia e gestione aziendale ed ha perfezionato la propria formazione anche nel campo della sicurezza e lavoro negli uffici pubblici.
L’avv. Gi.Ra.Pe., componente della commissione, è il dirigente della UOC Affari Legali dell’ASL resistente e, per il passato, ha ricoperto analogo incarico presso la fondazione G. Pascale I.R.C.C.S. e ha conseguito un master di secondo livello in politiche e sistemi socio-sanitari.
Il dott. Ma.Es., componente della commissione, è un esperto nel settore specifico della “gestione beni e servizi”, avendo svolto attività continuativa per un quindicennio presso la U.O.S. Economato dell’istituto G. Pascale, sostituendo anche il Dirigente in caso di assenza e/o impedimento; lo stesso vanta inoltre particolari competenze in materia informatica; ha inoltre curato l’istruttoria e la gestione di contratti per la manutenzione di apparecchiature elettro-medicali ad alto contenuto tecnologico; ha seguito specifici percorsi formativi in materia di Codice dei contratti pubblici e nel settore della “gestione ed organizzazione delle aziende sanitarie”; ha infine partecipato ad un apposito corso in “Criminologia, investigazione e security” ed ha conseguito un Master di II livello in Politiche e Sistemi Sociosanitari.
15. In considerazione della infondatezza di tutte le censure il ricorso va dunque rigettato.

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul diritto di accesso, o meno, ai verbali dell'Ispettorato del lavoro.
Secondo il disposto dell’art. 2 del D.M. 04.11.1994, n. 757 sono sottratti all’accesso, in quanto coperti da esigenze di riservatezza, i «documenti contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi» (lett. c) nonché quelli «...riguardanti il lavoratore e contenenti notizie sulla sua situazione familiare, sanitaria, professionale, finanziaria, sindacale o di altra natura, sempreché dalla loro conoscenza possa derivare effettivo pregiudizio al diritto alla riservatezza
».
Tuttavia, la predetta norma non pone un divieto assoluto e generalizzato di accesso ai verbali ispettivi ed ai presupposti atti istruttori, ma prevede un limite alla diretta conoscibilità delle notizie acquisite nel corso dell'attività ispettiva, “quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico dei lavoratori o di terzi”, con la conseguenza che la sua applicazione presuppone un “effettivo pericolo di pregiudizio per i lavoratori o per i terzi, sulla base di elementi di fatto concreti, e non per presunzione assoluta”; pericolo che ai sensi dell’art. 3 del medesimo decreto deve ritenersi insussistente allorché il rapporto di lavoro dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni riportate nel verbale venga a cessare.
Nelle predette ipotesi, non essendovi esigenze di riservatezza da tutelare mediante la deroga all’obbligo di trasparenza, il diritto di accesso si riespande nella sua pienezza con la conseguenza che l’interesse che giustifica l’istanza non deve necessariamente basarsi su una specifica esigenza difensiva (con ciò superandosi la presunta assenza di tale requisito dedotta dalla avvocatura).

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A De.Cl. s.p.a. è stato notificato tramite raccomandata dell’11.01.2018 il “Verbale unico di accertamento e notificazione n. PI00000/2018-049-01 del 10.1.2018” dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro di Livorno- Pisa, relativo ad accertamenti eseguiti dallo stesso a partire dal 30.06.2016 circa la regolarità della posizione lavorativa e contributiva di alcuni ex-collaboratori che hanno svolto in passato prestazioni lavorative presso le sedi operative della società.
Poiché nel verbale di accertamento sono state contestate all’odierna ricorrente alcune presunte violazioni della normativa in materia di lavoro, con comunicazione inviata tramiate PEC in data 22.01.2018 essa ha presentato all’Ispettorato un’istanza di accesso agli atti ai sensi della L. 241/1990, con specifica richiesta di visionare ed ottenere copia di tutti i documenti e degli atti di istruttoria menzionati nel verbale dell’Ispettorato o comunque posti a base delle determinazioni in esso contenute.
Essendosi protratto il silenzio della p.a. per oltre 30 giorni sulla istanza si è formato il silenzio-diniego che viene in questa sede impugnato.
DIRITTO
La difesa dell’amministrazione è tutta impostata sul disposto dell’art. 2 del D.M. 04.11.1994, n. 757 in base al quale sono sottratti all’accesso, in quanto coperti da esigenze di riservatezza, i «documenti contenenti notizie acquisite nel corso delle attività ispettive, quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico di lavoratori o di terzi» (lett. c) nonché quelli «...riguardanti il lavoratore e contenenti notizie sulla sua situazione familiare, sanitaria, professionale, finanziaria, sindacale o di altra natura, sempreché dalla loro conoscenza possa derivare effettivo pregiudizio al diritto alla riservatezza
».
Tuttavia, come questa Sezione ha già avuto modo di stabilire, in conformità alla giurisprudenza del giudice d’Appello, la predetta norma non pone un divieto assoluto e generalizzato di accesso ai verbali ispettivi ed ai presupposti atti istruttori, ma prevede un limite alla diretta conoscibilità delle notizie acquisite nel corso dell'attività ispettiva, “quando dalla loro divulgazione possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni o pregiudizi a carico dei lavoratori o di terzi”, con la conseguenza che la sua applicazione presuppone un “effettivo pericolo di pregiudizio per i lavoratori o per i terzi, sulla base di elementi di fatto concreti, e non per presunzione assoluta”; pericolo che ai sensi dell’art. 3 del medesimo decreto deve ritenersi insussistente allorché il rapporto di lavoro dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni riportate nel verbale venga a cessare (Cons. Stato, III, n. 2500/2016; TAR Toscana, Sez. I, n. 1374/2017), così come accade nel caso di specie.
Nelle predette ipotesi, non essendovi esigenze di riservatezza da tutelare mediante la deroga all’obbligo di trasparenza, il diritto di accesso si riespande nella sua pienezza con la conseguenza che l’interesse che giustifica l’istanza non deve necessariamente basarsi su una specifica esigenza difensiva (con ciò superandosi la presunta assenza di tale requisito dedotta dalla avvocatura).
Il ricorso deve pertanto essere accolto pur con la precisazione che eventuali riferimenti a dati sensibili di soggetti terzi contenuti nella documentazione da ostendere potranno essere oscurati ed omessi (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 30.05.2018 n. 770 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: FAUNA E FLORA - Collisione tra un auto e un animale selvatico - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - RISARCIMENTO DANNI - Responsabilità aquiliana per i danni a terzi (Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc.) - Omissione di qualsivoglia cautela atta ad impedire il vagare incontrollato di animali selvatici - Danni causati dagli animali randagi Artt. 2043 e 2052 cc. - D.Lgs. 18.08.2000 n. 267.
La responsabilità aquiliana per i danni a terzi debba essere imputata all'ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc., a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, con autonomia decisionale sufficiente a consentire loro di svolgere l'attività in modo da poter amministrare i rischi di danni a terzi che da tali attività derivino.
Tuttavia, la responsabilità per i danni causati dagli animali randagi deve ritenersi disciplinata dalle regole generali di cui all'art. 2043 c.c. e non dalle regole di cui all'art. 2052 c.c.; non è quindi possibile riconoscere una siffatta responsabilità semplicemente sulla base della individuazione dell'ente cui le leggi nazionali e regionali affidano in generale il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi, occorrendo la puntuale allegazione e la prova, il cui onere spetta all'attore danneggiato in base alle regole generali, di una concreta condotta colposa ascrivibile all'ente, e della riconducibilità dell'evento dannoso, in base ai principi sulla causalità omissiva, al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria (ad esempio perché vi erano state specifiche segnalazioni della presenza abituale dell'animale in un determinato luogo, rientrante nel territorio di competenza dell'ente preposto, e ciò nonostante quest'ultimo non si era adeguatamente attivato per la sua cattura (Cass. 18954/2017).
Nella specie, individuata la responsabilità dell'Amministrazione provinciale, per il risarcimento dei danni derivanti dalla collisione dell'auto con un cinghiale che improvvisamente gli attraversava la strada, riportando dallo scontro danni meccanici e di carrozzeria, la fonte dell'obbligazione risarcitoria in capo alla stessa è rinvenibile dalle regole generali di cui all'art. 2043 c.c. (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 29.05.2018 n. 13488 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante, anche in caso di omesso preavviso di diniego è applicabile l'art. 21-octies comma 2 l. n. 241/1990; sicché qualora violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, la trasgressione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell'atto, risulta irrilevante, allorché il contenuto dispositivo dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
La giurisprudenza ha evidenziato in argomento che la violazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 non produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendosi interpretare la disposizione sul cosiddetto preavviso di diniego alla luce del successivo art. 21-octies, della medesima legge, in base al quale, laddove sia dedotto un vizio di natura formale, è imposto al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e, conseguentemente, di non annullare l'atto nell'ipotesi in cui la dedotta violazione formale non abbia inciso sulla legittimità sostanziale dei provvedimenti impugnati.
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1.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce che la P.A. non può fondare il provvedimento definitivo su ragioni diverse rispetto a quelle enunciate nel preavviso di diniego, frustrando l’esigenza di assicurare la partecipazione dell’interessato.
Nella specie, con la comunicazione dei motivi ostativi veniva rappresentato che l’istanza di condono era stata registrata al protocollo comunale oltre il termine di legge del 31/03/1995, mentre il diniego si fonda sulla impossibilità di conseguire la sanatoria, per opere ultimate “successivamente al termine del 31/03/1995”.
La censura va disattesa.
Pur non trascurandosi, in generale, la tutela delle garanzie partecipative a cui è preordinato l’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 nei procedimenti ad istanza di parte (come rimarcato in giurisprudenza, anche di recente: cfr. Cons. Stato, sez. VI, 01/03/2018 n. 1269 e sez. IV, 18/04/2018 n. 2330), deve escludersi che nel caso di specie il vizio denunciato assuma carattere invalidante.
Invero, deve farsi applicazione della regola dettata dall’art. 21-octies della stessa legge, il cui comma 2 dispone che: “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Detta regola ha trovato costante applicazione nella giurisprudenza, anche di questo Tribunale, evidenziando che, sia pure laddove il preavviso manchi del tutto, non può essere pronunciata l’illegittimità del provvedimento che non avrebbe potuto avere diverso contenuto dispositivo, per cui la partecipazione dell’interessato si sarebbe comunque mostrata irrilevante (cfr., tra le altre, la sentenza della Sez. VII del 28/12/2017 n. 6112: “per giurisprudenza costante, anche in caso di omesso preavviso di diniego è applicabile l'art. 21-octies comma 2 l. n. 241/1990; sicché qualora violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, la trasgressione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell'atto, risulta irrilevante, allorché il contenuto dispositivo dell'atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (Cons. Stato, Sez. III, 04-09-2017, n. 4184; Cons. Stato Sez. III, 03.11.2017, n. 5086)”; cfr., altresì, la sentenza della Sez. VI del 06/06/2017 n. 2999: “la giurisprudenza ha evidenziato in argomento che la violazione dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 non produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendosi interpretare la disposizione sul cosiddetto preavviso di diniego alla luce del successivo art. 21-octies, della medesima legge, in base al quale, laddove sia dedotto un vizio di natura formale, è imposto al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e, conseguentemente, di non annullare l'atto nell'ipotesi in cui la dedotta violazione formale non abbia inciso sulla legittimità sostanziale dei provvedimenti impugnati”) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2018 n. 3542 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine di presentazione della domanda di condono edilizio ha carattere perentorio, trattandosi di un istituto a carattere eccezionale (a differenza della sanatoria ex art. 36 T.U. edilizia, che prevede termini la cui perentorietà è controversa in giurisprudenza): dato, questo, che trova conferma nel tenore letterale della disposizione dell'art. 39, comma 4, della L. n. 724/1994 (come modificato dall'art. 14, d.l. 23.02.1995, n. 41, conv. in l. 22.03.1995, n. 85), il quale contiene l'inciso "a pena di decadenza".
La medesima disposizione prevede che entro il termine di decadenza debbano essere effettuate sia la presentazione della domanda di concessione o di autorizzazione in sanatoria sia la presentazione della prova del pagamento dell'oblazione, con ciò escludendo che quest'ultimo adempimento possa surrogare il primo.
Ciò è comprensibile alla luce del fatto che l'istanza di parte, completa dei requisiti previsti, ha il carattere di esplicita, formale e inequivoca manifestazione di volontà idonea ad attivare il procedimento in questione su basi di ragionevole certezza giuridica. In assenza di una formale e tempestiva attivazione del procedimento nel termine di decadenza, sono quindi irrilevanti le altre possibili considerazioni in ordine alla sussistenza degli altri presupposti di legge.
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Per quanto si dirà, si palesa legittima la motivazione di diniego fondata sull’epoca di realizzazione delle opere (contenuta nel provvedimento finale), determinando per tale ragione la sostanziale irrilevanza dell’omissione della fase partecipativa.
Peraltro, per completezza di analisi e sebbene tale motivazione non confluisca nel provvedimento finale, non può sottacersi che è incontestato che la domanda di condono era stata presentata oltre il termine del 31/03/1995, fissato dall’art. 39, comma 4, della legge n. 724 del 1994 a pena di decadenza.
Da ciò sarebbe derivato in ogni caso il rigetto dell’istanza, in base a quanto indicato nel preavviso di diniego, non potendo trovare favorevole ingresso la pretesa del ricorrente (cfr. pag. 8 del ricorso), secondo cui sarebbe equivalente il versamento degli oneri nel termine, desumendosi per facta concludentia la volontà di condonare l’opera (cfr., in identica fattispecie, TAR Lazio, sez. II, 06/06/2011 n. 5030: “Il termine di presentazione della domanda di condono edilizio ha infatti carattere perentorio (TAR Calabria-Catanzaro, sez. II, 04.12.2008, n. 1558), trattandosi di un istituto a carattere eccezionale (a differenza della sanatoria ex art. 36 T.U. edilizia, che prevede termini la cui perentorietà è controversa in giurisprudenza): dato, questo, che trova conferma nel tenore letterale della disposizione dell'art. 39, comma 4, della L. n. 724/1994 (come modificato dall'art. 14, d.l. 23.02.1995, n. 41, conv. in l. 22.03.1995, n. 85), il quale contiene l'inciso "a pena di decadenza". La medesima disposizione prevede che entro il termine di decadenza debbano essere effettuate sia la presentazione della domanda di concessione o di autorizzazione in sanatoria sia la presentazione della prova del pagamento dell'oblazione, con ciò escludendo che quest'ultimo adempimento possa surrogare il primo. Ciò è comprensibile alla luce del fatto che l'istanza di parte, completa dei requisiti previsti, ha il carattere di esplicita, formale e inequivoca manifestazione di volontà idonea ad attivare il procedimento in questione su basi di ragionevole certezza giuridica. In assenza di una formale e tempestiva attivazione del procedimento nel termine di decadenza, sono quindi irrilevanti le altre possibili considerazioni in ordine alla sussistenza degli altri presupposti di legge”) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2018 n. 3542 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Incombe sulla parte che adduce un rilievo a sé favorevole l’onere di fornire adeguata dimostrazione del proprio assunto, avendo la condivisibile giurisprudenza chiarito che le prove sulla data di realizzazione delle opere debbono risultare “obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto”.
In mancanza, non può darsi credito all’affermazione che si palesa in contrasto con l’accertamento condotto dai pubblici ufficiali, attestante lo stato dei luoghi e le innovazioni arrecate rispetto alla situazione preesistente laddove: "il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del Comune a seguito di sopralluogo, attestante l'esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell’art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse accertate sia relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status quo ante”.
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Il ricorso è infondato.
1.1. In primo luogo, nessuna valida prova è fornita dalla parte sulla preesistenza del fabbricato e della pavimentazione, genericamente addotta riferendosi all’allegato titolo di proprietà (il quale descrive una consistenza immobiliare composta da cantinato, tre unità immobiliari al piano terra e due appartamenti rispettivamente al primo e secondo piano).
Incombe sulla parte che adduce un rilievo a sé favorevole l’onere di fornire adeguata dimostrazione del proprio assunto, avendo la condivisibile giurisprudenza chiarito che le prove sulla data di realizzazione delle opere debbono risultare “obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, 02/10/2013 n. 814).
In mancanza, non può darsi credito all’affermazione che si palesa in contrasto con l’accertamento condotto dai pubblici ufficiali, attestante lo stato dei luoghi e le innovazioni arrecate rispetto alla situazione preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14/12/2016 n. 5262: “il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del Comune a seguito di sopralluogo, attestante l'esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell’art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse accertate sia relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status quo ante”).
Nel caso di specie, risulta che il piano rialzato e il primo piano erano al momento dell’accertamento “ancora in corso di costruzione”, smentendo così l’affermazione della ricorrente secondo cui si sarebbe trattato della manutenzione straordinaria dei manufatti preesistenti.
Si palesa pertanto l’avvenuta realizzazione di un nuovo fabbricato, le cui parti neppure corrispondono alla descrizione del titolo di proprietà (che non comprende alcun piano rialzato).
Si tratta quindi di una nuova costruzione, per la cui realizzazione è richiesto il permesso di costruire dall’art. 10 del D.P.R. n. 380 del 2001, sanzionabile in mancanza con la demolizione di cui al successivo art. 31 (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2018 n. 3532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è prospettabile una valutazione atomistica degli interventi edilizi, allorché gli stessi facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario di realizzazione di una determinata complessiva opera, risultante priva di titolo.
Invero, è stato affermato: “Ne consegue che non è ammissibile una loro considerazione astratta ed atomistica, ma deve necessariamente predicarsene una valutazione unitaria sintetica e complessiva, in quanto divenute parti di un più ampio quadro di illecito sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo regime giuridico di illegittimità”.
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1.2. Per quanto riguarda le restanti opere, preme al Collegio innanzitutto precisare che, come a più riprese affermato nella giurisprudenza di questa Sezione, non è prospettabile una valutazione atomistica degli interventi edilizi, allorché gli stessi facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario di realizzazione di una determinata complessiva opera, risultante priva di titolo (cfr. di recente, per tutte, la sentenza dell’11/01/2018 n. 194: “Ne consegue che non è ammissibile una loro considerazione astratta ed atomistica, ma deve necessariamente predicarsene una valutazione unitaria sintetica e complessiva, in quanto divenute parti di un più ampio quadro di illecito sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo regime giuridico di illegittimità”) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2018 n. 3532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una piscina (nella specie, per la superficie nient’affatto modesta di mq. 70) costituisce un intervento di nuova costruzione su suolo inedificato, comportando la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio ed occorrendo pertanto il permesso di costruire, come già sancito da questa Sezione.
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Analoga considerazione vale per il gazebo, di cui non può predicarsi la natura meramente accessoria, ove si abbia riguardo al suo stabile insediamento nel territorio, alle modalità costruttive (struttura in legno lamellare) e alle non trascurabili dimensioni (mq. 16).
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La nozione di pertinenza postula un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale (sicché la prima non è suscettibile di autonoma e separata utilizzazione), sempreché l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico ed un apprezzabile aumento di volumetria, incidente anche sulla protezione dei luoghi accordata dalla tutela paesaggistica.
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È da escludere che il muro di recinzione in questione (di 60 ml. e 1,20 mt. di altezza, rivestito in pietra vesuviana e con pannellatura metallica sovrastante) potesse essere realizzato senza permesso di costruire, bastando riportarsi all’uniforme e condivisa giurisprudenza con la quale, anche di recente, è stato ribadito che: "la valutazione in ordine alla necessità del titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione.
Di conseguenza, si ritengono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà.
Viceversa, è necessario il titolo abilitativo quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da opera muraria".
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Posta questa premessa, va in ogni caso osservato che le censure sono destituite di fondamento.
1.2.1. La realizzazione di una piscina (nella specie, per la superficie nient’affatto modesta di mq. 70) costituisce un intervento di nuova costruzione su suolo inedificato, comportando la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio ed occorrendo pertanto il permesso di costruire, come già sancito da questa Sezione (cfr. le sentenze del 14/02/2017 n. 920 e dell’08/06/2016 n. 2916).
1.2.2. Analoga considerazione vale per il gazebo, di cui non può predicarsi la natura meramente accessoria, ove si abbia riguardo al suo stabile insediamento nel territorio, alle modalità costruttive (struttura in legno lamellare) e alle non trascurabili dimensioni (mq. 16).
Per altro verso, la nozione di pertinenza postula un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale (sicché la prima non è suscettibile di autonoma e separata utilizzazione), sempreché l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico ed un apprezzabile aumento di volumetria, incidente anche sulla protezione dei luoghi accordata dalla tutela paesaggistica.
1.2.3. È da escludere che il muro di recinzione in questione (di 60 ml. e 1,20 mt. di altezza, rivestito in pietra vesuviana e con pannellatura metallica sovrastante) potesse essere realizzato senza permesso di costruire, bastando riportarsi all’uniforme e condivisa giurisprudenza con la quale, anche di recente, è stato ribadito che: "la valutazione in ordine alla necessità del titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di opere di recinzione va effettuata sulla scorta dei seguenti due parametri: natura e dimensioni delle opere e loro destinazione e funzione. Di conseguenza, si ritengono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo ius excludendi alios o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà. Viceversa, è necessario il titolo abilitativo quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da opera muraria" (TAR Lazio, sez. II-quater, 04/09/2017 n. 9529, con ulteriori richiami).
1.2. In conclusione, è ravvisabile nella specie l’avvenuta realizzazione di un complesso di interventi (di cui si impone la valutazione unitaria, come detto) che hanno comportato aumenti volumetrici, realizzazione di nuove opere e la complessiva trasformazione dello stato dei luoghi, necessitanti in ragione di ciò del permesso di costruire e che, anche isolatamente considerati, sono sanzionabili in mancanza con la demolizione.
2. - Il ricorso va dunque respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 29.05.2018 n. 3532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La trasformazione permanente del suolo inedificato per adibire l’area ad una diversa destinazione d’uso e, più in generale, ogni intervento che determini una perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di opera in muratura, richiedono il previo rilascio del titolo edilizio.
Nella specie, ciò è avvenuto mediante la pavimentazione di un’area agricola al fine di mutarne la destinazione d’uso in deposito di autovetture (nello specifico, soggette a sequestro giudiziario).
Il parcheggio così realizzato, oltre a modificare in maniera significativa lo stato dei luoghi ed incidere sul carico urbanistico in termini di dotazioni infrastrutturali, è, indubitabilmente, suscettibile di autonoma utilizzazione, nonché munito di un proprio valore, e, perciò, non può essere qualificato come una mera pertinenza edilizia dei due richiamati corpi di fabbrica, diversamente da quanto opinato dalla ricorrente, alla stregua dei pacifici criteri elaborati in materia dalla giurisprudenza.
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Il ricorso è infondato.
Per consolidato indirizzo interpretativo, la trasformazione permanente del suolo inedificato per adibire l’area ad una diversa destinazione d’uso e, più in generale, ogni intervento che determini una perdurante modifica dello stato dei luoghi con materiale posto sul suolo, pur in assenza di opera in muratura, richiedono il previo rilascio del titolo edilizio (C.d.S., sez. V, 27.04.2012, n. 2450, con ultt. citt.; C.d.S., sez. V, 21.10.2003, n. 6519).
Nella specie, ciò è avvenuto mediante la pavimentazione di un’area agricola al fine di mutarne la destinazione d’uso in deposito di autovetture (nello specifico, soggette a sequestro giudiziario).
Il parcheggio così realizzato, oltre a modificare in maniera significativa lo stato dei luoghi ed incidere sul carico urbanistico in termini di dotazioni infrastrutturali, è, indubitabilmente, suscettibile di autonoma utilizzazione, nonché munito di un proprio valore, e, perciò, non può essere qualificato come una mera pertinenza edilizia dei due richiamati corpi di fabbrica, diversamente da quanto opinato dalla ricorrente, alla stregua dei pacifici criteri elaborati in materia dalla giurisprudenza (ex ceteris, cfr. C.d.S., sez. V, 14.10.2013, n. 4997).
Il provvedimento impugnato indica chiaramente, a proprio fondamento, la necessità di tener conto di quelle superfici nel calcolo della oblazione e degli oneri concessori e specifica le modalità con cui si è pervenuti alla quantificazione del dovuto.
Che la questione fosse quella del computo anche dell’area asfaltata e pavimentata, d’altronde, era ben chiaro alla ricorrente anche in sede di contraddittorio procedimentale.
Vanno, perciò, complessivamente disattesi i primi due motivi di ricorso (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 29.05.2018 n. 3524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il dovere di corrispondere le somme dovute per oneri concessori si prescrive nel termine decennale e decorre dalla data del rilascio del titolo edilizio o della eventuale formazione del silenzio-assenso.
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Va respinto, infine, anche il terzo motivo di censura, anch’esso inidoneo a dimostrare l’illegittimità del diniego e a provocarne, quindi, l’annullamento giurisdizionale.
Al riguardo, va rilevato che è soltanto con la nota acquisita al protocollo comunale il 28.05.2008, al n. 12044, che la ricorrente ha integrato la pratica di condono producendo buona parte della documentazione necessaria alla valutazione dell’istanza (perizia giurata, elaborati grafici, relazione fotografica ed altro).
A fronte di ciò, con il preavviso di rigetto del 26.03.2013, prot. 2026, le è stata espressamente contestata la necessità di integrare le somme versate col pagamento di € 671.472,78 a titolo di oblazione e di € 1.052.991,40 a titolo di oneri concessori, ricevendo, in risposta, l’atto di diffida del 30.04.2013 (doc. 4 di parte ricorrente) che sostanzia la dichiarazione scritta di non voler adempiere di cui all’art. 1219 c.c.
Sostiene la ricorrente, col motivo in esame, che decorsi i 36 mesi previsti dall’art. 35, comma 18, della legge n. 47/1985 per l’esercizio del diritto al conguaglio, la pretesa dell'amministrazione al pagamento dell'importo per l'oblazione calcolato e richiesto per la prima volta con il provvedimento prot. 2026 del 26.03.2013 sarebbe prescritta.
Il provvedimento di diniego, tuttavia, è retto anche dal rifiuto della ricorrente di corrispondere, oltre a quelle somme, quelle ulteriori dovute per oneri concessori, il cui termine di prescrizione è decennale e decorre dalla data del rilascio del titolo edilizio o della eventuale formazione del silenzio-assenso (C.d.S., sez. V, 30.04.2014 n. 2264; TAR Campania, Napoli, sez. II, 21.02.2013, n. 969), cosicché non si vede come, secondo la tesi della ricorrente, la prescrizione del diritto dell’amministrazione a chiedere il conguaglio dell’oblazione debba comportare l’illegittimità ed il conseguente annullamento dell’impugnato provvedimento di diniego.
Per queste ragioni, in conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 29.05.2018 n. 3524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001, successivamente all’emanazione dell’ordinanza di demolizione, produce l’effetto di rendere inefficace il pregresso provvedimento di demolizione, in quanto il necessario riesame dell’abusività o meno dell’opera in seguito alla menzionata richiesta ex articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 obbliga l’Amministrazione ad una nuova valutazione della situazione di abusività che, logicamente, impatta sulla precedente ordinanza di demolizione (emanata, appunto, sul presupposto dell’illegittimità dell’opera), rendendola inefficace.
Pertanto, anche nel caso in cui l’accertamento ex articolo 36 D.P.R. 380/2001 si concludesse negativamente, la P.A. sarà comunque tenuta ad emanare una nuova ordinanza di demolizione, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere; da ciò consegue che l’interesse a ricorrere del privato proprietario viene traslato, innanzitutto, sugli eventuali provvedimenti di rigetto della domanda di sanatoria e, successivamente, sulla nuova ordinanza di demolizione adottata dall’amministrazione in conseguenza al rigetto dell’istanza ex articolo 36 D.P.R. n. 380/2001.
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Mentre la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi del più volte menzionato art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente alla proposizione del ricorso avverso l’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse, la presentazione della predetta domanda di accertamento di conformità dopo l’adozione dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile, non essendovi alcun interesse a ricorrere, posto che, stante quanto detto sopra, l’atto impugnato è divenuto inefficace a seguito della presentazione dell’istanza di sanatoria e, pertanto, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente.
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Osserva il Collegio che il ricorso introduttivo del presente giudizio va dichiarato inammissibile per difetto di interesse.
Difatti, come evidenziato da parte ricorrente nel quinto motivo di impugnazione, i ricorrenti, dopo aver ricevuto la notifica, in data 22.02.2011, dell’ordinanza di demolizione impugnata, ritenendo le opere da essi costruite legittime, hanno presentato al Comune di Porto Cesareo, in data 14.03.2011, apposita istanza ex art. 36 D.P.R. 06.06.2001 n. 380 di accertamento di conformità per le predette opere, già oggetto dell’ordinanza di demolizione impugnata.
Orbene, secondo il consolidato orientamento di questa Sezione, la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001, successivamente all’emanazione dell’ordinanza di demolizione, produce l’effetto di rendere inefficace il pregresso provvedimento di demolizione, in quanto il necessario riesame dell’abusività o meno dell’opera in seguito alla menzionata richiesta ex articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 obbliga l’Amministrazione ad una nuova valutazione della situazione di abusività che, logicamente, impatta sulla precedente ordinanza di demolizione (emanata, appunto, sul presupposto dell’illegittimità dell’opera), rendendola inefficace.
Pertanto, anche nel caso in cui l’accertamento ex articolo 36 D.P.R. 380/2001 si concludesse negativamente, la P.A. sarà comunque tenuta ad emanare una nuova ordinanza di demolizione, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere; da ciò consegue che l’interesse a ricorrere del privato proprietario viene traslato, innanzitutto, sugli eventuali provvedimenti di rigetto della domanda di sanatoria e, successivamente, sulla nuova ordinanza di demolizione adottata dall’amministrazione in conseguenza al rigetto dell’istanza ex articolo 36 D.P.R. n. 380/2001 (ex multis, TAR Puglia-Lecce, n. 1454/2013, n. 1956/2017, n. 1388/2017, n. 69/2018, n. 706/2018).
In considerazione di quanto sopra, la Sezione ritiene altresì che, mentre la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi del più volte menzionato art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 successivamente alla proposizione del ricorso avverso l’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse (come nei precedenti di questa Sezione sopra citati), la presentazione della predetta domanda di accertamento di conformità dopo l’adozione dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive, ma antecedentemente alla proposizione del ricorso, rende quest’ultimo inammissibile, non essendovi alcun interesse a ricorrere, posto che, stante quanto detto sopra, l’atto impugnato è divenuto inefficace a seguito della presentazione dell’istanza di sanatoria e, pertanto, non è idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente (ex multis, TAR Puglia-Lecce, n. 1938/2013, n. 534/2017, n. 572/2018, n. 628/2018).
Pertanto, nel caso di specie, il ricorso va dichiarato inammissibile, attesa l’insussistenza, già al momento della notifica dello stesso, avvenuta in data 20.04.2011, dell’interesse a ricorrere, posto che l’impugnato atto, emanato in data 10.02.2011, era divenuto inefficace a seguito della presentazione, avvenuta in data 14.03.2011, dell’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, e, dunque, non era già più idoneo a ledere l’interesse dei ricorrenti al momento della presentazione del ricorso (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 29.05.2018 n. 918 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’attività di ricostruzione di ruderi è stata concordemente considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, avendo questi perduto i caratteri dell’entità urbanistico-edilizia originaria sia in termini strutturali che funzionali e non potendo i ruderi medesimi essere considerati come edifici allo stato esistenti.
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2.1.1 - Ed invero, la Relazione tecnico-sanitaria del marzo 2010 espressamente (nonché genericamente) afferma che <<il fabbricato “B” è stato recuperato su un vecchio rudere esistente “Pagliaro o trullo” …., utilizzati per il ricovero di campagna>>.
Orbene: per un verso, dall’esame della documentazione in atti, risulta evidente che il manufatto de quo, composto da due unità abitative,è stato realizzato anche ex novo; e, per altro verso, trattasi, in ogni caso, di nuova costruzione.
Ed invero, “L’attività di ricostruzione di ruderi è stata … concordemente considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione (cfr. Cass. pen. 20.02.2001, n. 13982; Cons. Stato, V, 01.12.1999, n. 2021), avendo questi perduto i caratteri dell’entità urbanistico-edilizia originaria sia in termini strutturali che funzionali” (ex multis, Consiglio di Stato, Sezione Sesta, 05.12.2016, n. 5106) e non potendo i ruderi medesimi essere considerati come edifici allo stato esistenti (TAR Toscana, Firenze, Sezione Prima, 16.05.2017, n. 692; TAR Campania, Salerno, Sezione Prima, 16.02.2012, n. 240)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 29.05.2018 n. 917 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alla luce del vigente ordinamento giuridico, non è ammissibile il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria subordinato alla esecuzione di ulteriori opere edilizie, anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il manufatto nell’alveo della legalità: tanto “contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica.
E’ evidente, infatti, che <<un permesso di costruire in sanatoria soggetto a prescrizioni è in palese contrasto con l’art. 36 del D.P.R. 380/2001, poiché postulerebbe non già la doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle prescrizioni, quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui il richiedente avrò ottemperato alle prescrizioni.
La cosiddetta sanatoria ordinaria, peraltro, è finalizzata alla regolarizzazione degli abusi meramente formali –vale a dire degli interventi che, pur effettuati senza il preventivo rilascio del titolo abilitativo edilizio, risultano ammissibili sotto l’aspetto urbanistico– e non può riguardare, in conseguenza, gli interventi abusivi che necessitino di ulteriori lavori di regolarizzazione, salvo che si tratti…..di semplice completamento dei lavori già intrapresi”.

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2.1.3 - Con riferimento alla dedotta omessa considerazione, da parte della P.A., delle “precisazioni” relative alla esecuzione di ulteriori interventi (sostanzialmente) finalizzati al conseguimento della conformità edilizio-urbanistica dell’immobile in parola (ripristino del corretto rapporto di aerazione e di luminosità, nonché dei rapporti tra la quota di pavimento interno e il piano di campagna esterno, onde sanare le relative difformità pure poste a fondamento del gravato diniego), rileva la Sezione che, <<alla luce del vigente ordinamento giuridico, non è ammissibile il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria subordinato alla esecuzione di ulteriori opere edilizie, anche se tali interventi sono finalizzati a ricondurre il manufatto nell’alveo della legalità: tanto “contrasterebbe ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica” (Consiglio di Stato, IV, 08.09.2015, n. 4176)>> (TAR Puglia, Lecce, Sezione Terza, 30.01.2018, n. 126).
E’ evidente, infatti, che <<un permesso di costruire in sanatoria soggetto a prescrizioni è in palese contrasto con l’art. 36 del D.P.R. 380/2001, poiché postulerebbe non già la doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all’esecuzione delle prescrizioni, quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui il richiedente avrò ottemperato alle prescrizioni (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza del 28/05/2014 n 1017). La cosiddetta sanatoria ordinaria, peraltro, è finalizzata alla regolarizzazione degli abusi meramente formali –vale a dire degli interventi che, pur effettuati senza il preventivo rilascio del titolo abilitativo edilizio, risultano ammissibili sotto l’aspetto urbanistico– e non può riguardare, in conseguenza, gli interventi abusivi che necessitino di ulteriori lavori di regolarizzazione, salvo che si tratti…..di semplice completamento dei lavori già intrapresi” (TAR Liguria, Sez. I, sentenza n. 1003 del 16/12/2015>> (TAR Piemonte, Sezione Prima, 04.11.2016, n. 1372)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 29.05.2018 n. 917 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Vendita edilizia residenziale convenzionata - Cessione di immobili realizzati nell'ambito dell'edilizia economica e popolare - P.E.E.P. - Clausola sul prezzo convenuta dalle parti esorbitante i limiti di legge - Nullità parziale - Contratto eterointegrato (ex art. 1339 c.c.) con il prezzo imposto dalla legge - Art. 35 L. n. 865/1971.
Il vincolo attinente al prezzo massimo di cessione di immobili, realizzati nell'ambito dell'edilizia economica e popolare ai sensi dell'art. 35 della citata legge n. 865/1971, non è affatto limitato alla sola vendita intervenuta tra il costruttore e il primo acquirente, ma segue il bene, a titolo di onere (rectius: vincolo) reale, in tutti i successivi passaggi di proprietà, persistendo fino a quando non sia stato rimosso mediante la stipula di un'apposita convenzione con il Comune.
Tale soluzione, oltre che rispondente al dato normativo, si pone in sintonia anche con la stessa ratio della legge. Il permanere del vincolo di prezzo, infatti, evita che le agevolazioni concesse si trasformino in uno strumento di speculazione non solo in relazione alla prima vendita, ma anche con riguardo a quelle successive, consentendo di far raggiungere all'immobile lo scopo pubblico a cui esso è preordinato dalla legge in occasione di tutti i successivi passaggi di proprietà.
Pertanto, la clausola sul prezzo convenuta dalle parti, esorbitante i limiti di legge, costituisce una pattuizione nulla; tuttavia, trattandosi di una nullità parziale, il contratto deve essere eterointegrato (ex art. 1339 c.c.) con il prezzo imposto dalla legge.
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Cessione degli alloggi di edilizia residenziale convenzionata - Clausola negoziale contenente un prezzo difforme da quello vincolato - Fattispecie.
Il vincolo del prezzo massimo di cessione degli alloggi costruiti, ex art. 35 della legge n. 865 del 1971, sulla base di convenzioni per la cessione di aree in diritto di superficie, ovvero per la cessione del diritto di proprietà se stipulate, quest'ultime, precedentemente all'entrata in vigore della l. n. 179 del 1992, qualora non sia intervenuta la convenzione di rimozione, ex art. 31, comma 49-bis, della l. n. 448 del 1998, segue il bene, a titolo di onere reale, in tutti i successivi passaggi di proprietà, attesa la "ratio legis" di garantire la casa ai meno abbienti ed impedire operazioni speculative di rivendita; in tal caso, pertanto, la clausola negoziale contenente un prezzo difforme da quello vincolato è affetta da nullità parziale e sostituita di diritto, ex artt. 1419, comma 2, e 1339 c.c., con altra contemplante il prezzo massimo determinato in forza della originaria convenzione di cessione.
Nella fattispecie oggetto del giudizio è incontestato che non sia intervenuta un'apposita convenzione di rimozione del vincolo del prezzo quantificato in base a quella originaria ai sensi del richiamato art. 31, comma 49-bis, della legge n.448/1998, come deve ritenersi pacifico che detta nullità parziale -operante per violazione di una norma imperativa- sia rilevabile d'ufficio e, ovviamente, anche su eccezione del cessionario dell'alloggio, con tutte le conseguenze che ne derivano ai fini del riconoscimento del diritto degli acquirenti ad ottenere la restituzione del maggior prezzo versato rispetto a quello massimo di cessione scaturito dall'applicazione dei criteri stabiliti dalla presupposta convenzione (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 28.05.2018 n. 13345 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il giudice d'appello della giustizia amministrativa ha evidenziato in rapporto alla cd. "pergotenda":
   1) che essa è una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini) e installabile al fine, quindi, di soddisfare esigenze non precarie non connotandosi, pertanto, per la temporaneità della loro utilizzazione, ma costituiscono un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo;
   2) che, sotto il profilo normativo la realizzazione di tale costruzione, tenuto conto della sua consistenza, delle caratteristiche costruttive e della suindicata funzione che la caratterizza, essa non costituisce un'opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo atteso che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR n. 380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli "interventi di nuova costruzione", che determinano una "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio", mentre una struttura leggera, secondo la configurazione standard che caratterizza tali manufatti nella loro generalità, destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche;
   3) che per aversi una costruzione definibile come tale (c.d. pergotenda), occorre che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che la struttura (per aversi realmente una pergotenda e non una costruzione edilizia necessitante di titolo abilitativo) deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda;
   4) che la tenda poi, che costituisce la caratteristica fondamentale per effetto della quale un manufatto può definirsi "pergotenda" e non considerarsi una "nuova costruzione", deve essere in materiale plastico e retrattile, onde non presentare caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non debbono presentare elementi di fissità, stabilità e permanenza, proprio per il carattere retrattile della tenda, "onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie";
   5) che, inoltre l'elemento di copertura e di chiusura deve essere costituito da una tenda in materiale plastico, privo di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o di tamponatura di una costruzione.
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Tali argomentazioni non possono, però, essere condivise.
In particolare è bene rammentare che, in punto di interpretazione giurisprudenziale cui si ritiene di aderire pienamente, il Consiglio di Stato in numerosi arresti (cfr., da ultimo, la sentenza della Sesta sezione 25.01.2017 n. 306, in linea con i precedenti della medesima sezione 27.04.2016 n. 1619 e 11.04.2014 n. 1777) ha puntualmente perimetrato l'ambito di riconoscibilità della c.d. attività edilizia libera, soprattutto con riferimento alle c.d. strutture amovibili.
In sintesi il giudice d'appello della giustizia amministrativa ha evidenziato in rapporto alla cd. "pergotenda":
   1) che essa è una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini) e installabile al fine, quindi, di soddisfare esigenze non precarie non connotandosi, pertanto, per la temporaneità della loro utilizzazione, ma costituiscono un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo;
   2) che, sotto il profilo normativo la realizzazione di tale costruzione, tenuto conto della sua consistenza, delle caratteristiche costruttive e della suindicata funzione che la caratterizza, essa non costituisce un'opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo atteso che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR n. 380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli "interventi di nuova costruzione", che determinano una "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio", mentre una struttura leggera, secondo la configurazione standard che caratterizza tali manufatti nella loro generalità, destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche;
   3) che per aversi una costruzione definibile come tale (c.d. pergotenda), occorre che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che la struttura (per aversi realmente una pergotenda e non una costruzione edilizia necessitante di titolo abilitativo) deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda;
   4) che la tenda poi, che costituisce la caratteristica fondamentale per effetto della quale un manufatto può definirsi "pergotenda" e non considerarsi una "nuova costruzione", deve essere in materiale plastico e retrattile, onde non presentare caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non debbono presentare elementi di fissità, stabilità e permanenza, proprio per il carattere retrattile della tenda, "onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie";
   5) che, inoltre l'elemento di copertura e di chiusura deve essere costituito da una tenda in materiale plastico, privo di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o di tamponatura di una costruzione.
Sulla base di tali considerazioni, tratte dall'orientamento giurisprudenziale richiamato, le cui conclusioni convincono pienamente il Collegio e tenuto conto degli accertamenti effettuati dal Verificatore nella relazione depositata agli atti, può concludersi che, nel caso di specie, non ci si trova al cospetto di una semplice pergotenda, bensì di una struttura complessa “solida e permanente”, priva, quindi, del carattere della precarietà e, soprattutto, tale “da determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto dell’edificio”, come emerge in modo palese anche dalla documentazione fotografica allegata alla relazione di verificazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 28.05.2018 n. 5951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Il principio di rotazione si applica anche alle procedure di convenzionamento ex art. 5 della l. n. 381/1991.
Il principio di rotazione costituisce un corollario del principio di non discriminazione ed ha carattere oggettivo, in quanto è diretto a garantire una concorrenza effettiva, onde evitare situazioni di esclusiva o monopolio nell'esecuzione dell'appalto.
Quale corollario del principio di non discriminazione, esso si applica, quindi, anche alle procedure di convenzionamento ex art. 5 della l. n. 381/1991.
La circostanza che il principio di rotazione non abbia valenza precettiva assoluta, ma solo tendenziale, non sta a significare che esso non abbia portata generale, cosicché pure da questo punti di vista lo stesso risulta applicabile alle procedure ex art. 5 cit. (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 28.05.2018 n. 583 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di ingiunzione di demolizione (i cui requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di opere abusive ed il conseguente ordine di demolizione) è distinto dal successivo ed eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate.
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9.3. Non convince quanto denunciato col quarto mezzo, circa la mancata “indicazione in concreto dell’area che andrà acquisita di diritto” (cfr. pagina 8 del ricorso di primo grado), in quanto “il provvedimento di ingiunzione di demolizione (i cui requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di opere abusive ed il conseguente ordine di demolizione) è distinto dal successivo ed eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.02.2018, n. 755) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.05.2018 n. 3147 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso.
In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore.
In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento, né un'ampia motivazione.
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9.4. Nemmeno può dirsi fondata la censura, articolata con il quinto motivo (pagina 8 del ricorso di primo grado), con la quale si deduce il difetto di comunicazione di avviso di avvio del procedimento nonché di motivazione.
Come ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio (in particolare la recente Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 9; successivamente si veda la prima applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n. 5595), “l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né un'ampia motivazione”.
9.5. Per quanto attiene all’ordinanza (prot. n. 2195 del 10.11.2006) impugnata con i motivi aggiunti stante il suo tenore del tutto coincidente con il precedente ordine demolitorio –cioè “senza alcuna rivalutazione degli interessi, né nuovo apprezzamento dei fatti” (Cons. Stato, sez. V, 27.11.2017 n. 5547)– essa assume carattere meramente confermativo che la rende non suscettibile di impugnativa.
Le relative censure vanno pertanto dichiarate inammissibili per difetto di interesse (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.05.2018 n. 3147 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: a) atteso che, in base all'art. 11, comma primo, del t.u. edilizia, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere il rilascio di un titolo abilitativo edilizio si configura in capo non solo al proprietario del terreno, ma pure al soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo autorizzi a disporne al riguardo;
   b) v'è il contestuale onere della P.A. di accertare con serietà e rigore siffatta legittimazione a chiedere il titolo edilizio, dovendo pertanto la P.A. accertare che l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria.
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6.1. L’appello è infondato e non può trovare accoglimento.
6.2.1. In primo luogo, deve essere respinta la censura attinente alla violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c. da parte del giudice di primo grado, in quanto l’accertamento della proprietà comunale del vicolo Battisti risulta essere funzionale all’accertamento della proprietà del suolo su cui sorge il muro e, conseguentemente, del muro stesso, oggetto del provvedimento impugnato.
6.2.2. Al riguardo, il Collegio ricorda che:
   a) atteso che, in base all'art. 11, comma primo, del t.u. edilizia, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere il rilascio di un titolo abilitativo edilizio si configura in capo non solo al proprietario del terreno, ma pure al soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo autorizzi a disporne al riguardo (cfr. Cons. St., sez. VI, 15.07.2010, n. 4557; id., sez. IV, 02.09.2011, n. 4968);
   b) v'è il contestuale onere della P.A. di accertare con serietà e rigore siffatta legittimazione a chiedere il titolo edilizio (arg. ex Cons. Stato, sez. IV, 07.09.2016, n. 3823), dovendo pertanto la P.A. accertare che l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (cfr. Cons. Stato, sez. V, 04.04.2012, n. 1990) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.05.2018 n. 3143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: E' costante la giurisprudenza del Consiglio di Stato nell’affermare l’inutilizzabilità della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà nell’ambito del processo amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione.
D’altro canto, “l'attitudine certificativa e probatoria della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà e delle autocertificazioni o auto dichiarazioni è limitata a specifici status o situazioni rilevanti in determinate attività o procedure amministrative e non vale a superare quanto attestato dall'amministrazione, sino a querela di falso, dall'esame obiettivo delle risultanze documentali”.

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Ai fini dell’accertamento della proprietà pubblica giova la presunzione di appartenenza al demanio stradale comunale delle aree che sono in comunicazione diretta col suolo pubblico in modo da consentire l’accesso ad esse, ai sensi dell’art. 22 l. n. 2248/1865.
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La giurisprudenza limitativa sviluppatasi in materia, ponendosi in maniera critica verso il riconoscimento della generica ammissibilità della sdemanializzazione tacita, ritiene la stessa ravvisabile solo in presenza di atti e/o fatti che mostrino inequivocabilmente la volontà dell’amministrazione di sottrarre il bene medesimo a detta destinazione e di rinunciare definitivamente al suo ripristino, non potendosi ciò desumere dalla pura e semplice circostanza che il bene non sia più adibito, anche da lungo tempo, all’uso pubblico.
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6.3. Ciò premesso, al fine di dimostrare la proprietà del muro in questione, alcuna rilevanza può essere attribuita, come correttamente ritenuto dall’amministrazione procedente, alla dichiarazione sostitutiva di atto notorio presentata, ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. 28.12.2000, n. 445, dal ricorrente nel corso del procedimento dinanzi al Comune di Andria.
Al riguardo è costante la giurisprudenza del Consiglio di Stato nell’affermare l’inutilizzabilità della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà nell’ambito del processo amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione (ex multis Cons. Stato, sez. IV, 07.08.2012, n. 4527; id., sez. VI, 08.05.2012, n. 2648; id., sez. IV, 03.08.2011, n. 4641; id., sez. IV, 03.05.2005, n. 2094; id., sez. IV, 29.04.2002, n. 2270).
D’altro canto, “l'attitudine certificativa e probatoria della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà e delle autocertificazioni o auto dichiarazioni è limitata a specifici status o situazioni rilevanti in determinate attività o procedure amministrative e non vale a superare quanto attestato dall'amministrazione, sino a querela di falso, dall'esame obiettivo delle risultanze documentali” (Cons. Stato, sez. V, 20.05.2008, n. 2352).
6.4. Pertanto, ai fini dell’accertamento incidentale in ordine alla proprietà del muro oggetto del richiesto titolo edilizio, occorre considerare che il vicolo Cesare Battisti sul quale lo stesso insiste risulta essere pacificamente di proprietà comunale, in primo luogo non ravvisandosi nessuna contestazione al riguardo.
Peraltro, ai fini dell’accertamento della proprietà pubblica sul vicolo giova la presunzione di appartenenza al demanio stradale comunale delle aree che sono in comunicazione diretta col suolo pubblico in modo da consentire l’accesso ad esse, ai sensi dell’art. 22 l. n. 2248/1865, come per l’appunto avviene nel caso di specie, atteso il collegamento del vicolo Battisti con la strada comunale via Orsini.
In senso opposto, del resto, non è stata addotta alcuna prova contraria, non potendo ritenersi sufficiente a tal fine, per le sopra esposte motivazioni, la dichiarazione sostitutiva di atto notorio.
6.5. Da ciò consegue, in primo luogo, l’applicabilità al caso di specie dell’art. 881 c.c., che pone una presunzione di proprietà sui muri divisori in favore del proprietario del fondo verso il quale esiste lo spiovente ed in ragione dello spiovente medesimo. Il muro in questione, per l’appunto, presenta una struttura, qualificabile come spiovente (sono presenti, in particolare, delle tegole sulla sommità del muro), che, senza dubbio, è rivolta verso l’esterno, ossia verso il citato vicolo Battisti.
Del resto, in senso contrario, a differenza di quanto sostenuto dall’appellante, non si riscontra alcuna disomogeneità tra le due entità prediali confinanti, dovendo essere entrambe qualificate alla stregua di cortili.
Invero, se con riferimento al cortile del privato ricorrente non sussistono dubbi in tal senso, il Collegio rileva che anche il vicolo C. Battisti possiede gli elementi per essere qualificato in questi termini. Il vicolo, infatti, per un estremo, risulta chiuso proprio dal muro divisorio, mentre, dalla parte opposta, sebbene collegato alla via Orsini, non risulta agevolmente transitabile, in quanto per accedere allo stesso da via Orsini è necessario scendere alcuni gradini.
In conclusione, il vicolo, essendo idoneo allo stazionamento pedonale e all’accesso pedonale alle altre proprietà private che da esso hanno ingresso, presenta chiaramente la natura di cortile e, di conseguenza, avendo carattere omogeneo al fondo privato presente al di là del muro, non pone ostacoli all’applicabilità del ridetto art. 881 c.c. (ndr: Presunzione di proprietà esclusiva del muro divisorio), in linea con la giurisprudenza in materia (Cass. Civ., sez. II, 10.03.2006, n. 5258; id., sez. II, 24.02.2000, n. 2102; id., sez. II, 24.12.1994, n. 11162; id., sez. II, 11.01.1989, n. 78).
6.6. Peraltro, ad ulteriore conferma della proprietà comunale sul muro, va considerato che dall’accertamento della proprietà comunale del suolo su cui è stato costruito il muro discende l’applicazione del principio dell’accessione di cui all’art. 934 c.c., secondo cui qualunque costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo.
6.7. In senso contrario, deve essere ritenuta infondata, per carenza di prova, la censura volta ad affermare l’avvenuta sdemanializzazione tacita della citata porzione di suolo, risultando, per l’effetto, inusucapibile il bene medesimo.
Parte ricorrente, invero, non introduce sufficienti elementi dimostrativi della sussistenza di atti del Comune incompatibili con la volontà di conservare la destinazione della porzione di suolo ad uso pubblico, come del disuso prolungato da parte della collettività unitamente all’inerzia dell’amministrazione nella cura del bene.
Tale carenza probatoria, peraltro, va considerata alla luce della giurisprudenza limitativa sviluppatasi in materia, che, ponendosi in maniera critica verso il riconoscimento della generica ammissibilità della sdemanializzazione tacita, ritiene la stessa ravvisabile solo in presenza di atti e/o fatti che mostrino inequivocabilmente la volontà dell’amministrazione di sottrarre il bene medesimo a detta destinazione e di rinunciare definitivamente al suo ripristino (Cons. Stato, sez. IV, 20.01.2015, n. 138), non potendosi ciò desumere dalla pura e semplice circostanza che il bene non sia più adibito, anche da lungo tempo, all’uso pubblico (Cass. Civ., sez. un., 29.05.2014, n. 12062).
7. Risulta infine destituito di fondamento anche l’autonomo motivo di appello con cui il ricorrente torna a censurare l’ordinanza impugnata in quanto non supportata dal necessario interesse pubblico al ripristino del muro.
Invero, in considerazione dell’accertata proprietà comunale del muro in questione, l’interesse pubblico al ripristino sotteso all’ordinanza comunale deve in effetti essere individuato proprio nella tutela delle proprietà comunali per consentire la loro adibizione all’uso della collettività (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.05.2018 n. 3143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Non è configurabile una automatica configurabilità di tentativo di infiltrazione mafiosa nel caso di assunzione di dipendenti controindicati.
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Informativa antimafia – Presupposti - Presenza di dipendenti controindicati – Automatica configurabilità di tentativo di infiltrazione mafiosa – Esclusione.
Ai fini dell’adozione di una informativa antimafia, non sussiste alcun automatismo fra presenza di dipendenti controindicati e tentativo di infiltrazione mafiosa (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che a rilevare non è il dato in sé che un’impresa possa avere alle proprie dipendenze soggetti pregiudicati oppure sospettati di essere contigui ad ambienti mafiosi, quanto piuttosto che la presenza degli stessi possa essere ritenuta indicativa, alla luce di una quadro indiziario complessivo, del potere della criminalità organizzata di incidere sulle politiche assunzionali dell’impresa e, mediante ciò, di inquinarne la gestione a propri fini.
Se si adotta questa prospettiva risulta chiaro perché la stessa Sezione terza del Consiglio di Stato, in alcuni propri precedenti, abbia annoverato fra gli elementi indiziari del tentativo di infiltrazione mafiosa “l’assunzione esclusiva o prevalente, da parte di imprese medio-piccole, di personale avente precedenti penali gravi o comunque contiguo ad associazioni criminali” (sentenza n. 1743 del 03.05.2016, richiamata anche dalla sentenza n. 3299 del 20.07.2016).
Non può dunque sussistere alcun automatismo fra presenza di dipendenti controindicati e tentativo di infiltrazione mafiosa.
Del resto, se così non fosse, se ne ricaverebbe che un soggetto pregiudicato non possa mai essere assunto da alcuna impresa, non solo se attiva nel mercato delle commesse pubbliche (e, più in generale, dell’economia pubblica), ma anche se operante nell’economia privata. Ma così evidentemente non è.
Se ne ricaverebbe, altresì, che il dipendente controindicato possa essere, qualora già assunto, immediatamente e legittimamente licenziato, ma ciò non sembra in linea con i più recenti approdi ermeneutici del giudice del lavoro, che invece sembrano inclinare per una maggior cautela prima di risolvere il rapporto (Cass. civ., s.l., 10.01.2018, n. 331).
Giova, inoltre, osservare che il giudizio sulla permeabilità dell’impresa non può prescindere dalla disamina degli strumenti che l’ordinamento mette ordinariamente e concretamente a disposizione degli operatori economici per evitare di assumere soggetti controindicati (essenzialmente, certificato del casellario e dei carichi penali pendenti).
Si vuole cioè dire che la circostanza che un'impresa abbia assunto persone controindicate, nell’assenza di ulteriori elementi, può assumere in sé valore sintomatico della contiguità con gli ambienti della criminalità organizzata a condizione che gli operatori economici -soprattutto nei settori “a rischio” di cui all’art. 1, comma 52, l. 06.11.2012, n. 190 in cui la pervasività del fenomeno mafioso è statisticamente più evidente- siano dotati dal legislatore di adeguati meccanismi preventivi per venire a conoscenza della possibile sussistenza di ragioni di controindicazione a fini antimafia, pur genericamente formulate, viepiù nell’ipotesi in cui l’imprenditore sia già iscritto alla c.d. white list di cui al d.P.C.M. 18.04.2013 (equipollente all’informativa antimafia liberatoria) e le plurime e contestuali nuove assunzioni conseguano all’adempimento di un obbligo giuridico, come nel caso della cd clausola sociale.
E’ noto che la clausola sociale volta a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato presso il gestore uscente, è imposta, nella formulazione dei bandi di gara, dall’art. 50 del vigente codice dei contratti pubblici “per gli affidamenti dei contratti di concessione e di appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura intellettuale, con particolare riguardo a quelli relativi a contratti ad alta intensità di manodopera…”. Essa deve essere incondizionatamente accettata dal subentrante, pena l’esclusione dalla gara, salva la possibilità di quest’ultimo di armonizzare l’indiscriminato dovere di assorbimento del personale dell’impresa uscente con il fabbisogno richiesto dall’esecuzione del nuovo contratto e con la pianificazione e l’organizzazione del lavoro propria del subentrante (Cons. St., sez. III, 05.05.2017, n. 2078).
Dinanzi a questo obbligo giuridico, temperato -all’attuale stato della giurisprudenza– dai soli aspetti organizzativi e oggettivi peculiari del subentrante, non è seriamente esigibile dall’imprenditore un controllo personale, e un giudizio, altrettanto personale, sull’esistenza e influenza delle parentele dell’assumendo, sulle sue frequentazioni, o sulle indagini non ancora giunte ad un rinvio a giudizio (evento a seguito del quale la notizia è evincibile dal certificato dei carichi penali pendenti), e soprattutto, non è esigibile che esso imprenditore si sottragga agli obblighi assunzionali per ragioni soggettive (e non oggettive) in assenza di previsioni di legge che vietino l’instaurazione o la prosecuzione del rapporto, o comunque di informazioni qualificate, in quanto provenienti dalla Prefettura o dagli organi di Polizia, che rendano verosimile la sussistenza del rischio che l’assumendo possa essere un “cavallo di Troia” delle associazioni mafiose o anche semplicemente un soggetto “controindicato” ai fini antimafia, avuto riguardo al tipo di attività e al luogo di svolgimento della stessa (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 25.05.2018 n. 3138 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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2. Nel merito, l’appello è fondato.
2.1. Giova premettere che, come recentemente ribadito da questa Sezione, “
la valutazione prefettizia [...] deve fondarsi su elementi gravi, precisi e concordanti che, alla stregua della «logica del più probabile che non», consentano di ritenere razionalmente credibile il pericolo di infiltrazione mafiosa in base ad un complessivo, oggettivo, e sempre sindacabile in sede giurisdizionale, apprezzamento dei fatti nel loro valore sintomatico” e che “l’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di impresa, da un lato, e la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale sopra richiamati, richiedono alla Prefettura un’attenta valutazione di tali elementi, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di infiltrazione mafiosa, e a sua volta impongono al giudice amministrativo un altrettanto approfondito esame di tali elementi, singolarmente e nella loro intima connessione, per assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva contro ogni eventuale eccesso di potere da parte del Prefetto nell’esercizio di tale ampio, ma non indeterminato, potere discrezionale” (Cons. Stato, Sez. III, 09.02.2017, n. 565).
...
4. Quanto all’assunzione dei dipendenti controindicati, ritiene, anzitutto, il Collegio che debbano essere forniti alcuni chiarimenti sulla rilevanza di tale circostanza come sintomatica del tentativo di infiltrazione mafiosa da parte della criminalità organizzata.
A rilevare non è il dato in sé che un’impresa possa avere alle proprie dipendenze soggetti pregiudicati oppure sospettati di essere contigui ad ambienti mafiosi, quanto piuttosto che la presenza degli stessi possa essere ritenuta indicativa, alla luce di una quadro indiziario complessivo, del potere della criminalità organizzata di incidere sulle politiche assunzionali dell’impresa e, mediante ciò, di inquinarne la gestione a propri fini.

Se si adotta questa prospettiva risulta chiaro perché questa Sezione, in alcuni propri precedenti, abbia annoverato fra gli elementi indiziari del tentativo di infiltrazione mafiosa “l’assunzione esclusiva o prevalente, da parte di imprese medio-piccole, di personale avente precedenti penali gravi o comunque contiguo ad associazioni criminali (sentenza n. 1743 del 03.05.2016, richiamata anche dalla sentenza n. 3299 del 20.07.2016).
Non può dunque sussistere alcun automatismo fra presenza di dipendenti controindicati e tentativo di infiltrazione mafiosa.
Del resto, se così non fosse, se ne ricaverebbe che un soggetto pregiudicato non possa mai essere assunto da alcuna impresa, non solo se attiva nel mercato delle commesse pubbliche (e, più in generale, dell’economia pubblica), ma anche se operante nell’economia privata, stanti i più recenti approdi di questo Consiglio in ordine all’-OMISSIS- di applicazione dell’informativa antimafia (Cons. Stato, Sez. III, 09.02.2017, n. 565). Ma così evidentemente non è.
Se ne ricaverebbe, altresì, che il dipendente controindicato possa essere, qualora già assunto, immediatamente e legittimamente licenziato, ma ciò non sembra in linea con i più recenti approdi ermeneutici del giudice del lavoro, che invece sembrano inclinare per una maggior cautela prima di risolvere il rapporto (Corte di Cassazione, Sez. L., 10.01.2018, n. 331).
Giova, inoltre, osservare che
il giudizio sulla permeabilità dell’impresa non può prescindere dalla disamina degli strumenti che l’ordinamento mette ordinariamente e concretamente a disposizione degli operatori economici per evitare di assumere soggetti controindicati (essenzialmente, certificato del casellario e dei carichi penali pendenti).
Si vuole cioè dire che la circostanza che un'impresa abbia assunto persone controindicate, nell’assenza di ulteriori elementi, può assumere in sé valore sintomatico della contiguità con gli ambienti della criminalità organizzata a condizione che gli operatori economici -soprattutto nei settori “a rischio” di cui all’articolo 1, comma 52, della legge 06.11.2012, n. 190 in cui la pervasività del fenomeno mafioso è statisticamente più evidente- siano dotati dal legislatore di adeguati meccanismi preventivi per venire a conoscenza della possibile sussistenza di ragioni di controindicazione a fini antimafia, pur genericamente formulate, viepiù nell’ipotesi in cui l’imprenditore sia già iscritto alla cd white list di cui al D.P.C.M. 18.04.2013 (equipollente all’informativa antimafia liberatoria) e le plurime e contestuali nuove assunzioni conseguano all’adempimento di un obbligo giuridico, come nel caso della cd clausola sociale.

E’ noto che la clausola sociale volta a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato presso il gestore uscente, è imposta, nella formulazione dei bandi di gara, dall’art. 50 del vigente codice dei contratti pubblici “per gli affidamenti dei contratti di concessione e di appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura intellettuale, con particolare riguardo a quelli relativi a contratti ad alta intensità di manodopera…”. Essa deve essere incondizionatamente accettata dal subentrante, pena l’esclusione dalla gara, salva la possibilità di quest’ultimo di armonizzare l’indiscriminato dovere di assorbimento del personale dell’impresa uscente con il fabbisogno richiesto dall’esecuzione del nuovo contratto e con la pianificazione e l’organizzazione del lavoro propria del subentrante (cfr. da ultimo, Consiglio di Stato Sez. III, 05.05.2017, n. 2078).
Dinanzi a questo obbligo giuridico, temperato -all’attuale stato della giurisprudenza– dai soli aspetti organizzativi e oggettivi peculiari del subentrante,
non è seriamente esigibile dall’imprenditore un controllo personale, e un giudizio, altrettanto personale, sull’esistenza e influenza delle parentele dell’assumendo, sulle sue frequentazioni, o sulle indagini non ancora giunte ad un rinvio a giudizio (evento a seguito del quale la notizia è evincibile dal certificato dei carichi penali pendenti), e soprattutto, non è esigibile che esso imprenditore si sottragga agli obblighi assunzionali per ragioni soggettive (e non oggettive) in assenza di previsioni di legge che vietino l’instaurazione o la prosecuzione del rapporto, o comunque di informazioni qualificate, in quanto provenienti dalla Prefettura o dagli organi di Polizia, che rendano verosimile la sussistenza del rischio che l’assumendo possa essere un “cavallo di Troia” delle associazioni mafiose o anche semplicemente un soggetto “controindicato” ai fini antimafia, avuto riguardo al tipo di attività e al luogo di svolgimento della stessa.
Nel caso di specie, in assenza di meccanismi informativi predisposti dall’ordinamento, deve ritenersi secondo la logica del più probabile che non, e salvo quanto appresso si dirà in ordine alle singole posizioni lavorative, che è ben più probabile che l’assunzione di soggetti controindicati tra quelli già in servizio presso l’uscente, sia avvenuto in un quadro di inconsapevolezza delle ragioni di controindicazioni (diverse da quelle evincibili dalla certificazione penale).
Né, del resto l’amministrazione ha fornito una prova contraria, ossia che le assunzioni siano avvenute per compiacenza o sottomissione agli ambienti malavitosi.

APPALTI SERVIZI: Sull'inconfigurabilità di un obbligo, a carico del comune di aderire alla convenzione Consip per assicurare il servizio pubblico locale di illuminazione pubblica.
La giurisprudenza riconosce pacificamente la natura di servizio pubblico locale (di natura economica) dell'illuminazione pubblica e ritiene legittimo il suo affidamento secondo il modulo della concessione tramite project financing (quest'ultimo, peraltro, costituisce un modello ormai consolidato che si sta sostituendo alla vecchia prassi degli enti locali di affidare, peraltro senza gara, detto servizio a ENEL SOLE spa -società del gruppo ENEL dedicata all'illuminazione pubblica), al quale l'ente locale può ricorrere tra le varie modalità alternative possibili (assieme a appalto di lavori/servizi; ovvero finanziamento tramite terzi) oltre alla amministrazione diretta, inclusa l'amministrazione in economia, che costituiscono un ventaglio di opzioni tutte possibili e lecite.
La scelta di assicurare l'espletamento del servizio pubblico locale (a rete) in questione attraverso l'affidamento in concessione a seguito di un'ordinaria procedura ad evidenza pubblica, rispetto alle alternative modalità di gestione sopraindicate, o rispetto alla possibilità di aderire alla Convenzione Consip Servizio Luce 3, costituisce una facoltà discrezionale del Comune, sottratta al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo il caso in cui sia manifestamente inficiata da illogicità, irrazionalità, arbitrarietà od irragionevolezza, ovvero non sia fondata su di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti (che, però, non appaiono ravvisabili nel caso di specie) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 24.05.2018 n. 5781 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Differenza tra Soggetti accentratori e Centrali di committenza - Servizio pubblico locale di illuminazione e Convenzione Consip.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Soggetti aggiudicatori - Soggetti accentratori e Centrali di committenza – Differenza – Individuazione.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi - Servizio pubblico locale di illuminazione – Convenzione Consip – Adesione – Obbligo – Esclusione.
  
I Soggetti accentratori di cui all’art. 9, d.l. 24.04.2014, n. 66 sono figure diverse dalle Centrali di Committenza costituite da Comuni non Capoluogo di Provincia che sono, invece, riconducibili figura della Stazione Unica Appaltante di cui all’art. 13, l. 13.08.2010, n. 136 (d.P.C.M. 30.06.2011) (1).
  
Il Comune non è obbligato ad aderire alla Convenzione Consip per assicurare il servizio pubblico locale di illuminazione (inclusivo di manutenzione e adattamento tecnologico degli impianti), non risultando questo espressamente menzionato nell’elenco dei settori merceologici e di servizi contemplati dal d.P.C.M. 24.12.2015 (2).
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   (1) Ha ricordato il Tar che i Soggetti accentratori di cui all’art. 9, d.l. 24.04.2014, n. 66 hanno in comune con le Centrali di Committenza costituite da Comuni non Capoluogo di Provincia la funzione di aggregazione della domanda (operando entrambi come Centrali di Committenza), il Soggetto Aggregatore costituisce una Centrale di Committenza “qualificata” ed iscritta ex lege all’apposito elenco tenuto dall’ANAC.
A sua volta le Centrali di committenza costituite per iniziative dei Comuni non capoluogo, che pure costituiscono una species del genus della Centrale di committenza, presentano un quid pluris, in quanto costituiscono espressione diretta dell’autonomia negoziale dell’Ente esponenziale della Comunità locale, che risponde a principi e valori che superano il mero compito (tecnico) di aggregare la domanda, per conseguire risparmi di spese.
Ai sensi degli artt. 37, 38 e 216, comma 10, d.lgs. 18.04.2016, n. 80, nel regime transitorio, la mera iscrizione quale Centrale di committenza nell’Anagrafe Unica delle Stazioni appaltanti, di cui all’art. 33-ter d.l. 18.10.2012, n. 179 costituisce condizione sufficiente per operare come Centrale di committenza.
   (2) Ha ricordato il Tar che l’obbligo per i Comuni di avvalersi delle Convenzioni Consip ha natura diversa rispetto all’obbligo di tenere conto delle condizioni più vantaggiose da questa offerte (cd. benchmark) ai sensi dall’art. 26, l. n. 499 del 1988 e dall’art. 1, comma 449, l. 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria 2007). In quest’ultimo caso, l’obbligatorietà non investe l’intero contenuto della Convenzione CONSIP, ma solo i parametri “di prezzo-qualità”, che operano come “limiti massimi del prezzo per l'acquisto di beni e servizi”.
L’obbligo di aderire alle Convenzioni Consip, fatta salva la possibilità di procurarsi in autonomia beni e servizi, a condizione di motivare la relativa scelta, ove più vantaggiosa economicamente, esteso anche ai Comuni dall’art. 59, comma 5, l. n. 388 del 2000, poi abrogato dall’art. 1, comma 458, l. n. 297 del 2007, e successivamente reintrodotto dall’art. 9, d.l. n. 66 del 2014, sia aggiunge, e non sostituisce, altri obblighi posti da leggi settoriali e di contenimento della spesa pubblica (cd. spending review) preesistenti, (in particolare quelle) che sono espressamente richiamate dalla stessa legge.
Ha aggiunto il Tar -con riferimento all’inconfigurabilità di un obbligo, a carico del Comune di aderire alla Convenzione Consip per assicurare il servizio pubblico locale di illuminazione pubblica– che la scelta del Comune di assicurare l’espletamento del servizio pubblico locale (a rete) in questione attraverso l’affidamento in concessione a seguito di un'ordinaria procedura ad evidenza pubblica, rispetto alle alternative modalità di gestione sopraindicate, o rispetto alla possibilità di aderire alla Convenzione Consip Servizio Luce 3, costituisce una facoltà discrezionale del Comune, sottratta al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo il caso in cui sia manifestamente inficiata da illogicità, irrazionalità, arbitrarietà od irragionevolezza, ovvero non sia fondata su di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti.
Non si può configurare alcun obbligo, in tal senso, dal favor delle norme vigenti per le convenzioni della Consip, da cui può farsi discendere, semmai, solo “una peculiare presunzione di convenienza” delle convenzioni in parola (Cons. St., sez. V, n. 2194 del 2015) che comporta solo l’onere del Comune di motivare le relative scelte e di farle precedere da adeguata istruttoria (
TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 24.05.2018 n. 5781 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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L’eccezione va disattesa.
Nel caso in esame, le delibere del 2015 non avevano immediata efficacia lesiva, in quanto si incaricava il competente Ufficio comunale ad elaborare lo studio di fattibilità (ed, in caso, predisporre l’eventuale documentazione di gara) verifica che si sarebbe potuta anche concludere con esito negativo.
Si pone ancora il problema dell’inammissibilità/irricevibilità del ricorso per omessa o tardiva impugnazione della determinazione a contrarre n. 259 del 28.12.2017, sollevato dal Comune resistente, che eccepisce, oltre alla mancata impugnativa di detta Determinazione (non ritenendo a tal fine sufficiente il generico riferimento, “alla determinazione a contrarre, di data ignota”, nell’epigrafe del ricorso), in ogni caso, l’irricevibilità dell’impugnativa della stessa per tardività.
La questione dell’inammissibilità dei ricorsi avverso il bando di gara proposti senza impugnare la determinazione a contrarre è già stata affrontata recentemente da questo Tribunale (si veda, in tal senso, Tar Lazio, sez. II-bis, n. 4374/2018, secondo cui la delibera avrebbe dovuto essere impugnata immediatamente, senza attendere l’adozione del successivo bando, che, relativamente alla predetta scelta risulta meramente confermativo).
Si tratta tuttavia di principi che non possono trovare applicazione nel caso in esame, in cui la predetta determinazione non risulta essere mai stata pubblicata, sicché risulta sufficiente la cautelativa e generica menzione nell’indicazione degli atti impugnati contenuta nell’epigrafe del ricorso.
L’Amministrazione ha formulato in modo labiale l’eccezione, limitandosi ad asserire in via del tutto generica l’avvenuta rituale pubblicazione della predetta determinazione, senza tuttavia fornire alcuna prova di tale circostanza, non avendo depositato il relativo attestato di pubblicazione, a differenza di quanto fatto con le altre delibere. Né dagli atti di causa è desumibile alcun elemento indicativo dell’avvenuto adempimento.
Ne consegue che
non avendo il Comune soddisfatto l’onere della prova della pubblicazione di tale deliberazione su cui fondava l’eccezione di tardività, questa va disattesa.
Si passa, pertanto, ad esaminare il merito del ricorso.
Con il primo motivo di censura il ricorrente contesta la qualificazione della Centrale Unica di Committenza della XI Comunità Montana dei Castelli Romani e Prenestini ad agire ai sensi dell’art. 37 D.Lgs. n. 50/2016; doglianza alla quale l’Amministrazione resistente replica che la predetta risultava invece legittimata ad operare ai sensi dell’art. 216, comma 10, del d.lgs. n. 50/2016.
Come si è ricordato sopra, la scelta di affidare la procedura di gara in contestazione alla Centrale Unica di Committenza - Comunità Montana dei Castelli Romani e Prenestini, ai sensi dell’art. 37, co. 3 (rectius 4), D.Lgs. n. 50/2016 risale alla determinazione a contrarre n. 259 del 28.12.2017, con cui è stata approvata la legge di gara (bando e disciplinare), affidandone lo svolgimento alla Centrale di Committenza in contestazione.
Ad essa il Comune aveva aderito con delibera del C.C. n. 2 del 28.01.2015, sottoscrivendo in data 03.02.2015 la relativa convenzione ai sensi dell’art. 33, co. 3-bis, D.Lgs. n. 153/2006. Detta Comunità montana aveva presentato richiesta di iscrizione all’elenco dei Soggetti Aggregatori che però è stata respinta dall’ANAC con delibera n. 23.07.2015 perché ritenuta carente dei requisiti oggettivi prescritti dall’art. 2, co. 2, DPCM 11.11.2014.
Tale circostanza è invocata dalla società ricorrente nel primo motivo di ricorso ove lamenta la violazione degli artt. 37 e 38 del Codice appalti per difetto di qualificazione della stazione appaltante.
La doglianza non è condivisibile.
Per meglio comprendere i termini della controversia,
giova premettere un breve richiamo alla normativa in tema di soggetti accentratori, rinviando, per il resto all’analisi degli istituti effettuata dalla giurisprudenza in materia (TAR Lazio, Sez. III, n. 2339/2016).
L'art. 33-ter del d.l. 18.10.2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla l. 17.12.2012, n. 221, aveva istituito l'Anagrafe unica delle stazioni appaltanti (AUSA), presso l'AVCP, obbligando le stazioni appaltanti a richiedere l'iscrizione ai sensi dell'art. 62-bis d.lgs. 07.03.2005, n. 82.
L'art. 9 del D.L. n. 66/2014 (conv. in legge 89/2014), commi 1 e 2, ha istituto, nell’ambito della predetta Anagrafe, un ulteriore elenco, quello dei «soggetti aggregatori», al quale sono iscritti “di diritto” Consip S.p.A. e una centrale di committenza per ogni Regione (ove costituita ai sensi dell'articolo 1, comma 455, della legge 27.12.2006, n. 296) e, previa valutazione del possesso di specifici requisiti individuati con DPCM (11.11.2014), anche «i soggetti diversi da quelli di cui al comma 1 che svolgono attività di centrale di committenza ai sensi dell’art. 33 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163», fino ad un massimo di 35 soggetti. Il sistema è stato confermato anche dal nuovo Codice del 2016 che all’art. 213, co. 16, ha affidato all’ANAC il compito di gestire tale elenco.
In effetti, nel nuovo elenco, compilato dall’ANAC a seguito della riapertura dei termini per la presentazione delle domande, risulta iscritta solo la Città Metropolitana di Roma Capitale, unitamente a qualche altra Provincia (Delibera n. 31 del 17.01.2018) e non risulta inserita la Centrale di Committenza della Comunità Montana in parola. Però, tra i 35 soggetti aggregatori non risulta inserita nessun’altra entità analoga. Inoltre dalla Delibera n. 31 del 17.01.2018 non risulta nemmeno che la Centrale in questione abbia ripresentato la domanda e che questa sia stata respinta (come invece riportato nella delibera n. 23.07.2015).
E non a caso, vista la diversità delle figure in questione.
Infatti il medesimo art. 9 del D.L. n. 66/2014 (conv. in legge n. 89/2014) soprarichiamato, oltre ad istituire ai commi 1 e 2 l’elenco dei Soggetti Accentratori, stabilendone il numero massimo (35 operatori), al successivo comma 4, modifica l’allora vigente Codice, disponendo all’art. 33, comma 3-bis, per i Comuni non capoluogo di provincia che essi procedono all’acquisizione di lavori, beni e servizi nell’ambito delle unioni dei Comuni di cui all’articolo 32 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i Comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici anche delle Province, ovvero ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle Province, ai sensi della legge 07.04.2014, n. 56. In alternativa, gli stessi Comuni possono acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro soggetto aggregatore di riferimento.
La mancata inclusione della Centrale di Committenza della Comunità Montana in questione nell’elenco dei 35 “Soggetti Aggregatori” soprarichiamati, pertanto, non comporta le conseguenze ipotizzate dalla società ricorrente dato che si tratta di figure diverse.
La censura è frutto di un equivoco scaturito dal problema del complesso intreccio di normative che non ha trovato sistemazione nel vigente Codice, come rilevato già dai primi commentatori. In particolare è stato osservato che “la previsione legale di un numero massimo di 35 soggetti aggregatori non affronta però il problema della perdurante esistenza di altre centrali di committenza, che possono continuare ad operare, sia pure fuori dall’ambito dei casi in cui le varie leggi che si sono succedute, nel prevedere obblighi di ricorso a centrali di committenza, facciano riferimento solo ai soggetti aggregatori”.
Inoltre viene precisato che “La legislazione esterna al codice, quando prevede obblighi di ricorso a centrali di committenza, fa in genere riferimento a CONSIP, alle Centrali di Committenza regionali o alla nuova tipologia di Soggetti Aggregatori, prevista dal D.L. n. 66/14. Diversamente, il Codice, per i Comuni non Capoluogo di Provincia, contempla la possibilità di avvalersi anche di centrali di committenza diverse”.
Mentre i Soggetti Aggregatori sopraindicati sono Centrali di Committenza “qualificate” mediante l’iscrizione nell’elenco predetto, la Centrale di Committenza costituita dai Comuni non Capoluogo è riconducibile alla Stazione Unica Appaltante di cui all’art. 13 della legge n. 136/2010 (DPCM 30.06.2011) -che dà attuazione all’art. 33 del Codice Appalti del 2006- come chiarito dall’ANAC con Determinazione n. 3 del 25.02.2015 (nonché Determinazione n. 11 del 23.09.2015), che ha in tal modo risolto lo spinoso problema del rapporto tra le Stazioni Uniche Appaltanti di cui all’art. 13 della legge n. 136/2010 ed i Soggetti Aggregatori previsti dall’art. 9 del D.L. n. 66/2014 (conv. in legge n. 89/2014), chiarendo che i due istituti hanno in comune la natura di centrale di committenza, alla quale, tuttavia, il Soggetto Aggregatore unisce un’ulteriore qualità, consistente nell’abilitazione derivante dalla “qualificazione” conseguita ex lege o previa valutazione e iscrizione nell’elenco ANAC.
Tale impostazione ha trovato favorevole seguito nella dottrina, che ha evidenziato che anche il nuovo Codice, seppure senza farvi espresso riferimento, consente ai Comuni non capoluogo di ricorrere alle SUA ex art. 13 (a condizione che siano iscritte nell’AUSA e, in futuro, che conseguano la qualificazione richiesta alle stazioni appaltanti), in quanto costituiscono una “species del genus” della Centrale di Committenza.
Inoltre va osservato che, a loro volta, le stesse Centrali di Committenza formate dall’iniziativa comunale, presentano un quid pluris, in quanto costituiscono espressione diretta dell’autonomia negoziale dell’Ente esponenziale della Comunità locale, che risponde a principi e valori che superano il mero compito (tecnico) di aggregare la domanda, per conseguire risparmi di spese, che è comune anche ai Soggetti aggregatori (cioè di fungere da “centrale di acquisto”, in modo di ottenere «economie di scala», aumentare la conoscenza dello specifico settore, riducendo le asimmetrie informative, incrementando la competenza e l’efficienza della parte contrattuale pubblica), che però risultano “neutri” sotto il profilo sopraevidenziato.
Ne discende che dal mancato inserimento della Comunità Montana dei Castelli Romani e Prenestini nell’elenco dei soggetti aggregatori deriva solo l’incapacità dell’Ente in parola di operare come Soggetto Aggregatore della Domanda, ma non anche la sua incapacità di operare come Centrale di Committenza per l’Unione dei Comune che ne fanno parte.
A tal fine è infatti sufficiente, come previsto dall’art. 216, co. 10, del Codice, richiamato anche dall’art. 38, co. 8, la mera iscrizione quale Centrale di Committenza nell’Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti, di cui all’articolo 33-ter del decreto legge 18.10.2012, n. 179 (conv. in legge n. 221/2012); questa costituisce condizione necessaria e sufficiente per consentire alla Comunità Montana in parola di operare come Centrale di Committenza almeno nel regime transitorio delineato dall’art. 216, co. 10, del Codice, fino all’entrata a regime del sistema di qualificazione di cui all’art. 38 del Codice, come ribadito anche dalla Delibera ANAC n. 911 del 31.08.2016.
Si passa pertanto ad esaminare la seconda censura, relativa alla scelta del Comune di Montecompatri di avvalersi della procedura in contestazione, anziché aderire alla Convenzione Consip LUCE 3, senza tener conto delle condizioni più vantaggiose da questa offerte.
Come ammesso dalla stessa ricorrente, la normativa generale sulla centralizzazione degli acquisti in funzione del risparmio da economia di scala è questione complicata, dato l’intreccio di svariate disposizioni contenute nelle leggi sul contenimento della spesa pubblica centrale e locale (spending review), sulle leggi di stabilità, nonché, in varie leggi settoriali, che pongono problemi di individuazione, ancor prima che di interpretazione e coordinamento, della norma applicabile. Si tratta di un coacervo di norme che il Codice ha rinunciato a “sistematizzare”, limitandosi ad un generico rinvio alle “vigenti disposizioni in materia di contenimento di spesa”, le quali finiscono per costituire un “sistema parallelo”, come evidenziato già dai primi Commentatori.
Sulla questione dell’obbligatorietà, per gli Enti Locali, di avvalersi della Convenzione CONSIP (e poi di analoghe convenzioni predisposte da Soggetti Aggregatori) l’evoluzione normativa è stata ondivaga, alternando facoltatività ed obbligatorietà dell’adesione alle Convenzioni CONSIP per determinate Amministrazioni, passando per l’imposizione di parametri di prezzi e costi, non superabili dalle Amministrazioni ove autorizzate ad acquisire beni e servizi autonomamente, attraverso un'ordinaria procedura a evidenza pubblica, oppure condizionando tale autonomia negoziale alla dimostrazione del conseguimento di un vantaggio in termini di spesa.
Anche in questo caso
giova premettere un breve richiamo alla ricostruzione della normativa in materia, come operato dalla dottrina e giurisprudenza maggioritaria.
L’art. 26 della legge n. 499/1988 non obbliga le amministrazioni pubbliche ad avvalersi delle convenzioni CONSIP, ma prevede solo che queste ne “utilizzano i parametri di prezzo-qualità, come limiti massimi, per l'acquisto di beni e servizi comparabili oggetto delle stesse anche utilizzando procedure telematiche per l'acquisizione di beni e servizi ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 04.04.2002, n. 101” (quest’ultimo era stato abrogato dalla lettera g del comma 1 dell'art. 358, D.P.R. 05.10.2010, n. 207, a decorrere dall'08.06.2011; lo stesso articolo 26 della legge n. 488/1999 in esame, che ad esso faceva riferimento, era stato abrogato dal comma 209 dell'art. 1, L. 27.12.2006, n. 296, ma l'abrogazione non è stata confermata nella versione del comma 209, come modificato dal comma 6-bis dell'art. 15, D.L. 02.07.2007, n. 81, aggiunto dalla relativa legge di conversione).
L’ambito applicativo di tale previsione è chiarito dall’art. 58, co. 1, della legge n. 388/2000 -legge finanziaria 2001- precisando che “ai sensi di quanto previsto dall'articolo 26, comma 3, della legge 23.12.1999, n. 488, per pubbliche amministrazioni si intendono quelle definite dall'articolo 1 del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29” -quindi inclusi gli enti locali– e che “le convenzioni di cui al citato articolo 26 sono stipulate dalla Concessionaria servizi informatici pubblici CONSIP Spa”.
Una norma analoga a quella ricavabile dall’art. 26 della legge n. 499/1988 è riportata all’art. 1, co. 449, della legge n. 296/2006 (legge finanziaria 2007), che, da un lato, obbliga le sole amministrazioni statali ad approvvigionarsi utilizzando le convenzioni-quadro, dall’altro, conferma, per le restanti amministrazioni, inclusi quindi gli enti locali, la mera facoltatività del ricorso alle convenzioni CONSIP, ribadendo, tuttavia, l’obbligo ad utilizzarne i parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti.
L'art. 1, comma 458, della legge n. 296 in parola, peraltro, dispone l’abrogazione dell’art. 59 della legge finanziaria per il 2001 soprariportata, che prevedeva l’aggregazione degli acquisti di beni e servizi a rilevanza regionale, specificando che “agli enti locali e alle università che non aderiscono alle convenzioni si applicano le disposizioni di cui al comma 3 dell'articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488” precisando che “Gli enti devono motivare i provvedimenti con cui procedono all'acquisto di beni e servizi a prezzi e a condizioni meno vantaggiosi di quelli stabiliti nelle convenzioni suddette e in quelle di cui all'articolo 26 della citata legge n. 488 del 1999”.
In sostanza, l’obbligatorietà non investe l’intero contenuto della Convenzione CONSIP, dato che la scelta di agire in autonomia dell’Ente viene salvaguardata (anche se sottoposta ad un rigoroso procedimento aggravato, nonché ad un regime di controlli, di pubblicità e di responsabilità delle relative decisioni, come specificato nel ripetuto art. 26 ai commi 3 e seguenti), ma semmai “i parametri di prezzo-qualità, come limiti massimi, per l'acquisto di beni e servizi” individuati in tale convenzione.
L’art. 59, co. 5, della legge n. 388/2000 prevedeva l’obbligo, anche per i Comuni, di aderire alle Convenzioni Consip, fatta salva la possibilità di procurarsi in autonomia beni e servizi, a condizione di motivare la relativa scelta, ove più vantaggiosa economicamente. Tale disposizione è stata successivamente abrogata dall’art. 1, co. 458, della legge n. 297/2007.
Un analogo onere è stato reintrodotto dall’art. 9 del D. L. n. 66/2014 (già richiamato sopra con riferimento all’istituzione nell'ambito dell'Anagrafe unica delle stazioni appaltanti dell'elenco dei Soggetti Aggregatori) il cui comma 3 stabilisce che “Fermo restando quanto previsto all'articolo 1, commi 449, 450 e 455, della legge 27.12.2006, n. 296, all'articolo 2, comma 574, della legge 24.12.2007, n. 244, all'articolo 1, comma 7, all'articolo 4, comma 3-quater e all'articolo 15, comma 13, lettera d), del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (….) entro il 31 dicembre di ogni anno, sulla base di analisi del Tavolo dei soggetti aggregatori e in ragione delle risorse messe a disposizione ai sensi del comma 9, sono individuate le categorie di beni e di servizi nonché le soglie al superamento delle quali le amministrazioni statali (….) nonché le regioni, gli enti regionali, gli enti locali di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, nonché loro consorzi e associazioni, e gli enti del servizio sanitario nazionale ricorrono a Consip S.p.A. o agli altri soggetti aggregatori di cui ai commi 1 e 2 per lo svolgimento delle relative procedure. Per le categorie di beni e servizi individuate dal decreto di cui al periodo precedente, l'Autorità nazionale anticorruzione non rilascia il codice identificativo gara (CIG) alle stazioni appaltanti che, in violazione degli adempimenti previsti dal presente comma, non ricorrano a Consip S.p.A. o ad altro soggetto aggregatore”.
In attuazione di tale disposizione il D.P.C.M. 24.12.2015 individua un elenco di beni e servizi standardizzati per i quali tutte le Amministrazioni pubbliche, inclusi gli Enti Locali, non possono effettuare acquisti con procedure autonome, ma sono costrette ad avvalersi della Convenzione Consip.
Ove questa non sia disponibile, invece, resta salva l’autonomia negoziale dell’Istituzione, che però è tenuta al rispetto di parametri di prezzo e costo, prefissati nel limite massimo dall’ANAC, a pena di nullità dei contratti conclusi in violazione di essi (violazione che è altresì causa di responsabilità erariale), come sancito dal successivo comma 7 dell’art. 9 del DL 66/1994. Quest’ultimo comma prevede che “I prezzi di riferimento pubblicati dall'Autorità e dalla stessa aggiornati entro il 1° ottobre di ogni anno, sono utilizzati per la programmazione dell'attività contrattuale della pubblica amministrazione e costituiscono prezzo massimo di aggiudicazione, anche per le procedure di gara aggiudicate all'offerta più vantaggiosa, in tutti i casi in cui non è presente una convenzione stipulata ai sensi dell'articolo 26, comma 1, della legge 23.12.1999, n. 488, in ambito nazionale ovvero nell'ambito territoriale di riferimento. I contratti stipulati in violazione di tale prezzo massimo sono nulli”.
Nel caso in esame la previsione di obbligatoria adesione alla Convenzione Consip sancita dall’art. 9, co. 3, non trova applicazione in quanto il servizio pubblico locale di illuminazione pubblica non risulta espressamente menzionato nell’elenco dei settori merceologici e di servizi contemplati dal DPCM del 24.12.2015 (adottato in attuazione dell’art. 9, co. 3, in parola). E non a caso, dato che il suddetto decreto include categorie di beni (soprattutto prodotti sanitari, farmaci, vaccini) e servizi standardizzati (quali pulizie, vigilanza etc.) che non sono equiparabili a quello in esame.
Non solo, ma l’art. 9, co. 3, in parola fa comunque salve le specifiche previsioni di aggregazione delle commesse a fini di contenimento della spesa contenute nelle disposizioni espressamente richiamate, in particolare l’art. 1, comma 7, del decreto-legge n. 95/2012 (conv. in legge n. 135/2012), che, a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 1, comma 494, L. 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità) e dall'art. 1, comma 417, L. 27.12.2017, n. 205, così recita: “Fermo restando quanto previsto all'articolo 1, commi 449 e 450, della legge 27.12.2006, n. 296, e all'articolo 2, comma 574, della legge 24.12.2007, n. 244, quale misura di coordinamento della finanza pubblica, le amministrazioni pubbliche (…) relativamente alle seguenti categorie merceologiche: energia elettrica, gas, carburanti rete e carburanti extra-rete, combustibili per riscaldamento, telefonia fissa e telefonia mobile, sono tenute ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni o gli accordi quadro messi a disposizione da Consip S.p.A. e dalle centrali di committenza regionali di riferimento costituite ai sensi dell'articolo 1, comma 455, della legge 27.12.2006, n. 296, ovvero ad esperire proprie autonome procedure nel rispetto della normativa vigente, utilizzando i sistemi telematici di negoziazione messi a disposizione dai soggetti sopra indicati. (….) È fatta salva la possibilità di procedere ad affidamenti, nelle indicate categorie merceologiche, anche al di fuori delle predette modalità, a condizione che gli stessi conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure di evidenza pubblica, e prevedano corrispettivi inferiori almeno (….) del 3 per cento per le categorie merceologiche carburanti extra-rete, carburanti rete, energia elettrica, gas e combustibili per il riscaldamento rispetto ai migliori corrispettivi indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip SpA e dalle centrali di committenza regionali”.
Però,
il servizio di illuminazione pubblica non è riconducibile al servizio di mera fornitura di energia, come chiarito dalla giurisprudenza in materia.
Risulta decisivo, al riguardo, quanto osservato dal Supremo Consesso, secondo cui il servizio di illuminazione pubblica non forma oggetto dell’obbligo di adesione alle Convenzioni Consip, neppure ai sensi dell'art. 1, comma 7, del d.l. n. 95/2012, relativa alla fornitura di energia, nonché le attività finalizzate al conseguimento del risparmio energetico ai sensi dell’art. 153, commi 1-19, del D.Lgs. n. 163 del 2006, in quanto l’ambito applicativo della normativa citata riguarda “esclusivamente i contratti aventi ad oggetto la sola fornitura di energia elettrica e non quelli (…) di concessione di lavori e servizi in cui l’oggetto è costituito da attività complessa, con affidamento di servizi/lavori per la gestione integrata del servizio di illuminazione stradale, ivi compresa la progettazione ed esecuzione degli interventi di messa a norma dell'impianto con sostituzione dei pali e delle armature e di ammodernamento tecnologico e funzionale dello stesso, etc.” (si veda, da ultimo, Cons. Stato, sez. V, n. 2392/2018; cfr., in precedenza, Cons. Stato, sez. V, n. 2194/2015; cfr., TAR Sicilia, Palermo, sez. II, n. 1007/2006, che si pone altresì il problema dell’applicabilità della disciplina sui settori esclusi, poi risolto evidenziando che una cosa è la manutenzione delle reti fisse ed altra è la produzione, trasporto e distribuzione di energia e alimentazione delle suddette reti).
Va inoltre ricordato, sul piano del raggiungimento dell’obiettivo prefissato dalla previsione della spending review in parola, che la modalità centralizzata di acquisto della fornitura di energia mediante Convenzione Consip non è risultata neppure in assoluto più o meno conveniente rispetto alle condizioni spuntate da diversi Comuni, anche di piccole dimensioni, che “sono apparsi tecnicamente preparati per affrontare le gare fuori convenzione”, sfruttando i margini di flessibilità per l’adeguamento ai rapidi cambiamenti di mercato ed adeguando il servizio alle specifiche esigenze dell’ente (Analisi degli Affidamenti in deroga alle Convenzioni Consip di energia elettrica ed altre forniture di materie prime combustibili, Comunicato ANAC 04.11.2015).
Comunque anche il Collegio ritiene che l’attività che si intende affidare con la procedura in contestazione non sia affatto riconducibile al mero servizio energia, ma rientri, invece, tra servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica di cui all’art. 3-bis del D.L. 13/08/2011, n. 138 (conv. in legge n. 148/2011), per i quali la predetta disposizione prevede criteri di organizzazione, demandando espressamente “le funzioni di organizzazione degli stessi, di scelta della forma di gestione, di affidamento della gestione e relativo controllo agli enti di governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei (….)”; precisando che la motivazione sulla forma di affidamento prescelta nell’apposita relazione da pubblicare sul sito internet degli organi di governo interessati ai sensi dell'art. 34, co. 20, DL n. 179/2012, come ricordato anche dall’ANAC nel Comunicato del Presidente del 14.09.2016 che, oltre a ribadire l’illegittimità dell’affidamento del servizio a ENEL Sole, al di fuori di ogni procedura pubblica, invita gli Enti Locali a utilizzare gli altri strumenti disponibili, soprarichiamati, nel rispetto del Codice e del DL 179/2012 cit.).
Ne consegue che, alla luce degli elementi sopraindicati, vanno dissipati i dubbi della ricorrente –su cui è incentrato il terzo motivo di ricorso che conviene esaminare nell’ambito della trattazione del secondo motivo- sulla correttezza della ricostruzione in termini concessori dell’appalto di lavori e servizi in contestazione.
La ricorrente, infatti, ripropone questioni già da tempo risolte dalla giurisprudenza, che riconosce pacificamente la natura di servizio pubblico locale (di natura economica) dell’illuminazione pubblica (cfr. Cons. St., sez. V, n. 8090/2004 e n. 8232/2010) e ritiene legittimo il suo affidamento secondo il modulo della concessione tramite project financing (quest’ultimo, peraltro, costituisce un modello ormai consolidato che si sta sostituendo alla vecchia prassi degli enti locali di affidare, peraltro senza gara, detto servizio a ENEL SOLE spa -società del gruppo ENEL dedicata all’illuminazione pubblica), al quale l’ente locale può ricorrere tra le varie modalità alternative possibili (assieme a appalto di lavori/servizi; ovvero finanziamento tramite terzi) oltre alla amministrazione diretta, inclusa l’amministrazione in economia, che costituiscono un ventaglio di opzioni tutte possibili e lecite (come ricordato nella stessa Comunicazione ANAC; si veda, in giurisprudenza, TAR Emilia Romagna, Parma, n. 148/2012).
La scelta di assicurare l’espletamento del servizio pubblico locale (a rete) in questione attraverso l’affidamento in concessione a seguito di un'ordinaria procedura ad evidenza pubblica, rispetto alle alternative modalità di gestione sopraindicate, o rispetto alla possibilità di aderire alla Convenzione Consip Servizio Luce 3, costituisce una facoltà discrezionale del Comune, sottratta al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo il caso in cui sia manifestamente inficiata da illogicità, irrazionalità, arbitrarietà od irragionevolezza, ovvero non sia fondata su di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti (cfr., tra tante, da ultimo, TAR Veneto, sez. I, n. 811/2017) che, però, non appaiono ravvisabili nel caso di specie.
Non convince nemmeno il richiamo al favor delle norme vigenti per le convenzioni della Consip -anche quando la relativa adesione non sia obbligatoria- desumibile anche dal fatto che queste, in difetto di adesione, rilevano comunque come parametri di prezzo-qualità fungenti da limiti massimi per la stipulazione dei contratti, in quanto da essi può farsi discendere, semmai, solo “una peculiare presunzione di convenienza” delle convenzioni in parola, alla quale “corrisponde pertanto, per le Amministrazioni, una sorta di regola di azione” (Cons. Stato, sez. V, n. 2194/2015) che comporta solo di motivare le relative scelte, facendole precedere da adeguata istruttoria (cfr. TAR Sicilia, Palermo, sez. III n. 2033/2017).
Ma, appunto, come osservato in via preliminare, è in sede di programmazione dell’intervento che il Comune resistente ha svolto l’attività di indagine per stabilire se convenisse o meno procedere autonomamente all’affidamento del servizio pubblico locale di illuminazione stradale (studio di fattibilità del progetto per la gestione e riqualificazione energetica degli impianti di illuminazione del territorio comunale, da porre a base di gara, con relativi studi economici) che ha indotto la GM ad approvare il progetto preliminare (sulla base della relazione preliminare e analisi economica allegata al progetto) con deliberazione della Giunta Municipale n. 147 del 22.10.2015 –intervento successivamente inserito nel Programma Triennale con Delibera n. 145/2017 e validato con DD 258/2017- di cui si dà atto nella determinazione a contrarre n. 259 del 28.12.2017, e che costituisce la motivazione della scelta finale (cioè questa è data, principalmente, mediante rinvio, per relationem, della determinazione predetta agli atti preparatori sopraindicati, che contengono le valutazioni di opportunità e convenienza della scelta di indire una gara ad hoc di competenza degli organi di governo dell’Ente Locale).
Nella sostanza, invece, la scelta in contestazione può essere sindacata solo nei limiti soprarichiamati del riscontro dell’eventuale palese irragionevolezza della decisione; ipotesi che, però, non è ravvisabile nel caso in esame alla luce delle specifiche esigenze di manutenzione e gestione d’esercizio della rete degli impianti di illuminazione e semaforici rappresentate dalla Stazione appaltante, in considerazione della vetustà, della localizzazione e caratteristiche degli impianti stessi, dell’incapacità tecnico-organizzativa e finanziaria dell’Ente a provvedere altrimenti.
In sostanza la decisione di ricorrere al modello della concessione in project financing è stata assunta per sfruttare il know how e le disponibilità finanziare dell’impresa aggiudicataria, scaricando su di essa i costi per la progettazione ed esecuzione dei complessi interventi richiesti, da questa assunti a fronte del diritto di gestione funzionale e sfruttamento economico delle opere realizzate.
Si tratta di ragioni che hanno già indotto numerosi enti locali ad avvalersi di tale possibilità anziché aderire alla Convenzione SERVIZIO LUCE 3, anche in considerazione delle criticità della stessa rilevate in sede di consultazione ANCI (in particolare si fa riferimento alla rigidità dello strumento ed alla difficoltà di prendere adeguatamente in considerazione le esigenze delle varie realtà locali; delle conseguenze economico-sociali, nonché degli effetti sulla concorrenza e la possibilità di accesso al mercato per le PMI e delle ricadute in termini di innovazione tecnologica etc.).
Per il resto, si tratta di scelte basate su “valutazioni di convenienza ed opportunità” che sono solo limitatamente apprezzabili in questa sede, in cui si deve solo verificare che l’Amministrazione non abbia superato i limiti posti dal canone di ragionevolezza e proporzionalità; evenienza che non pare essersi verificata, almeno allo stato degli atti e sulla base degli elementi di valutazione evidenziati in questa sede.
Non può, pertanto, essere seguita la prospettazione della parte ricorrente, ove si addentra nel cuore delle valutazioni contabili dell’operazione per dimostrarne l’antieconomicità, rispetto alla Convenzione, in particolare sotto il profilo del valore del canone annuale (€ 167.258,26 €/anno, per un importo complessivo della convenzione pari a: € 1.505.324,34); della durata più vantaggiosa (9 anni anziché 20: secondo la ricorrente prima gli impianti tornano nella proprietà del Comune, prima questo potrà beneficiare di tutti i risparmi derivanti dagli interventi di messa in efficienza che, invece, in corso della concessione sono a beneficio del fornitore); della minore incidenza degli investimenti (quelli per la riqualificazione energetica e normativa degli impianti a carico del fornitore si attestano sulla quota del 45%-50% dell’importo complessivo del canone per circa 720.000,00 €); del tetto massimo per gli interventi extra canone (nella convenzione Consip gli enti possono impegnare una quota massima del 20% del complessivo a canone per ulteriori interventi, mentre nell’appalto in contestazione tale quota è di circa: 300.000,00 €; la quota extracanone deve essere anticipata dal fornitore nel 1° anno contrattuale e finanziata a tasso zero per tutti gli anni di convenzione; per un investimento sull’impiantistica per 1.020.000,00 € la Convenzione Consip richiede un importo annuale massimo di 200.591,59 €/anno (somma del canone ordinario e di quello extra), mentre nell’affidamento comunale per lo stesso sono preventivati 210.728,57 €/anno risultato IVA esclusa.
Si tratta di rilievi di natura contabile ai quali il Comune ha replicato eccependo innanzitutto che i servizi non sono comparabili, attesa la maggior complessità dell’attività oggetto di appalto (lavori e servizi complessi), che i prezzi nemmeno sono confrontabili in quanto il prezzo di circa 210 mila euro per annualità previsto dal Comune costituisce solo la base d'asta (quindi non è confrontabile con i 200 mila previsti nella Convenzione Luce 3 che invece sono prefissati ed insuscettibili di essere abbassati, a seguito di offerte migliorative).
Rappresenta inoltre che la Convenzione Consip non comprende attività migliorative che vanno pagate a parte; inoltre nel capitolato del Comune di Monte Compatri sono previsti investimenti per 1.636.948,00 euro (per l’adeguamento normativo e l’efficientamento energetico degli impianti nonché il miglioramento tecnologico e della gestione degli stessi) che non potrebbero essere coperti mediante il ricorso alla Convenzione Consip (l’importo presupposto per l’intero servizio richiesto valutato in euro 1.505.324,34, nell’arco del periodo temporale dei nove anni); inoltre nel capitolato Consip i costi di manutenzione straordinaria sono previsti nella misura massima del 10% dell’intero appalto, che comporta investimenti previsti per soli 150.532,43 €.
Infine il Comune rappresenta che i prezzi per gli interventi straordinari previsti nel disciplinare della Consip sono più alti rispetto al prezzario regionale così come i costi manutentivi per punto luce della convenzione sono in media superiori del 25% a quelli del bando proposto dal Comune. In conclusione difende il proprio operato affermando di aver rispettato i parametri della Convenzione che “non impongono un prezzo identico, ma un prezzo proporzionale a quanto ottenuto dall'Ente in relazione ai benefici ottenuti”.
In ogni caso, anche a ritenere minore il prezzo previsto dalla Consip per un servizio “standardizzato” non può essere assunto a confronto con quello previsto per un servizio “personalizzato”, più complesso, progettato proprio per rispondere meglio alle esigenze dell’ente locale in parola, per cui vi è comunque una convenienza economica per il Comune a bandire una procedura specifica sulla base della relazione tecnica presentata (Cons. Stato, sez. V, 28.03.2018, n. 1937).
Il Collegio osserva che le questioni di opportunità e valutazioni di convenienza economica dell’operazione in questione non possono essere utilmente prospettate dalla ricorrente in questa sede di giudizio di legittimità (semmai, avrebbero potuto essere prospettate dalla ricorrente all’ANAC, sollecitandone il parere precontenzioso), eventualmente rientrando –laddove comportanti fattispecie di danno erariale- nell’ambito della giurisdizione di responsabilità del giudice contabile.
Quanto alla durata della concessione, peraltro, va ricordato che l’art. 168 prevede che essa debba essere proporzionata al periodo di tempo necessario al recupero degli investimenti e sufficientemente ampio da non scoraggiare gli operatori ad intervenire in un settore di mercato che non rende prevedibili prospettive di reddittività in tempi brevi.
Come evidenziato dalla stessa CONSIP anche nel corso delle consultazioni con gli operatori di settore, il servizio pubblico locale di illuminazione comporta interventi con caratteristiche tecniche complesse, su impianti vetusti, in mancanza di risorse economiche, con ampi margini di incertezza sulla redditività, che espone l’operatore ad elevati rischi, e necessità di predisporre di piani di intervento per adeguarli a nuove esigenze, etc.
Per tale ragione la maggior parte delle amministrazioni locali si è orientata su periodo analogo a quello della gara oggetto di contestazione. In tale quadro di elementi, le considerazioni della ricorrente non sono sufficienti per considerare l’arco temporale indicato dal Comune resistente “irragionevole”, non essendo stato dimostrato che la durata ventennale risulta ingiustificata, tenuto conto anche delle particolari caratteristiche del servizio locale in questione e della specifiche condizioni tecnologiche degli impianti e dell’impegno finanziario necessario al loro adeguamento.
Con l’ultimo motivo di censura, infine, la ricorrente lamenta l’eccessiva brevità del termine per proporre l’offerta stabilita dalla lex specialis. Successivamente alla proposizione del ricorso, tuttavia, la resistente ha disposto una proroga del termine di scadenza al 18.6.2018, sicché è venuto meno l’interesse all’esame delle doglianze in parola.
In conclusione, il ricorso è infondato e deve essere respinto.

EDILIZIA PRIVATA: Priva di pregio risulta la censura incentrata sulla omissione della fase partecipativa al procedimento (violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990), in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
D’altro canto, anche a voler ammettere in subiecta materia la predicabilità degli adempimenti in questione, deve rilevarsi come, venendo in rilievo atti dovuti, le violazioni procedimentali denunciate dequotano –secondo il costrutto normativo di cui all’articolo 21-octies della legge n. 241/1990– a mere irregolarità.
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I provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.
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La realizzazione di opere in mancanza dei prescritti titoli abilitativi, di per se stessa, fonda la reazione repressiva dell’organo di vigilanza.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto: l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
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3.1.1 - Priva di pregio risulta, poi, la censura incentrata sulla omissione della fase partecipativa al procedimento (violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990), in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
D’altro canto, anche a voler ammettere in subiecta materia la predicabilità degli adempimenti in questione, deve rilevarsi come, venendo in rilievo atti dovuti, le violazioni procedimentali denunciate dequotano –secondo il costrutto normativo di cui all’articolo 21-octies della legge n. 241/1990– a mere irregolarità.
3.2 - Infondato è pure il secondo motivo relativo alla carente motivazione dell’ingiunzione, alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale a mente del quale “i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione” (da ultimo, questa Sezione, con sent. 10/05/2018 n. 720).
3.3 - Parimenti infondata si rivela l’ulteriore censura con cui parte ricorrente lamenta l’insufficienza del corredo motivazionale dell’atto impugnato con particolare riferimento alla astratta sanabilità dell’intervento.
Vale, infatti, ribadire che la realizzazione delle opere in questione, in mancanza dei prescritti titoli abilitativi, di per se stessa, fonda la reazione repressiva dell’organo di vigilanza.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto: l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 24.05.2018 n. 821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’attività del Comune mira a reprimere l’abuso complessivamente considerato ovvero l’edificazione di un manufatto abusivo con le relative pertinenze, da considerarsi autonoma unità immobiliare.
Nel caso di specie, stante l’evidente unitarietà funzionale delle opere contestate, l'Amministrazione è obbligata ad effettuare, evitando artificiose frammentazioni, una valutazione complessiva e non atomistica dell'intervento edilizio, giacché il pregiudizio recato al regolare assetto del territorio deriva non dal singolo intervento ma dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio.

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6 - Anche il terzo ed ultimo ricorso per motivi aggiunti è infondato.
6.1 - Generico si rivela il primo motivo, nel quale il ricorrente non specifica chiaramente in cosa si sia sostanziata la violazione delle garanzie partecipative, tenuto conto che nell’atto si menziona il preavviso di rigetto inoltrato, senza seguito, al ricorrente.
6.2 - Quanto all’incompetenza del funzionario, all’omessa acquisizione del parere della Soprintendenza ed alla rilevanza della sanabilità dei manufatti di cui all’ingiunzione n. 69/12 si rinvia a quanto argomentato ai precedenti punti 3.1, 3.3 e 4.2.
6.3 - Non ha, infine, pregio la doglianza secondo cui il Comune avrebbe erroneamente applicato la medesima sanzione (demolizione) ad opere minori non esprimenti nuova volumetria (quali gradini di accesso all’abitazione, con pianerottolo e sovrastante tettoia).
L’attività del Comune mira a reprimere l’abuso complessivamente considerato ovvero l’edificazione di un manufatto abusivo con le relative pertinenze, da considerarsi autonoma unità immobiliare; nel caso di specie, stante l’evidente unitarietà funzionale delle opere contestate, l'Amministrazione è obbligata ad effettuare, evitando artificiose frammentazioni, una valutazione complessiva e non atomistica dell'intervento edilizio, giacché il pregiudizio recato al regolare assetto del territorio deriva non dal singolo intervento ma dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio (TAR Campania, Napoli, sez. VII, sent. 26/02/2018 n. 1231) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 24.05.2018 n. 821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Imposizione di oneri economici per l’installazione di un impianto eolico.
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Energia elettrica – Fonti rinnovabili – Parchi eolici – Installazione del Comune – Imposizione di oneri economici – Esclusione.
Ai fini dell’installazione dei cd. parchi eolici nel territorio comunale, il Comune non possa imporre alcun onere a carattere meramente economico-patrimoniale a carico del titolare dell’impianto, in quanto solo lo Stato e le regioni possono semmai prevedere misure compensative, mai meramente economiche, e solo di carattere ambientale e territoriale, tenendo conto sia delle caratteristiche precipue che delle dimensioni dell’impianto eolico, sia del suo impatto ambientale e territoriale (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che le cd. energie alternative rinnovabili, inesauribili e tendenzialmente prive di immissioni nocive nell’ambiente, tra le quali è da annoverarsi l’energia eolica, rappresentano forme di energia “pulita” che, per caratteristiche intrinseche, si rigenerano alla stessa velocità con cui vengono consumate o che non sono esauribili nella scala dei tempi umani e questo diversamente dalle cd. energie tradizionali fossili (petrolio, gas, carbone), che invece sono non rinnovabili, esauribili e producono notoriamente immissioni nocive nell’ambiente, con ricadute a cd. esternalità negativa.
Ha aggiunto che la normativa comunitaria, nazionale e finanche regionale manifesta un evidente favor per le fonti energetiche rinnovabili, agevolando le condizioni per un adeguato incremento dei relativi impianti, anche al fine di contenere, se non eliminare, la dipendenza del sistema produttivo nazionale dai carburanti fossili, peraltro di quasi totale importazione estera.
Sul punto, va inoltre considerato che la produzione di energia da fonti rinnovabili è da qualificarsi come attività libera (Tar Bari, sez. I, 08.03.2008, n. 530), soggetta ad una procedura semplificata (art. 12, d.lgs. n. 387 del 2003 s.m.i.) di autorizzazione unica (non già di concessione), che quindi ha la funzione di rimuove un limite legale, previa valutazione della esistenza dei presupposti previsti dalla legge, all’esercizio dell’attività di costruzione ed esercizio degli impianti di produzione di energia rinnovabile.
La competenza ad emanare detta autorizzazione unica è affidata alle Regioni, che vi provvedono attraverso lo strumento della conferenza di servizi, appositamente prevista dalla legislazione speciale ambientale (d.lgs. n. 387 del 2003). Sul punto, la conferenza di servizi coinvolge tutte le amministrazioni e gli enti portatori di interessi pubblici correlati alla realizzazione degli impianti di energia.
L’autorizzazione unica alla costruzione ed all’esercizio di impianti di produzione di energia rinnovabile, in base alla disciplina tracciata dal d.lgs. n. 387 del 2003, non è subordinata al pagamento di alcun corrispettivo, canone, o altro emolumento, o peso economico, salvo le imposte in materia previste dalla legislazione fiscale (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 24.05.2018 n. 737 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incandidabilità alle elezioni amministrative se c’è stata sentenza di condanna patteggiata.
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Elezioni – Incandidabilità - Sentenza di condanna patteggiata – E’ motivo di incandidabilità.
Ai sensi dell’art. 12, comma 3, del D.Lgs. n. 235 del 2012 l’unica causa di estinzione della condizione di incandidabilità dovuta a reati commessi è la sentenza di riabilitazione; ad essa non può essere equiparata la causa di estinzione del reato di cui all’art. 445, ultimo comma, c.p.p., giacché è correlata alla condizione oggettiva del mero decorso del tempo, mentre la riabilitazione è preceduta da una valutazione del giudice in ordine al ravvedimento del reo che abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta (1)
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   (1) In termini v. Cons. St., sez. III, 22.05.2018, n. 3067.
Ha chiarito il Tar che le due figure della riabilitazione e dell’estinzione del reato e degli effetti penali possono ritenersi equivalenti sotto il profilo sostanziale, dal momento che l’estinzione del reato e degli effetti penali della condanna di cui all’art. 445 c.p.p. discende dal mero decorso del tempo ove il condannato non commetta altro reato della stessa indole nel termine di cinque anni, mentre nel caso della riabilitazione l’effetto estintivo si verifica solo se il condannato ha dato prove effettive e costanti di buona condotta, rilevando il profilo soggettivo rilevato ex post dal giudice.
Ai fini della riabilitazione non è, difatti, sufficiente la mancata commissione di altri reati, come nel caso dell’estinzione conseguente al patteggiamento ai sensi dell’art. 445 c.p.p., ma occorre l’accertamento del “completo ravvedimento dispiegato nel tempo e mantenuto sino al momento della decisione, e tradotto anche nella eliminazione (ove possibile) delle conseguenze civili del reato” (Cass. pen., sez. I, 18.06.2009, n. 31089).
Mentre, infatti, l’estinzione della pena patteggiata si produce con il solo mancato avveramento della condizione risolutiva nel previsto arco temporale, la riabilitazione viene pronunziata all’esito di un effettivo approdo rieducativo del reo, così emergendo la diversità degli istituti dell'estinzione del reato e della riabilitazione per presupposti e modalità di funzionamento atteso che: l'estinzione del reato è istituto che si fonda, ai sensi dell'art. 167, comma 1, c.p., sul decorso dei termini stabiliti unitamente ad ulteriori elementi (il condannato non commetta entro tali termini un delitto, ovvero una contravvenzione della stessa indole, e adempia gli obblighi impostigli); la riabilitazione è un beneficio che può essere concesso solo a seguito di una pronuncia del Tribunale di sorveglianza con cui si riscontri che è decorso il termine fissato dalla legge “ dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o si è in altro modo estinta, e il condannato ha dato prove effettive e costanti di buona condotta ” ex art. 179, comma 1, c.p. (
Cons. St., sez. V, 31.01.2017, n. 386).
La Corte di Cassazione ha difatti riconosciuto al condannato, la cui pena sia stata medio tempore estinta ex art. 445, comma 2, c.p.c., l’interesse a chiedere la riabilitazione, in quanto correlato ad una completa valutazione post factum, non irrilevante sul piano dei diritti della persona (Cass. pen., sez. I, 18.06.2009, n. 31089).
Ne consegue che sebbene entrambi gli istituti –della riabilitazione e dell’estinzione della pena patteggiata- assicurino al condannato la cessazione degli effetti penali della condanna, non possono ritenersi sovrapponibili ed equiparabili, in quanto solo con la riabilitazione si acquista la certezza dell’effettiva rieducazione del reo, poiché l’estinzione ex art. 445 c.p.p. deriva dal solo dato fattuale del mero decorso del tempo (TAR Lazio-Latina, sentenza 24.05.2018 n. 278 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Così dato atto dell’oggetto del ricorso, incentrato sulla affermata parificazione, agli effetti del venir meno delle cause di incandidabilità, della riabilitazione e dell’estinzione del reato di cui all’art. 445 c.p.p., ne rileva il Collegio l’infondatezza.
La materia della incandidabilità per le cariche elettive è attualmente disciplinata dal D.lgs. n. 235 del 2012 il quale nel disporre, all’art. 15, che l’incandidabilità opera anche nel caso di sentenza definitiva che disponga l’applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p., prevede, al comma 3, che “la sentenza di riabilitazione, ai sensi dell’art. 178 e seguenti del codice penale, è l’unica causa di estinzione anticipata dell’incandidabilità”.
Stante il chiaro tenore della norma, inserita in un testo normativo recante il testo unico in materia di incandidabilità,
non può aversi estinzione della situazione di incandidabilità al di fuori dei casi in cui sia intervenuta una sentenza di riabilitazione, adottata ai sensi degli artt. 178 e seguenti c.p.p., non potendo conseguentemente essere equiparate alla riabilitazione –agli specifici fini della estinzione della incandidabilità– diverse ipotesi in cui si verifichi l’estinzione del reato o degli effetti penali della condanna, come avviene nei casi di estinzione del reato e dei relativi effetti ai sensi dell’art. 445 c.p.p..
In tale direzione depone, invero, l’espressione ‘unica’ riferita alla riabilitazione come causa di estinzione della situazione di incandidabilità.
Né le due figure della riabilitazione e dell’estinzione del reato e degli effetti penali possono ritenersi equivalenti sotto il profilo sostanziale, dal momento che l’estinzione del reato e degli effetti penali della condanna di cui all’art. 445 c.p.p. discende dal mero decorso del tempo ove il condannato non commetta altro reato della stessa indole nel termine di cinque anni, mentre nel caso della riabilitazione l’effetto estintivo si verifica solo se il condannato ha dato prove effettive e costanti di buona condotta, rilevando il profilo soggettivo rilevato ex post dal giudice.
Ai fini della riabilitazione non è, difatti, sufficiente la mancata commissione di altri reati, come nel caso dell’estinzione conseguente al patteggiamento ai sensi dell’art. 445 c.p.p., ma occorre l’accertamento del “completo ravvedimento dispiegato nel tempo e mantenuto sino al momento della decisione, e tradotto anche nella eliminazione (ove possibile) delle conseguenze civili del reato (Cassazione Penale, Sezione I, 18.06.2009, n. 31089).
Mentre, infatti, l’estinzione della pena patteggiata si produce con il solo mancato avveramento della condizione risolutiva nel previsto arco temporale, la riabilitazione viene pronunziata all’esito di un effettivo approdo rieducativo del reo, così emergendo la diversità degli istituti dell'estinzione del reato e della riabilitazione per presupposti e modalità di funzionamento atteso che: l'estinzione del reato è istituto che si fonda, ai sensi dell'art. 167 comma 1 c.p., sul decorso dei termini stabiliti unitamente ad ulteriori elementi (il condannato non commetta entro tali termini un delitto, ovvero una contravvenzione della stessa indole, e adempia gli obblighi impostigli); la riabilitazione è un beneficio che può essere concesso solo a seguito di una pronuncia del Tribunale di sorveglianza con cui si riscontri che è decorso il termine fissato dalla legge “dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o si è in altro modo estinta, e il condannato ha dato prove effettive e costanti di buona condotta” ex art. 179, comma 1, c.p. (Consiglio di Stato, sez. V, 31.01.2017, n. 386).
La Corte di Cassazione ha difatti riconosciuto al condannato, la cui pena sia stata medio tempore estinta ex art. 445 c. 2 c.p.a., l’interesse a chiedere la riabilitazione, in quanto correlato ad una completa valutazione post factum, non irrilevante sul piano dei diritti della persona (ex plurimis: Cass. Pen. Sez. I, 18.06.2009, n. 31089 citata).
Ne consegue che
sebbene entrambi gli istituti –della riabilitazione e dell’estinzione della pena patteggiata- assicurino al condannato la cessazione degli effetti penali della condanna, non possono ritenersi sovrapponibili ed equiparabili, in quanto solo con la riabilitazione si acquista la certezza dell’effettiva rieducazione del reo, poiché l’estinzione ex art. 445 c.p.p. deriva dal solo dato fattuale del mero decorso del tempo.
Dalle differenze sostanziali tra i due istituti emerge la ratio della scelta rigorosa del Legislatore il quale, nell’ambito della propria discrezionalità, non ha ritenuto –nel dettare la norma di cui all’art. 15, comma 3, del d.lgs. n. 235 del 2012– di dover ancorare la cessazione della situazione di incandidabilità al venir meno degli effetti penali della condanna, richiedendo invece espressamente la prova dell’effettiva rieducazione del reo, come attestata attraverso la sentenza di riabilitazione, quale elemento indefettibile per il riacquisto dei requisiti di onorabilità richiesti dall’art. 54, comma 2, della Costituzione, per l’accesso alle funzioni pubbliche, ben potendo il Legislatore, nel disciplinare i requisiti per l'accesso e il mantenimento delle cariche elettive, ricercare un bilanciamento tra gli interessi in gioco, ossia tra il diritto di elettorato passivo, da un lato, e il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione (Corte Costituzionale, 19.11.2015, n. 236).
Deve, inoltre, precisarsi –a fini di completezza nella ricostruzione del quadro normativo applicabile- che in ragione della data 10.04.2007 in cui è divenuta irrevocabile la sentenza di condanna del ricorrente con pena patteggiata per uno dei reati in materia di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1999, trova applicazione l’art. 16 del D.Lgs. n. 235 del 2012, ai sensi del cui comma 1 è prevista l’incandidabilità alle elezioni, se già rinvenibile nella disciplina previgente, per le sentenze di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. pronunciate successivamente alla data della sua entrata in vigore, da cui consegue che può essere candidato in un'elezione solo chi ha patteggiato una condanna penale prima dell'entrata in vigore della normativa sui requisiti morali per l'accesso alle cariche amministrative e politiche, e ciò in base alla ricostruzione del quadro normativo stratificatosi nel tempo.
Difatti, la normativa precedente, individuata nell’art. 15 della legge n. 55 del 1990, come modificato dall’art. 1, comma 2, della legge 13.12.1999 n. 475, prevedeva, al comma 1-bis, l’equiparazione, agli effetti della disciplina ivi prevista, delle sentenze ex art. 444 c.p.p. alle sentenze di condanna, contemplando quale causa di incandidabilità i reati di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
Inoltre, il comma 3, del citato art. 1 della legge n. 475 del 1999 –la cui vigenza è stata fatta salva dal d.lgs. n. 267 del 2000 che ha abrogato la legge n. 375 del 1999 ad eccezione proprio dell'art. 1, comma 3- al fine di regolare gli effetti temporali della predetta equiparazione, ha espressamente previsto che “la disposizione del comma 1-bis dell’art. 15 della legge 19.03.1990 n. 55, introdotto dal comma 2 del presente articolo, si applica alle sentenze previste dall’articolo 444 del codice di procedura penale pronunciate successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge” (01.01.2000).
Sotto il profilo della ricostruzione del quadro normativo, deve ancora rilevarsi che l’art. 58 del d.lgs. n. 267 del 2000 –poi abrogato con il D.lgs. n. 235 del 2012– prevede anch’esso la incandidabilità nei casi di condanne per i reati di cui all'art. 73 del testo unico approvato con d.P.R. 09.10.990, n. 309, emergendo quindi una continuità normativa nella previsione della incandidabilità per siffatta tipologia di reati perseguiti con sentenze di patteggiamento.
Né può assumere rilievo la distinzione –invocata da parte ricorrente soprattutto nella discussione orale– tra le diverse ipotesi incriminatorie previste dall’art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, cui l’art. 10, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 ricollega l’incandidabilità alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali.
Come già rilevato dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sezione III, 19.05.2016, n. 2103),
la circostanza che il citato art. 10, nell’operare il richiamo all’art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, ne riassume solo in parte il contenuto, non consente una lettura restrittiva dell’ambito di operatività delle cause di incandidabilità, trattandosi di una mera indicazione esemplificativa non idonea a limitare il richiamo alle sole parti dell’art. 73 indicate ed a legittimare una lettura riduttiva della norma basata sul livello di gravità delle diverse fattispecie di reato, non emergendo dal tenore di tale norma alcuna volontà del Legislatore di operare siffatta distinzione.
In applicazione delle illustrate coordinate ermeneutiche,
assume quindi carattere dirimente la circostanza che, nella fattispecie in esame, viene in rilievo una condanna ex art. 444 c.p.p. adottata nel 2007, ovvero allorquando era già operante l'equiparazione delle sentenze di patteggiamento a quelle di condanna sulla base della previsione di cui all’art. 15 della legge n. 55 del 1990, poi modificato dall’art. 1, comma 2, della legge 13.12.1999 n. 475, che prevedeva l’equiparazione, ai fini della incandidabilità, delle sentenze ex art. 444 c.p.p. alle sentenze di condanna, tenuto conto degli effetti intertemporali regolati dal comma 3 dell’art. 1 della legge n. 475 del 1999, sopra citato, e della norma di cui all’art. 58 del d.lgs. n. 267 del 2000.
Le considerazioni sopra illustrate conducono, conseguentemente, al rigetto del ricorso.

EDILIZIA PRIVATA: Sospensione condizionale della pena subordinata alla demolizione dell’abuso edilizio - Natura di provvedimento accessorio alla condanna - Motivazione implicita - Artt. 29, 44, lett. e), 93, 94, 95 d.PR 380/2001 e 181 d.lgs. 42/2004.
In caso di sospensione condizionale della pena subordinata alla demolizione dell’abuso edilizio, l'obbligo di specifica motivazione deve essere espressamente escluso, ricordando come detta motivazione debba ritenersi implicita nella stessa emanazione dell'ordine di demolizione contenuto nella sentenza.
Detto ordine ha natura di provvedimento accessorio alla condanna ed è emesso sulla base dell'accertamento della persistente offensività dell'opera nei confronti dell'interesse tutelato, con la conseguenza che, quando il giudice del merito subordina la concessione della sospensione condizionale della pena alla demolizione dell'opera abusiva, egli non fa altro che rafforzare il contenuto della statuizione accessoria, esaltando contemporaneamente la funzione sottesa alla ratio dell'articolo 165 del codice penale finalizzata all'eliminazione delle conseguenze dannose del reato, persistenti nel caso di ostinata inottemperanza all'esecuzione dell'ordine di demolizione, circostanza che rende perciò il condannato immeritevole della sospensione condizionale della pena (Cass. Sez. 7, n. 9847 del 25/11/2016 (dep.2017), Palma; Conf. Sez. 3 n. 7283 del 09/02/2018, Mistretta).
Pertanto, in caso di subordinazione della sospensione condizionale alla demolizione delle opere abusive, sussiste la possibilità di motivazione implicita richiamando la necessità di una giustificazione da effettuarsi "alla luce del giudizio prognostico di cui all'art. 164, cod. pen. che deve "coniugarsi con la funzione special-preventiva dell'istituto" (Cass. sentenza 17729/2016).
Demolizione dell'opera abusiva - Subordine della concessione della sospensione condizionale della pena - Gravità del reato e capacità a delinquere dell’imputato - Criteri specificati dall’art. 133 cod. pen..
In materia urbanistica, il giudice può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena alla demolizione dell'opera abusiva, in questi casi la motivazione oltre a poter essere implicitamente espressa, può anche ricavarsi aliunde nella complessiva motivazione della sentenza, laddove questi abbia comunque espresso un giudizio di gravità del reato e di capacità a delinquere dell’imputato desunta attraverso i criteri specificati dall’art. 133 cod. pen. che l’art. 164 cod. pen. richiama (Corte d Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.05.2018 n. 23189 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Norme sull'attività urbanistico-edilizia - Titolare del permesso di costruire, committente e proprietario dell'area - Diverse qualificazioni - Soggetti responsabili - Disponibilità di indizi e presunzioni gravi - Disponibilità giuridica e di fatto della superficie edificata e dell'interesse specifico - Opere realizzate da terzi - Onere della prova - Disconoscimento del concorso del proprietario del terreno non committente - Presupposti - Giurisprudenza.
Tra i soggetti responsabili ai fini e per gli effetti delle norme sull'attività urbanistico-edilizia contemplati dall'articolo 29 del TU, quelle del titolare del permesso di costruire, del committente e del proprietario dell'area possono, in alcuni casi, essere in tutto o in parte sovrapponibili, nel senso che le diverse qualificazioni di titolare del permesso, committente e proprietario dell'area edificata abusivamente possono riguardare la stessa persona.
Sicché, la disponibilità di indizi e presunzioni gravi, precise e concordanti è richiesta con riferimento al proprietario (o comproprietario) dell'area non formalmente committente e tali indizi sono stati individuati, ad esempio, nella piena disponibilità, giuridica e di fatto, della superficie edificata e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (principio del "cui prodest"); nei rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario, nell'eventuale presenza "in loco" del proprietario dell'area durante l'effettuazione dei lavori; nello svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori; nella richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; nel particolare regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari; nella fruizione dell'opera secondo le norme civilistiche dell'accessione ed in tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa.
Grava inoltre sull'interessato l'onere di allegare circostanze utili a convalidare la tesi che, nella specie, si tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà.
Inoltre, ai fini del disconoscimento del concorso del proprietario del terreno non committente dei lavori nel reato urbanistico occorre escludere l'interesse o il suo consenso alla commissione dell'abuso edilizio, ovvero dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione (Sez. 3, n. 33540 del 19/06/2012, Grilli) (Corte d Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.05.2018 n. 23189 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di difformità totale dal titolo edilizio - Opere non rientranti tra quelle consentite o mutamento della destinazione d'uso di un immobile o di parte di esso - Riferimento alla "autonoma utilizzabilità" - Artt. 2, 31, 44, lett. b) d.P.R. 380/2001.
La difformità totale si verifica allorché si costruisca "aliud pro alio"' e ciò è riscontrabile allorché i lavori eseguiti tendano a realizzare opere non rientranti tra quelle consentite, che abbiano una loro autonomia e novità, oltre che sul piano costruttivo, anche su quello della valutazione economico-sociale.
Inoltre, difformità totale può aversi anche nel caso di mutamento della destinazione d'uso di un immobile o di parte di esso, realizzato attraverso opere implicanti una totale modificazione rispetto al previsto.
Il riferimento alla "autonoma utilizzabilità" non impone che il corpo difforme sia fisicamente separato dall'organismo edilizio complessivamente autorizzato, ma ben può riguardare anche opere realizzate con una difformità quantitativa tale da acquistare una sostanziale autonomia rispetto al progetto approvato.
Nozione di organismo edilizio e difformità totale - Unità immobiliare e pluralità di porzioni volumetriche - Aumento del c.d. "carico urbanistico".
In materia urbanistica, l'espressione "organismo edilizio" indica sia una sola unità immobiliare, sia una pluralità di porzioni volumetriche e la difformità totale può riconnettersi tanto alla costruzione di un corpo autonomo, quanto all'effettuazione di modificazioni con opere, anche soltanto interne, tali da comportare un intervento che abbia rilevanza urbanistica in quanto incidente sull'assetto del territorio attraverso l'aumento del c.d. "carico urbanistico" (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.05.2018 n. 23186 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di pergolato - Assenza dei necessari titoli abilitativi - Zona sismica e soggetta a vincolo paesaggistico - Intervento edilizio eseguito in assenza dei necessari titoli abilitativi - Artt. 44, lett. e), 93, 95 d.P.R. n. 380/2001 e 181, c. 1-bis d.lgs. n. 42/2004.
Si intende per pergolato una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore, realizzata con materiali leggeri, senza fondazioni, di modeste dimensioni e di facile rimozione, la cui finalità è quella di creare ombra mediante piante rampicanti o teli cui offrono sostegno.
Fattispecie: frazionamento in due appartamenti indipendenti di un fabbricato, la realizzazione di più manufatti (pensiline, deposito, ripostiglio, pollaio, pergolato, baracca) e la sistemazione della corte esterna previa pavimentazione in ceramica.
Nozione e differenze tra "pergolato", "tettoia" e "pensilina" - Titoli abilitativi - Natura precaria o pertinenziale dell'intervento - Casi di esclusione - Giurisprudenza (amministrativa e di merito).
La diversità strutturale delle due opere (pergolato e tettoia) è rilevabile dal fatto che, mentre il pergolato costituisce una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore ed è destinato a creare ombra, la tettoia può essere utilizzata anche come riparo ed aumenta l'abitabilità dell'immobile (Cass. Sez. 3, n. 19973 del 16/04/2008, Lus; Conf. Sez. 3, n. 10534 del 25/02/2009, Accongiagioco).
Tali definizioni sono state peraltro ribadite prendendo in considerazione le nozioni di "tettoia" e "pensilina", rilevandone la sostanziale identità ricavabile dalle medesime finalità di arredo, riparo o protezione anche dagli agenti atmosferici e riconoscendo la necessità del permesso di costruire nei casi in cui sia da escludere la natura precaria o pertinenziale dell'intervento (Cass. Sez. F, n. 33267 del 15/07/2011, De Paola).
Anche la giurisprudenza amministrativa si è, in più occasioni, interrogata sulla nozione di "pergolato". Il Consiglio di Stato, in particolare, dando atto dell'assenza di una definizione normativa, ha affermato che tale opera si caratterizza come manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni (Cons. Stato Sez. 4, n. 5409 del 29/09/2011. Conf. Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 2134 del 27/04/2015. V. anche Cons. di Stato, Sez. 6, n. 306 del 25/01/2017).
Considerando tali caratteristiche, ha pure escluso che possa rientrare nella nozione di "pergolato" una struttura realizzata mediante pilastri e travi in legno di significative dimensioni, tali da renderla solida e robusta facendone presumere una permanenza prolungata nel tempo (Cons. Stato Sez. 4, n. 4793 del 02/10/2008), diversamente da quanto ritenuto riguardo ad un manufatto precario, facilmente rimovibile, costituito da una intelaiatura in legno non infissa al pavimento né alla parete dell'immobile (cui è solo addossata), non chiusa in alcun lato, compreso quello di copertura (Cons. Stato Sez. 5, n. 6193 del 7/11/2005).
E' stata altresì posta in evidenza anche la differenza tra "pergolato" e "tettoia", in termini analoghi a quelli indicati dalla giurisprudenza di questa Corte, facendo ricorso al linguaggio comune ed evidenziando che la tettoia si caratterizza come struttura pensile, addossata al muro o interamente sorretta da pilastri, di possibile maggiore consistenza e impatto visivo rispetto al pergolato, il quale è normalmente costituito da una serie parallela di pali collegati da un'intelaiatura leggera, idonea a sostenere piante rampicanti o a costituire struttura ombreggiante, senza chiusure laterali (Cons. Stato Sez. 6, n. 825, del 18/02/2015) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.05.2018 n. 23183 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Suddivisione dell'attività edificatoria finale - Regime dei titoli abilitativi edilizi - Interventi su preesistente opera abusiva - Complesso e valore unitario delle opere.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale. L'opera deve essere infatti apprezzata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva (Sez. 3, n. 30147 del 19/04/2017, Tomasulo; Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Pmt in proc. Casciato; Sez. 3, n. 15442 del 26/11/2014 (dep. 2015), Prevosto e altri; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011 (dep.2012), Forte; Sez. 3 n. 34585 del 22/4/2010, Tulipani, non massimata; Sez. 3, n. 20363 del 16/03/2010, Marrella; Sez. 3, n. 4048 del 06/11/2002 (dep. 2003), Tucci).
Pertanto, se può, in astratto, ritenersi suscettibile di valutazione una situazione riferita ad interventi aventi una loro individualità, tra loro del tutto autonomi ed eseguiti in tempi diversi, tale possibilità deve invece immediatamente escludersi quando riferita ad un insieme di opere, realizzate anche in tempi diversi, le quali pur non essendo parte integrante o costitutiva di un altro fabbricato, costituiscano, di fatto, un complesso unitario rispetto al quale ciascuna componente contribuisce a realizzarne la destinazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.05.2018 n. 23183 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il concetto di variazione essenziale, che attiene alla modalità di esecuzione delle opere, va distinto dalle "varianti" che invece riguardano la richiesta di una variazione del titolo autorizzativo (art. 22, comma 2, del TUE).
Mentre le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del d. P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante.
In particolare, gli elementi da prendere in considerazione al fine di ritenere la sussistenza di una variante essenziale sono le modifiche di rilievo apportate all'originario progetto e relative alla superficie coperta, al perimetro, al numero dei piani, alla volumetria, alla distanza dalle proprietà limitrofe, nonché alle caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
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Integra nuovo permesso e non mera variante l’autorizzazione di modifiche consistenti nella diminuzione della volumetria distribuita su maggior superficie e nella diminuzione dell’altezza oltreché nella variazione delle caratteristiche esterne del fabbricato.
Nel caso in esame il progetto in variante prevede il “ridimensionamento” della capacità volumetrica del lotto e il “ridimensionamento" del fabbricato sia in termini di superficie sia in termini di cubatura rispetto al PDC originario.
Tali modifiche, dunque, hanno comportato una diversa sagoma, diversa volumetria, diversa altezza, diversa area di sedime, diversa sistemazione degli spazi esterni e quindi la realizzazione di un quid novi rispetto all'edificio originariamente assentito.
Ne consegue che, trattandosi di varianti essenziali, caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante.
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La censura è fondata.
Indici ermeneutici sulla nozione di variante essenziale possono trarsi innanzitutto dall’art. 32 DPR 380/2001.
La determinazione dei casi di variazione essenziale, infatti, è affidata alle regioni nel rispetto di alcuni criteri di massima.
In particolare, ai sensi dell'art. 32, comma 1, del TUE, sussiste variazione essenziale esclusivamente in presenza di una o più delle seguenti condizioni: a) mutamento di destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal D.M. 02.04.1968; b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato; c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato, ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza; d) il mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentite; e) la violazione della normativa edilizia antisismica.
Il concetto di variazione essenziale, che attiene alla modalità di esecuzione delle opere, va distinto dalle "varianti" che invece riguardano la richiesta di una variazione del titolo autorizzativo (art. 22, comma 2, del TUE).
Mentre le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del d. P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. VI, 30/03/2017, n. 1484; TAR Catania, (Sicilia), sez. II, 11/10/2016, n. 2545; TAR Catanzaro, (Calabria), sez. II, 01/02/2016, (ud. 13/01/2016, dep.01/02/2016), n. 150).
In particolare, gli elementi da prendere in considerazione al fine di ritenere la sussistenza di una variante essenziale sono le modifiche di rilievo apportate all'originario progetto e relative alla superficie coperta, al perimetro, al numero dei piani, alla volumetria, alla distanza dalle proprietà limitrofe, nonché alle caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
Ciò premesso, il Collegio ritiene integra nuovo permesso e non mera variante l’autorizzazione di modifiche consistenti nella diminuzione della volumetria distribuita su maggior superficie e nella diminuzione dell’altezza oltreché nella variazione delle caratteristiche esterne del fabbricato (Cons. Stato, 07.05.1991 n. 772).
Nel caso in esame il progetto in variante prevede il “ridimensionamento” della capacità volumetrica del lotto e il “ridimensionamento" del fabbricato sia in termini di superficie sia in termini di cubatura rispetto al PDC originario.
Tali modifiche, dunque, hanno comportato una diversa sagoma, diversa volumetria, diversa altezza, diversa area di sedime, diversa sistemazione degli spazi esterni e quindi la realizzazione di un quid novi rispetto all'edificio originariamente assentito.
Ne consegue che, trattandosi di varianti essenziali, caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante.
Il Comune, dunque, avrebbe dovuto procedere ad una rinnovazione dell’istruttoria sulla scorta delle disposizioni urbanistiche e tecnico-edilizie vigenti all’epoca di realizzazione della variante.
La natura assorbente del motivo accolto si ritiene che possa esimere il Collegio dallo scrutinare gli altri motivi di gravame fatto salvo il secondo (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 22.05.2018 n. 1082 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell’acquisizione gratuita dell’immobile abusivo:
   - la regola generale prevede che la sanzione amministrativa sia applicata al responsabile dell’abuso edilizio contestato, mentre il proprietario, non autore dell’abuso e non committente delle opere, può ritenersi corresponsabile solo ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dell’abuso edilizio stesso, considerato che egli non è nella condizione di avere la materiale detenzione del bene;
   - nondimeno, ricade sul proprietario l’onere di attivarsi per il ripristino della situazione originaria dei luoghi una volta venuto a conoscenza dell’abuso;
   - ne consegue che ai fini dell’esenzione del proprietario dalla responsabilità dell’abuso, si richiede la prova di iniziative dimostrative di un comportamento attivo, da esprimere in diffide o altre iniziative di carattere ultimativo, anche sul piano della risoluzione contrattuale, nei confronti del conduttore (o detentore ad altro titolo) autore dell’illecito edilizio;
   - al contrario, un comportamento passivo di adesione alle iniziative comunali, con mere dichiarazioni o affermazioni solo di dissociazione o manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso (come ad es., risoluzione giudiziaria per inadempimento, diffida ad eliminare l’abuso, attività di ripristino, a maggior ragione se l’ordine non viene contestato), non sono sufficienti a dimostrare l’estraneità del proprietario.

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La sanzione della perdita della proprietà per inottemperanza all’ordine di remissione in pristino, pur se definita come una conseguenza di diritto dall’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 cit., richiede, in ogni caso, un provvedimento amministrativo che definisca l’oggetto dell’acquisizione al patrimonio comunale attraverso la quantificazione e la perimetrazione dell’area sottratta al privato.
Inoltre, all’acquisizione gratuita al patrimonio comunale segue un ulteriore sub-procedimento, in cui la P.A. effettua la valutazione discrezionale tra la scelta di procedere alla demolizione, a spese del responsabile, delle opere abusivamente costruite sull’area acquisita, e quella di conservarle, previa deliberazione consiliare, in presenza di prevalenti interessi pubblici.
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Secondo un orientamento più rigoroso l’acquisizione del bene al patrimonio pubblico farebbe venir meno la legittimazione a proporre l’istanza di definizione dell’illecito edilizio.
La giurisprudenza prevalente ritiene, invece, che l’acquisizione gratuita al patrimonio del Comune di un manufatto abusivo determini una situazione inconciliabile con la sanatoria soltanto quando all’immissione nel possesso sia seguita una delle due ipotesi previste dall’art. 43 della l. n. 47/1985 cioè la demolizione dell’immobile abusivo, o la sua utilizzazione a fini pubblici: ciò, perché ai sensi dell’art. 43 cit., il condono non è precluso dal provvedimento di acquisizione dell’immobile abusivo al patrimonio del Comune, né dall’avvenuta trascrizione del provvedimento sanzionatorio e neppure dalla presa di possesso del bene, senza modificazioni della sua consistenza e destinazione, da parte del Comune.
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Sul punto si richiama l’insegnamento della giurisprudenza consolidata (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 11.01.2018, n. 147; id., 07.08.2015, n. 3897; id., 04.05.2015, n. 2211; id., Sez. V, 11.07.2014, n. 3565) secondo cui, ai fini dell’acquisizione gratuita dell’immobile:
   - la regola generale prevede che la sanzione amministrativa sia applicata al responsabile dell’abuso edilizio contestato, mentre il proprietario, non autore dell’abuso e non committente delle opere, può ritenersi corresponsabile solo ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dell’abuso edilizio stesso, considerato che egli non è nella condizione di avere la materiale detenzione del bene;
   - nondimeno, ricade sul proprietario l’onere di attivarsi per il ripristino della situazione originaria dei luoghi una volta venuto a conoscenza dell’abuso;
   - ne consegue che ai fini dell’esenzione del proprietario dalla responsabilità dell’abuso, si richiede la prova di iniziative dimostrative di un comportamento attivo, da esprimere in diffide o altre iniziative di carattere ultimativo, anche sul piano della risoluzione contrattuale, nei confronti del conduttore (o detentore ad altro titolo) autore dell’illecito edilizio;
   - al contrario, un comportamento passivo di adesione alle iniziative comunali, con mere dichiarazioni o affermazioni solo di dissociazione o manifestazioni di intenti, senza alcuna attività materiale o almeno giuridica di attivazione diretta ad eliminare l’abuso (come ad es., risoluzione giudiziaria per inadempimento, diffida ad eliminare l’abuso, attività di ripristino, a maggior ragione se l’ordine non viene contestato), non sono sufficienti a dimostrare l’estraneità del proprietario.
...
Nel medesimo senso è, del resto, l’omologa previsione della legge nazionale (ora art. 31, comma 5, del d.P.R. n. 380/2001).
Ed invero, la sanzione della perdita della proprietà per inottemperanza all’ordine di remissione in pristino, pur se definita come una conseguenza di diritto dall’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 cit., richiede, in ogni caso, un provvedimento amministrativo che definisca l’oggetto dell’acquisizione al patrimonio comunale attraverso la quantificazione e la perimetrazione dell’area sottratta al privato (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 11.10.2011, n. 1540).
Inoltre, all’acquisizione gratuita al patrimonio comunale segue un ulteriore sub-procedimento, in cui la P.A. effettua la valutazione discrezionale tra la scelta di procedere alla demolizione, a spese del responsabile, delle opere abusivamente costruite sull’area acquisita, e quella di conservarle, previa deliberazione consiliare, in presenza di prevalenti interessi pubblici (v. TAR Lazio, Latina, Sez. I, 06.12.2012, n. 946; TAR Abruzzo, Pescara Sez. I, 19.11.2010, n. 1235).
...
Passando a questo punto al secondo gruppo di motivi aggiunti (aventi ad oggetto l’ordine di sgombero dell’opera abusiva e la deliberazione con cui il Consiglio Comunale di Costermano si è determinato nel senso della sua demolizione), il primo motivo ivi contenuto –sopra rubricato al n. 8)– censura l’ora visto ordine di sgombero per violazione dell’art. 44 della l. n. 47/1985.
Sostiene, in particolare, la sig.ra Sa.Ca. che, in base a detta disposizione, richiamata dall’art. 32, comma 25, del d.l. n. 269/2003 (conv. con l. n. 326/2003), l’Amministrazione comunale avrebbe dovuto sospendere il procedimento sanzionatorio, astenendosi dal compiere atti fino al 30.03.2004, al fine di permetterle di presentare domanda di condono del manufatto abusivo, ai sensi dell’ora visto art. 32.
A tal proposito si osserva che, nel caso di specie, il nuovo condono di cui all’art. 32, comma 25, del d.l. n. 269/2003 è intervenuto in epoca ben successiva all’emanazione sia del decreto di acquisizione gratuita dell’area (datato 24.01.2000 e gravato con il ricorso originario), sia del provvedimento di conferma della suddetta acquisizione (datato 29.01.2002 ed impugnato con il primo ricorso per motivi aggiunti).
Tanto premesso, secondo un orientamento più rigoroso l’acquisizione del bene al patrimonio pubblico farebbe venir meno la legittimazione a proporre l’istanza di definizione dell’illecito edilizio (C.d.S., Sez. VI, 11.03.2013, n. 1470; id., Sez. V, 13.08.2007, n. 4441; id., Sez. IV, 10.05.2007, n. 2218).
La giurisprudenza prevalente ritiene, invece, che l’acquisizione gratuita al patrimonio del Comune di un manufatto abusivo determini una situazione inconciliabile con la sanatoria soltanto quando all’immissione nel possesso sia seguita una delle due ipotesi previste dall’art. 43 della l. n. 47/1985 cioè la demolizione dell’immobile abusivo, o la sua utilizzazione a fini pubblici: ciò, perché ai sensi dell’art. 43 cit., il condono non è precluso dal provvedimento di acquisizione dell’immobile abusivo al patrimonio del Comune, né dall’avvenuta trascrizione del provvedimento sanzionatorio e neppure dalla presa di possesso del bene, senza modificazioni della sua consistenza e destinazione, da parte del Comune (cfr. C.d.S., Sez. IV, 11.04.2014, n. 1756; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 08.01.2015, n. 54; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 04.11.2014, n. 11033; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 14.05.2013, n. 2499).
Nella fattispecie ora all’esame si controverte della legittimità dell’ordine di sgombero di un’area già acquisita –si ripete– al patrimonio comunale: a tale fattispecie, pertanto, si applica l’ora menzionato art. 43 della l. n. 47/1985 (richiamato anch’esso dall’art. 32, comma 25, del d.l. n. 269/2003), il cui primo comma stabilisce che “l’esistenza di provvedimenti sanzionatori non ancora eseguiti, ovvero ancora impugnabili o nei cui confronti pende l’impugnazione, non impedisce il conseguimento della sanatoria”. Ci si trova dinanzi, infatti, ad un provvedimento sanzionatorio (acquisizione gratuita) già emesso, ma ancora sub judice, stante la pendenza del ricorso proposto contro di esso; e la stessa cosa vale, ovviamente, per la conferma gravata con i motivi aggiunti.
Il richiamo all’art. 44 della l. n. 47/1985 appare, invece, incongruo, perché tale disposizione comporta la sospensione dei procedimenti amministrativi e della loro esecuzione, ma –come si è già ricordato– qui l’acquisizione gratuita è stata adottata ben prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 269/2003 e non certo in pendenza della domanda di condono (come nella vicenda esaminata da TAR Lazio, Roma, Sez. II, 30.01.2015, n. 1806).
Ma allora, anche a voler aderire all’orientamento più favorevole al privato, proprio l’art. 43, primo comma, cit. dimostra come né la già intervenuta adozione del provvedimento di acquisizione gratuita dell’area, né la pendenza dell’ordine di sgombero della stessa, potessero considerarsi preclusivi del condono edilizio: la deducente, in altre parole, avrebbe ben potuto presentare istanza di condono del manufatto abusivo nonostante la sua acquisizione al patrimonio del Comune e nonostante l’ordine di sgombero del medesimo.
Sul punto è chiarissima la giurisprudenza sopra riportata, la quale evidenzia come la sanatoria non venga preclusa neppure dalla presa di possesso del bene ad opera del Comune (ovviamente non seguita da modifiche della sua consistenza e destinazione).
Sennonché, non risulta né allegato, né documentato in atti che la sig.ra Sa.Ca. abbia presentato istanza di condono ex d.l. n. 269/2003 per il manufatto in parola, pur non essendovi ostacoli alla sua proposizione: donde, in conclusione, l’infondatezza del motivo ora analizzato.
Né ha maggior pregio l’ulteriore motivo dedotto dalla ricorrente, più sopra rubricato al n. 9), con cui si lamenta l’incompetenza del Comune ad adottare l’ordine di sgombero della costruzione abusiva: ordine che, secondo la deducente, avrebbe dovuto essere adottato dal Prefetto, ai sensi dell’art. 41 del d.P.R. n. 380/2001, come sostituito dall’art. 32, comma 49-ter, del d.l. n. 269/2003.
Ma sul punto è agevole rammentare che il suddetto comma 49-ter dell’art. 32 cit. è stato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 196 del 28.06.2004
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 22.05.2018 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Applicazione del principio di rotazione negli appalti sotto soglia.
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Contratti della P.A. – Appalti sotto soglia – Principio di rotazione – Art. 36, d.lgs. n. 50 del 2016 – Modalità di applicazione.
Ai sensi dell’art. 36, d.lgs. 18.04.2018, n. 50, se l’affidamento “sotto soglia” si svolge previa procedura comparativa, l’applicazione del principio di rotazione è anticipata al momento della scelta dei soggetti da invitare (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il principio di rotazione degli inviti non è dotato di portata precettiva assoluta e perciò sopporta alcune limitate deroghe, come espressamente chiarito dalle Linee Guida n. 4 A.N.A.C. sugli affidamenti sotto soglia approvate con deliberazione 26.10.2016, n. 1097, nelle quali è stata espressamente consentita una motivata deroga al principio di rotazione in caso di “riscontrata effettiva assenza di alternative ovvero del grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale (esecuzione a regola d’arte, nel rispetto dei tempi e dei costi pattuiti)” e negli stessi termini si è pronunciata anche la Commissione speciale del Consiglio di Stato con parere 12.02.2018, n. 361, chiarendo che “il principio di rotazione comporta in linea generale che l’invito all’affidatario uscente rivesta carattere eccezionale e debba essere adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto ed alle caratteristiche del mercato di riferimento”.
Nel caso all’esame del Tar, la decisione “a monte” di invitare alla gara (anche) il gestore uscente è stata espressamente ricollegata tanto all’elevato “grado di soddisfazione” riscontrato nella sua precedente gestione, quanto all’assenza di un numero sufficiente di offerte alternative. In tal modo, l’Amministrazione ha, quindi, correttamente motivato la propria decisione di invitare il gestore uscente proprio in relazione alle due sopra descritte evenienze che in via generale consentono una deroga al generale “divieto di invito” del gestore uscente (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 22.05.2018 n. 492 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Giova premettere che già il precedente Codice dei contratti pubblici (approvato con d.lgs. 12.04.2006, n. 163) -dopo aver indicato i casi tassativi in cui era possibile ricorrere alla procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara- all'art. 57, comma 6, stabiliva che: “A) nella fase preliminare di selezione degli operatori economici da consultare, la stazione appaltante ove possibile individua tali soggetti sulla base di informazioni riguardanti le caratteristiche di qualificazione economico finanziaria e tecnico organizzativa desunte dal mercato, nel rispetto dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione, e seleziona almeno tre operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei; B) nella fase della partecipazione alla gara, gli operatori economici selezionati sono quindi contemporaneamente invitati a presentare le offerte oggetto della negoziazione, con lettera contenente gli elementi essenziali della prestazione richiesta”; inoltre per l’affidamento di lavori “in economia” l’art. 125, comma 8, dello stesso “vecchio” Codice dei contratti statuiva che “Per lavori di importo pari superiore a 40.000 euro e fino a 200.000 euro, l'affidamento mediante cottimo fiduciario avviene nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento, previa consultazione di almeno cinque operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei, individuati sulla base di indagini di mercato ovvero tramite elenchi di operatori economici predisposti dalla stazione appaltante. Per lavori di importo inferiore a quarantamila euro è consentito l'affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento” e analoga disciplina era prevista, al successivo comma 11, per l’affidamento “in economia” di servizi e forniture.
Pertanto può osservarsi che
l’art. 36 del nuovo Codice dei contratti pubblici, lungi dall’introdurre un istituto completamente nuovo, ha semplicemente riaffermato e valorizzato un canone da tempo immanente nell’ordinamento, la cui ratio è facilmente identificabile: il principio di rotazione è funzionale a evitare indebite “posizioni di favore” e inaccettabili “chiusure surrettizie” del mercato.
Va, peraltro, precisato che,
nella vigenza del “vecchio” Codice dei contratti pubblici, non era stata attribuita al principio di rotazione portata “precettiva assoluta”, con la conseguenza che l'aggiudicazione a impresa già in precedenza invitata a selezioni analoghe e/o affidataria dello stesso servizio, non era considerata per ciò solo illegittima, sempre che la gara si fosse svolta nel rispetto delle regole di legge e si fosse conclusa con la scelta dell'offerta più vantaggiosa, soprattutto laddove nel relativo giudizio di comparazione non avesse direttamente inciso la pregressa esperienza specifica maturata dall’aggiudicatario in veste di partner contrattuale della stazione appaltante (in tal senso si era consolidata la giurisprudenza: tra le tante si può citare la convincente pronuncia del TAR Lazio, Roma, Sez. II, 20.04.2015, n. 5771).
Con l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici la portata del principio di rotazione sugli appalti cc.dd. sotto soglia è ora affidata alla disciplina dell’art. 36, secondo cui “1. L'affidamento e l'esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all'articolo 35 avvengono nel rispetto dei principi di cui agli articoli 30, comma 1, 34 e 42, nonché del rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese. Le stazioni appaltanti possono, altresì, applicare le disposizioni di cui all'articolo 50.
2. Fermo restando quanto previsto dagli articoli 37 e 38 e salva la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie, le stazioni appaltanti procedono all'affidamento di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all'articolo 35, secondo le seguenti modalità: a) per affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro, mediante affidamento diretto anche senza previa consultazione di due o più operatori economici o per i lavori in amministrazione diretta; b) per affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000 euro per i lavori, o alle soglie di cui all'articolo 35 per le forniture e i servizi, mediante procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di almeno dieci operatori economici per i lavori, e, per i servizi e le forniture di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti…
”.
Orbene
questa nuova disciplina, se per un verso rafforza certamente la precettività del principio di rotazione, per altro verso continua a declinarlo in termini variegati in relazione al tipo di procedura concretamente utilizzata, consentendo, altresì, (limitate e motivate) deroghe allo stesso.
Prima di tutto emerge dall’esame testuale dell’art. 36 che -se l’affidamento “sotto soglia” si svolge previa procedura comparativa- l’applicazione del principio di rotazione è anticipata al momento della scelta dei soggetti da invitare: in questo senso si esprime chiaramente l’art. 36, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 50/2016, secondo cui “per affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000 euro per i lavori, o alle soglie di cui all'articolo 35 per le forniture e i servizi, mediante procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di almeno dieci operatori economici per i lavori, e, per i servizi e le forniture di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti”.
Ciò trova conferma nel confronto tra il secondo comma, ove appunto si parla di “rotazione degli inviti”, e il primo comma, ove, invece, si parla di “rotazione degli inviti e degli affidamenti”: questo diverso modo di operare del principio si spiega considerando che, nel suo complesso, l’art. 36 disciplina sia le procedure caratterizzate dal confronto tra più imprese invitate dalla stazione appaltante (al comma 2, lett. b), sia quelle con “affidamento diretto” (al comma 2, lett. a), cioè non precedute da alcun confronto concorrenziale (consentite per importi inferiori o pari a 40.000 euro), nelle quali la rotazione è, ovviamente, concepibile solo in relazione all’affidamento della commessa e non in relazione alla fase degli inviti, la quale, semplicemente, non esiste.
In sostanza l
a disciplina complessiva dettata dall’art. 36 del d.lgs. n. 50/2016 è riassumibile nei termini seguenti:
   - se la commessa è di valore pari o inferiore ai 40.000 il contratto può essere affidato senza alcun confronto concorrenziale e se ciò effettivamente accade il principio di rotazione non potrà che essere applicato in relazione all’aggiudicazione (art. 36, comma 2, lett. a);
   - se, invece, la commessa è di valore superiore ai 40.000 (e sino a 150.000 euro), è necessario operare un confronto concorrenziale tra più ditte invitate dalla stazione appaltante (almeno cinque in caso di servizi e forniture, almeno dieci in caso di lavori) e, in questo caso, il principio di rotazione opera (esclusivamente) con riferimento alla fase degli inviti, il che, peraltro, è conforme a evidenti esigenze di corretto esercizio dell’azione amministrativa e di tutela dell’affidamento (aspetto sul quale si tornerà successivamente, nella parte finale della trattazione).

Inoltre
deve osservarsi come il principio di rotazione degli inviti non sia dotato di portata precettiva assoluta e perciò sopporti alcune limitate deroghe, come espressamente chiarito dalle Linee Guida n. 4 A.N.A.C. sugli affidamenti sotto soglia approvate (ai sensi dell’art. 36, comma 7, del Codice) con deliberazione 26.10.2016, n. 1097, applicabili ratione temporis alla vicenda in esame e dalle quali, peraltro, non si discostano significativamente, almeno sotto il profilo ora in esame, le successive Linee Guida recentemente entrate in vigore (sulle quali vedi infra).
Già nelle prime Linee guida, infatti, è stata espressamente consentita una motivata deroga al principio di rotazione in caso di “riscontrata effettiva assenza di alternative ovvero del grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale (esecuzione a regola d’arte, nel rispetto dei tempi e dei costi pattuiti)” e negli stessi termini si è pronunciata anche la Commissione speciale del Consiglio di Stato con parere 12.02.2018, n. 361, espresso nell’ambito dell’istruttoria per l’aggiornamento delle Linee Guida ANAC, chiarendo che “il principio di rotazione comporta in linea generale che l’invito all’affidatario uscente rivesta carattere eccezionale e debba essere adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto ed alle caratteristiche del mercato di riferimento (in tal senso, cfr. Cons. St., VI, 31.08.2017, n. 4125; Cons. St., V, 31.08.2017, n. 4142)”.
Ciò posto, passando alla fattispecie ora sottoposta all’esame del Collegio, deve innanzitutto osservarsi come, pur vertendosi in una procedura di importo inferiore ai 40.000 euro, la stazione appaltante abbia inteso procedere al confronto concorrenziale, in tal modo sostanzialmente “sottoponendosi” alla disciplina dettata dall’art. 36, comma 2, lett. b), che come si visto impone di invitare almeno cinque imprese per l’affidamento di una prestazione di servizi, come quella ora in esame.
Tanto è vero che, coerentemente con tale scelta di base, il Comune ha:
   - pubblicato una manifestazione di interesse;
   - invitato tutte le imprese che detto interesse avevano manifestato;
   - esaminato le offerte concretamente presentate, nel caso specifico solo due, quella del gestore uscente (cioè la Si., odierna ricorrente) e quella dell’impresa controinteressata nel presente giudizio (cioè la So.).
Dalla lettura degli atti procedimentali emerge, inoltre, che la decisione “a monte” di invitare alla gara (anche) il gestore uscente (odierna ricorrente) è stata espressamente ricollegata tanto all’elevato “grado di soddisfazione” riscontrato nella sua precedente gestione (si vedano le deliberazioni 14.11.2017 n. 150, e 28.12.2017, n. 242), quanto all’assenza di un numero sufficiente di offerte alternative (si veda la determinazione 20.01.2018, n. 16): l’Amministrazione ha, quindi, correttamente motivato la propria decisione di invitare la Si. proprio in relazione alle due sopra descritte evenienze che in via generale consentono una deroga al generale “divieto di invito” del gestore uscente (si veda, al riguardo, TAR Firenze, Sez. II, 12.06.2017, n. 816, secondo cui “Il principio di rotazione è servente e strumentale rispetto a quello di concorrenza e deve quindi trovare applicazione nei limiti in cui non incida su quest'ultimo; nella specie, poiché all'avviso esplorativo avevano fornito riscontro due operatori di cui uno era il gestore uscente, l'esclusione di quest'ultimo avrebbe limitato e non promosso la concorrenza nel mercato”).
In tale contesto di fondo il Collegio reputa meritevoli di accoglimento le censure mosse dalla ricorrente avverso la successiva decisione del Comune di affidare il servizio alla controinteressata pur avendo ritenuto l’offerta dell’uscente, ancorché di poco, più conveniente.
In questo modo, infatti,
il Comune resistente ha sostanzialmente violato l’art. 36, comma 2, lett. b), del Codice dei contratti pubblici -come detto applicabile al caso in esame per effetto della scelta autovincolante di procedere al confronto tra offerte- sotto i seguenti profili:
   - la rotazione è stata operata, invece che sugli inviti come prevede la lett. b) dell’art. 36, in relazione all’affidamento del servizio;
   - è stata, nella sostanza, “scavalcata” la necessità, normativamente imposta, di prendere in esame l’offerta del gestore uscente, così da (quanto meno) “avvicinarsi” al numero minimo di cinque offerte previsto dalla disposizione sopra richiamata.

Inoltre il Comune ha assunto una decisione contraddittoria rispetto alla propria scelta “a monte” di invitare alla gara il gestore uscente, ponendosi in contrasto con i criteri operativi dettati dalle Linee Guida A.N.A.C. che, come si è visto, consentivano di derogare al principio di rotazione degli inviti proprio per la necessità di raggiungere il numero minimo di offerte da sottoporre a selezione e per l’elevato grado di soddisfazione maturato in ordine alla pregressa gestione dell’uscente, evenienze entrambe riscontrabili nel caso ora in esame per espressa affermazione dello stesso Comune, che proprio su di esse aveva motivato la propria (corretta) decisione di invitare al confronto anche Si..
Si osserva, infine, a ulteriore fondamento di quanto sin qui esposto, che
il modus operandi della stazione appaltante si pone in evidente contrasto con l’esigenza di tutelare l’affidamento maturato dalla ricorrente, la quale era stata formalmente invitata alla selezione dopo avere manifestato il proprio interesse a seguito di un “avviso aperto” proprio a questo finalizzato, il che, peraltro, costituiva una significativa garanzia di trasparenza e apertura del mercato, di per sé idonea a limitare l’operatività del principio di rotazione: si vedano, al riguardo, le Linee Guida recentemente approvate dall’A.N.A.C. con deliberazione 01.03.2018, n. 206, le quali -seppur non direttamente applicabili al caso specifico ratione temporis- costituiscono significativo indice del modo in cui deve essere correttamente applicato il canone di rotazione, così da renderlo compatibile con altri valori di ordinamentali certamente significativi; si legge, infatti, in queste ultime Linee Guida, che il principio di rotazione “non si applica laddove il nuovo affidamento avvenga tramite procedure ordinarie o comunque aperte al mercato, nelle quali la stazione appaltante, in virtù di regole prestabilite dal Codice dei contratti pubblici ovvero dalla stessa in caso di indagini di mercato o consultazione di elenchi, non operi alcuna limitazione in ordine al numero di operatori economici tra i quali effettuare la selezione”.
Per quanto premesso il ricorso va accolto, con il conseguente annullamento degli atti impugnati, la dichiarazione di inefficacia del contratto medio tempore stipulato con la controinteressata e il subentro della ricorrente nel relativo rapporto contrattuale.
Sussistono, comunque, giusti motivi per l’integrale compensazione delle spese di lite, in ragione della particolare novità e peculiarità della questione giuridica implicata.

APPALTI: Illegittimità dell'archiviazione del procedimento di autotutela se l'aggiudicazione è stata disposta sulla base di documenti falsi.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione della gara - Per falsa documentazione - Archiviazione dell’autotutela e conferma implicita dell’aggiudicazione – Illegittimità.
In presenza delle condizioni della sicura rilevanza negativa del documento falso ai fini dell’ammissione alla gara e dell’inescusabilità del contegno colpevole della controinteressata, la Stazione appaltante deve sanzionare l’episodio con l’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione e con l’esclusione dalla gara, con la conseguenza che è illegittima la conferma implicita dell’aggiudicazione, contenuta nel provvedimento di archiviazione dell’autotutela (1).
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   (1) Il Tar ha preliminarmente affermato la propria giurisdizione, anche se si tratta di una gara indetta da un ente pubblico economico per la distribuzione del gas in un’area industriale, sul rilievo che:
1) il Consorzio per l’area industriale è Ente aggiudicatore;
2) investito di tale qualità, esso è tenuto al rispetto della disciplina delle procedure degli appalti nei settori speciali;
3) in applicazione della disciplina dei settori speciali, il Codice si applica esclusivamente agli appalti aggiudicati per scopi strumentali all’esercizio delle attività nei settori considerati dalla norma e l’attività in oggetto è in effetti strumentale al “core business” del Consorzio appaltante;
4) non si tratta di un servizio di natura meramente commerciale, né di un appalto estraneo.
Il Tar ha quindi chiarito che il provvedimento di archiviazione dell’autotutela contiene una conferma implicita dell’aggiudicazione dell’appalto, pur prendendo atto dell’assenza in capo all’aggiudicataria di un documento imprescindibile, quale l’impegno del fideiussore e della sua non reintegrabilità neppure in via di soccorso istruttorio.
Il falso documento proveniente dal terzo -ma che involge l’impegno che la società concorrente, per mezzo del fideiussore, assume nei confronti della Stazione appaltante- presentato in gara come elaborato essenziale, con il concorso colpevole della concorrente, può e deve essere sanzionato con l’esclusione dalla gara: l’esclusione invero è riconducibile alla “presentazione di falsa dichiarazione o falsa documentazione” (art. 80, commi 12 e 5, lett. f-bis, del Codice), senza distinzioni tra documenti e dichiarazioni redatti dal concorrente o, nell’interesse di quest’ultimo, da un terzo.
L’impegno del fideiussore a rilasciare la garanzia per l’esecuzione del contratto è un documento facente parte integrante e sostanziale dell’offerta, come del resto risulta prescritto anche nel disciplinare di gara e la sua mancanza non costituisce irregolarità sanabile o carenza formale, passibile di soccorso istruttorio, bensì un’omissione essenziale da sanzionare con l’esclusione dalla gara.
Non ha rilievo, in presenza di un falso documento “non irrilevante” e “colpevolmente” prodotto dalla concorrente, il principio del “superamento” della garanzia provvisoria con quella definitiva, posto che, a monte, v’è stata una violazione della normativa di settore che comporta l’esclusione dalla gara, senza che siffatta sanzione possa essere elusa o sanata sulla base di approcci sostanzialistici che non si attagliano al peculiare caso di specie.
Quel che più rileva è che la produzione di falsa documentazione (come caso distinto dalla falsa dichiarazione della concorrente) è sanzionata, ai sensi dell’art. 80, comma 12, del Codice (D.Lgs. n. 50/2016) con “l’esclusione e la revoca dell’aggiudicazione…” (TAR Molise, sentenza 22.05.2018 n. 302 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul diritto di accesso, o meno, ai documenti inerenti l’attività della Polizia Municipale a seguito dell’accertamento effettuato (abuso edilizio) e l’attività del Comune riguardante la regolarità edilizia.
Per quanto riguarda l'accesso ai documenti inerenti l’attività della Polizia Municipale è da ritenere che questi sono sottratti all’accesso sino alla definizione del procedimento penale.
Infatti, la giurisprudenza ha precisato che “l'art. 24 della L. n. 241/1990, nella versione riformulata dalla L. 11.02.2005, n. 15 ha sancito, elevando a rango superiore un principio già introdotto a livello regolamentare: l'esclusione dell'esibizione di atti utilizzati nel corso dell'attività giudiziaria o di polizia. Orbene, essendo stata sancita con legge ordinaria la sottrazione di tali categorie di documenti alla conoscibilità degli stessi interessati, in tale prospettiva non sono ostensibili, ex artt. 114 e 329 c.p.p., gli atti afferenti ad informative penali inoltrate nei confronti degli istanti, ad eventuali indagini in corso, in quanto relative ad un (eventuale) procedimento penale e rientranti perciò nella esclusiva disponibilità dell'organo requirente procedente. La previsione in esame è infatti chiaramente finalizzata ad escludere la piena ostensibilità delle relazioni di servizio che non costituiscono atti presupposti volti all'adozione di un provvedimento amministrativo, ma piuttosto atti volti a sollecitare l'iniziativa penale da parte dell'autorità giudiziaria, e quindi atti inerenti non allo svolgimento dell'attività amministrativa, quanto alla (diversa) attività di promozione e collaborazione dell'attività di prevenzione e repressione della criminalità”.
Nel caso in esame, deve ritenersi che l’ostensione di tutti gli atti della Polizia Municipale, deve essere differita alla conclusione del procedimento, in quanto atti di natura ispettiva, connessi direttamente e immediatamente all’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria, sottratti alla visione ai sensi dell’art. 329 c.p.p. fino alla conclusione del procedimento medesimo.
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È da accogliere, invece, il ricorso per quanto riguarda la richiesta di accesso agli “atti relativi alla verifica istruttoria di regolarità edilizia del pergolato …” nonché a “qualsivoglia ordine e/o provvedimento conclusivo emesso dal Comune all’esito di tale procedimento di verifica di regolarità edilizia ex art. 27 D.P.R. 380/2001”.
Infatti, ai sensi dell’art. 22 l. 241/1990, per diritto di accesso si intende il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi, e per interessati si intendono tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento in relazione al quale è chiesto l’accesso.
Nel caso in esame, è da riconoscere in capo al ricorrente un interesse diretto, concreto e attuale a prendere visione e ottenere copia della documentazione riguardante gli atti relativi alla regolarità edilizia atteso che i documenti di cui si chiede l’ostensione sono direttamente inerenti al ricorrente stesso.
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I ricorrenti sono proprietari di un appartamento sito nel comune di Salve.
L’11.09.2012, il Comando della Polizia Municipale, ha eseguito un accertamento sull’immobile in questione in relazione a un pergolato in legno posizionato sulla terrazza esterna di pertinenza.
Con contratto del 15.04.2014 i ricorrenti hanno venduto l’immobile.
Il 09.02.2015, il Tribunale di Lecce, sezione GIP, ha notificato ai ricorrenti un decreto penale di condanna per aver realizzato il detto pergolato.
Con sentenza del 06.10.2017, la Corte di Appello di Lecce, ha confermato la sentenza del Tribunale di Lecce con la quale i ricorrenti sono stati dichiarati colpevoli del contestato reato edilizio.
I ricorrenti, con istanza del 13.09.2017, hanno quindi chiesto al Comune l’accesso per ottenere “copia di tutti gli atti e i documenti del procedimento di verifica di regolarità edilizia ex art. 27 D.P.R. 380/2001, avviato dallo stesso a seguito dell’accertamento eseguito dal Comando della Polizia Municipale del medesimo Comune, in data 11.09.2012 sull’immobile (allora in proprietà degli stessi) sito in Vasco del Gama, piano 2, interno B, identificato al Catasto Fabbricati del Comune di Salve al Foglio 24, Particella 343. E precisamente:
   a. del verbale di accertamento del Comando della Polizia Municipale di Salve redatto a seguito dell’intervento in data 11.09.2012 sull’immobile (allora in proprietà degli stessi) sito in Vasco De Gama, piano 2, interno B, identificato al Catasto Fabbricati del Comune di Salve al Foglio 24, Particella 343;
   b. delle comunicazioni e/o informative effettuate dal Comune di Salve e/o dallo stesso ricevute ex art. 27 D.P.R. 380/2001, a seguito di detto accertamento del Comando della Polizia Municipale del 11.09.2012; c. degli atti relativi alla verifica istruttoria di regolarità edilizia del pergolato sito sul terrazzino di pertinenza dell’immobile sito in Via Vasco del Gama, paino 2, interno B, identificato al Catasto Fabbricati del Comune di Salve al Foglio 24, Particella 343, oggetto di accertamento; d. di qualsivoglia ordine e/o provvedimento conclusivo emesso dal Comune di Salve all’esito di tale procedimento di verifica di regolarità edilizia ex art. 27 D.P.R. 380/2001
”.
In riscontro a tale istanza il Comando della Polizia Locale ha inviato una nota con la quale si è rilevato che “in merito agli atti di accertamento, gli stessi sono documenti di polizia giudiziaria soggetti alla disciplina dell’art. 329 c.p.p. reperibili presso gli uffici giudiziari. Per quanto riguarda gli atti amministrativi posti in essere successivamente la comunicazione è di competenza dell’Ufficio Tecnico”.
I ricorrenti, con il presente ricorso, hanno chiesto l’annullamento “del silenzio-rifiuto ex art. 25, comma 4, Legge 241/1990, formatosi in data 18.10.2017, in relazione all’istanza di accesso ex art. 25 Legge 241/1990”.
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L’istanza di accesso in esame è volta all’acquisizione di documenti inerenti l’attività della Polizia Municipale a seguito dell’accertamento effettuato e l’attività del Comune riguardante la regolarità edilizia.
Per quanto riguarda i primi è da ritenere che questi sono sottratti all’accesso sino alla definizione del procedimento penale.
Infatti, la giurisprudenza alla quale si aderisce ha precisato che “l'art. 24 della L. n. 241/1990, nella versione riformulata dalla L. 11.02.2005, n. 15 ha sancito, elevando a rango superiore un principio già introdotto a livello regolamentare: l'esclusione dell'esibizione di atti utilizzati nel corso dell'attività giudiziaria o di polizia. Orbene, essendo stata sancita con legge ordinaria la sottrazione di tali categorie di documenti alla conoscibilità degli stessi interessati, in tale prospettiva non sono ostensibili, ex artt. 114 e 329 c.p.p., gli atti afferenti ad informative penali inoltrate nei confronti degli istanti, ad eventuali indagini in corso, in quanto relative ad un (eventuale) procedimento penale e rientranti perciò nella esclusiva disponibilità dell'organo requirente procedente. La previsione in esame è infatti chiaramente finalizzata ad escludere la piena ostensibilità delle relazioni di servizio che non costituiscono atti presupposti volti all'adozione di un provvedimento amministrativo, ma piuttosto atti volti a sollecitare l'iniziativa penale da parte dell'autorità giudiziaria, e quindi atti inerenti non allo svolgimento dell'attività amministrativa, quanto alla (diversa) attività di promozione e collaborazione dell'attività di prevenzione e repressione della criminalità” (Tar Aquila, sez. I, 27.10.2017, n. 454).
Nel caso in esame, deve ritenersi che l’ostensione di tutti gli atti della Polizia Municipale, deve essere differita alla conclusione del procedimento, in quanto atti di natura ispettiva, connessi direttamente e immediatamente all’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria, sottratti alla visione ai sensi dell’art. 329 c.p.p. fino alla conclusione del procedimento medesimo (cfr. Tar Lazio, sez. II, 01.02.2017, n. 1644).
È da accogliere, invece, il ricorso per quanto riguarda la richiesta di accesso agli “atti relativi alla verifica istruttoria di regolarità edilizia del pergolato …” nonché a “qualsivoglia ordine e/o provvedimento conclusivo emesso dal Comune di Salve all’esito di tale procedimento di verifica di regolarità edilizia ex art. 27 D.P.R. 380/2001”.
Infatti, ai sensi dell’art. 22 l. 241/1990, per diritto di accesso si intende il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi, e per interessati si intendono tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento in relazione al quale è chiesto l’accesso.
Nel caso in esame, è da riconoscere in capo al ricorrente un interesse diretto, concreto e attuale a prendere visione e ottenere copia della documentazione riguardante gli atti relativi alla regolarità edilizia atteso che i documenti di cui si chiede l’ostensione sono direttamente inerenti al ricorrente stesso (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 21.05.2018 n. 840 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ricostruzione di edificio accidentalmente crollato, che non ha modificato né la volumetria né la destinazione d’uso, non deve scontare il versamento degli oneri di urbanizzazione.
In giurisprudenza viene pacificamente individuata quale ratio fondamentale e giustificatrice della corresponsione degli oneri di urbanizzazione il carico urbanistico, con connessa esigenza di realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Se pure suddetta ratio giustificatrice non trasforma l’onere in una imposta di scopo (non vi è la necessità che gli oneri di urbanizzazione incassati in una determinata area siano devoluti alle opere di urbanizzazione ivi realizzate e/o necessarie) né il rapporto tra carico urbanistico ed oneri di urbanizzazione è rigoroso al punto da non ammettere la modulazione degli oneri stessi anche in funzione di diverse finalità (ad esempio scoraggiare l’espansione in determinate aree ovvero incentivarla in altre), la giustificazione sostanziale di tale forma di imposizione resta il carico urbanistico ingenerato da un nuovo insediamento o da un mutamento di destinazione d’uso.
Per la fisiologica connessione tra aumento del carico urbanistico e oneri di urbanizzazione è stato statuito, invero, che: “riguardo alla differenza tra oneri di urbanizzazione e costi di costruzione, la giurisprudenza concordemente ritiene che i primi espletino la funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della consentita attività edificatoria, mentre i secondi si configurino quale compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore”.

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Quanto agli interessi ed alla rivalutazione del contributo indebitamente versato, è condivisibile la difesa dell’amministrazione là dove evidenzia che la decorrenza degli interessi deve essere individuata nel giorno della domanda e non in quello del pagamento (trattandosi di percezione di indebito intervenuta in buona fede, che si presume) e che non può essere riconosciuta la rivalutazione monetaria, non avendo parte ricorrente dimostrato un maggior danno che resterebbe non compensato dalla corresponsione degli interessi.
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L’edificio sito in Torino via ... n. 12 è parzialmente crollato in seguito a scoppio dovuto ad un fuga di gas; in data 06.04.2012 il condominio ha presentato domanda di permesso di costruire per la ricostruzione della struttura.
Con nota in data 28.11.2013 il Comune ha quantificato l’ammontare degli oneri di urbanizzazione dovuti in € 35.762,54, che il condominio ha versato al solo fine di ottenere il titolo edilizio.
Lamenta parte ricorrente la violazione dell’art. 16 del d.p.r. n. 380/2001 e l’eccesso di potere per difetto di istruttoria ed insufficiente motivazione, oltre che il travisamento dei fatti; gli oneri di urbanizzazione sono parametrati al beneficio tratto dall’intervento dall’esistenza di opere di urbanizzazione con l’obiettivo di ridistribuire i costi sociali dell’aggravamento del carico urbanistico; nel caso di specie la ricostruzione è avvenuta con la stessa volumetria e destinazione d’uso precedenti il crollo, sicché il versamento di tali oneri non sarebbe giustificato.
Ha chiesto quindi la condanna del Comune di Torino alla rifusione di quanto indebitamente versato, oltre interessi e rivalutazione monetaria dal giorno del pagamento al saldo.
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Ritiene il collegio che il ricorso debba trovare accoglimento.
Non vi è contestazione tra le parti sulle circostanze di fatto; è dunque pacifico che l’edificio oggetto di ricostruzione è crollato accidentalmente e che la ricostruzione non ha modificato né la volumetria né la destinazione d’uso.
L’abile difesa di parte resistente propone una lettura letterale della normativa applicabile, senza tuttavia valorizzare quella che in giurisprudenza viene pacificamente individuata quale ratio fondamentale e giustificatrice della corresponsione degli oneri di urbanizzazione, ossia il carico urbanistico, con connessa esigenza di realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Se pure suddetta ratio giustificatrice non trasforma l’onere in una imposta di scopo (non vi è la necessità che gli oneri di urbanizzazione incassati in una determinata area siano devoluti alle opere di urbanizzazione ivi realizzate e/o necessarie) né il rapporto tra carico urbanistico ed oneri di urbanizzazione è rigoroso al punto da non ammettere la modulazione degli oneri stessi anche in funzione di diverse finalità (ad esempio scoraggiare l’espansione in determinate aree ovvero incentivarla in altre), la giustificazione sostanziale di tale forma di imposizione resta il carico urbanistico ingenerato da un nuovo insediamento o da un mutamento di destinazione d’uso.
Per la fisiologica connessione tra aumento del carico urbanistico e oneri di urbanizzazione, ex pluribus, si veda Cons. St., sez. IV, n. 1187/2018; ancora si legge in Cons. St., sez. IV, n. 2915/2016 che: “riguardo alla differenza tra oneri di urbanizzazione e costi di costruzione, la giurisprudenza concordemente ritiene che i primi espletino la funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona a causa della consentita attività edificatoria, mentre i secondi si configurino quale compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore”.
Alla luce di tali principi, e considerato che l’intervento per cui è causa pacificamente non comporta alcun aumento di carico urbanistico, deve essere accolta la domanda di parte ricorrente volta alla restituzione degli oneri, in quanto indebitamente corrisposti.
Quanto agli interessi ed alla rivalutazione, è condivisibile la difesa dell’amministrazione là dove evidenzia che la decorrenza degli interessi deve essere individuata nel giorno della domanda e non in quello del pagamento (trattandosi di percezione di indebito intervenuta in buona fede, che si presume) e che non può essere riconosciuta la rivalutazione monetaria, non avendo parte ricorrente dimostrato un maggior danno che resterebbe non compensato dalla corresponsione degli interessi (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 21.05.2018 n. 630 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO DEMANIALE – Ordinanza di demolizione di opera edilizia abusiva - Opere realizzate senza titolo su area demaniale - Destinatario - Proprietario attuale – Soggetto avente la disponibilità dell’opera abusiva.
Fermo restando, in linea generale, l'obbligo di emanare le ordinanze di demolizione di opera edilizia abusiva nei confronti del proprietario attuale, indipendentemente dall'essere o non responsabile delle opere abusive, detto ordine deve comunque essere rivolto anche nei confronti di chi utilizzi o abbia la disponibilità dell'opera abusiva quale soggetto in grado di porre fine alla situazione antigiuridica, indipendentemente dal coinvolgimento o meno nella realizzazione dell'abuso, in considerazione del carattere ripristinatorio della disposta demolizione; ciò vale anche nelle ipotesi di opere realizzate senza titolo abilitativo su area demaniale, dovendo i provvedimenti repressivi, adottati dall'Amministrazione pubblica, essere rivolti nei confronti di chi abbia in concreto una relazione giuridica o anche materiale con il bene (TAR Puglia, Lecce, I, 28.07.2017, n. 1304; negli stessi termini, TAR Campania, Napoli, VIII, 24.05.2016 n. 2638; TAR Calabria, Reggio Calabria, I, 04.02.2016, n. 127; TAR Umbria, Perugia, I, 29.01.2014, n. 66; TAR Trentino-Alto Adige, Trento, I, 17.04.2013, n. 119).
DIRITTO DEMANIALE – Occupazione sine titulo di un bene demaniale – Pretesa indennitaria – Prescrizione decennale.
La pretesa indennitaria dovuta all’occupazione sine titulo di un bene demaniale è soggetta alla prescrizione decennale e non a quella quinquennale, non trattandosi del pagamento di canoni relativi a una concessione, da effettuarsi periodicamente ad anno, bensì del pagamento di una somma, in un'unica soluzione, a titolo di reintegrazione per la subita diminuzione patrimoniale (Cass. Civ., Sez. Unite, 18.11.1992, n. 12313; Tribunale civile di Bari, I, 29.09.2015, n. 4084) (TAR Marche, sentenza 21.05.2018 n. 388 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: E' illegittima l'ordinanza comunale circa l'abbattimento di un cipresso ritenuto pericoloso per la pubblica incolumità laddove la stessa si basi su un "mero esame visivo dello stesso traendone conclusioni piuttosto semplicistiche" anziché fondarsi su accertamenti preliminari «con la necessaria strumentazione tecnica e, segnatamente, quella di cui alla “metodologia SIM (Static Integrated Method), unica tecnica strumentale oggi disponibile promossa dalla scuola di Stoccarda, con la quale si rilevano determinati parametri indicativi della resistenza dell’albero sottoposto ad un carico controllato e misurando le corrispondenti reazioni con strumenti di precisione”».
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1. Con atto di ricorso notificato il 30.07.2015, il sig. Gu.He.De. ha impugnato, chiedendone l’annullamento, l’ordinanza del Corpo di Polizia Municipale dei Comuni di Fabro, Monteleone d’Orvieto e Parrano n. 13/2015 del 28.05.2015, avente ad oggetto l’abbattimento di una pianta di cipresso che insiste sulla sua proprietà, in quanto ritenuta pericolosa per pubblica incolumità.
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11. Nel merito il ricorso è fondato.
12. Dirimente appare sul punto al Collegio la relazione del c.t.u. depositata in data 22.11.2017, secondo cui “le indagini a trazione controllata [con calcolo del vento di (25 m/s) 90 Km/h e raffiche di 110-130 Km/h] unitamente all’analisi vegetativa e sanitaria effettuata sul cipresso oggetto di contenzioso permettono di esprimere un giudizio complessivo di mantenimento dell’albero” (cfr. pag. 10 della relazione), sia per la parte epigea (fusto e chioma) che per quella ipogea (apparato radicale).
13. Ciò consente di concludere per l’assenza del paventato pericolo per la pubblica incolumità derivante dall’asserita debolezza dell’apparato radicale della pianta in questione, emergendo al contrario che “al momento l’ancoraggio dell’albero risulta idoneo e/o adeguatamente proporzionato al sostegno dell’attuale porzione epigea (parte fuori terra)” (cfr. pag 11 della relazione).
14. Le considerazioni che precedono impongono l’accoglimento del gravame (TAR Umbria, sentenza 21.05.2018 n. 366 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza in tema di condono edilizio ha precisato che la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria richiede quale presupposto essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, quello che sia stato integralmente dimostrato -tra l'altro- l'ulteriore requisito sostanziale relativo al tempo di ultimazione dei lavori, che è elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione comunale.
Pertanto, è inutile il decorso del termine biennale qualora la domanda sia carente della prova della preesistenza del manufatto alla data prevista dalla normativa in materia. E anche la non veritiera data di ultimazione dell'opera abusiva, configurando l'ipotesi di domanda dolosamente infedele, impedisce il formarsi del c.d. silenzio-assenso.
Anche questo Consiglio ha del resto recentemente affermato che l’istituto del silenzio-assenso, “previsto dall’art. 32, comma 37, del D.L. 269/2003 (convertito in L. 326/2003), non opera per le costruzioni realizzate abusivamente in data posteriore a quella indicata dalla legge.”
La formazione della fattispecie silenziosa favorevole presuppone, inoltre, in via di principio, la completezza della domanda di sanatoria.
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8 Il Collegio deve infine scrutinare il rilievo del privato circa l’avvenuta formazione del silenzio-assenso sull’istanza di sanatoria (pagg. 5 e 22 dell’appello) ai sensi dell’art. 32, comma 37, del d.l. n. 269/2003 (convertito con la legge n. 326/2003), per essere decorso il termine di 24 mesi dalla presentazione della domanda e dal pagamento degli oneri concessori senza che il Comune si esprimesse.
Anche questo mezzo è infondato.
La giurisprudenza in tema di condono edilizio ha precisato che la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di sanatoria richiede quale presupposto essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, quello che sia stato integralmente dimostrato -tra l'altro- l'ulteriore requisito sostanziale relativo al tempo di ultimazione dei lavori, che è elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione comunale (C.d.S., Sez. V, 08.11.2011, n. 5894; 15.07.2013, n. 3844; 20.08.2013, n. 4182; Sez. VI, 27.07.2015, n. 3661).
Pertanto, è inutile il decorso del termine biennale qualora la domanda sia carente della prova della preesistenza del manufatto alla data prevista dalla normativa in materia (Consiglio di Stato, sez. V, 14.10.1998, n. 1468; Sez. V, 17.10.1995, n. 1440; Cons. giust. amm. sic., sez. giurisdiz., 21.11.1997, n. 509). E anche la non veritiera data di ultimazione dell'opera abusiva, configurando l'ipotesi di domanda dolosamente infedele, impedisce il formarsi del c.d. silenzio-assenso (Consiglio di Stato, sez. V, 15/07/2013, n. 3844; IV, 30.06.2010, n. 4174; sez. V, 04.10.2007, n. 5153; Sezione V, 04.05.1998, n. 500).
Anche questo Consiglio ha del resto recentemente affermato (sentenza n. 531 del 04.12.2017, n. 531) che l’istituto del silenzio-assenso, “previsto dall’art. 32, comma 37, del D.L. 269/2003 (convertito in L. 326/2003), non opera per le costruzioni realizzate abusivamente in data posteriore a quella indicata dalla legge.”
La formazione della fattispecie silenziosa favorevole presuppone, inoltre, in via di principio, la completezza della domanda di sanatoria (cfr. ad es. C.d.S., Sez. V, 02.02.2012, n. 578).
E poiché la stessa nella specie mancava degli elementi indicati dalla difesa comunale (memoria del 10.05.2017, pag. 8), anche tali lacune impedivano il formarsi dell’affermato silenzio-assenso (CGARS, sentenza 21.05.2018 n. 296 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il certificato di conformità edilizia e di agibilità non può essere subordinato dal Comune al pagamento delle somme richieste ai privati, in quanto le norme che ne regolano il rilascio non prevedono tale pagamento –sostitutivo, come detto, dell’onere urbanistico imposto– tra le condizioni che il privato stesso deve rispettare.
Più nello specifico, posto che il certificato in questione è ricognitivo della conformità edilizia (intesa come conformità dell’opera al progetto assentito) e della sussistenza delle condizioni igieniche, sanitarie e di sicurezza per l'utilizzazione di un edificio, deve essere escluso che il suo rilascio possa essere legittimamente subordinato al pagamento di oneri di monetizzazione del verde, che svolgono una diversa funzione e che non incidono sugli aspetti e sulle finalità avuti di mira dal certificato de quo.
In altri termini, l’amministrazione ha introdotto un onere non previsto dalla normativa di settore e riguardante la riscossione di una somma di denaro che, pur essendo indirettamente connessa al complessivo progetto edilizio attuato, deriva da altro titolo obbligatorio e può al massimo essere riscossa tramite gli strumenti ordinari di recupero del credito.
Non vi è pertanto alcun nesso di presupposizione tra il versamento di tale somma di denaro e il rilascio del certificato di conformità edilizia e di agibilità.
Ne deriva che il vincolo di subordinazione imposto dal Comune deve considerarsi, in quanto privo di alcun supporto normativo, alla stregua di una pretesa indebita ed illegittima.
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Con ricorso depositato in data 02.11.2017 Fr.Gr. e Fr. Di Do., in qualità di comproprietari dell’immobile sito nel Comune di Parma meglio descritto in epigrafe, chiedevano l'accertamento del diritto ad ottenere il certificato di conformità edilizia e agibilità relativo al predetto immobile, indipendentemente dal pagamento dell'importo dovuto a titolo di monetizzazione degli oneri di sostituzione connessi alla sostituzione delle alberature abbattute in forza di precedente autorizzazione; chiedevano altresì la rideterminazione, in diminuzione, di tale importo.
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Quanto al terzo motivo di ricorso, lo stesso è da accogliere sulle base delle considerazioni che si vanno ad esporre.
Il certificato di conformità edilizia e di agibilità non può essere subordinato dal Comune resistente al pagamento delle somme richieste ai privati, in quanto le norme che ne regolano il rilascio non prevedono tale pagamento –sostitutivo, come detto, dell’onere urbanistico imposto– tra le condizioni che il privato stesso deve rispettare.
Più nello specifico, posto che il certificato in questione è ricognitivo della conformità edilizia (intesa come conformità dell’opera al progetto assentito) e della sussistenza delle condizioni igieniche, sanitarie e di sicurezza per l'utilizzazione di un edificio, deve essere escluso che il suo rilascio possa essere legittimamente subordinato al pagamento di oneri di monetizzazione del verde, che svolgono una diversa funzione e che non incidono sugli aspetti e sulle finalità avuti di mira dal certificato de quo.
In altri termini, l’amministrazione ha introdotto un onere non previsto dalla normativa di settore e riguardante la riscossione di una somma di denaro che, pur essendo indirettamente connessa al complessivo progetto edilizio attuato, deriva da altro titolo obbligatorio e può al massimo essere riscossa tramite gli strumenti ordinari di recupero del credito.
Non vi è pertanto alcun nesso di presupposizione tra il versamento di tale somma di denaro e il rilascio del certificato di conformità edilizia e di agibilità.
Ne deriva che il vincolo di subordinazione imposto dal Comune di Parma deve considerarsi, in quanto privo di alcun supporto normativo, alla stregua di una pretesa indebita ed illegittima.
Il ricorso deve dunque essere accolto limitatamente al su esposto profilo, dovendo per il resto essere respinto (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 21.05.2018 n. 135 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: E' stata riconosciuta alle associazioni ambientali la legittimazione ad impugnare atti amministrativi ritenuti illegittimi e lesivi degli interessi sostanziali degli associati, incidenti sull'ambiente, per profili relativi a questi ultimi aspetti: quindi non solo il provvedimento impugnato deve avere una diretta e immediata rilevanza ambientale, ma devono essere dedotte censure che concernono l'assetto normativo di tutela dell'ambiente o la violazione di norme poste a salvaguardia dell'ambiente.
Ciò porta ad escludere la possibilità per una associazione ambientale, già titolare di una legittimazione ex lege per la tutela dell'ambiente, di poter fare valere profili di illegittimità degli atti impugnati che non attengano appunto al profilo ambientale.
Va dunque richiamato il consolidato principio per cui le associazioni ambientalistiche hanno sì titolo ad impugnare qualsiasi atto amministrativo, ma la specialità della loro legittimazione a ricorrere, condizionata a monte dagli scopi da esse perseguiti, consente loro unicamente la deduzione di censure funzionali al soddisfacimento di interessi ambientali e impedisce invece la proposizione di doglianze relative a violazioni di altra natura, le quali solo in via strumentale ed indiretta -e non in ragione della violazione dell'assetto normativo di tutela dell'ambiente- potrebbero semmai determinare un effetto utile ai fini della salvaguardia dei valori ambientali.
Pertanto, i profili di gravame devono essere attinenti alla sfera di interesse ambientale dell'associazione e, come tali, devono essere intesi al conseguimento di una utilità "direttamente rapportata" alla posizione legittimante.
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2.- Osserva, in limine, il Collegio come si palesi evidente l’inammissibilità di entrambi gli interventi spiegati stante la carenza di legittimazione attiva sia dell’associazione “Fare Ambiente MEE - Movimento Ecologista Europeo” che di Be.Fe..
2.1. Quanto alla prima, l’Alto Consesso ha riconosciuto alle associazioni ambientali la legittimazione ad impugnare atti amministrativi ritenuti illegittimi e lesivi degli interessi sostanziali degli associati, incidenti sull'ambiente, per profili relativi a questi ultimi aspetti: quindi non solo il provvedimento impugnato deve avere una diretta e immediata rilevanza ambientale, ma devono essere dedotte censure che concernono l'assetto normativo di tutela dell'ambiente o la violazione di norme poste a salvaguardia dell'ambiente. Ciò porta ad escludere la possibilità per una associazione ambientale, già titolare di una legittimazione ex lege per la tutela dell'ambiente, di poter fare valere profili di illegittimità degli atti impugnati che non attengano appunto al profilo ambientale (cfr.; Cons. St., sez. IV, 09.10.2002, n. 5365; 14.04.2011, n. 2329).
Va dunque richiamato il consolidato principio per cui le associazioni ambientalistiche hanno sì titolo ad impugnare qualsiasi atto amministrativo, ma la specialità della loro legittimazione a ricorrere, condizionata a monte dagli scopi da esse perseguiti, consente loro unicamente la deduzione di censure funzionali al soddisfacimento di interessi ambientali e impedisce invece la proposizione di doglianze relative a violazioni di altra natura, le quali solo in via strumentale ed indiretta -e non in ragione della violazione dell'assetto normativo di tutela dell'ambiente- potrebbero semmai determinare un effetto utile ai fini della salvaguardia dei valori ambientali (v. Cons. giust. amm. Reg. Sic. 16.10.2012 n. 933).
Pertanto, i profili di gravame devono essere attinenti alla sfera di interesse ambientale dell'associazione e, come tali, devono essere intesi al conseguimento di una utilità "direttamente rapportata" alla posizione legittimante (v. TAR Liguria, Sez. I, 29.06.2012 n. 905).
Da tanto discende il difetto di legittimazione dell’intervenuta associazione poiché quest’ultima, da un lato, non ha dedotto alcunché in ordine al possibile impatto del contestato progetto edilizio sul patrimonio culturale ed ambientale e, dall’altro, ha sollevato dei profili di illegittimità del predetto intervento che, riguardando unicamente l’asserita violazione di norme generali di piano ovvero di attuazione tecnica, potevano, come tali, essere fatte valere dai soli proprietari interessati dall'eventuale trasformazione dell’area in questione (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 18.05.2018 n. 755  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si registrano nella giurisprudenza posizioni che riconoscono la vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il fondo oggetto dell'intervento contestato, come elemento di per sé sufficiente a sorreggere l'interesse a ricorrere avverso l'abuso del vicino.
Tuttavia, non può sottacersi che la giurisprudenza ha, altresì, riconosciuto in diversa circostanza che "il mero criterio della vicinitas non può ex se radicare la legittimazione al ricorso, dovendo pur sempre il ricorrente fornire la prova concreta del pregiudizio specifico inferto dagli atti impugnati".
Non mancano ancora posizioni intermedie che pur affermando su di un piano generale la sufficienza della vicinitas fondano nel concreto il giudizio di ammissibilità dell'azione sulla concomitante presenza dell'elemento lesivo sia pur diversamente declinato.
È stato, infatti, affermato che "il rapporto di vicinitas, ossia di stabile collegamento con l'area interessata dall'intervento edilizio contestato, è idoneo e sufficiente a fondare la legittimazione a ricorrere in presenza di una lesione concreta e attuale provocata dal provvedimento amministrativo impugnato" con ciò richiedendo una lesione qualificata in termini di attualità e concretezza.
In altra occasione, sempre premettendo l'adesione al "consolidato orientamento giurisprudenziale che, in ipotesi simili (stabile collegamento o vicinitas) ravvisa la legittimazione attiva in capo ai soggetti titolari di immobili frontisti, confinanti o limitrofi, nonché versanti in situazioni differenziate tutelabili", si è giunti, con posizione meno restrittiva, a riconoscere "la legittimazione attiva in capo ai soggetti titolari di immobili frontisti, confinanti o limitrofi, nonché versanti in situazioni differenziate tutelabili" purché "suscettibili di essere incise dall'adozione di un provvedimento autorizzativo in favore altrui con ciò riconoscendo rilevanza ad una lesione meno caratterizzata".
Riassunto nei suesposti (e sintetici) termini il più recente contesto giurisprudenziale, il Collegio ritiene di condividere l'affermata insufficienza del solo requisito della vicinitas a radicare un concreto ed attuale interesse all'impugnazione pur senza pervenire alla posizione diametralmente opposta che richiedendo la prova di una lesione eccessivamente caratterizzata, si risolverebbe nei fatti in una irragionevole limitazione degli ambiti di tutela in materia edilizia.
Ai fini della legittimazione ad agire in presenza di abusi incombe, pertanto, sul ricorrente/interventore la dimostrazione del duplice requisito dello stabile collegamento con il luogo dell'intervento che si afferma abusivo e la allegazione di una lesione che non potrà essere riconosciuta come sussistente solo in ragione del carattere abusivo dell'opera realizzata ma che dovrà essere allegata (e comprovata) anche se come solo eventuale o potenziale ma sulla base di puntuali allegazioni.
A sostegno della tesi espressa si richiama il principio già affermato dal Consiglio di Stato laddove, pur non condividendo la già richiamata posizione estrema di cui alla decisione n. 383/2016, segnala "che con un'altra sentenza, sempre del 2016, la n. 851 della IV Sezione, è stato considerato attuale e concreto l'interesse di chi vanti una posizione di "vicinitas" a che il vicino edifichi regolarmente anche in presenza di una lesione potenziale o eventuale".
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2.2.- Analoga sorte compete anche all’intervento spiegato da Fe.Be..
Nel caso di specie, affermano i ricorrenti che il predetto interventore non potrebbe lamentare alcuna lesione in conseguenza della pretesa abusività del manufatto poiché realizzato in zona distinta (classificata come B1) rispetto a quella in cui insisteva il fabbricato di proprietà del Be..
L'eccezione come sollevata è fondata.
Osserva il Collegio che si registrano nella giurisprudenza posizioni che riconoscono la vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il fondo oggetto dell'intervento contestato, come elemento di per sé sufficiente a sorreggere l'interesse a ricorrere avverso l'abuso del vicino (ex multis, TAR Basilicata, 28.11.2016, n. 1071; TAR Piemonte, Sez. I, 28.11.2016, n. 1071).
Tuttavia, non può sottacersi che la giurisprudenza ha, altresì, riconosciuto in diversa circostanza che "il mero criterio della vicinitas non può ex se radicare la legittimazione al ricorso, dovendo pur sempre il ricorrente fornire la prova concreta del pregiudizio specifico inferto dagli atti impugnati" (cfr.: Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2016, n. 383).
Non mancano ancora posizioni intermedie che pur affermando su di un piano generale la sufficienza della vicinitas fondano nel concreto il giudizio di ammissibilità dell'azione sulla concomitante presenza dell'elemento lesivo sia pur diversamente declinato.
È stato, infatti, affermato che "il rapporto di vicinitas, ossia di stabile collegamento con l'area interessata dall'intervento edilizio contestato, è idoneo e sufficiente a fondare la legittimazione a ricorrere in presenza di una lesione concreta e attuale provocata dal provvedimento amministrativo impugnato" (TAR Piemonte, Sez. I, 01.12.2016, n. 1477) con ciò richiedendo una lesione qualificata in termini di attualità e concretezza.
In altra occasione, sempre premettendo l'adesione al "consolidato orientamento giurisprudenziale che, in ipotesi simili (stabile collegamento o vicinitas) ravvisa la legittimazione attiva in capo ai soggetti titolari di immobili frontisti, confinanti o limitrofi, nonché versanti in situazioni differenziate tutelabili", si è giunti, con posizione meno restrittiva, a riconoscere "la legittimazione attiva in capo ai soggetti titolari di immobili frontisti, confinanti o limitrofi, nonché versanti in situazioni differenziate tutelabili" purché "suscettibili di essere incise dall'adozione di un provvedimento autorizzativo in favore altrui con ciò riconoscendo rilevanza ad una lesione meno caratterizzata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 7245 del 05.11.2004; sez. V, sent. n. 3757 del 07.07.2005; sent. 354 del 31.01.2006; n. 2086 del 07.05.2008; sez IV, sent. n. 1315 del 12.03.2015)".
Riassunto nei suesposti (e sintetici) termini il più recente contesto giurisprudenziale, il Collegio ritiene di condividere l'affermata insufficienza del solo requisito della vicinitas a radicare un concreto ed attuale interesse all'impugnazione pur senza pervenire alla posizione diametralmente opposta che richiedendo la prova di una lesione eccessivamente caratterizzata, si risolverebbe nei fatti in una irragionevole limitazione degli ambiti di tutela in materia edilizia.
Ai fini della legittimazione ad agire in presenza di abusi incombe, pertanto, sul ricorrente/interventore la dimostrazione del duplice requisito dello stabile collegamento con il luogo dell'intervento che si afferma abusivo e la allegazione di una lesione che non potrà essere riconosciuta come sussistente solo in ragione del carattere abusivo dell'opera realizzata ma che dovrà essere allegata (e comprovata) anche se come solo eventuale o potenziale ma sulla base di puntuali allegazioni.
A sostegno della tesi espressa si richiama il principio già affermato dal Consiglio di Stato laddove, pur non condividendo la già richiamata posizione estrema di cui alla decisione n. 383/2016, segnala "che con un'altra sentenza, sempre del 2016, la n. 851 della IV Sezione, è stato considerato attuale e concreto l'interesse di chi vanti una posizione di "vicinitas" a che il vicino edifichi regolarmente anche in presenza di una lesione potenziale o eventuale" (cfr.: Cons. Stato Sez. VI, 09.05.2016, n. 1861).
Ciò premesso deve rilevarsi come nel caso di specie, l’interventore non allega né comprova, nemmeno sotto il profilo potenziale, alcun ragionevole profilo di pregiudizio.
A tal proposito, il Be. si è limitato ad affermare genericamente che il contestato intervento edilizio avrebbe comportato una riduzione, nell’ambito dell’area in cui sorgeva l’immobile di sua proprietà, di spazi da destinare a standard urbanistici nonché un deprezzamento dei valori immobiliari.
Tali circostanze, oltre ad essere state esposte in modo del tutto generico, appaiono anche del tutto prive del necessario supporto sul piano dell’allegazione, prim’ancora che su quello probatorio.
A ciò aggiungasi l’impossibilità di configurare in concreto lo stesso requisito della vicinitas.
Non può, invero, sottacersi che, in analoga vicenda che vedeva come interventore il Be., il Giudice di Appello, premettendo che, per non trasformare le azioni impugnatorie in azioni popolari o una giurisdizione a tutela di situazioni soggettive di parte, quale quella amministrativa, in una giurisdizione di diritto oggettivo, il requisito della vicinitas va inteso in senso proprio e non generico, ha osservato che le relative zone omogenee erano comunque diverse (C2 Belmonte; B1 i ricorrenti e sono separate dalla ferrovia che attraversa la città), cosicché dalla descritta conformazione dei luoghi segue che il Be. non aveva legittimazione e interesse a intervenire nel giudizio (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 18.05.2018 n. 755  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La necessità della presentazione di un previo piano attuativo si impone qualora si tratti di asservire per la prima volta all'edificazione, mediante la costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria. In tal caso non può prescindersi dalla previa predisposizione di un piano esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato) quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia.
In tale situazione, ove si impone la esigenza di non infrangere l'integrità originaria del territorio, va rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione dello strumento urbanistico generale e della susseguente predisposizione dello strumento urbanistico d'attuazione, utile a garantire e una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico ed edilizio.
Diversamente, qualora si verta in presenza di un lotto intercluso o in altri analoghi casi in cui la zona risulti totalmente urbanizzata attraverso la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività -quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, etc.- lo strumento urbanistico esecutivo non può ritenersi più necessario e non può, pertanto, legittimarsi un rifiuto da parte del Comune che sia basato sul solo argomento formale della mancata attuazione della strumentazione urbanistica di dettaglio.
Vi sono tuttavia delle situazioni intermedie, non necessariamente identificabili né sovrapponibili con le fattispecie di "lotto intercluso" oppure con altre similari, nelle quali l'area interessata dall'intervento può risultare anche solo in parte, edificata, e, parallelamente, può essere più o meno asservita da opere di urbanizzazione.
In tali casi, ove si è in presenza di una sostanziale, anche se non completa urbanizzazione, si è affermata una soluzione interpretativa, ispirata all'esigenza di assicurare un equilibrato contemperamento dei diversi interessi in gioco, volta a valorizzare e rendere più pregnante l'onere motivazionale gravante a carico della amministrazione interessata. In tali casi, si ritiene che la amministrazione non possa, né debba, invocare a fondamento del diniego di permesso di costruire la sola mancanza del piano attuativo, ma sia tenuta altresì a verificare e valutare quale sia lo stato di urbanizzazione già presente nella zona e che debba congruamente evidenziare e motivare quali siano le concrete e ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione.
Si è osservato al riguardo che l'Ente locale, avendo la disponibilità dei dati tecnici attestanti la reale consistenza del reticolo connettivo del suo territorio, sia per quanto concerne urbanizzazione primaria, sia per le opere di urbanizzazione secondaria, è senza dubbio in grado di stabilire se e in che misura un ulteriore ed eventuale carico edilizio possa armonicamente inserirsi nell'assetto del territorio già realizzato o in via di realizzazione.
Ed infatti l'esistenza delle opere di urbanizzazione, rilevante ai fini della necessità o meno della previa redazione di un piano di lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo prima del rilascio della concessione edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione di un'area -valutazione rimessa all'apprezzamento di merito dell'amministrazione- non può che essere effettuata alla stregua della normativa sugli "standards" urbanistici di cui al combinato disposto del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e art. 17 l. 06.08.1967 n. 765, onde l'equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione non è configurabile quando non si riscontri l'esistenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle quantità minime prescritte.
Naturalmente, effettuata siffatta valutazione di congruità e sufficienza rispetto agli standards previsti dalla normative e dai bisogni della collettività locale, al Comune è consentito rifiutare ulteriori assensi edilizi, purché motivi adeguatamente le ragioni del diniego, in rapporto alla situazione generale del comprensorio a quel momento esistente.
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Nelle zone già urbanizzate è consentito derogare all'obbligo dello strumento attuativo nell'ipotesi, del tutto eccezionale, che si sia già realizzata una situazione di fatto che da quegli strumenti consenta con sicurezza di prescindere, in quanto risultano oggettivamente non più necessari, essendo stato pienamente raggiunto il risultato cui sono finalizzati.
Vale aggiungere che la completezza del sistema infrastrutturale di comparto trascende le dimensioni e l'utilità urbanistica del singolo lotto edificabile, dovendo inevitabilmente apprezzarsi in riferimento alle singole zone e riguardare l'intero comprensorio.
In definitiva, sebbene il diniego di permesso di costruire motivato sulla base di una previsione di p.r.g. che subordini l'edificazione su una determinata area alla previa predisposizione di un piano particolareggiato sia legittimo, tale obbligo può venire meno nei casi in cui l'amministrazione accerti la sufficienza delle opere di urbanizzazione già esistenti, perché trattasi di lotto "intercluso" o comunque di maglia già adeguatamente urbanizzata.
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3.- Delimitato l’ambito soggettivo del giudizio, il vaglio del thema decidendum, in considerazione anche di quanto emerso all’esito della espletata consulenza tecnica (cfr. Relazione, depositata in data 13.03.2017 ed integrazione del 21.03.2018), conduce ad affermare la fondatezza dei motivi di ricorso, con il conseguente annullamento di tutti gli atti impugnati.
3.1.- È innanzitutto fondato il motivo di impugnazione con cui gli odierni ricorrenti hanno censurato il provvedimento emesso dall’ente comunale di revoca del titolo edilizio (provvedimento prot. 2192 del 27.11.2013) nella parte in cui ha ritenuto preclusa, nell’area in cui insiste il fondo di loro proprietà, l’edificazione diretta in assenza cioè della pianificazione particolareggiata.
Osserva il Collegio che nella materia in esame costituisce ormai principio pacifico ed acquisito che la necessità della presentazione di un previo piano attuativo si impone qualora si tratti di asservire per la prima volta all'edificazione, mediante la costruzione di uno o più fabbricati, aree non ancora urbanizzate che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria. In tal caso non può prescindersi dalla previa predisposizione di un piano esecutivo (piano di lottizzazione o piano particolareggiato) quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia (cfr., C.d.S., Ad. Plen., 20.05.1980 n. 18 e 06.12.1992 n. 12; V Sezione, 13.11.1990 n. 776; 06.04.1991 n. 446 e 07.01.1999 n. 1; TAR Campania, IV Sezione, 02.03.2000 n. 596).
In tale situazione, ove si impone la esigenza di non infrangere l'integrità originaria del territorio, va rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione dello strumento urbanistico generale e della susseguente predisposizione dello strumento urbanistico d'attuazione, utile a garantire e una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico ed edilizio.
Diversamente, qualora si verta in presenza di un lotto intercluso o in altri analoghi casi in cui la zona risulti totalmente urbanizzata attraverso la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività -quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, etc.- lo strumento urbanistico esecutivo non può ritenersi più necessario e non può, pertanto, legittimarsi un rifiuto da parte del Comune che sia basato sul solo argomento formale della mancata attuazione della strumentazione urbanistica di dettaglio (cfr., per tutte, TAR Campania, IV Sezione, 06.06.2000 n. 1819).
Vi sono tuttavia delle situazioni intermedie, non necessariamente identificabili né sovrapponibili con le fattispecie di "lotto intercluso" oppure con altre similari, nelle quali l'area interessata dall'intervento può risultare anche solo in parte, edificata, e, parallelamente, può essere più o meno asservita da opere di urbanizzazione.
In tali casi, ove si è in presenza di una sostanziale, anche se non completa urbanizzazione, si è affermata una soluzione interpretativa, ispirata all'esigenza di assicurare un equilibrato contemperamento dei diversi interessi in gioco, volta a valorizzare e rendere più pregnante l'onere motivazionale gravante a carico della amministrazione interessata. In tali casi, si ritiene che la amministrazione non possa, né debba, invocare a fondamento del diniego di permesso di costruire la sola mancanza del piano attuativo, ma sia tenuta altresì a verificare e valutare quale sia lo stato di urbanizzazione già presente nella zona e che debba congruamente evidenziare e motivare quali siano le concrete e ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione (cfr., C.d.S., Ad. Plen., 06.10.1992 n. 12; V Sezione, 03.10.1997 n. 1097, 25.10.1997 n. 1189 e 18.08.1998 n. 1273; TAR Lazio, II Sezione, 29.09.2000 n. 7649; TAR Campania, IV Sezione, 02.03.2000 n. 596 e 18.05.2000 n. 1413).
Si è osservato al riguardo che l'Ente locale, avendo la disponibilità dei dati tecnici attestanti la reale consistenza del reticolo connettivo del suo territorio, sia per quanto concerne urbanizzazione primaria, sia per le opere di urbanizzazione secondaria, è senza dubbio in grado di stabilire se e in che misura un ulteriore ed eventuale carico edilizio possa armonicamente inserirsi nell'assetto del territorio già realizzato o in via di realizzazione.
Ed infatti l'esistenza delle opere di urbanizzazione, rilevante ai fini della necessità o meno della previa redazione di un piano di lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo prima del rilascio della concessione edilizia, deve essere intesa nel significato di adeguatezza delle opere ai bisogni collettivi; pertanto, tale valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione di un'area -valutazione rimessa all'apprezzamento di merito dell'amministrazione- non può che essere effettuata alla stregua della normativa sugli "standards" urbanistici di cui al combinato disposto del d.m. 02.04.1968 n. 1444 e art. 17 l. 06.08.1967 n. 765, onde l'equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione non è configurabile quando non si riscontri l'esistenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle quantità minime prescritte (cfr. Consiglio Stato sez. V, 29.04.2000, n. 2562).
Naturalmente, effettuata siffatta valutazione di congruità e sufficienza rispetto agli standards previsti dalla normative e dai bisogni della collettività locale, al Comune è consentito rifiutare ulteriori assensi edilizi, purché motivi adeguatamente le ragioni del diniego, in rapporto alla situazione generale del comprensorio a quel momento esistente.
Ciò premesso, alla luce dell'orientamento testé richiamato, dall’espletato accertamento tecnico è emerso che il programmato intervento edilizio è “situato in un’area del territorio urbano di Battipaglia completamente interessata dalla presenza di edifici di vario tipo (uso residenziale e/o commerciale, ecc.), e sulla quale insistono opere di urbanizzazione quali strade, parcheggi pubblici, condotti elettrici e fognari, acquedotto, telecomunicazioni, per cui si può senz’altro affermare che il grado di urbanizzazione dell’area di interesse è tale da farla risultare compiutamente e definitivamente collegata ed integrata con le già esistenti opere di urbanizzazione, primarie e secondarie, presenti e/o da eseguirsi sulla scorta di quanto previsto dagli strumenti urbanistici vigenti”.
La mancanza del piano attuativo non poteva, dunque, condizionare il rilascio del permesso di costruire, essendosi riscontrata l’urbanizzazione dell'area che rendeva superfluo ogni ulteriore adempimento nella definizione della disciplina urbanistica di dettaglio.
Tale principio è affermato dalla giurisprudenza prevalente, secondo cui nelle zone già urbanizzate è consentito derogare all'obbligo dello strumento attuativo nell'ipotesi, del tutto eccezionale, che si sia già realizzata una situazione di fatto che da quegli strumenti consenta con sicurezza di prescindere, in quanto risultano oggettivamente non più necessari, essendo stato pienamente raggiunto il risultato cui sono finalizzati. Vale aggiungere che la completezza del sistema infrastrutturale di comparto trascende le dimensioni e l'utilità urbanistica del singolo lotto edificabile, dovendo inevitabilmente apprezzarsi in riferimento alle singole zone e riguardare l'intero comprensorio.
In definitiva, sebbene il diniego di permesso di costruire motivato sulla base di una previsione di p.r.g. che subordini l'edificazione su una determinata area alla previa predisposizione di un piano particolareggiato, sia legittimo, tale obbligo può venire meno nei casi in cui l'amministrazione accerti la sufficienza delle opere di urbanizzazione già esistenti, perché trattasi di lotto "intercluso" o comunque di maglia già adeguatamente urbanizzata (cfr.: Consiglio di Stato, sez. IV, 27/04/2012, n. 2470).
Nell’odierna fattispecie, l’impugnato provvedimento non poteva fondarsi esclusivamente sull’asserita necessità del piano particolareggiato, atteso che lo stato di urbanizzazione accertato all’esito della espletata consulenza imponeva all'amministrazione una valutazione più approfondita dello stato di urbanizzazione dell'area, cui conseguiva l'onere di dar conto nella motivazione delle verifiche effettuate circa la sufficienza o insufficienza della urbanizzazione esistente, nonché, nello specifico, delle ragioni per cui la urbanizzazione, ove esistente non fosse in grado di soddisfare i parametri minimi necessari per il rilascio del permesso di costruire richiesto, e, quindi, necessitasse della previa predisposizione del piano attuativo.
Nella specie la motivazione opposta dalla amministrazione a fondamento del diniego impugnato risultava limitata ad un laconico richiamo della normativa urbanistica applicabile, senza nulla precisare in ordine all'adeguatezza delle opere di urbanizzazione esistenti, e senza riscontrare le osservazioni ex art. 10-bis al riguardo prodotte dai ricorrenti.
Tale motivazione, per le ragioni che si sono esposte in precedenza e per la giurisprudenza sopra richiamata, deve ritenersi del tutto insufficiente ed inadeguata rispetto all'onere motivazionale richiesto per i casi sovrapponibili a quello in esame (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 18.05.2018 n. 755  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce costante insegnamento della Corte di Cassazione che la disciplina della prevenzione di cui all'art. 875 c.c. implica che intanto esiste il diritto di prevenzione, in quanto ciascuno dei due contrapposti interessati possa costruire sul confine ovvero a distanza da esso inferiore alla metà di quella legale o regolamentare e che, corrispondentemente, intanto esiste il diritto del prevenuto di costruire in appoggio o in aderenza, nell'ipotesi di costruzione non a confine (art. 875 e 877 comma 2 c.c.), in quanto al preveniente sia consentito, a sua volta, di optare per il prolungamento della sua costruzione sino al confine.
Cosicché, quando gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine ma prevedano anche la possibilità di costruire in aderenza od in appoggio, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli artt. 873 e ss. c.c., con la conseguenza che si applica il criterio della prevenzione, in forza del quale è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo così il vicino -che intenda a sua volta edificare- nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dagli artt. 875 e 877, secondo comma, c.c.), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico.
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3.2.- Parimenti, l’espletata consulenza tecnica ha consentito di confutare anche la seconda ragione su cui si fonda il primigenio provvedimento impugnato.
Le Norme di Attuazione del vigente PRG, invero, prevedono la fabbricazione in aderenza, ove possibile, su due lati nelle zone omogenee B1, B2 e C3.
Costituisce costante insegnamento della Corte di Cassazione che la disciplina della prevenzione di cui all'art. 875 c.c. implica che intanto esiste il diritto di prevenzione, in quanto ciascuno dei due contrapposti interessati possa costruire sul confine ovvero a distanza da esso inferiore alla metà di quella legale o regolamentare e che, corrispondentemente, intanto esiste il diritto del prevenuto di costruire in appoggio o in aderenza, nell'ipotesi di costruzione non a confine (art. 875 e 877 comma 2 c.c.), in quanto al preveniente sia consentito, a sua volta, di optare per il prolungamento della sua costruzione sino al confine; cosicché, quando gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine ma prevedano anche la possibilità di costruire in aderenza od in appoggio, si versa in ipotesi del tutto analoga a quella disciplinata dagli artt. 873 e ss. c.c., con la conseguenza che si applica il criterio della prevenzione, in forza del quale è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo così il vicino -che intenda a sua volta edificare- nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dagli artt. 875 e 877, secondo comma, c.c.), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico (cfr.: Cassazione civile, sez. II, 11/12/2015, n. 25032).
Nel caso di specie, il fabbricato che i ricorrenti intendono realizzare, cosi come risulta dagli elaborati di progetto ed accertato dal nominato esperto, prevede la costruzione della scala “a confine”, nel rispetto di una eventuale futura costruzione in aderenza da parte della proprietà limitrofa.
Ne discende la fondatezza anche della censura all’uopo mossa avverso la seconda ragione posta a fondamento dell’impugnato provvedimento (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 18.05.2018 n. 755  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Giova richiamare la distinzione giurisprudenziale tra "varianti essenziali" e "varianti minori" o "leggere".
Costituisce, in particolare, variante essenziale ogni modifica incompatibile col disegno globale ispiratore dell'originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo.
Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata dall'art. 32 del D.P.R. 380/2011, la quale ricomprende il mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione degli standards, l'aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Ai fini, invece, dell'individuazione della categoria di variante minore o leggera, l'art. 22, comma 2, del D.P.R. 380/2011 prevede che sono subordinate a SCIA (ex DIA) le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del D.Lgs. 42/2004, non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la SCIA (ex DIA) costituisce "parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale" e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori, purché si tratti -come si è visto- di varianti leggere minori o leggere.
In definitiva, ai sensi dell'art. 3 comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, rientrano nell'ambito di interventi di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella demolizione e successiva ricostruzione, con la stessa volumetria, del fabbricato preesistente. La norma è il risultato di una recente modifica introdotta dall'art. 30 comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013 n. 69 convertito, con modificazioni, dalla l. 09.08.2013 n. 98.
Prima di questa modifica, la disposizione specificava che, per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli interventi di demolizione e ricostruzione dovevano rispettare il vincolo della sagoma. La nuova norma, a differenza della precedente, non fa più menzione della sagoma, sicché deve ritenersi che, attualmente, possono considerarsi interventi di ristrutturazione anche quelli che si limitano al rispetto della preesistente volumetria. Sennonché l'ultimo periodo della disposizione specifica che «rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione... costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente».
Pertanto, detta norma prevede un'eccezione alla regola generale sancita dal primo periodo della lett. d); eccezione che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Soltanto per questi immobili, dunque, continua a permanere il vincolo della sagoma; conseguentemente, qualora l'intervento di demolizione e ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di un intervento di ristrutturazione edilizia ma andrà ascritto alla categoria della nuova costruzione.
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3.3.- Infine, fondato è anche il ricorso per motivi aggiunti con cui i ricorrenti hanno censurato il provvedimento di cui alla nota prot. n. 36055 del 26.05.2015, recante “rigetto della s.c.i.a. in variante”, contrassegnata prot. n. 33106 del 15.05.2015.

A tal fine, giova richiamare la distinzione giurisprudenziale tra "varianti essenziali" e "varianti minori" o "leggere" (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.04.2007 n. 1572; 21.05.2010, n. 3231; Cass. pen., sez. III, 24.03.2010 n. 24236; 25.09.2012 n. 49290).
Costituisce, in particolare, variante essenziale ogni modifica incompatibile col disegno globale ispiratore dell'originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo.
Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata dall'art. 32 del D.P.R. 380/2011, la quale ricomprende il mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione degli standards, l'aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Ai fini, invece, dell'individuazione della categoria di variante minore o leggera, l'art. 22, comma 2, del D.P.R. 380/2011 prevede che sono subordinate a SCIA (ex DIA) le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del D.Lgs. 42/2004, non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la SCIA (ex DIA) costituisce "parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale" e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori, purché si tratti -come si è visto- di varianti leggere minori o leggere.
In definitiva, ai sensi dell'art. 3 comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, rientrano nell'ambito di interventi di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella demolizione e successiva ricostruzione, con la stessa volumetria, del fabbricato preesistente. La norma è il risultato di una recente modifica introdotta dall'art. 30 comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013 n. 69 convertito, con modificazioni, dalla l. 09.08.2013 n. 98.
Prima di questa modifica, la disposizione specificava che, per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli interventi di demolizione e ricostruzione dovevano rispettare il vincolo della sagoma. La nuova norma, a differenza della precedente, non fa più menzione della sagoma, sicché deve ritenersi che, attualmente, possono considerarsi interventi di ristrutturazione anche quelli che si limitano al rispetto della preesistente volumetria. Sennonché l'ultimo periodo della disposizione specifica che «rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004 n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione... costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente».
Pertanto, detta norma prevede un'eccezione alla regola generale sancita dal primo periodo della lett. d); eccezione che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Soltanto per questi immobili, dunque, continua a permanere il vincolo della sagoma; conseguentemente, qualora l'intervento di demolizione e ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di un intervento di ristrutturazione edilizia ma andrà ascritto alla categoria della nuova costruzione (cfr.: TAR Lombardia Milano, sez. II, 30/11/2016, n. 2274).
Ebbene, nella fattispecie in esame, gli interventi contestati -per come accertati dal nominato esperto-, rispetto al progetto originario hanno comportato:
   - la diversa distribuzione di parte della volumetria, dislocata originariamente al piano terra, al piano sesto del fabbricato di progetto, senza tuttavia alterare la cubatura complessiva da realizzarsi;
   - la modifica/alterazione della sagoma del fabbricato di progetto originario, ossia della conformazione planovolumetrica della costruzione e del suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale;
   - la modifica delle facciate dell’edificio, con la previsione in variante di nuove aperture di finestre e/o balconi o chiusura/modifica di quelle previste nel progetto originario.
Siccome l’edificio non insiste su un'area sottoposta a vincolo ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, deve reputarsi l’intervento pienamente rientrante nell'ambito applicativo dell’art. 22 D.P.R. 380/2001, tenuto conto che non è consistito né nella trasformazione (funzionale ovvero materiale) dei locali, né nella realizzazione ex novo di superfici ulteriori rispetto a quelle assentite con titolo edificatorio.
Alla stregua di tali coordinate emerge, dunque, la fondatezza della censura rassegnata sul punto dal ricorrente, con il conseguente definitivo accoglimento del proposto gravame ed annullamento dei provvedimenti impugnati (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 18.05.2018 n. 755  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nella gara d’appalto svolta in forma aggregata il ricorso di primo grado deve essere notificato nei soli confronti dell’ente che ha emanato l’atto impugnato.
L’Adunanza plenaria, nello stabilire che in caso di gara d’appalto svolta in forma aggregata la notificazione del ricorso di primo grado avvenga solo nei confronti dell’ente che ha emanato il provvedimento impugnato, arricchisce la casistica sui poteri esercitabili dal medesimo consesso ex art. 99 c.p.a.
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Giustizia amministrativa – Consiglio di Stato – Adunanza plenaria – Restituzione degli atti alla sezione – Presupposti
  
Giustizia amministrativa – Consiglio di Stato – Adunanza plenaria – Ordine di esame delle questioni rimesse – Ricorso incidentale escludente – Priorità – In caso di difettosa costituzione del rapporto processuale – Esclusione
  
Giustizia amministrativa – Appalti – Gara in forma aggregata – Ricorso – Notificazione alla sola amministrazione capofila – Sufficienza
   Devono essere restituiti gli atti alla sezione se la rimessione della questione è così contraddittoria da impedire all’Adunanza plenaria di stabilire se la stessa sia già stata decisa (nella specie, se, in caso di esecutori plurisoggettivi costituiti in un RTI, possa ritenersi necessario e sufficiente che siano garantite la loro affidabilità e responsabilità attraverso la qualificazione del RTI sulla base del complessivo fatturato conseguito dalle singole imprese, mentre resterebbe viceversa liberamente modulabile la ripartizione dell’esecuzione degli obblighi fra le imprese partecipanti, essendo le stesse legate da un accordo che impone ad ogni soggetto partecipante di assolvere agli adempimenti assunti dal RTI, e dovendosi quindi ritenere ogni membro del raggruppamento in grado di garantire, nei limiti della propria qualificazione, l’avvalimento nei confronti degli altri partecipanti al RTI al fine di rispettare gli adempimenti assunti mediante la ripartizione interna delle quote di esecuzione del medesimo servizio) (1).
  
Premesso che spetta alla Adunanza plenaria stabilire la tassonomia delle questioni rimesse, deve escludersi l’esame prioritario del ricorso incidentale escludente se il rapporto processuale in primo grado non si sia correttamente costituito (nella specie, a causa della asserita erronea individuazione dei soggetti destinatari della notificazione del ricorso principale) (2)
  
Ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p.a., in caso di impugnazione di una gara di appalto svolta in forma aggregata da un soggetto per conto e nell’interesse anche di altri enti, il ricorso deve essere notificato esclusivamente alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato. (3)
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   (1 - 2)
      I.- La questione in relazione alla quale è stata disposta la restituzione degli atti ex art. 99, comma 1, ultimo periodo, c.p.a., era stata rimessa dalla III Sezione del Consiglio di Stato con ordinanza 21.09.2017, n. 4403 (oggetto della News US in data 03.10.2017 cui si rinvia per ogni riferimento di dottrina e giurisprudenza).
      II.- La Plenaria perviene alla statuizione di cui alla prima massima dopo aver preso atto della impossibilità di stabilire, con certezza, se la questione rimessa fosse stata o meno già decisa dalla III Sezione.
Si incrementa la scarsa casistica concernente i presupposti della restituzione degli atti alla sezione rimettente (sul punto si rinvia agli approfondimenti contenuti nella News US in data 17.05.2018 avente ad oggetto l’ordinanza della Adunanza plenaria 11.05.2018, n. 7).
      III. – Per quanto concerne la seconda massima, si evidenzia che la Plenaria si ritiene non vincolata dall'ordine di esame suggerito dalla sezione rimettente, riconoscendo a se medesima il potere di stabilire l'esatto ordine di soluzione delle questioni.
Nel caso di specie la Plenaria ha ritenuto di non poter seguire le indicazioni della Sezione rimettente: se è vero infatti che, normalmente, il ricorso incidentale escludente deve essere esaminato prima del ricorso principale, è altresì vero che una regola del genere non può valere per la (diversa) questione della corretta notificazione del ricorso principale.
Dalla soluzione di tale problema dipende, infatti, la corretta costituzione del rapporto giuridico processuale, ed è palese che, in mancanza di essa, non può nemmeno passarsi all'esame del ricorso incidentale, che, appunto, suppone la regolare instaurazione del giudizio.
Rimane sullo sfondo il dubbio -non affrontato, stante la peculiarità della vicenda contenziosa, sia in questo caso che in quello deciso da Ad. plen., ordinanza 28.07.2017, n. 4 (in Foro it., 2018, III, 24, con nota di SIGISMONDI; nonché oggetto della News US in data 01.08.2017 cui si rinvia per ogni approfondimento)– concernente la possibilità o meno che la statuizione sulla tassonomia delle questioni sia suscettibile di passare in giudicato (interno) e dunque, per essere sindacata dal giudice di appello, necessiti di uno specifico motivo di impugnazione.
      IV. - Sull’ordine di esame delle questioni nel giudizio di primo grado si veda Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; Foro amm., 2015, 1025; Riv. neldiritto, 2015, 1194; Giurisdiz. amm., 2015, ant., 733; Urbanistica e appalti, 2015, 1177, con nota di VAIANO; Riv. neldiritto, 2015, 2084, con nota di COLASCILLA NARDUCCI; Riv. dir. proc., 2015, 1256, con nota di FANELLI; Giur. it., 2015, 2192 (m), con nota di FOLLIERI; Dir. proc. amm., 2016, 205, con nota di PERFETTI, TROPEA; Dir. proc. amm., 2016, 830 (m), con nota di BERTONAZZI.
Sul rapporto fra ricorso principale e incidentale di primo grado, sulla natura giuridica di quest’ultimo, sull’indole accessoria e condizionata, sui soggetti legittimati a proporlo, sulle modalità e termini di proposizione:
   1. in dottrina v. VILLATA – BERTONAZZI, in Il processo amministrativo, a cura di QUARANTA e LOPILATO, Milano, 2011, 415 ss.; DE NICTOLIS, Codice del processo amministrativo, Milano, 2017, 812 ss.;
   2. in giurisprudenza, sulle regole che presiedono alla esaminabilità del ricorso incidentale:
         b1) Cons. Stato, sez. V, 17.02.2014, n. 755 (in Foro it., 2014, III, 219 cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza);
         b2) Cons. Stato, Ad. plen., 07.04.2011, n. 4 in Foro it., 2011, III, 306, con nota di SIGISMONDI; Urbanistica e appalti, 2011, 674, con nota di LAMBERTI; Corriere merito, 2011, 763 (m), con nota di RAIOLA; Foro amm. - Cons. Stato, 2011, 1132; Giur. it., 2011, 1651 (m), con nota di TROPEA; Guida al dir., 2011, fasc. 19, 70, con nota di PALLIGGIANO; Giurisdiz. amm., 2011, I, 513; Giornale dir. amm., 2011, 1103 (m), con nota di GISONDI; Riv. giur. edilizia, 2011, I, 570; Riv. neldiritto, 2011, 1530, con nota di IZZO; Dir. proc. amm., 2011, 1035, con nota di SQUAZZONI, GIANNELLI, FOLLIERI, MARINELLI; Arch. giur. oo. pp., 2011, 404;
         b3) il principio elaborato dalla Plenaria in rassegna (per cui il ricorso incidentale risente –per la sua teorica esaminabilità– in quanto strutturalmente accessorio, della rituale proposizione della causa in primo grado, principio estensibile ai motivi aggiunti cd. propri), è declinato motivatamente da Cons. Stato, sez. IV, 18.05.2018, n. 2999 secondo cui “… il thema decidendum del giudizio di appello amministrativo è costituito esclusivamente dalle domande e dai motivi ritualmente introdotti in prime cure con atto tempestivamente notificato e depositato secondo la disciplina sua propria (ricorso principale, ricorso incidentale, motivi aggiunti; cfr. sul punto Cons. Stato, Ad. plen. n. 5 del 2015, § 6.3.)….”;
         b4) sulla accessorietà dei motivi aggiunti «impropri» in relazione al requisito della connessione tra provvedimenti impugnati si veda:
   • Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n. 5596 secondo cui la connessione oggettiva sussiste “a) quando fra gli atti impugnati esiste una connessione di tipo procedimentale o infraprocedimentale, ossia un collegamento tra atti del medesimo procedimento o di procedimenti collegati, avvinti da un nesso di presupposizione giuridica o di carattere logico, in quanto i diversi atti incidono sulla medesima vicenda; b) se fra gli atti impugnati esiste una connessione per reiterazione provvedimentale, che si verifica quando l'amministrazione sostituisce l'atto impugnato, su cui pende il ricorso, con un nuovo provvedimento, anch'esso non satisfattivo per il destinatario (ad es. l'atto di conferma con diversa motivazione); c) quando esiste connessione non tra gli atti impugnati, perché si tratta di diversi procedimenti, ma connessione con l'oggetto del giudizio; è questa, l'ultima frontiera aperta dalla legge n. 205/2000, tendente ad una concezione del processo basata sulla valorizzazione del giudizio sul rapporto piuttosto che sull'atto. In tal caso è ammessa la proposizione di motivi aggiunti, anche non connessi agli atti precedentemente impugnati, purché connessi all'oggetto del giudizio già instaurato, ossia al medesimo bene della vita cui aspira il ricorrente”;
   • Cons. Stato, sez. IV, 06.02.2017, n. 482 secondo cui “Nel processo amministrativo impugnatorio, la regola generale è che il ricorso abbia ad oggetto un solo provvedimento e che i vizi-motivi si correlino strettamente a quest'ultimo, salvo che tra gli atti impugnati esista una connessione procedimentale e funzionale (da accertarsi in modo rigoroso) e ciò in relazione ai dati testuali rinvenibili nelle disposizioni del c.p.a., quali: a) gli art. 40, comma 1, lett. b), e 42, comma 2, c.p.a. che, nell'individuare il contenuto del ricorso principale e incidentale, correlano l'oggetto della domanda al singolo provvedimento impugnato; b) l'art. 43, comma 1, c.p.a., che, nel recepire la giustapposizione fra motivi aggiunti propri e impropri, fonda la distinzione a seconda che sia impugnato un provvedimento ulteriore e diverso rispetto a quello oggetto del ricorso introduttivo e dell'eventuale ricorso incidentale”;
         b5) sul rapporto di autonomia tra ricorso principale e motivi aggiunti «impropri» si segnala:
   • Cons. Stato, sez. VI, 21.01.2015, n. 175 secondo cui “I motivi aggiunti di gravame, quando indirizzati avverso atti successivi a quelli originariamente impugnati, equivalgono a una nuova impugnativa, cui va riconosciuta autonomia processuale, anche in caso di pronuncia che escluda, in rito, l'ammissibilità o la persistenza di interesse, con riferimento all'originario atto introduttivo del giudizio”;
   • Cons. Stato, sez. IV, 22.09.2014, n. 4768 secondo cui “La perenzione del ricorso principale non si riflette sui motivi aggiunti c.d. impropri, atteso che essi sono dotati di autonomia sostanziale, presentano i caratteri di un nuovo rapporto processuale e non costituiscono il mero svolgimento interno del rapporto processuale sul quale s'innestano”;
   • Tar per la Sicilia-Palermo, sez. I, 15.05.2014, n. 1244 secondo cui “Il ricorso per motivi aggiunti introdotto irritualmente, perché notificato personalmente alla controinteressata anziché presso il procuratore costituito, come invece prescritto dal comb. disp. degli artt. 43, comma 2, c.p.a. e 170 c.p.c., non è necessariamente inammissibile. Infatti, considerato che la domanda nuova potrebbe essere proposta anche con ricorso separato, notificato evidentemente alla parte personalmente, e potendo poi il giudice provvedere alla riunione dei ricorsi ai sensi dell'art. 70 c.p.a. (art. 43, comma 3, c.p.a.), risulterebbe illogico dichiarare inammissibile un ricorso che, se proposto in via autonoma, poteva essere riunito e deciso con un'unica sentenza, con un esito, dunque, sostanzialmente analogo a quello che si realizza, in termini di concentrazione processuale, con la proposizione di motivi aggiunti. Ne consegue che il ricorso per motivi aggiunti potrebbe andare indenne dalla sanzione dell'inammissibilità per omessa notifica al procuratore costituito, solo ove presenti i requisiti per essere considerato quale autonomo gravame (art. 40 c.p.a.), spettando sempre al giudice la qualificazione dell'azione (art. 32 c.p.a.)”;
   • Tar per il Lazio–Roma, sez. III, 26.01.2015 n. 1376 secondo cui “La dichiarazione di inammissibilità del ricorso principale non produce l'effetto di travolgere anche il ricorso per motivi aggiunti, per cui resta ferma la validità della procura conferita per la proposizione di motivi aggiunti nell'ambito di un ricorso principale che è stato dichiarato inammissibile”;
   • Tar Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 25.05.2012, n. 183 secondo cui “Specie dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 141 del 2011 che impone, per evidenti ragioni di concentrazione dei giudizi, la proposizione di motivi aggiunti ove si intendano impugnare atti nuovi o consequenziali a quello opposto con il ricorso introduttivo — nessuno dubita dell'autonomia dei singoli giudizi che si atteggiano quali autonomi ricorsi, con la conseguenza che l'inammissibilità del ricorso introduttivo non rende inammissibile, a cascata, anche i motivi aggiunti (con l'unica eccezione che si tratti di motivi nuovi avverso il medesimo provvedimento). Questa conclusione risulta dal nuovo c.p.a. definitivamente consacrata, che ha precisato essere la natura dei motivi aggiunti una sorta di riunione ex lege di ricorsi connessi”;
   • Tar per la Sicilia-Catania, sez. I, 13.06.2013 n. 1741 secondo cui “Formalmente, un ricorso per motivi aggiunti è, a tutti gli effetti, un ricorso del tutto autonomo e svincolato dal ricorso principale, con esito potenzialmente diverso; soprattutto quando con esso si impugnano nuovi e diversi provvedimenti. Tanto è vera tale autonomia, che, anziché con motivi aggiunti nell'ambito di un giudizio già incardinato, tale ricorso potrebbe anche essere proposto come ricorso indipendente, cioè con diverso numero di ruolo, da riunire eventualmente al primo ad opera del giudice”.
   (3)
      I. – La Plenaria passa quindi ad esaminare il quesito concernente la necessità, o meno, in caso di procedura di aggiudicazione in forma aggregata, di provvedere alla notificazione del ricorso introduttivo del giudizio non solo al soggetto capofila che ha curato la procedura e che ha adottato il provvedimento (o i provvedimenti) impugnati ma anche a tutti i soggetti che aderiscono alla procedura di aggiudicazione in forma aggregata.
      II.- Osserva al riguardo:
          a) di ritenere preferibile quell'orientamento giurisprudenziale del giudice di appello (Cons. Stato, sez. III, 13.09.2013 n. 4541 in Foro it., Rep. 2013, voce Contratti pubblici [1735], n. 612; sez. V, 06.07.2012 n. 3966 in Foro it., Rep. 2012, voce Impugnazioni civili [3460], n. 95; sez. V, 15.03.2010 n. 1500 in Foro it., Rep. 2010, voce Contratti pubblici [1735], n. 743; Appalti & Contratti, 2010, fasc. 4, 95 (m); Dir. e pratica amm., 2010, fasc. 4, 46 (m), con nota di ATELLI) che ritiene sufficiente la notifica alla sola amministrazione capofila, che abbia curato la procedura concorsuale attraverso l'emanazione del bando, la costituzione della Commissione giudicatrice l'adozione degli atti di gara e l'emanazione del provvedimento di aggiudicazione;
          b) che stando al disposto di cui all'art. 41 c.p.a., ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio appare necessaria e sufficiente la notificazione dell'atto introduttivo esclusivamente all'amministrazione che ha emanato il provvedimento impugnato;
          c) la disposizione di cui all'art. 41 c.p.a., nell'enunciare la regola generale sopra ricordata, positivamente esclude che l'atto introduttivo del giudizio debba essere notificato anche ad amministrazioni od enti che a diverso titolo abbiano avuto modo di partecipare al procedimento;
          d) corollario di tale regola è che solo quando l'atto finale sia imputabile a più amministrazioni la legittimazione passiva riguarda tutte le amministrazioni interessate;
          e) per converso, le partecipazioni al procedimento giuridicamente qualificate (come quelle concernenti il potere di iniziativa o di proposta, che abbia preceduto l'adozione del provvedimento finale, ovvero gli atti preparatori) non sono idonee ad estendere la veste di parte necessaria a soggetti diversi dall'autorità emanante;
          f) una diversa soluzione, volta ad estendere la legittimazione processuale a soggetti diversi dall'autorità che ha emanato l'atto, si risolverebbe in una oggettiva violazione della norma che presidia la legittima costituzione del rapporto giuridico processuale;
          g) venendo al caso di specie osserva che si è di fronte ad una unica amministrazione (capofila) che gestisce la procedura e che di essa è responsabile, sicché soltanto ad essa sono imputabili gli atti ed i provvedimenti della medesima, divenendo così l'amministrazione cui notificare il ricorso giurisdizionale per l'instaurazione del giudizio (Cons. Stato, V, 15.03.2010, n. 1500 cit.); tutto ciò mentre le altre amministrazioni, eventualmente interessate alla procedura, sono tuttavia sfornite di os ad loquendum sulle vicende della gara;
          h) osserva che in senso contrario alla tesi accolta non può essere invocato il disposto di cui all'art. 81 c.p.c., pacificamente applicabile al processo amministrativo, secondo cui fuori dai casi previsti dalla legge, nessuno può far valere in nome proprio un diritto altrui. Nella fattispecie in esame, infatti, l'amministrazione capofila è chiamata a far valere e tutelare una situazione giuridica soggettiva propria (quella derivante dall'essere l'amministrazione che ha posto in essere il procedimento ed emanato il provvedimento di aggiudicazione). Non si verifica pertanto alcuna forma di sostituzione processuale, con la legittimazione straordinaria che a questa è connessa, mentre l'eventuale rilevanza degli esiti della aggiudicazione nei confronti del soggetto in unione di acquisto con l'amministrazione procedente, ha luogo in forza dei rapporti interni fra le due amministrazioni, privi, per le ragioni già esposte, di rilevanza processuale;
      III.- Per completezza si segnala:
         i) sull’art. 41 c.p.a. in dottrina v. VILLATA – BERTONAZZI, in Il processo amministrativo, a cura di QUARANTA e LOPILATO, Milano, 2011, 396 ss..; DE NICTOLIS, Codice del processo amministrativo, Milano, 2017, 802, secondo cui sono destinatarie del ricorso di primo grado, oltre l’autorità emanante, anche quella concertante e che agisce d’intesa con la regione (nello stesso senso, Cons. Stato, sez. V, 06.07.2012 n. 3966; sez. VI, 23.01.2006, n. 183 in Foro it., Rep. 2006, voce Giustizia amministrativa [3340], n. 742; sez. VI, 07.06.2006, n. 3423, in relazione agli atti di concerto o come può verificarsi per gli accordi di programma, gli atti complessi o quelli da emanarsi previa intesa);
         j) con riferimento alla impugnazione degli atti endo procedimentali Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2016, n. 1558 (in Foro it., 2017, III, 155 con nota di TRAVI) afferma che “È inammissibile l'impugnazione di un atto endoprocedimentale, se il ricorso non sia stato notificato all'autorità che aveva emanato tale atto” precisando tuttavia che “L'inammissibilità dell'impugnazione di un atto endoprocedimentale in un procedimento edilizio non travolge l'impugnazione proposta nei confronti del titolo edilizio, fondata su ragioni autonome e indipendenti.”; afferma TRAVI nella nota cit. che “l’impugnazione del provvedimento finale non esaurisce l’onere di impugnazione che grava sul ricorrente, quando l’illegittimità di tale provvedimento sia determinata da un atto endoprocedimentale. Il processo amministrativo non accoglie, dunque, una logica «monistica» del procedimento amministrativo, concentrata sul provvedimento finale e sul rapporto sostanziale e processuale con l’amministrazione che lo avesse emanato. Viene contemplata piuttosto una concezione multipolare, che assegna rilevanza processuale ad ogni singolo atto endoprocedimentale i cui vizi abbiano condizionato il provvedimento finale: l’omessa impugnazione di tale atto endoprocedimentale preclude anche la deduzione del vizio di illegittimità derivata del provvedimento finale. Corollario di questa concezione è l’esigenza di notificare il ricorso, a pena di inammissibilità, anche all’amministrazione che abbia assunto l’atto endoprocedimentale impugnato (Cons. Stato, sez. IV, 03.05.2005, n. 2107, id., Rep. 2006, voce Atto amministrativo, n. 238): come è ribadito dalla sentenza in epigrafe, il contraddittorio va assicurato fin dall’inizio anche rispetto alle amministrazioni cui siano imputabili gli atti endoprocedimentali che siano oggetto di contestazione”; nello stesso senso, Cons. Stato, sez. VI, 14.07.2014, n. 3623, in Foro it., Rep. 2015, voce Giustizia amministrativa, nn. 622, 709; sez. IV, 14.07.2014, n. 3646, id., Rep. 2014, voce cit., n. 714 avevano affermato che ciascuna autorità emanante ha l’interesse tutelato dall’art. 24 Cost. alla conservazione dei propri provvedimenti, sicché, ove impugnati, è indispensabile la notificazione del ricorso nei suoi confronti, risultando irrilevante, a tali fini, la natura infraprocedimentale o non vincolante dell’atto;
         k) con specifico riferimento alla centrale unica di committenza la giurisprudenza maggioritaria si era già orientata nel senso che “la centrale di committenza unica è, a termini dell'art. 3, commi 25 e 34, d.lgs. 163/2006, "amministrazione aggiudicatrice" e, in quanto tale, necessaria destinataria della notifica del ricorso avverso gli atti da essa emessi (art. 41, comma 2, c. proc. amm.), in quanto soggetto responsabile della gara. I soggetti che aderiscono alla convenzione che istituisce la centrale unica di committenza sono meri beneficiari della procedura indetta ed espletata da quest'ultima e sono vincolati alle vicende anche giudiziarie della gara, sicché, mentre gli effetti e i risultati di questa sono loro imputati, l'imputazione formale degli atti, rilevante ai fini della notifica del ricorso impugnatorio, non può che ricadere sulla centrale di committenza, contraddittore necessario dello stesso, in quanto competente in via esclusiva all'indizione, regolazione e gestione della gara e responsabile della stessa” (in questo senso, Tar per il Molise, 21.02.2018, n. 75; Consiglio di Stato sez. III 10.06.2016 n. 2497; Tar per la Lombardia-Milano, sez. IV., 27.02.2015 n. 588; Tar Abruzzo-L'Aquila, 16.10.2014 n. 721; Cons. Stato, sez. III, 30.07.2013, n. 3639); sulla irrilevanza della determina di recepimento dei risultati della gara di appalto da parte della amministrazione associata ai fini della decorrenza del termine di impugnazione, rilevando a tal fine solo la comunicazione della aggiudicazione da parte della amministrazione cfr. Tar per il Molise, 21.02.2018, n. 75 e Tar per la Campania-Napoli, sez. IV, 30.04.2015, n. 2456) per i quali l’atto di recepimento degli esiti della gara comunicati dalla centrale unica di committenza è un mero atto interno privo di effetti sulla sequenza provvedimentale relativa al procedimento di evidenza pubblica.
Nel senso che la centrale unica di committenza è priva di autonoma soggettività giuridica rispetto alla Regione presso cui è istituita con conseguente estensione alla difesa degli atti della amministrazione del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato deliberato con legge regionale, trattandosi a tutti gli effetti di provvedimenti regionali, cfr. Tar per il Molise 21.02.2018 e Tar per il Friuli Venezia Giulia, 29.12.2016, n. 588 (che hanno dichiarato inammissibile il ricorso a motivo della nullità della notifica erroneamente eseguita presso la sede legale della Regione Molise anziché presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato);
         l) per quanto concerne la legittimazione passiva delle amministrazioni centrali dello Stato, la giurisprudenza ha anche precisato che l'evocazione in giudizio di una amministrazione diversa rispetto a quella cui sia imputabile il rapporto sostanziale dedotto in causa, precludendo l'instaurazione del contraddittorio con il soggetto destinatario della statuizione domandata al giudice, implica l'inammissibilità della domanda, tenendo conto che l'unitarietà e l'inscindibilità dello Stato, nell'esercizio delle sue funzioni sovrane, non tocca l'autonoma personalità giuridica (di diritto pubblico) delle amministrazioni centrali, la separazione delle relative attribuzioni e la riferibilità a ciascuna di esse degli atti di rispettiva pertinenza e che rispetto al suddetto errore non operano la preclusione e la sanatoria previste dall'art. 4, l. n. 260 del 1958; tale disposizione, in linea con le regole generali poste dall'art. 291 c.p.c., contempla, infatti, la diversa ipotesi in cui non sia stata correttamente identificata la persona alla quale notificare l'atto introduttivo e non già il caso in cui l'invalidità, dipendente da difetto di legittimazione sostanziale dell'amministrazione, investa la citazione a motivo della "vocatio in ius" di soggetto diverso dal legittimo contraddittore (Tar per la Campania-Napoli, sez. II, 07.05.2007 n. 4806; Cass. civ., sez. I, 06.05.2011, n. 10010; Cass. civ., sez. I, 19.06.2012 n. 10069);
         m) in materia di sostituzione amministrativa è stato precisato che:
            m1) “È inammissibile il ricorso proposto per l'annullamento del piano regionale di rientro dei disavanzi del settore sanitario, adottato dal Presidente della Giunta regionale nella qualità di commissario ad acta nominato dal Consiglio dei Ministri, che non sia stato notificato a detto Presidente presso l'Avvocatura dello Stato in quanto organo statale, atteso che la relazione intercorrente fra la Regione e il Consiglio dei Ministri è intersoggettiva, e non interorganica” (Cons. Stato, sez. III, 10.01.2014, n. 61);
            m2) nello stesso senso TAR per la Campania-Napoli, sez. I, 11.06.2014, n. 3235 secondo cui “La relazione intercorrente tra la Regione e il Commissario ad acta per l'attuazione del piano di rientro dei disavanzi del settore sanitario deve essere qualificata non come interorganica, ma come intersoggettiva. Invero, nell'ambito della sostituzione amministrativa, occorre nettamente distinguere le due diverse ipotesi. Nella prima, il Commissario è nominato per la sostituzione, nell'esercizio di una competenza generale, di un organo ordinario venuto meno (ad esempio, per scioglimento) onde assicurarne il funzionamento e svolgerne il complesso dei compiti; in tal caso, il Commissario è organo straordinario dell'ente sostituito ed a quest'ultimo si imputano gli effetti degli atti commissariali, con la conseguenza che i ricorsi avverso tali atti vanno notificati esclusivamente all'ente sostituito. Nella seconda ipotesi, invece, la nomina è -come nella fattispecie- finalizzata all'emanazione di specifici atti e, dunque, la competenza del Commissario è circoscritta sin dall'inizio al compimento degli stessi, mentre l'ente sostituito conserva in generale la titolarità dei propri poteri, salvo i singoli affari che gli sono stati sottratti, sicché è privo di legittimazione passiva in sede di giudizio di impugnazione degli atti commissariali (nel caso di specie, il ricorso è stato notificato alla sola Regione Campania, in persona del Presidente della G.R., donde l'inammissibilità del ricorso)”;
            m3) secondo Tar per il Molise, 15.02.2013, n. 119 comporta la inammissibilità del ricorso “l’omessa notifica del gravame al commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro dai disavanzi del settore sanitario della Regione Molise, quale organo adottante l’atto impugnato, trattandosi dell’unico soggetto da ritenersi legittimato passivo in quanto centro di imputazione autonomo sia rispetto alla Regione Molise, i cui uffici operano a supporto organizzativo della struttura commissariale in relazione di mero avvalimento (cfr. TAR Molise 23.12.2010, n. 1565), sia rispetto alla Presidenza del Consiglio dei ministri, stante l’autonomia operativa, decisionale ed organizzativa di siffatta struttura commissariale rispetto alla Presidenza del Consiglio dei ministri cui compete il solo procedimento di nomina e la prodromica attività istruttoria relativa all’accertamento della sussistenza dei presupposti normativi di cui all’art. 8 della legge n. 131 del 2001, di attuazione dell’art. 120 Cost., per disporre l’intervento sostitutivo (spunti sulla autonoma legittimazione del commissario ad acta rispetto alla Presidenza del Consiglio dei ministri si traggono anche da Cons. Stato, III, 03.10.2011, n. 5424 in giudizio similare in cui la Presidenza non è stata infatti evocata in giudizio)”;
         n) per l’individuazione dell’amministrazione legittimata passiva nel giudizio avverso il silenzio della P.A. si veda Cons. Stato, sez. V, 15.06.2015 n. 2912 in Foro it., Rep. 2015, voce Giustizia amministrativa [3340], n. 368 secondo cui “Nello speciale rito sul silenzio rimane fermo l'accertamento delle ordinarie condizioni dell'azione (interesse ad agire, titolo o legittimazione al ricorso, legitimatio ad causam attiva e passiva), e, pertanto, assume importanza centrale l'individuazione dell'amministrazione su cui grava l'obbligo di procedere: il presupposto per la condanna ai sensi dell'art. 117 c.p.a. è il fatto che al momento della pronuncia del giudice perduri l'inerzia dell'amministrazione inadempiente unica legittimata passiva; pertanto, va riformata la sentenza che ha condannato il comune a concludere il procedimento di concessione del contributo previsto per la ricostruzione di immobili danneggiati dal sisma del 2009, considerato che, successivamente all'entrata in vigore del d.l. n. 83 del 2012 e la consequenziale costituzione dell'Usra (ente pubblico statale strumentale, dotato di propria autonomia e distinto dall'amministrazione comunale, che cura l'istruttoria finalizzata al rilascio dell'autorizzazione alla concessione del contributo previsto dal d.l. n. 39 del 2009 conv. con modif. dalla l. n. 77 del 2009), a quest'ultimo ente è stata attribuita in via esclusiva la competenza a svolgere l'attività istruttoria ed eventualmente ad autorizzare l'indennizzo previo accertamento del danno, della sua entità e dei requisiti soggettivi dei richiedenti; il procedimento in questione è speciale rispetto al modello generale disciplinato dalla l. n. 241 del 1990 e ad esso risulta estraneo il comune che non può incidere, ovviamente, sulla relativa scansione temporale; al comune è riservata, in via residuale, la sola competenza a procedere alla liquidazione del contributo, dovendo procacciarne la provvista finanziaria e stabilirne le pertinenti priorità in ordine alla concreta erogazione”;
         o) in materia di impugnazione di accordi di programma è stato affermato che:
            o1) l'accordo di programma -consistente nel consenso unanime delle amministrazioni o enti Locali interessati circa un quid (opera o progetto) da realizzare- si configura come espressione dei poteri pubblicistici facenti capo ai soggetti medesimi, i quali tutti, in caso di impugnazione dell'accordo di programma fra essi concluso e del provvedimento amministrativo di approvazione dello stesso, hanno diritto ed interesse a difendere la stabilità dei rapporti che ne derivano (Cons. Stato, sez. IV, 17.06.2003, n. 3403);
            o2) in caso di impugnazione di un accordo di programma avente al oggetto la realizzazione di un'opera pubblica, ai sensi dell'art. 34, t.u. 18.08.2000 n. 267, il ricorso va notificato, a pena di inammissibilità, a tutte le Amministrazioni firmatarie dell'accordo, dovendosi considerare Amministrazioni emananti tutte le Autorità che all'accordo stesso hanno partecipato (così Cons. Stato, sez. IV, 26.03.2010, n. 1774);
            o3) in caso di impugnazione di un accordo di programma avente a oggetto la realizzazione di un'opera pubblica, il ricorso va notificato, a pena di inammissibilità, a tutte le Pubbliche amministrazioni firmatarie dell'accordo, dovendo considerarsi Amministrazioni emananti tutte quelle che all'accordo stesso hanno partecipato; tale principio deve ritenersi estensibile anche ai Patti territoriali i quali, a norma dell'art. 2, comma 203, lett. d), l. 23.12.1996 n. 662, costituiscono una species del più ampio genus degli accordi di programmazione negoziata, nel quale rientrano anche gli accordi di programma, la cui disciplina procedimentale peraltro condividono sulla scorta della delibera del C.I.P.E. del 10.05.1995 (Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2014, n. 5957).
         p) in materia di impugnazione delle risultanze della conferenza di servizi (per una approfondita ricostruzione della disciplina di tale istituto si veda la recente News US del 09.05.2018 di commento a Cass. civ., sez. un., 16.04.2018, n. 9338, ivi gli ampi riferimenti di dottrina) la giurisprudenza ha chiarito che:
             p1) “La conferenza di servizi costituisce un mero strumento organizzatorio di semplificazione procedimentale, non incidente sulla ripartizione delle competenze; ne deriva l'imputabilità degli atti adottati in sede di conferenza o alla singola amministrazione procedente che adotta il provvedimento finale (nel caso della conferenza istruttoria) o a tutte le amministrazioni che attraverso la conferenza esprimono la propria volontà provvedimentale (nell'ipotesi di conferenza decisoria); pertanto, la legittimazione passiva in sede processuale compete solo all'amministrazione o alle amministrazioni che abbiano adottato decisioni rilevanti all'esterno, e non alla conferenza di servizi come organo autonomo” (Cons. Stato, sez. II, 02.02.2013, n. 431/13 in Foro it., Rep. 2013, voce Giustizia amministrativa [3340], n. 620);
            p2) “Attesa la natura di mero modulo di semplificazione sul versante organizzatorio e procedimentale della conferenza di servizi decisoria, in sede giurisdizionale la legittimazione passiva non compete alla conferenza, priva di soggettività autonoma, ma alle singole amministrazioni che per il tramite di detto modulo abbiano adottato statuizioni di respiro esoprocedimentale oggetto di aggressione processuale” (Cons. Stato, sez. VI, 29.01.2002, n. 491 in Cons. Stato, 2002, I, 140; Appalti urbanistica edilizia, 2002, 118; Riv. giur. edilizia, 2002, I, 710; Foro it., Rep. 2002, voce Giustizia amministrativa [3340], n. 637);
            p3) “La conferenza dei servizi non è un organo in senso proprio, ma piuttosto un luogo procedimentale in cui confluiscono giudizi e pareri di uffici ed enti diversi, che non assumono una consistenza soggettiva propria ed autonomia tale da consentirne la qualificazione come organo, ancorché non permanente e/o straordinario; pertanto, la detta conferenza non ha legittimazione passiva nel ricorso proposto avverso l'atto conclusivo del procedimento nel corso del quale essa è intervenuta” (Tar per la Puglia, sez. I, 23.12.1996, n. 714 in Foro it., Rep. 1998, voce Giustizia amministrativa [3340], n. 456);
             p4) “In ipotesi di sostituzione di moduli procedimentali già preesistenti, nella conferenza dei servizi, che non costituisce organo amministrativo straordinario, ciascun rappresentante imputa gli effetti giuridici degli atti che compie all'Amministrazione rappresentata, competente in forza alla normativa di settore; di conseguenza, la legittimazione passiva in sede giurisdizionale non compete alla Conferenza, priva di soggettività autonoma, ma alle singole amministrazioni che per il tramite del loro rappresentante abbiano adottato statuizioni di natura esoprocedimentale già rientranti nella sfera di competenza di ogni singola amministrazione” (TAR per le Marche, 05.08.2004, n. 976 in Foro amm. - Tar 2004, 2102) (Consiglio di Stato, A.P., sentenza non definitiva e contestuale ordinanza 18.05.2018 n. 8 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il ricorso proposto contro gli atti di gara svolta in forma aggregata va notificato al solo soggetto capofila.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale escludente – Esame prioritario del ricorso incidentale escludente – Limiti - Corretta notificazione del ricorso principale – Esame prioritario – Ratio.
  
Processo amministrativo – Rito appalti – Ricorso – Notificazione - Appalto svolta in forma aggregata – Notificazione alla sola pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato.
  
Se è vero che, normalmente, il ricorso incidentale escludente deve essere esaminato prima del ricorso principale, è altresì vero che una regola del genere non può valere per la (diversa) questione della corretta notificazione del ricorso principale atteso che dalla soluzione di tale problema dipende, infatti, la corretta costituzione del rapporto giuridico processuale, ed è palese che, in mancanza di essa, non può nemmeno passarsi all'esame del ricorso incidentale, che, appunto, suppone la regolare instaurazione del giudizio.
  
Ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p.a., in caso di impugnazione di una gara di appalto svolta in forma aggregata da un soggetto per conto e nell’interesse anche di altri enti, il ricorso deve essere notificato esclusivamente alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato (1).
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   (1) La questione era stata rimessa da Cons. St., sez. III, ord., 21.09.2017, n. 4403.
L’Alto Consenso ha aderito all’orientamento (Cons. St., sez. III, 13.09.2013, n. 4541; id., sez. V, 06.07.2012, n. 3966; id., sez. V, 15.03.2010, n. 1500) che esclude la necessità di notificare il ricorso anche a tutti i soggetti che aderiscono alla procedura di aggiudicazione in forma aggregata.
A tale esito appare, infatti, necessario pervenire considerando il rilievo decisivo, ai fini della soluzione del quesito, dell'art. 41 c.p.a., che identifica l'amministrazione cui deve essere notificato il ricorso introduttivo del giudizio esclusivamente in quella che ha emesso l'atto impugnato. In virtù della disposizione di cui all'art. 41 c.p.a., ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio appare necessaria e sufficiente la notificazione dell'atto introduttivo esclusivamente all'amministrazione che ha emanato il provvedimento impugnato.
In altri termini, la disposizione di cui all'art. 41 c.p.a., nell'enunciare la regola generale sopra ricordata, positivamente esclude che l'atto introduttivo del giudizio debba essere notificato anche ad amministrazioni od enti che a diverso titolo abbiano avuto modo di partecipare al procedimento.
Corollario di tale regola -come è stato esattamente affermato (Cons. St., sez. V, 06.07.2012, n. 3966)– è che solo quando l'atto finale sia imputabile a più amministrazioni, come accade per gli atti di concerto o come può verificarsi per gli accordi di programma, la legittimazione passiva riguarda tutte le amministrazioni interessate.
Per converso, le partecipazioni al procedimento giuridicamente qualificate (come quelle concernenti il potere di iniziativa o di proposta, la partecipazione all'intesa che abbia preceduto l'adozione del provvedimento finale, ovvero gli atti preparatori) non sono idonee ad estendere la veste di parte necessaria a soggetti diversi dall'autorità emanante. A tal fine, infatti, sarebbe necessaria una formale imputazione del provvedimento finale ad una pluralità di amministrazioni (Cons. St., sez. V, 06.07.2012, n. 3966).
Una diversa soluzione, volta ad estendere la legittimazione processuale a soggetti diversi dall'autorità che ha emanato l'atto, si risolverebbe in una oggettiva violazione della norma che presidia la legittima costituzione del rapporto giuridico processuale.
Nei casi sopra ricordati, d'altra parte, si è di fronte ad una unica amministrazione (capofila) che gestisce la procedura e che di essa è responsabile, sicché soltanto ad essa sono imputabili gli atti ed i provvedimenti della medesima, divenendo così l'amministrazione cui notificare il ricorso giurisdizionale per l'instaurazione del giudizio (Cons. St., sez. V, n. 1500 del 2010); tutto ciò mentre le altre amministrazioni, eventualmente interessate alla procedura, sono tuttavia sfornite di os ad loquendum sulle vicende della gara.
Deve, infine, essere rilevato che alla prospettazione sopra esposta non può essere opposta la disciplina di cui all'art. 81 c.p.c., pacificamente applicabile al processo amministrativo, secondo cui fuori dai casi previsti dalla legge, nessuno può far valere in nome proprio un diritto altrui. Nelle fattispecie sopra ricordate, infatti, l'amministrazione capofila è chiamata a far valere e tutelare una situazione giuridica soggettiva propria (quella derivante dall'essere l'amministrazione che ha posto in essere il procedimento ed emanato il provvedimento di aggiudicazione).
Non si verifica pertanto alcuna forma di sostituzione processuale, con la legittimazione straordinaria che a questa è connessa, mentre l'eventuale rilevanza degli esiti della aggiudicazione nei confronti del soggetto in unione di acquisto con l'amministrazione procedente, ha luogo in forza dei rapporti interni fra le due amministrazioni, privi, per le ragioni già esposte, di rilevanza processuale (Consiglio di Stato, A.P., sentenza non definitiva e contestuale ordinanza 18.05.2018 n. 8 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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6. Con riferimento al primo quesito prospettato con l'ordinanza di rimessione,
concernente la necessità, o meno, in caso di procedura di aggiudicazione in forma aggregata, di provvedere alla notificazione del ricorso introduttivo del giudizio non solo al soggetto capofila che ha curato la procedura e che ha adottato il provvedimento (o i provvedimenti) impugnati ma anche a tutti i soggetti che aderiscono alla procedura di aggiudicazione in forma aggregata, il Collegio osserva che appare preferibile quell'orientamento giurisprudenziale del giudice di appello (Cons. Stato, Sez. III, 13.09.2013 n. 4541; Sez. V, 06.07.2012 n. 3966; Sez. V, 15.03.2010 n. 1500) che ritiene sufficiente la notifica alla sola amministrazione capofila, che abbia curato la procedura concorsuale attraverso l'emanazione del bando, la costituzione della Commissione giudicatrice l'adozione degli atti di gara e l'emanazione del provvedimento di aggiudicazione.
A tale esito appare, infatti, necessario pervenire considerando il rilievo decisivo, ai fini della soluzione del quesito, dell'art. 41 c.p.a, che identifica l'amministrazione cui deve essere notificato il ricorso introduttivo del giudizio esclusivamente in quella che ha emesso l'atto impugnato.
In virtù della disposizione di cui all'art. 41 c.p.a., ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio appare necessaria e sufficiente la notificazione dell'atto introduttivo esclusivamente all'amministrazione che ha emanato il provvedimento impugnato.
In altri termini, la disposizione di cui all'art. 41 c.p.a., nell'enunciare la regola generale sopra ricordata, positivamente esclude che l'atto introduttivo del giudizio debba essere notificato anche ad amministrazioni od enti che a diverso titolo abbiano avuto modo di partecipare al procedimento.
Corollario di tale regola -come è stato esattamente affermato (Cons. Stato, sez. V, nr. 3966/2012, cit.)– è che
solo quando l'atto finale sia imputabile a più amministrazioni, come accade per gli atti di concerto (Cons. Stato, nr. 183 del 2006) o come può verificarsi per gli accordi di programma (Cons. Stato, IV, nr. 3403 del 2006), la legittimazione passiva riguarda tutte le amministrazioni interessate.
Per converso,
le partecipazioni al procedimento giuridicamente qualificate (come quelle concernenti il potere di iniziativa o di proposta, la partecipazione all'intesa che abbia preceduto l'adozione del provvedimento finale, ovvero gli atti preparatori) non sono idonee ad estendere la veste di parte necessaria a soggetti diversi dall'autorità emanante. A tal fine, infatti, sarebbe necessaria una formale imputazione del provvedimento finale ad una pluralità di amministrazioni (Cons. Stato, V, nr. 3966/2012 cit.). Una diversa soluzione, volta ad estendere la legittimazione processuale a soggetti diversi dall'autorità che ha emanato l'atto, si risolverebbe in una oggettiva violazione della norma che presidia la legittima costituzione del rapporto giuridico processuale.
Nei casi sopra ricordati, d'altra parte,
si è di fronte ad una unica amministrazione (capofila) che gestisce la procedura e che di essa è responsabile, sicché soltanto ad essa sono imputabili gli atti ed i provvedimenti della medesima, divenendo così l'amministrazione cui notificare il ricorso giurisdizionale per l'instaurazione del giudizio (Cons. Stato, V, nr. 1500 del 2010); tutto ciò mentre le altre amministrazioni, eventualmente interessate alla procedura, sono tuttavia sfornite di os ad loquendum sulle vicende della gara.
Deve, infine, essere rilevato che alla prospettazione sopra esposta non può essere opposta la disciplina di cui all'art. 81 c.p.c., pacificamente applicabile al processo amministrativo, secondo cui fuori dai casi previsti dalla legge, nessuno può far valere in nome proprio un diritto altrui.
Nelle fattispecie sopra ricordate, infatti, l'amministrazione capofila è chiamata a far valere e tutelare una situazione giuridica soggettiva propria (quella derivante dall'essere l'amministrazione che ha posto in essere il procedimento ed emanato il provvedimento di aggiudicazione).
Non si verifica pertanto alcuna forma di sostituzione processuale, con la legittimazione straordinaria che a questa è connessa, mentre l'eventuale rilevanza degli esiti della aggiudicazione nei confronti del soggetto in unione di acquisto con l'amministrazione procedente, ha luogo in forza dei rapporti interni fra le due amministrazioni, privi, per le ragioni già esposte, di rilevanza processuale.
6. Si deve dunque affermare il principio di diritto per cui,
ai sensi dell’art. 41 comma 2, c.p.a., in caso di impugnazione di una gara di appalto svolta in forma aggregata da un soggetto per conto e nell’interesse anche di altri enti, il ricorso deve essere notificato esclusivamente «… alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato ...».

ATTI AMMINISTRATIVI: - Costituisce approdo consolidato in giurisprudenza quello secondo cui “l'emanazione di un provvedimento espresso (sia positivo che negativo) dopo la proposizione del ricorso giurisdizionale contro il silenzio-rifiuto della P.A., non può non avere effetti estintivi sulla materia del contendere, in quanto il privato ha ottenuto il risultato al quale mira il giudizio, ossia il superamento della situazione di inerzia procedimentale e di violazione/elusione dell'obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso entro i termini all'uopo previsti; nel caso in cui il provvedimento sopravvenuto sia ritenuto illegittimo, per motivi evidentemente diversi dalla mera tardività, il privato deve proporre contro di esso una nuova impugnazione”;
   - l’omessa attività dell'Amministrazione costituisce una condizione dell'azione che deve persistere sino al momento della decisione;
   - pertanto, il ricorso diviene improcedibile laddove prima della decisione della lite sopravvenga un provvedimento idoneo ad interrompere l’inerzia dell’Amministrazione, come accaduto nel caso di specie.
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4.1. Osserva il Collegio che, diversamente da quanto richiesto da parte ricorrente, il ricorso debba più propriamente dichiararsi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse atteso che:
   - costituisce approdo consolidato in giurisprudenza quello secondo cui “l'emanazione di un provvedimento espresso (sia positivo che negativo) dopo la proposizione del ricorso giurisdizionale contro il silenzio-rifiuto della P.A., non può non avere effetti estintivi sulla materia del contendere, in quanto il privato ha ottenuto il risultato al quale mira il giudizio, ossia il superamento della situazione di inerzia procedimentale e di violazione/elusione dell'obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso entro i termini all'uopo previsti; nel caso in cui il provvedimento sopravvenuto sia ritenuto illegittimo, per motivi evidentemente diversi dalla mera tardività, il privato deve proporre contro di esso una nuova impugnazione” (cfr., ex multis, Cons. Stato Sez. IV, 22.01.2013, n. 355).
   - l’omessa attività dell'Amministrazione costituisce una condizione dell'azione che deve persistere sino al momento della decisione (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 20.02.2018, n. 1076);
   - pertanto, il ricorso diviene improcedibile laddove prima della decisione della lite sopravvenga un provvedimento idoneo ad interrompere l’inerzia dell’Amministrazione, come accaduto nel caso di specie (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1302 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Come noto, l’art. 445 c.p.p. equipara la sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p. ad una sentenza di condanna e, anche se non vi è stato un accertamento dei fatti in sede dibattimentale, ciò non esclude che, ai fini di cui al citato art. 38 del d.lgs n. 163 del 2006, possa essere assimilata ad un accertamento di responsabilità.
Diversamente opinando e non potendo essere rimesso alla stazione appaltante alcun onere (non essendo riconosciuto alcun potere specifico in tal senso) di verificare in via definitiva la sussistenza di tale infrazione, il ricorso a tale strumento processuale (il c.d. “patteggiamento”) costituirebbe una modalità per eludere le responsabilità, ponendo peraltro nel nulla l’affermazione di principio contenuta nel citato art. 445 c.p.p..
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Il ricorso è palesemente infondato, sicché sussistono i presupposti per la definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata.
Invero, l'art. 445 c.p.p. stabilisce l'equiparazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna.
Peraltro, è lo stesso art. 80 codice appalti a recepire esplicitamente la detta equiparazione sia pure in riferimento alla distinta ipotesi di cui al comma 1, che tuttavia, sul piano della ratio di tutela, non presenta sostanziali differenze rispetto al caso in esame: “dalla sentenza di condanna del Tribunale di Ancona in data -OMISSIS- per omicidio colposo, sebbene pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p., emerge invero che l’allora -OMISSIS--OMISSIS- era imputato di un reato connesso con la violazione degli obblighi in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro ovvero di una fattispecie che ricade nel campo di applicazione dell’art. 38, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 163 del 2006. Sul punto, la difesa di -OMISSIS- e del -OMISSIS- deducono che, trattandosi di una sentenza di “patteggiamento”, non vi è stato un definitivo accertamento delle infrazioni contestate. Al riguardo, è sufficiente osservare che, come noto, l’art. 445 c.p.p. equipara la sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p. ad una sentenza di condanna e, anche se non vi è stato un accertamento dei fatti in sede dibattimentale, ciò non esclude che, ai fini di cui al citato art. 38 del d.lgs n. 163 del 2006, possa essere assimilata ad un accertamento di responsabilità. Diversamente opinando e non potendo essere rimesso alla stazione appaltante alcun onere (non essendo riconosciuto alcun potere specifico in tal senso) di verificare in via definitiva la sussistenza di tale infrazione, il ricorso a tale strumento processuale (il c.d. “patteggiamento”) costituirebbe una modalità per eludere le responsabilità, ponendo peraltro nel nulla l’affermazione di principio contenuta nel citato art. 445 c.p.p." (TAR Roma, Sez. III, 02.11.2017 n. 10965).
Né le cose cambiano con riferimento alla specifica prescrizione della lex specialis di gara che limita la sanzione escludente alle circostanze conosciute dal concorrente, posto che nella specie la sentenza di patteggiamento era assolutamente univoca nel sanzionare puntuali violazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sicché tali violazioni non potevano essere ignorate dalla ricorrente.
Lo stesso dicasi con riferimento alle misure di self cleaning che evidentemente non potevano essere apprezzate, a valle, dalla stazione appaltante in funzione “sanante”, stante la dichiarazione non veritiera resa, a monte, dalla ricorrente in ordine alla assenza di violazioni delle norme in matteria di salute e sicurezza sul lavoro.
Quanto poi alla presunta rilevanza nella specie del punto 7.5. delle linee guida n. 6/2017 (nel testo risultante dal recente aggiornamento del mese di ottobre 2017), si osserva che le stesse linee guida disciplinano la specifica ipotesi di cui all'art. 80, co. 5, lett. c), d.lgs. n. 50/2016, che nella specie non ricorre, e che comunque l'interpretazione corretta del punto 7.5. è nel senso che la relativa disposizione, che prescrive un contraddittorio più rigoroso in ordine alla valutazione delle misure di self cleaning, si riferisce alla violazione del principio di leale collaborazione in precedenti procedure concorsuali e non alla dichiarazione non veritiera nella gara in corso, viceversa espressamente regolata dal punto 4.2. delle linee guida in termini di immediata (e necessaria) rilevanza escludente della dichiarazione non veritiera in conformità con quanto stabilito dall'art. 80, co. 5, lett. f)-bis, d.lgs. 50/2016 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1065 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Esclusione dalla gara per condanna con sentenza patteggiata.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Esclusione dalla gara – Condanna con sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. – Conseguenza.
In materia di appalti pubblici, la sentenza di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. rileva quale debito accertamento delle condotte ivi sanzionate ai sensi di quanto previsto dall'art. 80, comma 5, lett. a), d.lgs. 18.04.2016, n. 50; infatti, non solo l'art. 445 c.p.p. stabilisce l'equiparazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna, ma è lo stesso art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 a recepire esplicitamente la detta equiparazione sia pure in riferimento alla distinta ipotesi di cui al comma 1, che tuttavia, sul piano della ratio di tutela, non presenta sostanziali differenze (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che le misure di self cleaning non possono essere apprezzate dalla stazione appaltante in funzione “sanante”, allorché vi sia una dichiarazione non veritiera resa, a monte, dal concorrente in ordine alla assenza di violazioni delle norme in matteria di salute e sicurezza sul lavoro (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 17.05.2018 n. 1063 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Il ricorso è palesemente infondato, sicché sussistono i presupposti per la definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata.
Invero, l'art. 445 c.p.p. stabilisce l'equiparazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna. Peraltro, è lo stesso art. 80 codice appalti a recepire esplicitamente la detta equiparazione sia pure in riferimento alla distinta ipotesi di cui al comma 1, che tuttavia, sul piano della ratio di tutela, non presenta sostanziali differenze rispetto al caso in esame: “dalla sentenza di condanna del Tribunale di Ancona in data -OMISSIS-per omicidio colposo, sebbene pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p., emerge invero che l’allora -OMISSIS--OMISSIS- era imputato di un reato connesso con la violazione degli obblighi in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro ovvero di una fattispecie che ricade nel campo di applicazione dell’art. 38, comma 1, lett. e), del d.lgs n. 163 del 2006. Sul punto, la difesa di -OMISSIS- e del -OMISSIS- deducono che, trattandosi di una sentenza di “patteggiamento”, non vi è stato un definitivo accertamento delle infrazioni contestate.
Al riguardo, è sufficiente osservare che, come noto, l’art. 445 c.p.p. equipara la sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p. ad una sentenza di condanna e, anche se non vi è stato un accertamento dei fatti in sede dibattimentale, ciò non esclude che, ai fini di cui al citato art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, possa essere assimilata ad un accertamento di responsabilità.
Diversamente opinando e non potendo essere rimesso alla stazione appaltante alcun onere (non essendo riconosciuto alcun potere specifico in tal senso) di verificare in via definitiva la sussistenza di tale infrazione, il ricorso a tale strumento processuale (il c.d. “patteggiamento”) costituirebbe una modalità per eludere le responsabilità, ponendo peraltro nel nulla l’affermazione di principio contenuta nel citato art. 445 c.p.p.
" (TAR Roma, Sez. III, 02.11.2017 n. 10965).
Né le cose cambiano con riferimento alla specifica prescrizione della lex specialis di gara che limita la sanzione escludente alle circostanze conosciute dal concorrente, posto che nella specie la sentenza di patteggiamento era assolutamente univoca nel sanzionare puntuali violazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sicché tali violazioni non potevano essere ignorate dalla ricorrente.
Lo stesso dicasi con riferimento alle misure di self cleaning che evidentemente non potevano essere apprezzate, a valle, dalla stazione appaltante in funzione “sanante”, stante la dichiarazione non veritiera resa, a monte, dalla ricorrente in ordine alla assenza di violazioni delle norme in matteria di salute e sicurezza sul lavoro.
Quanto poi alla presunta rilevanza nella specie del punto 7.5. delle linee guida n. 6/2017 (nel testo risultante dal recente aggiornamento del mese di ottobre 2017), si osserva che le stesse linee guida disciplinano la specifica ipotesi di cui all'art. 80, co. 5, lett. c), d.lgs. n. 50/2016, che nella specie non ricorre, e che comunque l'interpretazione corretta del punto 7.5. è nel senso che la relativa disposizione, che prescrive un contraddittorio più rigoroso in ordine alla valutazione delle misure di self cleaning, si riferisce alla violazione del principio di leale collaborazione in precedenti procedure concorsuali e non alla dichiarazione non veritiera nella gara in corso, viceversa espressamente regolata dal punto 4.2. delle linee guida in termini di immediata (e necessaria) rilevanza escludente della dichiarazione non veritiera in conformità con quanto stabilito dall'art. 80, co. 5, lett. f)-bis, d.lgs. 50/2016.

ATTI AMMINISTRATIVI: Il vizio di eccesso di potere per sviamento consiste nell'effettiva e comprovata divergenza fra l'atto e la sua funzione tipica, ovvero nell'esercizio del potere per finalità diverse da quelle enunciate dal legislatore con la norma attributiva dello stesso: ciò si verifica, in particolare, allorquando l'atto posto in essere sia stato determinato da un interesse diverso da quello pubblico.
Il vizio non sussiste allorquando l'atto risulta comunque adottato nel rispetto delle norme che ne disciplinano la forma e il contenuto e risulta in piena aderenza al fine pubblico al quale è istituzionalmente preordinato anche se, attraverso la sua emanazione, l'amministrazione ha indirettamente consentito il perseguimento da parte di terzi di ulteriori finalità secondarie, lecite e non in contrasto con quella principale.
Inoltre, la censura di eccesso di potere per sviamento deve essere supportata da precisi e concordanti elementi di prova, idonei a dar conto delle divergenze dell'atto dalla sua tipica funzione istituzionale, non essendo a tal fine sufficienti semplici supposizioni o indizi che non si traducano nella dimostrazione dell'illegittima finalità perseguita in concreto dall'organo amministrativo.
Affinché la censura di sviamento possa ritenersi fondata occorre, quindi, che gli elementi emersi rivelino in modo indubbio il dissimulato scopo dell'atto.

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4.3. L’esame della censura deve essere preceduto dalla premessa in base alla quale il vizio di eccesso di potere per sviamento consiste nell'effettiva e comprovata divergenza fra l'atto e la sua funzione tipica, ovvero nell'esercizio del potere per finalità diverse da quelle enunciate dal legislatore con la norma attributiva dello stesso: ciò si verifica, in particolare, allorquando l'atto posto in essere sia stato determinato da un interesse diverso da quello pubblico (cfr. Cons. Stato, sez. V, 01.12.2014, n. 519; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 01.03.2018, n. 248; TAR Toscana, sez. I, 30.03.2016, n. 535).
Il vizio non sussiste allorquando l'atto risulta comunque adottato nel rispetto delle norme che ne disciplinano la forma e il contenuto e risulta in piena aderenza al fine pubblico al quale è istituzionalmente preordinato (TAR Piemonte, sez. I, 02.08.2016, n. 1102; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 30.07.2015, n. 701) anche se, attraverso la sua emanazione, l'amministrazione ha indirettamente consentito il perseguimento da parte di terzi di ulteriori finalità secondarie, lecite e non in contrasto con quella principale (Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2013, n. 32; Cons. Stato, sez. IV, 17.12.2003, n. 8306; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 01.02.2016, n. 214).
Inoltre, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, la censura di eccesso di potere per sviamento deve essere supportata da precisi e concordanti elementi di prova, idonei a dar conto delle divergenze dell'atto dalla sua tipica funzione istituzionale, non essendo a tal fine sufficienti semplici supposizioni o indizi che non si traducano nella dimostrazione dell'illegittima finalità perseguita in concreto dall'organo amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2013, n. 32; Cons. Stato, sez. V, 11.03.2010, n. 1418).
Affinché la censura di sviamento possa ritenersi fondata occorre, quindi, che gli elementi emersi rivelino in modo indubbio il dissimulato scopo dell'atto (Cons. Stato, sez. IV, 21.09.2015, n. 4392; Id., Sez. IV, 27.04.2005, n. 1947)
(TAR Veneto, Sez. I, sentenza 17.05.2018 n. 538 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Costituisce ius receptum il principio che la corresponsione dell’indennizzo previsto dall’art. 21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241 è sottoposta alla condizione dell'esistenza di pregiudizi per il privato destinatario.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, la mancata previsione di tale forma di ristoro non comporta l'invalidità della determinazione assunta in autotutela, in applicazione del principio di carattere generale utile per inutile non vitiatur (art. 1419 c.c.).
In altri termini, la mancata previsione dell'indennizzo di cui all'art. 21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241, nel provvedimento di revoca, non ha efficacia viziante o invalidante di quest'ultimo, ma legittima semplicemente il privato ad azionare la pretesa patrimoniale innanzi al giudice amministrativo che ne potrà scrutinare i presupposti.
Inoltre, in apice la medesima disposizione impone al privato leso dal provvedimento di revoca di allegare e provare l'esistenza di pregiudizi di ordine patrimoniale indennizzabili, e nulla di ciò la parte ricorrente ha fatto.

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L
'intenzione di prestare acquiescenza ad un atto amministrativo deve risultare in modo chiaro ed irrefutabile dal compimento di atti ovvero da comportamenti assolutamente inconciliabili con una volontà del tutto diversa.
Non deve poi dimenticarsi che la possibile configurazione di acquiescenza al provvedimento lesivo deve essere sottoposta ad uno stringente vaglio in sede giurisdizionale, onde evitare l’elusione dei valori costituzionali tutelati dagli artt. 24, comma 1, e 113, comma 1, Cost..
Devono, dunque, emergere una condotta (espressa o tacita) univoca sulla irrefutabile volontà di accettare gli effetti e l’operatività del provvedimento, una libera volizione, successiva o contestuale all’emanazione del provvedimento astrattamente lesivo, mentre è irrilevante la contingente tolleranza manifestata anche attraverso il compimento di attività necessarie per fronteggiare gli effetti del provvedimento lesivo in una logica soggettiva di riduzione del pregiudizio.

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5.2. Infine, costituisce ius receptum il principio che la corresponsione dell’indennizzo previsto dall’art. 21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241 è sottoposta alla condizione dell'esistenza di pregiudizi per il privato destinatario.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, la mancata previsione di tale forma di ristoro non comporta l'invalidità della determinazione assunta in autotutela, in applicazione del principio di carattere generale utile per inutile non vitiatur (art. 1419 c.c.). In altri termini, la mancata previsione dell'indennizzo di cui all'art. 21-quinquies della legge 07.08.1990, n. 241, nel provvedimento di revoca, non ha efficacia viziante o invalidante di quest'ultimo, ma legittima semplicemente il privato ad azionare la pretesa patrimoniale innanzi al giudice amministrativo che ne potrà scrutinare i presupposti (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 08.03.2017, n. 1100; TAR Sicilia, Catania, sez. III, 03.11.2017, n. 2514; TAR Umbria, sez. I, 20.07.2017, n. 524).
Inoltre, in apice la medesima disposizione impone (cfr. TAR Sardegna, sez. I, 30.01.2018, n. 59) al privato leso dal provvedimento di revoca di allegare e provare l'esistenza di pregiudizi di ordine patrimoniale indennizzabili, e nulla di ciò la parte ricorrente ha fatto.
...
Né si può affermare che il riscontro operato dalla parte ricorrente alla detta richiesta di integrazione documentale costituisca acquiescenza in quanto, in base al consolidato indirizzo interpretativo, l'intenzione di prestare acquiescenza ad un atto amministrativo deve risultare in modo chiaro ed irrefutabile dal compimento di atti ovvero da comportamenti assolutamente inconciliabili con una volontà del tutto diversa (Cons. Stato, sez. III, 10.06.2016, n. 2507; Cons. Stato, sez. IV, 20.08.2013, n. 4199).
Non deve poi dimenticarsi che la possibile configurazione di acquiescenza al provvedimento lesivo deve essere sottoposta ad uno stringente vaglio in sede giurisdizionale, onde evitare l’elusione dei valori costituzionali tutelati dagli artt. 24, comma 1, e 113, comma 1, Cost.; devono dunque emergere una condotta (espressa o tacita) univoca sulla irrefutabile volontà di accettare gli effetti e l’operatività del provvedimento, una libera volizione, successiva o contestuale all’emanazione del provvedimento astrattamente lesivo, mentre è irrilevante la contingente tolleranza manifestata anche attraverso il compimento di attività necessarie per fronteggiare gli effetti del provvedimento lesivo in una logica soggettiva di riduzione del pregiudizio (Cons. Stato, sez. VI, 19.03.2015, n. 1417; Cons. Stato, sez. V, 02.12.2015, n. 5441)
(TAR Veneto, Sez. I, sentenza 17.05.2018 n. 538 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’interesse all’annullamento dell’atto impugnato deve sussistere non solo al momento della proposizione del ricorso, ma anche in epoca successiva, in base al principio per il quale le condizioni dell'azione debbono permanere sino al momento del passaggio in decisione della controversia.
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E' onere della parte ricorrente, a fronte di sopravvenienze che abbiano reso inutile l’annullamento, prospettare al giudice, mediante una memoria depositata agli atti del fascicolo, ma anche nel corso della discussione orale della causa all’udienza pubblica, in termini dispositivi (cioè impegnativi) ed inequivoci, il proprio perdurante interesse ad avere comunque una decisione di merito sull’illegittimità degli atti impugnati, fornendo in proposito un’adeguata motivazione che consenta alle controparti di contraddire sul punto e al giudice di formarsi in proposito un adeguato convincimento, mentre, in difetto il giudice è senz’altro autorizzato dalla legge a dichiarare l’improcedibilità del gravame.
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6.1. Venendo, come già anticipato (cfr. il punto 1), all’esame della questione della procedibilità del ricorso introduttivo del giudizio, il Collegio –premesso che l’interesse all’annullamento dell’atto impugnato deve sussistere non solo al momento della proposizione del ricorso, ma anche in epoca successiva, in base al principio per il quale le condizioni dell'azione debbono permanere sino al momento del passaggio in decisione della controversia (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 13.03.2018, n. 1591; Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2016, n. 309)– deve evidenziare che nelle more della definizione nel merito del ricorso si è verificato un mutamento della situazione di fatto e di diritto –in virtù del decreto della Regione Veneto n. 8 dell’11.01.2018, comunicato con nota n. 11509 prot. dell’11.01.2018, con cui sono state decise la revoca del decreto n. 57 del 23.03.2017 e la ripetizione della gara mediante pubblicazione di nuovo bando e del decreto della Regione Veneto n. 11 del 15.01.2018 di approvazione del nuovo «bando finalizzato alla concessione d’uso, previa manutenzione straordinaria, del pontile di proprietà regionale sul lago di Garda. loc. Ronchi (Allegato A)», e del bando medesimo, pubblicati in B.u.R. n. 8 del 19.012018, che hanno resistito alle contestazioni di legittimità veicolate con i motivi aggiunti (cfr. supra)- tale da rendere certa la inutilità di una decisione di merito sul gravame introduttivo del giudizio, non potendo la parte ricorrente trarre alcuna utilità dall'annullamento degli atti impugnati con il predetto ricorso introduttivo ed alcun concreto vantaggio in relazione alla sua posizione legittimante.
Inoltre, nel presente giudizio non è stata avanzata né una domanda risarcitoria, né una domanda di accertamento dell’illegittimità degli atti impugnati ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a.; il Collegio, sul punto, intende dare continuità al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui è onere della parte ricorrente, a fronte di sopravvenienze che abbiano reso inutile l’annullamento, prospettare al giudice, mediante una memoria depositata agli atti del fascicolo, ma anche nel corso della discussione orale della causa all’udienza pubblica, in termini dispositivi (cioè impegnativi) ed inequivoci, il proprio perdurante interesse ad avere comunque una decisione di merito sull’illegittimità degli atti impugnati, fornendo in proposito un’adeguata motivazione che consenta alle controparti di contraddire sul punto e al giudice di formarsi in proposito un adeguato convincimento (cfr., ex plurimis, TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 28.03.2018, n. 3476; TAR Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 13.01.2017, n. 27; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 03.12.2015, n. 3126; TAR Campania, Napoli, sez. V, 20.03.2014, n. 1646), mentre, in difetto il giudice è senz’altro autorizzato dalla legge a dichiarare l’improcedibilità del gravame
(TAR Veneto, Sez. I, sentenza 17.05.2018 n. 538 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Nel caso di concessione di un bene pubblico, stante la destinazione del bene alla diretta realizzazione di interessi pubblici, l’utilizzo da parte di un soggetto diverso dall'ente titolare del bene stesso deve ritenersi “eccezionale”, e può ammettersi “entro certi limiti” e “per alcune utilità”.
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Orbene, è consolidato in giurisprudenza il principio secondo cui nel caso di concessione di un bene pubblico, stante la destinazione del bene alla diretta realizzazione di interessi pubblici, l’utilizzo da parte di un soggetto diverso dall'ente titolare del bene stesso deve ritenersi “eccezionale”, e può ammettersi “entro certi limiti” e “per alcune utilità” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 19.07.2013, n. 3924; TRGA, Trento, sez. unica, 11.02.2015, n. 49) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 17.05.2018 n. 538 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: ASSOCIAZIONI E COMITATI – PROCESSO AMMINISTRATIVO – Ricorso giurisdizionale collettivo – Ammissibilità – Presupposti – Requisito positivo - Requisito negativo.
Il ricorso giurisdizionale collettivo, presentato da una pluralità di soggetti con un unico atto, è ammissibile nel caso in cui sussistano, cumulativamente, i requisiti dell'identità di situazioni sostanziali e processuali -ossia, alla condizione che le domande giudiziali siano identiche nell'oggetto e gli atti impugnati abbiano lo stesso contenuto e vengano censurati per gli stessi motivi- e l'assenza di un conflitto di interessi tra le parti (Consiglio di Stato sez. III 10.08.2017 n. 3990; conf. id., sez. V, 27.07.2017 n. 3725; id., sez. IV 24.07.2017 n. 3638).
In altri termini, il ricorso collettivo è proponibile se, in relazione al requisito positivo, le parti facciano valere gli stessi vizi nei confronti dei medesimi provvedimenti e, in relazione al requisito negativo, non sussista conflitto di interessi in quanto l'eventuale accoglimento sarebbe finalizzato esclusivamente a soddisfare l'interesse di entrambe le ricorrenti (nella specie, interesse all’annullamento del giudizio positivo di compatibilità ambientale di un impianto eolico)
ASSOCIAZIONI AMBIENTALISTE – Ente collettivo volto a perseguire la tutela ambientale – Posizione processuale – Sostituzione processuale di enti distinti – Esclusione – Fattispecie.
La natura di un’associazione ambientalista quale ente collettivo volto a perseguire, sotto molteplici profili, la tutela ambientale, porta ad escludere la qualificazione della posizione processuale della stessa come un’ipotesi di sostituzione processuale di enti distinti (nella specie, l’Associazione, tutelando indirettamente l’interesse degli Enti molisani alla informazione ed alla partecipazione al procedimento di valutazione di impatto ambientale, perseguiva il proprio fine statutario facendosi portatrice di un interesse proprio) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.05.2018 n. 2910 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: VIA, VAS E AIA – Procedure di VAS, VIA e AIA avviate precedentemente all’entrate in vigore del d.lgs. n. 128/2010 – Normativa applicabile – Varianti sostanziali presentate in un secondo momento – Irrilevanza.
Ai sensi dell’art. 4, comma 5, d.lgs. 29.06.2010, n. 128, “Le procedure di VAS, VIA ed AIA avviate precedentemente all'entrata in vigore del presente decreto sono concluse ai sensi delle norme vigenti al momento dell'avvio del procedimento”.
Non può essere sostenuto che, ai fini dell’individuazione della normativa applicabile, possa rilevare la circostanza che la valutazione di impatto ambientale sia stata conclusivamente adottata sulla variante sostanziale al progetto presentata in un secondo momento. Ciò che conta, secondo la disciplina transitoria summenzionata, è infatti esclusivamente il “momento dell'avvio del procedimento".
VIA, VAS E AIA – Piani e programmi soggetti a VAS e progetti di opere sottoposti a VIA – Impatti rilevanti su regioni confinanti – Art. 30, c. 2 d.lgs. n. 152/2006, nella formulazione precedente alle riforme del 2010 – Acquisizione del parere degli enti interessati – Mera informativa – Insufficienza.
L’art. 30, comma 2, d.lgs. 152/2006 nella formulazione precedente alla riforma dell’agosto 2010, nel caso di piani e programmi soggetti a VAS e di progetti di interventi e di opere sottoposti a VIA di competenza regionale che possano avere impatti ambientali rilevanti su regioni confinanti, richiedeva un duplice adempimento, non essendo sufficiente la mera informazione degli enti interessati, bensì dovendo essere richiesto agli stessi l’espressione di un parere sul progetto in esame.
L’acquisizione del parere ai fini della valutazione di impatto ambientale presuppone una distinta e specifica richiesta, che, rappresentando autonomo adempimento, non può ritenersi implicitamente insita nella mera trasmissione di documentazione.
Ove, pertanto, l’unico adempimento effettuato nei confronti degli enti confinanti interessati dagli impatti derivanti dal progetto di un impianto eolico sia la mera informativa, risulta violato il disposto normativo, in relazione al difetto di istruttoria determinante il pregiudizio al diritto di partecipazione dei soggetti direttamente coinvolti dall’opera (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.05.2018 n. 2910 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: INQUINAMENTO – DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA – Destinazione di un’area del territorio a zona industriale – Aprioristica ed astratta inibizione di particolari tipologie di insediamenti produttivi (industrie insalubri di prima classe) – Illegittimità.
Nell’ambito della destinazione di un’area del territorio comunale a zona industriale non possono essere aprioristicamente ed astrattamente inibite particolari tipologie di insediamenti produttivi posto che una simile scelta di PRG non rientrerebbe nell’ambito della disciplina urbanistica, ma concreterebbe un illegittimo esercizio delle ben diverse funzioni di igiene pubblica da parte del Consiglio comunale, in luogo di altri soggetti istituzionalmente competenti.
Non può, quindi, considerarsi legittima l’esclusione a priori per tutto il territorio comunale della possibilità di insediamento di nuove attività classificate insalubri di prima classe dal D.M. 05.09.1994, in base ad una norma di pianificazione generale (cfr. Cons. St. sez. IV, 4243/2011) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 16.05.2018 n. 603 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul diritto di accesso, o meni, ai pareri legali.
La giurisprudenza costante del giudice amministrativo, con riferimento alla richiesta di accesso dei pareri legali, ne riconosce l’ostensione in accoglimento dell’istanza d’accesso quando tale parere ha una funzione endoprocedimentale ed è quindi correlato ad un procedimento amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso collegato anche solo in termini sostanziali e, quindi, pur in assenza di un richiamo formale ad esso; nega invece l’accesso quando il parere viene espresso al fine di definire una strategia una volta insorto un determinato contenzioso, ovvero una volta iniziate situazioni potenzialmente idonee a sfociare in un giudizio.
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Si deve ricordare che il diritto di accesso in funzione difensiva è garantito dall’art. 24, comma 7, l. 07.08.1990, n. 241 che, nel rispetto dell’art. 24 Cost., prevede, con una formula di portata generale, che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici”. Fermo restando che, nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile.
Entro i predetti limiti deve essere, quindi, garantito l’accesso agli atti, a fini difensionali, quando un soggetto è coinvolto in un procedimento giurisdizionale da cui può scaturire una decisione pregiudizievole a suo carico.
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1. Come esposto in narrativa il dott. Co. ha impugnato dinanzi al Tar Marche il diniego di ostensione del parere legale -richiesto dall’Azienda Sanitaria Unica Regionale Marche al Dirigente del proprio Servizio Legale designato quale consulente dell'Ufficio procedimenti disciplinari– in occasione del procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti e conclusosi con atto del 02.08.2016, che ha disposto la sospensione cautelare dal servizio e la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza di un provvedimento penale a suo carico.
L’adito Tar Marche ha respinto il ricorso sul rilievo che, dalla motivazione della sospensione dal servizio, è dato evincere che l’acquisito parere non ha concorso alla determinazione assunta, che trova il presupposto nei fatti contestati al dirigente.
L’appello proposto avverso detta sentenza è fondato.
La giurisprudenza costante del giudice amministrativo, con riferimento alla richiesta di accesso dei pareri legali, ne riconosce l’ostensione in accoglimento dell’istanza d’accesso quando tale parere ha una funzione endoprocedimentale ed è quindi correlato ad un procedimento amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso collegato anche solo in termini sostanziali e, quindi, pur in assenza di un richiamo formale ad esso (Cons. St., ord., sez. VI, 24.08.2011, n. 4798); nega invece l’accesso quando il parere viene espresso al fine di definire una strategia una volta insorto un determinato contenzioso, ovvero una volta iniziate situazioni potenzialmente idonee a sfociare in un giudizio (Cons. St., sez. V, 05.05.2016, n. 1761; id., sez. VI, 13.10.2003, n. 6200).
Ed invero, nel preambolo del provvedimento di sospensione si dà atto:
   a) di chiedere al consulente avv. Ma.Ba. di formulare un parere scritto a miglior inquadramento dell’intero procedimento (pag. 1);
   b) di aver acquisito “il parere legale del consulente avv. Ma.Ba. protocollato al numero 88196/AV3 di pari data e si decideva per l’adozione del presente provvedimento” (pag. 2).
L’assunto del giudice di primo grado, dunque, non trova alcuna conferma nel tenore letterale della sospensione nella quale, anzi, si precisa di aver acquisito il parere “a miglior inquadramento dell’intero procedimento” e senza per nulla chiarire che lo stesso non sarebbe stato utilizzato al fine del decidere, con la conseguenza che, proprio in quanto richiamato, non può che ritenersi, in mancanza di una evidente prova fattuale contraria, che lo stesso non sia entrato nel procedimento.
A tale rilievo, di per sé assorbente dell’ostensibilità del parere richiesto, si aggiunge che il dott. Co. ha motivato l’istanza di accesso con la necessità di una più completa difesa delle proprie ragioni nel giudizio proposto avverso la sospensione dal servizio, pendente dinanzi al giudice del lavoro.
Sotto tale profilo è nota la particolare attenzione alle ragioni dell’accesso, che deve essere riconosciuta quando il rilascio di documentazione è richiesto in funzione difensiva.
Si deve, infatti, ricordare che il diritto di accesso in funzione difensiva è garantito dall’art. 24, comma 7, l. 07.08.1990, n. 241 che, nel rispetto dell’art. 24 Cost., prevede, con una formula di portata generale, che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici”. Fermo restando che, nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile.
Entro i predetti limiti deve essere, quindi, garantito l’accesso agli atti, a fini difensionali, quando un soggetto è coinvolto in un procedimento giurisdizionale da cui può scaturire una decisione pregiudizievole a suo carico.
Facendo applicazione di tali principi non può certo negarsi il diritto del dott. Co. a estrarre copia del parere legale richiamato nel provvedimento che ha disposto la sua sospensione dal servizio.
2. L’accoglimento dell’appello non trova certo ostacolo nella disciplina regolamentare adottata dall’Azienda Sanitaria Unica Regionale – ASUR Marche.
Non nel punto 10 del regolamento, atteso che l’Amministrazione non ha affermato né tanto meno provato che il parere in questione –che, come si è detto, è stato acquisito nel corso del procedimento sfociato nella sospensione dal servizio e non in occasione di un contenzioso in atto– possa “compromettere l'esito del giudizio o la cui diffusione potrebbe concretizzare violazione dell'obbligo del segreto"; non nel punto 19, atteso che il riferimento nello stesso contenuto, al fine di individuare i parerei esclusi dall’accesso, non può che riferirsi a quelli espressi al fine di definire una strategia una volta insorto un determinato contenzioso, ovvero una volta iniziate situazioni potenzialmente idonee a sfociare in un giudizio; diversamente, infatti, si porrebbe in contrasto con i principi dettati dall’art. 24, l. 07.08.1990, n. 241 che -pur contemplando la possibilità di prevedere, mediante regolamento, “casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi (…) quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono”- dispone che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
Una lettura diversa delle disposizioni regolamentari porterebbe dunque a concludere per la loro illegittimità.
3. In conclusione, l’appello va accolto e l’impugnata sentenza del Tar Marche n. 902 del 04.12.2017 va annullata (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 15.05.2018 n. 2890 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Sono da tenere distinte la nozione di mera miglioria rispetto al progetto posto a base di gara, da quella di vera e propria variante.
Al riguardo, è stato affermato che, nelle procedure ad evidenza pubblica finalizzate all'aggiudicazione di un contratto pubblico, le soluzioni migliorative si differenziano dalle varianti perché:
  
le prime possono liberamente esplicarsi su tutti gli aspetti lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall'amministrazione;
  
le seconde, invece, si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva disposizione contenuta nella disciplina di gara e individuazione dei relativi requisiti minimi, che segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dall’amministrazione.
Ne deriva che possono essere considerate proposte migliorative tutte quelle precisazioni, integrazioni e migliorie che sono finalizzate a rendere il progetto prescelto più corrispondente alle esigenze della stazione appaltante, senza tuttavia alterare i caratteri essenziali delle prestazioni richieste.
Dunque, la Commissione non può premiare “varianti progettuali” le quali implicano un’impostazione incompatibile con il progetto posto a base della procedura di gara, e che proprio per questo devono essere autorizzate dalla lex specialis per garantire il rispetto della par condicio tra le imprese partecipanti.
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9.1 Occorre premettere che, in base a un consolidato e condiviso orientamento giurisprudenziale, sono da tenere distinte la nozione di mera miglioria rispetto al progetto posto a base di gara, da quella di vera e propria variante.
Al riguardo, è stato affermato che, nelle procedure ad evidenza pubblica finalizzate all'aggiudicazione di un contratto pubblico, le soluzioni migliorative si differenziano dalle varianti perché le prime possono liberamente esplicarsi su tutti gli aspetti lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall'amministrazione; le seconde, invece, si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva disposizione contenuta nella disciplina di gara e individuazione dei relativi requisiti minimi, che segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dall’amministrazione.
Ne deriva che possono essere considerate proposte migliorative tutte quelle precisazioni, integrazioni e migliorie che sono finalizzate a rendere il progetto prescelto più corrispondente alle esigenze della stazione appaltante, senza tuttavia alterare i caratteri essenziali delle prestazioni richieste (Consiglio di Stato, sez. V – 17/01/2018 n. 270; TAR Puglia Lecce, sez. III – 09/03/2018 n. 401 che evoca Consiglio di Stato, sez. V – 16/04/2014 n. 1923; Consiglio di Stato, sez. V – 10/01/2017 n. 42).
Dunque, la Commissione non può premiare “varianti progettuali” le quali implicano un’impostazione incompatibile con il progetto posto a base della procedura di gara, e che proprio per questo devono essere autorizzate dalla lex specialis per garantire il rispetto della par condicio tra le imprese partecipanti (TAR Piemonte, sez. I – 25/01/2018 n. 116) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.05.2018 n. 478 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull’installazione “di un ascensore esterno per abbattimento barriere architettoniche ai sensi dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001".
Risulta evidente il carattere dirimente rivestito -per la definizione della controversia in trattazione- dall’effettiva incidenza dell’intervento oggetto della S.C.I.A. sui prospetti e sulla sagoma dell’edificio, posto che è proprio la sussistenza di tale incidenza a determinare e, dunque, supportare l’operatività della disciplina su cui si fonda la decisione adottata.
In ordine a tali aspetti, è da rilevare che:
   - i concetti di “sagoma” e di “prospetto” di un edificio non sono oggetto di esplicita regolamentazione da parte del legislatore all’interno del D.P.R. n. 380 del 2001;
   - al fine di individuare gli elementi che contraddistinguono i su indicati termini, di chiaro ed inequivoco ausilio si presentano le decisioni giurisprudenziali emesse in materia, unitamente al “Regolamento Edilizio Tipo”, pubblicato nella G.U. del 16.11.2016, n. 268 (in particolare, la rubrica n. 18 dell’Allegato A);
   - orbene, tali decisioni e il menzionato Regolamento conducono a considerare la “sagoma” dell’edificio come la “conformazione planovolumetrica della costruzione fuori terra, considerato in senso verticale ed orizzontale”, ossia il contorno che caratterizza quest’ultima, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti, sicché debbono essere coerentemente configurati in termini di interventi edilizi incidenti sulla “sagoma” tutte le modificazioni idonee ad apportare un’alterazione della configurazione dell’edificio mediante un cambiamento della sua volumetria totale o complessiva;
   - per quanto attiene al “prospetto”, le stesse decisioni inducono a identificare quest’ultimo come un quid pluris rispetto alla sagoma, precipuamente riguardante il profilo estetico-architettonico dell’edificio, ovvero l’aspetto l’esterno di quest’ultimo.
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2. Ciò detto, il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto.
2.1. Come esposto nella narrativa che precede, i ricorrenti lamentano l’illegittimità del provvedimento con cui, in data 14.07.2016 ma successiva protocollazione in data 18.07.2016, Roma Capitale ha intimato di non effettuare i lavori di cui alla S.C.I.A. presentata il precedente 19.04.2016, consistenti nell’installazione “di un ascensore esterno per abbattimento barriere architettoniche ai sensi dell’art. 22 del d.P.R. n. 380/2001, in via ... n. 89”, e della nota con cui, in data 29.09.2016, la già menzionata Amministrazione ha respinto la richiesta di annullamento in autotutela del provvedimento di cui sopra, inoltrata dall’arch. Si.Ga. il precedente 14.09.2016.
A tali fini i ricorrenti denunciano –in sintesi– l’intervenuta adozione del provvedimento in trattazione oltre il termine di 30 gg., prescritto dalla legge per l’esercizio del potere inibitorio da parte dell’Amministrazione, e, ancora, sostengono la violazione della disciplina in materia di interventi edilizi diretti alla rimozione delle barriere architettoniche, quali gli “ascensori”, tenuto conto, tra l’altro, dell’assoluta inidoneità dell’intervento oggetto della S.C.I.A. dai predetti presentata ad incidere sul prospetto dell’immobile.
Tali motivi di diritto non sono meritevoli di positivo riscontro.
3. Ai fini del decidere, appare opportuno ricordare che il provvedimento gravato, riportante l’ordine “di non effettuare gli interventi previsti nella S.C.I.A. con prot. n. 41906 del 19/04/2016”, con l’ulteriore precisazione che “tale ordine viene notificato in autotutela nel caso in cui le trasformazioni dovessero aver avuto già inizio”, poggia essenzialmente –in ragione dell’insistenza dell’immobile in aree soggette a tutela paesaggistica e ambientale nonché “di interesse archeologico”- sull’incidenza dell’intervento, oggetto della S.C.I.A., sul prospetto dell’immobile e, conseguentemente, sulla connessa violazione dell’obbligo della previa acquisizione del parere paesaggistico nonché dell’autorizzazione preventiva da parte della Regione Lazio.
3.1. Ciò detto, è doveroso rilevare che:
   - come noto, l’art. 6 del D.P.R. n. 380 del 2001, rubricato “Attività edilizia libera”, oggetto di numerose modifiche normative nel corso del tempo, tra cui quella –per quanto di rilevanza in questa sede– apportata dal D.Lgs. 25.11.2016, n. 222, prescrive che “sono eseguiti senza alcun titolo abilitativo”, tra gli altri, “b) gli interventi volti all’eliminazione di barriere architettoniche che non comportino la realizzazione di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio”;
   - ai sensi, poi, dell’art. 149 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, titolato “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137”, l’autorizzazione paesaggistica –espressamente indicata al precedente art. 146 come “atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico edilizio”, la cui previa acquisizione risulta imposta per apportare “modificazioni” a “immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, a termini dell’articolo 142, o in base alla legge, a termini degli articoli 136, 143, comma 1, lett. d), e 157”– non è richiesta, tra gli altri, “a) per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”;
   - secondo il disposto dell’art. 22, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, “Sono, altresì, realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni….”, mentre il successivo art. 23, ai commi 3 e 4, prevede che, “nel caso di vincoli e delle materie oggetto dell’esclusione di cui al comma 1-bis, qualora l’immobile oggetto dell’intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela compete, anche in via di delega, alla stessa amministrazione comunale, il termine di trenta giorni di cui al comma 1,”, utile per dare avvio all’“effettivo inizio dei lavori”, “decorre dal rilascio del relativo atto di assenso” e, per i casi in cui non sussista la competenza dell’Amministrazione comunale, lo stesso termine di trenta giorni decorre dall’esito di una conferenza di servizi appositamente convocata dal “competente ufficio comunale”;
   - ove si tratti, ancora, di un’area di interesse archeologico ai sensi dell’art. 41 del P.T.P.R., adottato con DGR n. 556 del 25.07.2007, modificato ed integrato con DGR 1025 del 21.12.2007, per le “nuove costruzioni” e “gli ampliamenti al di fuori della sagoma esistente compresi interventi pertinenziali inferiori al 20%” è previsto il preventivo parere della Soprintendenza Archeologica.
3.2. Stante quanto in precedenza riportato, risulta evidente il carattere dirimente rivestito -per la definizione della controversia in trattazione- dall’effettiva incidenza dell’intervento oggetto della S.C.I.A. sui prospetti e sulla sagoma dell’edificio, posto che è proprio la sussistenza di tale incidenza a determinare e, dunque, supportare l’operatività della disciplina su cui si fonda la decisione adottata.
In ordine a tali aspetti, è da rilevare che:
   - i concetti di “sagoma” e di “prospetto” di un edificio non sono oggetto di esplicita regolamentazione da parte del legislatore all’interno del D.P.R. n. 380 del 2001;
   - al fine di individuare gli elementi che contraddistinguono i su indicati termini, di chiaro ed inequivoco ausilio si presentano le decisioni giurisprudenziali emesse in materia, unitamente al “Regolamento Edilizio Tipo”, pubblicato nella G.U. del 16.11.2016, n. 268 (in particolare, la rubrica n. 18 dell’Allegato A);
   - orbene, tali decisioni e il menzionato Regolamento conducono a considerare la “sagoma” dell’edificio come la “conformazione planovolumetrica della costruzione fuori terra, considerato in senso verticale ed orizzontale”, ossia il contorno che caratterizza quest’ultima, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti, sicché debbono essere coerentemente configurati in termini di interventi edilizi incidenti sulla “sagoma” tutte le modificazioni idonee ad apportare un’alterazione della configurazione dell’edificio mediante un cambiamento della sua volumetria totale o complessiva (cfr., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 25.05.2012, n. 1441);
   - per quanto attiene al “prospetto”, le stesse decisioni inducono a identificare quest’ultimo come un quid pluris rispetto alla sagoma, precipuamente riguardante il profilo estetico-architettonico dell’edificio, ovvero l’aspetto l’esterno di quest’ultimo (cfr., tra le altre, Cass., Sez. III Penale, 20.05.2015, n. 20846; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 26.10.2012, n. 4288).
Ciò detto e preso, comunque, atto che –come, peraltro, affermato dalla giurisprudenza- le modificazioni normative apportate nel tempo hanno sì introdotto una semplificazione della disciplina vigente in materia, specie in relazione agli interventi di “ristrutturazione”, ma che -in ogni caso– l’operatività delle stesse risulta esclusa in relazione ad immobili soggetti a vincolo, il Collegio ritiene che le censure formulate siano infondate per le seguenti ragioni:
   - come si trae da quanto in precedenza riportato, il termine di trenta giorni di cui agli artt. 22 e ss. del D.P.R. n. 380 del 2001 non può essere utilmente invocato per contestare l’esercizio del potere “inibitorio” da parte dell’Amministrazione in tutti i casi in cui –come quello in trattazione– sussistano vincoli e non siano stati resi i dovuti pareri e/o le prescritte autorizzazioni;
   - la disamina dell’intervento oggetto della S.C.I.A. presentata dai ricorrenti impone di riscontrare una modificazione sicuramente incidente sul “prospetto” dell’edificio esistente in quanto –comunque– idonea a creare un nuovo ambiente “chiuso”, a livello del c.d. piano pilotis (ordinariamente costituente un ambiente aperto, su cui poggiano esclusivamente le mura portanti o, meglio, i pilastri della struttura);
   - quanto, poi, affermato circa la realizzazione di impianti similari in carenza di rilievi da parte di Roma Capitale, oltre a concretizzare una doglianza connotata da genericità, non vale a supportare l’illegittimità denunciata, atteso che eventuali carenze in relazione all’operato dell’Amministrazione non valgono –in ogni caso– a giustificare e, tanto meno, a imporre la commissione di ulteriori carenze. Come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza, l’eccesso di potere per disparità di trattamento costituisce –del resto– un vizio che bene si rivolge all’ipotesi di discriminazioni nell’attribuzione di un bene della vita che risulta dovuto (cfr., tra le altre, TAR Piemonte, Sez. I, 01.08.2011, n. 938) e, pertanto, non è affatto configurabile ove si tratti di ipotesi in cui il richiedente non è in condizione di ottenere il titolo richiesto, atteso che l’eventuale illegittimità commessa a favore di altri non può essere in alcun modo invocata per ottenere che la stessa illegittimità venga compiuta anche in proprio favore (cfr. C.d.S., Sez. IV, 24.02.2011, n. 1235; TAR Liguria, Sez. I, n. 785 del 2012).
4. Per le ragioni illustrate, il ricorso va respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 11.05.2018 n. 5255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’operatore escluso dalla gara non è legittimato ad impugnare il successivo provvedimento di aggiudicazione della stessa.
E’ stato, invero, affermato che: “la disposta esclusione che determinava la definitiva estromissione dalla gara di … si atteggiava come atto conclusivo del procedimento. Ora se è ipotizzabile, secondo i noti principi, l'interesse strumentale del partecipante alla gara alla riedizione della procedura, nel caso in esame, venuta meno, per la inammissibilità del ricorso avverso la esclusione (per mancata notifica al rti …), la posizione del rti … di concorrente partecipante alla gara e ricondotta la sua posizione a quella di concorrente legittimamente escluso, lo stesso non poteva vantare alcuna legittimazione a contestare con successivi motivi aggiunti la composizione della commissione.
Ogni censura attinente alla nomina della commissione non poteva che svolgersi unitamente alla estromissione dalla gara, atto conclusivo del procedimento di partecipazione alla gara.
Una volta escluso dalla gara, il rti … veniva a perdere ogni posizione differenziata che lo potesse legittimare a censurare la composizione della commissione”.
Inoltre: “…la situazione legittimante costituita dalla partecipazione alla procedura costituisce la condizione necessaria per acquisire la legittimazione al ricorso.
La posizione sostanziale differenziata che radica la legittimazione al ricorso non è instaurata dal solo fatto storico della iniziale partecipazione alla gara, indipendentemente dalla successiva esclusione, oppure dall'accertamento della sua illegittimità.
La legittimazione del concorrente che abbia partecipato alla gara può quindi essere impedita dall'inoppugnabilità dell'atto di esclusione perché non impugnato, o perché giudicato immune dai vizi denunciati dalla parte interessata.
Da ciò discende che la mera partecipazione di fatto alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso: la situazione legittimante costituita dall'intervento nel procedimento selettivo deriva infatti, secondo l'Adunanza Plenaria, da una qualificazione di carattere normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla ritualità dell'ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto si deve concludere che non spetta alcuna legittimazione a contestare gli esiti della gara o comunque il suo svolgimento al concorrente escluso dalla gara, per il quale l'atto di esclusione non sia stato in qualche modo rimosso".
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Riguardo, invece, al ricorso per motivi aggiunti, lo stesso è inammissibile per carenza di legittimazione attiva.
Come risulta, invero, dall’ormai granitico orientamento della giurisprudenza amministrativa, l’operatore escluso dalla gara non è legittimato ad impugnare il successivo provvedimento di aggiudicazione della stessa.
E’ stato, invero, affermato che: “la disposta esclusione che determinava la definitiva estromissione dalla gara di … si atteggiava come atto conclusivo del procedimento. Ora se è ipotizzabile, secondo i noti principi (AP n. 4/2011), l'interesse strumentale del partecipante alla gara alla riedizione della procedura, nel caso in esame, venuta meno, per la inammissibilità del ricorso avverso la esclusione (per mancata notifica al rti …), la posizione del rti … di concorrente partecipante alla gara e ricondotta la sua posizione a quella di concorrente legittimamente escluso, lo stesso non poteva vantare alcuna legittimazione a contestare con successivi motivi aggiunti la composizione della commissione.
Ogni censura attinente alla nomina della commissione non poteva che svolgersi unitamente alla estromissione dalla gara, atto conclusivo del procedimento di partecipazione alla gara.
Una volta escluso dalla gara, il rti … veniva a perdere ogni posizione differenziata che lo potesse legittimare a censurare la composizione della commissione
” (Cons. Stato, sez. III, 18.06.2015, n. 3126).
Inoltre: “…la situazione legittimante costituita dalla partecipazione alla procedura costituisce la condizione necessaria per acquisire la legittimazione al ricorso.
La posizione sostanziale differenziata che radica la legittimazione al ricorso non è instaurata dal solo fatto storico della iniziale partecipazione alla gara, indipendentemente dalla successiva esclusione, oppure dall'accertamento della sua illegittimità.
La legittimazione del concorrente che abbia partecipato alla gara può quindi essere impedita dall'inoppugnabilità dell'atto di esclusione perché non impugnato, o perché giudicato immune dai vizi denunciati dalla parte interessata.
Da ciò discende che la mera partecipazione di fatto alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso: la situazione legittimante costituita dall'intervento nel procedimento selettivo deriva infatti, secondo l'Adunanza Plenaria (n. 4/2011), da una qualificazione di carattere normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla ritualità dell'ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
Pertanto si deve concludere che non spetta alcuna legittimazione a contestare gli esiti della gara o comunque il suo svolgimento al concorrente escluso dalla gara, per il quale l'atto di esclusione non sia stato in qualche modo rimosso
" (Cons. Stato, sez. V, 09.07.2012, n. 3994; nello stesso senso, cfr., fra le tante, Cons. di Stato, sez. IV, nn. 4180/2016, 3688/2016, 1560/2016).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso principale va dichiarato improcedibile e il ricorso per motivi aggiunti inammissibile (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 11.05.2018 n. 1257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Tar Piemonte: legittimo il bando che attribuisce più punteggio a chi limita il subappalto.
Secondo l'Ance la sentenza dei giudici amministrativi piemontesi è discutibile e lontana dall’approccio europeo all’istituto del subappalto
L'Ance (Associazione dei costruttori edili) segnala la sentenza 11.05.2018 n. 578 del TAR Piemonte - Sez. I, che ha ritenuto legittima una clausola del bando che attribuiva un punteggio aggiuntivo (max 10 punti) per i concorrenti che intendessero avvalersi della facoltà di subappaltare in quota inferiore al massimo legalmente consentito.
Nello specifico, i giudici hanno ritenuto che, nonostante la giurisprudenza UE affermi che non si potrebbero porre limiti al subappalto, una stazione appaltante può offrire un punteggio aggiuntivo a chi decida di limitarlo, ritenendolo una modalità di esecuzione “strumento di sfruttamento delle PMI” e da guardare con diffidenza”.
Tale decisione, tuttavia, ad avviso dell’Ance, oltre ad essere lontana dall’approccio europeo all’istituto del subappalto, appare discutibile.
Infatti, va ricordato che la recente Guida della Commissione UE sugli errori più comuni commessi dalle stazioni appaltanti nell’affidamento dei progetti finanziati dai fondi strutturali e di investimento europei, annovera tra le “cattive pratiche” proprio quella di utilizzare il subappalto come criterio di aggiudicazione, allo scopo di limitarne il ricorso. E cita proprio l’esempio di punteggi più alti per gli offerenti che dichiarino di non ricorrere al subappalto.
In questo contesto, va, peraltro, ricordato che, a seguito dell’esposto presentato dall’Ance, ad aprile dello scorso anno, la Commissione UE ha scritto al Governo Italiano giudicando il tetto del 30% in contrasto con gli obiettivi di concorrenza e apertura alle Pmi (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
16. Con il quarto ed ultimo motivo parte ricorrente deduce che la clausola che valorizza il minor ricorso al subappalto sarebbe discriminatoria e limitativa della concorrenza in quanto di fatto impedirebbe a numerosi operatori, che non sono in possesso dei requisiti oggetto di gara o che comunque ritengono di non poter eseguire direttamente tutto l’appalto, di partecipare alla gara.
16.1. La censura per quanto suggestiva è, ad avviso del Collegio infondata, tenuto conto del fatto che qualunque impresa avrebbe potuto concorrere in raggruppamento temporaneo con altre imprese ovvero ricorrere all’avvalimento, istituti, questi, che garantiscono entrambi la più ampia partecipazione alla gara.
16.2.
Il subappalto è un istituto che prima di tutto consente all’appaltatore di delegare a terzi la esecuzione di una parte dell’appalto e quindi, in sostanza, di non doversi organizzare per eseguire direttamente tutto l’appalto: è ben vero che esso può essere funzionale anche alla dimostrazione dei requisiti e che in tal senso l’avvalimento può avvenire anche mediante ricorso al subappalto; ma non si può sottacere che la sua causa è, in origine, quella di realizzare una parziale cessione del contratto d’appalto.
Nella materia degli appalti pubblici la disciplina del subappalto differisce significativamente da quella dell’avvalimento o del raggruppamento di imprese, in quanto non comporta assunzione diretta di responsabilità del subappaltatore nei confronti della stazione appaltante, a conferma del fatto che esso realizza piuttosto una modalità di organizzazione interna del lavoro, che normalmente ha anche un determinato vantaggio per l’appaltatore.

16.3. Ciò premesso e ricordato
non si può ragionevolmente affermare che una clausola come quella in contestazione, che indubbiamente scoraggia il ricorso al subappalto, sia idonea a precludere la partecipazione alla gara delle imprese che non posseggano tutti i requisiti o che non siano organizzate in maniera tale da raggiungere l’intero territorio da servire: che si tratti di comprovare il possesso dei requisiti ovvero di implementare nel giro di poco tempo una organizzazione più ampia, in ragione della estensione del territorio da servire, ovvero della lontananza della impresa dal luogo di esecuzione del contratto, il problema può essere risolto da una piccola o media impresa mediante ricorso all’avvalimento o al raggruppamento di imprese.
La clausola non è dunque affatto di per sé preclusiva della partecipazione alla gara.

16.4. Vero è, peraltro,
che il subappalto presenta interesse per gli operatori in quanto consente loro di partecipare ad una gara e rendersi aggiudicatari senza dover “spartire” il contratto ed i relativi compensi con le imprese che collaborano, con le quali non deve neppure costituire preventivamente una associazione ai fini della partecipazione alla gara e poi della esecuzione del contratto.
Il subappalto, dunque, rappresenta per gli appaltatori uno strumento più agile della associazione o del raggruppamento temporaneo di imprese, che al tempo stesso consente di lucrare sulla parte del contratto affidata al subappaltatore, al quale spesso l’aggiudicatario-appaltatore riconosce un compenso inferiore a quello che la stazione appaltante gli corrisponde per le medesime prestazioni.

16.5.
La Corte di Giustizia della Unione Europea, nella sentenza resa sul ricorso C-298/15, ha affermato che “è interesse dell’Unione che l’apertura di un bando di gara alla concorrenza sia la più ampia possibile, incluso per gli appalti che non sono disciplinati dalla direttiva 2004/17” e che “Il ricorso al subappalto, che può favorire l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, contribuisce al perseguimento di tale obiettivo.”.
Pertanto le disposizioni che scoraggiano il ricorso al subappalto, rendendo meno attraente la gara per gli operatori stranieri, devono considerarsi, in linea di principio, restrittive della libertà di stabilimento e della libertà di prestazione dei servizi.
Tuttavia, prosegue la Corte, “
una restrizione siffatta può essere giustificata qualora essa persegua un obiettivo legittimo di interesse pubblico e purché rispetti il principio di proporzionalità, vale a dire, sia idonea a garantire la realizzazione di tale obiettivo e non vada oltre quanto è necessario a tal fine (v., in tal senso, sentenze del 27.10.2005, Contse e a., C‑234/03, EU:C:2005:644, punto 25, nonché del 23.12.2009, Serrantoni e Consorzio stabile edili, C‑376/08, EU:C:2009:808, punto 44).”
16.5.1. Nel precedente in esame la Corte di Giustizia della Unione Europea –con riferimento ad una norma che, in via generalizzata, vietava il subappalto per l’esecuzione delle opere “principali”- ha ancora rilevato che “tale disposizione sarebbe stata adottata in particolare allo scopo di ostacolare una pratica esistente che consiste, per un offerente, nel far valere capacità professionali al solo fine di aggiudicarsi l’appalto di cui trattasi, con l’intento, non già di eseguire esso stesso i lavori, bensì di affidarne la maggior parte o la quasi totalità a subappaltatori, pratica che comprometteva la qualità degli stessi lavori e la loro corretta realizzazione. Dall’altro lato, nel limitare il ricorso al subappalto alle opere qualificate come «non principali», l’articolo 24, paragrafo 5, della legge relativa agli appalti pubblici mirerebbe a incoraggiare la partecipazione delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici in qualità di co-offerenti nell’ambito di un gruppo di operatori economici anziché in quanto subappaltatori. Per quanto riguarda, in primo luogo, l’obiettivo attinente all’esecuzione corretta dei lavori, esso dev’essere considerato legittimo”: nella specie, tuttavia, la Corte ha ritenuto che la norma nazionale sottoposta alla sua valutazione eccedesse “quanto necessario al fine di raggiungere tale obiettivo, in quanto vieta in modo generale un siffatto ricorso al subappalto per le opere qualificate come «principali» dall’ente aggiudicatore”.
Quanto al fatto che la limitazione del ricorso al subappalto potesse incoraggiare le piccole e medie imprese a concorrere direttamente, la Corte ha affermato che non constava evidenza della necessità, a detto fine, di escludere sempre il subappalto per l’esecuzione delle opere principali.
16.6. Tanto premesso, il Collegio rileva che nel presente giudizio viene in considerazione non già una norma nazionale che vieta o scoraggia in modo generalizzato il subappalto, trattandosi di previsione contenuta in un bando, che perciò si limita a disciplinare solo una specifica gara.
Trattasi inoltre di norma che non vieta il subappalto ma incoraggia a ricorrervi il meno possibile, premiando con punteggio aggiuntivo le offerte delle imprese che appaltano la minor percentuale del servizio. Infine si tratta di previsione chiaramente dettata dall’intento di evitare le complicazioni che il subappalto ha creato nella prassi e di cui anche l’Unione Europea ha dovuto prendere atto.
16.6.1. Sul punto si consideri che mentre la Direttiva 2004/17/CE dedicava al subappalto solo una breve norma, l’art. 37, e solo per affermare la possibilità per gli Stati membri di introdurre l’obbligo di dichiarare nella offerta le parti dell’appalto oggetto di subappalto nonché il nominativo del/i subappaltatore/i, nella Direttiva 2014/25/UE il subappalto è trattato nel lunghissimo “considerando” n. 110 e nell’ancor più prolisso art. 88, che contiene tutta una serie di previsioni volte, da una parte, a garantire l’osservanza di determinati requisiti ed obblighi da parte del subappaltatore, d’altra parte anche il diritto di questo a ricevere direttamente dalla stazione appaltante il compenso relativo alle prestazioni subappaltate; l’art. 88 della Direttiva prefigura espressamente anche la possibilità, per gli Stati, di estendere al subappaltatore la responsabilità diretta per l’esecuzione dell’appalto: il legislatore italiano, tuttavia, sino ad ora non ha recepito tale indicazione, forse per la ragione che proprio il fatto di non avere una responsabilità diretta a 360°, nei confronti della stazione appaltante, rende un operatore più disponibile a fungere da subappaltatore.
16.7. Il più ampio spazio che il legislatore europeo ha riservato alla disciplina del subappalto nelle più recenti “direttive appalto”, rispetto alle direttive precedenti, conferma che si tratta di istituto per natura foriero di problematiche, verosimilmente per la ragione che nella prassi è stato non di rado utilizzato come strumento di sfruttamento delle piccole e medie imprese, con conseguente decadimento della qualità delle prestazioni.
Non stupisce, quindi, che una stazione appaltante possa guardarvi con diffidenza. D’altro canto la valutazione della meritevolezza dell’interesse perseguito da una previsione di bando, come quella che qui viene in considerazione, e della proporzionalità di tale previsione rispetto allo scopo perseguito, non può prescindere dalla considerazione che, per come oggi è disciplinato in Italia il subappalto, la sua attrattività è legata, per i subappaltatori, alla mancanza di una responsabilità diretta nei confronti della stazione appaltante a fronte della possibilità di percepire direttamente i compensi, e dal lato dei contraenti principali al fatto di non volersi legare ad altri operatori, cui rendere conto, mediante una associazione o un raggruppamento temporaneo. Si vuol dire, cioè, che sono proprio gli aspetti meno “commendevoli” del subappalto a renderlo uno strumento “invitante”, e come tale idoneo ad ampliare la platea dei partecipanti alle gare per l’affidamento degli appalti pubblici.
16.8 Tenuto conto di tutto quanto sopra esposto
il Collegio è dell’opinione che la clausola della lex specialis che premia con un punteggio aggiuntivo l’offerta dell’operatore che subappalta la minor quota dell’appalto non può ritenersi discriminatoria né ingiustificatamente limitativa della libertà di stabilimento e della libera concorrenza, avendo essa lo scopo non di precludere bensì semplicemente di scoraggiare il ricorso ad una modalità di esecuzione dell’appalto, il subappalto, che per natura è idoneo a creare problemi che si riflettono sulla corretta esecuzione dell’appalto e sul rispetto di alcune norme a carattere imperativo (rispetto degli obblighi previdenziali per i dipendenti del subappaltatore; rispetto di norme a tutela dell’ambiente).
16.9. Per tutte le dianzi esposte ragioni e tenuto conto del fatto che questo Tribunale non è organo giurisdizionale di ultima istanza e non ha l’obbligo di rinviare alla Corte di Giustizia della Unione Europea le questioni che implichino una preventiva interpretazione del diritto europeo, il Collegio ritiene di dover disattendere anche il quarto dei motivi di ricorso.
17. Conclusivamente il ricorso va respinto perché infondato (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 11.05.2018 n. 578 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’Adunanza plenaria rimette alla Corte di giustizia UE la vexata quaestio del rapporto fra ricorso incidentale escludente e ricorso principale in materia di gare d’appalto.
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Giustizia amministrativa – Appalti pubblici – Ricorso incidentale escludente – Ricorso principale – Ordine di esame – In presenza di pluralità di offerte non impugnate – Deferimento alla Corte di giustizia UE
Va rimesso alla Corte di Giustizia Ue il seguente quesito interpretativo: se l’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.12.2007, possa essere interpretato nel senso che esso consente che allorché alla gara abbiano partecipato più imprese e le stesse non siano state evocate in giudizio (e comunque avverso le offerte di talune di queste non sia stata proposta impugnazione) sia rimessa al Giudice, in virtù dell’autonomia processuale riconosciuta agli Stati membri, la valutazione della concretezza dell’interesse dedotto con il ricorso principale da parte del concorrente destinatario di un ricorso incidentale escludente reputato fondato, utilizzando gli strumenti processuali posti a disposizione dell’ordinamento, e rendendo così armonica la tutela di detta posizione soggettiva rispetto ai consolidati principi nazionali in punto di domanda di parte (art. 112 c.p.c.), prova dell’interesse affermato (art. 2697 cc), limiti soggettivi del giudicato che si forma soltanto tra le parti processuali e non può riguardare la posizione dei soggetti estranei alla lite (art. 2909 cc). (1)
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   (1) I. – Con la decisione in rassegna l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di Giustizia UE il quesito interpretativo di cui alla massima sollecitando un chiarimento definitivo della Corte sulla questione del rapporto fra ricorso incidentale escludente e ricorso principale in materia di gare d’appalto, in presenza di una pluralità di concorrenti non evocati in giudizio o le cui offerte non sono state censurate.
Ne ha chiesto la trattazione con rito accelerato, ai sensi degli articoli 23-bis dello Statuto della Corte e 105, paragrafo 1, del relativo Regolamento di procedura tenuto conto che la questione sottoposta al giudizio della Corte ha natura di questione di principio, e trattasi di problematiche di corrente applicazione.
   II. – L’ordinanza di rimessione.
Con ordinanza 06.11.2017 n. 5103 (oggetto della News del 10.11.2017 con ampi riferimenti di giurisprudenza e di dottrina cui si rinvia) la quinta sezione del Consiglio di Stato ha deferito all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a. il quesito se in un giudizio di impugnazione degli atti di procedura di gara ad evidenza pubblica, il giudice sia tenuto ad esaminare congiuntamente il ricorso principale e il ricorso incidentale escludente proposto dall’aggiudicatario, anche se alla procedura abbiano preso parte altri concorrenti le cui offerte non sono state oggetto di impugnazione e verifichi che i vizi delle offerte prospettati come motivi di ricorso siano propri delle sole offerte contestate.
La questione è sorta nell’ambito di un giudizio di appello proposto avverso la sentenza di primo grado che, su ricorso proposto dall’impresa terza classificata di una gara d’appalto avverso l’ammissione alla procedura di gara tanto dell’aggiudicataria quanto della seconda classifica, accoglieva il ricorso incidentale escludente -esaminato prioritariamente– e, in conseguenza, dichiarava improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse il ricorso principale.
Con l’appello, l’impresa originaria ricorrente contestava la violazione dei principi dettati dalla sentenza della Corte di giustizia UE, Grande sezione, 05.04.2016, C-689/13, Puligienica (oggetto della News US in data 07.04.2016 e in Foro it., 2016, IV, 324, con nota di SIGISMONDI cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento) in materia di esame del ricorso principale e incidentale proposti all’interno del medesimo giudizio di impugnazione degli atti di una procedura di affidamento di appalto pubblico in quanto il giudice, anche a ritenere fondato il ricorso incidentale, avrebbe dovuto comunque esaminare anche il ricorso principale, sussistendo un interesse, strumentale e mediato, alla declaratoria dell’illegittimità della mancata esclusione dell’aggiudicataria, in quanto una tale statuizione avrebbe potuto portare l’amministrazione ad intervenire in autotutela annullando la procedura e indicendo una nuova gara.
L’ordinanza di rimessione prendeva le mosse dall’affermazione dell’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza del Consiglio di Stato in relazione all’attuazione della sentenza Puligienica.
Secondo un primo orientamento, il giudice che, esaminato prioritariamente il ricorso incidentale, lo abbia ritenuto fondato, è tenuto ad esaminare anche il ricorso principale solo se dal suo accoglimento possa derivare un vantaggio in capo al ricorrente principale. Tale vantaggio non potrà consistere nella mera aggiudicazione del contratto in quanto, avendo accolto il ricorso incidentale escludente, il giudice ha già statuito sulla sua necessaria esclusione dalla procedura ma dovrà necessariamente risolversi nell’accoglimento di un mezzo che per suo contenuto retroagisce fino a comportare la ripetizione della procedura.
Secondo un diverso orientamento, la domanda, introdotta col ricorso principale, di tutela dell’interesse legittimo al corretto svolgimento della procedura di gara con esclusione di tutte le offerte che, in quanto affette da vizi, non potevano essere esaminate dalla stazione appaltante, merita di essere esaminata anche se, per ipotesi, la stessa offerta del ricorrente andava esclusa dalla procedura. In questa prospettiva, il giudice non tiene conto del numero delle imprese partecipanti (e del fatto che alcune siano rimaste fuori dal giudizio) né dei vizi prospettati come motivi di ricorso principale, poiché la domanda di tutela può essere evasa soltanto con l’esame di tutti i motivi di ricorso, principale come incidentale.
La soluzione del contrasto veniva reputata rilevante dalla sezione rimettente in relazione alla fattispecie controversa (gara d’appalto con tredici imprese partecipanti, con quelle graduatesi successivamente al terzo posto che non avevano proposto impugnativa e le cui offerte non erano state oggetto di contestazione), caratterizzata dal fatto che le ragioni di esclusione prospettate nei confronti dell’aggiudicataria attenevano alla mancanza dei requisiti richiesti dal disciplinare di gara, falsamente dichiarati, nonché per mancata presentazione della documentazione a corredo della fideiussione per la cauzione provvisoria in capo alla società indicata in sede di offerta come incaricata della progettazione, mentre le ragioni di esclusione prospettate nei confronti della seconda graduata erano attinenti alla mancanza dei requisiti di qualificazione S.O.A. in capo alle imprese ausiliarie.
Secondo l’ordinanza in tal caso, stando al primo orientamento, in presenza di altri concorrenti rimasti estranei al giudizio, per stabilire se procedere all’esame congiunto del ricorso principale e del ricorso incidentale, si dovrebbe valutare se i vizi delle offerte prospettati come motivi di ricorso possano, in via astratta, dirsi comuni anche alle altre offerte rimaste estranee al giudizio, di modo che possa configurarsi, in ipotesi, un possibile intervento in autotutela dell’amministrazione idoneo a fondare l’interesse c.d. strumentale del ricorrente alla decisione del ricorso principale; stando invece al secondo orientamento, pur in presenza di altri concorrenti rimasti estranei al giudizio, si dovrebbe sempre e comunque procedere all’esame di entrambi i ricorsi, spettando all’amministrazione poi, all’esito del giudizio, valutare la comunanza dei vizi alle restanti offerte e decidere, ove ciò abbia accertato, di annullare l’intera procedura di aggiudicazione, piuttosto che procedere all’aggiudicazione a favore dell’impresa successivamente classificata.
Vi sarebbe, dunque, pur sempre un interesse c.d. strumentale del ricorrente alla decisione del ricorso principale, poiché la valutazione dell’identità dei vizi verrebbe compiuta, concluso il giudizio, dalla stazione appaltante.
   III. – La decisione dell’Adunanza plenaria.
Con la pronuncia in rassegna l’Adunanza plenaria ritiene di dover interpellare la Corte di giustizia UE sulle questioni sottoposte alla sua attenzione, disponendo il rinvio pregiudiziale obbligatorio per le seguenti ragioni:
   a) rammenta che al fine di assicurare che ”le decisioni prese dalle autorità aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace e, in particolare, quanto più rapido possibile”, secondo quanto prescritto dall'articolo 1 della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 66 dell’11.12.2007, il legislatore nazionale:
      a1) ha previsto l’istituto della legittimazione processuale straordinaria attribuita all’Anac con riferimento all’impugnazione dei bandi di gara e degli altri atti generali qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture di cui all’art. 211 del d.lgs. 18.04.2016 n. 50;
      a2) ha introdotto il nuovo rito c.d. “superaccelerato” di cui ai commi 2 bis e 6 bis dell’art. 120 del c.p.a. (in relazione al quale si rinvia alla News US in data 01.02.2018 avente ad oggetto Tar per il Piemonte, sezione I, ordinanza 17.01.2018, n. 88 che ha demandato alla Corte di giustizia dell’UE l’accertamento della compatibilità, con il diritto dell’Unione, dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. che impone la immediata impugnazione dei provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle gare di appalto) in forza dell’art. 204, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 50/2016, la cui ratio è consentire la pronta definizione del giudizio prima che si giunga al provvedimento di aggiudicazione e, quindi, a definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento antecedente all’esame delle offerte e alla conseguente aggiudicazione;
   b) evidenzia tuttavia che gli sforzi del legislatore nazionale per adeguarsi alle prescrizioni dei competenti organismi europei ed il dialogo costante della giurisdizione amministrativa con la Corte di Giustizia non hanno del tutto eliso le incertezze degli interpreti su alcune problematiche in materia di pubblici incanti tra le quali annovera la tematica dei rapporti intercorrenti tra il ricorso principale ed il ricorso incidentale c.d. “escludente”;
   c) ricostruisce, in particolare, l’evoluzione giurisprudenziale nazionale e comunitaria in tema, a partire da Cons. Stato, Ad. plen., 10.11.2008 n. 11 (in Foro it., 2009, III, 1, con nota di SIGISMONDI; Urbanistica e appalti, 2009, 41, n. TARANTINO; Foro amm. - Cons. Stato, 2008, 2939, n. CIMELLARO; Foro amm. - Cons. Stato, 2008, 3308 (m), n. TROPEA; Dir. proc. amm., 2009, 146, n. SQUAZZONI, TROPEA; Giornale dir. amm., 2009, 749 (m), n. IERA; Giurisdiz. amm., 2008, I, 1489; Riv. giur. edilizia, 2008, I, 1412, n. PELLEGRINO; Arch. giur. oo. pp., 2008, 1081; Ammin. it., 2009, 880; Giust. amm., 2008, fasc. 4, 300 (m), n. PELLEGRINO) sino a Corte di giustizia UE, Sez. VII, 21.12.2016, C-355/15, GesmbH, rilevando che la giurisprudenza nazionale non è concorde in ordine alle conseguenze da trarre dalle precisazioni via via fornite dalla Corte di giustizia UE circa l’interpretazione da fornire all’articolo 1, par. 3 della “Direttiva ricorsi”, secondo cui “gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo modalità che gli Stati membri possono determinare, a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione” ed in particolare, al riferimento “a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione”, nelle ipotesi in cui il concorrente sia stato o avrebbe dovuto essere escluso dalla procedura, ed al riferimento a “un determinato appalto”, laddove il concorrente (che sia stato o avrebbe dovuto essere escluso) aspiri in sostanza a un’utilità mediata rappresentata dall’annullamento (se del caso, in autotutela) dell’intera procedura e alla sua riedizione;
   d) quanto al rilievo attribuito dalle statuizioni della Corte di giustizia al concetto di “interesse strumentale alla ripetizione della procedura” –ferma restando la eccezionalità della tutela di tale interesse in quanto eccentrico rispetto alla struttura fondamentale del processo di parte innervato dal principio dispositivo- così sintetizza i principi condivisi:
      d1) nessuno dubita che, nel caso in cui siano rimasti in gara unicamente due concorrenti e gli stessi propongano ricorsi reciprocamente escludenti, si imponga la disamina di ambedue i mezzi di impugnazione dai medesimi proposti, quali che siano i motivi di censura ivi contenuti;
      d2) parimenti, nessuna perplessità sussiste circa l’esattezza dell’affermazione secondo cui ad analoghe conclusioni deve pervenirsi (anche in presenza di una pluralità di contendenti rimasti in gara), ove il ricorso principale contenga motivi che, se accolti, comporterebbero il rinnovo della procedura in quanto:
         • si censuri la regolarità della posizione -non soltanto dell’aggiudicatario e di tutti gli altri concorrenti rimasti in gara, collocati in posizione migliore della propria ma, anche- dei rimanenti concorrenti collocati in posizione deteriore;
         • ovvero perché siano proposte censure avverso la lex specialis idonee, ove ritenute fondate, ad invalidare l’intera selezione evidenziale;
      d3) in tali casi, si è raggiunta una piena concordanza di opinioni circa l’obbligatorietà dell’esame del ricorso principale, in quanto dall’accoglimento di quest’ultimo discenderebbe con certezza la caducazione integrale della gara e verrebbe così tutelato il subordinato interesse strumentale alla riedizione della procedura;
e) rileva che sussiste incertezza, viceversa, nell’evenienza (occorsa nel caso oggetto del giudizio) in cui, essendo rimasti in gara una pluralità di contendenti:
      e1) i ricorsi reciprocamente escludenti non riguardino la posizione di talune delle ditte rimaste in gara di guisa che, anche laddove entrambi i ricorsi (principale ed incidentale) siano scrutinati, e dichiarati fondati, rimarrebbero purtuttavia alcune offerte non “attinte” dai vizi riscontrati;
      e2) al contempo, il ricorso principale non prospetti censure avverso la lex specialis tese ad invalidare l’intera gara e determinanti –ove accolte - la certa ripetizione della procedura;
   f) ricostruisce sul punto i due orientamenti delineatisi nella giurisprudenza nazionale, filoni interpretativi che muovono entrambi dall’identico punto di partenza –e cioè che dall’accoglimento del ricorso incidentale “escludente” discende l’insussistenza dell’interesse diretto e immediato del ricorrente principale riguardo all’aggiudicazione perché, essendo stato accertato che lo stesso è stato indebitamente ammesso alla gara, questi certamente non può ottenere l’aggiudicazione- ma che divergono nelle conclusioni:
      f1) secondo una prima linea esegetica (Cons. Stato, sez. V, 20.07.2017, n. 3593) la sentenza della Grande Sezione 05.04.2016 in causa C-689/13- Puligienica cit. imporrebbe, anche in simili evenienze, la disamina del ricorso principale, pur dopo l’avvenuto accoglimento del ricorso incidentale escludente, non dovendosi tenere conto del numero delle imprese partecipanti (e del fatto che alcune siano rimaste estranee al giudizio) né dei vizi prospettati come motivi di ricorso principale poiché la domanda di tutela può essere evasa soltanto con l’esame di tutti i motivi di ricorso, principale e incidentale: nella descritta situazione non costituirebbe evenienza necessaria l’aggiudicazione del contratto all’impresa successivamente classificata, perché la stazione appaltante potrebbe sempre ritenere opportuno, dinanzi all’esclusione delle prime classificate, riesaminare in autotutela gli atti di ammissione delle altre imprese al fine di verificare se il vizio accertato sia loro comune, di modo che non vi resti spazio effettivo per aggiudicare a un’offerta regolare e si addivenga alla ripetizione della procedura;
      f2) secondo un altro approccio ermeneutico, viceversa (Cons. Stato, sez. III, 26.08.2016, n. 3708), nell’evenienza data, l’esame del ricorso principale si imporrebbe soltanto laddove l’accoglimento dello stesso produca come effetto conformativo, un vantaggio, anche mediato e strumentale, per il ricorrente principale, tale dovendosi intendere anche quello al successivo riesame, in via di autotutela, delle offerte affette dal medesimo vizio riscontrato con la sentenza di accoglimento: ma, nel caso di più di due imprese partecipanti alla gara delle quali solo due siano in giudizio, ciò potrebbe avvenire soltanto se fosse rimasto accertato che anche le offerte delle restanti imprese risultino affette dal medesimo vizio che aveva giustificato la statuizione di esclusione dalla procedura dell’offerente parte della controversia;
   g) evidenzia le critiche mosse ad entrambi gli indirizzi e, in particolare:
      g1) quanto al primo:
         • non terrebbe conto delle “aperture” (contenute nella sentenza della Corte di giustizia UE, Sez. VII, 21.12.2016, C-355/15, GesmbH,) relative alla possibilità che l’offerente escluso dalla gara con una pronuncia regiudicata non possa più contestare l’esito della gara;
         • non terrebbe in considerazione la circostanza che l’autotutela della stazione appaltante sulle altre offerte rimaste in gara, in simili evenienze, non costituirebbe altro che una mera eventualità ipotetica, rimessa a determinazioni rientranti nella lata discrezionalità della stazione appaltante e che l’interesse (seppure ipotetico) in tal senso prospettato non potrebbe poi essere giustiziabile: in quanto “soggetto definitivamente escluso” con una pronuncia regiudicata sembra certo che il ricorrente principale non potrebbe impugnare le successive determinazioni della stazione appaltante che, scorrendo la graduatoria, implicitamente non abbia dato corso all’annullamento e ripetizione dell’intera gara;
         • darebbe ingresso ad una nozione di interesse scevra dai predicati di “certezza ed attualità” (e pertanto distonica rispetto ai principi generali del processo amministrativo costantemente affermati dalla giurisprudenza; cita in proposito Cons. Stato, sez. V, 23.02.2015 n. 855 e Cass. civ., sez. un., 02.11.2007, n. 23031);
         • ciò, in un sistema giuridico che continua a considerare l’autotutela dell’amministrazione, anche per ragioni di garanzia dell’affidamento, meramente facoltativa e peraltro soggetta ai limiti temporali stringenti di cui all’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241 e che ritiene tali principi praticabili anche laddove l’atto amministrativo puntuale si ritenga illegittimo per contrasto con il diritto comunitario;
      g2) quanto al secondo:
         • sembrerebbe contrastare con le affermazioni (in tesi incondizionate ed indifferenti al numero delle imprese partecipanti alla procedura ed alla tipologia ed identità dei vizi dedotti) contenute nella sentenza della Corte di Giustizia UE 05.04.2016 in causa C-689/13-Puligienica;
         • per altro verso, non terrebbe conto della circostanza che, anche laddove esaminando il ricorso principale e quello incidentale si accertasse che tutte le restanti offerte rimaste in gara (e riferibili ad imprese non evocate in giudizio) presentavano vizi comuni a quelli riscontrati sussistenti, ugualmente resterebbe facoltativo, per l’Amministrazione, agire in autotutela (invece che scorrere la graduatoria) e disporre la ripetizione della gara; né -stante il principio contenuto nell’art. 112 c.p.c. ed il disposto dell’art. 34, comma II, del c.p.a.– il Giudice potrebbe dettare motu proprio una indicazione conformativa in tal senso;
   h) aggiunge, sul versante strettamente processuale, le seguenti ulteriori criticità:
      h1) seguendo l’impostazione della sentenza “Puligienica” i principi della domanda (art. 112 c.p.c.) e dell’onere della prova (art. 2697 c.c.) che “governano” il processo amministrativo, imporrebbero pur sempre al ricorrente principale di provare che i vizi ipotizzati con il proprio ricorso siano comuni anche alle altre offerte rimaste in gara e che, comunque, la ripetizione della procedura sia una evenienza concretamente ipotizzabile;
      h2) dovrebbe essere affidato al Giudice il vaglio sulla concretezza dell’interesse alla riedizione della procedura azionato con il ricorso principale, ricorrendo agli istituti processuali del codice del processo amministrativo per consentire in tali evenienze il dispiegarsi del contraddittorio con le offerenti rimaste in gara e non evocate in giudizio e, insieme, per rendere effettiva e non ipotetica (in quanto rimessa alla discrezionalità della stazione appaltante) l’evenienza della ripetizione della gara ove le censure contenute nel ricorso principale fossero reputate fondate e, soprattutto, fossero comuni alle offerenti rimaste in gara e potenziali beneficiarie dello scorrimento della graduatoria;
   i) la Plenaria passa quindi ad illustrare le ragioni della rilevanza rispetto al caso deciso della questione interpretativa pregiudiziale prospettata precisando che:
      i1) alla gara hanno partecipato più imprese e numerose di esse (cinque), neppure evocate in giudizio, sono collocate successivamente all’originario ricorrente principale (che ebbe a posizionarsi al terzo posto);
      i2) qualora all’obbligo di esaminare il ricorso principale dovesse attribuirsi portata assoluta ed incondizionata, anche nel caso in esame si dovrebbe comunque procedere all’esame del ricorso principale; e ad analoghe conclusioni dovrebbe pervenirsi laddove si affermasse che sia sufficiente la semplice seppure ipotetica, possibilità di un intervento in autotutela dell’amministrazione sulla gara, per imporre l’esame del ricorso principale;
      i3) se invece tale obbligo di esame del ricorso principale andasse correlato ad una eventualità non meramente ipotetica di un intervento in autotutela dell’amministrazione che comporti la ripetizione della intera gara, per stabilire se procedere all’esame congiunto del ricorso principale e del ricorso incidentale si dovrebbe valutare in concreto se i vizi delle offerte prospettati come motivi di ricorso possano, in via astratta, dirsi comuni anche alle altre offerte rimaste estranee al giudizio, di modo che possa figurarsi, in ipotesi, un possibile intervento in autotutela dell’amministrazione idoneo a fondare l’interesse c.d. strumentale del ricorrente alla decisione del ricorso principale; in mancanza assoluta almeno di tale situazione strumentale non sembrerebbe trovare utile e ragionevole applicazione una interpretazione assoluta del diritto europeo sganciato da qualsivoglia interesse;
   j) in ottemperanza alle prescrizioni contenute ai punti 17 e 34 delle “Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale” rappresenta il proprio punto di vista sulla questione nei seguenti termini:
      j1) ritiene maggiormente rispettoso di uno dei valori essenziali dell’ordinamento processuale nazionale, ovvero del principio dispositivo e dell’iniziativa delle parti (per quest’aspetto comune a quello di numerosi altri Stati-Membri), che venisse precisato che l’interesse del ricorrente principale attinto da un ricorso incidentale escludente, in quanto limitato alla reiterazione della procedura di gara (con esclusione di profili concernenti la “regolarità delle procedure di gara”), dovrebbe essere valutato dal Giudice adìto nella sua concretezza, e non con riferimento a ragioni astratte;
      j2) in quest’ottica, ritiene opportuno che sia rimesso agli ordinamenti processuali degli Stati Membri, in ossequio all’autonomia processuale loro riconosciuta, il compito di individuare le modalità di dimostrazione della concretezza del detto interesse, garantendo il diritto di difesa delle offerenti rimaste in gara e non evocate nel processo ed in armonia con i principi in materia di interesse concreto e attuale della parte al ricorso e in punto di onere della prova;
      j3) osserva che rimettere al Giudice nazionale adito un margine di valutazione in ordine all’accertamento della reale sussistenza in concreto di un interesse, sia pure strumentale del ricorrente principale, appare maggiormente coerente sia con il rispetto dei principi cardine degli ordinamenti nazionali in materia processuale -e quindi con l’autonomia processuale loro costantemente riconosciuta dalla Corte di giustizia- sia con gli assetti delle giurisdizioni nazionali e della stessa Unione europea, che configurano il ricorso al giudice amministrativo come ricorso nell’interesse di una parte e mai come ricorso volto al rispetto formale delle regole, a prescindere da ogni interesse; salvi i casi contemplati anche dall’ordinamento italiano, in cui il rispetto delle regole venga demandato ad una autorità pubblica, riconoscendo alla stessa la legittimazione a ricorrere dinanzi al giudice amministrativo.
   IV. – In ordine alla legittimazione al ricorso nel c.d. rito appalti ed al rapporto fra ricorso incidentale e ricorso principale, devono richiamarsi i seguenti precedenti resi in fattispecie che, tuttavia, se pure non identiche, attengono nella sostanza al (limite del) riconoscimento nel processo amministrativo del c.d. interesse strumentale (sganciato cioè, nel contenzioso sugli appalti, dal conseguimento diretto del bene della vita rappresentato dalla aggiudicazione del contratto):
   k) Corte di giustizia dell’UE, Sez. VIII, 10.05.2017, C- 131/16, Archus (oggetto della News US 19.05.2017), che, ritornando sulla questione della legittimazione dell’impresa “non definitamente” esclusa da una gara di appalto con soli due concorrenti ad impugnarne gli esiti, afferma che la normativa europea deve essere interpretata in linea generale nel senso che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale (una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico caratterizzata dalla presentazione di due offerte e dall’adozione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, di due decisioni in contemporanea recanti rispettivamente rigetto dell’offerta di uno degli offerenti e aggiudicazione dell’appalto all’altro), l’offerente escluso, che ha presentato un ricorso avverso tali due decisioni, deve poter chiedere l’esclusione dell’offerta dell’aggiudicatario, in modo tale che la nozione di «un determinato appalto», ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13, come modificata dalla direttiva 2007/66, può, se del caso, riguardare l’eventuale avvio di una nuova procedura di gara; tuttavia al contempo evidenzia che a un offerente la cui offerta sia stata esclusa dall’amministrazione aggiudicatrice da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico può tuttavia essere negato l’accesso a un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico qualora la decisione di esclusione di tale offerente sia stata confermata da una decisione che ha acquisito autorità di cosa giudicata prima che il giudice investito del ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto si pronunci, in modo tale che detto offerente debba essere considerato definitivamente escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico in questione; a tale esito non potrebbe pervenirsi, però, là dove le due decisioni di ammissione ed esclusione fossero state adottate contemporaneamente;
   l) Corte di giustizia UE, Sez. VII, 21.12.2016, C-355/15, GesmbH (oggetto della News US in data 04.01.2017 cui si rinvia per i relativi approfondimenti), secondo cui «L’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, checoordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, dev’essere interpretato nel senso che esso non osta a che a un offerente escluso da una procedura diaggiudicazione di un appalto pubblico con una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta definitiva sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del contratto, allorché a presentare offerte siano stati unicamente l’offerente escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere esclusa»;
   m) Corte cost., 22.11.2016 n. 245 (oggetto della News US in data 19.01.2017 e in Foro it., 2017, I, 75 ai cui approfondimenti si rinvia), secondo la quale è inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 1, e 14, comma 1, della legge della Regione Liguria 07.11.2013, n. 33 (Riforma del sistema di trasporto pubblico regionale e locale), promossa dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, primo e secondo comma, lettere e) e s), della Costituzione; la Consulta fonda il giudizio di inammissibilità condividendo i principi affermati dal giudice amministrativo sulla carenza di legittimazione a ricorrere delle imprese che impugnano procedure di gara alle quali non hanno preso parte, negando per tale via la tutela del c.d. interesse strumentale;
   n) Tar per la Liguria, sez. II, ordinanza 29.03.2017, n. 263 (oggetto della News US in data 04.04.2017 ai cui approfondimenti si rinvia) che ha rimesso alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale: «se gli artt. 1, parr. 1, 2 e 3, e l’art. 2, par. 1, lett. b), della direttiva n. 89/665 CEE, avente ad oggetto il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, ostino ad una normativa nazionale che riconosca la possibilità di impugnare gli atti di una procedura di gara ai soli operatori economici che abbiano presentato domanda di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura, derivando dalla disciplina della gara un’altissima probabilità di non conseguire l’aggiudicazione».
   V.- Prima della sentenza Puligienica, il complesso quadro delle norme e dei principi che governano i rapporti fra ricorso principale ed incidentale risultava essenzialmente delineato dalle seguenti pronunce:
   o) Corte giustizia UE, Sez. X, 04.07.2013, C-100/12, Fastweb, in Foro it., 2014, IV, 3395 con nota di TRAVI, secondo cui “qualora per mezzo di un ricorso incidentale l'aggiudicatario di una procedura di assegnazione di un appalto deduca che l'offerta del ricorrente principale sarebbe stata da escludere dalla gara a causa del mancato rispetto delle specifiche tecniche prescritte dalla stazione appaltante, sì da rendere inammissibile l'impugnazione (a sua volta incentrata sulla non conformità dell'offerta dell'aggiudicatario alle medesime specifiche tecniche) proposta dallo stesso, il diritto dei partecipanti a una gara a una tutela giurisdizionale effettiva delle rispettive ragioni esige che entrambe le domande siano esaminate nel merito da parte del giudice investito della controversia”;
   p) Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 9 -in Foro it., 2014, III, 429, con nota di SIGISMONDI cui si rinvia per ogni approfondimento, che, all’indomani della sentenza Fastweb aveva raggiunto il punto di equilibrio (recepito esplicitamente anche da Cass. civ., sez. un., 06.02.2015, n. 2242, in Foro it., 2016, I, 327) fra istanze europee e caratteristiche ineludibili dell’ordinamento processuale amministrativo– secondo cui, in estrema sintesi, l’obbligo di esaminare sempre e comunque entrambi i ricorsi (con il risultato certo di fare cadere l’intera procedura di gara arrecando gravi danni all’economia nazionale e incrementando gli esborsi a titolo di risarcimento del danno), limitando l’obbligo dell’esame congiunto, in puntuale applicazione degli argomenti sviluppati dalla sentenza Fastweb, alle stringenti condizioni che:
I) si versi all’interno del medesimo procedimento;
II) gli operatori rimasti in gara siano solo due;
III) il vizio che affligge le offerte sia identico per entrambe (c.d. simmetria invalidante); questo costrutto è stato poi rimesso in discussione dalla sentenza Puligienica nella parte in cui ha stabilito (§§ 28–30), superando le conclusioni cui era giunta la precedente decisione Fastweb (§§ 31-33), che l’obbligo del giudice di esaminare entrambi i ricorsi prescinde dal numero di imprese rimaste in gara e dalla natura del vizio.
   VI. - Circa la impossibilità di configurare la tutela del c.d. interesse strumentale nell’attuale ordinamento del processo amministrativo, caratterizzato dalla peculiare disciplina delle condizioni delle azioni (in particolare interesse ad agire e legittimazione), che mira alla realizzazione del giusto processo ex art. 111 Cost., si veda:
   q) Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 (specie §§ 5 ss., e 9.2. ss., in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; Riv. dir. proc., 2015, 1256, con nota di FANELLI; Giur. it., 2015, 2192 con nota di FOLLIERI; Dir. proc. ammin., 2016, 205, con nota di PERFETTI e TROPEA, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza); sez. V, 22.01.2015, n. 272, in Foro it., 2015, III, 345 cui si rinvia per ogni riferimento di dottrina e giurisprudenza; tutte nel senso:
      - di non consentire la tutela del c.d. interesse strumentale perché in contrasto con le esigenze di evitare l’abuso del processo ed il sindacato su poteri non ancora esercitati dalla stazione appaltante;
      - di considerare il processo quale risorsa scarsa da attingere solo dopo essere stato superato il filtro delle condizioni dell’azione in cui è insito un giudizio di meritevolezza della pretesa;
      - di esigere che il processo sia volto a tutelare interessi concreti ed attuali e non futuri ed incerti, di mero fatto quando non emulativi, per giunta rimessi ad una incoercibile nuova determinazione dell’Amministrazione;
   r) in dottrina: R. DE NICTOLIS, Codice del processo amministrativo cit., 759 ss, 2056 ss., nega in radice che l’interesse strumentale sia configurabile quale interesse legittimo;
   s) la opposta tesi della configurabilità, anche in termini di veri e propri diritti, di situazioni soggettive procedimentali, come situazioni giuridiche autonome rispetto al contenuto sostanziale del provvedimento finale, è stata sostenuta da M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, Giappichelli, 1995, F. FIGORILLI, Il contraddittorio nel procedimento amministrativo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, A. PUBUSA, Diritti dei cittadini e pubblica amministrazione, Torino, Giappichelli, 1996, A. ZITO, Le pretese partecipative del privato nel procedimento amministrativo, Milano, Giuffrè, 1996, E. FOLLIERI, Lo stato dell'arte della tutela risarcitoria degli interessi legittimi. Possibili profili ricostruttivi, in Dir. proc. amm., n. 2/1998, M. RENNA, Obblighi procedimentali e responsabilità dell'amministrazione in, Dir. amm. 2005, 3, 557;
   t) questa tesi è stata respinta dall’indirizzo dominante nella giurisprudenza del Consiglio di Stato che rifiuta la possibilità di risarcire il danno ogni qual volta non sia riconoscibile con certezza la spettanza del bene della vita finale (sull’inquadramento generale v. Cons. Stato, Ad. plen., 12.05.2017, n. 2, oggetto della News US in data 16.05.2017 e in Foro it., 2017, III, 433, con nota di TRAVI; Ad. plen. n. 5 del 2015 cit.; Ad. plen. n. 9 del 2014 cit., cui si rinvia per ogni approfondimento); per questa via si escludeva il danno da mero ritardo procedimentale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 02.10.2017, n. 4570; sez. V, 25.03.2016, n. 1239, oggetto della News US in data 31.03.2016 cui si rinvia per ogni approfondimento, impostazione ora superata dalla Plenaria n. 5 del 2018 oggetto della News US in data 09.05.2018); dalla lesione di un mero interesse di fatto o emulativo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.04.2016, n. 1436; sez. V, 10.02.2015, n. 675, in Riv. neldiritto, 2015, 1033, con nota di GALATI, cui si rinvia per ogni approfondimento); da annullamento del provvedimento amministrativo per ì vizi puramente formali che consentono ovvero impongono il riesercizio del potere (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.07.2017, n. 3520; sez. IV, 04.07.2017, n. 3255); e si mantiene un atteggiamento rigoroso, sotto il profilo causale e statistico, circa i presupposti per il riconoscimento del danno da perdita di chance specie per le gare di appalto (cfr. Cons. Stato, sez. V, 25.02.2016, n. 762, in Foro it., 2016, III; 468, con nota di CONDORELLI; sez. V, 30.06.2015, n. 3249, id., 2015, III, 440, con nota di TRIMARCHI BANFI; sez. IV, 15.09.2014, n. 4674, id., 2015, III, 106, con nota di GALLI; sul versante civile v. da ultimo Cass. civ., sez. I, 29.11.2016, n. 24295, id., I, 1374, con nota di DI ROSA cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza);
   u) tale indirizzo dovrà essere rimeditato alla luce del principio di diritto reso dalla pronuncia della Adunanza Plenaria n. 5 del 2018 (oggetto della News US in data 09.05.2018 cui si rinvia per ogni approfondimento) con riferimento alla risarcibilità del danno da «mero ritardo», anche se l’autonoma rilevanza, anche economica, del “bene tempo”, se da un lato giustifica l’apertura della Plenaria, dall’altro non rende necessaria, dal punto di vista della coerenza sistematica, una indiscriminata tutela di tutte le posizioni giuridiche soggettive procedimentali, in via autonoma rispetto al bene della vita finale, come confermato dalla quasi coeva pronuncia della Plenaria n. 4 del 2018 (oggetto della News US in data 10.05.2018 cui si rinvia per ogni approfondimento) che, escludendo l’onere di tempestiva impugnazione delle clausole del bando non immediatamente lesive, ha negato l’autonoma tutelabilità di un diritto alla legittimità della procedura di gara sganciato dalla spettanza dell’utilità finale, in linea con l’orientamento tradizionale;
   VII. – In relazione al principio della c.d. “autonomia procedurale” degli Stati membri, menzionato dalla pronuncia della Plenaria in rassegna, si segnala quanto segue:
   v) le tensioni latenti tra ordinamento nazionale e comunitario nella disciplina delle condizioni dell’azione nella materia dei contratti pubblici ripropone il tema della autonomia degli stati nazionali nella disciplina degli istituti processuali. A tal riguardo la giurisprudenza della Corte di giustizia si è sviluppata secondo i seguenti passaggi essenziali:
      v1) Il concetto di autonomia procedurale degli Stati membri viene fatto risalire alla pronunzia della Corte di giustizia UE sentenza 16.12.1976, in causa 33/76, Rewe. Con questa pronunzia, che verteva specificamente su una tematica di diritto processuale amministrativo, la Corte di giustizia ha infatti espressamente statuito che “... in mancanza di una specifica disciplina comunitaria, è l’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro che designa il giudice competente e stabilisce le modalità procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie aventi efficacia diretta”; l’autonomia procedurale sussiste, dunque, solo e soltanto nella misura in cui sussista la competenza procedurale degli Stati membri e scompare, invece, nel momento in cui -come nel caso delle direttive ricorsi in materia di appalti pubblici- la competenza procedurale venga avocata a sé dall’Unione.
In questo caso, venendo in rilievo lo strumento della direttiva, all’idea di autonomia procedurale si sostituisce quella di “competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”: dato che, ai sensi dell’art. 288, c. 3, TFUE (ex art. 249 c. 3 CE), “la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”.
E se vi è sicuramente un’affinità di fondo tra l’idea dell’autonomia procedurale ed il meccanismo che sottende all’uso dello strumento della direttiva, trattasi tuttavia di due scenari affatto diversi (così GALETTA, La giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di autonomia procedurale degli stati membri dell’Unione europea report annuale - 2011 – Italia, in www.ius-publicum.com);
      v2) l’autonomia procedurale degli Stati membri, affermata a partire da Corte di giustizia UE, sentenza 04.04.1968, in causa C-34/67, Lück, viene intesa come “scelta autonoma dei mezzi” finalizzati a sanzionare il rispetto del diritto UE e trova un limite esterno nell’esigenza di garantire l’effettività di tutte le norme del diritto UE sostanziale, siano esse munite di efficacia diretta o meno.
I limiti essenziali all’autonomia procedurale degli Stati membri sono stati precisati nella sentenza Rewe cit. e si traducono nel criterio dell’equivalenza ed in quello dell’effettività nel senso che le modalità procedurali stabilite dai giudici nazionali “non possono essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale” (criterio dell’equivalenza) e che le modalità stabilite dalle norme interne non devono rendere “in pratica, impossibile l’esercizio di diritti che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare” (criterio dell’effettività);
      v3) successivamente la Corte di giustizia arriva a teorizzare un obbligo di interpretazione conforme delle norme procedurali nazionali che ha la finalità specifica di garantire effettività alle norme di diritto comunitario sostanziale vigenti in materia (Corte di giustizia CE, 15.05.1986, C-222/84, Johnston; idem, 25.07.1991, C-208/90, Emmott);
      v4) con la sentenza Corte giustizia UE, 14.12.1995, in cause riunite C-430/93 e C-431/93, van Schijndel, l’obbligo di interpretazione conforme si evolve in un vero e proprio dovere del giudice nazionale di “funzionalizzare” gli strumenti messi eventualmente a disposizione dal diritto interno per perseguire l’obiettivo primario di garantire l’effettività del diritto comunitario. La funzionalizzazione non si risolve nella imposizione di nuovi strumenti sconosciuti al diritto nazionale, bensì semplicemente nella richiesta dell’utilizzazione di quelli che già esistono, estendendone eventualmente l’ambito di applicazione per ricomprendervi fattispecie comunitariamente rilevanti in cui si ponga il problema di garantire, nel caso concreto, l’effettività del diritto UE.
La funzionalizzazione si spinge sino al punto di chiedere al giudice nazionale delle vere e proprie deroghe al diritto processuale nazionale, come accaduto in modo emblematico per il principio di intangibilità del giudicato (Corte giustizia UE, sentenza 30.09.2003, C-224/01, Köbler; idem 18.07.2007, C-119/05, Lucchini, in Foro it., IV, 532, con nota di SCODITTI; Rass. trib., 2007, 1579, con nota di BIAVATI; Dir. e pratica società, 2007, fasc. 21, 54, con nota di NICODEMO, BIANCHI; Guida al dir., 2007, fasc. 35, 106, con nota di MERONE; Lavoro giur., 2007, 1203, con nota di MORRONE);
      v5) la tesi della funzionalizzazione degli istituti processuali nazionali è stata, ancora di recente, applicata alla disciplina della decorrenza del termine di impugnazione da Corte di giustizia UE, 08.09.2011 in causa C-177/10, Rosado Santana in cui è stato chiesto al giudice del rinvio di verificare se la disciplina interna fosse tale da rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dalle fonti comunitarie e ciò anche nella prospettiva della eventuale disapplicazione della norma processuale interna che osti a rendere effettiva la tutela del diritto di matrice comunitaria (Corte di giustizia UE, sezione VI, 27.02.2003 in causa C-327/00, Santex, in Foro it., 2003, IV, 474, con nota di BARONE A., FERRARI E.; Urbanistica e appalti, 2003, 649, con nota di GIOVANNELLI; Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2003, 888, con nota di LEONE, BARONE A., FERRARI E.);
      v6) l’unico argine all’obbligo della interpretazione conforme e alla teoria della funzionalizzazione degli istituti processuali nazionali per garantire l’effettività del diritto comunitario sostanziale è rappresentata dalla nota «teoria dei contro limiti», la cui applicazione è stata di recente prospettata in materia penale nel noto caso «Taricco» (oggetto di approfondimento nella News US del 30.01.2018 cui si rinvia) in cui la funzionalizzazione mediante disapplicazione della disciplina nazionale sulla prescrizione in materia penale avrebbe comportato una possibile violazione del principio supremo di irretroattività della norma penale sfavorevole;
      v7) in dottrina, nell’ambito di una vasta letteratura, si segnalano: CONSOLO, L’ordinamento comunitario quale fondamento per la tutela cautelare del giudice nazionale (in via di disapplicazione di norme legislative interne), in Dir. proc. amm., 1991, p. 255 ss.; TESAURO, Tutela cautelare e diritto comunitario, in Riv. it. dir. pubb. com., 1992, p. 125 ss.; MENGOZZI, L’applicazione del diritto comunitario e l’evolversi della giurisprudenza della Corte di giustizia nella direzione di una chiamata dei giudici nazionali ad assicurare una efficace tutela dei diritti da esso attribuiti ai cittadini degli stati membri, in L. VANDELLI, C. BOTTARI, D. DONATI (a cura di), Diritto amministrativo comunitario, Rimini, 1994, p. 29 ss.; DANIELE, L'effettività della giustizia amministrativa nell'applicazione del diritto comunitario europeo, in Riv. it. dir. pubb. com., 1996, p. 1385 ss.; GRECO, L'effettività della giustizia amministrativa italiana nel quadro del diritto europeo, in Riv. it. dir. pubb. com., 1996/3-4, p. 797 ss.; MASUCCI, La lunga marcia della Corte di Lussemburgo verso una tutela cautelare europea, in Riv. it. dir. pubb. com. 1996, p. 1155 ss.; CHITI, L'effettività della tutela giurisdizionale tra riforme nazionali e influenza del diritto comunitario, in Dir. proc. amm., 1998, p. 499 ss.; MORBIDELLI, La tutela giurisdizionale dei diritti nell’ordinamento comunitario.
Quaderni della Rivista “Il Diritto dell’Unione Europea”, Milano, 2001; MARI, La forza di giudicato delle decisioni dei giudici nazionali di ultima istanza nella giurisprudenza comunitaria, in Riv. it. dir. pubb. com., 2004/3-4, p. 1007 ss.; MARCHETTI. Sul potere di annullamento d’ufficio, la Corte ribadisce l’autonomia procedurale degli Stati membri, ma si sbilancia un po’, in Riv. it. dir. pubb. com., 2006/6, p. 113 ss.; CONSOLO, La sentenza Lucchini della Corte di giustizia: quale possibile adattamento degli ordinamenti processuali interni e in specie del nostro?, in Riv. dir. proc., 2008, p. 224 ss.; GALETTA, L’autonomia procedurale degli Stati membri dell’Unione europea: Paradise Lost?, Giappichelli, Torino, 2009 (Consiglio di Stato, A.P., ordinanza 11.05.2018 n. 6 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Trasporto non autorizzato di rifiuti pericolosi e non pericolosi - Attività di rigattiere - Incompatibilità con un trasporto occasionale di rifiuti - LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE - Confisca del mezzo di trasporto e legittimazione (e dell'interesse) a ricorrere avverso confisca - Reato di cui all'art. 256, c. 1, lett. a) e b), d.lgs. n. 152/2006.
Chi esercita l’attività di rigattiere non può eccepire l'occasionalità del trasporto di rifiuti, in quanto tale mestiere contrasta sul piano logico con tale occupazione e non basta ad escludere la penale irrilevanza del trasporto di rifiuti pericolosi non oggetto dell'attività di commercio autorizzata.
Inoltre, la mancanza della proprietà del mezzo priva della legittimazione (e dell'interesse) a ricorrere avverso la sua confisca (Corte di Cassazione, Sez. VII penale, ordinanza 10.05.2018 n. 20655 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Istanza volta ad ottenere un provvedimento in via di autotutela.
Non è ravvisabile alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta ad ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile ab extra l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità di atti amministrativi mediante l'istituto del silenzio-rifiuto, costituendo l'esercizio del potere di autotutela facoltà ampiamente discrezionale dell'Amministrazione che non ha alcun dovere giuridico di esercitarla.
Conseguentemente la P.A. non ha alcun obbligo di provvedere su istanze che sollecitino l'esercizio del potere di autotutela e sulle stesse non si forma il silenzio e la relativa azione, volta a dichiararne l'illegittimità, è da ritenersi inammissibile
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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3. Nel merito il ricorso è infondato.
Dall’esame degli atti risulta la nota comunale 30.06.2017 la quale contiene tale affermazione: <<Si fa presente infine che, vista la rilevata illegittimità "della struttura sanitaria su area inserita —dalla zonizzazione acustica vigente approvata con deliberazione C.C. n. 44 del 28/06/2007 — in classe II, III e IV, la scrivente Amministrazione comunica la non conformità del Piano Urbanistico Attuativo ATU 7>>.
Risulta chiaro quindi che, sebbene l’affermazione sia inserita in un atto in cui sotto altri profili l’amministrazione ritiene non conclusa l’istruttoria, è chiaro che l’atto è immediatamente lesivo e da intendersi nel senso che il procedimento potrà proseguire solo a condizione che gli aspetti ritenuti non conformi alla normativa siano eliminati.
Poiché non risulta che la società abbia impugnato tale atto e neppure che abbia modificato il progetto con riferimento a profili ritenuti ictu oculi illegittimi dall’amministrazione, la domanda di conclusione del procedimento è infondata in quanto sostanzialmente volta ad ottenere un atto che, effettuando un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, sarebbe di autotutela, sia nel caso sfoci in un atto di ritiro sia nel caso in cui sfoci in un atto confermativo.
In merito la giurisprudenza ha chiarito che “non è ravvisabile alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta ad ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile ab extra l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità di atti amministrativi mediante l'istituto del silenzio-rifiuto, costituendo l'esercizio del potere di autotutela facoltà ampiamente discrezionale dell'Amministrazione, che non ha alcun dovere giuridico di esercitarla, con la conseguenza che essa non ha alcun obbligo di provvedere su istanze che ne sollecitino l'esercizio; per cui sulle stesse non si forma il silenzio e la relativa azione, volta a dichiararne l'illegittimità, è da ritenersi inammissibile” (TAR Lazio, Sez. I-ter, 18.07.2016, n. 9563; TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 28.07.2017 n. 1329).
Nel caso in questione, poiché la nota comunale 30.06.2017 conclude il procedimento solo con riferimento ad alcuni profili del progetto, deve ritenersi più corretta la reiezione nel merito del medesimo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.05.2018 n. 1251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di un'istanza ex art. 36 DPR n. 380/2001 non renda inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina l'improcedibilità, per sopravvenuta carenza di interesse, dell'impugnazione proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma comporta eventualmente solo un arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto, esplicito o implicito, della domanda di sanatoria.
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Con il secondo motivo si deduce l’inefficacia/illegittimità dell’ordinanza in ragione della presentazione di un’istanza di accertamento di conformità ex art. 36/37 DPR 380/2001, successivamente all’adozione del provvedimento impugnato (prot. 11839 del 01.04.2011).
Il motivo è infondato.
Il Collegio ritiene (cfr. quale precedente conforme Cons. Stato n. 1565/2017, Tar Napoli n. 3501/2017) che la presentazione di un'istanza ex art. 36 DPR n. 380/2001 non renda inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e, quindi, non determini l'improcedibilità, per sopravvenuta carenza di interesse, dell'impugnazione proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma comporti eventualmente solo un arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto, esplicito o implicito, della domanda di sanatoria (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 09.05.2018 n. 3087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per orientamento pacifico, la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile solo ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera c.d. principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
Pertanto, una tettoia o una veranda che occupino, come nel caso di specie, una superficie di dimensioni indubbiamente rilevanti non possono ritenersi pertinenza urbanistica, in quanto possiedono una propria individualità fisica e determinano un'alterazione significativa dell'assetto del territorio.
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Né può essere condivisa la tesi secondo cui tali opere avrebbero natura precaria ed amovibile; infatti, la precarietà o meno di un'opera edilizia va valutata con riferimento non alle modalità costruttive, bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinate ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.

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Con il quarto motivo si indica la natura pertinenziale e accessoria delle opere, natura che non giustificherebbe l’ordine di ripristino impartito, stante “l’irrilevanza urbanistica e ambientale” delle stesse.
La censura deve essere disattesa.
Per orientamento pacifico (cfr. da ultimo questa Sezione sentenza n. 5564/2017, in termini) la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile solo ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, ma non anche ad opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera c.d. principale e non siano coessenziali alla stessa, tale cioè che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
Pertanto, una tettoia o una veranda che occupino, come nel caso di specie, una superficie di dimensioni indubbiamente rilevanti non possono ritenersi pertinenza urbanistica, in quanto possiedono una propria individualità fisica e determinano un'alterazione significativa dell'assetto del territorio.
Né può essere condivisa la tesi secondo cui tali opere avrebbero natura precaria ed amovibile; infatti, la precarietà o meno di un'opera edilizia va valutata con riferimento non alle modalità costruttive, bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinate ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (cfr. Tar Napoli n. 3027/2017).
Ne consegue la legittimità dell'ordinanza di ripristino relativamente alle opere suddette, destinate allo stabile insediamento nel territorio e con perdurante trasformazione dell'assetto dei luoghi.
In conclusione il ricorso viene rigettato (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 09.05.2018 n. 3087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: T. Rossi, Analisi dei profili di responsabilità penale e amministrativa per l'abbandono di rifiuti.
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E' illegittimo l’ordine di rimozione di rifiuti abbandonati a carico del proprietario incolpevole dell’abbandono.
A norma dell’art. 192, co. 3, d.lgs. 152/2006 alla rimozione dei rifiuti è tenuto il responsabile dell’abbandono o del deposito dei rifiuti e, solidalmente, il proprietario o chi abbia a qualunque titolo la disponibilità soltanto laddove ad essi sia imputabile l’abbandono dei rifiuti a titolo di dolo o colpa.

Il Consiglio di Stato, dunque, ribadisce come non è altrimenti configurabile una responsabilità oggettiva a carico del proprietario o di coloro che a qualunque titolo abbiano la disponibilità dell’area interessata dall’abbandono dei rifiuti. Tali principi restano validi anche quando sia il Comune a procedere per la rimozione con lo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente di cui all’art. 50 del d.lgs. n. 267/2000, atteso che l’imputabilità sotto il profilo soggettivo dell’inquinamento non può modificarsi a seconda dello strumento amministrativo con il quale si agisce.
Ricordando che, le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale o -come nel caso in specie- in relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana.
Pertanto, secondo il dictum del Consiglio di Stato è censurabile l’operato dell’Amministrazione, e la relativa ordinanza va annullata, ogni qualvolta essa ometta di dedurre, profili di responsabilità a titolo di dolo o colpa in capo al soggetto sanzionato, essendo essi necessari per imporre l’obbligo di rimozione dei rifiuti.
Partendo da questo spunto giurisprudenziale, proviamo ora ad analizzare più in dettaglio scenari e profili di responsabilità in caso di abbandono di rifiuti.
   - L’art. 255 d.lgs. 152/2006 disciplina il reato di abbandono e il deposito incontrollato di rifiuti, che sanziona chiunque abbandona o deposita rifiuti nel suolo e sul suolo, ovvero li immetta nelle acque superficiali o sotterranee con la sanzione amministrativa pecuniaria da 300 € a 3.000 €, aumentata fino al doppio se la condotta riguarda rifiuti pericolosi. Il comma 3 prevede che chiunque non ottemperi l’ordinanza del Sindaco che ordina la rimozione dei rifiuti, il recupero o lo smaltimento degli stessi e il ripristino dello stato dei luoghi, è punito con la pena dell’arresto fino ad un anno e il beneficio della sospensione condizionale della pena può essere subordinato all’esecuzione di quanto disposto nell’ordinanza sindacale.
La condotta attribuibile dunque al privato che pone in essere le attività di abbandono è quella prevista dall’art. 255 d.lgs. 152/2006 (“Abbandono di rifiuti”) punita unicamente con sanzione amministrativa.
   - L’art. 256 d.lgs. 152/2006, invece, sanziona anche penalmente la condotta di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti, che sia stata posta in essere all’interno di una attività professionale, e in ogni caso sia con una condotta organizzata, non episodica e non esclusivamente di tipo dismissivo.
La pena è dell’arresto da 3 mesi a un anno e l’ammenda da 2.600 a 26.000 € se si tratta di rifiuti non pericoloso; e dell’arresto da 6 mesi a 2 anni e con l’ammenda da 2.600 a 26.000 € se si tratta di rifiuti pericolosi e con l’ammenda di € 26.000,00 (spesso irrogata con verbale in misura ridotta parti ad un quarto del massimo, € 6.500,00 così come indicato nel verbale di prescrizioni).
Alla stessa pena soggiace chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione.
   - Il comma 3 dell’art. 256 prevede il reato di discarica abusiva (“non autorizzata”), sanzionando con la pena dell’arresto da 6 mesi a 2 anni e con l’ammenda da 2.600 a 26.000 euro chiunque realizza o gestisce una discarica non autorizzata; e con la pena dell'arresto da 1 a 3 anni e dell’ammenda da 5.200 a 52.000 € se la discarica è destinata allo smaltimento di rifiuti pericolosi (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.05.2018 n. 2786 - tratto da e link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Circa la particolare ampiezza delle facoltà discrezionali che competono all’ente comunale in sede di elaborazione della disciplina urbanistica, il Collegio deve innanzi tutto ribadire principi già espressi dalla giurisprudenza di questa Sezione, in relazione all’esercizio del potere di pianificazione urbanistica ed alla natura della motivazione delle scelte in tal modo effettuate, nel senso che segue:
   - le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate;
   - il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse all'ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità e zone (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma è rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti;
   - l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esso incida su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”;
   - le scelte contenute negli strumenti di pianificazione urbanistica possono contemplare il sovradimensionamento degli standard, fatto salvo l’obbligo di una motivazione rafforzata che illustri le ragioni per le quali si è deciso di prevedere una dotazione di standard superiore a quella minima fissata dalla legge sebbene non si richieda nemmeno in tal caso una motivazione puntuale che riguardi le singole aree;
   - la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell’attitudine edificatoria di un’area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l’amministrazione in ordine ad una diversa “zonizzazione” dell’area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
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8. L’appello merita accoglimento.
8.1. Come esposto in narrativa, l’oggetto del presente giudizio attiene alla scelta pianificatoria del Comune di Cassolnovo consistente nell’imprimere definitivamente all’area di proprietà della ricorrente una destinazione agricola, in luogo della destinazione residenziale stabilita dal previgente PRG e della destinazione “residenziale di saturazione” inizialmente ipotizzata nel corso della elaborazione del nuovo PGT.
In particolare le deduzioni sollevate con il ricorso instaurativo della lite involgono le stesse ragioni fattuali poste a fondamento della divisata scelta urbanistica, segnatamente correlate alla prossimità del compendio di proprietà della signora Riva ad una realtà produttiva fonte di possibili fenomeni di inquinamento acustico e alla presenza di un elettrodotto in grado di produrre inquinamento elettromagnetico.
8.2. La disamina dell’appello in esame non può prescindere dalla considerazione relativa alla particolare ampiezza delle facoltà discrezionali che competono all’ente comunale in sede di elaborazione della disciplina urbanistica.
Il Collegio deve innanzi tutto ribadire, nella presente sede, principi già espressi dalla giurisprudenza di questa Sezione (e anche di recente confermati: v., tra le altre, Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2016 n. 2221; 03.11.2016, n. 4599), in relazione all’esercizio del potere di pianificazione urbanistica ed alla natura della motivazione delle scelte in tal modo effettuate, nel senso che segue:
   - le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali, ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.08.2017, n. 4037; sez. VI, 05.03.2013, n. 1323; sez. IV, 25.11.2013, n. 5589; sez. IV, 16.04.2014, n. 1871);
   - il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all’interesse all'ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità e zone (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma è rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti (Cons. Stato, sez. IV, 22.02.2017, n. 821);
   - l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui esso incida su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte effettuate, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata” (Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008, n. 5478);
   - le scelte contenute negli strumenti di pianificazione urbanistica possono contemplare il sovradimensionamento degli standard (Cons. Stato Sez. IV, 31.05.2011, n. 3315), fatto salvo l’obbligo di una motivazione rafforzata che illustri le ragioni per le quali si è deciso di prevedere una dotazione di standard superiore a quella minima fissata dalla legge sebbene non si richieda nemmeno in tal caso una motivazione puntuale che riguardi le singole aree;
   - la semplice reformatio in peius della disciplina urbanistica attraverso il ridimensionamento dell’attitudine edificatoria di un’area è interdetta solo da determinazioni vincolanti per l’amministrazione in ordine ad una diversa “zonizzazione” dell’area stessa, ovvero tali da fondare legittime aspettative potendosi configurare un affidamento qualificato del privato esclusivamente in presenza di convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione o ancora nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr. ex plurimis sez. IV, 04.03.2003, n. 1197; sez. IV, 25.07.2001, n. 4078; Ad. plen. n. 24 del 1999).
8.3. Calati tali principi nella presente controversia, occorre rilevare che:
   - sono inammissibili tutte le censure poste a sostegno del ricorso di primo grado nella parte in cui impingono nel merito delle scelte pianificatorie del Comune;
   - dalla documentazione versata in atti non emerge la prova di alcuna disparità di trattamento;
   - non ricorre alcuna delle circostanze in grado di consolidare l’affidamento del privato circa la conferma della destinazione edificatoria dell’area, avendo peraltro il Comune appellante evidenziato che il fondo della signora Riva non è intercluso tra aree legittimamente edificate, tant’è che la nuova destinazione agricola impressa dal piano interessa anche le aree circostanti al lotto di proprietà della predetta;
   - proprio perché la scelta urbanistica contestata dall’appellata non involge soltanto il lotto di proprietà dell’appellata bensì tre ambiti territoriali (ATU 3, 4 e 5), essa riflette una strategia di fondo che ispira la pianificazione intesa al “contenimento del consumo di suolo libero” (cfr. parere VAS del 16.11.2012, pagina 4) alla luce del trend di crescita della popolazione;
   - sia l’ASL Pavia (parere VAS cit., pagina 10) che l’ARPA Lombardia (nota prot. n. 7996 del 31.08.2012, pagina 5) hanno espresso pareri convergenti nell’escludere la destinazione edificatoria dell’area in questione; tali apporti tecnici sono confluiti nel procedimento VAS avente carattere cogente ai fini dell’elaborazione della pianificazione di matrice comunale (Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2017, n. 4471);
   - il segnalato rischio di inquinamento acustico derivante dallo stabilimento della ditta Ma.Fe. s.r.l. non è contraddetto dall’adozione dell’ordinanza sindacale n. 30 del 2013 nei riguardi della stessa, ai fini dell’adozione di “opere di bonifica acustica”, essendo detto provvedimento rimasto inottemperato con conseguente mancata adozione di misure idonee a provocare l’abbattimento dell’emissioni prodotte;
   - la classificazione dell’area, secondo il Piano di zonizzazione acustica del Comune di Cassolnovo, peraltro intervenuto successivamente allo strumento pianificatorio oggetto di gravame, non risulta incompatibile con la destinazione agricola;
   - dai rilievi eseguiti dall’ARPA nel 2015-2016, le cui risultanze sono state valorizzate dal Tribunale, emerge il superamento dei limiti di immissione da parte dell’anzidetto impianto produttivo di Via ... n. 178/A in due giorni lavorativi (13 e 16.01.2016), come da relazione del 05.09.2016.
9. L’appello deve essere quindi accolto, con conseguente riforma dell’impugnata sentenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.05.2018 n. 2780 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se è vero che la mancata impugnazione del diniego di concessione edilizia in sanatoria comporta la decadenza dalla possibilità di rimettere in discussione l’ordine di demolizione, costituente atto consequenziale rispetto al provvedimento presupposto (il diniego di sanatoria), tale conclusione non vale, però, ove il ricorrente deduca vizi propri ed autonomi dell’ordinanza di demolizione.
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In via pregiudiziale il Collegio deve analizzare l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa comunale, attesa la sua idoneità, qualora accolta, a precludere in tutto o in parte l’esame del merito del gravame.
In particolare, il Comune di Gambugliano ha eccepito che la mancata impugnazione, ad opera della C.F. S.r.l., del provvedimento comunale prot. n. 240 del 25.01.2000, recante rigetto della domanda di sanatoria presentata dalla citata società in relazione al manufatto per cui è causa (cabina di trasformazione dell’energia elettrica), determinerebbe l’inammissibilità del gravame o, almeno, del terzo motivo con esso dedotto: ciò, giacché l’ordine di demolizione dell’opera abusiva costituirebbe atto consequenziale, dovuto e vincolato, rispetto al diniego di sanatoria della stessa opera, rimasto inoppugnato.
In contrario, tuttavia, occorre sottolineare che, se è vero che la mancata impugnazione del diniego di concessione edilizia in sanatoria comporta la decadenza dalla possibilità di rimettere in discussione l’ordine di demolizione, costituente atto consequenziale rispetto al provvedimento presupposto (il diniego di sanatoria), tale conclusione non vale, però, ove il ricorrente deduca vizi propri ed autonomi dell’ordinanza di demolizione (cfr., ex multis, TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 12.02.2016, n. 460; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 05.11.2014, n. 1162; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 12.06.2014, n. 3262).
Ebbene, ad avviso del Collegio, nel caso de quo la C.F. S.r.l. ha dedotto censure che –in disparte la loro fondatezza– hanno ad oggetto vizi propri dell’ordinanza di demolizione e, più precisamente, la scelta ad opera del Comune, nell’esercizio del potere sanzionatorio degli abusi edilizi, di irrogare la sanzione demolitoria, anziché quella pecuniaria: detta scelta, infatti, non può farsi discendere dal provvedimento di diniego della concessione in sanatoria –espressione del distinto potere di sanare le opere abusive–, ma, costituendo esercizio del potere di sanzionare l’esecuzione di interventi edilizi in difetto del prescritto titolo abilitativo, è riconducibile in via esclusiva all’ordinanza di demolizione impugnata.
Di qui l’infondatezza della suesposta eccezione di inammissibilità
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 09.05.2018 n. 503 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Una cabina elettrica, quale vano tecnologico, non va computata non solo ai fini del volume, ma neppure ai fini della distanza.
Vero è che la cabina di trasformazione dell’energia, avendo un’altezza di ml. 2,81, non rientra nella previsione derogatoria di cui all’art. 15, punto 5, lett. d), delle N.T.A. del P.R.G., per la quale, ai fini delle distanze dai confini, non vengono considerate le costruzioni accessorie di altezza non superiore a ml. 2,50.
Nondimeno, il predetto manufatto, secondo il Collegio, ha natura di volume tecnico, e cioè di opera priva di autonomia funzionale, anche potenziale, che è destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima e che non può essere collocata all’interno della costruzione principale: come volume tecnico, perciò, la cabina non costituisce “costruzione” ai sensi dell’art. 873 c.c., con il corollario che la stessa non avrebbe dovuto essere considerata ai fini del computo delle distanze.

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Ciò premesso, nel caso di specie non par dubbio che il manufatto realizzato dalla C.F. S.r.l. –una cabina per la trasformazione dell’energia elettrica al servizio del capannone industriale esistente sul fondo di sua proprietà e locato ad altra ditta che vi esercita attività produttiva– rientri nella nozione di “impianto tecnologico per l’edificio già esistente” (capannone).
D’altro lato, non vi è alcuna prova in atti che il suddetto impianto, che, secondo le stesse affermazioni della difesa comunale, ha una superficie di circa mq. 18 e una volumetria di circa mc. 50, abbia una cubatura superiore a un terzo di quella del capannone. Anzi, sulla base delle mappe e dei rilievi grafici allegati alla relazione del tecnico comunale del 02.02.1999, recante accertamento dell’abuso (v. doc. 2 del Comune di Gambugliano), si può con ogni verosimiglianza sostenere il contrario: da tale documentazione, infatti, emerge ictu oculi il carattere ridotto delle dimensioni della cabina rispetto a quelle del capannone, al cui servizio è posta (cfr., in specie, l’ingrandimento della mappa catastale –foglio n. 6– in scala 1/1000, versato in atti dalla difesa comunale).
Se ne desume che, in base al combinato disposto degli artt. 76, comma 1, lett. a), e 94 della l.r. n. 61/1985, la realizzazione del manufatto in discorso (cabina) in difetto del prescritto titolo abilitativo (autorizzazione edilizia) avrebbe dovuto comportare l’inflizione della sanzione pecuniaria e non già di quella demolitoria, essendo quest’ultima riservata, ai sensi dell’art. 92 della l.r. n. 61 cit., alle opere assoggettate a concessione edilizia. Donde la fondatezza delle doglianze dedotte della C.F. S.r.l. con il primo e con il secondo motivo del ricorso.
Non convincono le contrarie argomentazioni avanzate sul punto dalla difesa comunale.
Il Comune invoca, anzitutto, il comma 4 del succitato art. 76 della l.r. n. 61/1985, a tenor del quale l’autorizzazione edilizia è rilasciata “in conformità alle leggi, ai regolamenti e alle prescrizioni degli strumenti di pianificazione urbanistica o territoriale vigenti”. Nel caso di specie, tuttavia, la suddetta conformità mancherebbe, poiché il manufatto realizzato dalla deducente insisterebbe a circa cm. 45 dal confine di proprietà (ed a circa cm. 35 dalla recinzione delimitante il confine) e, perciò, si porrebbe in insanabile contrasto con l’art. 15, punto 3, delle N.T.A. del P.R.G. all’epoca vigente: quest’ultimo, infatti, prevede una distanza minima dei fabbricati dai confini di proprietà pari a ml. 5,00 (cfr. doc. 6 del Comune di Gambugliano).
Sul punto, però, il Collegio ritiene di condividere l’obiezione formulata dalla deducente, secondo cui il manufatto in questione, quale vano tecnologico, non va computato non solo ai fini del volume, ma neppure ai fini della distanza.
Vero è che la cabina di trasformazione dell’energia, avendo un’altezza di ml. 2,81, non rientra nella previsione derogatoria di cui all’art. 15, punto 5, lett. d), delle N.T.A. del P.R.G., per la quale, ai fini delle distanze dai confini, non vengono considerate le costruzioni accessorie di altezza non superiore a ml. 2,50.
Nondimeno, il predetto manufatto, secondo il Collegio, ha natura di volume tecnico, e cioè di opera priva di autonomia funzionale, anche potenziale, che è destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima e che non può essere collocata all’interno della costruzione principale: come volume tecnico, perciò, la cabina non costituisce “costruzione” ai sensi dell’art. 873 c.c., con il corollario che la stessa non avrebbe dovuto essere considerata ai fini del computo delle distanze (cfr., ex multis, Cass. Civ., Sez. II, 26.11.2012, n. 20886; id., 03.02.2011, n. 2566; C.d.S., Sez. V, 13.03.2014, n. 1272; id., Sez. IV, 15.01.2013, n. 223; id., 05.12.2012, n. 6253; TAR Liguria, Sez. I, 03.12.2015, n. 1002)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 09.05.2018 n. 503 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Sulla natura di reato permanente dell’invasione di terreni o edifici (art. 633 c.p.).
In tema di invasione di terreni o edifici (art. 633 c.p.), si segnala la pronuncia con cui la Corte di Cassazione ha aderito all’orientamento secondo cui, trattandosi di reato permanente, assume rilievo non solo la condotta iniziale di invasione, ma anche la successiva condotta di occupazione protratta nel tempo.
La nozione di “invasione” –si legge nella decisione– «non si riferisce all’aspetto violento della condotta, che può anche mancare, ma al comportamento di colui che si introduce “arbitrariamente” e cioè, contra ius in quanto privo del diritto d’accesso. La conseguente “occupazione” deve ritenersi, pertanto, l’estrinsecazione materiale della condotta vietata e la finalità per la quale viene posta in essere l’abusiva occupazione. Ma nel caso in cui l’occupazione si protragga nel tempo il delitto assume natura permanente, e cessa soltanto con l’allontanamento del soggetto dall’edificio o con la sentenza di condanna. Ne deriva che, finché dura la condotta delittuosa, è possibile proporre la querela, nel senso che il reato permanente».
Nel ribadire tali principi, la Corte si è posta in consapevole contrasto con un diverso, recente, orientamento secondo cui «in forza del tenore letterale dell’art. 633 c.p. –che deduce ad oggetto della sanzione la condotta di chi, abusivamente, senza l’autorizzazione del titolare, invade edifici o terreni al fine di occuparli o per trarne profitto– il reato in questione si configura come reato istantaneo ad effetti permanenti, sicché la condotta successiva di protrazione dell’occupazione non avrebbe rilevanza».
Tale indirizzo, ad avviso dei giudici di legittimità, non può essere condiviso: occorre, infatti, rilevare che «con riferimento ad altri reati definiti come istantanei con effetti permanenti, quali l’evasione, il deturpamento di bellezze naturali, la deviazione di acque e modificazione dello stato dei luoghi ex art. 632 c.p., la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che, di regola, si consumano nel momento stesso in cui si modifica lo stato dei luoghi; tuttavia possono assumere carattere permanente qualora, perché perdurino gli effetti della modifica, si renda necessaria un’attività continua o ininterrotta dell’agente».
Nel caso di invasione di terreni o edifici (art. 633 c.p.) –conclude la sentenza– «certamente si rende necessaria la condotta attiva dell’autore dell’invasione che continui ad utilizzare il bene altrui» giungendosi, altrimenti, al «risultato paradossale di ritenere improcedibile o prescritto un reato che si estrinseca in una condotta attiva che si protrae nelle more del processo» (Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 08.05.2018 n. 20132 - commento tratto da www.giurisprudenzapenale.com).
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1. Il ricorso è fondato.
Secondo un orientamento consolidato e risalente, "
Il delitto p. e p. ex art. 633 c.p., ove non si esaurisca nella pura e semplice momentanea invasione, ma avvenga con un'occupazione protratta nel tempo -come avvenuto nel caso in esame- è permanente, come da lungo tempo stabilito da larga giurisprudenza di questa S.C. (cfr., ad es., Cass. Sez. 2 n. 49169 del 27.11.2003; Cass. Sez. 3 n. 2026 del 26.11.2003, dep. 22.01.2004; Cass. Sez. 2 n. 8799 del 17.01.1999; Cass. Sez. 2 n. 3708 del 12.01.1990; Cass. Sez. 2 n. 7427 del 23.11.1987, dep. 30.06.1988; Cass. Sez. 2 n. 10363 del 30.6.87; Cass. Sez. 3 n. 670 del 24.11.1982, dep. 26.01.1983; Cass. Sez. 2 n. 1178 del 07.10.1980, dep. 18.02.1981; Cass. Sez. 2 n. 1625 del 17.11.1972, dep. 23.02.1973)."
E' stato peraltro chiarito che
nel reato di invasione di terreni o edifici di cui all'art. 633 cod. pen. la nozione di "invasione" non si riferisce all'aspetto violento della condotta, che può anche mancare, ma al comportamento di colui che si introduce "arbitrariamente" e cioè, contra ius in quanto privo del diritto d'accesso. La conseguente "occupazione" deve ritenersi pertanto l'estrinsecazione materiale della condotta vietata e la finalità per la quale viene posta in essere l'abusiva occupazione. Ma nel caso in cui l'occupazione si protragga nel tempo il delitto assume natura permanente, e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio o con la sentenza di condanna (Sez. 2, n. 49169 del 27/11/2003 - dep. 22/12/2003, Minichini, Rv. 22769201).
Ne deriva che,
finché dura la condotta delittuosa, è possibile proporre la querela, nel senso che il reato permanente è, in quanto tale, flagrante per tutto il periodo in cui se ne protrae la consumazione e ciò ai sensi dell'esplicito disposto dell'art. 382 cpv. c.p.p.; ciò significa che la querela deve considerarsi comunque tempestiva sia pure con riferimento al periodo pregresso corrispondente al termine trimestrale di cui all'art. 124 c.p.; tenuto conto, poi, dell'intrinseca struttura unitaria del reato permanente, ovviamente la querela copre anche il periodo ad essa posteriore, finché si protrae la permanenza (cfr., in motivazione, Cass. Sez. 6 n. 22219 dell'11.05.2010; Cass. Sez. 6 n. 11556 del 19.11.2008, dep. 17.03.2009).
Anche questa sezione ha affermato che "
E' da ritenersi tempestiva la querela per il reato di invasione di terreni che sia stata proposta durante il periodo in cui si è protratta l'occupazione, dal momento che il reato permanente è flagrante per tutto il tempo in cui se ne protrae la consumazione" (Sez. 2, n. 41401 del 19/10/2010 - dep. 23/11/2010, Quaglia ed altro, Rv. 24892601).
Il collegio conosce quell'orientamento minoritario secondo cui, in forza del tenore letterale dell'art. 633 cod. pen., che deduce ad oggetto della sanzione la condotta di chi, abusivamente, senza l'autorizzazione del titolare, invade edifici o terreni al fine di occuparli o per trarne profitto, il reato in questione si configura come reato istantaneo ad effetti permanenti, sicché la condotta successiva di protrazione dell'occupazione non avrebbe rilevanza. (Sez. 2, n. 7911 del 20/01/2017 - dep. 17/02/2017, P.M. in proc. Tripodi, Rv. 26957501). E tuttavia tale conclusione non è del tutto condivisibile.
Ed infatti occorre rilevare che
con riferimento ad altri reati definiti come istantanei con effetti permanenti, quali l'evasione, il deturpamento di bellezze naturali, la deviazione di acque e modificazione dello stato dei luoghi ex art. 632 cod. pen., n. 306, conv. in L. 07.08.1992, n. 356 la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che, di regola, si consumano nel momento stesso in cui si modifica lo stato dei luoghi; tuttavia possono assumere carattere permanente qualora, perché perdurino gli effetti della modifica, si renda necessaria un'attività continua o ininterrotta dell'agente.
E nel caso di occupazione di un terreno o di un appartamento certamente si rende necessaria la condotta attiva dell'autore dell'invasione che continui ad utilizzare il bene altrui.
Si perverrebbe, altrimenti, al risultato paradossale di ritenere improcedibile o prescritto un reato che si estrinseca in una condotta attiva che si protrae nelle more del processo.

Si impone pertanto l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Reggio Calabria per l'ulteriore corso.

EDILIZIA PRIVATA: L'installazione di sanitari non è manutenzione straordinaria.
L’art. 3, comma 1, lett. b), del DPR n. 380 del 2001 qualifica come <manutenzione straordinaria> gli interventi volti a “realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari” e nella specie non si ipotizza la realizzazione ex novo di un servizio igienico prima inesistente o l’ampliamento di servizio esistente, bensì la semplice allocazione dei sanitari (come sarebbe la sostituzione di un lavandino o w.c. vecchio con un nuovo), come tale non rientrante nella <manutenzione straordinaria>.
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E' da escludersi che gli interventi ipotizzati comportino la necessità di nuova attestazione di abitabilità.
Invero, l’art. 24 del DPR n. 380 del 2001, al comma 3, richiede attestazione di agibilità per “interventi sugli edifici esistenti che possano influire sulle condizioni di cui al comma 1”, cioè sulla “sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità”.
L’esame della giurisprudenza pone in evidenza come gli interventi che rendono obbligatoria una nuova valutazione dell’agibilità sono sostanzialmente quelli che hanno carattere “strutturale” e quelli che danno adito ad un mutamento di destinazione d’uso.
In tal senso:
   - "appare legittima la richiesta di una nuova valutazione delle condizioni di agibilità di un immobile «a fronte di modifiche strutturali, che implicano anche un cambiamento dell'uso degli spazi»;
   - «gli artt. 24 e segg. del T.U.E. non individuano espressamente le diverse ipotesi in cui, pur vertendosi in tema di interventi “minori”, gli stessi influiscano sulle condizioni di igiene e sicurezza, evidentemente rimettendo tale valutazione (di “influenza”) alle Amministrazioni deputate a tale verifica», dunque attribuendo all’Amministrazione un potere discrezionale di valutare se –nel caso concreto– gli interventi edilizi posti in essere alterino o meno le condizioni igienico-sanitarie dell’edificio, il che comunque appare difficile da sostenere in relazione alla mera collocazione degli arredi sanitari;
   - la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che anche il mero mutamento di destinazione d’uso di un locale possa giustificare la richiesta di un nuovo certificato di agibilità;
   - il rilascio di un nuovo certificato di agibilità si rende necessario per le sole modifiche “strutturali” dell’edificio, esclude la necessità di acquisire un simile titolo a fronte di un intervento di mero ampliamento di un’uscita di sicurezza;
   - «i lavori, effettuati successivamente all’interno del locale, hanno riguardato solo l’inserimento di un locale igienico, che non determina la necessità di un nuovo certificato di agibilità, in quanto, secondo la giurisprudenza costante, è necessario richiedere un nuovo certificato di agibilità solo quando si procede alla ristrutturazione totale».
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6.2 – In termini giuridici pare comunque da escludere che il mero intervento di installazione dei sanitari –eseguito allorquando tutte le reti e gli allacci ad essi propedeutici sono già stati realizzati– sia riconducibile alla categoria della manutenzione straordinaria.
L’art. 3, comma 1, lett. b), del DPR n. 380 del 2001 qualifica come <manutenzione straordinaria> gli interventi volti a “realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari” e nella specie non si ipotizza la realizzazione ex novo di un servizio igienico prima inesistente o l’ampliamento di servizio esistente, bensì la semplice allocazione dei sanitari (come sarebbe la sostituzione di un lavandino o w.c. vecchio con un nuovo), come tale non rientrante nella <manutenzione straordinaria> (in tal senso Cons. Giust. Amm. Regione Siciliana, 15.03.2017, n. 102).
6.3 – Analogamente pare da escludere che gli interventi ipotizzati comportassero la necessità di nuova attestazione di abitabilità. L’art. 24 del DPR n. 380 del 2001, al comma 3, richiede attestazione di agibilità per “interventi sugli edifici esistenti che possano influire sulle condizioni di cui al comma 1”, cioè sulla “sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità”.
L’esame della giurisprudenza pone in evidenza come gli interventi che rendono obbligatoria una nuova valutazione dell’agibilità sono sostanzialmente quelli che hanno carattere “strutturale” e quelli che danno adito ad un mutamento di destinazione d’uso.
In tal senso TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 16.03.2011, n. 740, secondo cui appare legittima la richiesta di una nuova valutazione delle condizioni di agibilità di un immobile «a fronte di modifiche strutturali, che implicano anche un cambiamento dell'uso degli spazi»; TAR Abruzzo, Sez. I, 17.06.2015, n. 456 invece precisa che «gli artt. 24 e segg. del T.U.E. non individuano espressamente le diverse ipotesi in cui, pur vertendosi in tema di interventi “minori”, gli stessi influiscano sulle condizioni di igiene e sicurezza, evidentemente rimettendo tale valutazione (di “influenza”) alle Amministrazioni deputate a tale verifica», dunque attribuendo all’Amministrazione un potere discrezionale di valutare se –nel caso concreto– gli interventi edilizi posti in essere alterino o meno le condizioni igienico-sanitarie dell’edificio, il che comunque appare difficile da sostenere in relazione alla mera collocazione degli arredi sanitari; la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che anche il mero mutamento di destinazione d’uso di un locale possa giustificare la richiesta di un nuovo certificato di agibilità (ex multis, TAR Abruzzo, Sez. I, 11.02.2014, n. 107); Cons. Stato, Sez. V, 12.02.2013, n. 795, nell’affermare che il rilascio di un nuovo certificato di agibilità si rende necessario per le sole modifiche “strutturali” dell’edificio, esclude la necessità di acquisire un simile titolo a fronte di un intervento di mero ampliamento di un’uscita di sicurezza; TAR Puglia, Lecce, 07.05.2009, n. 956, la quale afferma che «i lavori, effettuati successivamente all’interno del locale, hanno riguardato solo l’inserimento di un locale igienico, che non determina la necessità di un nuovo certificato di agibilità, in quanto, secondo la giurisprudenza costante, è necessario richiedere un nuovo certificato di agibilità solo quando si procede alla ristrutturazione totale».
Nel caso di specie, l’attestazione di agibilità è stata presentata allorquando tutti gli interventi strutturali nonché i mutamenti di destinazione d’uso erano già stati posti in essere; conseguentemente, la nuova attestazione di agibilità che il Comune ha ritenuto necessaria nel caso di specie, avrebbe dovuto riguardare solo l’installazione dei sanitari (lavandini, wc, ecc.).
Ma tale intervento non risulta tuttavia dar luogo ad una “modifica strutturale” né ad un mutamento di destinazione d’uso (essendo di fatto i locali già completi degli impianti e, per ciò stesso, già destinati a bagno) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 07.05.2018 n. 635 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Raccolta e trasporto di rifiuti esercitate in forma ambulante - Applicabilità della deroga di cui all'art. 266, c. 5°, del TUA - Apparecchiature elettriche ed elettroniche - Esclusione - Fattispecie: elettrodomestici e rifiuti ferrosi non pericolosi - Art. 256, d.lgs. n.152/2006 - Giurisprudenza.
Il reato di cui all'art. 256 D.Lgs. 03.04.2006, n. 152 è configurabile anche in relazione alle condotte di raccolta e trasporto esercitate in forma ambulante, salva l'applicabilità della deroga di cui all'art. 266, comma quinto, del predetto D.Lgs., per la cui operatività occorre non solo che l'agente sia in possesso del titolo abilitativo previsto per il commercio ambulante dal D.Lgs. 31.03.1998, n. 114, ma anche che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio ma non riconducibili, per le loro peculiarità, a categorie autonomamente disciplinate (Sez. 3, n. 19209 del 16/03/2017, Tutone; Sez. 3, n. 34917 del 09/07/2015, Caccamo; Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014, Seferovic; Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, Lazzaro).
Nel caso di specie gli elettrodomestici costituenti rifiuti erano riconducibili a categorie autonomamente disciplinate in base al d.lgs. 25.07.2005, n. 151 (Attuazione della direttiva 2002/95/CE, della direttiva 2002/96/CE e della direttiva 2003/108/CE, relative alla riduzione dell'uso di sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche, nonché allo smaltimento dei rifiuti), abrogato e sostituito dal d.lgs. 14.03.2014, n. 49 (Attuazione della direttiva 2012/19/UE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche - RAEE).
Ne consegue che nemmeno all'epoca dell'accertamento del fatto i cd. "robivecchi" avrebbero potuto trasportare rifiuti costituiti da elettrodomestici avvalendosi della deroga prevista dall'art. 266, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.05.2018 n. 19153 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Esclusione dai beni paesaggistici - Immobili e aree sottoposti a tutela dai piani paesaggistici - Artt. 134, 143, 146 181 d.lgs. n. 42/2004 - Art. 9 Cost. - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - PUTT - Interventi relativi a immobili o aree senza autorizzazione punibili ai sensi dell'art. 44, lett. e), d.P.R. n. 380/2001.
Non sono 'beni paesaggistici', ai sensi dell'art. 134, d.lgs. n. 42 del 2004, gli immobili e le aree sottoposti a tutela dai piani paesaggistici ai sensi della lettera e) dell'art. 143, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004.
Gli interventi eseguiti su dette aree ed immobili senza autorizzazione non sono punibili ai sensi dell'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004; restano punibili ai sensi dell'art. 44, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001.
Ne consegue che:
   a) ai sensi dell'art. 134, d.lgs. n. 42 del 2004, non sono "beni paesaggistici" gli immobili e le aree individuati ai sensi della lettera e dell'art. 143, d.lgs. n. 42 del 2004;
   b) per gli interventi che devono essere eseguiti in dette aree o su detti immobili, l'art. 146, comma 1, d.lgs. n. 42/2004 non richiede l'autorizzazione;
   c) se il piano imponesse l'autorizzazione anche per gli interventi relativi a immobili o aree individuati ai sensi della lettera e dell'art. 143, la loro esecuzione in mancanza del titolo non integrerebbe il reato di cui all'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004 per mancanza dell'oggetto materiale della condotta (il bene paesaggistico) che renderebbe l'azione atipica rispetto a quella tipizzata dalla fattispecie penale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.05.2018 n. 19146 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tutela della pubblica incolumità e diritto di proprietà - Opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso, ed a struttura metallica - Artt. 64, 71 e 72, d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 1 e 10, d.lgs. n. 42/2004 - Circostanza aggravante - Danneggiamento della cosa di interesse storico o artistico.
Il dovere di realizzare le opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso, ed a struttura metallica, secondo le modalità e i criteri stabiliti dall'art. 64, d.P.R. n. 380 del 2001 è posto a tutela della pubblica incolumità, non del diritto di proprietà.
E' escluso, dunque, che il privato proprietario dell'immobile oggetto degli interventi abusivi previsti dagli artt. 71 e 72, d.P.R. n. 380 del 2001, possa essere considerato persona offesa del reato.
Allo stesso modo, la necessità di ottenere l'autorizzazione alla realizzazione di opere e lavori sui beni culturali di cui all'art. 10, d.lgs. n. 42 del 2004, ed il divieto di procedervi in assenza, è posto a tutela del patrimonio culturale, la cui tutela e valorizzazione <<concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura>> (art. 1, comma 2, d.lgs. n. 42 del 2004).
E' estranea alla "ratio puniendi" la tutela del diritto di proprietà dell'immobile, oggetto di specifica tutela mediante l'incriminazione delle condotte previste dall'art. 635, cod. pen., che, molto significativamente, contempla, come circostanza aggravante, l'ipotesi del danneggiamento della cosa di interesse storico o artistico (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.05.2018 n. 18913 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: RISARCIMENTO DEL DANNO - Intervento edilizio abusivo - Danno subito dal proprietario e situazioni giuridiche soggettive - Interesse della pubblica amministrazione.
Il danno subito dal proprietario dell'immobile oggetto di intervento abusivo non ha natura penalistica poiché pregiudica situazioni giuridiche soggettive che sono del tutto estranee allo scopo della incriminazione delle condotte ritenute lesive dell'interesse della pubblica amministrazione e per la cui consumazione non è richiesta né è necessaria alcuna ulteriore indagine.
Tant'è che lo stesso privato titolare del bene può rendersi autore (come avviene nella stragrande maggioranza dei casi) delle medesime condotte oggi ascritte a terze persone, senza che l'assenza del danno privatistico condizioni la sussistenza del reato e privi le relative condotte del danno (o del pericolo di danno) che la loro incriminazione intende prevenire (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.05.2018 n. 18913 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Momento consumativo del reato di abbandono - Componenti oggettive e soggettive - Decorrenza del termine prescrizionale - Compiti e verifiche del giudice del merito - Art. 192, 256 D.Lgs n. 152/2006.
In tema di rifiuti, ogni qualvolta l'attività di abbandono ovvero di deposito incontrollato sia prodromica ad una successiva fase di smaltimento ovvero di recupero del rifiuto stesso, caratterizzandosi, pertanto, essa come una forma, per quanto elementare, di gestione del rifiuto (della quale attività potrebbe dirsi che essa costituisce il "grado zero"), la relativa illiceità penale permea di sé l'intera condotta (quindi sia la fase prodromica che quella successiva), integrando, pertanto, una fattispecie penale di durata, la cui permanenza cessa soltanto con il compimento delle fasi ulteriori rispetto a quella di rilascio, tutto ciò con le derivanti conseguenza anche a livello di decorrenza del termine prescrizionale.
Laddove, invece, siffatta attività non costituisca l'antecedente di una successiva fase volta al compimento di ulteriori operazioni aventi ad oggetto appunto lo smaltimento od il recupero del rifiuto, ma racchiuda in se l'intero disvalore penale della condotta, non vi è ragione di ritenere che essa sia idonea ad integrare un reato permanente; ciò in quanto, essendosi il reato pienamente perfezionato ed esaurito in tutte le sue componenti oggettive e soggettive, risulterebbe del tutto irragionevole non considerarne oramai cristallizzati i profili dinamici fin dal momento dei rilascio del rifiuto, nessuna ulteriore attività residuando alla descritta condotta di abbandono.
Sicché, sarà compito del giudice del merito valutare, di volta in volta, se l'azione di abbandono e deposito del rifiuto si vada ad innestare in una più articolata fase di gestione dello stesso ovvero se debba, invece, intendersi definita e conclusa in tutti i suoi elementi e non più dotata di un ulteriore dinamismo criminoso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.05.2018 n. 18880  - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: CODICE DELL'AMBIENTE - RIFIUTI - ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Criteri per l'applicazione della disciplina delle acque e non quella dei rifiuti - Liquami provenienti da allevamento delle trote - Fattispecie: tracimazione dell'acqua al di fuori delle vasche di sedimentazione.
La disciplina delle acque e non quella dei rifiuti è applicabile in tutti i casi nei quali si è in presenza di uno scarico, anche soltanto periodico, discontinuo o occasionale, di acque reflue in uno dei corpi recettori specificati dalla legge ed effettuato tramite condotte o altro sistema stabile. In tutti gli altri casi nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore si applicherà, invece, la disciplina sui rifiuti (per tutte: Corte di cassazione, Sezione III penale, 21//04/2015, n. 16623, nonché, idem Sezione III penale, 20/04/2011 n. 15652).
Tali principi sono stati applicati anche alle ipotesi di raccolta di liquami zootecnici in vasche.
Nel caso di specie è emerso che i rifiuti derivanti dall'allevamento delle trote, già raccolti in vasche di sedimentazione -elemento questo che di per se esclude la possibilità di applicare ad essi la ordinaria disciplina degli scarichi idrici stante la presenza di tali elementi intermedi fra il momento di produzione dei reflui e quello di loro trasferimento verso il corpo recettore- si riversavano in maniera incontrollata nelle adiacenti acque fluviali a causa del fatto che dette vasche di sedimentazione in realtà erano utilizzate esse stesse per l'allevamento delle trote, di tal che esse venivano meno alla loro stessa funzione di vasche di decantazione stante il fatto che la presenza, ed il conseguente frenetico movimento, di diverse centinaia di pesci all'interno di esse impediva la sedimentazione dei rifiuti che, pertanto, tracimando l'acqua al di fuori delle vasche, si riversavano, frammisti a quella, nel terreno circostante sino agli adiacenti corsi d'acqua (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.05.2018 n. 18880  - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: AGRICOLTURA E ZOOTECNIA - Attività di troticoltura - Pratica della fertirrigazione - Deroga alla normativa in materia di trattamento dei rifiuti - Finalità agronomiche - Presupposti - Fattispecie: fenomeni di ruscellamento.
La deroga alla normativa in materia di trattamento dei rifiuti giustificata dal fatto che gli stessi erano utilizzati con finalità agronomiche attraverso la pratica della fertirrigazione.
Pertanto, sebbene ben vero che l'utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento comporta la deroga rispetto alla applicabilità della normativa in tema di rifiuti, anche nel caso in cui quelli siano dapprima stoccati in vasche e successivamente trasferiti sui luoghi di spandimento tramite cisterne mobili (C. di cass., Sez. III pen., 09/10/2008, n. 38411), tuttavia siffatta pratica, onde consentire alla predetta deroga di essere efficace, deve essere svolta secondo i principi della sua corretta applicazione; essa, pertanto, richiede, in primo luogo l'esistenza effettiva di colture in atto sulla aree interessate allo spandimento degli effluenti animali, l'adeguatezza, per qualità e per quantità, di questi ultimi al fini cui appaiono destinati, tenuto conto anche dei tempi e delle modalità di distribuzione in conformità con il tipo ed il fabbisogno delle colture in questione, nonché la assenza di fattori sintomatici di una utilizzazione dei liquami non compatibile con la corretta metodica della fertirrigazione (Corte di cassazione, Sez. 3^ penale, 12/10/2015, n. 40782).
Affinché la deroga sia pienamente efficace è, comunque, necessario che l'utilizzo agronomico abbia ad oggetto l'intera produzione di rifiuti e non una sola parte di essi, di tal che, in un caso singolarmente analogo al presente, è stata ritenuta non scriminata la condotta comportante sola una parziale destinazione degli effluenti di allevamento alla fertirrigazione, atteso che la parte di essi eccedente si riversava, esattamente come verificatosi nel caso che ora interessa, sul terreno circostante al luogo di produzione, con conseguenti fenomeni di ruscellamento (Corte di cassazione, Sezione III penale, 31/05/2011, n. 21785).
Nella specie, fattori tutti questi non ravvisabili, secondo quanto accertato dal giudice del merito nel caso ora in discorso, nel quale, invece, lo smaltimento dei reflui di allevamento avveniva, sia pure in forma con esclusiva, attraverso la loro tracimazione dalle vasche di decantazione verso i limitrofi corsi d'acqua (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.05.2018 n. 18880  - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Responsabilità omissiva per non avere impedito la verificazione di un evento - Posizione di garanzia - Fattispecie: funzionari del Servizio di Prevenzione dell'Ambiente istituito presso l'ARPA.
La responsabilità omissiva per non avere impedito la verificazione di un evento grava sul soggetto solo ed in quanto egli, investito di una cosiddetta posizione di garanzia, abbia l'obbligo giuridico di impedirlo (in relazione alla sussistenza della responsabilità penale ex art. 40 cod. pen. esclusivamente a carico di chi fosse investito dell'obbligo di impedire l'evento, cfr. ex multis: Corte di cassazione, Sezione III penale, 06/02/2017, n. 5439; idem Sezione III penale, 09/03/2011, n. 9281).
Logicamente prioritario, pertanto, alla affermazione della penale responsabilità del soggetto, ove la stessa sia fondata sull'omesso controllo in ordine ad un evento che si aveva l'obbligo di impedire, è l'accertamento in relazione alla esistenza ed alla rilevanza giuridica di tale obbligo.
Nella fattispecie per i funzionari non era precisata la disposizione organizzativa dell'Ufficio di loro appartenenza la quale avrebbe previsto la loro preposizione al servizio in questione, inoltre i reati erano comunque estinti per prescrizione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.05.2018 n. 18880  - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Lottizzazione mista - Stipulazione di atti negoziali e frazionamento dei terreni - Momento consumativo del reato - Art. 44, c. 2, dPR n. 380/2001.
La lottizzazione, in particolare nella sua forma mista, la quale si realizza attraverso la attività di materiale di frazionamento di una più vasta area e l'attribuzione realizzata tramite la stipulazione di puntuali atti negoziali, ai singoli quotisti delle frazioni di terreno sulle quali vengono, poi, realizzate le opere abusive (Cass., Sez. III pen., 07/02/2008, n. 6080), è reato che, sebbene possa dirsi già integrato con il solo frazionamento dei terreni, si caratterizza per essere, tuttavia, permanente in quanto suscettibile di perfezionarsi definitivamente solo con la cessazione della attività edificatoria, di tal che di esso, in caso di svolgimento di tale attività successivamente alla realizzazione degli atti negoziali di attribuzione dei singoli lotti di terreno, perdura la flagranza sino alla cessazione di dette attività all'interno di ciascuna delle singole frazioni di terreno così realizzate (Cass. Sez. III penale, 16/05/2015, n. 24985, ord.; idem Sez. III pen., 15/10/2013, n. 42361; idem Sez. III pe., 22/05/2007, n. 19732).
Lottizzazione abusiva - Confisca dei terreni e dei manufatti su di essi insistenti - Reato prescritto - Effetti - Estinzione del reato - Giurisprudenza.
In caso di lottizzazione abusiva, disporre la confisca dei terreni interessati da essa nonché dei manufatti su di essa insistenti -confisca altrimenti obbligatoria in ipotesi di accertamento, anche in via astratta, della penale responsabilità degli imputati- ove il reato in questione debba intendersi già prescritto al momento in cui è stata esercitata la azione penale; ciò in quanto la intervenuta prescrizione, comportando comunque la estinzione del reato e, pertanto, la irrilevanza penale del fatto storico commesso, si pone come fattore assolutamente preclusivo all'accertamento, anche sotto la più limitata prospettiva ora in discorso, della ricorrenza degli elementi oggettivi e soggettivi da cui dipende la esistenza del reato (Corte di cassazione, Sezione III penale, 16/02/2011, n. 5857; idem Sezione III penale, 24/07/2009, n. 30933; nel senso della illegittimità anche del sequestro preventivo dell'area lottizzata in una fattispecie del tipo di quella descritta, stante impossibilità della conversione di quello in confisca del bene staggito cfr.: Corte di cassazione, Sezione III penale, 23/08/2016, n. 35313).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Lottizzazione - Legge applicabile alle condotte integranti un reato permanente.
La legge applicabile alle condotte integranti un reato permanente non è quella vigente al momento dell'insorgere del reato ma è quella in vigore al momento della cessazione della permanenza, ancorché si possa trattare di normativa più rigorosa (Cassazione, Sez. 3^ penale, 29/10/2015, n. 43597, in fattispecie relativa alla violazione, per certi versi contermine a quella ora in esame, della normativa in tema di tutela del paesaggio e delle bellezze naturali; idem Sezione VI penale, 08/01/2016, n. 550; idem Sezi.I pen., 21/04/1993, n. 870) (Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 03.05.2018 n. 18878 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La natura di atto doveroso e vincolato nel contenuto dell'ingiunzione alla demolizione fa sì che la stessa non avrebbe dovuto essere preceduta da avviso di avvio del relativo procedimento, anche in considerazione della conseguenziale sua intangibilità ai sensi dell'art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241.
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1. Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento.
In via generale si evidenzia che la natura di atto doveroso e vincolato nel contenuto dell'ingiunzione alla demolizione fa sì che la stessa non avrebbe dovuto essere preceduta da avviso di avvio del relativo procedimento, anche in considerazione della conseguenziale sua intangibilità ai sensi dell'art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241 (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 2227 del 10.04.2009; sez. IV, n. 4659 del 26.09.2008; sez. V, n. 4530 del 19.09.2008).
Tuttavia, dagli atti risulta che il Comune, con nota prot. n. 7858 del 10.06.2008, ha assolto allo specifico adempimento a mezzo del servizio postale con conseguente invito a produrre eventuali “osservazioni controdeduttive correlate da opportuna documentazione”.
La censura, pertanto, è infondata
(Consiglio di Stato, Sez. I, parere 03.05.2018 n. 1188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia edilizia, affinché un manufatto presenti il carattere della pertinenza si richiede che abbia una propria individualità, che sia oggettivamente preordinato a soddisfare le esigenze di un edificio principale legittimamente edificato, che sia sfornito di autonomo valore di mercato, che abbia ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti.
E’ parimenti pacifico che il concetto di pertinenza in senso urbanistico è molto più restrittivo di quello previsto dal diritto civile e non può trovare applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali sotto il profilo privatistico, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.

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4. Con il quinto motivo si sostiene che il manufatto va qualificato come pertinenza conforme alla normativa urbanistica-edilizia vigente che, in quanto non supera il 20% della volumetria dell’immobile principale, non é “riconducibile agli interventi di nuova costruzione”.
Si premette che l’area di interesse, identificata al nuovo catasto terreni al figlio n. 5, particella, n. 1333 ricade in zona territoriale 2 del piano urbano del territorio compresa in zona “A” del vigente piano regolatore generale.
Secondo quanto precisato dalla suprema Corte, in materia edilizia, affinché un manufatto presenti il carattere della pertinenza si richiede che abbia una propria individualità, che sia oggettivamente preordinato a soddisfare le esigenze di un edificio principale legittimamente edificato, che sia sfornito di autonomo valore di mercato, che abbia ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti (cfr. Cass., Sez. III, sentenza n. 25669 del 30.05.2012 ).
E’ parimenti pacifico che il concetto di pertinenza in senso urbanistico è molto più restrittivo di quello previsto dal diritto civile e non può trovare applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali sotto il profilo privatistico, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ma anche a voler prescindere dal concetto di pertinenza, nel caso in esame l’art. 10, comma 1, lett. c), del d. P.R. 06.06.2001, n. 380 dispone che “costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire”; tra l’altro, gl’interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni; sicché il motivo di censura, con il quale si sostiene che il nuovo immobile è una pertinenza (di non si sa, precisamente, di quale altro), è irrilevante.
Tale parte della motivazione è ridondante, non risultando che sia stata presentata una domanda di sanatoria; e corrispondentemente il motivo di censura è superfluo
(Consiglio di Stato, Sez. I, parere 03.05.2018 n. 1188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale di gran lunga prevalente, ha precisato che:
   - “gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell'occupante l'immobile, applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell'irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell'ordine giuridico violato”;
   - “nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione di un abuso edilizio, la mera inerzia da parte dell'Amministrazione nell'esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo; allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata”.
Pertanto, allorché l'attuale proprietario dell'immobile affermi la propria estraneità rispetto alla realizzazione del manufatto difforme, l’accertamento di una eventuale diversità soggettiva fra il responsabile dell'abuso e l'attuale proprietario non imporrebbe alcuno specifico onere motivazionale né precluderebbe, per quanto qui interessa, l’adozione del provvedimento repressivo, stante il carattere reale della violazione e considerata la doverosità della correlata misura ripristinatoria.
Invero, “la sanzione c.d. in senso lato, nozione alla quale si riconducono tradizionalmente le misure ripristinatorie ed interdittive (ove non meramente accessorie alle sanzioni pecuniarie) gode un apparato di garanzie sostanziali, procedimentali e giurisdizionali, diversificato rispetto alla sanzione in senso stretto (disciplinata dalla legge n. 689 del 1981). Pur costituente una forma di reazione alla violazione di una norma, esse non hanno valenza afflittiva, bensì mirano alla soddisfazione diretta dell'interesse pubblico specificamente pregiudicato dalla violazione (attinente, nella specie, all'ordinato assetto del paesaggio). Gli ordini di demolizione, in particolare, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell'occupante l'immobile (l'estraneità agli abusi assumendo comunque rilievo sotto altri profili), applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell'irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell'ordine giuridico violato”.
Altresì, “l'ordinanza di demolizione in esame poteva [...] legittimamente essere emanata nei confronti degli attuali proprietari dell'immobile sui cui insiste l'opera abusiva, anche se non responsabili della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria”.
Alla luce delle considerazioni anzidette e dei richiamati indirizzi giurisprudenziali, si deve quindi rilevare che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione non risente in alcun modo della condizione soggettiva dell’avente causa dell’asserito responsabile dell’abuso (sempreché sussista una effettiva divergenza tra i due soggetti), nemmeno nel caso in cui possa essere ravvisata una situazione di affidamento incolpevole, corroborata dalla perdurante inerzia dell’Amministrazione.
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3.2 Nondimeno il ricorso deve essere respinto.
La ricorrente sostiene di trovarsi in una situazione di affidamento incolpevole in merito alla conformità urbanistica delle opere, tutte realizzate a suo dire in epoca precedente all’acquisto della proprietà, e rappresenta che tale affidamento sarebbe ulteriormente suffragato dall’inerzia del Comune, il quale, per lungo tempo, non avrebbe attivato i propri poteri repressivi, pur essendo consapevole dell’esistenza degli abusi.
Richiama, inoltre, a conforto della propria tesi, taluni arresti giurisprudenziali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 1016 del 2014), secondo i quali, specie dopo il decorso di un significativo periodo di tempo dalla realizzazione dell’abuso, l’assenza di dolo o colpa in capo al destinatario del provvedimento repressivo precluderebbe l’irrogazione della sanzione demolitoria.
Tale impostazione deve essere tuttavia disattesa alla stregua di quanto statuito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la quale, con sentenza n. 9 del 2017, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale di gran lunga prevalente, ha precisato che:
   - “gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell'occupante l'immobile, applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell'irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell'ordine giuridico violato”;
   - “nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione di un abuso edilizio, la mera inerzia da parte dell'Amministrazione nell'esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo; allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata”.
Pertanto, allorché l'attuale proprietario dell'immobile affermi, come nel caso in esame, la propria estraneità rispetto alla realizzazione del manufatto difforme, l’accertamento di una eventuale diversità soggettiva fra il responsabile dell'abuso e l'attuale proprietario non imporrebbe alcuno specifico onere motivazionale né precluderebbe, per quanto qui interessa, l’adozione del provvedimento repressivo, stante il carattere reale della violazione e considerata la doverosità della correlata misura ripristinatoria.
Si veda, in tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, n. 3694 del 2017, secondo cui “la sanzione c.d. in senso lato, nozione alla quale si riconducono tradizionalmente le misure ripristinatorie ed interdittive (ove non meramente accessorie alle sanzioni pecuniarie) gode un apparato di garanzie sostanziali, procedimentali e giurisdizionali, diversificato rispetto alla sanzione in senso stretto (disciplinata dalla legge n. 689 del 1981). Pur costituente una forma di reazione alla violazione di una norma, esse non hanno valenza afflittiva, bensì mirano alla soddisfazione diretta dell'interesse pubblico specificamente pregiudicato dalla violazione (attinente, nella specie, all'ordinato assetto del paesaggio). Gli ordini di demolizione, in particolare, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell'occupante l'immobile (l'estraneità agli abusi assumendo comunque rilievo sotto altri profili), applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell'irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell'ordine giuridico violato”.
Prosegue inoltre: “l'ordinanza di demolizione in esame poteva [...] legittimamente essere emanata nei confronti degli attuali proprietari dell'immobile sui cui insiste l'opera abusiva, anche se non responsabili della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria”.
Alla luce delle considerazioni anzidette e dei richiamati indirizzi giurisprudenziali, si deve quindi rilevare che, come correttamente sottolineato dalla difesa del Comune (da ultimo nella memoria di replica del 21.03.2018), il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione non risente in alcun modo della condizione soggettiva dell’avente causa dell’asserito responsabile dell’abuso (sempreché sussista una effettiva divergenza tra i due soggetti), nemmeno nel caso in cui possa essere ravvisata una situazione di affidamento incolpevole, corroborata dalla perdurante inerzia dell’Amministrazione.
Ne consegue l’infondatezza dell’unico motivo di impugnazione, dovendosi da ultimo concludere che l’ordinanza di demolizione, in quanto misura ripristinatoria reale, a carattere rigidamente vincolato, scevra da valutazioni di opportunità, va irrogata indipendentemente dagli stati soggettivi riferibili al titolare delle opere contestate e, in ogni caso, dall’accertamento di un eventuale apporto alla loro realizzazione.
Il ricorso deve essere quindi rigettato (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 03.05.2018 n. 138 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mancata indicazione dell’area da acquisire in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.
Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione, da adottare a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una particolare motivazione né con riguardo all’interesse pubblico sotteso a tale determinazione e all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso.
Del resto, laddove sia accertato un abuso edilizio, deve essere motivato il ricorso alla sanzione alternativa pecuniaria e non anche l’adozione dell’ordine ripristinatorio, ex art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, che nella fattispecie de qua è stato espressamente richiamato.
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Non può determinare l’annullamento dell’ordine di demolizione la mancata indicazione dell’area da acquisire in caso di inottemperanza allo stesso ordine.
L’indicazione dell’area costituisce presupposto accertativo ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria rispetto a quella di natura ripristinatoria.
Persiste, infatti, la netta distinzione tra ordinanza di demolizione e atto di acquisizione, preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire
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1. Il ricorso è infondato.
2. Con l’unica censura di ricorso si assume l’illegittimità dell’ordinanza impugnata, in quanto non sarebbero state indicate, se non genericamente, le norme asseritamente violate dai ricorrenti e la tipologia di abuso commesso, oltre alla mancata indicazione dell’area che verrebbe acquisita di diritto al Comune e all’omessa attivazione del procedimento previsto dal Regolamento edilizio con riguardo alle opere soggette a vincolo paesaggistico.
2.1. La doglianza è infondata.
L’ordinanza di demolizione è stata motivata con l’avvenuto accertamento della realizzazione, in assenza di un permesso di costruire e di autorizzazione paesistica, di un manufatto consistente in una struttura baraccale avente superficie pari a 46,00 mq; il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione, da adottare a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una particolare motivazione né con riguardo all’interesse pubblico sotteso a tale determinazione e all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2018, n. 267).
Del resto, laddove sia accertato un abuso edilizio, deve essere motivato il ricorso alla sanzione alternativa pecuniaria e non anche l’adozione dell’ordine ripristinatorio, ex art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001, che nella fattispecie de qua è stato espressamente richiamato (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9; TAR Lombardia, Milano, II, 25.05.2017, n. 1170; TAR Sicilia, Palermo, II, 10.01.2017, n. 71; TAR Campania, Napoli, VIII, 04.09.2015, n. 4289).
Nemmeno appare sussistente la dedotta violazione dell’art. 38 del Regolamento edilizio, discendente dal mancato coinvolgimento delle competenti commissioni comunali in materia di paesaggio, atteso che il predetto procedimento si riferisce soltanto alla fase successiva alla mancata esecuzione del provvedimento sanzionatorio da parte dell’obbligato e non anche alla fase preliminare all’adozione dello stesso, come emerge dai commi quarto e seguenti della citata disposizione (cfr. all. 2 al ricorso).
2.2. Infine, non può determinare l’annullamento dell’ordine di demolizione la mancata indicazione dell’area da acquisire in caso di inottemperanza allo stesso ordine, in quanto, come sostenuto da un consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, “l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione. Mentre con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina, appunto, la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, l’indicazione dell’area costituisce presupposto accertativo ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria. Persiste infatti la netta distinzione tra ordinanza di demolizione e atto di acquisizione, preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire. Quindi, l’individuazione dell’area da acquisirsi non deve essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all’acquisizione del bene” (Consiglio di Stato, VI, 05.01.2015, n. 13; altresì, TAR Lombardia, Milano, II, 18.07.2017, n. 1644).
3. Ciò determina il rigetto della censura e quindi dell’intero ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.05.2018 n. 1190 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Qualificazione giuridica dell’intervento e rispetto delle norme sulle distanze.
La disposizione dell’articolo 9, n. 2, del D.M. n. 1444 del 1968 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi) costruiti per la prima volta e non gli edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Secondo il Consiglio di Stato, a sostegno di tale affermazione va considerato che:
   - la disposizione di cui all’articolo 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942 impone il rispetto dei c.d. “standard urbanistici” ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, così significandosi che essi sono previsti dalla norma primaria per la nuova pianificazione urbanistica e non per intervenire sull’esistente;
   - il discrimen in tema di distanze (con l’introduzione del limite inderogabile di 10 mt.), nella ratio dell’articolo 9, non è dato dalla differenza tra zona A e altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente; d’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto dalla ricostruzione di un altro preesistente, si otterrebbe che, da un lato, l’immobile de quo non potrebbe essere demolito e ricostruito se non arretrando rispetto all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio effetto espropriativo del d.m. n. 1444/1968) e, dall’altro, che esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all’ultimo comma del citato articolo 9, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio planovolumetrico
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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Va, infine, considerato che la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. sez. IV, 14.09.2017, n. 4337) ha avuto modo di affermare che la disposizione dell’articolo 9 n. 2 del D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi) “costruiti per la prima volta” e non gli edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
A sostegno di tale affermazione viene, in primo luogo, richiamata la disposizione di cui all’articolo 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, che impone il rispetto dei cd. “standards urbanistici” “ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti”, così significandosi che essi sono previsti dalla norma primaria per la nuova pianificazione urbanistica e non per intervenire sull’esistente.
Viene, poi, evidenziato che il discrimen in tema di distanze (con l’introduzione del limite inderogabile di 10 mt.), nella ratio dell’articolo 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente; rilevandosi che, d’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto dalla ricostruzione di un altro preesistente, si otterrebbe che, da un lato, l’immobile de quo non potrebbe essere demolito e ricostruito se non arretrando rispetto all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio effetto espropriativo del d.m. 1444/1968) e, dall’altro, che esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all’ultimo comma del citato articolo 9, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio planivolumetrico (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.04.2018 n. 2448 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza:
   a) in base all'art. 11, comma primo, del t.u. edilizia, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere il rilascio di un titolo abilitativo edilizio si configura in capo non solo al proprietario del terreno, ma pure al soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo autorizzi a disporne al riguardo;
   b) v'è il contestuale onere della P.A. di accertare con serietà e rigore siffatta legittimazione a chiedere il titolo edilizio, dovendo pertanto la P.A. accertare che l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria;
   c) al riguardo, non si sono mai posti dubbi in ordine ai limiti legali, i quali, trovando applicazione generalizzata, concorrono a formare lo statuto generale dell'attività edilizia e non pongono problemi di conoscibilità all'amministrazione che è tenuta a considerarli sempre;
   d) diversamente, per le limitazioni negoziali del diritto di costruire, la giurisprudenza in passato ha oscillato fra la soluzione che ne esclude ogni rilevanza, nel presupposto che all'amministrazione sia inibito qualsiasi sindacato anche indiretto sulla validità ed efficacia dei rapporti giuridici dei privati, e quella opposta che, invece, ammette che il Comune verifichi il rispetto dei limiti privatistici, purché siano immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una semplice presa d'atto;
   e) la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, superando l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel senso che l'amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili.
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11.1. I motivi sono fondati.
11.2. L’assenza nel caso di specie di opere di urbanizzazione primaria, individuate nel dettaglio nella viabilità di accesso alle abitazioni, è stata affermata con la sentenza della Corte d’Appello di Torino n. 1270/16, con la quale è stato accertato che non sussiste il titolo per la costituzione di servitù a carico del Condominio Hermite ed in favore dei contro interessati per effettuare detto accesso.
Peraltro, nella medesima pronuncia, è stata anche statuita l’inesistenza dell’asserita servitù agricola di passo che i contro interessati allegavano di avere usucapito (da essi stessi indicata nell’istanza del permesso di costruire dell’08.04.2010 e nella integrazione del 13.04.2010) e su cui il Comune ha fondato il rilascio del titolo edilizio impugnato.
Il Collegio condivide e fa propri, anche in considerazione della assenza di allegazioni e deduzioni di segno contrario, gli accertamenti effettuati dalla menzionata sentenza e le argomentazioni spese a sostegno del relativo dictum.
11.2.1. In ogni caso, sul punto, si rinvia ai consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 19.12.2016, n. 5363; id., sez. IV, 23.05.2016, n. 2116; id., sez. IV, 07.09.2016, n. 3823; id., sez. IV, 25.09.2014, n. 4818; id., sez. V, 08.11.2011, n. 5894, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), secondo cui:
   a) premesso che, in base all'art. 11, comma primo, del t.u. edilizia, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere il rilascio di un titolo abilitativo edilizio si configura in capo non solo al proprietario del terreno, ma pure al soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo autorizzi a disporne al riguardo (cfr. Cons. St., sez. VI, 15.07.2010, n. 4557; id., sez. IV, 02.09.2011, n. 4968);
   b) v'è il contestuale onere della P.A. di accertare con serietà e rigore siffatta legittimazione a chiedere il titolo edilizio (arg. ex Cons. Stato, sez. IV, 07.09.2016, n. 3823), dovendo pertanto la P.A. accertare che l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (cfr. Cons. Stato, sez. V, 04.04.2012, n. 1990);
   c) al riguardo, non si sono mai posti dubbi in ordine ai limiti legali, i quali, trovando applicazione generalizzata, concorrono a formare lo statuto generale dell'attività edilizia e non pongono problemi di conoscibilità all'amministrazione che è tenuta a considerarli sempre;
   d) diversamente, per le limitazioni negoziali del diritto di costruire, la giurisprudenza in passato ha oscillato fra la soluzione che ne esclude ogni rilevanza, nel presupposto che all'amministrazione sia inibito qualsiasi sindacato anche indiretto sulla validità ed efficacia dei rapporti giuridici dei privati (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.12.1993, n. 1341), e quella opposta che, invece, ammette che il Comune verifichi il rispetto dei limiti privatistici, purché siano immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una semplice presa d'atto (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2007, n. 1206);
   e) la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, superando l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel senso che l'amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili.
11.2.2. Facendo applicazione dei su menzionati principi al caso di specie, è evidente che il Comune ha omesso anche il minimo controllo sulla legittimazione dei richiedenti la concessione edilizia a disporre, in virtù di un titolo (legale, giudiziale ovvero negoziale), dell’accesso alle nuove abitazioni, specie a fronte della opposizione all’intervento costruttivo manifestata in sede procedimentale dai ricorrenti.
Invero, il condominio, successivamente alla presentazione da parte degli istanti della relazione intitolata “accertamento passaggio ai mappali 2163 e 484”, depositava presso il Comune, in data 23 aprile 2010, osservazioni con cui, da un lato, veniva smentita la possibilità per i contro interessati di affermare la sussistenza di un qualunque titolo legittimante il passaggio sulla proprietà condominiale, e dall’altro, si chiedeva espressamente il rigetto della istanza per plurimi motivi di difformità del progetto rispetto alle normative vigenti.
Ciò nonostante il Comune, senza effettuare ulteriori approfondimenti istruttori, rilasciava la concessione edilizia per la costruzione delle tre villette, in accoglimento della richiesta dei contro interessati.
11.3. A tanto consegue la fondatezza dei motivi di ricorso e, per l’effetto, l’illegittimità del titolo edilizio, essendo questo stato adottato in violazione dell’art. 12 del regolamento edilizio del Comune di La Thuile, che subordina il rilascio delle concessioni edilizie all’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria, tra cui le “strade residenziali veicolari” previste dagli artt. 18 e 22 R.E. e dall’art. 3.1.4., lett. b), delle n.t.a. del p.r.g..
Nella specie risulta, infatti, del tutto assente una strada di accesso ai terreni di proprietà dei signori Ra., Ba. Ce. e Ce., non potendo gli stessi vantare alcun titolo sull’area di passaggio esistente, che consenta loro di averne la disponibilità. È invero del tutto pacifico che i medesimi non sono titolari dell’area in questione e, a seguito delle statuizioni risultanti dal giudizio civile (a quanto pare ancora in corso), che non godono di alcun diritto di servitù prediale su di essa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.04.2018 n. 2397 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Costituisce ius receptum che:
   a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il p.r.g. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo;
   b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione);
   c) l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
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13. Con il sesto motivo di ricorso si censura l’illegittimità del titolo edilizio, a causa della mancanza, nel caso di specie, di un piano urbanistico di dettaglio (c.d. p.u.d.), la cui adozione sarebbe obbligatoria in ragione delle previsioni di cui all’art. 2.3.0., all’art. 3.1.4., lett. b), punto 1 ed all’art. 6.2.0. delle n.t.a. del p.r.g..
13.1. Il motivo è fondato.
13.2. Occorre in primo luogo delineare il contesto dei principi e delle norme all’interno del quale il comune si è trovato ad operare.
Costituisce ius receptum (cfr., ex plurimis e da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 08.02.2018, n. 825; sez. IV, 13.04.2016, n. 1434; sez. IV, 04.07.2017, n. 3256; sez. IV, 17.07.2013, n. 3880; sez. IV, 21.08.2013, n. 4200; sez. V, 29.02.2012, n. 1177) che:
   a) in linea di principio, sono eccezionali e di stretta interpretazione i casi in cui il p.r.g. (o lo strumento urbanistico equivalente) consenta il rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo;
   b) pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell'ipotesi in cui per effetto di una edificazione disomogenea ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l'urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standards minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l'armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all'edificazione);
   c) l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata.
13.3. Ciò premesso, facendo applicazione dei su esposti principi al caso di specie, il Collegio rileva l’assenza di un piano urbanistico di dettaglio (c.d. p.u.d.), emergendo pertanto che il Comune, in maniera illegittima, provvedeva al rilascio del permesso di costruire diretto, senza previa approvazione dello strumento attuativo.
14. Risulta infine infondata l’ultima censura del ricorso, non ravvisandosi nel caso di specie i presupposti per integrare la dedotta violazione dell’art. 10-bis, l. n. 241/1990.
Invero, come condivisibilmente sostenuto dal Tar, le osservazioni, asseritamente non considerate dall’amministrazione comunale, venivano rese dai ricorrenti, intervenuti come controinteressati nel procedimento di rilascio del titolo, con finalità meramente collaborativa, pertanto al di fuori del campo di applicazione dell’art. 10-bis, l. n. 241/1990.
D’altro canto, non è dato rilevarsi nel caso di specie, non emergendo alcun elemento confortante al riguardo, una omessa valutazione di tali memorie da parte dell’amministrazione ai fini dell’adozione del provvedimento conclusivo, in violazione dell’art. 10 l. 241/1990.
15. Alla luce delle sopra esposte considerazioni, l’appello è meritevole di accoglimento nei limiti di quanto affermato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.04.2018 n. 2397 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Conferenza di servizi e tutela del paesaggio - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Meccanismo previsto dal c. 3 dell'art. 14-quater L. n. 241/1990 e ss.mm. - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Interventi eseguiti in base a permesso annullato - Art. 38 d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In caso di dissenso espresso da un'amministrazione preposta alla tutela di un interesse sensibile, nel novero dei quali si colloca quello paesaggistico, il meccanismo previsto dal 3° comma dell'art. 14-quater della L. n. 241/1990 impedisce alla conferenza di servizi di procedere ulteriormente e rende doverosa, ove l'amministrazione procedente intenda perseguire il superamento del dissenso, la rimessione della decisione al Consiglio dei ministri.
Sicché, la legge in attuazione dei principi costituzionali compendiati nell'art. 120 Cost. (che prevede, tra l'altro, l'intervento sostitutivo del Governo "quando lo richiedono la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica" della Repubblica), al cospetto del presupposto rappresentato dal "motivato dissenso" di un'amministrazione preposta alla tutela degli interessi sensibili enumerati, attribuisce il potere provvedimentale alla istanza amministrativa massima della Repubblica nella sua unità, e cioè al Consiglio dei ministri (Corte di Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 16.04.2018 n. 9338 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione della istanza di condono comporta l'obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi espressamente sulla stessa prima di dare ulteriore corso al procedimento repressivo, tant'è che, a norma degli artt. 38 e 44, l. n. 47 del 1985, si verifica la sospensione dei procedimenti amministrativi sanzionatori, con la conseguenza che “i provvedimenti repressivi adottati in pendenza di istanza di condono sono illegittimi perché in contrasto con l'art. 38, l. n. 47 del 1985, il cui disposto impone all'Amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria”.
La presentazione di una domanda di condono edilizio, proprio in base al disposto dell'art. 38, l. n. 47 del 1985, determina la conseguenza che l'Amministrazione non può emettere un provvedimento sanzionatorio “senza aver prima definito il procedimento scaturante dall'istanza di sanatoria, ostandovi i principi di lealtà, coerenza, efficienza ed economicità dell'azione amministrativa, i quali impongono la previa definizione del procedimento di condono prima di assumere iniziative potenzialmente pregiudizievoli per lo stesso esito della sanatoria edilizia".
Il principio esposto trova applicazione anche quando, come nel caso di specie, gli immobili per i quali è chiesto il condono ricadano in zona vincolata, essendo comunque l'Amministrazione tenuta, a fronte della domanda, ad esprimersi anche in senso negativo circa la sussistenza dei presupposti per la sanabilità dell'intervento e ad essa il giudice non può in ogni caso sostituirsi, nemmeno per una valutazione in via incidentale della eventuale condonabilità delle opere di cui si tratta.
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Il ricorso è fondato e, pertanto, deve essere accolto.
A seguito della disposta istruttoria è emerso che il Comune non è in grado di stabilire l’esatto contenuto delle domande di condono presentate: 1) in data 01.03.1995 al prot. 5924 dal suocero della ricorrente Gi.Ca. ai sensi della legge n. 724/1994; 2) in data 31.03.2004 al prot. n. 8062 e n. 8063 e in data 10.12.2004 al prot. n. 28546 dal coniuge deceduto della ricorrente ai sensi della legge n. 326/2003.
In particolare, secondo quanto riferisce il Comune la carente documentazione allegata alle domande non consentirebbe “una esatta individuazione delle opere oggetto delle stesse”. Per tale ragione con la nota del 21.07.2017 l’amministrazione ha assegnato alla ricorrente un termine di 90 gg. per integrare le domande.
Come esposto in fatto la Sezione nel prendere atto di quanto comunicato all’esito della disposta istruttoria, ha sollecitato il Comune a definire con sollecitudine le domande di condono con provvedimento di accoglimento o (ad es. se incomplete) di rigetto.
Non avendo allo stato ancora provveduto ad esitare le domande di condono deve ritenersi fondata e assorbente la censura con cui la ricorrente lamenta che le opere contestate sono quasi tutte ricomprese nelle domande di condono presentate nel 1995 e nel 2004 e che, pertanto, non risultando queste ancora definite, l’Ente intimato non poteva dare luogo a misure sanzionatorie.
Infatti, la presentazione della istanza di condono comporta l'obbligo, nella specie non assolto, per l'Amministrazione di pronunciarsi espressamente sulla stessa prima di dare ulteriore corso al procedimento repressivo, tant'è che, a norma degli artt. 38 e 44, l. n. 47 del 1985, si verifica la sospensione dei procedimenti amministrativi sanzionatori, con la conseguenza che “i provvedimenti repressivi adottati in pendenza di istanza di condono sono illegittimi perché in contrasto con l'art. 38, l. n. 47 del 1985, il cui disposto impone all'Amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria” (ex multis, TAR Campania–Napoli, Sez. VI, 02.05.2012, n. 2005, 22.02.2013, n. 1038).
La presentazione di una domanda di condono edilizio, proprio in base al disposto dell'art. 38, l. n. 47 del 1985, determina la conseguenza che l'Amministrazione non può emettere un provvedimento sanzionatorio “senza aver prima definito il procedimento scaturante dall'istanza di sanatoria, ostandovi i principi di lealtà, coerenza, efficienza ed economicità dell'azione amministrativa, i quali impongono la previa definizione del procedimento di condono prima di assumere iniziative potenzialmente pregiudizievoli per lo stesso esito della sanatoria edilizia" (TAR Lazio-Roma sez. I, 04.04.2012 n. 3101).
Il principio esposto trova applicazione anche quando, come nel caso di specie, gli immobili per i quali è chiesto il condono ricadano in zona vincolata, essendo comunque l'Amministrazione tenuta, a fronte della domanda, ad esprimersi anche in senso negativo circa la sussistenza dei presupposti per la sanabilità dell'intervento (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 01.02.2011, n. 633) e ad essa il giudice non può in ogni caso sostituirsi, nemmeno per una valutazione in via incidentale della eventuale condonabilità delle opere di cui si tratta (Consiglio Stato sez. IV, 04.11.2005, n. 5273; sez. IV, 03.05.2005, n. 2137).
Ciò chiarito, occorre quindi rilevare che in esito al disposto incombente istruttorio al fine di eliminare, in fatto, oggi dubbio sulla riconducibilità delle opere di cui all’ordinanza di demolizione alle domande di condono pendenti, il Comune di Forio afferma di non essere in grado di stabilirne l’esatto contenuto.
In particolare, dalla nota del Comune risulta chiaro che le opere di cui al condono e quelle di cui all’ordinanza di demolizione sono in parte coincidenti (e non vi sono sufficienti elementi per stabilire cosa non vi rientra) e che le domande di condono presentate non sono state, del tutto inspiegabilmente, ancora esitate (eventualmente con provvedimento di rigetto, ove incomplete), risultando non concluso con provvedimento espresso il relativo procedimento, dovendosi, quindi ribadire, l’assunto innanzi esposto in ordine alla fondatezza del ricorso siccome rivolto avverso ordinanza di demolizione che, risulta, per le viste ragioni, illegittima.
La fondatezza della scrutinata censura relativa alla perdurante e non più tollerabile pendenza dei procedimenti di condono, ancora non formalmente definiti dal Comune, impone, quindi, di accogliere il ricorso prescindendo dalla disamina degli ulteriori motivi che, pertanto, possono dichiararsi assorbiti.
Per l’effetto, il provvedimento impugnato va annullato, fatti salvi gli ulteriori e doverosi provvedimenti che l’Amministrazione è chiamata sollecitamente ad assumere e, in particolare, quelli relativi alla definizione delle istanze di condono e, ove all’esito dovuti, i conseguenti atti sanzionatori (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 13.04.2018 n. 2456 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vincolo paesaggistico del regolamento edilizio comunale: i diritti del proprietario danneggiato dal vicino.
Cassazione: il proprietario può convenire il vicino davanti al giudice ordinario per il risarcimento e, se si tratta d'inosservanza di norma sulle distanze tra costruzioni, anche per il ripristino.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con l'ordinanza 06.04.2018 n. 8532, ha precisato che “a differenza dei vincoli imposti con singoli provvedimenti discrezionali dalla pubblica amministrazione a tutela delle bellezze naturali ai sensi della legge n 1497 del 1939 (alla cui osservanza non possono configurarsi posizioni soggettive azionabili davanti al giudice ordinario), i vincoli imposti dai regolamenti edilizi comunali a tutela del paesaggio, stante la natura normativa dei regolamenti stessi ed alla duplice direzione della loro tutela (dell'interesse pubblico e di interessi privati), possono ingenerare diritti soggettivi a favore del proprietario del bene avvantaggiato dalla imposizione del vincolo”.
Pertanto, esso proprietario può, "se danneggiato dalla violazione del vincolo da parte del vicino", convenire quest'ultimo davanti al giudice ordinario per il risarcimento e, se trattisi d'inosservanza di norma sulle distanze tra costruzioni (norma, come tale, integrativa del codice civile), anche per il ripristino (Sez. 2, Sentenza n. 3704 del 05/11/1975) (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell'art. 115 c.p.c., in relazione all'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per non aver la corte di merito considerato che in nessun atto del giudizio era stata contestata la circostanza che la costruzione realizzata dal Fa. fosse ubicata in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
2.1. Il motivo è inammissibile.
In primo luogo, occorre qui richiamare, al fine di porre in rilievo la irrilevanza della censura, quanto già evidenziato nel § 1.1.
Va aggiunto che,
a differenza dei vincoli imposti con singoli provvedimenti discrezionali dalla pubblica amministrazione a tutela delle bellezze naturali ai sensi della legge n 1497 del 1939 (alla cui osservanza non possono configurarsi posizioni soggettive azionabili davanti al giudice ordinario), i vincoli imposti dai regolamenti edilizi comunali a tutela del paesaggio, stante la natura normativa dei regolamenti stessi ed alla duplice direzione della loro tutela (dell'interesse pubblico e di interessi privati), possono ingenerare diritti soggettivi a favore del proprietario del bene avvantaggiato dalla imposizione del vincolo. Esso proprietario può, pertanto, "se danneggiato dalla violazione del vincolo da parte del vicino", convenire quest'ultimo davanti al giudice ordinario per il risarcimento e, se trattisi d'inosservanza di norma sulle distanze tra costruzioni (norma, come tale, integrativa del codice civile), anche per il ripristino (Sez. 2, Sentenza n. 3704 del 05/11/1975).
In secondo luogo, la violazione dell'art. 115 c.p.c. può essere ipotizzata come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice abbia deciso la causa sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, (Cass. Sez. 3, 10/06/2016, n. 11892).
Viceversa, in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione dell'art. 115 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all'art. 360, primo comma, numero 5), c.p.c., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006; conf. Sez. 2, Sentenza n. 24434 del 30/11/2016).
D'altra parte, le NTA del PRG contenenti un divieto assoluto di costruzione, integrando il codice civile, devono, per il principio iura novit curia, essere conosciute dal giudice d'ufficio.
In terzo luogo, in violazione del principio di autosufficienza, il ricorrente ha omesso di trascrivere, almeno nei loro passaggi salienti, sia l'atto di citazione introduttivo del giudizio, nel quale, a suo dire, egli avrebbe espressamente dedotto l'avvenuta violazione, da parte del convenuto, del vincolo paesaggistico ex l. 1497/1939, sia, soprattutto, la comparsa di costituzione di controparte, dalla quale si sarebbe dovuto desumere la mancata contestazione dell'esistenza del detto vincolo.
Senza tralasciare che l'art. 13, lett. a), delle NTA del PRG del Comune di Comacchio non prevedeva (e non prevede tuttora), nella formulazione applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame (prima delle modifiche introdotte con delibera del CC n. 13 del 26.03.2015), un divieto assoluto di edificabilità nelle zone sottoposte a vincolo paesaggistico, limitandosi a definire gli interventi urbanistici come quegli interventi che comportano cambiamenti dello stato di diritto dei suoli, con eventuali modifiche agli usi alle funzioni e allo stato fisico degli immobili, comprendendo negli stessi quelli di Nuova Urbanizzazione e quelli di Ristrutturazione Urbanistica.

INCARICHI PROGETTUALI: Prestazione senza iscrizione all'Albo: corrispettivo inesigibile per nullità assoluta del contratto. Cassazione: il professionista non iscritto all'albo non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione.
L'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge dà luogo, ai sensi degli artt. 1418 e 2231 cod. civ., a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, con la conseguenza che il professionista non iscritto all'albo non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione, sempreché la prestazione espletata dal professionista rientri in quelle attività che sono riservate in via esclusiva a una determinata categoria professionale, essendo l'esercizio della professione subordinato per legge all'iscrizione in apposito albo o ad abilitazione.
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Considerato che:
   - con il primo motivo il ricorrente denunzia violazione degli artt. 16 e 17 del r.d. 11.02.1929, n. 274 e dell'art. 2231 cod. civ.; assume che nel ritenere che l'attività da lui svolta fosse riservata ai geometri iscritti all'albo la corte d'appello avrebbe ignorato l'ormai consolidato indirizzo della giurisprudenza costituzionale e di legittimità secondo cui, in assenza di un'esplicita riserva in favore dei soggetti iscritti agli albi, per tutte le altre attività vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo, ed osserva che le prestazioni effettuate nella specie ben potevano essere svolte da un diplomato disegnatore, poiché il successivo art. 17 del richiamato r.d. prevedeva che le attività elencate ai fini della delimitazione della professione di geometra non pregiudicassero quanto può formare oggetto dell'attività di altre professioni, come del resto confermato in giudizio dal presidente del collegio dei geometri di Cremona, sentito come teste;
   - con il secondo motivo il ricorrente denunzia violazione degli artt. 1418 e 2231 cod. civ.; lamenta che erroneamente la corte avrebbe ritenuto valido il contratto, escludendo il suo diritto a ritenere l'importo già versato solo per mancata proposizione della relativa domanda, e ciò in quanto "tale statuizione ove non impugnata esporrebbe il difensore a responsabilità professionale per non aver censurato la sentenza di primo grado sullo specifico punto";
   - il ricorso è infondato, essendo conforme a diritto il dispositivo della sentenza impugnata, quantunque da emendare nella motivazione;
   - questa Corte ha infatti più volte affermato il principio secondo cui l'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge dà luogo, ai sensi degli artt. 1418 e 2231 cod. civ., a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, con la conseguenza che il professionista non iscritto all'albo non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione, sempreché la prestazione espletata dal professionista rientri in quelle attività che sono riservate in via esclusiva a una determinata categoria professionale, essendo l'esercizio della professione subordinato per legge all'iscrizione in apposito albo o ad abilitazione (v. Cass. n. 6402 del 2011; Cass. n. 14085 del 2010; Cass. n. 8543 del 2009);
   - così corretta nella motivazione, e dunque ricondotta l'inesigibilità del corrispettivo alla nullità assoluta del contratto, la sentenza impugnata ha per il resto fatto buon governo degli stessi principi richiamati dal ricorrente laddove ha ritenuto sussistente, nella specie, un'attività riservata in via esclusiva alla categoria professionale dei geometri;
   - il richiamato art. 16 del r.d. 11.02.1927 n. 274, infatti, circoscrive espressamente "l'oggetto ed i limiti dell'esercizio professionale di geometra", nel cui ambito vanno fatti rientrare i rilievi topografici commissionati al Ba.; il successivo art. 17 ha poi la funzione di consentire lo svolgimento di tali attività anche ad altre categorie professionali -tant'è che esso viene integrato dal richiamo a quanto disposto dagli artt. 18-24, che precisano i termini in cui alcune delle attività di pertinenza dei geometri vanno ritenute comuni ad ingegneri civili, architetti, periti agrari e dottori in scienze agrarie- ma non di consentire che tali attività vengano indistintamente svolte da altri imprecisati esperti del settore;
   - ritenuto pertanto il ricorso meritevole di rigetto, con conforme statuizione sulle spese; ritenuta altresì la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 04.04.2018 n. 8234).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso in cui il condono edilizio sia stata ottenuto dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla P.A. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa.
Quando, infatti, il privato istante ha ottenuto il permesso di costruire inducendo in errore l'Amministrazione attraverso una falsa rappresentazione della realtà, la discrezionalità della P.A. in subiecta materia si azzera vanificando sia l'interesse del destinatario del provvedimento ampliativo da annullare, sia il tempo trascorso.
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Per quanto riguarda l’assenza di una motivazione pubblica prevalente per l’esercizio del potere di autotutela, il Collegio rileva come il provvedimento gravato afferma, seppure in termini generici, l’esistenza di un interesse pubblico all’annullamento ma soprattutto evidenzia come il rilascio del permesso di costruire sia stato reso possibile dalle dichiarazioni non veritiere del privato rispetto alla data di ultimazione delle opere, con conseguente insussistenza di qualsiasi legittimo affidamento.
Al riguardo, il Collegio evidenzia come, secondo giurisprudenza, nel caso in cui il condono edilizio sia stata ottenuto dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla P.A. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa. Quando, infatti, il privato istante ha ottenuto il permesso di costruire inducendo in errore l'Amministrazione attraverso una falsa rappresentazione della realtà, la discrezionalità della P.A. in subiecta materia si azzera vanificando sia l'interesse del destinatario del provvedimento ampliativo da annullare, sia il tempo trascorso (Cons. Stato Sez. IV, 14.12.2016, n. 5262; Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2013, n. 39; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 04.04.2006, n. 1831).
Per completezza il Collegio rileva come neanche poteva operare in senso ostativo il requisito del termine ragionevole entro il quale la P.A. deve esercitare il diritto di autotutela, non essendo trascorsi nemmeno due anni dal rilascio del titolo e non operando, ratione temporis, il termine massimo di diciotto mesi introdotto solo con la legge 07.08.2015, n. 124 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza non definitiva 04.04.2018 n. 2194 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOLa funzione dà diritto all’indennità.
Pubblico impiego. L’assenza del provvedimento formale non fa venir meno il diritto alla retribuzione aggiuntiva. È sufficiente aver ricoperto di fatto la posizione organizzativa.
Se un dipendente del settore pubblico occupa una posizione organizzativa, ha diritto a ricevere la relativa indennità aggiuntiva. Questo anche nel caso in cui manchi o sia illegittimo il provvedimento con cui il lavoratore viene destinato alla posizione, perché il venir meno dell’atto formale non esclude il diritto a percepire l’intero trattamento economico, inclusa la parte accessoria, corrispondente alle mansioni svolte.

Questi i due principi di diritto espressi dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella sentenza 03.04.2018 n. 8141, relativa a un contenzioso che ha visto opposti l’Inps e un suo dipendente. Quest’ultimo ha ricoperto, di fatto, una posizione organizzativa per due anni e ha chiesto il riconoscimento della relativa retribuzione e indennità.
La Corte d’appello ha stabilito la fondatezza della richiesta di ricevere la differenza retributiva tra il suo profilo di inquadramento e quella prevista per la posizione organizzativa, ma non anche la relativa indennità perché il diritto a quest’ultima presuppone il conferimento dell’incarico, non essendo sufficiente aver svolto l’attività di fatto.
La Cassazione è di diverso avviso. Richiamando pronunce precedenti, ricorda che per il diritto all’indennità innanzitutto è necessario che la posizione organizzativa sia istituita all’interno dell’organizzazione, situazione che nel caso specifico si è verificata.
A fronte di ciò, se il dipendente svolge le mansioni di una posizione organizzativa, «la mancanza o l’illegittimità del provvedimento formale di attribuzione non esclude il diritto a percepire l’intero trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate, ivi compreso quello di carattere accessorio, che è comunque diretto a commisurare l’entità della retribuzione alla qualità della prestazione resa». In questo i giudici di Cassazione vedono un ’analogia con la situazione di chi svolge mansioni dirigenziali a cui spetta la relativa retribuzione pur in assenza di atti formali, a fronte dell’impegno richiesto, della rilevanza e alla natura dell’incarico.
Anche nel settore pubblico si applica l’articolo 36 della Costituzione, per cui il dipendente ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. Ciò vale anche nell’ipotesi di mansioni superiori, tranne i casi in cui ciò avvenga a insaputa o contro la volontà del datore di lavoro, per collusione fraudolenta tra dipendente e dirigente, o per violazione di principi basilari pubblicistici dell’ordinamento.
Quanto alla connessione tra posizione organizzativa e relativa indennità, la Cassazione rileva che la posizione non va confusa con il profilo professionale. La prima non modifica il secondo, ma è una funzione a tempo, e al riguardo lo stesso contratto collettivo degli enti pubblici non economici prevede che possano essere richiesti compiti di elevata responsabilità «che comportano l’attribuzione di una specifica indennità di posizione organizzativa».
Quindi la Corte d’appello, rilevano i giudici, ha errato nel riconoscere al lavoratore di aver svolto le mansioni della posizione organizzativa ma al contempo negando il diritto alla relativa indennità (articolo Il Sole 24 Ore del 04.04.2018).
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MASSIMA
6. E', invece, fondato il terzo motivo di ricorso.
Occorre premettere che
la disciplina contrattuale delle posizioni organizzative trova fondamento nell'art. 45, comma 3, del d.lgs. n. 29/1993, nel testo risultante dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 396/1997, con il quale il, legislatore aveva previsto che "per le figure professionali che, in posizione di elevata responsabilità, svolgono compiti di direzione.... sono stabilite discipline distinte nell'ambito dei contratti collettivi di comparto".
La disposizione è stata integralmente trasfusa nell'art. 40 del d.lgs. n. 165/2001 e sulla stessa il legislatore è intervenuto con il d.lgs. n. 150/2009 che ha modificato il terzo comma del richiamato art. 40, prevedendo che «nell'ambito dei comparti di contrattazione possono essere costituite apposite sezioni contrattuali per specifiche professionalità».

Per il comparto degli enti pubblici non economici la disciplina delle posizioni organizzative è stata dettata dagli artt. 17 e 18 del CCNL 16/2/1999 (il cui contenuto è stato poi ripreso dagli artt. 16 e 17 del CCNL 01.10.2007), con i quali le parti collettive, hanno innanzitutto previsto che «Nell'ambito dell'area C gli enti, sulla base dei propri ordinamenti ed in relazione alle esigenze di servizio, possono conferire ai dipendenti ivi inseriti incarichi che, pur rientrando nell'ambito delle funzioni di appartenenza, richiedano lo svolgimento di compiti di elevata responsabilità, che comportano l'attribuzione di una specifica indennità di posizione organizzativa», di ammontare correlato alle disponibilità finanziare del fondo per i trattamenti accessori e, comunque, compreso fra un minimo ed un massimo fissati dalla contrattazione nazionale
Il contratto ha, poi, individuato i settori nei quali è possibile l'istituzione delle posizioni organizzative (art. 17, comma 2, che suddivide le posizioni in funzioni di direzione di unità organizzativa, caratterizzate da un elevato grado di autonomia gestionale ed organizzativa; attività- ivi comprese quelle informatiche- con contenuti di alta professionalità o richiedenti specializzazioni correlate al possesso di titoli universitari e/o di adeguati titoli connessi all'esercizio delle relative funzioni; attività di staff e/o di studio, di ricerca, ispettive, di vigilanza e controllo, caratterizzate da elevata autonomia ed esperienza); ha subordinato l'istituzione alla previa ridefinizione delle strutture organizzative e delle dotazioni organiche, all'attivazione del nucleo di valutazione ed alla fissazione dei criteri generali e delle procedure per il conferimento (art. 18, comma 1); ha previsto che quest'ultimo debba avvenire «con atto scritto e motivato tenendo conto dei requisiti culturali, delle attitudini e delle capacità professionali dei dipendenti in relazione alle caratteristiche dei programmi da realizzare» ( art. 18, comma 2); ha tipizzato i casi nei quali può essere disposta la revoca dell'incarico (art. 18, comma 3) ed infine ha stabilito che quest'ultima «comporta la perdita della indennità di posizione e la riassegnazione del dipendente alle funzioni del profilo di appartenenza».
6.1.
Questa Corte ha già avuto modo di pronunciare sulla natura delle posizioni organizzative e sulle condizioni che devono ricorrere affinché la relativa indennità possa essere rivendicata dal dipendente e, da un lato, ha evidenziato che condizione imprescindibile perché il diritto possa venire ad esistenza è l'istituzione delle posizioni stesse, da effettuare all'esito delle procedure previste dalle parti collettive (per il comparto degli enti pubblici non economici il principio è stato affermato da Cass. 15.10.2013 n. 23366 e Cass. 18.12.2015 n. 23366); dall'altro, quanto alla natura dell'istituto, ha rilevato che «la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, ne un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico. Si tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus di alta responsabilità la cui definizione -nell'ambito della classificazione del personale di ciascun comparto- è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva» (Cass. S.U. 18.06.2008 n. 16540 e Cass. n. 20855/2015 in tema di posizioni organizzative per il comparto degli enti locali).
6.2. Detti principi, condivisi dal Collegio, orientano anche nella soluzione del caso che qui viene in rilievo.
Occorre innanzitutto rilevare che la stessa natura della posizione organizzativa, connessa allo svolgimento di compiti di elevata responsabilità, induce a disattendere la tesi dell'Istituto, il quale insiste nel sostenere che, essendo il formale conferimento dell'incarico condizione imprescindibile per il riconoscimento dell'indennità, quest'ultima, in caso di assegnazione in via di mero fatto a mansioni superiori, non potrebbe essere apprezzata ai fini della quantificazione del differenziale di cui all'art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001.
La prospettazione difensiva è già stata disattesa, in fattispecie non dissimili da quella oggetto di causa, da questa Corte (Cass. 30.06.2016 n. 13453 e Cass. 04.07.2016 n. 13579 nonché, in relazione al comparto degli enti di cui all'art. 70 del d.lgs. n. 165/2001, da Cass. 25.10.2016 n. 21524 e Cass. 04.11.2016 n. 22470) che, richiamati i principi affermati dalle Sezioni Unite con le sentenze n. 25837 dell'11.12.2007 e n. 3814 del 16.02.2011, ha evidenziato che,
ove il dipendente venga chiamato a svolgere le mansioni proprie di una posizione organizzativa, previamente istituita dall'ente, e ne assuma tutte le connesse responsabilità, la mancanza o l'illegittimità del provvedimento formale di attribuzione non esclude il diritto a percepire l'intero trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate, ivi compreso quello di carattere accessorio, che è comunque diretto a commisurare l'entità della retribuzione alla qualità della prestazione resa.
A detto orientamento il Collegio intende dare continuità, posto che
sul piano dei principi la fattispecie non è dissimile da quella nella quale viene in rilievo l'assegnazione di fatto a mansioni dirigenziali, in relazione alla quale si è ritenuta spettante la retribuzione di posizione, anche in assenza di atti formali, in quanto collegata «al livello di responsabilità conseguente alla natura dell'incarico, all'impegno richiesto, al grado di rilevanza, alla collocazione istituzionale dell'ufficio» (Cass. 10.6.2014 n. 13062 che richiama in motivazione la citata Cass. S.U. n. 3814/2011), dati, questi, che non possono non rilevare ai fini del giudizio di proporzionalità di cui all'art. 36 cost., del quale l'art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 costituisce attuazione.
6.3.
La portata applicativa del principio non può essere limitata al solo caso in cui le mansioni superiori vengano svolte in esecuzione di un provvedimento di assegnazione, ancorché nullo.
Questa Corte (cfr. Cass. n. 22470/2016, che richiama Cass. S.U. 11.12 2007 n. 25837), sulla base dei principi espressi dalla Corte Costituzionale, ha rilevato come
l'obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della qualità del lavoro effettivamente prestato prescinda dalla eventuale irregolarità dell'atto o dall'assegnazione formale a mansioni superiori e come il mantenere, da parte della pubblica amministrazione, l'impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determini una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto -ai sensi dell'art. 2126 c.c. e, tramite detta disposizione, dell'art. 36 Cost.- perché non può ravvisarsi nella violazione della mera legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto "con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell'ordinamento", e che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore (Corte Cost. 19.06.1990 n. 296 attinente ad una fattispecie riguardante il trattamento economico del personale del servizio sanitario nazionale in ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del disposto del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2).
La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato l'applicabilità anche al pubblico impiego dell'art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale riconoscimento, a norma dell'art. 2126 c.c., l'eventuale illegittimità del provvedimento di assegnazione del dipendente a mansioni superiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza (cfr. Corte Cost. sent n. 57/1989, n. 296/1990, n. 236/1992, n. 101/1995, n. 115/2003, n. 229/2003).
Le uniche ipotesi in cui può essere disconosciuto il diritto alla retribuzione superiore devono essere circoscritte ai casi in cui l'espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all'insaputa o contro la volontà dell'ente (invito o proibente domino) oppure allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente (cfr. Cass. n. 27887 del 2099), o, infine, qualora la prestazione sia stata resa in violazione di principi basilari pubblicistici dell'ordinamento (Cass. 29.11.2016 n. 24266), ma dette ipotesi pacificamente qui non ricorrono, perché neppure allegate dalla difesa dell'INPS.
6.4. Ciò premesso occorre ancora evidenziare che
la posizione organizzativa risponde all'esigenza di tener conto in modo adeguato della differenziazione delle attività, che indubbiamente sussiste anche in un sistema fondato sui principi della flessibilità e della equivalenza, sotto il profilo professionale, delle mansioni ricomprese nel medesimo livello di inquadramento.
Nell'ambito dell'organizzazione dell'ente, infatti, determinate funzioni, pur esprimendo la medesima professionalità che caratterizza l'area di inquadramento più elevata, rivestono un ruolo strategico e di alta responsabilità, che giustifica, come per il rapporto di natura dirigenziale, la sottoposizione alla logica del risultato, l'assoggettamento a valutazione e, correlativamente, il riconoscimento di un compenso aggiuntivo.

La posizione organizzativa, da non confondere con il profilo professionale, descrive, dunque, una funzione alla quale si correlano compiti predeterminati dall'ente, sicché, una volta che la stessa sia stata istituita e si accerti che il dipendente abbia svolto con pienezza di poteri le mansioni connesse all'incarico, assumendone la relativa responsabilità, non è corretto valorizzare quei compiti ai soli fini della comparazione fra i livelli di inquadramento (quello posseduto dal dipendente e quello sotteso alla posizione organizzativa), riconoscendo l'esercizio di fatto delle mansioni superiori, ma escludendo al tempo stesso il conferimento, sempre in via di fatto, della posizione in discussione.
In altri termini,
ove il giudizio trifasico venga compiuto comparando le mansioni di fatto accertate, non con la declaratoria generale dell'area e dei livelli, bensì con i compiti e le responsabilità della posizione organizzativa istituita dall'ente, l'esito della comparazione, se favorevole per il lavoratore, dovrà portare a riconoscere il diritto del lavoratore a percepire il differenziale economico che tenga conto, oltre che del trattamento economico previsto per la superiore area di inquadramento sottesa alla posizione, anche dell'indennità stabilita dalle parti collettive in relazione all'espletamento dello specifico incarico.
6.5. La Corte territoriale si è discostata dai principi di diritto sopra indicati perché, a fronte dell'allegazione dell'attuale ricorrente di avere svolto di fatto la posizione organizzativa di responsabile team sviluppo professionale, istituita dall'INPS e per la quale era stata bandita apposita selezione, da un lato ha ritenuto provato, sulla base della documentazione prodotta e della non contestazione dell'INPS, lo svolgimento delle mansioni caratterizzanti l'incarico, dall'altro ha escluso il diritto di Massimo Berto a percepire la relativa indennità.
La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio alla Corte di Appello di Venezia, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità, attenendosi ai principi di diritto di cui ai punti che precedono e di seguito sintetizzati:
  
a) la posizione organizzativa si distingue dal profilo professionale e individua nell'ambito dell'organizzazione dell'ente funzioni strategiche e di alta responsabilità che giustificano il riconoscimento di un'indennità aggiuntiva;
   b) ove il dipendente venga assegnato a svolgere le mansioni proprie di una posizione organizzativa, previamente istituita dall'ente, e ne assuma tutte le connesse responsabilità, la mancanza o l'illegittimità del provvedimento formale di attribuzione non esclude il diritto a percepire l'intero trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate, ivi compreso quello di carattere accessorio, che è diretto a commisurare l'entità della retribuzione alla qualità della prestazione resa.

EDILIZIA PRIVATA: L'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio e della sua sanabilità incombe sull'interessato e non sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge.
Nello specifico, la prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa consistenza è nella disponibilità dell'interessato e non dell'Amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto.
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4 – Il ricorso è infondato.
4.1 - “L'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio e della sua sanabilità incombe sull'interessato e non sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge. Nello specifico, la prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa consistenza è nella disponibilità dell'interessato e non dell'Amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto” (TAR Campania, Napoli, sez. VI, sent. 17/09/2015 n. 4565) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 21.03.2018 n. 404 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La valutazione urbanistica e la correlativa qualificazione giuridica di interventi edilizi postula una considerazione unitaria degli stessi onde apprezzarne la rilevanza sotto il profilo urbanistico e la conseguente loro ascrizione alla relativa categoria edilizia (manutenzione, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione, ovvero nuova costruzione) ai fini dell’individuazione del titolo autorizzatorio al cui regime sono assoggettati.
Invero, “ai fini della ricognizione del regime giuridico e della categoria edilizia cui vanno ricondotti, gli abusi edilizi non possono formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono essere apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno determinato trasformazione urbanistico–edilizia del territorio, incremento di carico urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza.".
Sulla stessa linea esegetica la Sezione aveva già puntualizzato la necessità di una considerazione unitaria degli interventi onde valutarne la rilevanza urbanistica e la conseguente sussumibilità nella relativa categoria edilizia.
Si è in infatti tal senso sancito che gli abusi in quel caso esaminati, in una fattispecie analoga a quella che occupa e avente anzi ad oggetto interventi meno impattanti di una vera e propria “nuova costruzione” creativa di superficie e volume (muro di cinta, muro di recinzione con paletti in ferro, etc.), necessitavano di permesso di costruire sia isolatamente considerati, “sia valutando, come si deve, gli interventi nel loro complesso. In tale ultimo caso è ancor più evidente che le opere complessivamente considerate hanno determinato trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio ed alterazione dei luoghi, imponendo la previa acquisizione del titolo edilizio e del presupposto atto di assenso dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico gravante sull’area”.
Giova segnalare che anche la Corte di Cassazione, in ambito penale, ha enunciato il suesposto principio, avendo statuito, proprio in materia di pertinenze, che “Un intervento edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le opere realizzate non possono essere valutate autonomamente e separatamente come pertinenze”.
In termini generali la Cassazione si era già pronunciata nel senso, sostenuto dalla Sezione nelle richiamate sentenze e qui riaffermato, della necessità di una valutazione unitaria onde individuare il regime giuridico degli abusi edilizi.
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1. Il Collegio ritiene di dover preliminarmente precisare che non può essere accreditata la prospettiva di indagine sostenuta dal ricorrente, costituente l’intelaiatura di tutte le specifiche censure, tranne l’ultima incentrata sulla dedotta omessa comunicazione di avvio ex art. 7 l. n. 241/1990.
Egli infatti scompone il complesso degli interventi edilizi contestati e descritti ai punti 1,2 e al capoverso finale dell’ordinanza indicante la pavimentazione di tutta l’area di pertinenza del fabbricato, in singole e specifiche opere, onde sussumere ciascuna di esse in una determinata categoria edilizia e nel relativo regime formale e sanzionatorio; quasi che il provvedimento fosse ad oggetto plurimo, là dove esso, in realtà, ha un unico oggetto, rappresentato dall’insieme complessivo e coordinato delle opere eseguite in assenza del previo titolo edilizio corredato del presupposto e preliminare parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico–ambientale (oltre a quello derivante dalla perimetrazione del Parco Nazionale del Vesuvio, pure debitamente considerato nell’ordinanza gravata e a quello dell’autorità preposta alla salvaguardia del rischio idrogeologico pure gravante sull’area).
1.1. Va, infatti, ribadito il principio, più volte espresso dalla Sezione e rinvenuto anche nella giurisprudenza penale della Corte di Cassazione, secondo il quale la valutazione urbanistica e la correlativa qualificazione giuridica di interventi edilizi postula una considerazione unitaria degli stessi onde apprezzarne la rilevanza sotto il profilo urbanistico e la conseguente loro ascrizione alla relativa categoria edilizia (manutenzione, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione, ovvero nuova costruzione) ai fini dell’individuazione del titolo autorizzatorio al cui regime sono assoggettati.
La Sezione ha già evidenziato al riguardo che “ai fini della ricognizione del regime giuridico e della categoria edilizia cui vanno ricondotti, gli abusi edilizi non possono formare oggetto di una considerazione atomistica, ma debbono essere apprezzati nel loro complesso onde stabilire se hanno determinato trasformazione urbanistico–edilizia del territorio, incremento di carico urbanistico e se hanno o meno natura di pertinenza” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 29.05.2017, n. 2851, p. 2.3.).
1.2. Sulla stessa linea esegetica aveva già puntualizzato la necessità di una considerazione unitaria degli interventi onde valutarne la rilevanza urbanistica e la conseguente sussumibilità nella relativa categoria edilizia.
Si è in infatti tal senso sancito che gli abusi in quel caso esaminati, in una fattispecie analoga a quella che occupa e avente anzi ad oggetto interventi meno impattanti di una vera e propria “nuova costruzione” creativa di superficie e volume (muro di cinta, muro di recinzione con paletti in ferro, etc.), necessitavano di permesso di costruire sia isolatamente considerati, “sia valutando, come si deve, gli interventi nel loro complesso. In tale ultimo caso è ancor più evidente che le opere complessivamente considerate hanno determinato trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio ed alterazione dei luoghi, imponendo la previa acquisizione del titolo edilizio e del presupposto atto di assenso dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico gravante sull’area” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 31.01.2017, n. 675).
1.3. Giova segnalare che anche la Corte di Cassazione, in ambito penale, ha enunciato il suesposto principio, avendo statuito, proprio in materia di pertinenze, che “Un intervento edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le opere realizzate non possono essere valutate autonomamente e separatamente come pertinenze” (Cassazione penale, Sez. III, 01.10.2013, n. 45598).
In termini generali la Cassazione si era già pronunciata nel senso, sostenuto dalla Sezione nelle richiamate sentenze e qui riaffermato, della necessità di una valutazione unitaria onde individuare il regime giuridico degli abusi edilizi (cfr. Cassazione Penale, Sez. III, 16.03.2010, n. 20363) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.02.2018 n. 1283 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto alla categoria degli “interventi di nuova costruzione”, che richiedono il permesso di costruire e la cui realizzazione in assenza dello stesso legittima l’irrogazione dell’ordinanza di demolizione in forza del art. 31, D.P.R. n. 380/2001, la Sezione ha di recente precisato che “la nozione di nuova costruzione va affermata per pacifica e radicata giurisprudenza, in presenza di opere che attuino trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio” la quale, giova qui precisare, consiste in un dato oggettivo che ha riguardo alla trasformazione tendenzialmente permanente e ontologicamente modificativa dello stato fisico dei luoghi, prescindendo dalla natura e tipologia delle opere mediante le quali tale modificazione sia stata attuata e, dunque, addirittura “anche se esse non consistano in opere murarie, essendo realizzate in metallo, in laminati in plastica, in legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore”.
Il Giudice d’appello ha ribadito tale principio affermando che “La nozione di costruzione, ai fini del rilascio della concessione edilizia, si configura in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante realizzazione di opere murarie”.
Tale opzione è stata più di recente enunciata anche dal Tribunale, secondo cui “Ai fini del rilascio del permesso di costruire, costituisce nuova costruzione l'opera che attui una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, preordinata a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa sia realizzata con opere murarie, in metallo, in laminati di plastica, in legno o qualsiasi altro materiale”.
Per altro verso, quand’anche le opere dianzi illustrate non potessero essere qualificate come “interventi di nuova costruzione” di cui alla lett. e) dell’art. 3, d.P.R. n. 380/2001, le stesse sarebbero comunque da assoggettare a permesso di costruire, poiché l’art. 10, co. 1, del Testo unico sull’edilizia stabilisce che “sono subordinati a permesso di costruire” anche gli interventi di cui alla lett. c) della stesso comma 1, ovverosia “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino (….) modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici”.
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Sul piano dell’esegesi dell’art. 10, co. 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001 rimarca il Collegio che al fine di ritenere soggetto a permesso di costruire un intervento di ristrutturazione edilizia costituisce indefettibile presupposto il fatto che esso conduca ad un organismo anche solo in parte diverso dal preesistente; a questo imprescindibile fattore deve necessariamente aggiungersi, come si desume dalla congiuntiva “e”, almeno uno degli effetti materiali indicati al secondo periodo, ossia “aumento di unità immobiliari”, ovvero “modifiche del volume” o “della sagoma” o “dei prospetti o delle superfici”.
L’impiego della congiuntiva “o”, benché essa sia anteposta solo alle “superfici”, va riferito, in ossequio al criterio di interpretazione letterale secondo l’analisi logica del periodo, ad ognuno degli elementi menzionati dopo la parola “modifiche”, le quali devono necessariamente essersi prodotte, in alternativa allo “aumento di unità immobiliari”, ma non necessariamente per tutti gli elementi indicati dalla norma (volume, sagoma, prospetti, superfici) essendo sufficiente, affinché l’intervento di ristrutturazione edilizia portante ad un organismo in tutto o in parte diverso dal preesistente sia subordinato a permesso di costruire, che le modifiche concernano anche solo uno dei predetti elementi, ossia volume, sagoma, prospetti, superfici, come si arguisce dall’uso della congiunzione “o”.
Giova richiamare sul punto anche la giurisprudenza del Tribunale, condivisa dal Collegio, secondo cui “Tra gli interventi di ristrutturazione edilizia sono soggetti a permesso di costruire e pertanto sanzionabili a norma dell'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi dell'art. 10 d.P.R. n. 380 citato, comma 1, lett. c), gli interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici“.
Si segnala che il Consiglio di Stato ha di recente enunciato la stessa esegesi sancendo che “Attualmente il permesso di costruire è necessario per gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici".
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2. Orbene, gli interventi contestati al ricorrente, secondo la descrizione contenuta ai punti 1 e 2 dell’ordinanza impugnata e al capoverso comune di cui a pag. 3, sono i seguenti:
Punto 1: “Ampliamento caratterizzato da struttura verticale in muratura, occupante una superficie di circa mq. 17,50 per un’altezza di circa mt 2,70, ottenendo, anche, tramite la realizzazione di un nuovo parapetto a contorno del solaio di copertura di detto ampliamento, un terrazzo avente una superficie di circa mq. 11,50”.
Tale ampliamento della superficie di circa 17,50 mq per un’altezza di mt. 2,70 è dunque munito di solaio di copertura a contorno del quale è stato realizzato un nuovo parapetto: “a contorno del solaio di copertura di detto ampliamento”. Nuovo parapetto tramite la realizzazione del quale è stato anche ottenuto (come lascia intendere la congiunzione “anche” frapposta tra le due virgole nella locuzione: “ottenendo, anche, tramite la realizzazione di un nuovo parapetto a contorno del solaio di copertura”) un terrazzo di circa mq. 11,50.
2.1. A ben vedere, attentamente leggendo ed analizzando la descrizione dell’intervento contenuta al punto 1 dell’ordinanza, si evince che il ricorrente ha creato due opere:
   A) Un vano chiuso di 17,40 mq. e 47,25 metri cubi circa, frutto di un ampliamento con struttura verticale in muratura della superficie di 17,50 mq. per un’altezza di mt 2,70 circa, munito di un solaio di copertura.
L’ordinanza fa cenno infatti di un “solaio di copertura di detto ampliamento”, a contorno del quale è stato costruito un nuovo parapetto.
Sarebbe stato infatti, oltretutto, irragionevole aver creato una sola superficie di ampliamento pari a 17,50 meri quadrati sviluppantesi vero l’alto per la considerevole altezza di mt. 2,70 a cielo aperto.
Il manufatto così risultante ha dato quindi luogo ad un vano chiuso dal volume pari al prodotto della superficie di 17,50 mq. circa per l’altezza di mt. 2,70 circa, vano quindi avente una volumetria di mc. 47,25 (17,50 x 2,70), prima inesistente.
   B) Un nuovo terrazzo di mq. 11,50. A contorno del solaio di copertura di siffatto vano è stato infatti costruito un “nuovo parapetto”, “tramite la realizzazione” del quale è stato ottenuto ANCHE un terrazzo avente una superficie di circa mq. 11,50. Il nuovo parapetto, intuitivamente, è rientrante rispetto al contorno del solaio, atteso che il terrazzo creato mediante tale nuovo parapetto ha una superficie di mq. 11, 50, ossia inferiore a quella dell’ampliamento di circa mq. 17,50 sormontato dal solaio di copertura contornato dal ridetto nuovo parapetto.
Punto 2: “Pavimentazione in cotto dell’area antistante l’ampliamento per una superficie di circa mq. 28,00, nonché la realizzazione di un muro delimitatorio in blocchi intonacati avente una lunghezza di mt. 7,00 per un’altezza media di circa mt. 1,20”.
Oltre alla pavimentazione in cotto di circa 28 mq, il ricorrente ha anche costruito un muro di delimitazione in blocchi intonacati della lunghezza di metri 7 e dell’altezza di mt. 1,20 circa.
Nella relazione tecnica n. 67173/2012 e per via di essa nell’ordinanza gravata, nel predetto comune capoverso, “inoltre si precisa che tutta l’area di pertinenza al fabbricato (corte) risulta pavimentata con masselli in cemento autobloccanti, nonché la realizzazione di una scala e di una parte di pavimentazione in cotto”.
3. Al riguardo, al fine di valutare d qualificare sul piano edilizio ed urbanistico i manufatti predetti, seguendo la corretta prospettiva di indagine più sopra delineata e dovendosi, quindi, avere riguardo all’insieme unitario e al risultato finale delle opere realizzate dal ricorrente in assenza di tiolo abilitativo edilizio e del presupposto e propedeutico parere dell’Autorità tutoria statale preposta alla tutela dei vincolo paesaggistico–ambientale gravante sull’area, si deve dedurre che gli interventi oggetto dell’impugnata ordinanza di demolizione hanno sostanziato “trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio”, con creazione sia di un nuova superficie pavimentata in cotto di 28 metri quadri e di un muro in blocchi intonacati lungo mt. 7 ed altro mt. 1,20, sia, anche, di nuova superficie e volumetria prima inesistente (come si è appena argomentato relativamente agli abusi di cui al numero 1).
Trasformazione edilizia ed urbanistica con cui la lettera e) dell’art. 3 D.P.R. n. 380 del 2001 definisce la nozione di “interventi di nuova costruzione” in termini generali e valevoli per tutti gli interventi ancorché non specificamente sussumibili nelle fattispecie particolari dettagliate ai numeri da e.1) ad e.7) della stessa lettera. Questi ultimi, infatti, “Sono comunque da considerarsi tali”, ossia interventi “di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio” e quindi di “nuova costruzione”, i quali, in ossequio all’art. 10, comma 1, lett. a), del Testo unico, “sono subordinati a permesso di costruire”.
3.1. Quanto a siffatta categoria degli “interventi di nuova costruzione”, che richiedono il permesso di costruire e la cui realizzazione in assenza dello stesso legittima l’irrogazione dell’ordinanza di demolizione in forza del art. 31, D.P.R. n. 380/2001 correttamente dunque applicato con l’impugnata ordinanza, la Sezione ha di recente precisato che “la nozione di nuova costruzione va affermata per pacifica e radicata giurisprudenza, in presenza di opere che attuino trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 07.06.2017 n. 3080) la quale, giova qui precisare, consiste in un dato oggettivo che ha riguardo alla trasformazione tendenzialmente permanente e ontologicamente modificativa dello stato fisico dei luoghi, prescindendo dalla natura e tipologia delle opere mediante le quali tale modificazione sia stata attuata e, dunque, addirittura “anche se esse non consistano in opere murarie, essendo realizzate in metallo, in laminati in plastica, in legno od altro materiale, in presenza di trasformazioni preordinate a soddisfare esigenze non precarie del costruttore” (Consiglio di Stato, Sez., IV, 06.06.2008, n. 2705).
Il Giudice d’appello ha ribadito tale principio affermando che “La nozione di costruzione, ai fini del rilascio della concessione edilizia, si configura in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante realizzazione di opere murarie” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.08.2013 n. 4086)
Tale opzione è stata più di recente enunciata anche dal Tribunale, secondo cui “Ai fini del rilascio del permesso di costruire, costituisce nuova costruzione l'opera che attui una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, preordinata a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa sia realizzata con opere murarie, in metallo, in laminati di plastica, in legno o qualsiasi altro materiale” (TAR Campania-Napoli, Sez. II, 03.05.2016, n. 2205).
4. Per altro verso, osserva altresì il Collegio che quand’anche le opere dianzi illustrate non potessero essere qualificate come “interventi di nuova costruzione” di cui alla lett. e) dell’art. 3, d.P.R. n. 380/2001, le stesse sarebbero comunque da assoggettare a permesso di costruire, poiché l’art. 10, co. 1, del Testo unico sull’edilizia stabilisce che “sono subordinati a permesso di costruire” anche gli interventi di cui alla lett. c) della stesso comma 1, ovverosia “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino (….) modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici”.
4.1. Orbene, nella fattispecie all’esame non è dubitabile che il risultato complessivo degli interventi suindicati ha condotto ad un immobile anche solo “in parte” diverso dal preesistente e che in parte qua ha subito anche modifiche della superficie e del volume ove si consideri:
   1. l’ampliamento caratterizzato da struttura verticale in muratura, occupante una superficie di circa mq. 17,50 per un’altezza di circa mt 2,70;
   2. Il volume generato da tale intervento è dato dal prodotto della superficie per l’altezza ed è dunque pari a mc. 47,25. Si è già del resto rilevato che al p. 1 dell’ordinanza gravata si precisa che detto ampliamento con struttura verticale della superficie di mq. 17,40 per l’altezza di mt. 2,70 è munito di “solaio di copertura”, la realizzazione di un nuovo parapetto a contorno del quale ha consentito di ottenere “anche” un terrazzo avente una superficie di circa mq. 11,50.
Va anche evidenziato che la risultante degli illustrati mutamenti strutturali nel volume nelle superfici ha conseguentemente determinato in parte qua, modifiche della sagoma e dei prospetti dell’edificio sul quale sono stati attuati i nuovi indicati ampliamenti di superficie e di volumetria scaturente dalla relativa altezza.
4.2. Sul piano dell’esegesi dell’art. 10, co. 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001 rimarca il Collegio che al fine di ritenere soggetto a permesso di costruire un intervento di ristrutturazione edilizia costituisce indefettibile presupposto il fatto che esso conduca ad un organismo anche solo in parte diverso dal preesistente; a questo imprescindibile fattore deve necessariamente aggiungersi, come si desume dalla congiuntiva “e”, almeno uno degli effetti materiali indicati al secondo periodo, ossia “aumento di unità immobiliari” (che non ricorre nel caso all’esame), ovvero “modifiche del volume” o “della sagoma” o “dei prospetti o delle superfici”.
L’impiego della congiuntiva “o”, benché essa sia anteposta solo alle “superfici”, va riferito, in ossequio al criterio di interpretazione letterale secondo l’analisi logica del periodo, ad ognuno degli elementi menzionati dopo la parola “modifiche”, le quali devono necessariamente essersi prodotte, in alternativa allo “aumento di unità immobiliari”, ma non necessariamente per tutti gli elementi indicati dalla norma (volume, sagoma, prospetti, superfici) essendo sufficiente, affinché l’intervento di ristrutturazione edilizia portante ad un organismo in tutto o in parte diverso dal preesistente sia subordinato a permesso di costruire, che le modifiche concernano anche solo uno dei predetti elementi, ossia volume, sagoma, prospetti, superfici, come si arguisce dall’uso della congiunzione “o”.
Giova richiamare sul punto anche la giurisprudenza del Tribunale, condivisa dal Collegio, secondo cui “Tra gli interventi di ristrutturazione edilizia sono soggetti a permesso di costruire e pertanto sanzionabili a norma dell'art. 33, d.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi dell'art. 10 d.P.R. n. 380 citato, comma 1, lett. c), gli interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici“ (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, 16.07.2013 n. 3708).
Si segnala che il Consiglio di Stato ha di recente enunciato la stessa esegesi sancendo che “Attualmente il permesso di costruire è necessario per gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici" (Consiglio di Stato, Sez. IV, 02.02.2017 n. 443) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.02.2018 n. 1283 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 160 del D.Lgs. 42/2004 si applica nel caso di violazione degli obblighi di conservazione stabiliti dalle disposizioni del Capo III del Titolo I della Parte seconda, nella quale è compreso l’art. 12 ai sensi del quale gli immobili appartenenti agli enti ecclesiastici la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, sono sottoposti alle disposizioni della presente parte fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2.
Si tratta infatti di una norma sanzionatoria di carattere secondario volta a dare effettività ai precetti relativi alla conservazione dei beni culturali così come definiti nella parte seconda del codice.
A nulla rileva poi che l’art. 160 cit. non fosse vigente al momento in cui le opere abusive sono state realizzate atteso che le sanzioni efferenti le norme che disciplinano il governo del territorio sono soggette al principio del tempus regit actum e rimangono, perciò soggette alle normative vigenti al momento della loro adozione.

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Viene impugnata l’ordinanza con la quale il Ministero dei beni culturali ha ordinato alla Parrocchia dei Ss. Pietro e Paolo Apostoli la eliminazione di alcune opere eseguite in assenza di autorizzazione ex art. 21 D.Lgs. 42/2004 nel complesso costituito dalla relativa chiesa e dalla annessa canonica in quanto le stesse, essendo state realizzate con materiali e tecniche di intervento inadeguati, recherebbero allo stesso pregiudizio.
Con il primo motivo la Parrocchia sostiene che il complesso in questione costituirebbe bene avente un interesse “culturale” solo perché è appartenente ad un “ente ecclesiastico civilmente riconosciuto” e costruito da oltre settanta anni. Tale tipologia di immobili sarebbe soggetta alla parte II del D.Lgs. 42/2004 ma non anche alla parte III nella quale sarebbe inserita la disposizione sanzionatoria applicata dal Ministero. Inoltre, la predetta norma sanzionatoria non sarebbe stata vigente al momento delle realizzazione delle opere contestate.
La censura è infondata.
L’art. 160 del D.Lgs. 42/2004 si applica nel caso di violazione degli obblighi di conservazione stabiliti dalle disposizioni del Capo III del Titolo I della Parte seconda, nella quale è compreso l’art. 12 ai sensi del quale gli immobili appartenenti agli enti ecclesiastici la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, sono sottoposti alle disposizioni della presente parte fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2.
Si tratta infatti di una norma sanzionatoria di carattere secondario volta a dare effettività ai precetti relativi alla conservazione dei beni culturali così come definiti nella parte seconda del codice.
A nulla rileva poi che l’art. 160 cit. non fosse vigente al momento in cui le opere abusive sono state realizzate atteso che le sanzioni efferenti le norme che disciplinano il governo del territorio sono soggette al principio del tempus regit actum e rimangono, perciò soggette alle normative vigenti al momento della loro adozione (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.02.2018 n. 324 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
In ogni caso, attesa la natura vincolata del provvedimento di demolizione, il mancato avvio della comunicazione di avvio del procedimento non può avere alcun effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso che -ai sensi dell'art. 21-octies, L. n. 241 del 1990- il provvedimento impugnato non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato.
Sotto il profilo istruttorio e della motivazione, in materia di repressione di abusi edilizi, l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica giustificazione circa le ragioni della sanzione, essendo sufficiente, a tal fine, l'individuazione e la qualificazione degli abusi edilizi riscontrati, l'indicazione delle norme violate.
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Risulta destituita di fondamento la censura relativa all’asserita erronea applicazione della sanzione demolitoria in luogo di quella pecuniaria, di cui all’art. 37 d.p.r. 380/2001.
L’amministrazione comunale, in presenza di nuovi manufatti insistenti in area soggetta a vincoli, ha al contrario fatto corretta applicazione dell’art. 27, comma 2, d.p.r. 380 del 2001, norma che impone al dirigente o al responsabile, “quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, … nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi”.
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2.- Il ricorso è infondato.
2.1.- Come chiarito da consolidata e condivisa giurisprudenza amministrativa, anche di questa Sezione, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 28/09/2017, n. 4533; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 28/08/2017, n. 4122).
2.2.- In ogni caso, attesa la natura vincolata del provvedimento di demolizione, il mancato avvio della comunicazione di avvio del procedimento non può avere alcun effetto invalidante sui successivi atti procedimentali e sul provvedimento definitivo, atteso che -ai sensi dell'art. 21-octies, L. n. 241 del 1990- il provvedimento impugnato non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso da quello in concreto adottato (TAR Campania, Napoli, sez. III, 31/01/2017, n. 677).
3.- Sotto il profilo istruttorio e della motivazione, in materia di repressione di abusi edilizi, l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica giustificazione circa le ragioni della sanzione, essendo sufficiente, a tal fine, l'individuazione e la qualificazione degli abusi edilizi riscontrati, l'indicazione delle norme violate.
3.1.- Nel caso specifico, riguardo ai presupposti di fatto, l’amministrazione comunale ha svolto compiuta istruttoria per appurare, tramite sopralluogo e relazione tecnica, la natura e l’entità degli abusi compiuti, la cui descrizione, come in fatto illustrata, è puntualmente riportata nell’ordinanza impugnata.
3.2.- Riguardo ai presupposti giuridici, in senso contrario agli assunti di parte ricorrente, l’ordinanza di demolizione indica puntualmente le normative legislative e regolamentari applicabili e riporta nel dettaglio i numerosi vincoli gravanti sull’area interessata dagli abusi, così sintetizzabili:
   - idrogeologico, di cui all’art. 1 del R.D. 30.12.1923 n. 3267, per le parti di bacino idrogeologico dei lagni vesuviani;
   - paesaggistico di cui al Decreto Ministeriale del 20.01.1964, con il quale l'intero territorio comunale, ad esclusione della zona portuale, è stato dichiarato, ai sensi della Legge 29.06.1939 n. 1497, di "notevole interesse pubblico", vincolo riproposto con il Decreto Ministeriale del 28.03.1985, emanato in esecuzione del Decreto Ministeriale del 21.09.1984:
   - ambientale di cui al menzionato Piano Territoriale Paesistico dell'area del Vesuvio, approvato con il Decreto ministeriale del 04.07.2002;
   - sismico, grado di sismicità S=9, come da D.M. del 07.03.1981, classificazione riconfermata con Delibera di Giunta Regionale n. 5447 del 07.11.2002;
   - di salvaguardia di cui al D.M. del 25.05.1981, con il quale è stato dichiarato, a seguito degli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981, "gravemente danneggiato":
   - ambientale, derivante dalla perimetrazione del Parco Nazionale del Vesuvio, come da Decreto Ministeriale del 04.12.1992, emanato in esecuzione della Legge 394/1991:
   - di salvaguardia in applicazione del "Piano Stralcio per l'Assetto Idrogeologico per il territorio di competenza dell'Autorità di Bacino del Sarno", adottato con Delibera del Comitato Istituzionale n. 2 del 04.04.2002 e pubblicato sul B.U.R.C. n. 21 del 22.04.2002.
3.3.- Non sembra dunque reggere su solide basi l’assunto della ricorrente secondo cui le opere da lei realizzate si risolverebbero in interventi di manutenzione straordinaria, in quanto tali rientranti nell’ambito dell’iniziativa edilizia libera, ovvero, a tutto concedere, di restauro conservativo per i quali sarebbe occorsa la semplice DIA.
Al contrario, le opere effettuate hanno comportato:
   - la creazione di un nuovo volume (vano WC), a nulla rilevando le sue asserite contenute dimensioni,
   - l’edificazione di manufatti preparatori alla creazione di altrettanti nuovi volumi (struttura in ferro coperta in parte da pannelli in lamiera coibentati; mura costituite da blocchi di lapil-cemento a forma di L);
   - lo sviluppo di superficie edificata (due massetti in calcestruzzo, di cui uno piastrellato con mattonelle in cotto, di metri 7,00 circa di lunghezza e metri 6,40 circa di larghezza, avente uno spessore di circa centimetri 20 e l’altro allo stato grezzo, di metri 6,00 di lunghezza e di metri 5,00 di larghezza, anch’esso di centimetri 20 di spessore).
In disparte la considerazione circa la non compatibilità di queste opere con il vigente P.R.G., il quale fa ricadere l’area interessata in zona omogenea "F3 = Verde Pubblico Attrezzato" nonché con le restrizioni imposte dal Piano Territoriale Paesistico dell'area del Vesuvio, approvato in data con Decreto ministeriale 04.07.2002, che inserisce l’area medesima in zona: "R. U.A. = Recupero Urbanistico Edilizio e Restauro Paesistico Ambientale", i riscontrati aumenti plano-volumetrici avrebbero richiesto, in ogni caso, il permesso di costruire, trattandosi a tutti gli effetti di interventi di nuova costruzione, corredato di preventiva autorizzazione paesaggistica, in virtù dell’esistenza del relativo vincolo di cui al d.lgs. 42/2004.
3.4.- Risulta quindi destituita di fondamento la censura relativa all’asserita erronea applicazione della sanzione demolitoria in luogo di quella pecuniaria, di cui all’art. 37 d.p.r. 380/2001.
L’amministrazione comunale, in presenza di nuovi manufatti insistenti in area soggetta a vincoli, ha al contrario fatto corretta applicazione dell’art. 27, comma 2, d.p.r. 380 del 2001, norma che impone al dirigente o al responsabile, “quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, … nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 07.02.2018 n. 804 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo un principio consolidato in giurisprudenza, l’atto di declassificazione non determina di per se stesso la perdita dell’uso pubblico della strada, qualora quest’ultima conservi la condizione di bene idoneo a garantirne un’utilizzazione pubblica.
Inoltre, la giurisprudenza amministrativa anche più recente ha ribadito che né «il disuso protratto nel tempo» né «l’inerzia della pubblica amministrazione nella cura della strada o nell’intervento volto ad impedire l’occupazione o l’uso da parte di privati incompatibile con l’uso pubblico» sono sufficienti a dimostrarne «l’intervenuta tacita sdemanializzazione, che ricorre solo allorquando, pur in assenza di un formale provvedimento di cessazione della demanialità, la volontà dell’Amministrazione risulti comunque da fatti concludenti e da circostanze inequivoche, incompatibili con la volontà di conservare il bene all’uso pubblico».
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8. Può ora passarsi all’esame del merito del ricorso. Le prime quattro censure poggiano tutte sul medesimo assunto secondo cui non sussistevano i presupposti per procedere alla disposta rettifica, con la conseguenza che la deliberazione impugnata realizzerebbe, nella sostanza, un’illegittima cessione (gratuita) del tratto stradale in oggetto agli odierni controinteressati al di fuori di una corretta procedura di sdemanializzazione del bene medesimo.
8.1. Tale assunto è fondato nei limiti di quanto di seguito osservato.
8.2. Invero, con la delibera impugnata il Consiglio comunale non ha operato l’eliminazione di un errore materiale ricavabile dalla lettura sistematica e consequenziale delle proprie precedenti delibere ma ha esercitato un vero e proprio riesame della delibera n. 32/2002, sulla base nuovi presupposti, fra l’altro non congruenti con quanto accertato in corso di causa.
Infatti, la pretesa sdemanializzazione della “strada che collega Laorno a Contrada Ucchesi e Valmarisa” così come l’esclusione di qualunque uso pubblico della strada in questione, su cui poggia la disposta “rettifica”, risultano erroneamente considerate quali effetti automatici della deliberazione n. 31 del 21.03.1978.
Tuttavia, tale delibera si era limitata a declassificare la strada di collegamento in oggetto –identificata al n. 15 dell’allegato alla delibera medesima– da “strada comunale” a “vicinale ai sensi e per gli effetti della legge 12.02.1958, n. 125”.
8.3. Ebbene, secondo un principio consolidato in giurisprudenza, l’atto di declassificazione non determina di per se stesso la perdita dell’uso pubblico della strada, qualora quest’ultima conservi la condizione di bene idoneo a garantirne un’utilizzazione pubblica.
8.4. Inoltre, la giurisprudenza amministrativa anche più recente ha ribadito che né «il disuso protratto nel tempo» «l’inerzia della pubblica amministrazione nella cura della strada o nell’intervento volto ad impedire l’occupazione o l’uso da parte di privati incompatibile con l’uso pubblico» sono sufficienti a dimostrarne «l’intervenuta tacita sdemanializzazione, che ricorre solo allorquando, pur in assenza di un formale provvedimento di cessazione della demanialità, la volontà dell’Amministrazione risulti comunque da fatti concludenti e da circostanze inequivoche, incompatibili con la volontà di conservare il bene all’uso pubblico» (Cons. St., Sez. IV, 28.10.2013, n. 5207, nonché Cons. St., Sez. V, 30.11.2011, n. 6338; Sez. VI, 09.02.2011, n. 868; Sez. IV, 07.09.2006, n. 5209, Sez. V, 01.12.2006, n. 7081).
8.5. Venendo al caso in esame, da un lato, l’istruttoria svolta ha confermato che il tratto stradale in esame “si collega e quindi sbocca su una strada comunale nei pressi di Contrada Ucchesi”, e che è del tutto percorribile non solo a piedi, come emerge chiaramente dalla documentazione fotografica allegata dal Genio Civile, essendo “omogeneamente ben delineato” e con una “pavimentazione realizzata in materiale ghiaioso di granulometria variabile tipico dei percorsi montani” (così Relazione di verificazione, del Genio Civile di Verona).
Pertanto, deve oggettivamente ritenersi che essa costituisca un collegamento non ad uso “riservato” di alcuni soggetti, bensì aperto a chiunque provenga ovvero debba raggiungere detta strada comunale. Tanto più che, quantomeno rispetto al fondo di proprietà del ricorrente individuato al foglio 13, mappale n. 107 (cfr. “Planimetria catastale” in atti), non esistono altri tratti di collegamento con la medesima strada comunale.
8.6. Dall’altro, sulla base del chiaro tenore letterale della deliberazione n. 32/2002, deve altresì escludersi che sussista un atto univoco ed incompatibile con la volontà di conservare la destinazione di una strada a uso pubblico, poiché, al contrario, l’autorizzazione al contributo regionale in essa contenuta risulta esclusivamente finalizzata a migliorare le condizioni di viabilità del tratto viabile in oggetto, mantenendone ferma la destinazione del bene all’uso pubblico.
8.7. Pertanto, il provvedimento impugnato, rendendo di fatto ad uso esclusivo di alcuni soggetti privati (odierni controinteressati) un bene che invece risulta avere tuttora un’oggettiva vocazione all’uso pubblico, è stato adottato al di fuori dei presupposti del potere di rettifica in concreto esercitato così come delle procedure e delle circostanze di fatto che avrebbero, in astratto, potuto determinare l’effetto di riservarne l’uso a determinati soggetti privati.
8.8. Ne deriva che il ricorso è fondato nei limiti di quanto osservato e, per l’effetto, la delibera impugnata deve essere annullata (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 16.01.2018 n. 41 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il venditore di un bene immobile destinato ad abitazione ha l'obbligo di dotare tale bene della licenza di abitabilità, senza la quale esso non acquista la normale attitudine a realizzare la sua funzione economico-sociale.
La mancata consegna della medesima implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo a risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un danno risarcibile configurabile anche nel solo fatto di aver ricevuto un bene che presenta problemi di commerciabilità.

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1. Con il primo motivo i ricorrenti principali denunciano la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1453, 1477, 1489 e 1497 c.c. (con riferimento all'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.), per aver la corte d'appello escluso la risoluzione del contratto per inadempimento della venditrice, nonostante il certificato di agibilità dovesse sussistere ed essere o consegnato all'acquirente di un immobile già al momento del perfezionamento della compravendita ed il suo mancato rilascio, rappresentando un requisito giuridico essenziale per il legittimo godimento del bene e per la sua commerciabilità, determinasse una responsabilità per l'alienazione di un aliud pro alio.
1.1. Il motivo è infondato.
In tema di compravendita immobiliare, la mancata consegna al compratore del certificato di abitabilità non determina, in via automatica, la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del venditore, dovendo essere verificata in concreto l'importanza e la gravità dell'omissione in relazione al godimento e alla commerciabilità del bene; e risoluzione non può essere pronunciata ove in corso di causa si accerti che l'immobile promesso in vendita presentava tutte le caratteristiche necessarie per l'uso suo proprio e che le difformità edilizie rispetto al progetto originario erano state sanate a seguito della presentazione della domanda di concessione in sanatoria, del pagamento di quanto dovuto e del formarsi del silenzio-assenso sulla relativa domanda (Sez. 2, Sentenze n. 13231 del 31/05/2010 - e n. 7547/2017).
Non può, pertanto, negarsi rilievo, al rilascio della certificazione predetta nel corso del giudizio relativo all'azione di risoluzione del contratto, promosso dal compratore, nonostante l'irrilevanza dell'adempimento successivo alla domanda di risoluzione stabilita dall'art. 1453 terzo comma cod. civ., perché sì tratta di circostanza che evidenzia l'inesistenza originaria di impedimenti assoluti al rilascio della certificazione e l'effettiva conformità dell'immobile alle norme urbanistiche (Sez. 2, Sentenza n. 3851 del 15/02/2008).
In quest'ottica,
nel caso di compravendita di una unità immobiliare per la quale, al momento della conclusione del contratto, non sia stato ancora rilasciato il certificato di abitabilità, il successivo rilascio di tale certificato esclude la possibilità stessa di configurare l'ipotesi di vendita di alicid pro alio e di ritenere l'originaria mancanza di per sé sola fonte di danni risarcibili (Sez. 2„ Sentenza n. 6548 del 18/03/2010).
Dalle considerazioni che precedono, consegue che
il venditore di un bene immobile destinato ad abitazione ha l'obbligo di dotare tale bene della licenza di abitabilità, senza la quale esso non acquista la normale attitudine a realizzare la sua funzione economico-sociale; la mancata consegna della medesima implica un inadempimento che, sebbene non sia tale da dare necessariamente luogo a risoluzione del contratto, può comunque essere fonte di un danno risarcibile configurabile anche nel solo fatto di aver ricevuto un bene che presenta problemi di commerciabilità (Cass. 20/04/2006 n. 9253; 03/07/2000 n. 8880; 19/07/1999 n. 7681).
Nella fattispecie in esame, risulta ex actis e, comunque, non è contestato che in data 22.12.2010 il Comune di Cairo Montenotte ha rilasciato il certificato di agibilità del bene immobile compravenduta, in tal guisa attestando di fatto che l'alloggio presentava tutte le caratteristiche necessarie per l'uso che gli era proprio.
Il motivo va, dunque, respinto (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 05.12.2017 n. 29090).

EDILIZIA PRIVATA: La relazione di accompagnamento alla "Dichiarazione di inizio attività" ha natura certificativa in ordine alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sugli immobili interessati dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si intendono realizzare e all'attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici e al regolamento edilizio.
Ciò in quanto l'intero procedimento della D.I.A. si fonda su un meccanismo di responsabilizzazione del privato che voglia effettuare l'intervento edilizio, volto a sostituire la sua dichiarazione ai preventivi controlli da parte dell'ente territoriale, sulla base del particolare affidamento che l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, sì da attribuire alla D.I.A., che viene integrata da tale relazione e dalla documentazione allegata, la natura di atto fidefaciente
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Ne consegue che
sia la dichiarazione di inizio attività, sia la relazione tecnica e la documentazione ad essa allegate, lungi dal configurarsi come atti privati di natura e rilevanza amministrativa, hanno invece natura certificativa, sicché la loro falsificazione integra il reato di falsità ideologica in certificati di cui all'art. 481 cod. pen..
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Costituisce principio ormai consolidato nell'ambito della giurisprudenza di questa Corte che assuma la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità il progettista che, nella relazione iniziale di accompagnamento di cui all'art. 23, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, renda false attestazioni, sempre che le stesse riguardino lo stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande agli strumenti urbanistici e non anche la mera intenzione del committente o la futura eventuale difformità di quest'ultima rispetto a quanto poi in concreto realizzato.

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Tale ricostruzione non è, tuttavia, condivisibile.
Secondo l'indirizzo accolto da questa Sezione della Suprema Corte, infatti, la relazione di accompagnamento alla "Dichiarazione di inizio attività" ha natura certificativa in ordine alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sugli immobili interessati dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si intendono realizzare e all'attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici e al regolamento edilizio.
Ciò in quanto l'intero procedimento della D.I.A. si fonda su un meccanismo di responsabilizzazione del privato che voglia effettuare l'intervento edilizio, volto a sostituire la sua dichiarazione ai preventivi controlli da parte dell'ente territoriale, sulla base del particolare affidamento che l'ordinamento pone sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, sì da attribuire alla D.I.A., che viene integrata da tale relazione e dalla documentazione allegata, la natura di atto fidefaciente (così Sez. 3, n. 50621 del 18/06/2014, Cazzato e altro, Rv. 261513, resa in procedimento avente identici addebiti a carico, tra gli altri, degli stessi Baglivo e Renna; Sez. 3, n. 35795 del 17/04/2012, Palotta, Rv. 253666; Sez. 3, n. 23072 del 27/04/2011, Lacorte, non massimata; Sez. 3, n. 27699 del 20/05/2010, Coppola e altro, Rv. 247927).
Ne consegue che sia la dichiarazione di inizio attività, sia la relazione tecnica e la documentazione ad essa allegate, lungi dal configurarsi come atti privati di natura e rilevanza amministrativa, hanno invece natura certificativa, sicché la loro falsificazione integra il reato di falsità ideologica in certificati di cui all'art. 481 cod. pen. (in tal senso la già citata Sez. 3, n. 50621 del 18/06/2014, Cazzato e altro, Rv. 261513; nonché Sez. 3, n. 35795 del 17/04/2012, Palotta, Rv. 253666; Sez. 3, n. 27699 del 20/05/2010, Coppola e altro, Rv. 247927; Sez. 5, n. 35615 del 14/05/2010, D'Anna, Rv. 248878; Sez. 3, n. 30401 del 23/06/2009, Zazzero, Rv. 244588; Sez. 3, n. 1818/2009 del 21/10/2008, Baldessari, Rv. 242478).
Quanto, poi, alla qualifica soggettiva di Gi.Ba., costituisce principio ormai consolidato nell'ambito della giurisprudenza di questa Corte che assuma la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità il progettista che, nella relazione iniziale di accompagnamento di cui all'art. 23, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, renda false attestazioni, sempre che le stesse riguardino lo stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande agli strumenti urbanistici e non anche la mera intenzione del committente o la futura eventuale difformità di quest'ultima rispetto a quanto poi in concreto realizzato (Sez. 3, n. 50621 del 18/06/2014, Cazzato e altro, in motivazione; Sez. 5, n. 35615 del 14/05/2010, D'Anna, Rv. 248878; Sez. 3, n. 27699 del 20/05/2010, Coppola e altro, Rv. 247927; Sez. 5, n. 7408/2010 del 11/11/2009, Frigè, Rv. 246094).
Ciò che, appunto, si è senz'altro verificato nel caso di specie.
Non pertinente, quindi, è il richiamo compiuto dalla difesa alle sentenze di questa Corte secondo cui la falsità della concessione edilizia, così come quella della autorizzazione paesaggistica, rientrerebbe nelle fattispecie previste dagli artt. 477 e 480 cod. pen. (Sez. U., n. 673 del 29/01/1997; Sez. 5, n. 40038 del 04/11/2005), versandosi in casi in cui l'atto è classificabile come "autorizzazione amministrativa".
Tali fattispecie, infatti, concernono l'ipotesi, affatto diversa, in cui la condotta di falso sia stata realizzata dal pubblico ufficiale e non, come nella specie, dall'incaricato di un servizio di pubblica necessità, al quale si riferisce, invece, proprio l'art. 481 cod. pen., correttamente configurato dai giudici di merito sulla base della contestazione formulata dal Pubblico ministero, la quale concerneva, esclusivamente, la D.I.A. e la documentazione ad essa allegata e non la successiva attività amministrativa da parte dell'Ufficio tecnico comunale.
Parimenti infondata è poi l'allegazione secondo cui la relazione allegata alla D.I.A., contenendo la previsione di un evento futuro, costituito dalla costruzione prevista dal progetto, non possa contenere la "attestazione di un dato di fatto", atteso che la contestazione riguarda, in realtà, non l'eventuale discrasia tra l'opera effettivamente realizzata e quella prevista dagli elaborati progettuali, quanto piuttosto la non corrispondenza tra lo stato dei luoghi esistente al momento della dichiarazione e la sua descrizione contenuta nella documentazione ad essa allegata.
Né è possibile qualificare tale discrasia nei termini di un mero errore tecnico di valutazione, una volta affermata la deliberata costruzione di un manufatto "posticcio" proprio al fine di giustificare il carattere asseritamente conservativo dell'intervento, sottraendolo, in questo modo, alle procedure ordinarie di rilascio dei titoli abilitativi, quali il permesso di costruire.
5.3. Le considerazioni che precedono inducono altresì ad affermare l'infondatezza delle ulteriori deduzioni difensive circa la mancanza del dolo di falso.
Infatti, i giudici di merito, una volta affermata la manifesta difformità tra la situazione di fatto e il contenuto della documentazione allegata alla D.I.A. hanno coerentemente dedotto la sussistenza del dolo, atteso che la predisposizione di una struttura "posticcia" da ritrarre nelle fotografie allegate alla dichiarazione non poteva che essere ricondotta nell'alveo di un'attività callidamente preordinata ad offrire una mendace rappresentazione dello stato dei luoghi. E ciò non soltanto da parte del responsabile tecnico dell'intervento, ma anche da parte della committenza, posto che una siffatta operazione non poteva certamente essere stata realizzata all'insaputa del proprietario del fondo e, dunque, del soggetto nel cui interesse essa era stata realizzata, 5.4.
Venendo, quindi, alle questioni sulla pena dedotte dai due imputati del delitto di cui al capo a), entrambi deducono la violazione degli art. 133 e 62-bis cod. pen., in ragione dell'eccessiva severità del trattamento sanzionatorio e del mancato riconoscimento delle "attenuanti generiche".
Sotto il primo profilo, ritiene nondimeno il Collegio che i giudici di merito si siano perfettamente attenuti all'ormai consolidato indirizzo, affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, sicché deve ritenersi inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena, la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (cfr., tra le tante, Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, Ferrano, Rv. 259142).
Al riguardo, i giudici di merito hanno mostrato di valorizzare, ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio, la "massima intensità del dolo" e la "cospicua ampiezza dell'attività edilizia in procinto di realizzarsi", con ciò mostrando di avere tenuto conto di alcuni degli indici contemplati dall'art. 133 cod. pen.; dovendo, del resto, ribadirsi il consolidato indirizzo secondo cui la specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (ciò che peraltro non è pacificamente avvenuto nel caso di specie), potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen. le espressioni del tipo "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", oppure, come appunto avvenuto nella specie, il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere degli imputati, dovendo in questi termini essere inequivocabilmente inteso il (peraltro chiarissimo) riferimento alla massima intensità del dolo e alla "cospicua ampiezza dell'attività edilizia in procinto di realizzarsi" (Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, Denaro, Rv. 245596).
Quanto, poi, alla mancata valorizzazione di alcuni elementi riferibili alla condizione soggettiva degli imputati (in specie, per Ba., lo status di "incensuratezza", la giovane età, la "occasionalità della condotta"), deve ancora una volta ribadirsi che la valutazione sulla concedibilità delle attenuanti generiche non impone che siano esaminati tutti i parametri di cui all'art. 133 cod. pen., essendo sufficiente che si specifichi a quale di esso si sia inteso fare riferimento (cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone e altri, Rv. 249163; Sez. 1, n. 33506 del 07/07/2010, P.G. in proc. Biancofiore, Rv. 247959); ciò che, nel caso in esame, è certamente avvenuto.
Infine, la circostanza che i giudici di merito abbiano ritenuto di concedere la sospensione condizionale della pena e non le circostanze attenuanti di cui all'art. 62-bis cod. pen. non configura alcuna contraddittorietà del giudizio, costituendo principio ormai consolidato che i due istituti hanno "diversi presupposti e finalità, in quanto queste ultime rispondono alla logica di un'adeguata commisurazione della pena, mentre la prima si fonda su un giudizio prognostico strutturalmente diverso da quello posto a fondamento delle attenuanti generiche" (Sez. 1, n. 6603 del 24/01/2008, P.G. in proc. Stumpo, Rv. 239131) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.10.2016 n. 42064).

EDILIZIA PRIVATA: La sistemazione di un'insegna o tabella pubblicitaria richiede il rilascio del preventivo permesso di costruire quando per le sue rilevanti dimensioni comporti mutamento territoriale; atteso che soltanto un sostanziale mutamento del territorio nel suo contesto preesistente, sia sotto il profilo urbanistico che edilizio, fa assumere rilevanza penale alla violazione del regolamento edilizio, con conseguente integrazione del reato di cui all'art. 44, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Deve osservarsi, in particolare, che
non vi è rapporto di specialità tra la disciplina sanzionatoria penale dettata in materia urbanistica e antisismica dal d.P.R. n. 380 del 2001 e quella, amministrativa pecuniaria, dettata dal decreto legislativo n. 507 del 1993, in materia di imposta comunale sulla pubblicità e pubbliche affissioni, in quanto si tratta di sanzioni poste a tutela di interessi giuridici diversi, presidiando la prima la pubblica incolumità e l'altra il controllo sulle pubbliche affissioni, in relazione al loro contenuto, alla loro natura commerciale, all'applicazione dell'imposta sulla pubblicità.
Né a tale ricostruzione vale obiettare, come fa il ricorrente, che l'art. 168 del d.lgs. n. 42 del 2004 richiama, per l'apposizione di cartelli con mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni poste a tutela del paesaggio, le stesse sanzioni amministrative previste dal codice della strada, perché
la tutela del paesaggio rappresenta un interesse diverso e ulteriore rispetto al corretto assetto del territorio e, soprattutto, alla tutela dell'incolumità pubblica nelle zone sismiche.
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3. - Il ricorso non è fondato.
3.1. — Le articolate argomentazioni poste dal ricorrente a sostegno del primo motivo di doglianza si scontrano con il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui la sistemazione di un'insegna o tabella pubblicitaria richiede il rilascio del preventivo permesso di costruire quando per le sue rilevanti dimensioni comporti mutamento territoriale; atteso che soltanto un sostanziale mutamento del territorio nel suo contesto preesistente, sia sotto il profilo urbanistico che edilizio, fa assumere rilevanza penale alla violazione del regolamento edilizio, con conseguente integrazione del reato di cui all'art. 44, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001 (sez. 3, 15.01.2004, n. 5328, rv. 227402; sez. 4, 18.01.2007, n. 6382, rv. 236104; sez. 3, 22.10.2010, n. 43249, rv. 248724).
Deve osservarsi, in particolare, che non vi è rapporto di specialità tra la disciplina sanzionatoria penale dettata in materia urbanistica e antisismica dal d.P.R. n. 380 del 2001 e quella, amministrativa pecuniaria, dettata dal decreto legislativo n. 507 del 1993, in materia di imposta comunale sulla pubblicità e pubbliche affissioni, in quanto si tratta di sanzioni poste a tutela di interessi giuridici diversi, presidiando la prima la pubblica incolumità e l'altra il controllo sulle pubbliche affissioni, in relazione al loro contenuto, alla loro natura commerciale, all'applicazione dell'imposta sulla pubblicità.
Né a tale ricostruzione vale obiettare, come fa il ricorrente, che l'art. 168 del d.lgs. n. 42 del 2004 richiama, per l'apposizione di cartelli con mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni poste a tutela del paesaggio, le stesse sanzioni amministrative previste dal codice della strada, perché la tutela del paesaggio rappresenta un interesse diverso e ulteriore rispetto al corretto assetto del territorio e, soprattutto, alla tutela dell'incolumità pubblica nelle zone sismiche (ex plurimis, Cass., sez. 3, 22.10.2010, n. 43249, rv. 248724; sez. 3, 10.04.2013, n. 39796, rv. 257677).
E tale giurisprudenza ha ampiamente superato il contrario orientamento isolatamente espresso dalla sentenza sez. 3, 03.05.2006, n. 323, richiamata dalla difesa (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2015 n. 19185).

URBANISTICA: La perdita di efficacia della concessione edilizia si collega, in via immediata e diretta, al maturare della scadenza prevista, onde il provvedimento di decadenza serve solo a certificare una situazione già verificatasi al momento in cui sono venuti in essere i presupposti stabiliti dalla legge e, come tale, è un atto vincolato a carattere meramente dichiarativo.
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2. Nel merito con il ricorso in esame si deduce che:
   - la classificazione dell’area di proprietà della ricorrente in zona F1 sarebbe immotivata ed arbitraria, posto che la ricorrente era già titolare di concessione edilizia;
   - il piano urbanistico territoriale, approvato con la legge regionale n. 35 del 1987 successivamente alla concessione edilizia, non sarebbe applicabile alla fattispecie, unitamente agli atti interpretativi ed esecutivi della richiamata normativa regionale, ivi compresa la delibera provinciale n. 6 del 22/01/1998;
   - il giudice amministrativo avrebbe riconosciuto la piena conformità del progetto edilizio agli strumenti urbanistici vigenti ed alle indicazioni del PUT; le variazioni dello strumento urbanistico successive al giudicato sarebbero inopponibili agli interessati;
   - l’entrata in vigore di un nuovo strumento urbanistico non comporterebbe decadenza delle concessioni precedentemente rilasciate;
   - la classificazione non andrebbe mutata sino alla decisione del giudice amministrativo sulle controversie pendenti;
   - mancherebbe la previsione di indennizzo per i vincoli urbanistici senza limite temporale implicanti inedificabilità;
   - mancherebbe una adeguata motivazione per giustificare il sacrificio delle legittime aspettative maturate dalla ricorrente;
   - non vi sarebbero prescrizioni della Provincia che impongano la nuova classificazione urbanistica;
   - sarebbe inconferente il riferimento al preminente interesse pubblico in relazione all’avanzato stato di attuazione del vigente piano di zona per l’edilizia economica e popolare;
   - dalle note introduttive sull’esame delle osservazioni emergerebbe una contraddittorietà nella parte in cui si evidenzia che la revisione dei parametri contenuti nella normativa adottata avrebbe portato ad un nuovo dimensionamento delle zone F1 ampiamente eccedente rispetto al reale fabbisogno; arbitrariamente il Comune avrebbe trasformato aree classificate come F1 in aree E “destinazione agricola”, omettendo di giustificare il passaggio da C7 a F1 del suolo della ricorrente;
   - vi sarebbe disparità di trattamento della posizione della ricorrente con quella dei soggetti ai cui suoli è stata sottratta la destinazione F1;
   - il rigetto delle osservazioni presentate dalla ricorrente sarebbe viziato dal rinvio a tempo indeterminato di una risposta;
   - l’eventuale accoglimento in sede giurisdizionale dell’impugnativa pendente tra le parti potrebbe risultare inutile se fosse consolidata la nuova destinazione urbanistica assegnata all’area in questione;
   - la delibera provinciale n. 6 del 1998, quale atto presupposto della delibera impugnata, sarebbe viziata nella parte in cui prospetta un dimensionamento del piano anche in relazione ai vani abusivi; inoltre la citata delibera riterrebbe inattendibile l’anagrafe edilizia predisposta dal Comune.
2.1. E’ in primo luogo da osservare che, secondo quanto eccepito dal Comune resistente, con atto n. 13723 del 09/08/2004 è stata dichiarata la decadenza dei titoli abilitativi edificatori ai quali la ricorrente fa riferimento e che l’impugnativa di tale provvedimento innanzi a questo Tribunale amministrativo è stata respinta con sentenza n. 3544 del 2005, nella quale è precisato che “non apparendo giustificabile il mancato completamento dei lavori per il periodo successivo al 03.03.1995, di gran lunga superiore a quello fissato dalla normativa di settore, la decadenza della società ricorrente dalla concessione edilizia originariamente rilasciata per silentium deve ritenersi legittimamente dichiarata”.
In relazione a quanto precede è venuto meno l’interesse della cooperativa ricorrente alle doglianze che fanno leva sulla cennata concessione edilizia, che in realtà risultava esaurita in epoca finanche anteriore agli atti in esame, posto che nella medesima sentenza sopra richiamata è precisato che “secondo un autorevole orientamento giurisprudenziale, la perdita di efficacia della concessione edilizia si collega, in via immediata e diretta, al maturare della scadenza prevista, onde il provvedimento di decadenza serve solo a certificare una situazione già verificatasi al momento in cui sono venuti in essere i presupposti stabiliti dalla legge e, come tale, è un atto vincolato a carattere meramente dichiarativo” (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 20.06.2011 n. 3250 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La delibera di adozione del PRG deve essere, eventualmente, impugnata nel termine di decadenza decorrente dalla pubblicazione degli atti prevista dalla legge.
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Le osservazioni al PRG non costituiscono uno strumento di tutela degli interessati, bensì una forma di collaborazione data dai cittadini alla formazione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore o della sua variante.
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L’amministrazione, nell'esercitare il potere pianificatorio ad essa attribuito, non è tenuta ad esternare in modo puntuale le ragioni delle proprie scelte, essendo sufficiente una ragionevole e coerente giustificazione delle linee portanti della pianificazione. Né sussiste l'obbligo di una motivazione specifica ed analitica per le singole zone innovate, salva la necessità di una congrua indicazione delle diverse esigenze che si sono dovute conciliare e la coerenza delle soluzioni proposte con i criteri tecnico-urbanistici stabiliti per la formazione del piano regolatore.
Infatti la discrezionalità insita nelle scelte pianificatorie esclude un obbligo di indicazione del pubblico interesse al mutamento della qualificazione di una zona urbanistica, rilevando a tal fine gli elementi risultanti dalla relazione illustrativa delle finalità del piano.
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2.3. Analogamente sono inammissibili le doglianze che fanno riferimento alla delibera di adozione che non viene risulta impugnata, a prescindere da ogni considerazione sulla tempestività di una siffatta impugnativa da proporre nel termine di decadenza, decorrente dalla pubblicazione degli atti prevista dalla legge (cfr. Cons. St., sez. VI, 18/08/2009, n. 4944; sez. VI, 10/02/2010, n. 663).
2.4. Riguardo all’atto impugnato, è da rilevare che le osservazioni al PRG non costituiscono uno strumento di tutela degli interessati, bensì una forma di collaborazione data dai cittadini alla formazione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore o della sua variante (cfr. Cons. St., sez. IV, 15/09/2010, n. 6911).
E’ comunque opportuno soggiungere che l’amministrazione, nell'esercitare il potere pianificatorio ad essa attribuito, non è tenuta ad esternare in modo puntuale le ragioni delle proprie scelte, essendo sufficiente una ragionevole e coerente giustificazione delle linee portanti della pianificazione. Né sussiste l'obbligo di una motivazione specifica ed analitica per le singole zone innovate, salva la necessità di una congrua indicazione delle diverse esigenze che si sono dovute conciliare e la coerenza delle soluzioni proposte con i criteri tecnico-urbanistici stabiliti per la formazione del piano regolatore (cfr. Cons. St., sez. IV, 05/01/2011, n. 24). Infatti la discrezionalità insita nelle scelte pianificatorie esclude un obbligo di indicazione del pubblico interesse al mutamento della qualificazione di una zona urbanistica, rilevando a tal fine gli elementi risultanti dalla relazione illustrativa delle finalità del piano (cfr. Cons. St., sez. IV, 18/10/2010, n. 7554) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 20.06.2011 n. 3250 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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