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AGGIORNAMENTO AL 19.05.2018 |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi, opere e costruzioni in aree protette
- Titoli abilitativi - Rilascio di tre distinti e autonomi
provvedimenti - Artt. 149, 181 d.lgs. n. 42/2004 - Artt. 3,
10, 22, 37, 44, 81, 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001.
La realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree
protette (parchi nazionali, regionali e riserve naturali) è
subordinata al rilascio di tre distinti provvedimenti,
quali il permesso di costruire, l'autorizzazione
paesaggistica e, ove previsto, il nulla osta dell'Ente parco
(con la conseguenza che questi ultimi due atti
amministrativi mantengono la loro autonomia ad ogni effetto,
ivi compreso quello sanzionatorio, anche quando siano
attribuiti dalla legge regionale ad un organo unico,
chiamato a compiere una duplice valutazione in ragione della
pluralità degli interessi presidiati dalle rispettive norme
penali e della piena autonomia, rispetto a quella
paesaggistica ed urbanistica, della normativa sulle aree
protette) (Cass. Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.05.2018 n. 20739
- link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per la realizzazione di interventi, opere e
costruzioni in aree protette (parchi nazionali, regionali e
riserve naturali) occorrono tre distinti ed autonomi
provvedimenti: il permesso di costruire,
l'autorizzazione paesaggistica e, ove previsto, il nulla
osta dell'Ente parco.
Questi ultimi due atti amministrativi possono essere
attribuiti dalla legge regionale anche ad un organo unico,
che è comunque chiamato a compiere una duplice valutazione,
mantenendo la loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso
quello sanzionatorio e ciò in considerazione della pluralità
degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali e
della piena autonomia, rispetto a quella paesaggistica ed
urbanistica, della normativa sulle aree protette, che non ha
per oggetto la sola tutela del paesaggio o del territorio,
ma quella più ampia dei valori ambientali complessivi
dell'ecosistema.
Ne consegue che possono concorrere tra loro i reati previsti
dall'art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, quello
previsto dall'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004 e quello
previsto dagli artt. 13 e 30 legge n. 394 del 1991, che
richiede il rilascio del nulla osta dell'Ente Parco per la
realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree
protette.
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3. Anche il secondo motivo è infondato.
Questa Corte ha già affermato il principio, al quale occorre
dare continuità, che per la realizzazione di interventi,
opere e costruzioni in aree protette (parchi nazionali,
regionali e riserve naturali) occorrono tre distinti ed
autonomi provvedimenti: il permesso di costruire,
l'autorizzazione paesaggistica e, ove previsto, il nulla
osta dell'Ente parco.
Questi ultimi due atti amministrativi possono essere
attribuiti dalla legge regionale anche ad un organo unico,
che è comunque chiamato a compiere una duplice valutazione,
mantenendo la loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso
quello sanzionatorio (Sez. 3, n. 20738 del 11/03/2003,
Fechino, Rv. 225298) e ciò in considerazione della pluralità
degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali e
della piena autonomia, rispetto a quella paesaggistica ed
urbanistica, della normativa sulle aree protette, che non ha
per oggetto la sola tutela del paesaggio o del territorio,
ma quella più ampia dei valori ambientali complessivi
dell'ecosistema.
Ne consegue che possono concorrere tra loro i reati previsti
dall'art.
44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, quello
previsto dall'art.
181 d.lgs. n. 42 del 2004 e quello previsto dagli
artt. 13 e 30 legge n. 394 del 1991, che richiede
il rilascio del nulla osta dell'Ente Parco per la
realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree
protette.
Il ricorrente non può certo dolersi del fatto che non gli
sia stato contestato anche il reato del quale invoca
l'applicazione in sostituzione di quello paesaggistico (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.11.2014 n. 48002 -
tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per la realizzazione di interventi, opere e
costruzioni in arie protette (parchi nazionali, regionali e
riserve naturali) occorrono tre distinti autonomi
provvedimenti: la concessione edilizia, l'autorizzazione
paesaggistica e, ove necessario, il nulla osta dell'Ente
parco.
Questi ultimi due atti amministrativi possono essere
attribuiti da legge regionale anche ad un organo unico,
chiamato a compiere la duplice valutazione. Essi, però,
mantengono la loro autonomia ad ogni arretro, ivi compreso
quello sanzionatorio.
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Il ricorso non è puntuale.
Premesso che la previsione normativa (l'esecuzione di lavori
o di modificazione ambientale in zona vincolata senza la
prescritta autorizzazione) "configura un reato formale,
la cui struttura non prevede il verificarsi di un evento di
danno" e che "ai fini della realizzazione del reato,
basta perciò che l'agente faccia un diverso uso rispetto
alla destinazione del bene protetto dal vincolo
paesaggistico, mentre non è necessario che ricorra
l'ulteriore elemento dell'avvenuta alterazione detto stato
dei luoghi" (Cass. Sez. 3° n. 7508, 12.07.1991 RV.
188986), va rilevato che la Corte di Appello ha assolto
l'obbligo della motivazione spiegando esaurientemente le
ragioni del proprio convincimento su tutti i punti rilevanti
ritenendo infondato il rilievo secondo cui l'intervento
realizzato nel terreno soggetto a vincolo paesaggistico, non
poteva integrare il reato urbanistico e quello
paesaggistico, avendo accertato, in fatto, che tale
intervento ha comportato una modifica stabile strutturale e
funzionale dell'assetto urbanistico-territoriale idoneo
anche a modificare, in modo innovativo, rilevante e
definitivo l'assetto ambientale.
Infatti la realizzazione di una pista di attraversamento del
fiume Sagone, rientrante nell'area del Parco fluviale del
Po, mediante riporto di materiale di cava con modifica delle
sponde e taglio della vegetazione, costituisce intervento
edilizio assoggettabile al regime concessorio e, nel
contempo, alterazione permanente dello stato dei luoghi che
la normativa paesaggistica mira ad evitare.
Essendo l'ambiente il bene giuridico tutelato e sussistendo
indisponibilità giuridica dei beni privati soggetti alla
relativa normativa, l'abusiva esecuzione su un manufatto di
imponenti proporzioni che ha apportato una modifica stabile,
rilevante e definitiva dell'assetto ambientale, costituisce
intervento da assoggettare al regime autorizzatorio.
Ne consegue che, attesa la diversità dei beni protetti, "per
la realizzazione di interventi, opere e costruzioni in arie
protette (parchi nazionali, regionali e riserve naturali)
occorrono tre distinti autonomi provvedimenti: la
concessione edilizia, l'autorizzazione paesaggistica e, ove
necessario, il nulla osta dell'Ente parco. Questi ultimi due
atti amministrativi possono essere attribuiti da legge
regionale anche ad un organo unico, chiamato a compiere la
duplice valutazione. Essi, però, mantengono la loro
autonomia ad ogni arretro, ivi compreso quello sanzionatorio"
(Cassazione Sez. 3° n. 12917/1998, Adorno, RV. 212189; Sez.
3° n. 9138/2000, Migliorini, RV. 217218).
Pertanto, la sentenza è congruamente motivata e sfugge alle
erronee censure dei ricorrenti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
12.05.2003 n. 20738). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Sicurezza degli impianti e responsabilità civili e penali
dei manutentori: una sentenza sulla quale riflettere.
Il comune di Genova ha recentemente inviato alle
associazioni di categoria la nota
15.03.2018 n. 93397 di prot. avente per oggetto “segnalazione
situazioni di pericolo per le persone – responsabilità
manutentori” nella quale si fa riferimento alla
sentenza 26.10.2016
n. 44968
della Corte di Cassazione, Sez. feriale penale, che
specifica l’obbligo per il manutentore che riscontri
problemi di sicurezza su un impianto di mettere “fuori
servizio” l’impianto stesso.
In pratica, si segnala che
una semplice “diffida”
del manutentore al proprietario dell’impianto affinché non
lo utilizzi in quanto pericoloso non costituisce quella ”messa
fuori servizio” dell’impianto stesso che deve essere
effettuata dal tecnico abilitato che ha riscontrato la non
idoneità dell’impianto a funzionare.
Secondo la Corte di Cassazione, infatti, la giurisprudenza
di legittimità ha stabilito che "quando l'obbligo di
impedire l'evento ricade su più persone che debbano
intervenire o intervengano in tempi diversi, il nesso di
causalità tra la condotta omissiva o commissiva del titolare
di una posizione di garanzia (il Responsabile Tecnico
dell’impresa di manutenzione abilitata ai sensi del DM
37/2008) non viene meno per effetto del successivo mancato
intervento da parte di un altro soggetto, parimenti
destinatario dell'obbligo di impedire l'evento,
configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai
sensi dell'articolo 41, comma primo, C.P.”.
La mancata eliminazione, a parere della Corte, “di una
situazione di pericolo (derivante da fatto commissivo od
omissivo dell'agente), ad opera di terzi, non è una distinta
causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare
l'evento, ma una causa/condizione negativa grazie alla quale
la prima continua ad essere efficace”.
In pratica, la sentenza afferma che “non è sufficiente
che il successivo garante, o uno dei successivi (il
manutentore/installatore), intervenga, ma è indispensabile
che, intervenendo, sollecitato o meno dal precedente garante
(il proprietario/conduttore dell’impianto), rimuova
effettivamente la fonte di pericolo dovuta alla condotta
(azione od omissione) di quest'ultimo, con la conseguenza
che, ove l'intervento risulti incompleto, insufficiente,
tale da non rimuovere quella fonte, il precedente garante,
qualora si verifichi l'evento, anche a causa del mancato
rispetto, da parte sua, di quelle norme precauzionali, non
può non risponderne”.
Ed a nulla valgono i rilievi circa il fatto che la “messa
fuori servizio” dell’impianto avrebbe comportato un
intervento su parti dell’impianto di proprietà esclusiva del
conduttore/proprietario dell’appartamento nel quale è
installato l’impianto stesso.
Nel dispositivo della sentenza viene infatti giudicata
infondata l’interpretazione, avanzata dalla difesa
dell’imputato (una ditta manutentrice) circa una eventuale “erronea
applicazione dell'art. 40 c.p. per la mancanza di fonte
giuridica dei poteri autoritativi connessi alla messa fuori
servizio dell'impianto, i quali dovrebbero essere
individuati (sempre secondo la difesa dell’imputato) in capo
ad un soggetto pubblico, piuttosto che al tecnico
manutentore”. Secondo la Corte, infatti, la "messa
fuori servizio dell'apparecchio doveva essere effettuata dal
tecnico che riscontrasse l'inidoneità, che avrebbe dovuto
anche diffidare il proprietario dell'impianto
dall'utilizzarlo ed indicare le prescrizioni necessarie per
la messa a norma dello stesso”.
Nel rigettare quindi il ricorso dell’imputato, la Corte di
Cassazione sottolinea che i doveri gravanti sul manutentore
sono stati adeguatamente motivati nella sentenza della Corte
d’Appello avverso la quale l’imputato era ricorso in
Cassazione, motivazioni che avevano evidenziato “sia gli
aspetti di colpa specifica, connessa all'obbligo del tecnico
di chiudere l'impianto controllato, nel caso di inidoneità
funzionale ovvero, come nel caso di specie, logistica, ossia
di situazione ‘pericolosa per la sicurezza delle persone,
degli animali domestici e dei beni’ (…) ed anche sia i
profili di colpa generica, ossia l'imperizia ed anche la
negligenza, ascrivibili all'imputato”.
Questa sentenza pone indubbiamente seri interrogativi circa
il comportamento che il tecnico deve adottare nel caso in
cui, nel corso delle operazioni di controllo e manutenzione,
rilevi situazioni tali da costituire un oggettivo pericolo
nell’utilizzo normale dell’impianto. Per evitare problemi,
pertanto, il tecnico manutentore dovrà attenersi a
determinate regole di condotta e ad adottare provvedimenti
tali da rendere evidente una riapertura non autorizzata
dell’erogazione del gas.
In pratica, ed è questo il comportamento che come CNA
Installazione Impianti consigliamo, per salvaguardarsi da
eventuali contestazioni, il manutentore dovrà eseguire le
seguenti operazioni:
1. mettere fuori servizio l’impianto;
2. diffidare per iscritto l’occupante (il responsabile)
dall’utilizzo dell’impianto;
3. indicare le operazioni necessarie per il ripristino delle
condizioni di sicurezza (03.05.2018 - tratto da e
link a www.cna.it).
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MASSIMA
1. I ricorsi sono infondati.
Va premesso che i vizi della motivazione dedotti attengono
principalmente a censure afferenti l'impianto della
motivazione nella quale i giudici di merito hanno espresso
la valutazione di dati probatori, con argomentazioni
esaustive, congrue e privi di smagliature logiche o
contraddittorietà rilevabili.
E' principio consolidato che in tema di sindacato della
motivazione il compito del giudice di legittimità, che non
deve certo sovrapporre la propria valutazione a quella
compiuta dai giudici di merito, è esclusivamente quello di
stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli
elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una
corretta interpretazione di essi, dando completa e
convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se
abbiano esattamente applicato le regole della logica nello
sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la
scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
2. In relazione alla specifica posizione di Del Zo., va
evidenziato che la Corte di appello ha fatto corretta
applicazione dei principi affermati in giurisprudenza in
tema di pluralità di posizioni di garanzia e non
contestualità delle condotte. Tale tematica è contenuta sia
nella doglianza proposta dal difensore dell'imputato che nei
motivi nn. 2, 3 e 4, del responsabile civile, relative
specificamente all'asserita interruzione del nesso causale a
seguito dell'esistenza di decorsi causali alternativi e
delle concorrenti responsabilità o della stessa vittima o di
altri soggetti (il Comune di Brindisi e la concessionaria
Energeko Gas Italia).
3. La giurisprudenza di legittimità ha infatti stabilito che
"quando l'obbligo di impedire l'evento
ricade su più persone che debbano intervenire o intervengano
in tempi diversi, il nesso di causalità tra la condotta
omissiva o commissiva del titolare di una posizione di
garanzia non viene meno per effetto del successivo mancato
intervento da parte di un altro soggetto, parimenti
destinatario dell'obbligo di impedire l'evento,
configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai
sensi dell'articolo 41, comma primo, cod. pen.. In questa
ipotesi, la mancata eliminazione di una situazione di
pericolo (derivante da fatto commissivo od omissivo
dell'agente), ad opera di terzi, non è una distinta causa
sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento, ma
una causa/condizione negativa grazie alla quale la prima
continua ad essere efficace (affermazione resa nell'ambito
di un procedimento penale per i reati di omicidio colposo e
di lesioni personali colpose provocati dal malfunzionamento
di una caldaia installata in un appartamento, addebitato
alla condotta colposa di colui che aveva rilasciato
erroneamente la dichiarazione di idoneità dell'impianto e di
coloro che avevano eseguito in modo analogamente erroneo
alcuni lavori di manutenzione che non avevano rimosso la
condizione di pericolo derivante dalle condizioni
dell'impianto)"
(in tal senso, Sez. 4, n. 43078 del 28/04/2005, Poli ed
altri, Rv. 232416)
4. Tale principio ha trovato applicazione anche in una
fattispecie similare a quella oggetto del presente giudizio:
Sez. 4, n. 37992 del 11/07/2012, De Angelis, Rv. 254368 e
prende le mosse dall'importante arresto (Sez. 4, n.
4793/1991 del 06/12/1990, estensore Battisti, Rv. 191805, che
stabilì: "In tema di responsabilità per
un evento che si aveva obbligo di evitare, per escludere,
nel caso di successione di garanti, la responsabilità di uno
dei precedenti garanti, che abbia violato determinate norme
precauzionali, non è sufficiente che il successivo garante,
o uno dei successivi, intervenga, ma è indispensabile che,
intervenendo, sollecitato o meno dal precedente garante,
rimuova effettivamente la fonte di pericolo dovuta alla
condotta (azione od omissione) di quest'ultimo, con la
conseguenza che, ove l'intervento risulti incompleto,
insufficiente, tale da non rimuovere quella fonte, il
precedente garante, qualora si verifichi l'evento, anche a
causa del mancato rispetto, da parte sua, di quelle norme
precauzionali, non può non risponderne (ciò è una
conseguenza logica dei principi in tema di prevedibilità ed
evitabilità dell'evento, in tema di dorninabilità della
fonte di pericolo e in tema di affidamento)".
5. In riferimento alla condotta più risalente nel tempo,
rispetto all'evento lesivo, la recente giurisprudenza ha
ribadito che il nesso di causalità tra la
condotta omissiva del titolare della posizione di garanzia,
tenuto per primo ad intervenire, non viene meno per effetto
del mancato intervento da parte di altro garante, "sempre
che la posizione di pericolo non si sia modificata, per
effetto del tempo trascorso o di un comportamento del
secondo garante, in modo tale da escludere la
riconducibilità al primo garante della nuova situazione
creatasi"
(così Sez. 4, n. 1194/2014 del 15/11/2013, Braidotti e
altro, Rv. 258232).
6. Orbene la Corte di appello ha considerato irrilevante il
tempo trascorso tra la condotta riferibile al ricorrente e
l'evento, proprio in applicazione dei summenzionati
principi, in quanto la mancata eliminazione della situazione
di pericolo da parte degli altri tecnici che ebbero ad
effettuare le manutenzioni successive a quelle poste in
essere dal Del Zo. non aveva costituito una causa
sopravvenuta, da sola sufficiente a cagionare l'evento
mortale.
Ciò ha desunto valutando gli elementi di prova acquisiti e
quindi verificando la mancanza di elementi ulteriori che
rendessero plausibile ipotizzare decorsi causali alternativi
od elementi di fatto idonei a considerare interrotto il
nesso causale, posto che dalla perizia era risultato
confermato che la propagazione di monossido di carbonio
all'interno dell'appartamento era stata provocata
dall'errata collocazione della caldaia di quella tipologia
(B) in un locale interno all'appartamento, mentre aveva
influito solo in minima parte il cattivo funzionamento della
canna fumaria.
7. Tale ultimo elemento di fatto e le mancate eliminazioni
della situazione di pericolo da parte dei successivi tecnici
o dello stesso Pl. o da parte degli enti di controllo non
avevano costituito perciò -come coerentemente argomentato
nella parte motiva dell'impugnata sentenza- altrettante
distinte cause sopravvenute, idonee da sole a cagionare
l'evento, ma mere condizioni negative, grazie alle quali
ogni singola condotta, posta in essere autonomamente ed in
violazione delle norme cautelari di riferimento, aveva
continuato ad essere efficace.
8. Infatti, a risposta della eventuale responsabilità del
Pl., adombrata nel ricorso del responsabile civile,
discendente dal fatto di avere disposto l'installazione
della caldaia da esterno nell'appartamento (luogo non idoneo
per quel tipo di caldaia) e per averla ivi mantenuta, va
richiamato l'orientamento dì questa Corte che ha ritenuto
che la condotta imprudente delle vittime non costituisca
fatto eccezionale ed atipico idoneo ad interrompere il nesso
di causalità (a tale proposito cfr. Sez. 4, n. 37992 del
11/07/2012, De Angelis, Rv. 254368).
Inoltre l'incidenza nel decorso causale dell'evento
dell'asserita otturazione della canna fumaria (dovendosi
prescindere dalla riferibilità o meno alla stessa vittima
dell'intervento volto a limitare le infiltrazioni di aria
dall'esterno) è stata esclusa dalla Corte di merito con un
percorso argomentativo immune da vizi logici e, come si è
detto, insindacabile in questa sede.
8. Parimenti infondata anche la censura sollevata nella
prima parte del ricorso di Del Zo., di contenuto
sostanzialmente analogo alle doglianze del primo motivo
proposto dal responsabile civile Di To. Do., con cui si è
lamentata l'erronea applicazione dell'art. 40 c.p. per la
mancanza di fonte giuridica dei poteri autoritativi connessi
alla messa fuori servizio dell'impianto, i quali dovrebbero
essere individuati in capo ad un soggetto pubblico,
piuttosto che al tecnico manutentore nonostante le
indicazioni del modello di controllo delle caldaie contenuto
nell'allegato al D.P.R. n. 412 del 1993, modello poi
riprodotto e sviluppato nell'allegato G del d.lgs n. 192 del
2005.
9. Va infatti osservato dall'analisi della menzionata fonte
normativa (D.P.R. 26.08.1993, n. 412, Regolamento recante
norme per la progettazione, l'installazione, l'esercizio e
la manutenzione degli impianti termici degli edifici ai fini
del contenimento dei consumi di energia, in attuazione
dell'art. 4, comma 4, della legge 09.01.1991, n. 10, vigente
al momento dei due accessi di Del Zo.), emerge che
l'allegato H contiene non solo il modulo relativo al "Rapporto
di controllo tecnico" (obbligatorio in forza dell'art.
11), ove è prevista un'apposita sezione relativa alle
Prescrizioni, ma anche la guida alla compilazione delle
stesse specifiche sezioni, ove al punto 6 è indicato: "Nello
spazio PRESCRIZIONI il tecnico, avendo riscontrato e non
eliminato carenze tali da compromettere la sicurezza di
funzionamento dell'impianto, dopo aver messo fuori servizio
l'apparecchio e diffidato l'occupante dal suo utilizzo,
indica le operazioni necessarie per il ripristino delle
condizioni di sicurezza".
La dizione utilizzata evidenzia che la "messa fuori
servizio" dell'apparecchio doveva essere effettuata dal
tecnico che riscontrasse l'inidoneità, che avrebbe dovuto
anche diffidare il proprietario dell'impianto
dall'utilizzarlo ed indicare le prescrizioni necessarie per
la messa a norma dello stesso.
10. L'analisi dei predetti doveri, gravanti sul tecnico
manutentore, è stata svolta nella parte motiva della
sentenza di appello che ha affermato la penale
responsabilità con una tenuta argomentativa immune da
censure (pp. 11 e 12): sono stati evidenziati sia gli
aspetti di colpa specifica, connessa all'obbligo del tecnico
di chiudere l'impianto controllato, nel caso di inidoneità
funzionale ovvero, come nel caso di specie, logistica, ossia
di situazione "pericolosa per la sicurezza delle persone,
degli animali domestici e dei beni" (secondo quanto
previsto nel modulo H) ed anche sia i profili di colpa
generica, ossia l'imperizia ed anche la negligenza,
ascrivibili all'imputato.
----------------
Si legga, al riguardo, anche:
●
Impianti termici - Vademecum CNA Installazione Impianti
sulla periodicità della manutenzione degli impianti ad uso
civile (Confederazione
Nazionale dell'Artigianato e della Piccola e Media Impresa,
08.05.2018);
●
Sicurezza degli impianti e responsabilità civili e penali
dei manutentori (Confederazione Nazionale
dell'Artigianato e della Piccola e Media Impresa, maggio
2018);
● Caldaia difettosa, in caso di decesso del proprietario il
tecnico negligente risponde di omicidio colposo.
Cassazione: la messa fuori servizio
dell'apparecchio deve essere effettuata dal tecnico che
riscontra l'inidoneità, il quale deve anche diffidare il
proprietario dell'impianto dall'utilizzarlo e indicare le
prescrizioni necessarie per la messa a norma (14.11.2016
- link a www.casaeclima.com).
---------------
Con la
sentenza 26.10.2016
n. 44968,
la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di un tecnico
contro la condanna alla pena di 6 mesi di reclusione per
omicidio colposo, per aver causato la morte del proprietario
di un immobile dovuta a delle omissioni nella certificazione
delle carenze funzionali della caldaia. (...continua). |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: L’ordine
illegittimo va eseguito. Cassazione. Il dipendente a sua difesa può
richiedere l’intervento del giudice del lavoro anche in forma urgente. I
giudici estendono alla pubblica amministrazione le regole del settore
privato.
Il dipendente pubblico non può rifiutarsi, di regola, di eseguire un ordine
di servizio illegittimo invocando una eccezione di inadempimento del datore
di lavoro.
Con la
sentenza 19.04.2018 n. 9736, la
Corte di Cassazione -Sez. lavoro- si esprime in modo netto sull’estensione alla pubblica
amministrazione del principio che la giurisprudenza ha elaborato con
riferimento ai rapporti di lavoro privato.
Quindi, anche, per i dipendenti pubblici vige il limite per cui, a fronte di
ordini di servizio o direttive che possono determinare pregiudizio ai
diritti del lavoratore, quali l’assegnazione di mansioni dequalificanti, la
facoltà di rifiutare l’adempimento della prestazione richiesta si produce
unicamente nel caso in cui l’inadempimento del datore di lavoro sia totale.
In ogni altro caso, così come per i rapporti di lavoro privato, i pubblici
dipendenti che ricevano disposizioni di servizio foriere di arrecare
pregiudizio alla loro professionalità o ad altro diritto riconnesso al
contratto di lavoro sono comunque tenuti ad adempiere all’ordine ricevuto.
Aggiunge la Cassazione che resta salvo il diritto per i lavoratori del
pubblico impiego, non diversamente da quanto avviene per quelli del settore
privato, di richiedere l’intervento del giudice del lavoro, anche in via
d’urgenza, affinché venga rilevato il carattere illecito delle direttive
datoriali e disposta la rimozione dei loro effetti.
Il caso esaminato dalla Suprema corte è relativo al licenziamento del
comandante di un corpo di polizia municipale, nei cui confronti sono state
promosse alcune azioni disciplinari, l’ultima delle quali sfociata nel
provvedimento espulsivo, in quanto sono stati disattesi gli ordini di
servizio impartiti dal segretario comunale. Il comandante ha impugnato il
licenziamento sul presupposto, tra l’altro, che gli ordini di servizio
avevano connotazione illegittima e che, pertanto, ad essi non doveva essere
data esecuzione.
La Corte d’appello di Roma ha accolto la tesi della dipendente comunale,
concludendo che la mancata osservanza delle disposizioni di servizio
adottate dal segretario comunale eccedendo il proprio campo di competenze
non costituisse inadempimento sanzionabile.
La Corte di cassazione rigetta questa lettura e afferma che anche i
dipendenti pubblici -in applicazione dell’articolo 2, comma 2, del Testo
unico del pubblico impiego, a norma del quale ai rapporti di lavoro dei
dipendenti della Pa si applicano (salve espresse eccezioni) le leggi sui
rapporti di lavoro privato- devono conformarsi alle disposizioni di
servizio illegittime, senza poter invocare il principio della eccezione di
inadempimento al di fuori dei casi più estremi in cui risulti richiesto di
porre in essere fatti costituenti reato, ovvero azioni contrarie ai doveri
di diligenza e fedeltà nei confronti della pubblica amministrazione.
Inoltre la lavoratrice aveva dedotto l’invalidità del licenziamento per
essere stato comminato nel periodo di interdizione conseguente a matrimonio.
La Corte d’appello ha accolto anche questa prospettazione, dichiarando la
nullità del licenziamento sul presupposto che esso è intervenuto dopo le
pubblicazioni e prima del decorso di un anno dopo le nozze.
La Corte di cassazione riforma la sentenza anche sotto questo profilo,
osservando che la presunzione di riconducibilità del licenziamento a “causa
di matrimonio” non opera se a fondamento del provvedimento espulsivo sia
posta una contestazione degli addebiti avviata prima del periodo di
interdizione.
In altri termini, se il procedimento disciplinare è iniziato prima della
richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, la circostanza che il
licenziamento sia stato intimato durante il periodo di interdizione non
esprime effetti sulla validità della iniziativa espulsiva, in quanto è da
escludere che la volontà del datore possa essere ricondotta a una condizione
(il matrimonio della dipendente) che ancora non era conosciuta
(articolo Il Sole 24 Ore 20.04.2018).
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FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 1748/2016 la Corte di appello di Roma ha dichiarato la
nullità del licenziamento intimato dal Comune di Sperlonga alla dipendente
Ci.Pa..
2. Secondo la ricostruzione dei fatti contenuta in tale sentenza, Ci.Pa.
aveva adito il Giudice del lavoro presso il Tribunale di Latina e, premesso
di avere svolto funzioni di Comandante della Polizia Municipale del Comune
di Sperlonga dal 10.06.2000, aveva dedotto che a partire dal maggio 2003 il
Sindaco e il Segretario Comunale (quest'ultimo anche con le funzioni di
Dirigente Generale, Responsabile della Polizia municipale e preposto
all'Ufficio dei procedimenti disciplinari) avevano iniziato a tenere nei
suoi confronti atteggiamenti vessatori costituenti "mobbing",
attraverso l'imposizione di ordini professionalmente dequalificanti e la
privazione di funzioni istituzionali, fino al licenziamento irrogato per
mancata ottemperanza agli ordini del superiore ed assenze ingiustificate dal
servizio.
2.1. La ricorrente aveva esposto che, non essendosi uniformata alle
direttive del Sindaco, in data 14.11.2003 aveva ricevuto la sanzione
disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per n. 5
giorni e in data 31.03.2004 la medesima sanzione per n. 10 giorni, fino ad
arrivare al licenziamento del 05.05.2004 preceduto da due contestazioni.
Tutto ciò premesso, aveva dedotto l'illegittimità delle sanzioni
conservative e del licenziamento per mancata affissione del codice
disciplinare e del solo licenziamento perché intervenuto tra la richiesta
delle pubblicazioni di matrimonio ed un anno dopo la celebrazione dello
stesso, in violazione degli artt. 1 e segg. L. n. 7/1963, nonché per
infondatezza degli addebiti, per insussistenza del giustificato motivo
soggettivo, per inesistenza di un inadempimento sanzionabile e per
violazione del principio di terzietà (il Segretario Comunale era anche
responsabile del procedimento disciplinare).
2.2. Il Tribunale adito aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, con
conseguente diritto della ricorrente alla reintegrazione nel posto di
lavoro, mentre aveva dichiarato non esservi luogo a provvedere sulle
rimanenti domande, da intendersi rinunciate ex art. 75, comma 1 c.p.p. per
avvenuta costituzione di parte civile della Ciccarelli nel giudizio penale
(per abuso di ufficio e falso) a carico del Sindaco, del Segretario Comunale
e di altri soggetti a vario titolo coinvolti nei fatti descritti.
2.3. Il Giudice di primo grado aveva osservato che, alla stregua del
Regolamento della Polizia
Municipale di Sperlonga, al Comandante del Corpo di Polizia Municipale erano
demandate
funzioni di responsabilità del servizio e che quindi la Ciccarelli aveva
tutti i poteri di gestione ed
organizzazione del lavoro dei vigili urbani, mentre al Segretario Comunale,
per lo stesso
Regolamento, era demandata la sovrintendenza allo svolgimento dei compiti
affidati al Corpo.
Aveva dunque affermato che il Comandante organizza e gestisce il Corpo di
Polizia Municipale mentre il Segretario comunale impartisce al predetto
Comandante le direttive di ordine
generale. Sulla scorta di tale premesse, aveva ritenuto che le condotte
contestate, relative alla
mancata osservanza dei servizi programmati dal Segretario comunale, non
integrassero
condotte idonee a giustificare la sanzione espulsiva: l'attribuzione dei
poteri che alla Ci.
derivavano dal Regolamento escludeva di poter dare rilevanza, ai fini del
giudizio di
proporzionalità, al "turbamento della regolarità del servizio e alla
confusione per la
sovrapposizione degli ordini", ragioni poste alla base del recesso.
2.4. Tale sentenza era stata impugnata da entrambe le parti. La Ci.
aveva censurato la
dichiarazione di estinzione del giudizio con riferimento alle domande
risarcitorie. Il Comune di
Sperlonga aveva censurato la sentenza nella parte relativa alla declaratoria
di illegittimità del
licenziamento.
3. La Corte di appello di Roma, rigettato l'appello proposto dalla
Ci., in parziale riforma
della sentenza impugnata, confermata nel resto, ha dichiarato la nullità del
licenziamento in
luogo della declaratoria di illegittimità di cui la sentenza impugnata.
3.1. Ha reputato preliminare ed assorbente rispetto all'esame dei motivi di
appello l'eccezione mossa dalla Ciccarelli con il ricorso di primo grado
riguardante la nullità del licenziamento intimato dopo la richiesta di
pubblicazioni civili del matrimonio, sulla quale il Tribunale non si era
pronunciato per implicito assorbimento della questione. Ha osservato, in
sintesi, quanto segue:
- il 26.04.2004 era pervenuta al Comune di Sperlonga la richiesta
delle pubblicazioni del
matrimonio (poi effettivamente celebrato in data in data 14.06.2004) per cui
il licenziamento
intervenuto il 05.05.2004 doveva ritenersi intimato a causa di
matrimonio, in virtù della
presunzione di cui all'art. 1, commi 1 e 2, L. n. 7/1963;
- a fronte di ciò, spettava alla parte datoriale fornire la prova
contraria, onde vincere la
suddetta presunzione; incombeva dunque al Comune di Sperlonga provare che il
licenziamento, seppure intervenuto nel periodo in cui opera il divieto, era
stato legittimamente
intimato perché sorretto da motivo legittimo diverso dal matrimonio, ossia
per giusta causa ex
art. 3 lett. a) L. n. 860/1950, pena la nullità dei licenziamento medesimo;
- parte datoriale aveva dedotto di essersi determinata al recesso
per reprimere i gravi atti di
insubordinazione della Ci., che non si era uniformata alle direttive
del Segretario
Comunale e di avere intimato legittimamente la sanzione espulsiva ai sensi
del contratto
collettivo in esito alla precedente doppia recidiva;
- tuttavia, non era stata provata in giudizio la colpa grave che
integra giusta causa di
licenziamento, non avendo il Comune fornito la rigorosa prova richiesta per
superamento la
presunzione a suo carico;
- la mancata osservanza degli ordini, anche comportanti le assenze
della Ciccarelli nei giorni
degli orari programmati dal Segretario comunale, era giustificata dal fatto
che si trattava di
ordini illegittimi, poiché basati su un potere estraneo a quello proprio del
Responsabile del
Servizio di Polizia Municipale e tanto poteva desumersi dalle norme del
nuovo Regolamento del
1998 che delineava i compiti e le attribuzioni del Responsabile del Servizio
(nella specie, del
Segretario comunale) come direttive di massima da impartire al Comandante,
il quale invece
esercita il potere esecutivo, gestionale ed organizzativo del relativo
Corpo;
- ai sensi del Regolamento di Polizia Municipale del 1995, il Corpo
di Polizia Municipale dipende
direttamente dal Sindaco o dall'assessore delegato, che impartiscono ordini
e direttive tramite
il Comandante del Corpo, responsabile del servizio; quest'ultimo provvede
all'organizzazione e
alla direzione tecnico operativa degli appartenenti al corpo/servizio,
all'impiego tecnico
operativo del personale dipendente, all'assegnazione alle unità, ai reparti
e ai servizi speciali,
all'esercizio del potere ispettivo, alla predisposizione dei turni, tutte
competenze sulle quali si
era attestato io "scontro" tra le divergenti determinazioni del Comandante,
da un lato, e del
Segretario Comunale, dall'altro;
- tali attribuzioni del Comandante del Corpo non erano venute meno
per il fatto che il Segretario comunale era stato designato titolare delle
funzioni di Responsabile del Servizio di Polizia; difatti, la nuova
regolamentazione comunale (Regolamento dell'Ordinamento generale degli
uffici e dei servizi, deliberato dalla Giunta nel 1998) prevede che i
responsabili degli uffici e dei servizi abbiano la responsabilità del
"generale andamento degli uffici cui sono preposti" (art. 7, co. 3), nonché
della "gestione delle risorse economiche, di personale e strumentali ad
essi assegnate, ciò per "dare effettiva attuazione agli obiettivi contenuti
del programma amministrativo" (art. 7, co. 5); essi adottano "in via
generale" gli atti conclusivi del procedimento amministrativo delle
determinazioni adesso correlate (art. 7, co. 4); trattasi di prerogative di
ordine generale programmatico, che nulla hanno a che vedere con la gestione
del personale, la sua organizzazione sul territorio, la predisposizione dei
turni e degli orari giornalieri di lavoro e in genere delle migliori
modalità operative dell'attività di Polizia.
3.2. In conclusione, la Corte distrettuale ha ritenuto che tutte le mancanze
poste a base del
licenziamento e dei precedenti provvedimenti disciplinari, ivi comprese le
assenze dal servizio,
risultavano collegate alla inosservanza delle disposizioni provenienti dal
Segretario Comunale
in contrasto con quelle provenienti dalla stessa Ciccarelli nell'esercizio
dei poteri direttivi ed
organizzativi di Comandante del Corpo, cosicché la mancata osservanza di
quei disposizioni
non costituisce inadempimento; né il Comune aveva dimostrato (e nemmeno
allegato) le
ragioni per le quali aveva proceduto, nei confronti della ricorrente, alla
dedotta privazione dei
poteri.
4. Per la cassazione di tale sentenza il Comune di Sperlonga ha proposto
ricorso affidato a sei motivi. Ha resistito con controricorso la Ci..
Entrambe le parti ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
In particolare,
la difesa della Ci. ha eccepito la nullità/inesistenza della procura
rilasciata dal Sindaco di Sperlonga, quale legale rappresentante del Comune,
per carenza della delibera autorizzatoria della Giunta comunale a proporre
impugnazione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
...
2. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione di legge e omesso
esame di fatti decisivi per il giudizio e precisamente:
a) sussistenza di provvedimenti disciplinari n. 20836 del
14.11.2003 e n. 5905 del 31.03.2004, antecedenti anche alla richiesta di
pubblicazione di matrimonio del 26.04.2004, e costituenti presupposto
essenziale del provvedimento di recesso, alla luce dell'art. 25 CCNL del
10.04.1999, in ragione della recidiva biennale;
b) avvio del procedimento disciplinare con nota prot. n. 8031 del
07.01.2004 (tre mesi prima della richiesta di pubblicazioni di matrimonio) e
rinvii del procedimento per l'audizione a difesa (la cui prima convocazione
era stata fissata per il 29.03.2004) richiesti dalla stessa Ciccarelli e
tali da comportare il differimento del procedimento fino alla data del
05.05.2004.
Si rileva che, ove tali fatti decisivi fossero stati considerati, la Corte
d'appello avrebbe dovuto ritenere superata la presunzione iuris tantum
di cui all'art. 1, comma 3, L. n. 7/1963.
3. Il secondo motivo denuncia violazione di legge in relazione agli
artt, 2086 c.c. e 2094 c.c., art. 2, comma 2, e art. 5 d.lgs. 165/2001,
artt. 6 e 7 Regolamento dell'Ordinamento generale degli Uffici e dei Servizi
del Comune di Sperlonga (adottato con delibera della G.M. n. 41/1998),
nonché del generale principio in base al quale il lavoratore dipendente che
non condivida gli ordini e le direttive impartite dal suo superiore o dal
datore di lavoro non ha il diritto né la facoltà di disattenderli
autonomamente, disponendo invece della mera facoltà di esperire rimedi
giurisdizionali, anche cautelari, apprestati dall'ordinamento per
l'accertamento dell'eventuale illegittimità degli ordini e/o delle direttive
e per il ripristino della legalità eventualmente violata. Violazione di
legge in relazione all'art. 51 c.p. e dei principi affermati, in
applicazione analogica di tale norma, dalla giurisprudenza del lavoro,
secondo cui l'ordine illegittimo che il lavoratore ha diritto di
disattendere è solo quello con cui venga richiesto di commettere un
illecito, ovvero di porre in essere una condotta contraria ai doveri di
fedeltà e diligenza verso la parte datoriale.
Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1, co. 5, L. n. 7/1963 e norme
correlate ai principi generali in tema di "colpa grave" della
lavoratrice, idonea a superare la presunzione di licenziamento a causa di
matrimonio.
3.1. Si assume che nella premessa del provvedimento licenziamento prot. n.
8031 del 05.05.2004 era stato ascritto alla dipendente di non avere
ottemperato a specifici ordini di servizio e di avere in tal modo creato un
grave disservizio e precisamente, con la contestazione del 07.01.2004, di
non avere svolto, secondo quanto disposto la programmazione settimanale, il
servizio esterno di controllo del traffico dalle ore 8,00 alle ore 11,00,
come richiesto anche in attuazione delle disposizioni impartite alla
prefettura di Latina, e di essere stata ingiustificatamente assente dal
servizio nei giorni 25, 26 e 27.12.2003; con la contestazione del
19.01.2004, di non avere svolto in data 30.12.2003 il turno di servizio
programmato dalle 15,00 alle 21,00; di essere stata ingiustificatamente
assente dal servizio il giorno 10.01.2004 e di non avere svolto in data
07.01.2004 il servizio dalle ore 15,00 alle ore 21,00 come programmato,
bensì arbitrariamente di avere prestato servizio dalle ore 8,00 alle ore 14.
3.2. Si deduce altresì con il secondo motivo che la dipendente non solo non
aveva osservato gli obblighi nascenti dagli ordini di servizio impartiti dal
Responsabile del Servizio, ma aveva addirittura emesso specifici ordini di
servizio, anche all'indirizzo degli altri componenti della Polizia
municipale, contrastanti con quelli del Responsabile del Servizio, in tal
modo cagionando grave confusione nei destinatari degli ordini, come
confermato dai testi in sede istruttoria.
4. Il terzo motivo denuncia violazione di legge ed omesso esame dei
seguenti fatti decisivi per il giudizio:
a) inesistenza di un vero e proprio Corpo di Polizia Municipale per
difetto dei presupposti previsti dal Regolamento del 1995 (numero di addetti
pari o superiore a n. 7 unità) e quindi difetto in capo alla ricorrente
della posizione di Comandante del Corpo e conseguente legittimo affidamento
della responsabilità del servizio di polizia municipale ad un soggetto
diverso;
b) in ogni caso, piena legittimità degli ordini di servizio emessi
dal Segretario comunale, essendo chiara, nel Regolamento del 1998 vigente al
tempo dei fatti, l'attribuzione al Responsabile del Servizio di compiti
gestionali e tenuto conto che la sopravvenienza del nuovo Regolamento aveva
comportato l'abrogazione di ogni precedente, incompatibile disposizione.
Si rileva che l'art. 7 del nuovo Regolamento espressamente dispone che i
Responsabili dei servizi e degli uffici sono direttamente responsabili
dell'andamento degli uffici cui sono preposti e della gestione delle risorse
economiche, di personale e strumentali assegnati e curano l'organizzazione
degli uffici e dei servizi nell'ambito delle direttive e degli indirizzi
politici espressi dagli organi di governo, assumendo i necessari atti di
gestione.
...
8. Meritano accoglimento i primi tre motivi, da esaminare
congiuntamente in quanto interconnessi, mentre il quarto (vertente sul vizio
di omessa pronuncia) è inammissibile per difetto di autosufficienza e i
restanti (vertenti sui motivi di appello non esaminati dalla Corte di
appello) sono inammissibili in quanto relativi a questioni rimaste assorbite
nella soluzione accolta dal giudice di appello e suscettibili di
riproposizione in sede di rinvio.
9. La L. n. 7 del 1963, art. 1, dispone "...del pari nulli sono i
licenziamenti attuati a causa del matrimonio" specificando al comma 3, "si
presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal
giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio .... a un anno dopo
la celebrazione., sia stato disposto per causa di matrimonio".
Il termine "disposto" allude ad una decisione della parte datoriale
che sia maturata ed adottata nell'arco temporale indicato per legge (cfr.
Cass. n. 27055 del 2013). Tale presupposto tuttavia -ad avviso del Collegio-
non può ravvisarsi laddove si verta in un'ipotesi di procedimento
disciplinare già avviato anteriormente alla data della richiesta di
pubblicazioni di matrimonio; in tale caso, non può presumersi la
riconducibilità della volontà datoriale alla "causa di matrimonio",
non essendo i relativi presupposti neppure venuti ad esistenza alla data in
cui è stata esercitata l'azione disciplinare.
Non è ravvisabile, in radice, alcun nesso logico né giuridico tra la volontà
datoriale di avviare e dare corso ad un procedimento disciplinare e la
richiesta di pubblicazioni di matrimonio che intervenga nel corso di tale
procedimento.
9.1. Risulta dalla sentenza impugnata che la richiesta di pubblicazioni di
matrimonio pervenne al Comune di Sperlonga il 26.04.2004, nelle more del
procedimento disciplinare già avviato ed in corso a quella data.
9.2. Tale ragione ha carattere assorbente e impone la cassazione con rinvio
per l'esame dei motivi di appello proposti dal Comune di Sperlonga, rimasti
assorbiti nella diversa soluzione accolta dal giudice di appello. Difatti,
la sentenza impugnata ha accolto la domanda di impugnativa del licenziamento
per ragioni diverse da quelle esaminate dal Giudice di primo grado, che
aveva ritenuto illegittimo il licenziamento in quanto sanzione eccessiva e
sproporzionata rispetto alla gravità effettiva dei fatti. La Corte di
appello ha invece ritenuto il licenziamento affetto da nullità, perché
intimato per "causa di matrimonio".
10. La sentenza impugnata è incorsa in un'ulteriore
violazione di legge laddove ha affermato che il dipendente che non condivida
direttive o istruzioni impartite dal superiore ovvero dal datore di lavoro
ovvero le ritenga dequalificanti abbia il potere o il diritto di
disattenderle in luogo del più limitato diritto di azionare i rimedi
giurisdizionali predisposti dall'ordinamento per l'accertamento della
illegittimità di tali direttive o istruzioni ai fini dell'annullamento.
10.1. Nell'ambito del rapporto di lavoro privato, questa
Corte ha affermato che la nozione di insubordinazione, nell'ambito del
rapporto di lavoro subordinato, non può essere limitata al rifiuto di
adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica necessariamente
anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione ed il
corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione
aziendale (Cass. n. 7795 del
2017).
Più in generale il lavoratore può chiedere giudizialmente
l'accertamento della legittimità di un provvedimento datoriale che ritenga
illegittimo, ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un
eventuale avallo giudiziario (conseguibile anche in via d'urgenza), di
eseguire la prestazione lavorativa richiesta, in quanto egli è tenuto ad
osservare le disposizioni impartite dall'imprenditore, ex artt. 2086 e 2104
c.c., e può legittimamente invocare l'eccezione di inadempimento, ex art.
1460 c.c., solo nel caso in cui l'inadempimento del datore di lavoro sia
totale (cfr., tra le più recenti,
Cass. n. 831 del 2016 e n. 18866 del 2016).
Tali principi trovano applicazione nel rapporto di pubblico
impiego privatizzato, anche in ragione del rinvio operato dall'art. 2, co.
2, d.lgs. n. 165/2001.
10.2. La Corte d'appello ha invertito il principio generale secondo cui
costituisce onere del lavoratore, soprattutto se dipendente di un
ente pubblico, spiegare le ragioni per cui abbia disatteso ordini di
servizio o direttive impartitegli creando turbamento alla regolarità e
continuità del servizio. Non risulta infatti dalla sentenza impugnata che
fosse stato richiesto alla dipendente di porre in essere fatti costituenti
reato o comunque comportamenti contrari ai doveri di diligenza e fedeltà per
l'amministrazione (in relazione all'art.
51 c.p.).
11. Il ricorso va dunque accolto per quanto di ragione e la
sentenza va cassata con rinvio alla Corte di appello di Roma in diversa
composizione, che provvederà anche
in ordine alle spese del giudizio di legittimità. |
COMPETENZE GESTIONALI: Nel
nuovo ordinamento delle autonomie locali, competente a conferire la procura
alle liti al difensore del Comune è il Sindaco e non la Giunta, la cui
delibera, siccome priva di valenza esterna, ha natura meramente gestionale e
tecnica.
---------------
In tema di ricorso per cassazione, la procura speciale al difensore,
prescritta a pena di nullità dall'art. 365 cod. proc. civ., può essere
conferita al difensore esclusivamente dal soggetto legittimato a stare in
giudizio ai sensi dell'art. 75 cod. proc. civ., il quale, per il Comune, è
il solo Sindaco (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267) e non la giunta
comunale.
---------------
1. Preliminarmente, va disattesa l'eccezione sollevata dalla Ci. in sede di
memoria difensiva ex art. 378 c.p.c..
Secondo la giurisprudenza di questa Corte
(Cass. 5802 del 2016), nel nuovo ordinamento delle
autonomie locali, competente a conferire la procura alle liti al difensore
del Comune è il Sindaco e non la Giunta, la cui delibera, siccome priva di
valenza esterna, ha natura meramente gestionale e tecnica
(Cass.
23.03.2016 n. 5802).
In tema di ricorso per cassazione, la procura speciale al
difensore, prescritta a pena di nullità dall'art. 365 cod. proc. civ., può
essere conferita al difensore esclusivamente dal soggetto legittimato a
stare in giudizio ai sensi dell'art. 75 cod. proc. civ., il quale, per il
Comune, è il solo Sindaco (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267) e non la
giunta comunale (Cass. 18062 del
2010) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 19.04.2018 n. 9736). |
dite
la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: R.
Cartasegna,
A PROPOSITO DEL NUOVO REGOLAMENTO EDILIZIO DELLA REGIONE
PIEMONTE
(11.05.2018). |
GURI - GUUE - BURL
( e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 18.05.2018 "Aggiornamento
Albo regionale delle imprese boschive (l.r. 31/2008 – art.
57)" (decreto
D.S. 15.05.2018 n. 6934). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 17.05.2018 "Approvazione
dei contenuti della relazione di dettaglio relativa
all’individuazione delle aree idonee e a quelle non idonee
alla localizzazione degli impianti di recupero e smaltimento
di rifiuti urbani e speciali della provincia di Bergamo.
(art. 16, c. 2-bis, l.r. 26/2003)" (deliberazione
G.R. 14.05.2018 n. 119). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 17.05.2018 "Terzo
aggiornamento 2018 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 10.05.2018 n. 6623). |
LAVORI PUBBLICI:
G.U. 15.05.2018 n. 111 "Regolamento recante:
«Approvazione delle linee guida sulle modalità di
svolgimento delle funzioni del direttore dei lavori e del
direttore dell’esecuzione»" (Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 07.03.2018 n. 49). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 14.05.2018 "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 30.04.2018, in attuazione
della legge 26.10.1995, n. 447 e del decreto legislativo
17.02.2017, n. 42" (comunicato
regionale 08.05.2018 n. 78). |
APPALTI SERVIZI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 02.05.2018 "Regolamentazione
regionale dello standard professionale e formativo del
manutentore del verde" (decreto
D.U.O. 23.04.2018 n. 5777). |
APPALTI SERVIZI - PATRIMONIO:
G.U. 28.04.2018 n. 98 "Criteri ambientali minimi per
l’affidamento del servizio di illuminazione pubblica"
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
decreto 28.03.2018). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: R.
Cartasegna,
A PROPOSITO DEL NUOVO REGOLAMENTO EDILIZIO DELLA REGIONE
PIEMONTE
(11.05.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
D. U. Galetta,
Accesso (civico) generalizzato ed esigenze di tutela dei
dati personali ad un anno dall’entrata in vigore del Decreto
FOIA: la trasparenza de “le vite degli altri”?
(09.05.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa introduttiva. 2. Sulle tre
tipologie di accesso post D.lgs. 97/2016: cenni essenziali.
3. Accesso (civico) generalizzato e tutela degli interessi
contrapposti: esiste un principio di tutela preferenziale
dell'interesse conoscitivo? 3.1. Il confuso quadro di
riferimento a livello nazionale (fra norme cogenti e
strumenti c.d. di soft law). 3.2. Il quadro normativo di
riferimento a livello sovranazionale: gli elementi
essenziali. 3.3. Sulla non esistenza di un “principio di
tutela preferenziale dell'interesse conoscitivo” e la
complessità del giudizio di bilanciamento che le
amministrazioni sono chiamate ad operare. 4. L’obbligo di
consultare i controinteressati e le relative conseguenze. 5.
Gli elementi della valutazione discrezionale
dell’amministrazione, nel contrasto fra diritto d’accesso
(civico) generalizzato ed esigenze di protezione dei dati
personali: l’importanza della dimensione sociale dei dati
personali. 6. Segue. L’applicazione del principio di
proporzionalità quale strumento di corretto bilanciamento
dei diritti e degli interessi in gioco. 7.
L’importanza della motivazione del provvedimento finale
adottato a seguito di un’istanza di accesso (civico)
generalizzato. 8. Il rapporto tra accesso (civico)
generalizzato e accesso classico: qualche opportuna
precisazione. 9. L’accesso (civico) generalizzato, fra
tutela di legittime istanze conoscitive e rischi di
interferenza indebita ne “le vite degli altri”: riflessioni
conclusive. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A. Berti,
Note critiche sulla “funzionalizzazione” dell’accesso
civico generalizzato
(11.05.2018 - tratto da link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
ABSTRACT L’accesso civico generalizzato è, per
definizione, un diritto che spetta a “chiunque”,
“indipendentemente dalla titolarità di situazioni
giuridicamente rilevanti” [art. 7, comma 1, lett. h), Legge
delega n. 241/2015], che “non e' sottoposto ad alcuna
limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del
richiedente.” (art. 5, comma 3, D.Lgs. 33/2013) e la cui
unica ragione d’essere sta nello “scopo di favorire forme
diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito pubblico” (art. 5,
comma 2, D.Lgs. 33/2013), sì che la relativa istanza “non
richiede motivazione” (art. 5, comma 3, D.Lgs. 33/2013).
Una delle questioni più rilevanti, sul piano pratico e
teorico, poste in questo primo periodo di applicazione
dell’istituto, concerne la possibilità o meno di sindacare
le “finalità” dell’istanza e le “effettive motivazioni”
dell’istante, verificandone la coerenza rispetto alla ratio
legis.
La risposta al quesito sembra essere negativa, perché il
dato normativo depone inequivocabilmente nel senso della
netta emancipazione di questo tipo di accesso dal vincolo
della “strumentalità” rispetto ad una dimensione di
interessi (pubblici o privati) che non sia quella propria ed
insindacabile del richiedente, il cui diritto conoscitivo è
riconosciuto ex se come espressione della “libertà di
informazione” [art. 7, comma 1, lett. h) Legge delega n.
124/2015].
Ne consegue che il giudizio di ponderazione dell’interesse
conoscitivo con gli altri contrapposti interessi (a
cominciare dalla tutela dei dati personali) non potrà che
essere svolto sulla base di criteri “oggettivi”, avuto
riguardo al “pregiudizio concreto” arrecabile a detti
interessi, come prevede l’art. 5-bis, comma 2, del D.Lgs.
33/2013.
Né la “funzionalizzazione” dell’accesso civico generalizzato
può essere recuperata mediante la figura dell’”abuso del
diritto”, atteso che esso è “limite modale” dell’”esercizio
del diritto”, ma non consente di indagare le “motivazioni”
dello stesso, ricavandone un’ulteriore limitazione del suo
contenuto.
che essa sembra prestarsi ad alterare, per via
interpretativa, i connotati di un istituto chiaramente
concepito e voluto dal legislatore come a-causale.
---------------
Sommario: 1. Premessa: accesso civico generalizzato e
tutela della privacy. 2. L’accesso civico generalizzato
(introdotto dal Decreto legislativo 25.05.2016 n. 97) e
l’art. 5-bis del Decreto Legislativo 14.03.2013 n. 33. 3. I
primi orientamenti del Garante per la privacy. 4. La
posizione del Garante per la privacy sulla questione della
sindacabilità delle “finalità” dell’istanza di accesso
civico generalizzato e delle “effettive motivazioni”
dell’istante. 5. Argomenti pro e contro l’ammissibilità di
un sindacato sulle “effettive motivazioni” dell’istanza di
accesso civico generalizzato. 5.1. Argomenti a favore. 5.2.
Argomenti contro. 6. Sull’”abuso” del diritto di accesso
civico generalizzato. 7. La posizione della giurisprudenza
amministrativa. 8. Il giudizio di ponderazione degli
interessi contrapposti ai sensi dell’art. 5-bis, comma 2,
D.Lgs. 33/2013. 9. Le potenzialità applicative dell’”accesso
parziale” con oscuramento dei dati personali. |
EDILIZIA PRIVATA:
L. B. Molinaro,
NO ALLE DEMOLIZIONI NEI COMUNI DISSESTATI -
FOCUS SULLA PROVVISTA FINANZIARIA TRA BILANCIO COMUNALE E
FONDO DI ROTAZIONE
(10.05.2018 - link a www.ambientediritto.it).
----------------
SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Gli orientamenti della
giurisprudenza penale e amministrativa. La sanzione demolitoria quale autonoma espressione del potere
giurisdizionale. 3. Il procedimento tipico disciplinato
dall’art. 32, comma 12, del d.l. n. 269 del 2003, convertito
nella legge n. 326 del 2003. 4. Le novità introdotte dal
d.P.R. n. 115 del 2002. 5. La convenzione interministeriale
del 15.12.2005. 6. Il giudizio comparativo sui costi.
7. La copertura finanziaria. 8. Le circolari della Cassa
depositi e prestiti s.p.a. regolanti la materia. 9. Il
concetto di indebitamento e il divieto a carico dei comuni
“dissestati” di contrarre mutui. 10. Ancora in tema di
adesione al fondo rotativo. Il resoconto finale della
riunione della commissione Arconet del 13.04.2016. 11.
Conclusioni. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
F. Anastasi,
IL QUADRO DELLA TUTELA
DEI DATI PERSONALI NELLA DISCIPLINA DEL GDPR
(26.04.2018 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa; 2. Codici di condotta; 3.
Certificazioni; 4. Data Breach; 5. Diritto alla portabilità
dei dati; 6. Responsabile del trattamento; 7. Responsabilità
e quadro sanzionatorio. |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
ai progetti esclusi anche dai tetti alla spesa di personale. Contratti enti
locali. Corsa a regolamenti e intese decentrate. In settimana la Corte dei
conti esamina l’accordo.
Mentre si avvicina la firma definitiva del nuovo contratto nazionale per le
Funzioni locali, che sarà esaminato dalla Corte dei conti in settimana, in
molte amministrazioni è cominciata la corsa all’approvazione dei regolamenti
e alla stipula dei decentrati: ad accenderla è stata la
deliberazione 26.04.2018 n. 6
della sezione Autonomie della Corte dei conti (si veda Il Sole 24 Ore del 28
aprile), in cui i giudici hanno chiarito che gli incentivi per le funzioni
tecniche vanno al di fuori del tetto del fondo accessorio.
La deliberazione risolve il dubbio sull’inclusione o meno nel tetto del
fondo degli incentivi per le funzioni tecniche; ma non dice se queste
risorse devono comunque continuare a essere inserite nel fondo, né se devono
essere incluse nella spesa del personale e, in caso positivo, se concorrono
o meno alla determinazione del tetto generale.
Le motivazioni utilizzate dalla delibera vanno nella direzione di ritenere
che sulla base delle modifiche apportate dalla legge di bilancio 2018 agli
incentivi delle funzioni tecniche si possono applicare i principi dettati
dalla delibera 51/2011 delle Sezioni riunite di controllo; in quella
decisione erano stati fissati i principi da utilizzare per l’inclusione o
meno nel tetto del salario accessorio dei compensi che hanno caratteristiche
peculiari, escludendo i vecchi incentivi per gli appalti di opere pubbliche.
Quelle motivazioni portano a includere le risorse per i nuovi incentivi nel
fondo, e nella spesa del personale, ma a considerarle in deroga a entrambi i
tetti.
Dalla pronuncia della sezione autonomie si deve trarre la conclusione che
l’esclusione dal tetto del salario accessorio riguarda esclusivamente i
compensi maturati a partire dallo scorso 1° gennaio, cioè dall’entrata in
vigore della legge di bilancio 2018. Non ci sono infatti indicazioni che
possono portare a considerare questa come una norma di interpretazione
autentica, quindi con decorrenza retroattiva.
Gli ambiti della regolamentazione e della contrattazione decentrata sono
differenti, e non sono tra loro sovrapponibili. Spetta alla regolamentazione
la decisione sulla quantità delle somme poste a base d’asta da destinare
all’incentivazione del personale: ovviamente entro il tetto massimo del 2%
fissato dal legislatore, che in via di fatto non può comunque essere
superiore all’1,6% visto che la stessa disposizione obbliga a riservare il
20% per gli incentivi non al personale ma al miglioramento dei servizi.
Spetta alla regolamentazione comprendere nel tetto anche l’incentivazione
del personale delle eventuali centrali di committenza, graduare i compensi
ati in relazione all’importo e prevedere le decurtazioni in caso di ritardi
o costi aggiuntivi, anche se non direttamente ascrivibili al personale. La
contrattazione deve invece provvedere alla ripartizione delle risorse tra le
varie figure previste dal legislatore, ricordando che i dipendenti
progettisti di opere pubbliche o responsabili della sicurezza non possono
essere incentivati con queste somme.
I contratti decentrati possono inoltre stabilire forme di correlazione tra
l’erogazione dei compensi e l’incentivazione della performance, cioè
disporre eventuali tagli alla produttività o alla retribuzione di risultato
delle posizioni organizzative che ricevono compensi per le funzioni
tecniche; tagli che ovviamente andrebbero ad alimentare il salario
accessorio dei dipendenti o delle posizioni organizzative che non sono
destinatari degli incentivi
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.05.2018). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi
tecnici, rebus contabilizzazione dopo la decisione della Corte dei Conti.
La decisione con cui la Sezione autonomie della Corte dei conti (deliberazione 26.04.2018 n. 6,
si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 30 aprile) ha
promosso il comma 526 della legge 205/2017 e sottratto gli incentivi per le
funzioni tecniche dalla qualificazione giuridica di «spese di personale»
apre la strada alla loro liquidazione al di fuori dei vincoli del salario
accessorio, almeno a partire dal 01.01.2018.
L’ultima interpretazione della Corte dei conti
Tutte le amministrazioni interessate, quindi, sono chiamate a rivedere
l'allocazione in bilancio di quella spesa, senza tuttavia disporre di regole
certe su come operare. È la stessa Corte, infatti, che afferma come, messo
da parte il problema dei vincoli, restano da chiarire «le specifiche
modalità operative di contabilizzazione».
Il comma 526 della legge 205/2017, rimarcando quanto già previsto
dall'articolo 113, comma 2, del Dlgs 50/2016, si limita ad affermare che «gli
incentivi fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli
lavori, servizi e forniture». In sostanza, quindi, le risorse dovranno
essere contabilizzate al titolo I della spesa (se riguardano servizi o
forniture di parte corrente) e al Titolo II della spesa (se riguardano opere
pubbliche), con classificazione coerente con quella del tipo dell'appalto a
cui gli incentivi sono riferiti.
In sostanza la natura «accessoria» di queste spese, in relazione a
quella principale costituita dalla fornitura, dal servizio o dal lavoro, ne
assorbe la contabilizzazione, creando una sorta di capitalizzazione della
spesa di personale, superando anche le distinzioni previste dal piano dei
conti finanziario allegato 6 al Dlgs 118/2011.
Ipotesi sull’allocazione in bilancio
Volendo fornire alcune prime sommarie indicazioni, è possibile ipotizzare
che questi incentivi debbano essere imputati contabilmente sullo stesso
capitolo di spesa riferito alla prestazione principale, senza quindi
qualificarli come spesa di personale. Se, ad esempio, un ente, in sede di
appalto della refezione scolastica, deve contabilizzare 10mila euro di
incentivi per funzioni tecniche, le risorse saranno allocate sul medesimo
capitolo dove sarà pagata la ditta aggiudicataria del servizio di refezione.
Si osserva, tuttavia, che questo principio dovrebbe trovare applicazione per
tutte le voci afferenti il quadro economico del servizio/fornitura, come le
spese di pubblicazione, le commissioni, eccetera, al fine di fornire un
quadro complessivo della spesa dell'ente.
Se per i lavori questa prassi è oramai consolidata, lo è meno per i servizi
e le forniture per le quali, in attesa di chiarimenti e in assenza di una
specifica disposizione normativa, queste voci restano contabilizzate a
parte. Per quanto riguarda le modalità di finanziamento, se per i lavori le
risorse devono essere integralmente disponibili al momento dell'avvio
dell'opera, per cui anche gli incentivi saranno finanziati attraverso il
fondo pluriennale di spesa, non così per la maggior parte di appalti di
forniture e servizi.
Per questi ultimi, e in particolare per i contratti di somministrazione che,
avendo una durata pluriennale, vengono imputati a bilancio sui singoli
esercizi in cui vengono svolte le prestazioni, gli incentivi saranno «spalmati»
lungo tutta la durata del contratto e finanziati con le risorse dei singoli
esercizi.
Irap
Maggiori dubbi sussistono per quanto riguarda l'Irap. Il nuovo Codice dei
contratti ha confermato che la percentuale è comprensiva dei soli oneri
previdenziali e assistenziali, lasciando fuori l'Irap. Nonostante
l'interpretazione fornita dalla Corte dei conti (Sezioni riunite
deliberazione 30.06.2010 n. 33),
l'orientamento prevalente dei giudici aditi è quello di ritenere la spesa a
carico esclusivo dei bilanci e quindi fuori dal tetto del 2% degli incentivi
(si veda, da ultimo, il Tribunale di Verona n. 114/2017 relativo ai compensi
per l'avvocatura).
Gli enti che si trovano ad aderire a tale interpretazione dovrebbero quindi
contabilizzare l'Irap come spesa corrente e farla rientrare nei limiti della
spesa di personale oppure possono assimilarla allo stesso regime
dell'incentivo?
A tal fine sarebbe opportuno un nuovo intervento del legislatore, analogo a
quello contenuto nell'articolo 3, comma 29, della legge 350/2003 riferito,
tuttavia, agli incentivi di progettazione secondo la legge Merloni, ora
abrogata.
Fondo per acquisto di attrezzature
Resta inoltre da chiarire se anche la quota del 20% degli incentivi da
dedicare al fondo per l'acquisto di attrezzature, strumentazioni, eccetera
debba ricevere lo stesso trattamento contabile, la cui codifica potrà essere
attribuita solamente nel momento in cui sarà assunta la decisione sulla
spesa da finanziare, superando quindi le difficoltà connesse al rispetto del
piano dei conti finanziario.
In questo caso riteniamo che il valore dell'appalto rappresenti solamente
una base di calcolo e che, non ravvisandosi alcuna stretta correlazione con
l'opera, la fornitura o il servizio, tale spesa sia da contabilizzare
utilizzando la voce del piano dei conti più appropriata.
In attesa della formalizzazione della spesa da sostenere, gli enti potranno
allocare le risorse in un capitolo di spesa della missione 20, programma 03,
utilizzabile anche durante l'esercizio con delibera di giunta alla stregua
di un utilizzo del fondo per passività potenziali. Lo stanziamento di spesa,
se espressamente finanziato e non utilizzato nell'anno, confluirà poi tra i
fondi accantonati del risultato di amministrazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.05.2018). |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE: Sugli
incentivi tecnici via libera solo a metà. Corte conti. Niente retroattività
e nodo fondi.
La Corte dei conti si è espressa: gli incentivi per le funzioni tecniche non
rientrano nel tetto al salario accessorio imposto dalla riforma Madia (si
veda anche Il Sole 24 Ore di sabato). Problema chiuso? Tutt’altro.
I magistrati contabili (Corte dei Conti, Sez. autonomie,
deliberazione 26.04.2018 n. 6) evidenziano che la disposizione
della legge 205/2017 non ha valore di interpretazione autentica e, quindi,
non presenta le caratteristiche proprie di questa tipologia di norme, a
partire dalla retroattività. Gli incentivi riconosciuti per il periodo
compreso fra l'entrata in vigore del Dlgs 50/2016 e il 31.12.2017 restano
quindi soggetti ai limiti previsti per il salario accessorio, come aveva
stabilito la stessa sezione Autonomie nella
deliberazione 06.04.2017 n. 7.
In secondo luogo, per la corresponsione degli importi in questione è
necessario un regolamento con il quale venga data attuazione all'articolo
113 del Codice appalti. Regolamento nel quale stabilire una serie di fattori
che la norma demanda alle singole amministrazioni, in primis la percentuale
(il 2% è, infatti, la misura massima).
Se è pur vero che il Dlgs 50/2016 è entrato in vigore già da un paio d'anni,
molte amministrazioni hanno preferito non affrontare il problema,
nascondendosi dietro il paravento della posizione della Corte dei conti che
metteva l'ente davanti a una scelta: pagare gli incentivi per funzioni
tecniche a pochi dipendenti o corrispondere il premio legato alla
performance alla generalità dei lavoratori? Oggi, quindi, si deve riprendere
in mano la questione. Con il regolamento approvato, si possono liquidare i
compensi anche relativi a periodi passati, purché le risorse siano state
accantonate.
Anche se il regolamento c’è già, servono le risorse, da trovare tra le
pieghe del bilancio. Questione è tutt'altro che scontata. E se poi si arriva
al pagamento, scatta il limite annuo per dipendente, fissato nel 50% del
trattamento complessivo lordo. Con opere di una certa rilevanza, il tetto è
facilmente raggiungibile.
Da ultimo, giove far rilevare un'altra conseguenza pratica della posizione
della Corte dei conti. Per motivare l’esclusione degli incentivi per
funzioni tecniche dal campo di applicazione dell'articolo 23, comma 2, del
Dlgs 75/2017, la Corte afferma che i compensi gravano «su risorse
autonome e predeterminate del bilancio, diverse dalle risorse ordinariamente
rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale». E questo
come si concilia con i contratti nazionali, vecchi e nuovi, per i quali gli
incentivi transitano dal fondo decentrato? Sono o non sono spesa di
personale, con conseguente riflesso sul vincolo?
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.04.2018). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Il regolamento di cui all’art. 113, comma 2, del
d.lgs. n. 50/2016 costituisce elemento integrativo della
fattispecie produttiva del compenso incentivante ivi
previsto e, perciò, non pone un problema di retroattività
applicativa per gli incarichi espletati prima della sua
adozione, ma di semplice perfezionamento della predetta
fattispecie.
---------------
1) – Il Sindaco del Comune di Città di Castello (PG), con
nota del 24/11/2017, ha inoltrato a questa Sezione, una
richiesta di parere, ex art. 7, comma 8, della l. n.
131/2003, “in merito all’applicazione retroattiva del
regolamento conseguente all’accordo decentrato sui criteri e
modalità di riparto dell’incentivo di cui all’art. 113,
comma 2, del d.lgs. n. 50/2017, fermi [restando] la
condizione di preventivo accantonamento della quota a ciò
destinata in sede di approvazione del programma negoziale e
gli ulteriori obblighi derivanti dai vincoli in materia di
costituzione del fondo per salario accessorio” (v. pag.
2).
2) – La richiesta di parere è motivata dal fatto che il
Comune ha riscontrato “orientamenti non univocamente
concordanti” delle Sezioni Regionali di controllo della
Corte dei conti “nel sancire l’irretroattività” dei
regolamenti adottati per il riparto del fondo
incentivazione, ex artt. 113 del d.lgs. n. 50/2016 e
analoghe, precedenti disposizioni.
In tal senso ha richiamato, per la tesi dell’applicazione
retroattiva del regolamento “anche [agli] incarichi
conferiti e svolti nelle more [della] definizione
dell’accordo sindacale e quindi prima del regolamento”
stesso, Sezione Reg. Controllo Basilicata
parere 08.03.2017 n. 7 e Sez. Regionale di controllo Lombardia
parere 07.11.2017 n. 305.
Per la tesi opposta, della irretroattività del predetto
regolamento agli incarichi espletati prima della sua
adozione, ha invece richiamato Sezione Regionale di
Controllo Toscana,
parere 26.10.2017 n. 177.
...
5) – Ciò premesso, nel merito, è da osservare che questa
Sezione ha già esaminato un’analoga richiesta di parere,
riferita non già agli incarichi di cui all’art. 113, comma
2, del d.lgs. n. 50/2016 (espletati prima dell’adozione del
regolamento ivi previsti), ma agli incarichi ancora
precedenti, espletati tra la data di entrata in vigore del
d.l. 90/2014, convertito dalla l. n. 114/2014 (che con gli
artt. 13 e 13-bis ha modificato gli artt. 92 e 93 del d.lgs.
n. 163/2006) ed il ripetuto d.lgs. n. 50/2016.
In tale circostanza, la Sezione si è limitata a richiamare
la
deliberazione 08.05.2009 n. 7
e
deliberazione 24.03.2015 n. 11,
della Sezione delle Autonomie, che avevano risolto i
problemi di “diritto intertemporale” per gli
incentivi in discorso, in ipotesi di norme disciplinanti
diversamente la materia.
In tal senso la Sezione aveva dato per scontato che i
regolamenti specificamente previsti dalle normative
susseguitesi nel tempo potevano applicarsi (ratione
temporis) agli incarichi previsti altrettanto
specificamente dalle medesime disposizioni di riferimento,
espletati nelle more dell’adozione dei regolamenti stessi
(v. Sez. Reg. Controllo Umbria
parere 17.01.2018 n. 3) .
5.1) – La più dettagliata articolazione della problematica
illustrata nella richiesta di parere all’esame induce, ora,
a precisare meglio la posizione di questa Sezione, circa
l’applicabilità dei regolamenti che disciplinano gli
incentivi di che trattasi anche agli incarichi espletati
nelle more della loro adozione, ma comunque dopo l’entrata
in vigore delle nuove norme primarie di riferimento.
5.2) – Come correttamente osservato dalla maggior parte
delle Sezioni Regionali di controllo che si sono pronunciate
in proposito, il “regolamento” previsto dalle varie
disposizioni che si sono susseguite nel tempo sugli
incentivi in argomento (v. da ultimo l’art. 113 del d.lgs.
n. 50/2016) rappresenta una “condizione essenziale ai
fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle
risorse […] del fondo” (v. testualmente Sezione Reg.
Contr. Veneto
parere 07.09.2016 n. 353 e, in termini, Sez. Reg.
Controllo Lombardia
parere 07.11.2017 n. 305,
parere 12.06.2017 n. 191 e
parere 09.06.2017 n. 185).
5.3) – Peraltro, la Sezione Regionale di Controllo
Basilicata ha avuto modo di precisare che
il “regolamento”,
quale “condizione” del diritto all’incentivo, non è una “condizione
sospensiva del diritto a percepire l’incentivo maturato”,
ma è un “elemento che concorre al formarsi della
fattispecie complessa che dà luogo alla determinazione e
liquidazione dell’incentivo stesso”
(v.
parere 08.03.2017 n. 7,
paragrafo 5.2).
In questa ottica, se proprio si vuole continuare a parlare
di “condizione”, deve essere chiaro che si è in
presenza di una “condicio iuris”, ossia di un
elemento normativo che concorre al perfezionamento della
fattispecie produttiva del diritto all’incentivo.
5.4) – Così inquadrato il regolamento previsto dall’art. 113
del d.lgs. n. 50/2016, è evidente che esso si inserisce in
tutte le fattispecie produttive del diritto all’incentivo
che si correlano agli incarichi affidati ed espletati nella
vigenza dell’appena citato decreto legislativo, anche a
quelli conclusisi prima dell’adozione del ridetto
regolamento.
5.5) – Nel tratteggiato contesto,
l’applicazione del regolamento di cui al richiamato art. 113
agli incentivi degli incarichi espletati prima della sua
adozione (ma pur sempre dopo l’entrata in vigore del d.lgs.
n. 50/2016) non pone un problema di efficacia “retroattiva”
del regolamento stesso, ma di concreto perfezionamento della
fattispecie produttiva del diritto all’incentivo.
Da questo punto di vista, pertanto, il
Collegio ritiene di dover dissentire dalle valutazioni della
Sezione Regionale di controllo Toscana, che ha affrontato
l’argomento dell’efficacia dei regolamenti in discorso sul
piano formale della irretroattività degli “atti
amministrativi a contenuto normativo”, piuttosto che su
quello sostanziale della funzione concretamente espletata
per l’insorgenza del più volte menzionato diritto
all’incentivo (v.
parere 26.10.2017 n. 177).
6) – Va da sé che il diritto all’incentivo
ex art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 resta
subordinato anche alla sussistenza di tutte le altre
condizioni previste dal medesimo art. 113, comma 2, ivi
compreso il relativo accantonamento,
come fatto presente dallo stesso sindaco del Comune di Città
di Castello, in una pacifica prospettazione, non oggetto di
quesito (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere 19.03.2018 n. 41). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni
ex art. 110 TUEL e limiti lavoro flessibile.
Domanda
Poiché solo gli incarichi di cui all’art. 110 comma 1 del
d.lgs. 267/2000 sono esclusi dal limite del lavoro
flessibile previsto dall’art. 9 comma 28 del d.l. 78/2010,
potreste spiegare, in sintesi, la differenza tra incarichi
“in” e “fuori” della dotazione organica?
Risposta
L’assunzione ai sensi del comma 1 del d.lgs. 267/2000 è, a
tutti gli effetti, sostitutiva di un’assunzione a tempo
indeterminato, quindi per un posto “di ruolo”, cioè
per una posizione che l’amministrazione ritiene strettamente
necessaria per la conduzione degli ordinari servizi
dell’ente. Di conseguenza i dirigenti/responsabili a tempo
determinato delle strutture di massima dimensione
dell’organigramma dell’ente non possono che essere assunti
ai sensi del comma 1.
Al contrario le assunzioni di cui al comma 2, essendo
previste al di fuori della ordinaria dotazione organica
dell’ente, presuppongono un’esigenza straordinaria e
temporanea che non necessariamente deve essere prevista
nella dotazione.
Tipici esempi di assunzione extra-dotazionale sono quella
del geologo che viene assunto per il tempo necessario per la
redazione, adozione e approvazione degli strumenti di
pianificazione urbanistica generale, ma di cui l’ente non ha
necessità nell’ordinaria gestione delle pratiche edilizie,
oppure lo specialista di gestione e rendicontazione dei
fondi europei che viene assunto per il periodo di durata del
progetto finanziato con tali fondi.
Per evitare spiacevoli inconveniente sull’assoggettabilità o
meno al limite di cui all’art. 9, comma 28
(17.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Verifica requisiti e risorse avvalimento.
Domanda
In sede di gara, nel caso in cui un operatore partecipi
ricorrendo all’istituto dell’avvalimento, come devono essere
verificati i requisiti e le risorse che l’ausiliario mette a
disposizione?
Risposta
Il quesito in oggetto riguarda un istituto, quello dell’avvalimento,
che presenta evidenti problemi di carattere applicativo, sia
per gli operatori, nonché per le Stazioni Appaltanti che in
sede di gara devono valutare la correttezza formale e
sostanziale della documentazione presentata.
Istituto, tra l’altro, particolarmente attenzionato da ANAC
per l’anno in corso, come evidenziato nella Direttiva
Programmatica sull’Attività di Vigilanza per il 2018
approvata dal Consiglio nella seduta del 14.03.2018, dove si
legge […] che in relazione agli avvalimenti è stato rilevato
un pressoché generale utilizzo dell’istituto in via astratta
limitato ad un prestito meramente cartolare propedeutico
alla partecipazione alle gare, non accompagnato da un
concreto impiego in fase esecutiva delle risorse e dei mezzi
facenti capo all’impresa ausiliaria, nonché nell’assenza di
controlli da parte della stazione appaltante […].
Proprio per evitare il ricorso a queste forme di avvalimento
e per consentire l’attività di controllo prevista dall’art.
89 del codice, il correttivo ha integrato l’ultimo periodo
dell’art. 89, comma 1, del d.lgs. 50/2016 prevedendo […] “il
contratto di avvalimento contiene, a pena di nullità, la
specificazione dei requisiti forniti e delle risorse messe a
disposizione dell’impresa ausiliaria”.
Al fine di verificare la correttezza della documentazione
presentata dal concorrente che partecipa utilizzando tale
forma di istituto, occorre in primo luogo stabilire se
trattasi di avvalimento di “garanzia”, o c.d. “operativo”.
Nella prima ipotesi rientrano quei requisiti che sono
connotati dal carattere dell’immaterialità, ad esempio la
solidità economica e finanziaria, per i quali parte della
giurisprudenza ritiene che non sia necessaria la
specificazione delle risorse gestionali e immateriali messe
a disposizione.
Nel caso di avvalimento c.d. operativo è consolidato
l’orientamento giurisprudenziale, da ultimo C.d.S. sez. V
12.03.2018 n. 1543, secondo il quale nelle gare pubbliche
non può ritenersi valido ed efficace il contratto di
avvalimento che si limiti ad indicare genericamente che
l’impresa ausiliaria si obbliga nei confronti della
concorrente a fornirle i propri requisiti e a mettere a sua
disposizione le risorse necessarie, di cui essa è mancante,
per tutta la durata dell’appalto, senza però in alcun modo
precisare in che cosa tali risorse materialmente consistano.
Pertanto, la Stazione appaltante dovrà verificare, in base
al caso specifico, che nel contratto di avvalimento (o
quanto meno nella documentazione presentata, qualora parte
dell’oggetto del contratto, pur non puntualmente determinato
sia comunque agevolmente determinabile, C.d.S. a.p. del
04.11.2016 n. 23), siano specificati in modo dettagliato i
mezzi e le risorse messe a disposizione, quali a titolo
meramente esemplificativo:
• attrezzature e/o mezzi e/o impianti;
• risorse qualificate (personale) per consentire l’esecuzione della
prestazione;
• percorsi formativi specifici;
• controlli periodici nella forma di visite, ispezioni, tutoraggio;
• altri elementi capaciti, in base al caso specifico, di trasferire
la propria esperienza.
Si ricordano gli
obblighi di comunicazione in materia presso l’ANAC
(16.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI FORNITURE:
Acquisto di carburante per autotrazione al di fuori della
convenzione Consip disponibile. Possibilità di far ricorso
alla deroga di cui all’art. 1, comma 7, del DL 95/2012.
L’art. 1, comma 7, del DL 95/2012,
obbliga le pubbliche amministrazioni ad utilizzare le
convenzioni Consip per particolari categorie merceologiche
di beni, ivi compresi i carburanti. Con successive
modifiche, è stata inserita una deroga che consente alle
pubbliche amministrazioni, qualora ricorrano determinate
condizioni, di approvvigionarsi attraverso altre centrali di
committenza o con procedure di evidenza pubblica.
Tuttavia, tale deroga è stata sospesa fino al 31 dicembre
2018 in virtù di quanto stabilito dalle leggi n. 208/2015
(art. 1, comma 494) e n. 205/2017 (art. 1, comma 417). Ne
deriva che anche per l'esercizio 2018 non è consentito
l’approvvigionamento di carburante al di fuori delle
convenzioni messe a disposizione da Consip.
Il Comune deve avviare una procedura di affidamento della
fornitura di carburante per autotrazione per i mezzi di
proprietà comunale, essendo in scadenza l’attuale contratto.
Alla luce del fatto che nel territorio comunale non vi sono
distributori aderenti alla Convenzione Consip in essere,
l’Ente chiede di sapere se sia possibile procedere
all’affidamento della fornitura al di fuori di tale
Convenzione facendo ricorso alla deroga prevista dall’art.
1, comma 7, terzo periodo, del DL 95/2012 (e, in caso
affermativo, quali siano le corrette modalità di affidamento
del servizio nonché di calcolo del prezzo base), ovvero se
tale deroga sia attualmente sospesa in forza del seguente
quinto periodo.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa
Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Per una approfondita disamina del quadro normativo relativo
alle modalità di approvvigionamento di carburanti da parte
delle pubbliche amministrazioni si rinvia ad un precedente
parere [1]
reso dallo scrivente Servizio, già noto all’Ente instante.
Di conseguenza si forniranno qui di seguito soltanto gli
elementi utili a comprendere se, allo stato attuale, vi sia
la possibilità per le amministrazioni pubbliche di ricorrere
a modalità di approvvigionamento del carburante diverse
dalle convenzioni messe a disposizione da Consip.
Come noto, l’art. 1, comma 7, del decreto legge 06.07.2012,
n. 95 [2],
obbliga le pubbliche amministrazioni ad utilizzare le
convenzioni Consip per particolari categorie merceologiche
di beni, ivi compresi i carburanti. Tuttavia, negli anni
seguenti, il legislatore ha deciso di intervenire sulla
materia ammettendo alcune possibilità di deroga. Val la pena
ricordare, in questa sede, le modifiche più recenti
apportate al suddetto comma 7 dell’art. 1, intervenute per
gli effetti delle ultime leggi di stabilità.
In particolare, l’art. 1, comma 494, della legge 28.12.2015,
n. 208 [3],
ha modificato
l’art. 1, comma 7, terzo periodo, del DL 95/2012, stabilendo
che “È fatta salva la possibilità di procedere ad
affidamenti, nelle indicate categorie merceologiche, anche
al di fuori delle predette modalità, a condizione che gli
stessi conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di
committenza o a procedure di evidenza pubblica, e prevedano
corrispettivi inferiori almeno (…) del 3 per cento per le
categorie merceologiche carburanti extra-rete, carburanti
rete (…) rispetto ai migliori corrispettivi indicati nelle
convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip
SpA e dalle centrali di committenza regionali (…)”
[4].
Tuttavia, nella stessa sede, ha inserito anche un ulteriore
periodo, il quinto, al comma 7 dell’art. 1, che recita: “Al
fine di concorrere al raggiungimento degli obiettivi di
finanza pubblica attraverso una razionalizzazione delle
spese delle pubbliche amministrazioni riguardanti le
categorie merceologiche di cui al primo periodo del presente
comma, in via sperimentale, dal 01.01.2017 al 31.12.2019 non
si applicano le disposizioni di cui al terzo periodo del
presente comma. (…)”.
Si tratta, in sostanza, di una sospensione della deroga
appena ammessa, giustificata con la necessità di concorrere
al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica
attraverso una razionalizzazione delle spese delle pubbliche
amministrazioni nelle categorie merceologiche già indicate.
Più di recente la norma è stata ulteriormente modificata,
per opera dell’art. 1, comma 417, della legge 27.12.2017, n.
205 [5],
che ha stabilito che il termine finale della sospensione
della deroga sia anticipato al 31.12.2018.
Ne deriva che, come nell’esercizio 2017, anche nel 2018 le
amministrazioni pubbliche dovranno necessariamente
utilizzare le convenzioni Consip disponibili per gli
approvvigionamenti di carburante e per le altre categorie
merceologiche indicate dalla norma. Potranno invece
utilizzare di nuovo altri strumenti (fra cui il ricorso al
mercato), a far data dal 01.01.2019 (salvo nuove modifiche
alla norma in parola).
In questo senso va interpretata anche la deliberazione n.
348/2017/PAR della Corte dei Conti del Veneto
[6], che
ribadisce il divieto per le pubbliche amministrazioni, per
gli esercizi 2017, 2018 [e 2019] [7],
di sottrarsi al meccanismo delle convenzioni-quadro e
stabilire un rapporto diretto con un fornitore, con le
modalità stabilite nel terzo periodo del comma 7. Una volta
trascorso il lasso temporale indicato, in cui la deroga è
sospesa, le amministrazioni che lo vorranno, dopo averne
accertate l’economicità e la convenienza, potranno procedere
anche autonomamente, ma sempre con l’obbligo di individuare
il fornitore mediante procedura di evidenza pubblica,
secondo i principi generali e le modalità previste dalle
norme citate [8].
---------------
[1] Si tratta, nello specifico, del
parere prot. n. 2510 del 17/03/2016. Nel parere
si sosteneva la possibilità di procedere ad affidamenti che
conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di
committenza o a procedure ad evidenza pubblica (a condizione
che gli stessi prevedano corrispettivi inferiori).
Tuttavia si ritiene doveroso segnalare che il parere è stato
reso nel marzo 2016, e quindi in un momento in cui trovava
applicazione la disposizione di cui al terzo periodo del
comma 7 dell’art. 1 in esame, non essendo ancora in essere
la sospensione dell’applicazione di tale norma derogatoria,
che il quinto periodo del medesimo comma 7 faceva decorrere
dall’01.01.2017 (si veda infra nel testo del presente
parere).
[2] “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa
pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini.” Decreto
legge convertito con modificazioni dalla L. 07.08.2012, n.
135.
[3] “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2016)”.
[4] Si ricorda che, l’art. 45, comma 1-bis, della legge
regionale 12.12.2014, n. 26, ha disposto che “Ai sensi della
disciplina statale in materia di centralizzazione della
committenza, i soggetti di cui all'articolo 43 [compresi gli
enti locali, ndr] sono obbligati ad aderire ai contratti
quadro stipulati dalla Centrale unica di committenza
regionale nei limiti della loro vigenza e fino alla
concorrenza dell'importo massimo degli stessi.” Si rileva
peraltro che allo stato attuale non risultano stipulati
dalla Centrale unica di committenza regionale contratti
quadro in relazione all’approvvigionamento di carburanti.
[5] “Bilancio di previsione dello Stato per l'anno
finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio
2018-2020”.
[6] L’Ente instante richiama un’altra deliberazione della
Corte dei Conti, questa volta della sezione Friuli Venezia
Giulia (n. 35/2016), nella quale i giudici contabili
esprimevano un altro avviso. Si ritiene tuttavia che questa
pronuncia non soccorra nel caso in esame, poiché la Corte
del FVG si è espressa in un momento (gennaio 2016) in cui la
sospensione, sebbene già prevista, non era ancora attiva, né
lo sarebbe stata per tutto l’esercizio 2016, trovando
infatti applicazione a far data dal 01.01.2017.
[7] Da intendersi 2017 e 2018, ai sensi della modifica
successivamente operata dalla legge n. 205/2017.
[8] Si veda anche il commento alla deliberazione della Corte
dei Conti veneta presente sul sito
www.segretaricomunalivighenzi.it. Qui si osserva come la
sezione Veneto motivi tale conclusione “in virtù
dell’ossequio alla normativa di legge, chiara sul punto, ma
che si giustifica a ragione del carattere di sperimentalità
della disapplicazione della deroga, che serve appunto al
legislatore per valutare dati alla mano se l’adesione al
Mepa e alle convenzioni Consip effettivamente consente un
risparmio su tutto il territorio nazionale ovvero se, come
nel caso segnalato alla sezione Veneto, l’acquisto in
autonomia –a maggior ragione se attivato con procedure ad
evidenza pubblica– consente risparmi anche molto
consistenti” (15.05.2018 - link a
http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Pubblicazione dati su performance.
Domanda
Nell’ambito della sezione Amministrazione trasparente >
Performance è prevista la pubblicazione sia del Piano della
performance che della Relazione sulla performance. Siamo un
comune con meno di 5.000 abitanti.
L’obbligo vale anche per il nostro ente?
Risposta
Per poter rispondere al quesito occorre mettere assieme un
po' di norme legislative e (tentare di) ricostruire il
quadro complessivo.
La prima disposizione da tenere a mente è l’art. 10 del
d.lgs. 150/2009 (cd: decreto Brunetta), rubricato “Piano
della performance e Relazione sulla performance” che
prevede l’obbligo di dotarsi del Piano e della Relazione,
per tutte le pubbliche amministrazioni. Nella medesima
disposizione, va considerato, però, l’art. 16 che determina
gli articoli per i quali gli enti locali dovevano “adeguare
i proprio ordinamenti”. Tra gli articoli citati (comma
2) non compare l’articolo 10, quindi, l’obbligo –a novembre
2009, data di entrata in vigore del decreto Brunetta– non
era immediatamente applicabile alle autonomie locali.
Sempre nell’articolo 10, al comma 1-bis, di recente inserito
dall’art. 8, comma 1, lettera d), d.lgs. 25.05.2017, n. 74
(decreto Madia), si prevede che:
1-bis. Per gli enti locali, ferme restando
le previsioni di cui all’articolo 169, comma 3-bis, del
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, la Relazione
sulla performance di cui al comma 1, lettera b), può essere
unificata al rendiconto della gestione di cui all’articolo
227 del citato decreto legislativo.
Di rilievo, sempre nell’art. 10, del d.lgs. 150/2009, vi è
anche il comma 5, che recita:
5. In caso di mancata adozione del Piano
della performance è fatto divieto di erogazione della
retribuzione di risultato ai dirigenti che risultano avere
concorso alla mancata adozione del Piano, per omissione o
inerzia nell’adempimento dei propri compiti, e
l’amministrazione non può procedere ad assunzioni di
personale o al conferimento di incarichi di consulenza o di
collaborazione comunque denominati.
Un’altra norma che deve essere considerata è l’articolo 169,
del TUEL 18.08.2000, n. 267, rubricato “Piano Esecutivo
di Gestione”, che, al comma 3-bis, prevede:
3-bis. Il PEG è deliberato in coerenza con il bilancio di
previsione e con il documento unico di programmazione. Al
PEG è allegato il prospetto concernente la ripartizione
delle tipologie in categorie e dei programmi in
macroaggregati, secondo lo schema di cui all’allegato n. 8
al d.lgs. 118/2011 e successive modificazioni. Il piano
dettagliato degli obiettivi di cui all’art. 108, comma 1,
del presente testo unico e il piano della performance di cui
all’art. 10 del d.lgs. 150/2009, sono unificati
organicamente nel PEG.
Per complicarla ancora un po’, va ricordato che il comma 3,
del medesimo articolo, prevede che l’applicazione dei commi
1 e 2 era facoltativa per gli enti locali con popolazione
inferiore ai 5.000 abitanti (prima, tale limite, era fissato
a 15.000 ab.), fermo restando gli altri obblighi da
assolvere.
Infine, va ricordato l’articolo 10, del d.lgs. 14.03.2013,
n. 33 (cd: decreto Trasparenza) che, al comma 8, dispone
quanto segue:
8. Ogni amministrazione ha l’obbligo di pubblicare sul proprio
sito istituzionale nella sezione: «Amministrazione
trasparente» di cui all’art. 9:
a) il Piano triennale per la prevenzione della corruzione;
b) il Piano e la Relazione di cui all’art. 10 del d.lgs.
150/2009;
c) i nominativi ed i curricula dei componenti degli
organismi indipendenti di valutazione di cui all’art. 14 del
d.lgs. 150/2009.
Ricostruito il –non facile– quadro normativo,
riassuntivamente, si ritiene di condividere le conclusioni a
cui è pervenuta la Corte dei conti – Sezione regionale di
controllo per la Sardegna, con la deliberazione n.
1/2018/PAR del 09.01.2018, con la quale si sostiene che:
a) anche i Comuni inferiori ai 5 mila abitanti, pur non essendo
tenuti all’adozione del PEG, devono redigere il piano delle
Performance;
b) data la ridotta dimensione dell’ente, che comporta una minima
dotazione di personale e spazi angusti nella programmazione
della spesa, si tratta di una programmazione minimale, ma
comunque necessaria in quanto le norme in materia non hanno
previsto aree di esenzione;
c) L’adozione del piano, per tutti gli enti locali, è condizione
necessaria per l’esercizio della facoltà assunzionale negli
esercizi finanziari a venire. Inoltre “l’assegnazione, in
via preventiva di precisi obiettivi da raggiungere e la
valutazione successiva del grado di raggiungimento degli
stessi rappresentano una condizione indispensabile per
l’erogazione della retribuzione di risultato” (Sez.
controllo Veneto, deliberazione n. 161/PAR/2013; Sez.
controllo Puglia, deliberazione n. 123/PAR/2013 e
15/PAR/2016);
d) L’eventuale accertamento della mancata adozione del Piano della
Performance (e del Peg per i Comuni superiori ai 5.000
abitanti), può comportare, inoltre, il divieto di erogazione
della retribuzione di risultato ai dirigenti che ne
risultino responsabili.
In definitiva, la risposta al quesito è affermativa,
specificando che la Relazione sulla Performance, può anche
essere unificata, approvandola contestualmente, al
rendiconto della gestione, di cui all’articolo 227 del TUEL
267/2000.
Il Piano e la Relazione andranno, poi, tempestivamente,
pubblicati nel sito web istituzionale, al link:
Amministrazione trasparente > Performance > Piano della
performance e Relazione sulla performance, come stabilito
nel nuovo “Albero della Trasparenza”, approvato,
nell’allegato 1, della deliberazione ANAC n. 1310 del
28.12.2016, recante “Prime linee guida recanti
indicazioni sull’attuazione degli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni contenute nel
d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016″ (15.05.2018
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Incarico art. 90 personale quiescenza.
Domanda
È possibile conferire un incarico ai sensi dell’art. 90 del
d.lgs. 267/2000 ad un soggetto in pensione?
Risposta
L’oggetto del quesito è quanto mai complesso, a seguito
della stratificazione di norme e di interpretazioni
giuridiche, che si sono succedute nel tempo in materia di
conferimento di incarichi a personale in quiescenza.
Chiarito ciò, quella che segue, è la nostra posizione,
scaturente dalla lettura della norma (art. 5, comma 9, d.l.
95/2012, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge
07.08.2012, n. 135) e dalla rigorosa applicazione
dell’articolo 12 delle pre-leggi del codice civile,
nell’ambito del principio di “prudenza”.
Il conferimento di un incarico, ai sensi dell’art. 90 del
TUEL 18.08.2000, n. 267, a personale in quiescenza, è da
ritenersi conferibile, a condizione che l’incarico medesimo
non abbia ad oggetto e non preveda nella realtà fattuale,
l’espletamento di funzioni direttive o dirigenziali né
attività di studio o di consulenza.
In tal senso è bene che nell’atto di conferimento
dell’incarico venga specificata, con adeguata motivazione,
la natura stessa dell’incarico che sarà previsto in una
struttura autonoma posta alle dirette dipendenze del
Sindaco, con finalità di supporto, raccordo e collaborazione
al Sindaco ed eventualmente alla Giunta e agli assessori,
escludendo qualsiasi svolgimento di attività direttiva o
dirigenziale che possa, in qualche modo, essere ricompresa
tra le attività gestionali delle varie strutture apicali
presenti nell’ente. Analoga esclusione dovrà essere prevista
per le attività di studio e consulenza.
Con le siffatte caratteristiche, l’incarico potrà essere
anche di natura retribuita, secondo le specifiche
disposizioni contenute nei commi 2 e 3 del citato art. 90
TUEL.
In pratica, alla luce delle disposizioni di legge, si
ritiene di aderire all’interpretazione fornita dal
parere 23.03.2016 n. 27 della Corte dei conti,
sezione regionale per la Liguria (10.05.2018 - tratto
da e link a www.publika.it). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Incentivi codice contratti.
Domanda
Alla luce della
modifica dell’articolo 113 del codice dei contratti
intervenuta con la legge di bilancio per il 2018 (comma
5-bis dell’articolo del codice) secondo cui “Gli
incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture”, si può fondatamente ritenere che tali
compensi non debbano più “sottostare” ai vincoli di
spesa previsti per il trattamento accessorio dei dipendenti?
Risposta
La questione della qualificazione degli incentivi per
funzioni tecniche (ex progettazione) di cui ora all’articolo
113 del nuovo codice dei contratti è risultata
immediatamente dibattuta considerata la sostanziale
differenza rispetto al dettato delle norme pregresse
contenute nel decreto legislativo 163/2006.
Dopo alterne interpretazioni, la sezione plenaria della
Corte dei Conti (con le deliberazioni, per ciò che in questa
sede interessa, nn. 7 e 24/2017) ha ribadito la sostanziale
natura di spese di funzionamento ed in quanto tali,
semplificando, soggette ai limiti/vincoli di contenimento
delle spese previste per il trattamento accessorio dei
dipendenti.
Circostanza, evidentemente, che ha creato (per il 2016) il
non irrilevante problema di assicurare sia il pagamento
degli incentivi (maturati) sia della produttività “generale”
dei dipendenti restando nei limiti di importo pregresso
dell’accessorio.
Per effetto delle problematiche in argomento, con la legge
di bilancio per il 2018 (legge 205/2017) è stato innestato
uno specifico comma 5-bis nell’articolo 113 la cui
interpretazione, in realtà (come ammette la recentissima
sezione delle Autonomie con la delibera n. 6/2018 che
risolve definitivamente il problema, come si vedrà), non è
risultata pacifica.
In particolare, dubbi sono stati espressi dalla sezione
regionale della Lombardia (con la delibera 40/2018) e con la
deliberazione della sezione regionale della Puglia (con la
delibera 9/2018) che hanno rimesso la questione
interpretativa della nuova norma alla sezione delle
Autonomie.
Sezione, che proprio con la deliberazione n. 6/2018 ha
definitivamente risolto la problematica affermando la “Gli
incentivi per le funzioni tecniche (…) devono ritenersi non
soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento
economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici
dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Le argomentazioni, varie, poggiano su alcune considerazioni
specifiche: in primo luogo lo stesso intervento del
legislatore che altro fine non dovrebbe avere se non quello
di fornire un definitivo chiarimento (peraltro ancora
criptico); in secondo luogo il fatto che gli stessi
incentivi soggiacciono già ad una serie di limiti autonomi
(la misura del 2% dell’importo posto a base di gara) e
l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del
trattamento economico complessivo per gli incentivi
spettante al singolo dipendente) per cui risulta difficile
un pericolo di “espansione” incontrollata.
Ulteriore aspetto, poi, rilevato immediatamente dai primi
commentatori –come puntualizzato invero già dalla sezione
regionale della Lombardia (con la delibera n. 40/2018)-, è
che gli incentivi per le funzioni tecniche sono, “per
loro natura, estremamente variabili nel corso del tempo e,
come tali, difficilmente assoggettabili a limiti di finanza
pubblica a carattere generale, che hanno come parametro di
riferimento un predeterminato anno base (qual è anche l’art.
23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017). Il riferimento,
infatti, ad un esercizio precedente diviene, in modo del
tutto casuale, favorevole o penalizzante per i dipendenti
dei vari enti pubblici”.
Pertanto, si ritiene di poter rispondere positivamente al
quesito per i recentissimi chiarimenti espressi dalla
Sezione Autonomie (09.05.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Criteri pubblicazione dati e sanzioni.
Domanda
Dove possiamo trovare dei riferimenti certi per sapere cosa
possiamo o non possiamo pubblicare su Albo pretorio on-line
e su Amministrazione trasparente, senza rischio di incorrere
nelle pesanti sanzioni irrogate dal Garante privacy?
Risposta
La questione di compatibilità tra il diritto alla
conoscibilità dell’organizzazione e delle attività delle
pubbliche amministrazioni (disciplinato da ultimo dal d.lgs.
33/2013) e la tutela dei dati personali delle persone
fisiche, è, e resta, una delle vicende più controverse della
nostra legislazione. I due diritti, spesso, sono
confliggenti e compete agli “operatori del settore”
trovare una non facile linea di comportamento che renda
conciliabili il diritto alla conoscenza e il diritto alla
tutela dei dati.
Il documento più importante che possiamo citare, per provare
a dirimere l’annoso conflitto tra trasparenza e privacy, è
un atto del Garante Privacy italiano, datato 15.05.2014,
recante “Linee
guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti
anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per
finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti
pubblici e da altri enti obbligati”
(Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 134 del 12.06.2014).
Il documento nasce dall’esigenza di “individuare un
quadro organico e unitario di garanzie finalizzato a
indicare apposite cautele in relazione alle ipotesi di
diffusione di dati personali mediante la pubblicazione sui
siti web da parte di organismi pubblici e in particolare di
quelli chiamati a dare attuazione al d.lgs. n. 33/2013”.
I principi generali e le indicazioni più importanti
contenute nel documento sono, sinteticamente, le seguenti:
a) occorre pubblicare solo dati esatti, aggiornati e
contestualizzati;
b) per gli atti che contengono dati personali, verificare, prima
della pubblicazione, l’esistenza di una norma di legge o di
regolamento che ne preveda l’obbligo;
c) è vietata la pubblicazione di dati sulla SALUTE e sulla VITA
SESSUALE delle persone. Gli altri DATI SENSIBILI possono
essere diffusi solo laddove indispensabili al perseguimento
delle finalità di rilevante interesse pubblico;
d) qualora si intenda pubblicare dati personali ulteriori rispetto
a quelli previsti nel d.lgs. 33/2013, occorre procedere all’anonimizzazione
dei dati, evitando soluzioni che consentano
l’identificazione dell’interessato.
Con riferimento alla precedente lettera b), va specificato
che per la pubblicazione di dati sensibili e giudiziari,
occorre sempre verificare l’esistenza di una norma di legge
(nazionale o regionale), non essendo più sufficiente la sola
previsione regolamentare.
Una volta definita la qualificazione del dato personale
–dato comune, sensibile o giudiziario– occorre rispettare i
seguenti principi:
PER I DATI COMUNI,
indicati all’articolo 4, comma 1, lettera b), del d.lgs.
196/2003, si applica il principio di pertinenza e non
eccedenza, che significa che gli enti non possono rendere
intellegibili i dati personali non necessari, eccedenti o
non pertinenti con le finalità di pubblicazione.
PER I DATI GIUDIZIARI,
indicati all’articolo 4, comma 1, lettera e), del d.lgs.
196/2003, i medesimi possono essere diffusi solo se
indispensabili per raggiungere le finalità di pubblicazione.
PER I DATI SENSIBILI,
indicati all’articolo 4, comma 1, lettera d), del d.lgs.
196/2003, gli stessi, possono essere diffusi solo se
indispensabili per raggiungere le finalità di pubblicazione
(sempre in presenza di una norma specifica che ne imponga la
pubblicazione).
Una forma particolare di tutela esiste per due dati
sensibili: la vita sessuale e la salute: i cosiddetti “dati
ultrasensibili”.
Per la vita sessuale esiste un divieto assoluto di
diffusione per finalità di trasparenza. Per altre finalità i
dati possono essere diffusi solo se indispensabili.
Per i dati riferiti alla salute della persona, il divieto di
pubblicazione è assoluto, senza alcuna deroga o eccezione.
Nell’elenco che segue, vengono riassunte le tre tipologie di
dati e le possibilità di diffusione via web (Albo pretorio e
Amministrazione trasparente):
• DATI COMUNI
(serve una norma di legge o di regolamento)
Nome e cognome, sesso, stato civile, data e luogo di
nascita, indirizzo, codice fiscale, e-mail, telefono, titolo
di studio, professione, ISEE, IBAN, eccetera.
• DATI SENSIBILI
(solo norma di legge)
Razza, etnia, convinzioni religiose, filosofiche o di altro
genere, opinioni politiche, adesione a sindacati, partiti o
associazioni a carattere filosofico, politico, sindacale;
SALUTE E VITA SESSUALE
• DATI GIUDIZIARI
(solo norma di legge)
Dati idonei a rilevare provvedimenti in materia di
casellario giudiziale, anagrafe delle sanzioni
amministrative dipendenti da reato e relativi carichi
pendenti, o la qualità di imputato o di indagato (08.05.2018
- tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Sindaco rieletto. Aspettativa.
Il sindaco rieletto è tenuto a
presentare una rinnovata istanza per il collocamento in
aspettativa ex art. 81 del d.lgs. 267/2000, attesa la
stretta connessione tra espletamento del singolo mandato
elettivo e la facoltà, per il lavoratore dipendente, di
richiedere detta aspettativa.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine all’aspettativa
spettante al Sindaco ai sensi dell’art. 81 del d.lgs.
267/2000.
In particolare, l’Ente pone la questione se la domanda di
collocamento in aspettativa per l’espletamento del mandato,
da parte del Sindaco, lavoratore dipendente presso
un’azienda privata, debba essere ripresentata in caso di
rielezione al secondo mandato. L’Amministrazione istante
ritiene che la disposizione legislativa in argomento, nello
specifico la locuzione “per tutto il periodo di
espletamento del mandato” debba essere interpretata con
riferimento al singolo mandato. Conseguentemente è
dell’avviso che l’interessato, Sindaco rieletto, debba
presentare una nuova istanza per il collocamento in
aspettativa per il secondo mandato elettivo.
Nel ritenere condivisibile l’orientamento esposto dal
Comune, si esprimono le seguenti considerazioni.
Com’è noto, l’art. 81, comma 1, del d.lgs. 267/2000 dispone
che i sindaci, i presidenti delle province, i presidenti dei
consigli comunali e provinciali, i presidenti dei consigli
circoscrizionali, i presidenti delle comunità montane e
delle unioni di comuni, nonché i membri delle giunte di
comuni e province, che siano lavoratori dipendenti, possono
essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita
per tutto il periodo di espletamento del mandato.
La ratio della citata norma consiste nella tutela
espressamente riconosciuta dal legislatore
all’amministratore locale, finalizzata a rendere concreto il
precetto di cui all’art. 51, terzo comma, della
Costituzione, che fa salvo il diritto di chi è chiamato a
svolgere funzioni pubbliche elettive di disporre del tempo
necessario al loro ottimale adempimento, conservando al
contempo il posto di lavoro.
La giurisprudenza civilistica ha affermato che l’aspettativa
in argomento ha lo scopo di rendere compatibile, per i
lavoratori chiamati a funzioni pubbliche, l’espletamento di
tali funzioni con la condizione di prestatore di lavoro
subordinato [1].
Premesso un tanto, con specifico riferimento alla durata del
mandato, si rappresenta che l’art. 4, comma 1, della l.r.
19/2013 prevede che il Sindaco duri in carica per un periodo
di cinque anni [2].
La giustizia amministrativa [3]
ha affermato in proposito che, sebbene il TUEL non contenga
un’espressa previsione in ordine al momento in cui entra in
carica il Sindaco, non è contestabile che l’organo
monocratico di vertice dell’ente locale si insedi
immediatamente, per effetto della proclamazione
dell’avvenuta elezione consacrata nell’apposito verbale
dell’ufficio elettorale centrale e che, nel medesimo
istante, cessi il mandato del predecessore
[4].
E’ da considerare parimenti che il Sindaco è abilitato a
compiere tutti gli atti di competenza e assume tutte le
funzioni fino dal momento della proclamazione.
Pertanto, la circostanza che ad essere rieletto Sindaco sia
la medesima persona [5]
appare ininfluente ai fini della fissazione dei termini di
cessazione del mandato precedente e ai fini della
determinazione dell’inizio del mandato elettivo successivo,
in quanto è determinante l’intervenuto rinnovo degli organi
amministrativi comunali.
Si noti inoltre come il legislatore, sia statale che
regionale [6],
nel disciplinare la rieleggibilità alla medesima carica
nello stesso ente, abbia introdotto delle particolari
limitazioni riferite all’aver ricoperto, per due mandati
consecutivi, la carica di sindaco. La formulazione della
norma richiama espressamente la fattispecie del “secondo
mandato”, a rafforzare il convincimento secondo cui ogni
singolo mandato è distinto dal precedente e dal successivo,
a prescindere dal soggetto che ricopre la carica elettiva
[7].
Si ravvisa, pertanto una stretta connessione tra
espletamento del singolo mandato elettivo e la facoltà, per
il lavoratore dipendente eletto, di richiedere il
collocamento in aspettativa per l’espletamento di dette
funzioni.
A tal fine, quindi, il Sindaco rieletto è tenuto a
presentare una rinnovata istanza, correlata al mandato
conseguente alla nuova tornata elettorale.
---------------
[1] Cfr. Cass. Civile, sentenza n. 21396 del 05.10.2006.
[2] Tale durata si riferisce alla scadenza naturale del
mandato e può essere ridotta nelle ipotesi di cessazione
anticipata dalla carica contemplate nella legislazione
vigente. Si fa infatti riferimento, nelle due diverse
fattispecie, a ipotesi di “mandato pieno” o a “mandato con
durata ridotta”.
[3] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 4694 del
2006.
[4] Cfr. anche L’ordinamento locale nel Friuli Venezia
Giulia, Vademecum sui principali aspetti di interesse per
gli amministratori locali, pag. 21 e circolare n. 14/EL del
06.06.2016 del Servizio Consiglio autonomie locali ed
elettorale della Direzione centrale autonomie locali e
coordinamento delle riforme, in cui si sottolinea che con la
proclamazione degli eletti cessano dalla carica i
consiglieri uscenti, il Sindaco uscente e la Giunta nominata
dallo stesso.
[5] Il Sindaco uscente potrebbe anche non ricandidarsi.
[6] Cfr. art. 4, comma 2, della l.r. 19/2013.
[7] Si pensi inoltre anche ai vari adempimenti previsti dal
legislatore e connessi alla durata dei singoli mandati: la
relazione di inizio e fine mandato, l’indennità di fine
mandato, prevista al temine dell’incarico amministrativo
(04.05.2018 - link a
http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Differenze reclutamento ex art. 110.
Domanda
Poiché solo gli incarichi di cui all’art. 110, comma 1, del
d.lgs. 267/2000 sono esclusi dal limite del lavoro
flessibile previsto dall’art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010,
potreste spiegare, in sintesi, la differenza tra incarichi
“in” e “fuori” della dotazione organica?
Risposta
L’assunzione ai sensi del comma 1 del d.lgs. 267/2000 è, a
tutti gli effetti, sostitutiva di un’assunzione a tempo
indeterminato, quindi per un posto “di ruolo”, cioè
per una posizione che l’amministrazione ritiene strettamente
necessaria per la conduzione degli ordinari servizi
dell’ente. Di conseguenza i dirigenti/responsabili a tempo
determinato delle strutture di massima dimensione
dell’organigramma dell’ente non possono che essere assunti
ai sensi del comma 1.
Al contrario le assunzioni di cui al comma 2, essendo
previste al di fuori della ordinaria dotazione organica
dell’ente, presuppongono un’esigenza straordinaria e
temporanea che non necessariamente deve essere prevista
nella dotazione. Tipici esempi di assunzione
extra-dotazionale sono quella del geologo che viene assunto
per il tempo necessario per la redazione, adozione e
approvazione degli strumenti di pianificazione urbanistica
generale, ma di cui l’ente non ha necessità nell’ordinaria
gestione delle pratiche edilizie, oppure lo specialista di
gestione e rendicontazione dei fondi europei che viene
assunto per il periodo di durata del progetto finanziato con
tali fondi.
Per evitare spiacevoli inconveniente sull’assoggettabilità o
meno al limite di cui all’art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010
suggeriamo, pertanto, un’attenta analisi della specifica
situazione di volta in volta (03.05.2018 - tratto da
e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Possibilità deroga linee guida ANAC.
Domanda
Durante la programmazione dell’attività contrattuale, nella
nostra stazione appaltante si sono sollevate alcune
questioni circa la possibilità (o meno) di non applicare
integralmente le linee guida ANAC ed i bandi tipo.
Considerato che nel caso di specie le linee guida
interessate (in particolare le linee guida n. 2 e le linee
guida n. 4) non sono vincolanti –ed allo stesso modo,
riteniamo, debbono essere qualificati i bandi tipo– si
chiede di conoscere in che modo occorre procedere.
Risposta
La questione della deroga, rispetto alle linee guida ed ai
bandi tipo, risulta –oggettivamente– di grande importanza
pratica soprattutto in relazione sia alla “legittimità”
di tali comportamenti sia in relazione all’intensità di
eventuali vincoli imposti dai documenti dell’ANAC.
In primo luogo, non si ritenga superfluo rilevare che gli
atti prodotti dall’Autorità anticorruzione –evidentemente–
non assurgono ad atti con valenza normativa né
regolamentare. E’ ben vero però, come anche sostenuto da
recentissima giurisprudenza, che il legislatore ha intenso
individuare un “soggetto” a cui affidare compiti di
controllo, monitoraggio e indirizzo dell’attività
contrattuale. E di quanto la stazione appaltante –e meno che
mai i RUP– può prescindere.
Si pensi, solamente per tacer d’altro, alla fondamentale
funzione di stabilire la disciplina di dettaglio (in tema di
RUP od offerta economicamente più vantaggiosa) o addirittura
agli autentici compiti attuativi di norme codicistiche
(l’istituzione e la disciplina dell’albo dei commissari di
gara).
Analoghe considerazioni possono essere espresse in relazione
ai bandi tipo. Ora, pur vero che la produzione degli
atti/documenti appena citati si situa a livello di atti
amministrativi è altrettanto vero che tali documenti
contengono dei modelli virtuosi proposti (e ad uso) alle
(delle) stazioni appaltanti.
Questo significa, ovviamente, che il RUP ad essi si deve
attener nella sua attività istruttoria di proposizione delle
proposte della legge speciale di gara.
Problemi operativi pone l’eventuale scostamento.
In primo luogo, l’eventuale proposta di deroga deve avere ad
oggetto –ammesso che sia possibile– un modello maggiormente
virtuoso (in termini di trasparenza, oggettività, lealtà
amministrativa) rispetto a quelli proposti dall’autorità
anticorruzione.
Sembra chiaro, infatti, annotare che modelli più restrittivi
(nei confronti della concorrenza, della trasparenza, della
correttezza) si scontrano prima ancora che con i documenti
ANAC con lo stesso dato legislativo.
In ogni caso, la possibilità di scostamento dalle linee
guida –e dai bandi tipo– è ammessa dalla stessa Autority ma
occorre una congrua motivazione.
Lo scostamento senza motivazione integra infatti –secondo la
recente giurisprudenza– la peculiare fattispecie di vizio di
legittimità dell’eccesso di potere rendendo gli atti
adottati dalla stazione appaltante illegittimi. In questo
senso, ha avuto modo di esprimersi la recente sentenza del
Tar Abruzzo, Pescara, sez. I, n. 125/2018.
Pertanto, ed infine, alla domanda se la “deroga” alle
indicazioni dell’ANAC sia o meno possibile si ritiene di
poter rispondere positivamente fermo restando l’esigenza di
una adeguata motivazione che, ovviamente, andrà inserita
nella determinazione a contrattare.
È bene, comunque, che il margine di deroga abbia una
disciplina “regolamentare” della stazione appaltante
per evitare che i vari RUP (o dirigenti/ responsabili di
servizi) agiscano in modo anarchico e personale nella
predisposizione degli atti di gara (02.05.2018 -
tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI SERVIZI:
Affidamento della realizzazione di un evento.
1) Per le acquisizioni di
servizi di importo pari o superiore a 1.000 euro e inferiore
alla soglia comunitaria le PP.AA. sono tenute a fare ricorso
al MePA o ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi
dell’art. 328, c. 1, del D.P.R. 207/2010, ovvero al sistema
telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di
riferimento per lo svolgimento delle relative procedure.
2) Il principio di rotazione si applica con riferimento
all’affidamento immediatamente precedente, nei casi in cui
quest’ultimo e l’attuale affidamento abbiano ad oggetto una
commessa rientrante nello stesso settore di servizi, e
comporta, di norma, il divieto di invito a procedure dirette
all’assegnazione di un appalto, nei confronti del contraente
uscente e dell’operatore economico invitato e non
affidatario nel precedente affidamento.
3) Negli affidamenti diretti di importo superiore a 20.000 euro la
stazione appaltante, prima di stipulare il contratto,
verifica che l’aggiudicatario sia in possesso dei requisiti
di carattere generale di cui all’art. 80 del D.Lgs. 50/2016
e di quelli speciali, se previsti, nonché delle condizioni
soggettive che la legge prevede per l’esercizio di
particolari professioni o l’idoneità a contrarre con la P.A.
in relazione a specifiche attività.
Il Comune, che intende affidare direttamente
l’organizzazione di un evento, di valore stimato
nell’importo massimo di 30.000 euro, chiede di conoscere
quale sia la migliore procedura da adottare, alla luce di
quanto previsto dal decreto legislativo 18.04.2016, n.
50
[1]
e dalle linee guida n. 4
[2], emanate dall’Autorità
Nazionale Anticorruzione (ANAC).
In particolare, l’Ente pone le seguenti questioni:
- se sia obbligatorio reperire il contraente attraverso il Mercato
elettronico della Pubblica Amministrazione (MePA) ed, in
caso affermativo, se si possa procedere a trattativa diretta
con un unico operatore, a partire da un metaprodotto “evento
analogo”;
- qualora non sussista l’obbligo di ricorso al MePA, come si possa
identificare il soggetto eventualmente interessato a
realizzare il servizio;
- se il principio di rotazione implichi che si debba tener conto
solo dell’ultimo affidamento disposto a favore di una
determinata ditta;
- quali siano i controlli assolutamente necessari da eseguire prima
di procedere all’affidamento.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa
Direzione centrale si esprimono le seguenti considerazioni.
Occorre, anzitutto, ricordare che l’attività di consulenza
giuridico-amministrativa alla quale è preposto questo
Ufficio è finalizzata a fornire un’illustrazione degli
istituti giuridici nell’ambito dei quali sono riconducibili
le specifiche fattispecie prospettate, fermo restando che
compete all’amministrazione procedente determinarsi in
ordine alle scelte concrete da adottare caso per caso.
Un tanto premesso si rappresenta, anzitutto, che per gli
acquisti di servizi di importo pari o superiore a 1.000 euro
e inferiore alla soglia di rilievo comunitario le pubbliche
amministrazioni sono tenute a fare ricorso al mercato
elettronico della pubblica amministrazione o ad altri
mercati elettronici istituiti ai sensi dell’articolo 328,
comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica
05.10.2010, n. 207, ovvero al sistema telematico messo a
disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo
svolgimento delle relative procedure (articolo 1, comma 450,
della legge 27.12.2006, n. 296).
I contratti stipulati in violazione dell’obbligo sono nulli,
costituiscono illecito disciplinare e sono causa di
responsabilità amministrativa (articolo 1, comma 1, del
decreto-legge 06.07.2012, n. 95
[3]).
È, comunque, possibile effettuare l’acquisizione sul mercato
libero qualora il servizio non sia disponibile sul MePA o,
pur essendo disponibile, esso risulti –per mancanza di
qualità essenziali– inidoneo rispetto alle necessità
dell’amministrazione procedente.
Le predette disposizioni rimangono pienamente cogenti anche
dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 50/2016, stante il
combinato disposto dei suoi articoli 36 e 37.
L’articolo 36
[4]
del D.Lgs. 50/2016, dopo aver previsto che
l’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture
di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria
avvengono nel rispetto, tra gli altri, del principio di
rotazione degli inviti e degli affidamenti (comma 1),
sancisce che «Fermo restando quanto previsto dagli articoli
37
[5]
e 38
[6]» e fatta salva la possibilità di ricorrere
alle procedure ordinarie, le stazioni appaltanti procedono
agli affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro,
mediante affidamento diretto, anche senza previa
consultazione di due o più operatori economici [comma 2,
lettera a)].
L’articolo 37 del D.Lgs. 50/2016 dispone che «fermi restando
gli obblighi di utilizzo di strumenti di acquisto e di
negoziazione, anche telematici, previsti dalle vigenti
disposizioni in materia di contenimento della spesa», le
stazioni appaltanti possono procedere direttamente e
autonomamente all’acquisizione di servizi di importo
inferiore a 40.000 euro, nonché attraverso l’effettuazione
di ordini a valere su strumenti di acquisto messi a
disposizione dalle centrali di committenza e dai soggetti
aggregatori (comma 1, primo periodo).
La predetta impostazione trova conferma nelle linee guida
ANAC n. 4 laddove, dopo aver rilevato che «Restano fermi gli
obblighi di utilizzo di strumenti di acquisto (di cui
all’articolo 3, comma 1, lettera cccc) del Codice dei
contratti pubblici) e di negoziazione (di cui all’articolo
3, comma 1, lettera dddd) del Codice dei contratti
pubblici), anche telematici, previsti dalle vigenti
disposizioni in materia di contenimento della spesa nonché
la normativa sulla qualificazione delle stazioni appaltanti
e sulla centralizzazione e aggregazione della committenza»,
viene chiarito che per il ricorso a tali strumenti «si
applicano le medesime condizioni di trasparenza, pubblicità
e motivazione» descritte nelle stesse linee guida (paragrafo
1.3).
Quanto al quesito concernente la possibilità di procedere a
trattativa diretta con un unico operatore, a partire da un
metaprodotto “evento analogo” –che, come chiarito dall’Ente
per le vie brevi, deve intendersi quale richiesta di
supporto alla procedura in considerazione dell’attuale
irreperibilità sul MePA di “metaprodotti”– si rappresenta
che, per valutare la disponibilità del bene/servizio da
acquisire, occorre fare riferimento alla descrizione
relativa alla voce “tipologia di bene/servizio”, inserita
nell’ambito della più generale “categoria merceologica” dei
bandi di abilitazione degli operatori economici.
Circa il quesito volto a chiarire la portata del principio
di rotazione, si segnala che la questione viene affrontata
ai paragrafi 3.6 e 3.7 delle linee guida ANAC, nei quali
viene precisato, in particolare, che il principio:
- si applica «con riferimento all’affidamento immediatamente
precedente a quello di cui si tratti, nei casi in cui i due
affidamenti, quello precedente e quello attuale, abbiano ad
oggetto una commessa rientrante […] nello stesso settore di
servizi» (paragrafo 3.6, primo periodo);
- «comporta, di norma, il divieto di invito a procedure dirette
all’assegnazione di un appalto, nei confronti del contraente
uscente e dell’operatore economico invitato e non
affidatario nel precedente affidamento» (paragrafo 3.6,
secondo periodo);
- «Fermo restando quanto previsto al paragrafo 3.6, secondo
periodo, il rispetto del principio di rotazione degli
affidamenti e degli inviti fa sì che l’affidamento o il reinvito al contraente uscente abbiano carattere eccezionale
e richiedano un onere motivazionale più stringente»
(paragrafo 3.7, primo periodo).
Relativamente ai controlli necessari da eseguire prima di
procedere all’affidamento del servizio occorre segnalare che
l’articolo 36, comma 6-bis, del D.Lgs. 50/2016, trattando
degli affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro che
avvengono nei mercati elettronici, chiarisce che la verifica
sull’assenza dei motivi di esclusione di cui all’articolo 80
dello stesso decreto è effettuata su un campione
significativo “in fase di ammissione e di permanenza”
[7],
dal soggetto responsabile dell’ammissione al mercato
elettronico e stabilisce che «Resta ferma la verifica
sull’aggiudicatario ai sensi del comma 5».
Il predetto comma 5 dispone che, qualora la stazione
appaltante abbia fatto ricorso alle procedure negoziate di
cui al comma 2, la verifica (del possesso) dei requisiti
(quelli di ordine generale, necessari per poter contrarre
con la pubblica amministrazione) avviene
sull’aggiudicatario; la stazione appaltante verifica anche
il possesso dei requisiti economici e finanziari e tecnico
professionali eventualmente previsti.
A tale riguardo si segnala che le linee guida ANAC,
trattando degli affidamenti diretti per importi superiori a
20.000 euro, prevedono che «la stazione appaltante, prima di
stipulare il contratto, nelle forme di cui all’articolo 32,
comma 14, del Codice dei contratti pubblici, procede alle
verifiche del possesso dei requisiti di carattere generale
di cui all’articolo 80 del Codice dei contratti pubblici e
di quelli speciali, se previsti, nonché delle condizioni
soggettive che la legge stabilisce per l’esercizio di
particolari professioni o l’idoneità a contrarre con la P.A.
in relazione a specifiche attività» (paragrafo 4.2.4).
Infine, relativamente al capitolato concernente
l’organizzazione dell’evento oggetto di quesito si segnala,
in via collaborativa, che:
- ai sensi dell’articolo 3[8], comma 1, lettera ff)
[9] e
dell’articolo 35 [10], comma 4, primo periodo
[11], del D.Lgs.
50/2016, il valore dell’appalto deve essere indicato al
netto dell’imposta sul valore aggiunto (IVA);
- nell’affidamento diretto, il ricorso al criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa si pone come eccezione,
risultando priva di utilità la previsione di criteri di
attribuzione del punteggio in presenza di un solo
interlocutore. Inoltre, l’articolo 95
[12], comma 3, lett.
c)
[13], del D.Lgs. 50/2016 consente di utilizzare il
criterio del minor prezzo per gli appalti di servizi di
importo fino a 40.000 euro.
---------------
[1] «Codice dei contratti pubblici».
[2] Concernenti le procedure per l’affidamento dei contratti
pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza
comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione
degli elenchi di operatori economici, approvate dal
Consiglio dell’Autorità con delibera n. 1097 del 26.10.2016
e aggiornate al decreto legislativo 19.04.2017, n. 56 con
delibera del Consiglio n. 206 del 01.03.2018.
[3] Convertito in legge, con modificazioni, dall’articolo 1,
comma 1, della legge 07.08.2012, n. 135.
[4] «Contratti sotto soglia».
[5] «Aggregazioni e centralizzazione delle committenze».
[6] Il richiamo all’articolo 38 («Qualificazione delle
stazioni appaltanti e centrali di committenza») non rileva
in questa sede, atteso che le sue previsioni riguardano le
procedure di acquisizione di forniture e servizi di importo
pari o superiore a 40.000 euro (v. articolo 37, comma 1,
secondo periodo).
[7] Si tratta quindi, di controlli che «valgono ai fini
della partecipazione degli operatori economici alle
procedure di affidamento» (ANAC, comunicato del Presidente
del 10.12.2015).
[8] «Definizioni».
[9] «Ai fini del presente codice si intende per: […] «ff)
“contratti sotto soglia”, i contratti pubblici il cui valore
stimato al netto dell’imposta sul valore aggiunto è
inferiore alle soglie di cui all’articolo 35; […]».
[10] «Soglie di rilevanza comunitaria e metodi di calcolo
del valore stimato degli appalti».
[11] «Il calcolo del valore stimato di un appalto pubblico
di lavori, servizi e forniture è basato sull’importo totale
pagabile, al netto dell’IVA, valutato dall’amministrazione
aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore.».
[12] «Criteri di aggiudicazione dell’appalto».
[13] «Può essere utilizzato il criterio del minor prezzo:
[…] c) per i servizi e le forniture di importo fino a 40.000
euro, […]» (26.04.2018- link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
APPALTI:
Quesito: Posso accordare la richiesta di accesso
agli atti relativi all'offerta tecnica del primo
classificato?
Risposta:
L'art. 53, comma 2, lett. c), del D.Lgs. n. 50/2016
esplicitamente statuisce che l'esercizio del diritto di
accesso agli atti di gara è differito "in relazione alle
offerte, fino all'aggiudicazione".
Con il termine "aggiudicazione" deve intendersi il
provvedimento di aggiudicazione definitiva, non la proposta
di aggiudicazione che in quanto atto endoprocedimentale non
è soggetta ad autonoma impugnazione.
Il diritto di accesso agli atti, in considerazione delle sue
rilevanti finalità di pubblico interesse costituisce, ai
sensi dell'articolo 22, secondo comma, della legge n.
241/1990, principio generale dell'attività amministrativa al
fine di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza.
Il procedimento di accesso agli atti non è però rimesso alla
potestà regolamentare e alla discrezionalità delle singole
Amministrazioni, ma è regolato compiutamente dalla legge
che, nel prevedere la tutela della riservatezza del terzo,
nella specie il "know how" industriale concernente
l'offerta tecnica presentata in sede di gara, ha fatto
d'altra parte salvo il diritto degli interessati alla
visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi,
la cui conoscenza sia necessaria per la cura o la difesa dei
propri interessi (Consiglio di Stato Sezione IV, 07.06.2006,
n. 3418).
Dunque, se generalmente non si rilevano condizioni ostative
relativamente alla documentazione amministrativa e
economica, già nota ai concorrenti partecipanti alla seduta
pubblica, diversamente per l'accesso all'offerta tecnica è
necessario che la Stazione Appaltante, prima di procedere
accordando lo stesso, bilanci tra il diritto del richiedente
ed il diritto alla riservatezza dell'altro concorrente.
L'aggiudicatario su richiesta formale della S.A. dovrà
indicare motivatamente quali elementi dell'offerta tecnica
rientrano nei know how aziendali. Solo
successivamente la Stazione Appaltante potrà accordare la
richiesta del concorrente (tratto dalla newsletter
05.04.2018 n. 198 di http://asmecomm.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Quesito: Per l'affidamento del servizio per la
gestione delle sanzioni amministrative al codice della
strada, permane oggi ancora il monopolio delle Poste
Italiane in materia di notifica degli atti giudiziari?
Risposta:
Dal 10.09.2017 è caduto, formalmente, il monopolio di Poste
Italiane nella comunicazione ai cittadini di sanzioni
comminate per violazione del codice stradale e le notifiche
giudiziarie.
L'art. 1, commI 57 e 58, della L. n. 124/2017 sopprime
l'attribuzione in esclusiva al fornitore del servizio
universale postale (Poste), prevedendo che entro 90 giorni
dall'entrata in vigore AGCOM dovrà stabilire i requisiti di
affidabilità, professionalità e onorabilità che gli
operatori dovranno garante .
Nel periodo di regime transitorio Comuni e Società di
riscossione potranno sottoscrivere contratti annuali per
recapitare sanzioni e atti giudiziari esclusivamente con
Poste Italiane.
Pertanto al momento Poste Italiane resta l'unica società
legittimata per tale servizio fino alla conclusione
dell'esecuzione dell'appalto (tratto dalla newsletter
02.03.2018 n. 196 di http://asmecomm.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il vincolo disposto dal citato art. 96, lett. f),
del R.D. 25.07.1904 n. 523 implica l'inedificabilità
assoluta delle aree poste a distanza minore di metri 10 dal
piede degli argini.
La giurisprudenza, al riguardo, ha
chiarito che:
- “comporta vincolo inderogabile di inedificabilità ex art. 33, 1.
28.02.1985 n. 47, tale da precludere il rilascio di
concessione in sanatoria, l'art. 96, lett. f), t.u.
25.07.1904 n. 523, secondo cui sono lavori ed atti vietati
in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e
difese i seguenti: ... f) ... le fabbriche ... a distanza
dal piede degli argini e loro accessori minore di ( ... )
metri dieci”;
- “a nulla rilevano le intenzioni manifestate o meno dalla parte
interessata quanto alla possibile demolizione di un
manufatto abusivo adiacente ad un torrente, dovendosi
unicamente avere riguardo all'esistenza di un vincolo di
inedificabilità assoluta entro i dieci metri dalla sponda
del corso d'acqua pubblica, con il conseguente obbligo per
l'ente vigilante d'imporne la demolizione indipendentemente
dal consenso o dissenso del soggetto interessato, ai sensi
dell'art. 33, legge n. 47 del 1985, poiché in nessun modo
l'abuso edilizio realizzato in violazione di una norma
inderogabile potrebbe essere sanato considerandolo come
un'opera a difesa della sponda, trattandosi di un volume
edilizio costruito per tutt'altro scopo”.
- il vincolo in questione è efficace e cogente sia nel caso in cui
il corso d'acqua sia stato coperto da una strada pubblica
(Tribunale superiore delle acque pubbliche, n. 30/1990) sia
nel caso in cui l'acqua demaniale non sia suscettibile di
utilizzazione a fini pubblici o collettivi.
L'art. 93 del RD n. 523/1904, inoltre, stabilisce che
“formano parte degli alvei i rami o canali, o diversivi dei
fiumi, torrenti, rivi e scolatoi pubblici, ancorché in
alcuni tempi dell'anno rimangono asciutti”.
---------------
2.5. Sotto altro profilo, il vincolo di inedificabilità
entro la fascia di rispetto di dieci metri dal corso
d'acqua, diversamente da quanto dedotto dai ricorrenti, non
è stato apposto in epoca successiva alla data di
realizzazione del manufatto, trattandosi di limite
inderogabile imposto ex lege dall'art. 96, lett. f),
del Regio Decreto 25.07.1904 n. 523, entrato in vigore in
epoca molto precedente alla realizzazione dell'opera.
In particolare, il vincolo disposto dal citato art. 96,
lett. f), del Regio Decreto 25.07.1904 n. 523 implica l'inedificabilità
assoluta delle aree poste a distanza minore di metri 10 dal
piede degli argini.
La giurisprudenza, al riguardo, ha chiarito che:
- “comporta vincolo inderogabile di inedificabilità ex art. 33,
l. 28.02.1985 n. 47, tale da precludere il rilascio di
concessione in sanatoria, l'art. 96, lett. f), t.u.
25.07.1904 n. 523, secondo cui sono lavori ed atti vietati
in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e
difese i seguenti: ... f) ... le fabbriche ... a distanza
dal piede degli argini e loro accessori minore di ( ... )
metri dieci” (TAR Veneto, Sez. II, n. 2795/2003);
- “a nulla rilevano le intenzioni manifestate o meno dalla parte
interessata quanto alla possibile demolizione di un
manufatto abusivo adiacente ad un torrente, dovendosi
unicamente avere riguardo all'esistenza di un vincolo di
inedificabilità assoluta entro i dieci metri dalla sponda
del corso d'acqua pubblica, con il conseguente obbligo per
l'ente vigilante d'imporne la demolizione indipendentemente
dal consenso o dissenso del soggetto interessato, ai sensi
dell'art. 33, legge n. 47 del 1985, poiché in nessun modo
l'abuso edilizio realizzato in violazione di una norma
inderogabile potrebbe essere sanato considerandolo come
un'opera a difesa della sponda, trattandosi di un volume
edilizio costruito per tutt'altro scopo” (Tribunale
superiore delle acque pubbliche, n. 91/2003; v., in senso
conforme, anche TAR Toscana, Sezione III, n. 277/2003 e
Tribunale superiore delle acque pubbliche, n. 31/1999).
- il vincolo in questione è efficace e cogente sia nel caso in cui
il corso d'acqua sia stato coperto da una strada pubblica
(Tribunale superiore delle acque pubbliche, n. 30/1990) sia
nel caso in cui l'acqua demaniale non sia suscettibile di
utilizzazione a fini pubblici o collettivi (TAR Toscana, n.
81/1981).
L'art. 93 del Regio Decreto n. 523/1904, inoltre, stabilisce
che “formano parte degli alvei i rami o canali, o
diversivi dei fiumi, torrenti, rivi e scolatoi pubblici,
ancorché in alcuni tempi dell'anno rimangono asciutti”.
Vanno respinti, pertanto, i primi quattro motivi di ricorso
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 17.05.2018 n. 1288 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In sede di impugnazione di ordinanza di
demolizione di opere abusive emanata in pendenza del termine
per la presentazione della domanda di sanatoria edilizia, ex
art. 32 d.l. 30.09.2003 n. 269 (...), il g.a., chiamato ad
applicare la sospensione di cui all'art. 44 l. 18.02.1985 n.
47, deve valutarne (così come per qualsiasi altra norma) la
ricorrenza dei relativi presupposti in relazione al caso
concreto, escludendola laddove le opere in questione non
siano astrattamente condonabili, sotto il profilo oggettivo,
temporale, finanziario.
La sospensione del giudizio di cui all'art. 44, l.
18.02.1985 n. 47 (richiamato dall'art. 32 d.l. n. 269 del
2003, conv. in l. n. 326 del 2003) non è applicabile in
relazione alle opere assolutamente non suscettibili di
sanatoria, come sono, tra le altre, le opere abusive
eseguite ( ... ) in contrasto con preesistenti vincoli di
inedificabilità (ai sensi dell'art. 33, l. n. 47 del 1985).
---------------
2.6. Quanto all’ultimo motivo, osserva il Collegio
che l'intimazione contenuta nel provvedimento impugnato,
relativa alla sola porzione di opera che, come visto, non è
suscettibile di sanatoria, non viola il principio di
sospensione fissato dall'art. 44 della l. n. 47/1985, atteso
che tale principio non trova applicazione per le opere
assolutamente insuscettibili di sanatoria.
Sul punto la giurisprudenza costante ha affermato che “in
sede di impugnazione di ordinanza di demolizione di opere
abusive emanata in pendenza del termine per la presentazione
della domanda di sanatoria edilizia, ex art. 32 d.l.
30.09.2003 n. 269 ( ... ), il g.a., chiamato ad applicare la
sospensione di cui all'art. 44 l. 18.02.1985 n. 47, deve
valutarne (così come per qualsiasi altra norma) la
ricorrenza dei relativi presupposti in relazione al caso
concreto, escludendola laddove le opere in questione non
siano astrattamente condonabili, sotto il profilo oggettivo,
temporale, finanziario. La sospensione del giudizio di cui
all'art. 44, l. 18.02.1985 n. 47 (richiamato dall'art. 32
d.l. n. 269 del 2003, conv. in l. n. 326 del 2003) non è
applicabile in relazione alle opere assolutamente non
suscettibili di sanatoria, come sono, tra le altre, le opere
abusive eseguite ( ... ) in contrasto con preesistenti
vincoli di inedificabilità (ai sensi dell'art. 33, l. n. 47
del 1985)” (TAR Campania-Napoli, Sezione VI, n.
3816/2005; conf. TAR Campania-Napoli, Sezione IV, n.
18085/2004; TAR Campania-Napoli, Sezione VI, n. 17690/2004;
TAR Campania-Napoli, Sezione IV, n. 16733/2004; TAR
Campania-Napoli, Sezione VI, n. 14660/2004 e TAR
Campania-Napoli, Sezione VI, n. 9527/2004).
2.7. In ragione delle suesposte considerazioni il ricorso è
infondato e va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 17.05.2018 n. 1288 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Presupposti applicativi del danno da perdita di chance e
della responsabilità precontrattuale alla luce della
Adunanza Plenaria n. 5 del 2018.
---------------
●
Risarcimento danni - Danno da perdita di chance –
Presupposti – Individuazione.
●
Risarcimento danni – Presupposti – Annullamento
provvedimento amministrativo, con salvezza del riesercizio –
Non spetta.
●
Risarcimento danni – Responsabilità precontrattuale
–Presupposti – Individuazione.
●
Il danno da perdita di chance presuppone "una rilevante
probabilità del risultato utile" frustrata dall’agire
illegittimo dell'amministrazione, non identificabile nella
perdita della semplice possibilità di conseguire il
risultato sperato, bensì nella perdita attuale di un esito
favorevole, anche solo probabile, se non addirittura la
prova certa di una probabilità di successo almeno pari al
cinquanta per cento o quella che l’interessato si sarebbe
effettivamente aggiudicato il bene della vita cui aspirava
(1).
●
L’annullamento di un provvedimento amministrativo, con
salvezza del riesercizio, ad esito libero, del potere da
parte della medesima amministrazione, non può mai fondare
l’accoglimento di una domanda risarcitoria non venendo in
rilievo un giudicato di spettanza (2)
●
Ai fini della sussistenza della responsabilità
precontrattuale è necessaria la prova del danno patrimoniale
(derivante dalla lesione della libertà di autodeterminazione
negoziale) rappresentato dalle perdite economiche subite (a
causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate)
diverse da quelle ritraibili a titolo di lucro cessante
(c.d. interesse positivo, di cui non si ammette il ristoro).
(3)
---------------
(1) Cons. St., sez. IV, 07.03.2013, n. 1403; id.,
sez. V, 27.12.2017, n. 6088; id.,
sez. V, 25.02.2016, n. 762; id.,
sez. VI, 18.10.2017, n. 4822.
(2) Cons. St., sez. IV,
nn. 1615 del 2018,
826 del 2018.
(3)
Cons. St., A.P., 04.05.2018, n. 5
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.05.2018 n. 2907 - commento tratto da
e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
4.1) Quanto al riconoscimento del danno da
perdita di chance, deve rammentarsi che esso, per
costante giurisprudenza presuppone "una rilevante
probabilità del risultato utile" frustrata dall’agire
illegittimo dell'amministrazione
(cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 07.03.2013, n. 1403 ),
non identificabile nella perdita della semplice
possibilità di conseguire il risultato sperato, bensì nella
perdita attuale di un esito favorevole, anche solo probabile
(cfr. Sez. V, 27.12.2017, n. 6088), se non
addirittura -secondo più restrittivi indirizzi- la prova
certa di una probabilità di successo almeno pari al
cinquanta per cento (Sez. V, 25.02.2016, n. 762) o quella
che l’interessato si sarebbe effettivamente aggiudicato il
bene della vita cui aspirava
(Sez. VI, 18.10.2017, n. 4822).
Nel caso di specie, il conseguimento del bene della vita era
affatto aleatorio perché condizionato:
a) all’inserimento dell’intervento nel programma di
riqualificazione;
b) alla presentazione del programma di riqualificazione secondo le
indicazioni del bando ministeriale ed entro il termine ivi
indicato;
c) all’ammissione a finanziamento del programma di
riqualificazione.
4.2) In ogni caso, l’annullamento di un
provvedimento amministrativo, con salvezza del riesercizio,
ad esito libero, del potere da parte della medesima
amministrazione, non può mai fondare l’accoglimento di una
domanda risarcitoria non venendo in rilievo un giudicato di
spettanza (cfr.
ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, nn. 1615 del 2018, 826
del 2018 ivi i richiami applicativi dei principi elaborati
sul punto dalla Plenaria n. 2 del 2017).
Nella specie il Tar, con statuizione non impugnata, ha
annullato per difetto di motivazione la delibera comunale
che ha deciso di abbandonare la partecipazione al programma
nazionale di edilizia sperimentale, onerando il comune di
esplicitare le ragioni della sua scelta.
4.3.) Quanto al ristoro delle spese sostenute, l’avviso di
selezione (mai impugnato in parte qua), all’art. 6,
intitolato “Clausola di salvaguardia” -dopo aver
precisato al primo comma che “Il presente avviso non
costituisce offerta al pubblico ai sensi dell'art.1336 del
C.C., non è impegnativo per l'amministrazione comunale e non
è impegnativo per i soggetti che dovessero aderire
all’invito, prima della formalizzazione dell'offerta, come
stabilito nel precedente punto 5”- ha disposto al
secondo e terzo comma che:
- “Nulla è dovuto dall’amministrazione comunale, anche a titolo
di rimborso delle spese sostenute, ai soggetti proponenti le
cui proposte non dovessero risultare inserite nel programma
o per le quali non si dovesse dar corso alla procedura di
approvazione, o la stessa procedura di approvazione non si
dovesse concludere in senso positivo”.
- “Il recepimento delle proposte private d'intervento
all'interno del programma non costituirà in ogni caso
approvazione della proposta d'intervento, la cui effettiva
attuabilità è condizionata alla positiva conclusione
dell'intera procedura di approvazione e finanziamento del
programma stesso”.
Orbene è evidente che se nemmeno il recepimento delle
proposte nel programma costituisce approvazione della
proposta d’intervento, e che la sua attuabilità è
condizionata alla conclusione dell’intera procedura di
approvazione e finanziamento del programma (ad opera
dell’Amministrazione statale a ciò preposta), non può
operarsi alcuna utile distinzione ai fini dell’esclusione di
ogni forma di riconoscimento economico per le proposte
private presentate, nemmeno nella forma di rimborso delle
spese sostenute.
4.4.) Sotto tale angolazione non possono
neppure trovare ingresso i principi elaborati dalla
giurisprudenza
(Cons. Stato, sez. III, n. 2497 del 2016; sez. IV, n. 156
del 2013) circa la inefficacia di clausole
del bando di gara che esonerino la p.a. da qualsiasi
responsabilità precontrattuale e l’obbligo di interpretare
gli atti costitutivi di una procedura di evidenza pubblica
secondo buona fede: nella specie, infatti, non si è in
presenza di una autentica procedura di evidenza pubblica e
la clausola in esame non esonera preventivamente la p.a.
dalla responsabilità civile a titolo di responsabilità
precontrattuale.
Responsabilità che, in ogni caso –oltre a
non essere stata espressamente allegata- non potrebbe
ritenersi configurabile alla luce degli stringenti parametri
individuati dalla Plenaria n. 5 del 2018; in particolare non
si ravvisa l’affidamento incolpevole del soggetto coinvolto
nelle trattative, relativamente al mancato rimborso delle
spese di progettazione, e non è provato il danno
patrimoniale (derivante dalla lesione della libertà di
autodeterminazione negoziale) rappresentato dalle perdite
economiche subite (a causa delle scelte negoziali
illecitamente condizionate) diverse da quelle ritraibili a
titolo di lucro cessante (c.d. interesse positivo, di cui
non si ammette il ristoro).
5.) In conclusione l’appello in epigrafe, e le domande
risarcitorie con esso riproposte, deve essere rigettato. |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla
trasformazione di una porzione -autorimessa o deposito- di
immobile, nel suo complesso a destinazione abitativa, con
l’effetto di incidere in modo determinate sul relativo
carico urbanistico.
Questo Tribunale ha considerato
«l’aggiunta di un vano, ricavato da parte di superficie del
deposito adiacente al piano terra» alla stregua di «una
difformità rilevante rispetto al progetto approvato», atteso
che «in luogo di uno spazio destinato a deposito sono stati
realizzati un volume ed una superficie residenziali … Di
conseguenza, non si tratta di una mera opera interna,
derivandone, in conseguenza del peculiare uso
sostanzialmente diverso rispetto a quello assentito … un
superamento dei parametri edilizi consentiti».
A conclusioni analoghe giunge anche il TAR Lazio, secondo
cui «nell’ambito di una unità immobiliare ad uso
residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in
senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo
strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione
come superficie residenziale all’atto del rilascio del
permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di
servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante
la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una
soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili
igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si
configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con
l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della
giurisprudenza, … deve ritenersi che … allorché lo stesso
[cambio di destinazione d’uso] intervenga … tra locali
accessori e vani ad uso residenziale, integra una
modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico
urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del
permesso di costruire e ciò indipendentemente
dall’esecuzione di opere…».
---------------
Sul primo aspetto, con comunicazione n. 15795 del
24.10.2016, di «riscontro alle controdeduzioni del
27/09/2016 prot. n. 14046», il Comune di Roccapiemonte
aveva rappresentato che «agli atti d’ufficio non risulta
alcuna comunicazione, SCIA o altra pratica edilizia dalla
quale riscontrare l’avvenuta legittimazione della variazione
effettivamente operata».
Al riguardo, non può essere condiviso quanto affermato da
parte ricorrente, secondo cui «in assenza di opere, non
contestate nel provvedimento, il mutamento di destinazione
fra categorie omogenee è libero» (pag. 7 del ricorso).
È vero infatti che l’invocato art. 2, co. 5, L.R. n.
19/2001, ha reso «libero il mutamento di destinazione
d’uso senza opere purché nell’ambito di categorie
compatibili alle singole zone territoriali omogenee (co. 5,
art. 2 cit.)», sul presupposto che «nell’ambito delle
stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non
diversi regimi urbanistico-contributivi stante le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell’ambito
della medesima categoria» (Cons. di Stato, I, sent. n.
3586/2006).
Nel caso in esame, tuttavia, viene in rilievo la diversa
questione della trasformazione di una porzione -autorimessa
o deposito- di immobile, nel suo complesso a destinazione
abitativa, con l’effetto di incidere in modo determinate sul
relativo carico urbanistico.
In fattispecie analoga, questo Tribunale ha considerato «l’aggiunta
di un vano, ricavato da parte di superficie del deposito
adiacente al piano terra» alla stregua di «una
difformità rilevante rispetto al progetto approvato»,
atteso che «in luogo di uno spazio destinato a deposito
sono stati realizzati un volume ed una superficie
residenziali … Di conseguenza, non si tratta di una mera
opera interna, derivandone, in conseguenza del peculiare uso
sostanzialmente diverso rispetto a quello assentito … un
superamento dei parametri edilizi consentiti» (sez. I,
sent. n. 1016/2013, confermata dal Consiglio di Stato, VI,
sent. n. 216/2015).
A conclusioni analoghe giunge anche il TAR Lazio, secondo
cui «nell’ambito di una unità immobiliare ad uso
residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in
senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo
strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione
come superficie residenziale all’atto del rilascio del
permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di
servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante
la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una
soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili
igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si
configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con
l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della
giurisprudenza, … deve ritenersi che … allorché lo stesso
[cambio di destinazione d’uso] intervenga … tra locali
accessori e vani ad uso residenziale, integra una
modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico
urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del
permesso di costruire e ciò indipendentemente
dall’esecuzione di opere…» (sez. II-bis, sent. n.
4577/2017) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 14.05.2018 n. 742 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Il criterio per accertare se una costruzione sia
da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione
rientri nella competenza professionale dei geometri-
consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la
progettazione e l’esecuzione dell’opera comportano e le
capacità occorrenti per superarle.
A questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del
cemento armato (ben potendo anche una costruzione “non
modesta” essere realizzata senza di esso), assume
significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in
zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni
intervento edilizio alla normativa di cui alla l. n. 64
cit., la quale impone calcoli complessi che esulano dalle
competenze professionali dei geometri.
---------------
Sulla qualificazione, infine, del professionista incaricato,
il Comune rileva che il progetto -assentito in base alla
legge n. 219/1981, recante «Conversione in legge, con
modificazioni, del D.L. 19.03.1981, n. 75, recante ulteriori
interventi in favore delle popolazioni colpite dagli eventi
sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981. Provvedimenti
organici per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori
colpiti»- è sottoscritto da un perito edile, non
abilitato a tal fine.
Per vero, il «Progetto di variante-stralcio mediante
scorporo di unità abitativa “autonoma” dalla concessione con
contributo n. 273/03 (Richiesta di nuova concessione)
Aggiornamento richiesto con nota U.T.C. n. 4254 del 26/11/07»
in data 04.12.2007 -approvato dal Comune di Roccapiemonte in
data 25.02.2010 (verbale n. 138 Commissione ex art. 14 legge
n. 219/1981)- e la Relazione tecnica allegata risultano
elaborati dal perito edile Gi.Fa., il quale dichiara, tra
l’altro, che:
- «il danno subito dall’immobile è da ritenersi in stretta
connessione con l’evento sismico dell’23/11/80 e successive
scosse sismiche; e che pertanto l’intervento di riparazione
proposto è indispensabile al fine di una tale rifusione dei
danni subiti»;
- «i lavori saranno diretti e collaudati dallo stesso».
Al riguardo, l’art. 16, R.D. n. 275/1929 (Regolamento per la
professione di perito industriale), stabilisce che «spettano
ai periti industriali, per ciascuno nei limiti delle
rispettive specialità di meccanico, elettricista, edile,
tessile, chimico, minerario, navale ed altre analoghe, le
funzioni esecutive per i lavori alle medesime inerenti.
Possono inoltre essere adempiute: … b) dai periti edili
anche la progettazione e direzione di modeste costruzioni
civili, senza pregiudizio di quanto è disposto da speciali
norme legislative, nonché la misura, contabilità e
liquidazione dei lavori di costruzione…».
Si tratta della medesima locuzione utilizzata dal
Legislatore in relazione ai geometri (art. 16, lett. m, R.D.
n. 274/1929: «L’oggetto ed i limiti dell’esercizio
professionale di geometra sono regolati come segue: … m)
progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni
civili»), rispetto ai quali il Consiglio di Stato ha
affermato che «il criterio per accertare se una
costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua
progettazione rientri nella competenza professionale dei
geometri- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che
la progettazione e l’esecuzione dell’opera comportano e le
capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non
è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo
anche una costruzione “non modesta” essere realizzata senza
di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la
costruzione sorga in zona sismica, con conseguente
assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa
di cui alla l. n. 64 cit., la quale impone calcoli complessi
che esulano dalle competenze professionali dei geometri»
(Cons. di Stato, V, sent. n. 883/2015).
Le conclusioni raggiunte con riferimento alle predette
questioni consentono di affermare la legittimità del
provvedimento impugnato.
Il ricorso deve, pertanto, essere respinto (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 14.05.2018 n. 742 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza costante “l’ordine di
demolizione di opera edilizia abusiva” deve ritenersi
“sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata
abusività del manufatto”.
Ciò in quanto “l’attività di repressione degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di potere non discrezionale,
bensì del tutto vincolato, ancorato semmai ad un mero
accertamento tecnico dello stato dei luoghi”.
---------------
9. Sempre per l’infondatezza deve infine concludersi in
ordine all’asserito difetto di motivazione, atteso che per
giurisprudenza costante “l’ordine di demolizione di opera
edilizia abusiva” deve ritenersi “sufficientemente
motivato con l’affermazione dell’accertata abusività del
manufatto” (così Cons. St., sez. IV, 28.02.2017, n.
908); ciò in quanto “l’attività di repressione degli
abusi edilizi costituisce manifestazione di potere non
discrezionale, bensì del tutto vincolato, ancorato semmai ad
un mero accertamento tecnico dello stato dei luoghi”
(TAR Campania , Napoli, sez. III, 20.02.2018, n. 1096) (TAR
Umbria,
sentenza 11.05.2018 n. 303 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’Adunanza plenaria restituisce alla Sezione la decisione
della questione rimessale relativa alla spettanza del
risarcimento del danno in caso di aggiudicazione
dell’appalto senza gara.
---------------
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica
amministrazione – Risarcimento da perdita di chance -
Affidamento senza gara – Impresa del settore – An
risarcimento danni – Contrasto di giurisprudenza –
Rimessione all’Adunanza plenaria – Restituzione alla Sezione
per la decisione della questione rimessa.
E’ restituita alla Sezione la decisione della
questione -che era stata rimessa All'Adunanza plenaria- se
spetti, in caso di affidamento diretto, senza gara, di un
appalto, il risarcimento danni per equivalente derivante da
perdita di chance ad una impresa concorrente che avrebbe che
potuto concorrere quale operatore del settore economico (1).
---------------
(1) Il
Cons. St., sez. V, 11.01.2018, n. 118 con
sentenza non definitiva aveva rimesso all’Adunanza plenaria
la questione se spetti, in caso di affidamento diretto,
senza gara, di un appalto, il risarcimento danni per
equivalente derivante da perdita di chance ad una impresa
concorrente che avrebbe che potuto concorrere quale
operatore del settore economico.
L’Adunanza plenaria ha ritenuto che la questione ad essa
deferita non possa essere utilmente esaminata nell’ambito
della presente controversia, ravvisandosi dunque
l’opportunità di restituire gli atti alla Sezione, ai sensi
dell’art. 99, comma 1, ultimo periodo, c.p.a..
Ha affermato che assume, al riguardo, rilievo significativo
il fatto che la questione rimessa all’Adunanza plenaria
–quella, cioè, dell’opzione, tra “teoria ontologica”
e “teoria eziologica”– non sembra aver riferimento
soltanto al problema dell’astratta risarcibilità della
chance, ma implica rilevanti conseguenze in ordine alla
qualificazione della natura giuridica della figura,
all’identificazione degli elementi costitutivi della
fattispecie, all’accertamento dell’ingiustizia del danno e
del nesso di causalità, all’accertamento probatorio ed al
grado di certezza con esso richiesto, alla determinazione
della consistenza della situazione soggettiva vantata nei
confronti del debitore, agli eventuali criteri di
liquidazione del danno.
Ora, come risulta palese dalla lettura della sentenza non
definitiva a cui accede l’ordinanza di rimessione, la Quinta
Sezione sembrerebbe essersi già pronunciata su diversi dei
profili sopra cennati, quali la sussistenza del nesso di
causalità tra il comportamento dell’amministrazione
–l’affidamento del contratto senza gara– e la perdita di
chance, l’esistenza e la consistenza, anche ai fini
risarcitori, della chance di aggiudicazione e le connesse
valutazioni legate al profilo probatorio. Potrebbero, in tal
modo, essere stati toccati profili attinenti, in ultima
analisi, alla determinazione stessa della natura giuridica
della perdita di chance, nonché al danno risarcibile.
Le affermazioni contenute nella sentenza non definitiva n.
118 del 2018 in ordine alla sussistenza del nesso di
causalità ed alla consistenza della chance di aggiudicazione
–quest’ultima calcolata secondo una percentuale correlata al
numero dei potenziali concorrenti di una gara virtuale–
potrebbero, così, implicare l’utilizzazione di un metodo di
accertamento dell’illecito e di liquidazione del danno, la
cui correttezza potrebbe apparire strettamente correlata ai
quesiti prospettati sulla ricostruzione dell’illecito e
sulle conseguenze sull’esistenza e sulla liquidazione del
danno da perdita di chance; quesiti, peraltro, risolvibili
in astratto anche attraverso l’individuazione di percorsi
ricostruttivi alternativi ovvero intermedi e comunque
eclettici rispetto alla dicotomia tra “teoria ontologica”
e “teoria eziologica”.
In una situazione del genere, caratterizzata dall’incertezza
sopra descritta, la pronuncia dell’Adunanza plenaria, da una
parte, potrebbe inammissibilmente interferire con profili
già esaminati dalla Sezione con la sentenza non definitiva;
dall’altra, potrebbe risultare in qualche modo condizionata
dalle chiavi ricostruttive utilizzate dalla Sezione e dalle
scelte già operate con sentenza, così escludendo la
possibilità stessa di un esame approfondito dei quesiti
prospettati non condizionato da tali scelte.
Verrebbe, in tal modo, esclusa la possibilità
dell’affermazione di un principio di diritto conseguente ad
un esame pieno delle fattispecie (Consiglio
di Stato, A.P.,
ordinanza 11.05.2018 n. 7
- commento tratto da e link a
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APPALTI:
Alla Corte di giustizia UE l’ordine di esame del ricorso
principale e di quello incidentale se in gara ci sono più di
due concorrenti non evocati in giudizio o le cui offerte non
sono censurate.
---------------
Processo amministrativo - Rito appalti – Ricorso
incidentale escludente – Rapporto con ricorso principale –
Pluralità di concorrenti non evocati in giudizio o le cui
offerte non sono censurate - Esame di entrambi i ricorsi –
Autonomia di valutazione del giudice – Rimessione alla Corte
di giustizia UE.
Deve essere rimessa alla Corte di
giustizia UE la questione se l’art. 1, paragrafi 1, comma 3,
e 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del
21.12.1989 -che coordina le disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative relative all’applicazione
delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione
degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come
modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio dell’11.12.2007- possa essere interpretato
nel senso che esso consente che, allorché alla gara abbiano
partecipato più imprese e le stesse non siano state evocate
in giudizio (e comunque avverso le offerte di talune di
queste non sia stata proposta impugnazione), sia rimessa al
Giudice, in virtù dell’autonomia processuale riconosciuta
agli Stati membri, la valutazione della concretezza
dell’interesse dedotto con il ricorso principale da parte
del concorrente destinatario di un ricorso incidentale
escludente reputato fondato, utilizzando gli strumenti
processuali posti a disposizione dell’ordinamento, e
rendendo così armonica la tutela di detta posizione
soggettiva rispetto ai consolidati principi nazionali in
punto di domanda di parte (art. 112 c.p.c.), prova
dell’interesse affermato (art. 2697 c.c.), limiti soggettivi
del giudicato che si forma soltanto tra le parti processuali
e non può riguardare la posizione dei soggetti estranei alla
lite (art. 2909 c.c.) (1).
---------------
(1)
La questione era stata rimessa da
Cons. St., sez. V, ord., 06.11.2017, n. 5103.
Ha premesso l’Alto Consesso che gli sforzi del legislatore
nazionale del Codice dei contratti, nella parte in cui ha
modificato l’art. 120 c.p.a., per adeguarsi alle
prescrizioni dei competenti organismi europei ed il dialogo
costante della giurisdizione amministrativa con la Corte di
Giustizia non hanno del tutto eliso le incertezze degli
interpreti su alcune problematiche in materia di pubblici
incanti: tra queste, rientra certamente la tematica dei
rapporti intercorrenti tra il ricorso principale ed il
ricorso incidentale c.d. “escludente”.
L’Adunanza plenaria, dopo aver tratteggiato una puntuale
ricostruzione di tutte le pronunce della stessa Adunanza
plenaria e della Corte di giustizia intervenute sulla
materia del rapporto tra ricorso principale e ricorso
incidentale nella materia delle gare pubbliche ha ricordato
con la sentenza della Grande Sezione della Corte di
giustizia 05.04.2016 in causa C-689/13 (Puligienica).
La Corte ha affermato che i princìpi enunciati con la
sentenza Fastweb del 2013 risultano applicabili anche nel
caso di una gara con più di due concorrenti (“il numero
di partecipanti alla procedura di aggiudicazione
dell’appalto pubblico di cui trattasi, così come il numero
di partecipanti che hanno presentato ricorsi e la divergenza
dei motivi dai medesimi dedotti, sono privi di rilevanza ai
fini dell’applicazione del principio giurisprudenziale che
risulta dalla sentenza Fastweb” –punto 29 della
motivazione-) e che l’interesse del ricorrente principale
destinatario del ricorso incidentale escludente non deve
essere ricollegato all’iniziativa giurisdizionale, bensì
all’operato della stessa amministrazione, che potrebbe agire
in autotutela, annullando l’intera procedura (“non è
escluso che una delle irregolarità che giustificano
l’esclusione tanto dell’offerta dell’aggiudicatario quanto
di quella dell’offerente che contesta il provvedimento di
aggiudicazione dell’amministrazione aggiudicatrice vizi
parimenti le altre offerte presentate nell’ambito della gara
d’appalto, circostanza che potrebbe comportare la necessità
per tale amministrazione di avviare una nuova procedura”
–punto 28 della motivazione-).
Successivamente alla sentenza “Puligienica”, la Corte
di giustizia è tornata nuovamente sul tema con due recenti
pronunce:
a) nell’ultima in ordine cronologico, resa dalla Sezione VIII, il
10.05.2017 nella causa C-131/16 (Archus) è stato affermato
che la direttiva 92/13 deve essere interpretata nel senso
che, nel caso in cui una procedura di aggiudicazione di un
appalto pubblico abbia dato luogo alla presentazione di due
offerte e all’adozione, da parte dell’amministrazione
aggiudicatrice, di due determinazioni che contemporaneamente
rigettano l’offerta di uno degli offerenti ed aggiudicano
l’appalto all’altro, l’offerente escluso, che ha presentato
un ricorso avverso le due determinazioni, deve poter
chiedere l’esclusione dell’offerta dell’aggiudicatario, in
modo che la nozione di “un determinato appalto”, ai
sensi dell’art. 1, par. 3, della Direttiva 92/13 possa
ricomprendere l’eventuale avvio di una nuova procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico: secondo la
giurisprudenza nazionale (si veda Cass. civ., sez. un.,
29.12.2017, n. 31226, considerando 3.3.2) in tal modo
sarebbe stato “reso ancora più esplicito l'enunciato
della sentenza Fastweb relativo alla possibilità che
l'amministrazione aggiudicatrice sia indotta a constatare
l'impossibilità di procedere alla scelta di un'offerta
regolare, spiegando che: "Da un lato, infatti, l'esclusione
di un offerente può far sì che un altro offerente ottenga
l'appalto direttamente nell'ambito della stessa procedura.
D'altro, nell'ipotesi di esclusione di tutti gli offerenti e
dell'indizione di una nuova procedura di aggiudicazione di
un appalto pubblico, ciascuno degli offerenti potrebbe
parteciparvi e, quindi, ottenere indirettamente l'appalto"
(punto 52). Con il che è definitivamente chiarito che basta
la mera eventualità del rinnovo della gara a radicare
l'interesse del ricorrente a contestare l'aggiudicazione.”.
Nella sentenza del 21.12.2016, Bietergemeinschaft Technische
Gebäudebetreuung und Caverion Österreich (C 355/15 punti da
13 a 16, 31 e 36) la Corte ha, invece, affermato che “ad
un offerente la cui offerta era stata esclusa
dall’amministrazione aggiudicatrice da una procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico poteva essere negato
l’accesso a un ricorso avverso la decisione di
aggiudicazione di un appalto pubblico in quanto la decisione
di esclusione di tale offerente era stata confermata da una
decisione che ha acquisito autorità di cosa giudicata prima
che il giudice investito del ricorso avverso la decisione di
aggiudicazione dell’appalto statuisse, in modo tale che
detto offerente doveva essere considerato definitivamente
escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto
pubblico in questione”.
La giurisprudenza nazionale non è, peraltro, concorde in
ordine alle conseguenze da trarre dalle statuizioni della
Corte di Giustizia dell’Unione europea citate ai punti V e
VI del precedente paragrafo.
Il rilievo attribuito al concetto di “interesse
strumentale alla ripetizione della procedura” dalle
statuizioni della Corte di Giustizia ha consentito
l’affermazione di alcuni punti fermi:
a) nessuno dubita che, nel caso in cui siano rimasti in gara
unicamente due concorrenti e gli stessi propongano ricorsi
reciprocamente escludenti, si imponga la disamina di ambedue
i mezzi di impugnazione dai medesimi proposti, quali che
siano i motivi di censura ivi contenuti;
b) parimenti, nessuna perplessità sussiste circa l’esattezza
dell’affermazione secondo cui ad analoghe conclusioni deve
pervenirsi (anche in presenza di una pluralità di
contendenti rimasti in gara), ove il ricorso principale
contenga motivi che, se accolti, comporterebbero il rinnovo
della procedura in quanto:
I) si censuri la regolarità della posizione -non
soltanto dell’aggiudicatario e di tutti gli altri
concorrenti rimasti in gara, collocati in posizione migliore
della propria ma, anche- dei rimanenti concorrenti collocati
in posizione deteriore;
II) ovvero perché siano proposte censure avverso
la lex specialis idonee, ove ritenute fondate, ad
invalidare l’intera selezione evidenziale;
c) in tali casi, si è raggiunta una piena concordanza di opinioni
circa l’obbligatorietà dell’esame del ricorso principale, in
quanto dall’accoglimento di quest’ultimo discenderebbe con
certezza la caducazione integrale della gara e verrebbe così
tutelato il subordinato interesse strumentale alla
riedizione della procedura.
Sussiste incertezza, viceversa, nell’evenienza in cui,
essendo rimasti in gara una pluralità di contendenti:
a) i ricorsi reciprocamente escludenti non riguardino la posizione
di talune delle ditte rimaste in gara di guisa che, anche
laddove entrambi i ricorsi (principale ed incidentale) siano
scrutinati, e dichiarati fondati, rimarrebbero pur tuttavia
alcune offerte non “attinte” dai vizi riscontrati;
b) al contempo, il ricorso principale non prospetti censure avverso
la lex specialis tese ad invalidare l’intera gara e
determinanti –ove accolte- la certa ripetizione della
procedura.
L’Adunanza ha quindi affermato che sul punto sono
enucleabili due filoni interpretativi; entrambi muovono
dall’identico punto di partenza (dall’accoglimento del
ricorso incidentale “escludente” discende
l’insussistenza dell’interesse diretto e immediato del
ricorrente principale riguardo all’aggiudicazione perché,
essendo stato accertato che lo stesso è stato indebitamente
ammesso alla gara, questi certamente non può ottenere
l’aggiudicazione), ma divergono nelle conclusioni:
a) secondo una prima linea esegetica (Cons.
St., sez. V, 20.07.2017, n. 3593) la sentenza
della Grande Sezione 05.04.2016 in causa C-689/13-
Puligienica imporrebbe anche in simili evenienze la disamina
del ricorso principale, pur dopo l’avvenuto accoglimento del
ricorso incidentale escludente, non dovendosi tenere conto
del numero delle imprese partecipanti (e del fatto che
alcune siano rimaste estranee al giudizio) né dei vizi
prospettati come motivi di ricorso principale poiché la
domanda di tutela può essere evasa soltanto con l’esame di
tutti i motivi di ricorso, principale e incidentale: nella
descritta situazione non costituirebbe evenienza necessaria
l’aggiudicazione del contratto all’impresa successivamente
classificata, perché la stazione appaltante potrebbe sempre
ritenere opportuno, dinanzi all’esclusione delle prime
classificate, riesaminare in autotutela gli atti di
ammissione delle altre imprese al fine di verificare se il
vizio accertato sia loro comune, di modo che non vi resti
spazio effettivo per aggiudicare a un’offerta regolare e si
addivenga alla ripetizione della procedura;
b) secondo un altro approccio ermeneutico, viceversa (Cons.
St., sez. III, 26.05.2016, n. 3708),
nell’evenienza data, l’esame del ricorso principale si
imporrebbe soltanto laddove l’accoglimento dello stesso
produca come effetto conformativo, un vantaggio, anche
mediato e strumentale, per il ricorrente principale, tale
dovendosi intendere anche quello al successivo riesame, in
via di autotutela, delle offerte affette dal medesimo vizio
riscontrato con la sentenza di accoglimento: ma, nel caso di
più di due imprese partecipanti alla gara delle quali solo
due siano in giudizio, ciò potrebbe avvenire soltanto se
fosse rimasto accertato che anche le offerte delle restanti
imprese risultino affette dal medesimo vizio che aveva
giustificato la statuizione di esclusione dalla procedura
dell’offerente parte della controversia.
Tali incertezze interpretative hanno indotto l’Adunanza
plenaria, in qualità di giudice di ultima istanza, di
disporre in via pregiudiziale il rinvio della questione alla
Corte di giustizia (Consiglio
di Stato, A.P.,
ordinanza
11.05.2018 n. 6 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di un muro di recinzione - Modifica
rilevante dell'assetto urbanistico del territorio - Permesso
a costruire - Necessità - Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi, la realizzazione di un muro di
recinzione necessita del previo rilascio del permesso a
costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura
e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da
modificare l'assetto urbanistico del territorio, così
rientrando nel novero degli "interventi di nuova
costruzione" di cui all'art. 3, lett. e), del d.P.R. n.
380 del 2001 (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e
altro) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.05.2018 n. 20739
- link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
PRIVACY: Possibile registrare i colleghi di lavoro per
tutelarsi. Per la Cassazione sussiste la deroga prevista dal
d.lgs. 196/2003 non essendo necessario il consenso altrui se
la registrazione mira a difendere un proprio diritto in sede
giudiziaria come quello di salvare il proprio posto di
lavoro.
No al licenziamento di chi registra i
colleghi per difendersi.
Non solo è illegittimo ma scatta anche la reintegra del
dipendente licenziato, per grave violazione della privacy,
per aver registrato, e filmato, delle conversazioni ad
insaputa dei colleghi, senza averle mai diffuse all'esterno,
ed al solo fine di precostituirsi degli elementi di difesa
per salvaguardare la propria posizione in azienda.
---------------
3.2. Va innanzitutto chiarito che, sulla base della
normativa a
tutela della privacy (d.lgs. 30.06.2003, n. 196, oggetto
di
successivi aggiornamenti), per 'trattamento' dei dati
personali si deve
intendere qualunque operazione o complesso di operazioni,
effettuati
anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti
la raccolta,
la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la
consultazione,
l'elaborazione, la modificazione, la selezione,
l'estrazione, il raffronto,
l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione,
la diffusione,
la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non
registrati in una banca di dati -art. 4, lett. a)- e che
per 'dato personale' si deve
intendere qualunque informazione relativa a persona fisica,
identificata o identificabile, anche indirettamente,
mediante
riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un
numero di
identificazione personale -art. 4, lett. b)- e così,
dunque, qualunque
informazione che possa fornire dettagli sulle
caratteristiche, abitudini,
stile di vita, relazioni personali, orientamento sessuale,
situazione
economica, stato civile, stato di salute etc. della persona
fisica ma
anche e soprattutto le immagini e la voce della persona
fisica.
Ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. n. 196/2003, il trattamento
di dati
personali da parte di privati o di enti pubblici economici è
ammesso
solo con il consenso espresso dell'interessato.
L'art. 167, co. 1, sotto la rubrica 'trattamento illecito di
dati', apre
il capo II (dedicato agli illeciti penali) del titolo III
(rubricato
'sanzioni') del d.lgs. n. 196/2003. La norma prevede due
distinte
condotte tipiche, diversamente sanzionate: l'una relativa al
trattamento illecito di dati personali da cui derivi
nocumento al
titolare dei dati stessi e l'altra consistente nella
comunicazione o
diffusione dei dati illecitamente trattati,
indipendentemente dal
potenziale nocumento che ne derivi a terzi.
Entrambe le
condotte
presuppongono un preventivo trattamento dei dati personali
altrui,
realizzato in violazione delle prescrizioni dettate, tra gli
altri, dall'art.
23 del medesimo d.lgs..
Ai sensi dell'art. 4, co. 1, lett. m), la condotta di
'diffusione'
consiste, poi, nel 'dare conoscenza dei dati personali a
soggetti
indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro
messa a
disposizione o consultazione'.
Il trattamento dei dati personali, ammesso di norma in
presenza
del consenso dell'interessato, può essere eseguito anche in
assenza di
tale consenso, se, come statuisce l'art. 24, co. 1, lettera
f), è volto a
far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria o per
svolgere le investigazioni difensive previste dalla legge n.
397/2000, e ciò a
condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tali
finalità e
per il periodo strettamente necessario al loro
perseguimento.
Si tratta, come è di tutta evidenza, della previsione di una
deroga
che rende l'attività, se svolta nel rispetto delle
condizioni ivi previste,
di per sé già a monte lecita.
In tale ipotesi, e dunque laddove il trattamento dei dati
personali
operato in assenza del consenso del titolare dei dati
medesimi sia
strettamente strumentale alla tutela giurisdizionale di un
diritto da
parte di chi tale trattamento effettua e pertanto sia
finalizzato
all'esercizio delle prerogative di difesa, è evidentemente
anche
insussistente il presupposto delle condotte incriminatrici
previste
dall'art. 167, co. 1, del d.lgs. n. 196/2003.
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente
sottolineato,
in termini generali, come la rigida previsione del consenso
del titolare
dei dati personali subisca "deroghe ed eccezioni quando si
tratti di far
valere in giudizio il diritto di difesa, le cui modalità di
attuazione
risultano disciplinate dal codice di rito" (Cass., Sez. U.,
08.02.2011, n. 3034). Ciò sulla scorta dell'imprescindibile
necessità di
bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una
parte e
della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e
pertanto di
contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati
con le
formalità previste dal codice di procedura civile per la
tutela dei diritti
in giudizio.
In linea con tale impostazione ed in ambito più strettamente
lavoristico è stato ulteriormente precisato che
la
registrazione
fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel
genus delle
riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 cod. civ., ha
natura di
prova ammissibile nel processo civile del lavoro così come
in quello
penale. Si è, quindi, ritenuto (v. Cass. 29.12.2014,
n. 27424
ed i richiami in essa contenuti a Cass. 22.04.2010, n.
9526 ed a Cass. 14.11.2008, n. 27157), alla luce della
giurisprudenza
delle Sezioni penali di questa S.C., che la registrazione
fonografica di
un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di
trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe,
è prova
documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro
suggerimento o
su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi, in ogni
caso, di
registrazione operata da persona protagonista della
conversazione,
estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere
testimonianza nel processo (espressamente in tal senso v.
Cass. pen.
n. 31342/2011; Cass. pen. n. 16986/2009; Cass. pen. n. 14829/2009;
Cass.
pen. n. 12189/2005; Cass. pen., Sez. U., n. 36747/2003).
E' stato, altresì, chiarito che l'iporesi derogatoria di cui
all'art. 24
del d.lgs. n. 196/2003 che permette di prescindere dal
consenso
dell'interessato sussiste anche quando il trattamento dei
dati, pur non
riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione
viene eseguita,
sia necessario, per far valere o difendere un diritto (Cass.
20.09.2013, n. 21612).
Unica condizione richiesta è che i dati medesimi siano
trattati
esclusivamente per tali finalità e per il periodo
strettamente
necessario al loro perseguimento (cfr. la sopra richiamata
Cass., Sez.
U., n. 3033/2011 nonché Cass. 11.07.2013, n. 17204 e
Cass. 10.08.2013, n. 18443).
Quanto poi al concreto atteggiarsi del diritto di difesa, è
stato
ritenuto che la pertinenza dell'utilizzo rispetto alla tesi
difensiva va
verificata nei suoi termini astratti e con riguardo alla sua
oggettiva
inerenza alla finalità di addurre elementi atti a sostenerla
e non alla
sua concreta idoneità a provare la tesi stessa o avendo
riguardo alla
ammissibilità e rilevanza dello specifico mezzo istruttorio
(v. la già
citata Cass. n. 21612/2013).
Inoltre, il diritto di difesa non va considerato limitato
alla pura e
semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle
attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili,
ancor prima che la controversia
sia stata formalmente instaurata mediante citazione o
ricorso (cfr. la
già citata Cass. n. 27424/2014).
Non a caso nel codice di
procedura
penale il diritto di difesa costituzionalmente garantito
dall'art. 24
Cost. sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto
la qualità
di parte in un procedimento: basti pensare al diritto alle
investigazioni
difensive ex art. 391-bis cod. proc. pen. e ss., alcune
delle quali
possono esercitarsi addirittura prima dell'eventuale
instaurazione di
un procedimento penale (cfr. art. 391-nonies cod. proc. pen.),
oppure
ai poteri processuali della persona offesa, che -ancor
prima di
costituirsi, se del caso, parte civile- ha il diritto, nei
termini di cui
all'art. 408 cod. proc. pen. e ss., di essere informata
dell'eventuale
richiesta di archiviazione, di proporvi opposizione e, in
tal caso, di
ricorrere per cassazione contro il provvedimento di
archiviazione che
sia stato emesso de plano, senza previa fissazione
dell'udienza
camerale.
Nella fattispecie qui in esame, la Corte territoriale, con
accertamento non censurabile in questa sede, dopo aver
premesso
che quelle di cui si discuteva erano registrazioni di
colloqui ad opera
del Ch., vale a dire di una delle persone presenti e
partecipi ad
essi, ha ritenuto che il suddetto dipendente avesse adottato
tutte le
dovute cautele al fine di non diffondere le registrazioni
dal medesimo
effettuate all'insaputa dei soggetti coinvolti ed ha
considerato
operante la deroga relativa all'ipotesi per cui il consenso
non fosse
richiesto, trattandosi di far valere o difendere un diritto
in sede
giudiziaria.
Così ha evidenziato che la condotta era stata
posta in
essere dal dipendente 'per tutelare la propria posizione
all'interno
dell'azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari
non proprio
cristalline' e per 'precostituirsi un mezzo di prova visto
che
diversamente avrebbe potuto trovarsi nella difficile
situazione di non
avere strumenti per tutelare la propria posizione ritenuta
pregiudicata dalla condotta altrui'.
Il tutto in un contesto
caratterizzato da un
conflitto tra il Ch. ed i colleghi di rango più elevato
e da
inascoltate recriminazioni relative a disorganizzazioni
lavorative
asseritamente alla base delle indicate contestazioni
disciplinari (cfr.
pag. 9 della sentenza, ultimo capoverso fino al primo di
pag. 10) in
cui il reperimento delle varie fonti di prova poteva
risultare
particolarmente difficile a causa di eventuali possibili
'sacche di
omertà' come era dato apprezzare da quanto emerso in sede di
istruttoria (cfr. pag. 10 della sentenza, penultimo
capoverso).
Ed allora, si trattava di una condotta legittima, pertinente
alla tesi
difensiva del lavoratore e non eccedente le sue finalità,
che come tale
non poteva in alcun modo integrare non solo l'illecito
penale ma
anche quello disciplinare, rispondendo la stessa alle
necessità
conseguenti al legittimo esercizio di un diritto, ciò sia
alla stregua
dell'indicata previsione derogatoria del codice della
privacy sia, in
ipotetica sua incompatibilità con gli obblighi di un
rapporto di lavoro e
di quelli connessi all'ambiente in cui esso si svolge, sulla
base
dell'esistenza della scriminante generale dell'art. 51 cod.
pen., di
portata generale nell'ordinamento e non già limitata al mero
ambito
penalistico (e su ciò dottrina e giurisprudenza sono, com'è
noto, da
sempre concordi -cfr. la già richiamata Cass. n. 27424/2014-).
Altro sarebbe stato -sia ben chiaro- se si fosse trattato
di
registrazioni di conversazioni tra presenti effettuate a
fini illeciti (ad
esempio estorsivi o di violenza privata): ma non è questo il
senso
della contestazione disciplinare per cui è causa che, per
quanto si
rileva dal contenuto della stessa testualmente riportato
nella
sentenza impugnata, aveva avuto ad oggetto la 'gravissima'
ed
'intollerabile' violazione della legge sulla privacy
'comportante l'ipotesi
del trattamento illecito dei dati punibile con la reclusione
da 6 a 24
mesi'.
Né, invero, risulta provato che il Ch., come si legge
sempre
nella contestazione disciplinare, a metà dicembre 2012,
avesse
scattato foto nella zona dell'ingresso merci al solo scolo
di prendere in
giro un suo collega di lavoro.
Nella specie, dunque, la condotta legittima del Ch. non
poteva in alcun modo ledere il vincolo fiduciario sotteso al
rapporto di
lavoro, fondato, come di regola, sulle capacità del
dipendente di
adempiere in modo puntuale l'obbligazione lavorativa,
dovendo
escludersi che i fatti al medesimo addebitati nella lettera
di
contestazione potessero configurare inadempimenti
contrattuali di
sorta (perché qui iure suo utitur neminem laedit) o -peggio- azioni
delittuose.
4.1. Le considerazioni che precedono consentono, poi, di
ritenere fondato il primo motivo del ricorso
principale (con assorbimento del secondo).
4.2. La condotta del Ch., in sé lecita, non poteva rilevare
in sede disciplinare.
Del tutto evidente è che il clima di tensione e sospetti
venutosi a
creare tra gli 'ignari colleghi' dopo da 'rivelazione' delle
registrazioni e
cioè una situazione facente capo al prestatore di lavoro ma
non
costituente inadempimento, al più poteva assumere rilevanza,
in una
prospettiva del tutto diversa, in termini di obiettiva
incompatibilità del
dipendente con l'ambiente di lavoro, se tale da rendere
insostenibile
la situazione incidendo negativamente sulla stessa
organizzazione del
lavoro e sul regolare funzionamento dell'attività, e dunque,
ove
ricorrenti i relativi presupposti, quale giustificato motivo
oggettivo di
licenziamento (cfr. Cass. 25/07/2003, n. 11556; Cass. 11.08.1998, n. 7904), non certo sotto il profilo disciplinare.
Ed allora va considerato che nella locuzione 'insussistenza
del
fatto contestato' di cui dell'art. 18, co. 5, della legge n.
300 del 1970 come novellato dalla legge n. 92/2012 il fatto
deve intendersi in senso
giuridico e non meramente materiale.
In primo luogo, va tenuto presente che il mero fatto -come
giustamente osservato da certa dottrina- non ha mai un
proprio
autonomo rilievo nel mondo giuridico al di fuori della
qualificazione
che, in maniera espressa od implicita, ne fornisca una data
norma.
Non lo si può apprezzare e non può produrre effetti
giuridici senza
riferimenti normativi. Diversamente, per definizione ricade
nell'irrilevante giuridico.
Ad analogo risultato conduce l'approccio ermeneutico sotto
una
visuale strettamente processualistica.
Per consolidata giurisprudenza (cfr., per tutte, Cass., Sez.
U., 10.01.2006, n. 141) giusta causa o giustificato motivo di
licenziamento sono fatti impeditivi o estintivi del diritto
del
dipendente di proseguire nel rapporto di lavoro, vale a dire
eccezioni
(non a caso, ex art. 5 legge n. 604/1966 la giusta causa o il
giustificato
motivo di licenziamento devono essere provati dal datore di
lavoro).
E tutte le eccezioni, proprio perché tali, sono composte da
un
fatto (inteso in senso storico-fenomenico) e dalla sua
significatività
giuridica (in termini di impedimento, estinzione o
modificazione della
pretesa azionata dall'attore).
In altre parole, per sua stessa natura l'eccezione non ha
mai ad
oggetto un mero fatto, ma sempre un fatto giuridico.
Lo stesso punto d'arrivo è suggerito in un'ottica
sostanzialistica e
di coerenza interna del vigente art. 18 St. lav., nonché di
compatibilità costituzionale.
Infatti, se per insussistenza del fatto contestato si
intendesse
quella a livello meramente materiale si otterrebbe
l'illogico effetto di
riconoscere maggior tutela (quella reintegratoria c.d.
attenuata di cui
all'art. 18, co. 4) a chi abbia comunque commesso un
illecito
disciplinare (seppur suscettibile di mera sanzione
conservativa alla stregua dei contratti collettivi o dei
codici disciplinari applicabili)
rispetto a chi, invece, non ne abbia commesso alcuno, avendo
tenuto
una condotta lecita.
L'esito sarebbe quello di una irragionevole disparità di
trattamento, in violazione dell'art. 3 Cost., oltre che di
una intrinseca
e inspiegabile aporia all'interno della medesima
disposizione di legge.
Va allora ribadito il principio già affermato da questa
Corte
secondo cui: "L'insussistenza del fatto contestato, di cui
all'art. 18 St.
lav., come modificato dall'art. 1, co. 42, della l. n. 92
del 2012,
comprende l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del
carattere di
illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela
reintegratoria, senza
che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra
sanzione
espulsiva e fatto di modesta illiceità" (cfr. Cass. 13.10.2015, n.
20540; Cass. 20.09.2016, n. 18418 e le più recenti
Cass. 26.05.2017, n. 13383 e Cass. 31.05.2017, n. 13799).
5. Conclusivamente, va accolto il primo motivo di ricorso
principale, assorbito il secondo e va rigettato il ricorso
incidentale; la
sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto
con
rinvio alla Corte d'appello di Roma che farà applicazione
del principio
sopra indicato e provvederà anche in ordine alle spese del
presente
giudizio di legittimità (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 10.05.2018 n. 11322). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La condanna alla astreinte è possibile solo in presenza di
violazione dei giudicato e non di sentenza esecutiva.
---------------
Processo amministrativo - Giudizio di ottemperanza –
Esecuzione di sentenza non passata in giudicato – Astreinte
- Decorrenza – Individuazione.
La decorrenza della astreinte,
chiesta con il ricorso per l’esecuzione di una sentenza del
giudice di primo grado non passata in giudicato, decorre dal
giorno in cui detta sentenza diventa irrevocabile e non dal
passaggio in giudicato della sentenza che ha ordinato la sua
esecuzione (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che -stante l’insuperabile differenza
ontologica fra giudizio di esecuzione di una sentenza non
ancora divenuta irrevocabile e giudizio di esecuzione del
giudicato vero e proprio- a fronte della univocità del
tenore testuale della lett. e) del comma 4 dell’art. 114
c.p.a., è impossibile addivenire ad una conclusione diversa
da quella che fa decorrere la penalità di mora da quando la
sentenza di cognizione diventa irrevocabile, facendo leva su
argomenti di carattere sistematico e teleologico che
condurrebbero ad una non consentita estensione dell’ambito
applicativo di una misura sanzionatoria (Cons.
St., A.P., n. 15 del 2014; id.,
sez. IV, n. 469 del 2016; id.,
sez. V, n. 1821 del 2015) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.05.2018 n. 2815 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I provvedimenti di autotutela sugli ordini di demolizione
sono retti dai principi enucleati dalla Adunanza plenaria n.
9 del 2017.
---------------
●
Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Autotutela –
Interesse pubblico – Motivazione - Limiti.
●
Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Sostituzione
con sanzione pecuniaria – Valutabilità nella fase esecutiva
del procedimento demolitorio
●
I provvedimenti di autotutela (anche di secondo grado) sugli
ordini di demolizione, e dunque la loro riconferma, non
incontrano i limiti stabiliti dalla plenaria 17.10.2017, n.
8 in ordine all’individuazione motivata dell’interesse
pubblico ma sono retti dai principi enucleati dalla plenaria
17.10.2017, n. 9, con la conseguenza che non richiedono una
specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto
interesse pubblico alla rimozione dell’abuso stesso (1).
●
La possibilità di sostituire la sanzione
demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata
dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del
procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di
demolizione (2).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che nel caso sottoposto al suo esame il
Comune indotto in errore dall’appellante circa la
consistenza delle opere sanande, l’interesse pubblico è da
ritenere autoevidente e non richiede quindi una particolare
ostensione argomentativa, secondo il recente insegnamento
dell’Adunanza
plenaria 17.10.2017, n. 8; tale pronuncia,
inoltre, ha avuto ad oggetto l’autotutela su provvedimenti
ampliativi: nel caso di specie, invece, nella sostanza (come
si dirà in prosieguo) si tratta della conferma di un ordine
di demolizione per abusivismo edilizio.
Ha aggiunto che è pur vero che, con la su citata pronuncia,
l’Adunanza plenaria ha escluso la configurabilità
dell’interesse pubblico in re ipsa con riferimento
all’esercizio del potere di autotutela sui titoli edilizi in
sanatoria, quali atti di natura ampliativa, ma la vicenda in
esame sottende l’esercizio di un potere sanzionatorio avente
carattere ripristinatorio e doveroso
La Sezione (14.12.2016,
n. 5262) ha peraltro già opinato, in epoca
precedente a tale fondamentale pronuncia, che “allorquando
una concessione edilizia in sanatoria sia stata ottenuta
dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea
rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla
p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando
l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna
particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale
ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa”.
(2)
Cons. St., sez. VI, 23.11.2017, n. 5472
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.05.2018 n. 2799
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
7.3.2. Da tanto
consegue anche l’infondatezza del terzo connesso profilo di
censura, in quanto:
- essendo stato il Comune indotto in errore
dall’appellante circa la consistenza delle opere sanande,
l’interesse pubblico è da ritenere autoevidente e non
richiede quindi una particolare ostensione argomentativa,
secondo il recente insegnamento dell’Adunanza plenaria n. 8
del 2017; tale
pronuncia, inoltre, ha avuto ad oggetto l’autotutela su
provvedimenti ampliativi: nel caso di specie, invece, nella
sostanza (come si dirà in prosieguo) si tratta della
conferma di un ordine di demolizione per abusivismo
edilizio;
- questa Sezione ha peraltro già opinato, in epoca precedente a
tale fondamentale pronuncia, che “allorquando
una concessione edilizia in sanatoria sia stata ottenuta
dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea
rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla
p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando
l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna
particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale
ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa”
(cfr. sentenza 14.12.2016, n. 5262);
- è pur vero che, con la su citata pronuncia, l’Adunanza plenaria
ha escluso la configurabilità dell’interesse pubblico in
re ipsa con riferimento all’esercizio del potere di
autotutela sui titoli edilizi in sanatoria, quali atti di
natura ampliativa, ma la vicenda in esame sottende
l’esercizio di un potere sanzionatorio avente carattere
ripristinatorio e doveroso; in ogni caso i principi espressi
dall’Adunanza plenaria sono comunque estensibili alla
controversia in esame;
- deve infatti rilevarsi che anche nel caso di
specie il potere di autotutela esercitato
dall’amministrazione, avente ad oggetto un precedente
provvedimento repressivo dell’ordine demolitorio invece che
un titolo edilizio risultato illegittimo, sottende “l’evidente
esigenza di un deciso contrasto al grave e diffuso fenomeno
dell'abusivismo edilizio, che deve essere fronteggiato con
strumenti efficaci e tempestivi e con la piena
consapevolezza delle gravi implicazioni che esso presenta in
relazione a svariati interessi di rilievo costituzionale
(quali la salvaguardia del territorio e del paesaggio,
nonché la tutela della pubblica incolumità)”;
- non va peraltro trascurato, per rimarcare nella specie la natura
vincolata dell’atto oggetto del presente giudizio, che
l’ordine demolitorio rivitalizzato
dall’amministrazione comunale non solo non risulta più
intaccato nella sua portata effettuale dalle derminazioni in
autotutela dell’amministrazione, ma nemmeno è stato
interessato da alcun intervento annullatorio dell’Autorità
giurisdizionale;
- poiché viene in considerazione, nel caso di specie, un titolo in
sanatoria di carattere parziale, il provvedimento oggetto di
gravame non è espressione del potere di autotutela
decisoria, intimamente discrezionale, ma si fonda sulla mera
presa d’atto del perimetro abilitativo della sanatoria, la
cui validità non è quindi messa in discussione;
- nel caso di specie viene infatti in
considerazione un provvedimento di assenso postumo avente ad
oggetto soltanto una parte delle opere oggetto della
relativa istanza, di guisa che quella residua risulta
estranea all’alveo della sanatoria stessa, nel rispetto
quindi del principio secondo cui i limiti imposti dal
legislatore alla concessione della sanatoria sono tassativi
e non soggetti ad “alcuna possibilità di estensione
discrezionale da parte della PA”
(Cons. giust. amm., n. 941 del 2009), onde
consentire la tutela di valori fondamentali (a livello
costituzionale ed internazionale) quali il governo del
territorio, l’ambiente, il paesaggio;
- dagli atti di causa si evince che la società ha assunto una
condotta tale da indurre in errore l’amministrazione, per
avere affermato in sede giurisdizionale, contrariamente al
vero, che le opere descritte nell’ordinanza demolitoria prot.
n. 39669/6924 del 03.10.1996 erano oggetto della domanda di
condono n. 422 del 1995;
- tale condotta è pertanto inidonea a consolidare una posizione di
affidamento secondo le stesse coordinate ermeneutiche
elaborate dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 8 del
2017;
- deve escludersi,
in definitiva, che le cautele divisate
dall’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 possano trovare
ingresso in un caso come quello in esame stante la
doverosità dell’intervento repressivo della P.A. e
l’incidenza dell’autotutela su un provvedimento d’indole
sanzionatoria e non certo di carattere autorizzatorio o
comunque ampliativo.
7.3.3. Non può configurarsi inoltre alcun conflitto con il
decreto del Presidente del Tar Toscana, sez. III, n. 4438
del 04.09.2003 -come dedotto a pagina 7 del ricorso di primo
grado- in quanto con tale pronuncia monocratica si dava
semplicemente atto dell’intervenuta revoca del provvedimento
demolitorio con l’atto del 01.02.1997 e pertanto, al di là
dell’uso di formule di mero stile, non postulava alcuna
valutazione circa l’effettiva integrale soddisfazione
dell’originaria pretesa della parte ricorrente in modo da
acquisire forza di giudicato.
7.4. Sono del pari infondati gli ulteriori vizi-motivi
articolati avverso il provvedimento impugnato (pagine 8 e
ss. del ricorso di primo grado), in quanto:
- non vi è alcuna interferenza tra il provvedimento impugnato ed il
(previo) parziale accoglimento della domanda di sanatoria,
stante la rilevata diversità delle aree interessate dai
rispettivi interventi;
- la reviviscenza dell’ordinanza demolitoria del 03.10.1996 non è
preclusa dal fatto che la stessa era stata precedentemente
revocata comportando l’atto impugnato il travolgimento
proprio di tale precedente determinazione di autotutela;
- l’impugnato provvedimento nemmeno può ritenersi precluso
dall’istanza di irrogazione di sanzione pecuniaria del
24.06.2003 rimasta inevasa non assumendo tale iniziativa la
valenza di domanda di sanatoria;
- i presupposti (normativi ed ermeneutici)
dell’istituto della fiscalizzazione dell’illecito edilizio
si pongono infatti su un piano ontologicamente diverso da
quelli della sanatoria sia perché esso trova il proprio
fondamento nella impossibilità di rimuovere le conseguenze
dell’illecito senza creare danni irreparabili alla parte di
edificio eseguita in conformità al permesso a costruire sia
perché il pagamento della sanzioni pecuniarie, se esclude
che opere edilizie abusive possano essere legittimamente
demolite, non ne rimuove, però, il carattere antigiuridico
(Cons. Stato, Sez. IV, 29.09.2011, n. 5412);
- va altresì rilevato che, come da orientamento ormai pienamente
consolidato di questo Consiglio (da ultimo, sez. IV,
27.07.2017, n. 3728) “la P.A. non ha
alcun obbligo di reiterare l’ingiunzione a demolire dopo che
ha respinto una istanza di sanatoria presentata
successivamente all’originario ordine di demolizione
(cfr. ex plurimis sez. V, n. 466 del 2015 e Sez. VI, n. 1909
del 2013 cui si rinvia a mente dell'art. 88, co. 2, lett.
d), c.p.a.)”;
- ad ogni modo, detta istanza contiene espresso riferimento
all’ordinanza demolitoria di cui al provvedimento prot.
37771 del 21.10.1997 che riguarda le opere oggetto della
domanda di sanatoria n. 423 del 1995, insistenti come detto
sul mappale n. 535, invece che le diverse opere, pur della
medesima consistenza, di cui all’ordinanza di demolizione
prot. n. 39669/6924 del 03.10.1996;
- la pronuncia cautelare che abbia, seppur temporaneamente, fatto
venir meno l’obbligo di dare esecuzione all’ordine di
ripristino dello status quo ante incide sul decorso
del termine di 90 giorni concesso agli interessati per
provvedere nel senso che questo riprende a decorrere dopo il
venir meno degli effetti della stessa pronuncia, di tal che
l’ordinanza cautelare del Tar per la Toscana (n. 483 del
03.06.1997) ha comportato la sospensione dell’ordinanza
demolitoria del 03.10.1996 soltanto a decorrere
dall’intervento della pronuncia cautelare invece che,
retroattivamente, dalla data di emanazione del provvedimento
impugnato;
- va quindi escluso che, come si assume dall’appellante,
l’accoglimento della domanda cautelare abbia assunto
carattere ostativo alla consumazione del termine di novanta
giorni prescritto dalle legge per la sua esecuzione essendo
questo, avuto riguardo alla data cui risale la notificazione
dell’ordine demolitorio (09.10.1996), già ampiamente decorso
al momento del pronunciamento cautelare;
- né la validità della sanzione demolitoria può dirsi inficiata
dalla vagheggiata possibilità di applicare, in sua vece, la
sanzione pecuniaria a norma dell’art. 12 della legge n. 47
del 1985, in quanto “La possibilità di
sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria
deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella
fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma
rispetto all'ordine di demolizione: il dato testuale della
legge è univoco ed insuperabile, in coerenza col principio
per il quale, accertato l'abuso, l'ordine di demolizione va
senz'altro emesso. La norma, inoltre, è chiara nel riferirsi
soltanto al caso in cui si sia in presenza di opere
realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire”
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23.11.2017 n. 5472).
8. Infondate sono anche le censure articolate nei riguardi
del provvedimento sub b) del precedente § 1 (pagine 12 e ss.
del ricorso di primo grado) avendo la società valorizzato
ancora una volta la circostanza della presentazione di
istanza di irrogazione di sanzione pecuniaria sostitutiva di
quella demolitoria.
Vale al riguardo osservare, come da orientamento di questa
Sezione, che “l'accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione è
normativamente configurato alla stregua di un atto ad
efficacia meramente dichiarativa, che si limita a
formalizzare l'effetto (acquisizione gratuita del bene al
patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del
termine assegnato con l'ingiunzione stessa. La
giurisprudenza ha pacificamente confermato tale lettura,
affermando che l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate è una
misura di carattere sanzionatorio che consegue
automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di
demolizione. Né in senso ostativo può assumere rilevanza
l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni d'interesse
pubblico perseguite mediante l'acquisizione, essendo in re
ipsa l'interesse all'adozione della misura, stante la natura
interamente vincolata del provvedimento
(ex multis Cons. di Stato, Sez. IV, 05.05.2017 n. 2053 e
Sez. V, 15.07.2013, n. 3834)”
(cfr. sentenza 27.07.2017, n. 3728).
Ne consegue che la prospettata
impossibilità di demolire le opere abusive senza pregiudizio
della parte costruita legittimamente,
a tacer della necessità di fornire ogni dimostrazione al
riguardo incombente sul medesimo istante,
può impedire l’esecuzione in danno dell’ordine demolitorio
ma non anche l’effetto acquisitivo dell’area di sedime
siccome contemplato come automatico dalla normativa in
materia (art. 31 del D.P.R n. 380 del 2001).
Va altresì evidenziato che il provvedimento in questione
concerne le richiamate ordinanze demolitorie prot. n. 37771
e n. 37773 del 21.10.1997, relative alle opere insistenti
sul mappale n. 535, non interessate da alcun provvedimento
di ritiro o annullamento giurisdizionale sì da conservare
piena efficacia repressiva delle opere ivi contestate. |
EDILIZIA PRIVATA:
La
lamentata violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del
1990, per l’omessa comunicazione dell’avviso di avvio del
procedimento, non sussiste ai fini dell’esercizio del potere
repressivo in materia edilizia avendo questo carattere
interamente doveroso.
---------------
L’ordine
di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente
alla sussistenza di opere abusive e non richiede una
specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto
interesse pubblico alla rimozione dell’abuso.
In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti
abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo,
essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e
quello privato compiuta a monte dal legislatore.
In ragione della natura vincolata dell’ordine di
demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento, né un'ampia
motivazione.
---------------
7.2. Infondato è il
primo motivo del ricorso instaurativo della lite
(pagina 6), col quale si lamenta la violazione dell’art. 7
della legge n. 241 del 1990, per l’omessa comunicazione
dell’avviso di avvio del procedimento; invero, tale
diaframma partecipativo non è necessario ai fini
dell’esercizio del potere repressivo in materia edilizia
avendo questo carattere interamente doveroso.
A tal riguardo, il ricorrente valorizza la natura di secondo
grado dell’atto impugnato essendo inteso al ritiro della
determinazione a sua volta repressiva dell’ordine
demolitorio, lamentando quindi la mancanza del profilo
motivazionale richiesto dall’invocato art. 21-nonies della
legge n. 241 del 1990 in punto di interesse pubblico.
La deduzione non può essere condivisa, in quanto, come
opinato anche di recente da questa Sezione (sentenza
28.03.2018, n. 1959), il potere di autotutela costituisce la
riedizione del potere originariamente esercitato in modo da
essere attratto alla relativa disciplina.
Non va trascurata infatti la circostanza che, attraverso
l’atto impugnato, l’amministrazione, nel ritirare il
precedente provvedimento di autotutela, ha di fatto
riesercitato il potere sanzionatorio edilizio, per il quale,
secondo orientamento pretorio tanto consolidato da assurgere
a jus receptum, non si richiede la previa
instaurazione del contraddittorio procedimentale innescato
dall’avviso di avvio del procedimento per la natura
vincolata della irroganda sanzione.
Come ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo
Consiglio (in particolare la recente Adunanza plenaria
17.10.2017, n. 9; successivamente si veda la prima
applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n.
5595), “l’ordine di demolizione è un atto vincolato
ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e
non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza
del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso.
In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti
abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo,
essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e
quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione
della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è
pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del
procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
12.12.2016, n. 5198), né un'ampia motivazione”.
7.2.1. Comunque la censura risulta neutralizzata anche per
effetto del principio di dequotazione dei vizi formali di
cui all’art. 21-octies della medesima legge n. 241 del 1990,
in quanto, come si dirà in prosieguo, la società ricorrente
non avrebbe potuto offrire all’attenzione
dell’amministrazione circostanze di fatto e di diritto tali
da indurre a determinazioni diverse da quella adottata
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.05.2018 n. 2799
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sulla disciplina dei
contratti di acquisto o locazione di immobili.
Contratti della Pubblica amministrazione – Acquisto o
locazione di immobili – Principi applicabili – Art. 4,
d.lgs. n. 50 del 2016 – Applicabilità.
L’art. 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50,
così come modificato dall’art. 5, d.lgs. 19.04.2017, n. 56,
letto in combinato disposto con l’art. 17, lett. a), dello
stesso Codice dei contratti comporta che in riferimento ai
contratti “aventi ad oggetto l’acquisto o la locazione,
quali che siano le relative modalità finanziarie, di
terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o
riguardanti diritti su tali beni” vanno rispettati i
principi “di economicità, efficacia, imparzialità, parità di
trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità,
tutela dell’ambiente ed efficienza energetica” previsti
dall’art. 4 per tutti i contratti pubblici esclusi, in tutto
o in parte, dall’ambito di applicazione oggettiva del
codice.
Conseguentemente, la vigilanza e il controllo sui detti contratti pubblici
sono attribuiti all’Autorità Nazionale Anticorruzione ai
sensi dell’art. 213 dello stesso Codice
(Consiglio di
Stato, comm. spec.,
parere 10.05.2018 n. 1241
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una veranda su un balcone,
chiusa sui lati, costituisce una trasformazione
urbanistico-edilizia del preesistente manufatto
incompatibile con la qualificazione edilizia di manutenzione
straordinaria o risanamento conservativo o pertinenza
dell'immobile principale, in quanto idonea a modificarne la
sagoma e creare nuovo volume, costituendo quindi una nuova
costruzione o comunque un ampliamento della costruzione
esistente soggetta al preventivo rilascio del permesso di
costruire.
In sostanza, una veranda costituisce, in senso
tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente
utilizzabile e difetta del carattere di precarietà,
trattandosi di opera destinata non a sopperire ad esigenze
temporanee e contingenti per poi essere prontamente rimossa,
ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento
dell'immobile; né rileva la natura dei materiali utilizzati
per la chiusura, in quanto, anche ove realizzata con
pannelli in alluminio, costituisce comunque un aumento
volumetrico.
Essa rientra, pertanto, nel novero degli "interventi di
nuova costruzione" di cui all'art. 3, comma 1, lett. e),
d.P.R. n. 380 del 2001, o comunque in quello degli
“interventi di ristrutturazione edilizia” implicanti aumento
di volumetria e modifica della sagoma dell’edificio:
categorie di interventi soggette entrambe al rilascio del
permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, comma 1,
lettere a) e c), del DP.R. 380 del 2001 e come tali
sanzionabili, in caso di assenza del titolo edilizio, con
l’ordine demolitorio e ripristinatorio di cui all’art. 31
D.P.R.. 380 del 2001.
---------------
6. Il ricorso è infondato nel merito, il che consente di
prescindere dall’esame dell’eccezione preliminare formulata
dalla difesa dell’amministrazione.
6.1. Secondo la consolidata giurisprudenza di questo TAR,
“La realizzazione di una veranda su un balcone, chiusa sui
lati, costituisce una trasformazione urbanistico-edilizia
del preesistente manufatto incompatibile con la
qualificazione edilizia di manutenzione straordinaria o
risanamento conservativo o pertinenza dell'immobile
principale, in quanto idonea a modificarne la sagoma e
creare nuovo volume, costituendo quindi una nuova
costruzione o comunque un ampliamento della costruzione
esistente soggetta al preventivo rilascio del permesso di
costruire” (TAR Torino sez. I 09.11.2012 n. 1181; sez. I
06.03.2014 n. 386).
In sostanza, una veranda costituisce, in senso
tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente
utilizzabile e difetta del carattere di precarietà,
trattandosi di opera destinata non a sopperire ad esigenze
temporanee e contingenti per poi essere prontamente rimossa,
ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento
dell'immobile; né rileva la natura dei materiali utilizzati
per la chiusura, in quanto, anche ove realizzata con
pannelli in alluminio, costituisce comunque un aumento
volumetrico.
Essa rientra, pertanto, nel novero degli "interventi di
nuova costruzione" di cui all'art. 3, comma 1, lett. e),
d.P.R. n. 380 del 2001, o comunque in quello degli “interventi
di ristrutturazione edilizia” implicanti aumento di
volumetria e modifica della sagoma dell’edificio: categorie
di interventi soggette entrambe al rilascio del permesso di
costruire, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettere a) e c),
del DP.R. 380 del 2001 e come tali sanzionabili, in caso di
assenza del titolo edilizio, con l’ordine demolitorio e
ripristinatorio di cui all’art. 31 D.P.R.. 380 del 2001.
In tal senso, di recente, TAR Napoli sez. IV 22.05.2017 n.
2714; TAR Lazio-Roma, sez. II 07.04.2017 n. 4389.
6.2. Nel caso di specie, sia il verbale di sopralluogo sia
la documentazione fotografica attinta in tale occasione
(doc. 3 Comune) attestano chiaramente che la veranda ha
determinato un incremento volumetrico e una modifica della
sagoma dell’edificio. Essa, pertanto, necessitava di
permesso di costruire e giustamente è stata sanzionata
dall’amministrazione con l’ordine di demolizione.
7. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso va respinto
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 09.05.2018 n. 557 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittima l'ordinanza di demolizione di un pergolato in
ferro delle dimensioni di 20,30 x 5,90 mq. e un forno a
legna in mattoni non infisso al suolo in area condominiale.
È stato realizzato un pergolato in ferro delle dimensioni di
20,30 x 5,90 mq. e un forno a legna in mattoni non infisso
al suolo in area condominiale.
Dette opere non comportano aumento volumetrico né aumento di
superfici utili e non incidono sul carico urbanistico.
Né è stata verificata l’incompatibilità delle opere con le
prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici comunali
o con altre normative di settore aventi incidenza sulla
disciplina dell’attività edilizia (es.: norme antisismiche,
di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie ovvero
disposizioni contenute nel codice dei beni culturali).
Viceversa, sul piano sistematico, le opere per consistenza
strutturale, morfologia dell’area di sedime localizzata
all’interno di spazi condominiali e destinazione obbediscono
ai medesimi criteri ispiratori della recente disciplina sul
riordino dell’attività edilizia libera e semilibera di cui
al d.lgs. 25.11.2016 n. 222.
In particolare l’art. 6-bis del d.P.R. n. 380/2001, come
novellato dall’art. 3, comma 1, lett. c), d.lgs. n.
222/2016, senza alcuna tassonomia di fattispecie
disciplinate, fa riferimento, in via residuale, agli
interventi –non riconducibili all’elenco di cui agli artt. 6
(edilizia libera), 10 (interventi subordinati a permesso di
costruire) e 22 (interventi subordinati a SCIA)–
realizzabili in forza di comunicazione anche per via
telematica.
La norma –mercé la previsione della clausola condizionale
che “non vi è interessamento delle parti strutturali
dell’edificio”– ha disciplinato in modo flessibile un
tertium genus di opere: quelle non del tutto libere, in
quanto non ricomprese nell’elencazione tassativa prevista
dall’art. 6; nondimeno non subordinate a permesso di
costruire o a SCIA.
Il dato positivo richiamato è paradigmatico di un indirizzo
normativo e pretorio che riserva il controllo preventivo, e
con esso l’apparato sanzionatorio ripristinatorio, ai soli
interventi edilizi realmente incidenti sull’assetto del
territorio, eccettuando gli interventi edilizi c.d. minori
come quelli oggetto di causa.
---------------
... per la riforma della
sentenza 01.12.2016
n. 2591
del TAR CAMPANIA - SEZ. STACCATA DI SALERNO: SEZ. II, resa
tra le parti, concernente 1) dell'ordinanza di demolizione
prot. 36210 del 29.10.2012, notificata il 05.11.2012, a
firma del Dirigente del Settore Territorio e Ambiente del
Comune di Nocera Superiore; 2) dell'ordinanza di sospensione
dei lavori prot. 24457 del 03.08.2012, successivamente
notificata il 07.08.2012.
1) dell'ordinanza prot. n. 17384 del 23.4.2015,
successivamente notificata al ricorrente in data 04.05.2015,
a firma del Dirigente del Settore Territorio e Ambiente del
Comune di Nocera Inferiore; 2) della presupposta relazione
tecnica prot. n. 23070 U.T.C../STA del 25.07.2012; 3) di
tutti gli atti presupposti, connessi e conseguenti.
...
7. Il motivo è fondato ed ha carattere assorbente delle
residue censure.
7.1 È stato realizzato un pergolato in ferro delle
dimensioni di 20,30 x 5,90 mq. e un forno a legna in mattoni
non infisso al suolo in area condominiale.
Dette opere non comportano aumento volumetrico né aumento di
superfici utili e non incidono sul carico urbanistico.
Per di più sono state realizzate –come risulta dalla
relazione depositata in giudizio dell’INAIL n. 1169/98, ente
proprietario del condominio– nel 1988.
7.2 Né –va sottolineato– è stata verificata
l’incompatibilità delle opere con le prescrizioni contenute
negli strumenti urbanistici comunali o con altre normative
di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività
edilizia (es.: norme antisismiche, di sicurezza,
antincendio, igienico-sanitarie ovvero disposizioni
contenute nel codice dei beni culturali).
7.3 Viceversa, sul piano sistematico, le opere per
consistenza strutturale, morfologia dell’area di sedime
localizzata all’interno di spazi condominiali e destinazione
obbediscono ai medesimi criteri ispiratori della recente
disciplina sul riordino dell’attività edilizia libera e
semilibera di cui al d.lgs. 25.11.2016 n. 222.
In particolare l’art. 6-bis del d.P.R. n. 380/2001, come
novellato dall’art. 3, comma 1, lett. c), d.lgs. n.
222/2016, senza alcuna tassonomia di fattispecie
disciplinate, fa riferimento, in via residuale, agli
interventi –non riconducibili all’elenco di cui agli artt. 6
(edilizia libera), 10 (interventi subordinati a permesso di
costruire) e 22 (interventi subordinati a SCIA)–
realizzabili in forza di comunicazione anche per via
telematica.
7.4 La norma –mercé la previsione della clausola
condizionale che “non vi è interessamento delle parti
strutturali dell’edificio”– ha disciplinato in modo
flessibile un tertium genus di opere: quelle non del
tutto libere, in quanto non ricomprese nell’elencazione
tassativa prevista dall’art. 6; nondimeno non subordinate a
permesso di costruire o a SCIA.
7.5 Il dato positivo richiamato è paradigmatico di un
indirizzo normativo e pretorio che riserva il controllo
preventivo, e con esso l’apparato sanzionatorio
ripristinatorio, ai soli interventi edilizi realmente
incidenti sull’assetto del territorio, eccettuando gli
interventi edilizi c.d. minori come quelli oggetto di causa.
8. Conclusivamente l’appello deve essere accolto e, per
l’effetto, in riforma dell’appellata sentenza, va accolto il
ricorso di prime cure (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 08.05.2018 n. 2743 - link a
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Illegittimo esercizio del potere amministrativo –
Rilascio di concessione edilizia in violazione del piano di
recupero - Risarcimento del danno – Legittimazione passiva –
Titolare del diritto di proprietà sul bene al momento del
verificarsi dell’evento dannoso – Alienazione inter vivos –
Parti acquirenti – Carenza di titolarità.
Il diritto al risarcimento dei danni subiti da un bene
(nella specie, conseguente all’illegittimo esercizio del
potere amministrativo, per il rilascio di una concessione
edilizia in violazione del piano di recupero vigente) spetta
a chi ne sia proprietario al momento del verificarsi
dell’evento dannoso e si configura come diritto autonomo
rispetto a quello di proprietà, non seguendo quest’ultimo in
caso di alienazione inter vivos a titolo particolare,
salvo che nell’atto di alienazione vi sia espressamente
prevista la cessione (v. Cass. Sez. Un., 16.02.2016, n.
2951) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.05.2018 n. 2695 -
link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 15, comma 3, del D.P.R. 380
del 2001 in caso di mancata realizzazione dell’opera nel
corso del termine di efficacia del permesso di costruire la
realizzazione della parte dell'intervento non ultimata è
subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere
ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra
quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di
inizio attività ai sensi dell’articolo 22.
Si procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del
contributo di costruzione.
Il fatto che il completamento dell’opera non ultimata nei
termini richieda un nuovo ed autonomo titolo edilizio non
significa che l’oggetto di tale nuovo titolo possa essere
considerato in modo del tutto avulso da quanto
originariamente prospettato, essendo, infatti, la nuova
domanda (o scia) diretta non a porre in essere un nuovo
intervento ma a realizzare “la parte non ultimata” di quello
iniziale che non ha potuto essere portato a compimento a
causa della decadenza del titolo edilizio.
L’amministrazione in sede di esame del permesso finalizzato
alla ultimazione delle opere deve, pertanto, prendere in
considerazione l’intervento originario vagliandolo, se del
caso, alla luce dello jus superveniens.
Per cui il titolo potrà essere negato solo se medio tempore
è intervenuta una disciplina urbanistica che non consente la
realizzazione dell’opera.
Allo stesso modo, l’Amministrazione potrà aggiornare
l’ammontare del contributo solo se la normativa che ne
regola la quantificazione sia variata o qualora il nuovo
titolo richiesto comporti una variazione della destinazione
d’uso originaria (in tal senso deve intendersi l’inciso “ove
necessario” riferito al ricalcolo del contributo).
---------------
Il ricorso è fondato.
Ai sensi dell’art. 15, comma 3, del D.P.R. 380 del 2001 in
caso di mancata realizzazione dell’opera nel corso del
termine di efficacia del permesso di costruire la
realizzazione della parte dell'intervento non ultimata è
subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere
ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra
quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di
inizio attività ai sensi dell’articolo 22. Si procede
altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo di
costruzione.
Il fatto che il completamento dell’opera non ultimata nei
termini richieda un nuovo ed autonomo titolo edilizio non
significa che l’oggetto di tale nuovo titolo possa essere
considerato in modo del tutto avulso da quanto
originariamente prospettato, essendo, infatti, la nuova
domanda (o scia) diretta non a porre in essere un nuovo
intervento ma a realizzare “la parte non ultimata” di quello
iniziale che non ha potuto essere portato a compimento a
causa della decadenza del titolo edilizio.
L’amministrazione in sede di esame del permesso finalizzato
alla ultimazione delle opere deve, pertanto, prendere in
considerazione l’intervento originario vagliandolo, se del
caso, alla luce dello jus superveniens.
Per cui il titolo potrà essere negato solo se medio tempore
è intervenuta una disciplina urbanistica che non consente la
realizzazione dell’opera.
Allo stesso modo, l’Amministrazione potrà aggiornare
l’ammontare del contributo solo se la normativa che ne
regola la quantificazione sia variata o qualora il nuovo
titolo richiesto comporti una variazione della destinazione
d’uso originaria (in tal senso deve intendersi l’inciso “ove
necessario” riferito al ricalcolo del contributo, TAR
Sicilia, Sezione II Palermo, sentenza n. 487 del 01/03/2013).
Nella fattispecie che viene in decisione, tuttavia, non si
prospetta un problema di jus superveniens: più semplicemente
il comune di Firenze ha ritenuto che la dia presentata dalla
Sig.ra De Ro. nel 2017 abbia ad oggetto un intervento
del tutto autonomo rispetto a quello originario ed ha
proceduto al vaglio di ammissibilità edilizia ed urbanistica
muovendo da tale erroneo presupposto.
Il ricorso deve, pertanto, essere accolto (TAR Toscana, Sez.
III,
sentenza 07.05.2018 n. 641 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Pareri legali – Accesso – Parere reso dal
professionista dopo l’avvio di un procedimento contenzioso o
dopo l’inizio di attività tipiche precontenziose –
Riservatezza.
In tema di accesso ai pareri legali, allorché la consulenza
si manifesta dopo l’avvio di un procedimento contenzioso
(giudiziario, arbitrale, od anche meramente amministrativo)
oppure dopo l’inizio di tipiche attività precontenziose, se
il parere reso dal professionista individuato
dall’Amministrazione non è destinato a sfociare in una
determinazione amministrativa finale, ma mira a fornire
all’ente pubblico tutti gli elementi tecnico -giuridici
utili per tutelare i propri interessi, essa resta
caratterizzata dalla riservatezza, che mira a tutelare non
solo l’opera intellettuale del legale, ma anche la stessa
posizione dell’amministrazione, la quale, esercitando il
proprio diritto di difesa, protetto costituzionalmente, deve
poter fruire di una tutela non inferiore a quella di
qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 07.05.2018 n. 383 -
link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La concessione edilizia non è necessaria per
modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e
cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da
paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno), in
quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "jus excludendi alios".
Occorre, invece, la concessione, quando la recinzione è
costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con
sovrastante rete metallica.
---------------
I ricorrenti sono proprietari di un piccolo appezzamento di terreno
agricolo ubicato nel Comune di Montemurlo e dopo l'acquisto,
a1fine di proteggere il fondo hanno realizzato una modesta
recinzione con filo spinato sorretto da pali in legno
infissi nel suolo.
La recinzione posta di fronte ad area privata fu realizzata
nel 1981 e l’ordinanza impugnata ingiungeva la demolizione.
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art.
841 c.c. e 1 L. 10/1977 poiché per le recinzioni dei fondi
rustici senza opere murarie non è necessaria la concessione
edilizia trattandosi di una manifestazione del diritto di
proprietà e cioè dello jus excludendi alios.
...
Il ricorso è fondato in accoglimento del primo motivo che ha
natura dirimente rendendo superfluo affrontare anche gli
altri.
E’ principio pacifico in giurisprudenza che la concessione
edilizia non è necessaria per modeste recinzioni di fondi
rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione
con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno
senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la
recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di
proprietà, che comprende lo "jus excludendi alios"; occorre,
invece, la concessione, quando la recinzione è costituita da
un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete
metallica (vedasi ex multis Consiglio di Stato 5908/2017 ).
Avendo, pertanto, i ricorrenti esercitato una facoltà
riconducibile al diritto dominicale e priva di rilievo sul
piano edilizio l’ordinanza di demolizione è provvedimento
illegittimo in quanto privo di qualsiasi base normativa (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 04.05.2018 n. 597 - link a
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APPALTI:
La Plenaria, nel configurare la responsabilità
precontrattuale prima della scelta del contraente, indica i
requisiti per la risarcibilità del danno da ritardo.
L’Adunanza plenaria, nel configurare la responsabilità
precontrattuale anteriormente alla scelta del contraente,
stabilisce anche i presupposti per la risarcibilità del
danno da ritardo procedimentale.
---------------
●
Responsabilità civile – Attività amministrativa autoritativa
– Responsabilità precontrattuale della pubblica
amministrazione – Configurabilità.
●
Contratti
pubblici – Responsabilità precontrattuale della pubblica
amministrazione – Configurabilità anteriormente alla scelta
del contraente.
●
Contratti
pubblici – Responsabilità precontrattuale della pubblica
amministrazione – Configurabilità per qualsiasi
comportamento anche successivo al bando e contrario a buona
fede.
●
Contratti pubblici – Responsabilità precontrattuale della
pubblica amministrazione – Presupposti – Individuazione.
●
Anche nello
svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è
tenuta a rispettare oltre alle norme di diritto pubblico (la
cui violazione implica, di regola, l’invalidità del
provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento
per lesione dell’interesse legittimo), anche le norme
generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con
lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far
nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che
incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto
soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti
negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte
negoziali senza subire ingerenze illecite frutto dell’altrui
scorrettezza. (1)
●
Nell’ambito del procedimento di evidenza pubblica, i doveri
di correttezza e buona fede sussistono, anche prima e a
prescindere dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le
fasi della procedura ad evidenza pubblica, con conseguente
possibilità di configurare una responsabilità
precontrattuale da comportamento scorretto nonostante la
legittimità dei singoli provvedimenti che scandiscono il
procedimento. (2)
●
La
responsabilità precontrattuale della pubblica
amministrazione può derivare non solo da comportamenti
anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento
successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica
da condurre necessariamente in concreto, ai doveri di
correttezza e buona fede.(3)
●
Affinché nasca la responsabilità dell’amministrazione non è
sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede
soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento
incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha
fondato la scelta di compiere conseguenti attività
economicamente onerose), ma occorrono gli ulteriori seguenti
presupposti: a) che l’affidamento incolpevole risulti leso
da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a
prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli
provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di
correttezza e di lealtà; b) che tale oggettiva violazione
dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente
imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo;
c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione
della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il
danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa
delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i
relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta
scorretta che si imputa all’amministrazione. (4)
---------------
(1,
2, 3, 4) I. – Con la decisione in rassegna l’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato ha affrontato la
problematica relativa alla configurabilità della
responsabilità precontrattuale anteriormente alla scelta del
contraente e alla possibilità di estenderla ai comportamenti
dell’amministrazione successivi alla pubblicazione del bando
di gara idonei a porne nel nulla gli effetti o a ritardarne
l’eliminazione o la conclusione, rispondendo
affermativamente ad entrambi i quesiti posti dalla sezione
rimettente, con conseguente piena applicabilità dei precetti
di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c. nell’ambito del
procedimento di evidenza pubblica, all’esito, tuttavia, di
una rigorosa verifica in concreto circa l’esistenza dei
presupposti applicativi dell’illecito civile e di ulteriori
condizioni di contesto che la pronuncia si fa carico di
indicare.
II. – L’ordinanza di rimessione.
Con ordinanza 24.11.2017 n. 5492 (oggetto della
News
US del 28.11.2017 con ampi riferimenti di
giurisprudenza e di dottrina cui si rinvia) la terza sezione
del Consiglio di Stato ha deferito all’Adunanza plenaria, ai
sensi dell’art. 99 c.p.a. il quesito se la responsabilità
precontrattuale sia o meno configurabile anteriormente alla
individuazione del contraente, allorché gli aspiranti alla
posizione di contraenti sono solo partecipanti ad una gara e
possono vantare un interesse legittimo al corretto esercizio
dei poteri della pubblica amministrazione e, in caso di
risposta affermativa, l’ulteriore questione se la
responsabilità precontrattuale debba riguardare
esclusivamente il comportamento dell’amministrazione
anteriore al bando, che ha fatto sì che quest’ultimo venisse
comunque pubblicato nonostante fosse conosciuto, o dovesse
essere conosciuto, che non ve ne erano i presupposti
indefettibili, ovvero debba estendersi a qualsiasi
comportamento successivo all’emanazione del bando e
attinente alla procedura di evidenza pubblica, idoneo a
porne nel nulla gli effetti o a ritardarne l’eliminazione o
la conclusione.
La vicenda processuale scaturisce da un annullamento in
autotutela di una gara di appalto per contraddittorietà tra
gli atti della lex specialis ritenuto legittimo da TAR che
riconosceva al contempo la responsabilità precontrattuale
della stazione appaltante liquidando all’impresa ricorrente
il danno nei limiti dell’interesse negativo, chiesto in via
subordinata rispetto alla domanda demolitoria.
La sentenza veniva gravata in appello sia dall’impresa
ricorrente (per la domanda di annullamento respinta) che
dalla stazione appaltante (per la domanda risarcitoria
accolta), per quanto di rispettivo interesse, e la III
sezione del Consiglio di Stato rimetteva all’Adunanza
plenaria i quesiti testé richiamati.
In particolare dopo aver ricostruito l’originario indirizzo
giurisprudenziale in materia di responsabilità
precontrattuale della P.A., con particolare riferimento alla
più risalente giurisprudenza della Corte di cassazione,
l’ordinanza evidenziava il passaggio delle relative
controversie alla giurisdizione amministrativa, imposto
dalla legge n. 205 del 2000 e ratificato dalla nota
decisione dell’Adunanza plenaria (05.09.2005, n. 6, in
Foro it.,2009, III, 124; Foro amm. CDS 2006, 1, 86 con nota
di VACCA).
L’ordinanza poneva quindi in evidenza come la prima
giurisprudenza amministrativa, successiva all’entrata in
vigore della citata legge n. 205, avesse in sostanza
recepito gli orientamenti della Cassazione, riconoscendo la
responsabilità precontrattuale in tutti i casi in cui la
P.A. -dopo l'aggiudicazione- intervenga con provvedimenti
di vario tipo (revoche, annullamenti, dinieghi di stipula o
approvazione) che vanificano, dall'esterno, gli esiti della
procedura di selezione. In tale contesto, la responsabilità
è stata indifferentemente configurata dalla giurisprudenza
sia in presenza del preventivo annullamento per
illegittimità di atti della sequenza procedimentale, sia
nell'assodato presupposto della loro validità ed efficacia,
ma sempre e solo nel caso di intervenuta aggiudicazione.
La terza sezione così elencava le diverse fattispecie emerse
nella prassi:
1) revoca dell'indizione della gara e dell'aggiudicazione
per esigenze di una ampia revisione del progetto, disposta
vari anni dopo l'espletamento della gara;
2) impossibilità di realizzare l'opera prevista per essere
mutate le condizioni dell'intervento;
3) annullamento d'ufficio degli atti di gara per un vizio
rilevato dall'amministrazione solo successivamente
all'aggiudicazione definitiva e che avrebbe potuto rilevare
già all'inizio della procedura;
4) revoca dell'aggiudicazione, o rifiuto a stipulare il
contratto dopo l'aggiudicazione, per mancanza dei fondi.
Osservava quindi che nella giurisprudenza successiva erano
poi emersi due diversi orientamenti, rispetto ai quali
sollecitava l’intervento chiarificatore e nomofilattico
dell’Adunanza plenaria.
Un primo orientamento (cfr. ad es. Cons. Stato, sez. V, 15.07.2013, n. 3831, in Rivista Giuridica dell'Edilizia
2013, 5, I, 925; Contratti, 2014, 146, con nota di PASSARELLA; Rass. avv. Stato, 2014, fasc. 1, 173, con nota
di ROMEO), in sostanza riconosce la sussistenza della
responsabilità precontrattuale anche nella fase che precede
la scelta del contraente e, quindi,prima e a prescindere
dall’aggiudicazione.
Un secondo orientamento (cfr. ad es. Cons. Stato, sez. III,
29.07.2015, n. 3748 in Foro Amministrativo 2016, 3, 562
con nota di PIGNATTI), invece, ritiene che la
responsabilità precontrattuale della P.A. sia connessa alla
violazione delle regole di condotta tipiche della formazione
del contratto non potendo che riguardare fatti svoltisi in
tale fase, con la conseguenza che la stessa non è
configurabile anteriormente alla scelta del contraente, vale
a dire della sua individuazione, allorché gli aspiranti alla
posizione di contraenti sono solo partecipanti ad una gara e
possono vantare un interesse legittimo al corretto esercizio
dei poteri della pubblica amministrazione.
Nel rimettere la questione all’Adunanza plenaria,
l’ordinanza prendeva posizione a favore del secondo più
restrittivo orientamento, evidenziando alcuni argomenti
fondati su un approccio ermeneutico ritenuto maggiormente
rispondente ai principi civilistici.
III. – La decisione dell’Adunanza plenaria.
Con la pronuncia in rassegna l’Adunanza plenaria decide le
questioni sottoposte alla sua attenzione, nei termini che
seguono:
a) premette un’ampia ricostruzione storica dell’istituto
della responsabilità precontrattuale nella disciplina del
codice civile evidenziando come nell’intenzione originaria
dei compilatori del codice civile del 1942, l’art. 1337 cod.
civ. rappresentava un’espressione tipica della c.d.
solidarietà corporativa, vale a dire di quel tipo di
solidarietà che unisce tutti i fattori di produzione verso
la realizzazione della massima produzione nazionale,
sanzionando conseguentemente le condotte scorrette che
impedivano il raggiungimento di tale scopo mentre nel mutato
quadro costituzionale, è affermazione largamente condivisa
quella secondo cui il dovere di comportarsi secondo
correttezza e buona fede rappresenta una manifestazione del
più generale dovere di solidarietà sociale che trova il suo
principale fondamento nell’articolo 2 della Costituzione
(cfr., ex multis, Cass. civ., sez. I, 12.07.2016, n.
14188);
b) osserva che il generale dovere di solidarietà che grava
reciprocamente su tutti i membri della collettività, si
intensifica e si rafforza, trasformandosi in dovere di
correttezza e di protezione, quando tra i consociati si
instaurano “momenti relazionali” socialmente o
giuridicamente qualificati, in ragione del particolare
status –professionale e, talvolta, pubblicistico–
rivestito dai protagonisti della vicenda “relazionale”;
ciò
vale a fortiori per chi esercita una funzione
amministrativa, costituzionalmente sottoposta ai principi di
imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.), da cui il
cittadino si aspetta uno sforzo maggiore, in termini di
correttezza, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento,
rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de populo;
c) nel disegno costituzionale, che pone al centro
l’individuo (art. 2 Cost.), l’attenzione si sposta dal
perseguimento dell’utilità sociale alla tutela della persona
e delle sue libertà sicché la “funzione” del dovere di
correttezza non è più tanto (o solo) quella di favorire la
conclusione di un contratto (valido) e socialmente utile
quanto quella di tutela della libertà di autodeterminazione
negoziale, cioè di quel diritto (espressione a sua volta del
principio costituzionale che tutela la libertà di iniziativa
economica) di autodeterminarsi liberamente nelle proprie
scelte negoziali, senza subire interferenza illecite
derivante da condotte di terzi connotate da slealtà e
scorrettezza;
d) il nuovo legame che così si instaura tra dovere di
correttezza e libertà di autodeterminazione negoziale (che
va a sostituire l’impostazione precedente che legava alla
correttezza la tutela dell’interesse nazionale) impedisce
allora di restringerne lo spazio applicativo alle sole
situazioni in cui sia stato avviato un vero e proprio
procedimento di formazione del contratto o, comunque, esista
una trattativa che abbia raggiunto già una fase molto
avanzata, tanto da far sorgere il ragionevole affidamento
circa la conclusione del contratto.
Al contrario, la valenza
costituzionale del dovere di correttezza impone di ritenerlo
operante in un più vasto ambito di casi, in cui, pur
eventualmente mancando una «trattativa» in senso
tecnico-giuridico, venga, comunque, in rilievo una
situazione “relazionale” qualificata, capace di generare
ragionevoli affidamenti e fondate aspettative;
e) la nuova concezione del dovere di correttezza trova
conferma nei più recenti orientamenti della giurisprudenza
civile che ha ritenuto configurabile la c.d. responsabilità
precontrattuale da contratto valido ma svantaggioso (Cass.
civ., sez. un., 19.12.2017 -rectius 2007-, n. 26725
in Contratti, 2008, 221, n. SANGIOVANNI; Giur. it., 2008,
347, n. COTTINO; Dir. fallim., 2008, II, 1, n. SARTORI; Giur.
comm., 2008, II, 344, n. GOBBO; Resp. civ. e prev., 2008,
547, n. GRECO; La responsabilità civile, 2008, 525, n.
TOSCHI VESPASIANI; Corti salernitane, 2007, 840; Riv. dir.
comm., 2008, II, 17; Dir. e giur., 2008, 407, n. RUSSO;
Banca, borsa ecc., 2009, II, 133, n. BOVE; Strumentario
avvocati, 2008, fasc. 3, 24, n. MOTTI) e sull’esistenza di
un dovere di correttezza anche in capo a colui che non è
“parte” rispetto ad una trattativa che si svolge inter alios
(cfr. Cass. civ., sez. un., 08.04.2011, n. 8034 in Foro it., 2011, I, 2750; Riv. dir. proc., 2012, 474, n. VILLATA;
Banca, borsa ecc., 2011, II, 698, n. GARDELLA, sulla
responsabilità da prospetto informativo non veritiero; Cass.
civ., sez. I, 27.09.1995, n. 10235 sulle lettere di
patronage deboli in Foro it. Rep.: 1996, Contratto in genere
[1740], n. 216; Corriere giur., 1996, 301, n. STINGONE;
Società, 1996, 288, n. FIGONE; Arch. civ., 1996, 471; Giur.
it., 1996, I, 1, 738, n. CHINÉ; Nuova giur. civ., 1996, I,
278, n. CAVANNA; Giust. civ., 1996, I, 3007, n. CALICETI;
Cass. civ., sez. III, 18.07.2012 –rectius 2002-, n.
10403, in Foro it., 2003, I, 2147, n. FABRIZIO-SALVATORE; Giur.
it., 2003, 672, n. MARAZZI; Danno e resp., 2003, 537, n.
ADDANTE; Giur. comm., 2003, II, 441, n. DI MARCELLO; Giur.
comm., 2003, II, 598, n. LOMONACO; Giust. civ., 2003, I,
2876 sulla responsabilità civile della società di revisione
per erronea certificazione dello stato patrimoniale di una
società nei confronti di acquirenti di quote societarie);
f) venendo all’attività autoritativa della pubblica
amministrazione rammenta che la giurisprudenza, sia civile
che amministrativa, ha in più occasioni affermato che anche
nello svolgimento dell’attività autoritativa,
l’amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le
norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di
regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale
responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse
legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento
civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la
violazione delle quali può far nascere una responsabilità da
comportamento scorretto, che incide non sull’interesse
legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi
liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di
compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze
illegittime frutto dell’altrui scorrettezza (cfr., fra le
altre, Cons. Stato, sez. IV, 06.03.2015, n. 1142; sez. VI,
06.02.2013, n. 633; Cons. Stato, Cons. Stato, ad. plen.,
05.09.2005, n. 6 cit.; Cass. civ., sez. I, 12.05.2015, n. 9636; Cass. civ., sez. I,
03.07.2014, n. 15250;
Cass. civ., sez. un. 12.05.2008, n. 11656, in Foro it.
Rep.: 2008, Contratti pubblici [1735], n. 557; Corriere giur.,
2008, 1380, n. CLARICH, FIDONE; Immobili & dir., 2009, fasc.
1, 77, n. DE TILLA; Ammin. it., 2008, 1685; Riv. not., 2009,
1475, n. GRAZIANO;);
g) rammenta la distinzione tra regole di validità e regole
di comportamento osservando che le regole di diritto
pubblico hanno ad oggetto il provvedimento (l’esercizio
diretto ed immediato del potere) e la loro violazione
determina, di regola, l’invalidità del provvedimento
adottato. Al contrario, le regole di diritto privato hanno
ad oggetto il comportamento (collegato in via indiretta e
mediata all’esercizio del potere) complessivamente tenuto
dalla stazione appaltante nel corso della gara.
La loro
violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a
responsabilità. Non diversamente da quanto accade nei
rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di
correttezza e buona fede non sono regole di validità (del
provvedimento), ma regole di responsabilità (per il
comportamento complessivamente tenuto).
Rammenta al riguardo
la fattispecie della responsabilità dell’amministrazione da
provvedimento favorevole poi annullato in via
giurisdizionale o per autotutela (cfr. Cass. civ., sez. un.,
ordinanze “gemelle” 23.05.2011, nn. 6594, 6595, 6596, in
Foro it., 2011, I, 2387, con nota di TRAVI; Giust. civ.,
2011, I, 1209, n. LAMORGESE;; Resp. civ. e prev., 2011,
1743, n. SCOGNAMIGLIO; Giurisdiz. amm., 2011, III, 298; Giust.
civ., 2011, I, 2316 (m), n. D'ANGELO; Giur. it., 2012, 192,
n. COMPORTI; Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2011, 1606;
Giust. civ., 2012, I, 2769 (m), n. SALVAGO; Corriere giur.,
2011, 934, n. DI MAJO; Riv. giur. edilizia, 2011, I, 406, n.
CAPONIGRO; Giur. it., 2012, 193, n. COMPORTI; Urbanistica e
appalti, 2011, 915, n. MASERA; Cass. civ., sez. un., 22.01.2015, n. 1162 in Riv. giur. edilizia, 2015, I, 201 e
Cass. civ., sez. un., 04.09.2015, n. 17586 in Riv.
neldiritto, 2016, 467; Riv. giur. edilizia, 2015, I, 1044,
n. SINISI; Dir. proc. amm., 2016, 547, n. GALLO; Foro it.
Rep.: 2016, Giustizia amministrativa [3340], n. 206);
h) accede all’orientamento giurisprudenziale secondo cui il
dovere di correttezza e buona fede (e l’eventuale
responsabilità precontrattuale in caso di sua violazione)
sussiste, prima e a prescindere dell’aggiudicazione,
nell’ambito in tutte le fasi della procedura ad evidenza
pubblica strumentale alla scelta del contraente, che si pone
quale strumento di formazione progressiva del consenso
contrattuale nell’ambito di un sistema di “trattative (c.d.
multiple o parallele) che determinano la costituzione di un
rapporto giuridico sin dal momento della presentazione delle
offerte, secondo un’impostazione che risulta rafforzata
dalla irrevocabilità delle stesse” (cfr. Cass. civ., sez. I,
12.05.2015, n. 9636, in Giur. it., 2015, 1963, n. RACCA,
PONZIO; Nuova giur. civ., 2015, I, 983, n. SCOGNAMIGLIO; Riv.
corte conti, 2015, fasc. 3, 464; Corriere giur., 2016, 56, n.
AGNELLO; Foro it. Rep.: 2015, Contratti pubblici [1735], n.
323; Cass. civ., sez. I, 03.07.2014, n. 15260 in Foro it.,
2015, I, 643, con nota di GALLI; Riv. giur. Molise e Sannio,
2014, fasc. 3, 1, n. SANTORO; in termini, nella
giurisprudenza amministrativa, cfr., fra le altre, Cons.
Stato, sez. IV, 06.03.2015, n. 1142; Cons. Stato, sez. V,
15.07.2013, n. 3831);
i) ciò in quanto “la disciplina in materia di culpa in contrahendo non necessita, infatti, di un rapporto
personalizzato tra p.a. e privato, che troverebbe la sua
unica fonte nel provvedimento di aggiudicazione, ma è posta
a tutela del legittimo affidamento nella correttezza della
controparte, che sorge sin dall’inizio del procedimento.
Diversamente argomentando, l’interprete sarebbe invece
costretto a scindere un comportamento che si presenta
unitario e che conseguentemente non può che essere valutato
nella sua complessità” (così testualmente Cass. civ., sez.
un. –rectius sez. I -n. 15260/2014, cit.);
j) rileva che anche secondo il legislatore i doveri di
correttezza e di lealtà gravano sulla pubblica
amministrazione anche quando essa esercita poteri
autoritativi sottoposti al regime del procedimento
amministrativo; in tal senso depongono i seguenti indici
normativi:
j1) l’art. 1 della legge 07.08.1990, n. 241 assoggetta
l’attività amministrativa ai principi dell’ordinamento
comunitario, tra i quali assume un rilievo primario la
tutela dell’affidamento legittimo (Corte di Giustizia
dell’UE, 03.05.1978, C-12/77 Topfer);
j2) gli artt. 21-nonies, comma 1, e 21-quinquiesdella l. n.
241 del 1990 nel disciplinare i presupposti del potere di
autotutela prescrivono che si deve sempre considerare
l’affidamento del privato rispetto a un precedente
provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica e sul
quale basa una precisa strategia imprenditoriale;
j3) l’art. 10 dello Statuto del contribuente approvato con
la legge n. 212 del 2000 che contiene un esplicito richiamo,
sebbene settoriale, al “principio della collaborazione e
della buona fede”;
j4) l’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241/1990 superando
per tabulas il diverso orientamento in passato espresso
dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 15.09.2005, n.
7 in Foro it., 2006, III, 1, n. SIGISMONDI; Foro amm. -Cons.
Stato, 2005, 2519; Urbanistica e appalti, 2006, 61, n.
CLARICH, FONDERICO; Riv. corte conti, 2005, fasc. 5, 183;
Giur. it., 2006, 1060; Riv. corte conti, 2005, fasc. 6, 321;
Riv. amm., 2005, 1014; Danno e resp., 2006, 903, n. COVUCCI;
Giust. civ., 2006, I, 1319, n. MICARI; Rass. dir.
farmaceutico, 2006, 287; Riv. giur. edilizia, 2005, I, 1524;
Rass. avv. Stato, 2005, fasc. 4, 193, n. BALDANZA – ha
introdotto la risarcibilità (anche) del c.d. danno da mero
ritardo che è fattispecie di danno da comportamento, non da
provvedimento: la violazione del termine di conclusione sul
procedimento di per sé non determina, infatti, l’invalidità
del provvedimento adottato in ritardo (tranne i casi
eccezionali e tipici di termini “perentori”), ma rappresenta
un comportamento scorretto dell’amministrazione,
comportamento che genera incertezza e, dunque, interferisce
illecitamente sulla libertà negoziale del privato, ledendo
il diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale,
eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali,
fermo restando l’onere del privato di fornire la prova,
oltre che del ritardo e dell’elemento soggettivo, del
rapporto di causalità esistente tra la violazione del
termine del procedimento e il compimento di scelte negoziali
pregiudizievoli che non avrebbe altrimenti posto in essere.
k) conclude nel senso che i doveri di correttezza, lealtà e
buona fede hanno un ampio campo applicativo, anche rispetto
all’attività procedimentalizzata dell’amministrazione,
operando pure nei procedimenti non finalizzati alla
conclusione di un contratto con un privato sicché
risulterebbe eccessivamente restrittiva e, per molti versi
contraddittoria, la tesi secondo cui, nell’ambito dei
procedimenti di evidenza pubblica, i doveri di correttezza
(e la conseguente responsabilità precontrattuale
dell’amministrazione in caso di loro violazione) nascono
solo dopo l’adozione del provvedimento di aggiudicazione;
l) per analoghe ragioni esclude che la responsabilità
precontrattuale dell’amministrazione nella fase anteriore
all’aggiudicazione possa riguardare esclusivamente il
comportamento anteriore al bando, e, quindi, debba essere
circoscritta alle ipotesi in cui l’amministrazione ha fatto
sì che il bando venisse pubblicato nonostante fosse
conosciuto o conoscibile che non vi erano i presupposti
indefettibili.
Tale soluzione implicherebbe delle
limitazioni di responsabilità che non trovano fondamento
normativo e che contrastano con l’atipicità (delle modalità
di condotta) che caratterizza l’illecito civile. Pertanto
qualsiasi comportamento anche se successivo al bando che
risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre
necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri
di correttezza e buona fede può essere fonte di
responsabilità precontrattuale:
m) al giudice spetta condurre una rigorosa verifica, da
svolgersi necessariamente in concreto, circa l’effettiva
sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della
fattispecie generatrice del diritto al risarcimento del
danno e segnatamente:
m1) la prova dell’esistenza dell’affidamento incolpevole;
m2) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una
condotta che, valutata nel suo complesso, risulti
oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di
lealtà;
m3) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza
sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in
termini di colpa o dolo secondo il regime probatorio di cui
all’art. 2043 c.c.;
m4) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione
della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il
danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa
delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i
relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta
scorretta che si imputa all’amministrazione;
n) nel giudizio di accertamento degli elementi costitutivi
della responsabilità precontrattuale occorre valutare con
particolare attenzione in sede applicativa i seguenti
profili:
n1) il tipo di procedimento di evidenza pubblica che viene
in rilievo (anche tenendo conto dei diversi margini di
discrezionalità di cui la stazione appaltante dispone a
seconda del criterio di aggiudicazione previsto dal bando);
n2) lo stato di avanzamento del procedimento rispetto al
momento in cui interviene il ritiro degli atti di gara;
n3) il fatto che il privato abbia partecipato al
procedimento e abbia, dunque, quanto meno presentato
l’offerta (in assenza della quale le perdite eventualmente
subite saranno difficilmente riconducibili, già sotto il
profilo causale, a comportamenti scorretti tenuti
nell’ambito di un procedimento al quale egli è rimasto
estraneo);
n4) la conoscenza o, comunque, la conoscibilità, secondo
l’onere di ordinaria diligenza richiamato anche dall’art.
1227, comma 2, cod. civ., da parte del privato dei vizi (di
legittimità o di merito) che hanno determinato l’esercizio
del potere di autotutela (anche tenendo conto del
tradizionale principio civilistico, secondo cui non può
considerarsi incolpevole l’affidamento che deriva dalla
mancata conoscenza della norma imperativa violata);
n5) la c.d. affidabilità soggettiva del privato partecipante
al procedimento (ad esempio, non sarà irrilevante verificare
se avesse o meno i requisiti per partecipare alla gara di
cui lamenta la mancata conclusione o, a maggior ragione,
l’esistenza a suo carico di informative antimafia che
avrebbero comunque precluso l’aggiudicazione o l’esecuzione
del contratto).
IV. – Sulla giurisdizione in materia di comportamenti
scorretti della p.a. che cagionano danni all’integrità
patrimoniale ed alla libertà negoziale del privato, si
segnalano le seguenti decisioni:
o) sulla giurisdizione a conoscere della domanda di
risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale
della P.A., da ultimo, Cass. civ., sez. un., 27.04.2017,
n. 10413 (in Foro it, 2017, I, 3693 cui si rinvia per i
richiami di dottrina e giurisprudenza, non menzionata dalla
Plenaria), secondo cui “Quando la p.a. agisca iure privatorum, è devoluta al giudice ordinario la controversia
sulla responsabilità precontrattuale, ivi compreso
l'accertamento dell'idoneità del comportamento della p.a. ad
ingenerare nei terzi, anche per mera colpa, un ragionevole
affidamento in ordine alla conclusione di un contratto”;
Cass. civ., sez. un., 04.07.2017, n. 16419 (oggetto della
News US in data 14.07.2017, cui si rinvia per ogni
approfondimento di dottrina e giurisprudenza), secondo
cui "La domanda di risarcimento del danno da responsabilità
precontrattuale proposta da una p.a., in qualità di stazione
appaltante, nei confronti del soggetto affidatario di lavori
o servizi pubblici appartiene alla giurisdizione del giudice
ordinario,trattandosi di richiesta afferente non alla fase
pubblicistica della gara ma a quella prodromica, nella quale
si lamenta la violazione degli obblighi di buona fede e
correttezza; in tale ipotesi, infatti, il giudice predetto è
chiamato a decidere di una controversia avente ad oggetto un
diritto soggettivo la cui lesione sia stata non conseguente,
bensì soltanto occasionata da un procedimento amministrativo
di affidamento di lavori o servizi";
p) sulla giurisdizione esclusiva in materia di
responsabilità precontrattuale relativa a gara, Cons. Stato
sez. III, 31.08.2016 n. 3755 (in Dir. proc. amm., 2017,
677 ss. con nota di E. ROMANI), secondo cui "sussiste la
giurisdizione amministrativa esclusiva nelle controversie di
responsabilità precontrattuale disciplinata dall'art. 133,
comma 1, lett. e) del c.p.a. laddove l'amministrazione
appaltante deduca la responsabilità precontrattuale del
privato partecipante alla gara. (Fattispecie relativa ad una
gara indetta da un ente ospedaliero perl'individuazione
dell'istituto di credito con cui stipulare un contratto di
mutuo)";
q) in fattispecie diversa dall’evidenza pubblica Cass. civ.,
sez. un., 12.05.2008, n. 11656 cit., citata in
motivazione, ha ritenuto che “La controversia avente ad
oggetto l'azione di responsabilità precontrattuale proposta
da un privato nei confronti della p.a., in riferimento
all'esito negativo delle trattative intercorse, a partire
dall'anno 2001, per la stipulazione di un contratto di
compravendita di cosa futura (nella specie, di complesso
edilizio da costruire sul terreno del costruttore per
adibirlo ad uffici amministrativi), in cui l'attore non
postula la demolizione di alcun atto amministrativo, né
contesta la procedura di individuazione del contraente, ma
allega soltanto l'esistenza di un illecito extracontrattuale
da parte della medesima amministrazione, attiene ad una
pretesa che ha consistenza di diritto soggettivo ed
appartiene, pertanto, alla giurisdizione del giudice
ordinario; infatti, una volta esclusa l'applicabilità
dell'art. 6 l. n. 205 del 2000, rilevante ratione temporis,
riprodotto nell'art. 244 del d.lgs. n. 163 del 2006 -vertendosi in controversia riguardante la compravendita di
cosa futura e non già la procedura di affidamento di lavori,
servizi o forniture- la giurisdizione va affermata in base
al criterio di riparto ancorato alla distinzione tra diritti
soggettivi ed interessi legittimi e, dunque, in funzione
della natura della situazione soggettiva dedotta in
giudizio”;
r) in materia di risarcimento dei danni subiti per
l'affidamento ingenerato dal provvedimento favorevole
successivamente annullato e quindi in conseguenza del
comportamento scorretto della p.a. si vedano le ordinanze
“gemelle” Cass. civ., sez. un., citate in motivazione:
r1) 23.05.2011, n. 6594 secondo cui “In tema di riparto
della giurisdizione, l'attrazione (ovvero concentrazione)
della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo
può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal
soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta
illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non
costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia
di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela
ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio;
pertanto, qualora si tratti di provvedimento amministrativo
rispetto al quale l'interesse tutelabile è quello pretensivo,
il soggetto che può chiedere la tutela risarcitoria dinanzi
al giudice amministrativo è colui che, a seguito di una
fondata richiesta, si è visto ingiustamente negare o
ritardare il provvedimento richiesto; qualora si tratti di
provvedimento rispetto al quale l'interesse tutelabile si
configura come oppositivo, il soggetto che può chiedere la
tutela risarcitoria dinanzi al medesimo giudice è soltanto
colui che è portatore dell'interesse alla conservazione del
bene o della situazione di vantaggio direttamente
pregiudicati dal provvedimento contro il quale ha proposto
ricorso (nella specie, sulla base di detto principio, le
sezioni unite hanno dichiarato la giurisdizione del giudice
ordinario nella controversia proposta da colui che, avendo
ricevuto una concessione edilizia, poi legittimamente
annullata, in via di autotutela, aveva chiesto il
risarcimento dei danni subiti per l'affidamento ingenerato
dal provvedimento favorevole)”;
r2) idem, 23.05.2011, n. 6595 secondo cui “Nel caso di
annullamento giurisdizionale di una concessione edilizia,
rilasciata in conformità col certificato di destinazione
urbanistica emesso dal comune, non si configura alcuna
lesione dell'interesse legittimo del titolare della
concessione, ma può configurarsi una lesione
dell'affidamento in lui ingenerato dal provvedimento
favorevole: la relativa tutela risarcitoria è perciò
devoluta al giudice ordinario”;
r3) idem, 23.05.2011, n. 6596 secondo cui “Nel caso di
annullamento giurisdizionale dell'aggiudicazione di un
appalto, non si configura alcuna lesione dell'interesse
legittimo dell'impresa beneficiaria dell'aggiudicazione, ma
può configurarsi una lesione dell'affidamento in essa
ingenerato dal provvedimento favorevole: la relativa tutela
risarcitoria è perciò devoluta al giudice ordinario”;
r4) Cass. civ., sez. un., 04.09.2015, n. 17586, sempre
citata in motivazione, ha successivamente ribadito che
“Anche nell'assetto normativo scaturito dal codice del
processo amministrativo, non è possibile ritenere che
l'azione di risarcimento danni per affidamento incolpevole
del beneficiario del provvedimento amministrativo emesso
illegittimamente e poi rimosso per annullamento in
autotutela divenuto definitivo o per annullamento in sede
giurisdizionale posa spettare alla giurisdizione del giudice
amministrativo in forza della norma dell'art. 7, 4º comma, c.p.a., nel presupposto che si tratti di una controversia
relativa al risarcimento del danno per la lesione di un
interesse legittimo, dovendosi in tal caso viceversa
ritenere che la giurisdizione spetti al giudice ordinario,
avendo la pretesa azionata natura di diritto soggettivo”;
r5) tale orientamento è stato di recente ribadito da Cass.
civ., sez. un., ordinanza 22.06.2017, n. 15640 in Foro it. Rep.: 2017, Contratti pubblici [1735], n. 119 oggetto
della
News US del
04.07.2017 (ai cui approfondimento di
dottrina e giurisprudenza si rinvia) secondo cui “La
controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento
danni proposta da colui che, avendo ottenuto
l'aggiudicazione in una gara per l'affidamento di un appalto
pubblico, successivamente annullata dal giudice
amministrativo perché illegittima, deduca la lesione
dell'affidamento ingenerato dal provvedimento di
aggiudicazione apparentemente legittimo, rientra nella
giurisdizione del giudice ordinario, non essendo chiesto in
giudizio l'accertamento della illegittimità
dell'aggiudicazione e, quindi, non rimproverandosi alla p.a.
l'esercizio illegittimo di un potere consumato nei suoi
confronti, ma la colpa consistita nell'averlo indotto a
sostenere spese nel ragionevole convincimento della
prosecuzione del rapporto fino alla scadenza del termine
previsto dal contratto stipulato a seguito della gara”;
s) Cass. civ., sez. un., ordinanza 15.12.2017, n.
30221 in Foro it.: Rep. 2017, Giurisdizione civile [3330], n.
135 oggetto della
News US del
05.01.2018 (ai cui
approfondimenti si rinvia) ha invece ritenuto la
giurisdizione amministrativa in caso di condotta
ostruzionistica della p.a. affermando che “La complessiva
condotta della p.a., di gestione dell'istruttoria di un
procedimento sulla domanda di erogazione di aiuti finanziari latamente discrezionali, quali quelli previsti dall'art. 6
l.prov. Trento n. 6 del 1999, che non fissa presupposti
cogenti, implicando pertanto valutazioni di opportunità e
convenienza circa la meritevolezza dell'impresa richiedente,
onde garantire l'impiego oculato di risorse pubbliche ed
evitare che l'agevolazione concretizzi una perdita certa per
l'erario, non si risolve in una sequenza di singoli
comportamenti dei funzionari investiti del relativo potere
ma integra una condotta tipica amministrativa di
impostazione di contatti ed interlocuzioni con la
richiedente volti, anche con provvedimenti formali, a
conseguire le condizioni migliori affinché l'impegno delle
risorse pubbliche possa valutarsi vantaggioso o quanto meno
non destinato ad una prognosi sicuramente sfavorevole;
pertanto, è attribuita alla cognizione del giudice
amministrativo la domanda di risarcimento del danno
prospettato come derivante da quella condotta, siccome in
rapporto di causalità diretta con l'illegittimo esercizio
del potere pubblico”;
t) la giurisdizione amministrativa in materia di danno da
ritardo era stata affermata già da Cons. Stato, Ad. plen.,
15.09.2005, n. 7 cit. ed ora viene ribadita dalla
pronuncia della Plenaria in rassegna che richiama la
previsione dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 1, Cod.
proc. amm., la quale devolve alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo le controversie in materia di
“risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza
dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di
conclusione del procedimento”. Precisa la Plenaria che il
ritardo lede la libertà negoziale del soggetto ed il suo
diritto soggettivo al rispetto del termine di conclusione
del procedimento fissato direttamente dalla legge in ciò
accogliendo la tesi espressa da M. CLARICH, Termine del
procedimento e potere amministrativo, Torino, Giappichelli,
1995;
V. – In materia di responsabilità precontrattuale si
segnalano le seguenti problematiche di ordine sostanziale:
u) sulla natura della responsabilità precontrattuale della
P.A. e sul conseguente regime giuridico, con particolare
riferimento all’onere della prova ed al termine di
prescrizione, si rilevano orientamenti divergenti tra le
giurisdizioni civile ed amministrativa e nell’ambito di
ciascuna di esse:
u1) Cass. civ., sez. I, 12.07.2016, n. 14188 (in Rivista
del Notariato 2017, 4, II, 776 con nota di RINALDO e in Foro
it., 2016, I, 2685, con nota di PALMIERI, cui si rinvia per
ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), ritiene
che "la responsabilità precontrattuale, ai sensi degli art.
1337 e 1338 c.c., va inquadrata nella responsabilità di tipo
contrattuale da "contatto sociale qualificato", inteso come
fatto idoneo a produrre obbligazioni, ai sensi dell'art.
1173 c.c. e dal quale derivano, a carico delle parti, non
obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., bensì
reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di
informazione, ai sensi degli art. 1175 e 1375 c.c., con
conseguente applicabilità del termine decennale di
prescrizione ex art. 2946 c.c."; secondo Cass. civ., sez. I,
20.12.2011 n. 27648 “La trattativa precontrattuale
crea un obbligo di comportamento in buona fede, che
distingue tale fattispecie da quella di cui all'art. 2043
c.c., nella quale per contro la lesione precede
l'instaurazione di un qualsiasi rapporto tra le parti. La
responsabilità che ne scaturisce è di natura contrattuale
onde il danneggiato dovrà provare, oltre al danno sofferto,
solo la condotta antigiuridica, non anche la colpa del
danneggiante”; nel senso che la responsabilità
precontrattuale della P.A. sia ricompresa nell’ambito di
quella extracontrattuale ex art. 2043 c.c., parrebbe invece
orientarsi Cass. civ., sez. un., 2704.2017, n. 10413
cit. (non menzionata dalla Plenaria);
u2) Cons. Stato, sez. IV, 28.12.2016 n. 5497 in Foro amm., 2016, 2939 (m), ritiene invece che “La fattispecie del
danno da ritardo va pienamente ricondotta allo schema
generale dell'art. 2043 c.c., con conseguente applicazione
rigorosa del principio dell'onere della prova in capo al
danneggiato circa la sussistenza di tutti i presupposti
oggettivi e soggettivi dell'illecito, con l'avvertenza
inoltre che, nell'azione di responsabilità per danni, il
principio dispositivo, sancito in generale dall'art. 2697,
1º comma, c.c., opera con pienezza e non è temperato dal
metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento”; in
senso conforme Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2016, n.
5199 con ampi richiami di giurisprudenza, secondo cui “La
fattispecie del danno da ritardo va inquadrata nel genus
della responsabilità c.d. "aquiliana" ex art. 2043 codice
civile, con conseguente applicazione del principio
dell'onere della prova, in capo al danneggiato, in ordine
alla sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e
soggettivi dell'illecito in questione”; in generale sulla
responsabilità aquiliana da attività provvedimentale
illegittima si veda di recente Cons. Stato, sez. IV, 04.07.2017, n. 3254;
u3) la pronuncia della Plenaria in rassegna richiama
espressamente l’art. 2043 c.c. nell’analisi degli elementi
costitutivi della fattispecie e lo stesso principio di
atipicità dell’illecito aquiliano propendendo pertanto per
la natura extracontrattuale della responsabilità
precontrattuale;
u4) sul punto specifico relativo alla necessità che la
controparte sia stata o meno individuata, ai fini della
configurabilità della responsabilità della P.A., pare
diversamente orientata Cass. civ., sez. un., 27.04.2017,
n. 10413 cit. (non menzionata dalla Plenaria), secondo cui
“La p.a. che, agendo iure privatorum, intrattiene con una
controparte già individuata trattative finalizzate alla
stipulazione di un contratto di diritto privato, incorre in
responsabilità precontrattuale in tutti i casi in cui il suo
comportamento contrasti con i principî della correttezza e
della buona fede";
v) sui limiti ai danni riconoscibili in sede di
responsabilità precontrattuale, Cons. Stato, sez. IV, 15.09.2014, 4674 (in Guida al diritto 2014, 41, 94 con
nota di TOMASSETTI e in Foro it., 2015, III, 106, con nota di
GALLI cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e
giurisprudenza), secondo cui "il danno risarcibile a titolo
di responsabilità precontrattuale in relazione alla mancata
stipula di un contratto d'appalto o in relazione
all'invalidità dello stesso, comprende le spese sostenute
dall'impresa per aver partecipato alla gara (danno
emergente), ma anche e soprattutto la perdita, se
adeguatamente provata, di ulteriori occasioni di stipulazione
di altri contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi,
impedite proprio dalle trattative indebitamente interrotte
(lucro cessante), con esclusione del mancato guadagno che
sarebbe derivato dalla stipulazione ed esecuzione del
contratto non concluso";
w) sulla configurabilità della responsabilità
precontrattuale per sopravvenienze normative si veda Cons.
Stato, sez. V, 26.06.2015, n. 3237 (in Foro it., 2015,
III, 672, con nota di TRAVI), secondo cui "la responsabilità
precontrattuale dell'amministrazione, per violazione del
dovere di lealtà e di correttezza, va esclusa in presenza di
una revoca disposta una decina di giorni dopo l'atto
revocato e motivata con sopravvenienze legislative e
istituzionali che impedivano l'assunzione di impegni
finanziari con la durata prevista";
x) sulla configurabilità della responsabilità
precontrattuale in presenza di contratto valido ma
pregiudizievole –su cui la pronuncia della Plenaria in
rassegna si sofferma diffusamente– si veda anche Cass.
civ., sez. I, 23.03.2016, n. 5762 (in Foro it., 2016, I,
1703, con nota di P. PARDOLESI cui si rinvia per ogni
approfondimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui
"la regola posta dall'art. 1337 c.c. non si riferisce alla
sola ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative
ma ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può
essere predeterminato in modo preciso ed implica il dovere
di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti
maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato
rilevante, conosciuto o conoscibile con l'ordinaria
diligenza, ai fini della stipulazione del contratto";
y) sulla differenza fra responsabilità precontrattuale e
responsabilità da impossibile esecuzione del giudicato,
Cons. Stato, Ad. plen., 12.05.2017, n. 2 (in Foro it.,
2017, III, 433, con nota di TRAVI; Guida al diritto 2017,
24, 95 con nota di PONTE; nonché oggetto della
News US in
data 16.05.2017, cui si rinvia per ogni approfondimento
di dottrina e giurisprudenza), secondo cui "l'impossibilità
(sopravvenuta) di esecuzione in forma specifica
dell'obbligazione nascente dal giudicato —che dà vita in
capo all'amministrazione ad unaresponsabilità assoggettabile
al regime della responsabilità di natura contrattuale, che
l'art. 112, comma 3, c.p.a., sottopone peraltro ad un regime
derogatorio rispetto alla disciplina civilistica— non estingue l'obbligazione, ma la converte, "ex lege", in
una diversa obbligazione, di natura risarcitoria, avente ad
oggetto l'equivalente monetario del bene della vita
riconosciuto dal giudicato in sostituzione della esecuzione
in forma specifica; l'insorgenza di tale obbligazione può
essere esclusa solo dalla insussistenza originaria o dal
venir meno del nesso di causalità, oltre che
dell'antigiuridicità della condotta"; Cons. Stato, sez. VI,
11.01.2010, n. 20 (in Guida al diritto 2010, 10, 98 con
nota di PONTE), secondo cui "la qualificazione della
responsabilità derivante da illegittimaaggiudicazione come
precontrattuale non impedisce il ristoro del danno da
perdita di "chance". Tuttavia nel rispetto del principio
generale sancito dall'art. 2697 c.c., la parte che invoca il
danno da perdita di "chance" ne deve fornire la prova
rigorosa. Le occasioni favorevoli di cui si lamenta la
perdita non devono essere astratte, ma avere un minimo di
concretezza, che non è integrata dalla produzione di bandi
pubblicati per analoghi appalti nel periodo in questione";
z) sull’ammissibilità della responsabilità precontrattuale
in caso di autotutela, cfr., tra le tante, Cons. Stato, sez.
V, 06.12.2006, n. 7194 (in Guida al diritto 2007, 3, 85
con nota di PONTE; Urbanistica e appalti, 2007, 595, con nota
di TUCCARI), secondo cui "è ammissibile la risarcibilità del
danno, a titolo di responsabilità precontrattuale della
p.a., nell'ipotesi in cuil'amministrazione procedente,
rilevando un errore nel procedimento di gara già esperito,
rimuova in autotutela la gara stessa, ancorché fosse già
intervenuta l'aggiudicazione in capo all'impresa vincitrice
della selezione".
Peraltro sul punto la pronuncia in rassegna contiene una
inciso rilevante laddove, nel richiedere la conoscenza o,
comunque, la conoscibilità, secondo l’onere di ordinaria
diligenza richiamato anche dall’art. 1227, comma 2, cod.
civ., da parte del privato dei vizi (di legittimità o di
merito) che hanno determinato l’esercizio del potere di
autotutela, precisa che occorre tener conto “del
tradizionale principio civilistico, secondo cui non può
considerarsi incolpevole l’affidamento che deriva dalla
mancata conoscenza della norma imperativa violata” (tra le
tante si veda da ultimo Cass. civ., sez. III, 18.05.2016
n. 10156 secondo cui “In materia di invalidità negoziale,
ove essa derivi dalla violazione di una norma imperativa o
proibitiva di legge, o di altre norme aventi efficacia di
diritto obiettivo, cioè tali da dover essere note, per
presunzione assoluta, alla generalità dei cittadini, ovvero
tali, comunque, da potere essere conosciute attraverso un
comportamento di normale diligenza, non si può configurare
colpa contrattuale a carico dell'altro contraente, che abbia
omesso di far rilevare alla controparte l'esistenza delle
norme stesse”); ne discende che, in caso di annullamento
della gara per violazione di norme di legge, di regola, non
potrà ritenersi sussistente un affidamento incolpevole
meritevole di tutela secondo quanto prescritto dall’art.
1338 c.c. stante la presunzione di conoscenza della norma di
legge violata in capo al privato.
aa) sull’ammissibilità della responsabilità precontrattuale
in caso di revoca dell’aggiudicazione provvisoria, Tar
per la Campania, sede di Napoli, sez. I, 14.09.2016,
n. 4300, in lamministrativista.it, 08.11.2016, con nota
di NUZZO), secondo cui "il provvedimento di revoca
dell'aggiudicazione provvisoria ascrivibile alla colpevole
condotta della stazione appaltante e, in particolare, alle
incontestate criticità e ritardi registrati durante la fase
di pubblicazione della "lex specialis" ed al conseguenziale
slittamento dei termini di partecipazione, nonché alla lenta
celebrazione delle attività di esame delle offerte,
determina il sorgere di una responsabilità precontrattuale,
riconducibile al modello extracontrattuale o da fatto
illecito di cui all'art. 2043 c.c.";
bb) sulle possibili implicazioni in tema di responsabilità
precontrattuale nel project financing, derivanti dalla
valorizzazione del comportamento amministrativo scorretto
operato dalla Plenaria lungo l’intero arco di sviluppo della
funzione amministrativa si evidenzia che:
- la costante giurisprudenza amministrativa afferma che,
anche una volta dichiarata di pubblico interesse una
proposta di realizzazione di lavori pubblici ed individuato
quindi il promotore privato, l’amministrazione non è tenuta
a dare corso alla procedura di gara per l’affidamento della
relativa concessione, posto che tale scelta costituisce una
tipica e prevalente manifestazione di discrezionalità
amministrativa nella quale sono implicate ampie valutazioni
in ordine all’effettiva esistenza di un interesse pubblico
alla realizzazione dell’opera, tali da non potere essere
rese coercibili nell’ambito del giudizio di legittimità che
si svolge in sede giurisdizionale amministrativa (Cons.
Stato, sez. III, 20.03.2014, n. 1365; Cons. Stato, sez. III, 24.05.2013, n. 2838; Cons. Stato, sez. V,
06.05.2013, n. 2418);
- la posizione di vantaggio acquisita per effetto della
dichiarazione di pubblico interesse si esplica solo
all’interno della gara, una volta che la decisione di
affidare la concessione sia stata assunta (Cons. Stato, sez.
V, 21.06.2016, n. 2719; idem, 03.05.2016, n. 1692);
questo vantaggio si sostanzia nel fatto che il progetto del
promotore è posto a base della successiva gara e che,
laddove all’esito di quest’ultima sia selezionato un
progetto migliore, lo stesso promotore ha un diritto
potestativo di rendersi aggiudicatario adeguando la propria
proposta a quella migliore;
- da questo inquadramento viene tratto il corollario, ai
fini della responsabilità civile per culpa in contrahendo,
che anche dopo la dichiarazione di pubblico interesse
dell’opera non si è costituito un distinto, speciale ed
autonomo rapporto precontrattuale, interessato dalla
responsabilità precontrattuale, a che l’amministrazione dia
poi comunque corso alla procedura di finanza di progetto e
che per contro la valutazione amministrativa della
perdurante attualità dell’interesse pubblico alla
realizzazione dell’opera continua a essere immanente e
comporta un’assunzione consapevole di rischio a che quanto
proposto non venga poi stimato conforme all’interesse
pubblico e dunque davvero da realizzare (cfr. Cons. Stato,
sez. III, 20.03.2014, n. 1365; successivamente Cons.
Stato, sez. V, 21.06.2016, n. 2719; Cons. Stato, sez. V,
03.05.2016, n. 1692; più di recente nello stesso senso:
Cons. Stato, V, 18.01.2017, n. 207; idem 21.12.2017, n. 6009; idem, 11.01.2018, n. 111 in Foro
Amministrativo (Il) 2018, 1, 13);
- si precisa tuttavia, talvolta, che dopo la dichiarazione
di pubblico interesse della proposta del promotore
l’amministrazione non disponga di «un’incondizionata facoltà
di recesso ad nutum della procedura (il che risulterebbe
evidentemente contrario ai generali canoni di ragionevolezza
e buona fede che connotano anche questo settore
dell’ordinamento)» (così Cons. Stato, sez. V, 13.03.2017,
n. 1139 richiamata da Cons. Stato, V, 21.12.2017, n.
6009);
- e si valorizza la condotta del promotore per escludere la
responsabilità precontrattuale precisandosi che non solo il
soggetto pubblico aggiudicatore ma anche il proponente
privato è obbligato a «collaborare in modo pieno al fine di
individuare soluzioni giuridicamente e finanziariamente
sostenibili»; dacché «non si possono far gravare soltanto
sull’amministrazione le conseguenze della negativa
conclusione della procedura laddove il proponente, pur se
consapevole delle criticità connesse ad alcuni aspetti
qualificanti della proposta, abbia nondimeno insistito (e in
modo consapevole) su tali aspetti, in tal modo contribuendo
in modo determinante al giudizio negativo infine espresso
dal CIPE e alla scelta per una diversa opzione realizzativa»
(così Cons. Stato, V, 13.03.2017, n. 1139 richiamata da
Cons. Stato, V, 21.12.2017, n. 6009); in tale
affermazione si rileva una anticipazione di quanto affermato
dalla Plenaria con la pronuncia in rassegna nel senso “che
nell’ambito del procedimento amministrativo (a maggior
ragione in quello di evidenza pubblica cui partecipano
operatori economici qualificati), il dovere di correttezza è
un dovere reciproco, che grava, quindi, anche sul privato, a
sua volta gravato da oneri di diligenza e di leale
collaborazione verso l’Amministrazione”;
cc) sulla rilevanza, ai fini di responsabilità
precontrattuale, della minuta o puntuazione, Cass. civ.,
sez. un., 06.03.2015, n. 4628 (in Diritto & Giustizia
2015, 9 marzo con nota di TARANTINO e in Foro it., 2015, I,
2016, con nota di GIOVANELLA cui si rinvia per ogni
approfondimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui "in presenza di contrattazione preliminare relativa a
compravendita immobiliare che sia scandita in due fasi, con
la previsione di stipula di un contratto preliminare
successiva alla conclusione di un primo accordo, il giudice
di merito deve preliminarmente verificare se tale accordo
costituisca già esso stesso contratto preliminare valido e
suscettibile di conseguire effetti ex art. 1351 e 2932 c.c.,
ovvero anche soltanto effetti obbligatori ma con esclusione
dell'esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento.
Riterrà produttivo di effetti l'accordo denominato come
preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla
successiva stipula di un altro contratto preliminare,
soltanto qualora emerga la configurabilità dell'interesse
delle parti a una formazione progressiva del contratto
basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia
identificabile la più ristretta area del regolamento di
interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo
preliminare. La violazione di tale accordo, in quanto
contraria a buona fede, potrà dar luogo a responsabilità per
la mancata conclusione del contratto stipulando, da
qualificarsi di natura contrattuale per la rottura del
rapporto obbligatorio assunto nella fase precontrattuale";
VI. - Circa il risarcimento del danno da ritardo mero, per
lesioni degli interessi procedimentali e, in generale, sulla
tutela del c.d. interesse strumentale nell’attuale
ordinamento del processo amministrativo, caratterizzato
dalla peculiare disciplina delle condizioni delle azioni (in
particolare interesse ad agire e legittimazione), che mira
alla realizzazione del giusto processo ex art. 111 Cost., si
vedano:
dd) Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 (specie §§
5 ss., e 9.2. ss., in Foro it., 2015, III, 265, con nota di
TRAVI; Riv. dir. proc., 2015, 1256, con nota di FANELLI;
Giur. it., 2015, 2192 con nota di FOLLIERI; Dir. proc. ammin.,
2016, 205, con nota di PERFETTI e TROPEA, cui si rinvia per
ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza); sez. V,
22.01.2015, n. 272, in Foro it., 2015, III, 345 cui si
rinvia per ogni riferimento di dottrina e giurisprudenza;
tutte nel senso:
dd1) di non consentire la tutela del c.d. interesse
strumentale perché in contrasto con le esigenze di evitare
l’abuso del processo ed il sindacato su poteri non ancora
esercitati dalla stazione appaltante;
dd2) di considerare il processo quale risorsa scarsa da
attingere solo dopo essere stato superato il filtro delle
condizioni dell’azione in cui è insito un giudizio di
meritevolezza della pretesa;
dd3) di esigere che il processo sia volto a tutelare
interessi concreti ed attuali e non futuri ed incerti, di
mero fatto quando non emulativi, per giunta rimessi ad una
incoercibile nuova determinazione dell’Amministrazione;
ee) in dottrina: R. DE NICTOLIS, Codice del processo
amministrativo cit., 759 ss, 2056 ss., nega in radice che
l’interesse strumentale sia configurabile quale interesse
legittimo;
ff) la opposta tesi della configurabilità, anche in termini
di veri e propri diritti, di situazioni soggettive
procedimentali, come situazioni giuridiche autonome rispetto
al contenuto sostanziale del provvedimento finale, è stata
sostenuta da M. CLARICH, Termine del procedimento e potere
amministrativo, Torino, Giappichelli, 1995, F. FIGORILLI, Il
contraddittorio nel procedimento amministrativo, Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, A. PUBUSA, Diritti dei
cittadini e pubblica amministrazione, Torino, Giappichelli,
1996, A. ZITO, Le pretese partecipative del privato nel
procedimento amministrativo, Milano, Giuffrè, 1996, E.
FOLLIERI, Lo stato dell'arte della tutela risarcitoria degli
interessi legittimi. Possibili profili ricostruttivi, in Dir.
proc. amm., n. 2/1998, M. RENNA, Obblighi procedimentali e
responsabilità dell'amministrazione in, Dir. amm. 2005, 3,
557;
gg) questa tesi è stata respinta dall’indirizzo sino ad ora
dominante nella giurisprudenza del Consiglio di Stato che
rifiuta la possibilità di risarcire il danno ogni qual volta
non sia riconoscibile con certezza la spettanza del bene
della vita finale (sull’inquadramento generale v. Cons.
Stato, Ad. plen., 12.05.2017, n. 2, oggetto della
News
US in data 16.05.2017 e in Foro it., 2017, III, 433, con
nota di TRAVI; Ad. plen. n. 5 del 2015 cit.; Ad. plen. n. 9
del 2014 cit., cui si rinvia per ogni approfondimento); per
questa via si esclude il danno da mero ritardo
procedimentale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 02.10.2017,
n. 4570; sez. V, 25.03.2016, n. 1239, oggetto della
News
US in data 31.03.2016 cui si rinvia per ogni
approfondimento); da lesione di un mero interesse di fatto o
emulativo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.04.2016, n.
1436; sez. V, 10.02.2015, n. 675, in Riv. neldiritto,
2015, 1033, con nota di GALATI, cui si rinvia per ogni
approfondimento); da annullamento del provvedimento
amministrativo per vizi puramente formali (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 18.07.2017, n. 3520; sez. IV, 04.07.2017, n.
3255); e si mantiene un atteggiamento rigoroso, sotto il
profilo causale e statistico, circa i presupposti per il
riconoscimento del danno da perdita di chance specie per le
gare di appalto (cfr. Cons. Stato, sez. V, 25.02.2016,
n. 762, in Foro it., 2016, III; 468, con nota di CONDORELLI;
sez. V, 30.06.2015, n. 3249, id., 2015, III, 440, con
nota di TRIMARCHI BANFI; sez. IV, 15.09.2014, n.
4674, id., 2015, III, 106, con nota di GALLI; sul versante
civile v. da ultimo Cass. civ., sez. I, 29.11.2016, n.
24295, id., 1374, con nota di DI ROSA cui si rinvia per ogni
approfondimento di dottrina e giurisprudenza);
hh) tale indirizzo dovrà essere rimeditato alla luce del
principio di diritto reso dalla pronuncia della Plenaria in
rassegna con riferimento al danno da mero ritardo, anche se
l’autonoma rilevanza, anche economica, del “bene tempo”, se
da un lato giustifica l’apertura della Plenaria, dall’altro
non rende necessaria, dal punto di vista della coerenza
sistematica, una indiscriminata apertura alla tutelabilità
di tutte le posizioni giuridiche soggettive procedimentali,
in via autonoma rispetto al bene della vita finale, come
confermato dalla quasi coeva pronuncia della Plenaria n.
4/2018 che, escludendo l’onere di tempestiva impugnazione
delle clausole del bando non immediatamente lesive, ha
negato l’autonoma tutelabilità di un diritto alla
legittimità della procedura di gara sganciato dalla
spettanza dell’utilità finale, in linea con l’orientamento
tradizionale;
ii) circa la inidoneità della violazione dei termini del
procedimento, salvo i casi eccezionali e tipici di termini
perentori previsti dalla legge, a determinare ex se la
illegittimità del provvedimento si veda Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 10 in Foro it., 2014, III, 213;
Giurisdiz. amm., 2013, ant., 640; Giur. it., 2014, 1179 (m),
n. GNES; Urbanistica e appalti, 2014, 830, n. FOÀ; Dir. e
pratica amm., 2014, fasc. 6, 65 (m), n. D'INCECCO BAYARD DE
VOLO; Nuovo notiziario giur., 2015, 153; Cons. Stato, sez.
IV, 16.11.2011, n. 6051 in Foro it., 2012, III, 636.
A
tal proposito in materia di violazione del termine per la
stipula del contratto Cons. Stato sez. V, 31.08.2016 n.
3742 ha affermato che “Il termine di sessanta giorni dal
momento in cui diviene definitiva l'aggiudicazione
dell'appalto, fissato dall'art. 11, comma 9, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 per la stipula del contratto, non ha natura
perentoria, né alla sua inosservanza può farsi risalire ex
se un'ipotesi di responsabilità precontrattuale ex lege
della Pubblica amministrazione, se non in costanza di tutti
gli elementi necessari per la sua configurabilità; infatti
le conseguenze che derivano in via diretta dall'inutile
decorso di detto termine, sono, da un lato, la facoltà
dell'aggiudicatario, mediante atto notificato alla stazione
appaltante, di sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal
contratto; dall'altro, il diritto al rimborso delle spese
contrattuali documentate, senza alcun indennizzo” (cfr. di
recente nello stesso senso Cons. Stato, sez. III, 26.03.2018 n. 1882; Tar per il Lazio–Roma - sez. III, 16.12.2016 n. 12544) (Consiglio
di Stato, A.P.,
sentenza 04.05.2018 n. 5 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'Adunanza plenaria riconosce la responsabilità
precontrattale anche prima dell’aggiudicazione definitiva.
---------------
●
Risarcimento danni – Responsabilità precontrattuale –
Nell’esercizio dell’attività autoritativa – Configurabilità-
●
Risarcimento danni – Responsabilità precontrattuale –
Contratti della Pubblica amministrazione – Responsabilità
precontrattuale – Configurabilità anche prima
dell’aggiudicazione – Possibilità.
●
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica
amministrazione – Responsabilità precontrattuale –
Configurabilità per comportamenti anteriori al bando –
Possibilità.
●
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica
amministrazione – Responsabilità precontrattuale –
Presupposti – Individuazione.
●
Anche nello svolgimento dell’attività autoritativa,
l’amministrazione è tenuta a rispettare oltre alle norme di
diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola,
l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità
da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo),
anche le norme generali dell’ordinamento civile che
impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione
delle quali può far nascere una responsabilità da
comportamento scorretto, che incide non sull’interesse
legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi
liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di
compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze
illecite frutto dell’altrui scorrettezza (1).
●
Nell’ambito del procedimento di evidenza pubblica, i doveri
di correttezza e buona fede sussistono, anche prima e a
prescindere dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le
fasi della procedura ad evidenza pubblica, con conseguente
possibilità di configurare una responsabilità
precontrattuale da comportamento scorretto nonostante la
legittimità dei singoli provvedimenti che scandiscono il
procedimento (1).
●
La responsabilità precontrattuale della Pubblica
amministrazione può derivare non solo da comportamenti
anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento
successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica
da condurre necessariamente in concreto, ai doveri di
correttezza e buona fede (1).
●
Affinché nasca la responsabilità
dell’amministrazione non è sufficiente che il privato
dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli
abbia maturato un affidamento incolpevole circa l’esistenza
di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere
conseguenti attività economicamente onerose), ma occorrono
gli ulteriori seguenti presupposti:
a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una
condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere
dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti,
risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e
di lealtà;
b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza
sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in
termini di colpa o dolo; c) che il privato provi sia il
danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione
negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche
subite a causa delle scelte negoziali illecitamente
condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali
danni e la condotta scorretta che si imputa
all’amministrazione (1).
---------------
(1) La questione era stata rimessa
Cons. St., sez. III, 24.11.2017,
n. 5491.
L’Adunanza plenaria ritiene che le questioni rimesse dalla
Sezione Terza debbano essere risolte nel senso che:
a) il
dovere di correttezza e di buona fede oggettiva (e la
conseguente responsabilità precontrattuale derivante dalla
loro violazione) sia configurabile in capo
all’Amministrazione anche prima e a prescindere
dall’adozione del provvedimento di aggiudicazione
definitiva;
b) tale responsabilità sia configurabile senza
che possa riconoscersi rilevanza alla circostanza che la
scorrettezza maturi anteriormente alla pubblicazione del
bando oppure intervenga nel corso della procedura di gara.
La contraria tesi, verso cui propende l’ordinanza di
rimessione (e la giurisprudenza in essa richiamata), muove
dalla premessa teorica che il dovere di correttezza e di
buona fede trovi il suo presupposto in una “trattativa”
già in stato avanzato, tale da far sorgere un ragionevole
affidamento nella conclusione del contratto (la c.d. “trattativa
affidante”).
In questa prospettiva, invero, si giustifica la conclusione
secondo cui, nelle procedure ad evidenza pubblica, è
soltanto l’aggiudicazione (definitiva) il momento a partire
dal quale il partecipante alla gara può fare un ragionevole
affidamento sulla conclusione del contratto e, dunque, può
dolersi del “recesso” ingiustificato dalle trattative
che la stazione appaltante abbia posto in essere attraverso
l’esercizio dei poteri di autotutela pubblicistici sugli
atti di gara.
Tale premessa teorica sembra, in effetti, trovare un
supporto nella formulazione testuale dell’art. 1337 cod.
civ., che pone il dovere di correttezza in capo alle “parti”
della “trattativa” e del “procedimento di formazione del
contratto”, a maggior ragione se tale norma viene letta
alla luce dell’intenzione del legislatore storico, quale
emergente dalla Relazione al Codice civile (paragrafo n.
612). Nell’intenzione originaria dei compilatori del codice
civile del 1942, l’art. 1337 cod. civ. rappresentava
un’espressione tipica della c.d. solidarietà corporativa,
vale a dire di quel tipo di solidarietà che, come
esplicitato nel citato paragrafo delle relazione
illustrativa, unisce tutti i fattori di produzione verso la
realizzazione della massima produzione nazionale.
Ad avviso dell’Adunanza plenaria, l’attuale portata del
dovere di correttezza è oggi tale da prescindere
dall’esistenza di una formale “trattativa” e, a
maggior ragione, dall’ulteriore requisito che tale
trattativa abbia raggiunto un livello così avanzato da
generare una fondata aspettativa in ordine alla conclusione
del contratto.
Ciò che il dovere di correttezza mira a tutelare non è,
infatti, la conclusione del contratto, ma la libertà di
autodeterminazione negoziale: tant’è che, secondo un
consolidato orientamento giurisprudenziale, il relativo
danno risarcibile non è mai commisurato alle utilità che
sarebbero derivate dal contratto sfumato, ma al c.d.
interesse negativo (l’interesse appunto a non subire
indebite interferenze nell’esercizio della libertà
negoziale) o, eventualmente, in casi particolari, al c.d.
interesse positivo virtuale (la differenza tra l’utilità
economica ricavabile dal contratto effettivamente concluso e
il diverso più e più vantaggioso contratto che sarebbe stato
concluso in assenza dell’altrui scorrettezza).
Il progressivo ampliamento del dovere di correttezza (anche
a prescindere dall’esistenza di una trattativa
precontrattuale in senso stretto) ha trovato riscontro anche
rispetto all’attività autoritativa della Pubblica
amministrazione sottoposta al regime del procedimento
amministrativo, quando a dolersi della scorrettezza è
proprio il privato che partecipa al procedimento.
La giurisprudenza, sia civile che amministrativa, ha,
infatti, in più occasioni affermato che anche nello
svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è
tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto
pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità
del provvedimento e l’eventuale responsabilità da
provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma
anche le norme generali dell’ordinamento civile che
impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione
delle quali può far nascere una responsabilità da
comportamento scorretto, che incide non sull’interesse
legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi
liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di
compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze
illegittime frutto dell’altrui scorrettezza (Cons.
St., sez. VI, 06.02.2013, n. 633; id.,
sez. IV, 06.03.2015, n. 1142; id.,
A.P., 05.09.2005, n. 6).
Di qui la possibilità che una responsabilità da
comportamento scorretto sussista nonostante la legittimità
del provvedimento amministrativo che conclude il
procedimento.
In tale contesto va richiamata anche la recente sentenza
della
sez. VI, 06.03.2018, n. 1457, che ha
espressamente evocato un modello di pubblica
amministrazione, come si è andato evolvendo nel diritto
vivente, permeato dai principi di correttezza e buona
amministrazione, desumibili dall’art. 97 Cost..
Da quanto sopra evidenziato emerge, quindi, che i doveri di
correttezza, lealtà e buona fede hanno un ampio campo
applicativo, anche rispetto all’attività procedimentalizzata
dell’amministrazione, operando pure nei procedimenti non
finalizzati alla conclusione di un contratto con un privato.
In tale contesto, pertanto, risulterebbe eccessivamente
restrittiva e, per molti versi contraddittoria, la tesi
secondo cui, nell’ambito dei procedimenti di evidenza
pubblica, i doveri di correttezza (e la conseguente
responsabilità precontrattuale dell’amministrazione in caso
di loro violazione) nascono solo dopo l’adozione del
provvedimento di aggiudicazione.
Aderendo a tale impostazione, si finirebbero, infatti, per
creare a favore del soggetto pubblico “zone franche”
di responsabilità, introducendo in via pretoria un regime “speciale”
e “privilegiato”, che si porrebbe in significativo
contrasto con i principi generali dell’ordinamento civile e
con la chiara tendenza al progressivo ampliamento dei doveri
di correttezza emergente dal percorso giurisprudenziale e
normativo di cui si è dato atto.
La limitazione, prospettata (in via subordinata)
dall’ordinanza di rimessione, della responsabilità
dell’amministrazione ai soli comportamenti anteriori al
bando è volta ad introdurre, aprioristicamente e in
astratto, limitazioni di responsabilità che non trovano
fondamento normativo e che contrastano con l’atipicità
(delle modalità di condotta) che caratterizza l’illecito
civile.
Ha ancora aggiunta l’Alto Consesso che l’illecito civile si
incentra sull’ingiusta lesione della situazione giuridica
soggettiva (o, in caso di responsabilità contrattuale,
sull’inadempimento dell’obbligazione), senza che assumano
rilievo le specifiche modalità comportamentali che hanno
determinato tale lesione (o l’inadempimento
dell’obbligazione). È, dunque, mutuando una qualificazione
penalistica, un illecito a forma libera e causalmente
orientato.
Deve, pertanto, ritenersi che la responsabilità
precontrattuale della Pubblica amministrazione possa
configurarsi anche prima dell’aggiudicazione e possa
derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma
anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti
contrario, all’esito di una verifica da condurre
necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri
di correttezza e buona fede.
Lo stesso affidamento incolpevole del privato, oltre ad
essere soltanto uno degli elementi della complessa
fattispecie che perfeziona l’illecito, deve, peraltro,
essere valutato tenendo conto di tutte le circostanze del
caso concreto e sempre considerando che nell’ambito del
procedimento amministrativo (a maggior ragione in quello di
evidenza pubblica cui partecipano operatori economici
qualificati), il dovere di correttezza è un dovere
reciproco, che grava, quindi, anche sul privato, a sua volta
gravato da oneri di diligenza e di leale collaborazione
verso l’Amministrazione.
Gli aspetti da considerare nel momento in cui si procede
all’applicazione di tali principi (e si verifica, quindi,
nel caso concreto, se effettivamente ricorrono gli elementi
costitutivi della fattispecie di responsabilità) sono
molteplici e non predeterminabili in astratto, perché
dipendono dalla innumerevoli variabili che possono, di volta
in volta, connotare la specifica situazione.
Solo a titolo esemplificativo, si può, tuttavia, evidenziare
la necessità di valutare con particolare attenzione in sede
applicativa i seguenti profili, che rappresentano
significativi sintomi in grado di condizionare il giudizio
sull’esistenza dei sopra richiamati presupposti della
responsabilità:
a) il tipo di procedimento di evidenza pubblica che viene in
rilievo (anche tenendo conto dei diversi margini di
discrezionalità di cui la stazione appaltante dispone a
seconda del criterio di aggiudicazione previsto dal bando);
b) lo stato di avanzamento del procedimento rispetto al momento in
cui interviene il ritiro degli atti di gara;
c) il fatto che il privato abbia partecipato al procedimento e
abbia, dunque, quanto meno presentato l’offerta (in assenza
della quale le perdite eventualmente subite saranno
difficilmente riconducibili, già sotto il profilo causale, a
comportamenti scorretti tenuti nell’ambito di un
procedimento al quale egli è rimasto estraneo);
d) la conoscenza o, comunque, la conoscibilità, secondo l’onere di
ordinaria diligenza richiamato anche dall’art. 1227, comma
2, cod. civ., da parte del privato dei vizi (di legittimità
o di merito) che hanno determinato l’esercizio del potere di
autotutela (anche tenendo conto del tradizionale principio
civilistico, secondo cui non può considerarsi incolpevole
l’affidamento che deriva dalla mancata conoscenza della
norma imperativa violata);
e) la c.d. affidabilità soggettiva del privato partecipante al
procedimento (ad esempio, non sarà irrilevante verificare se
avesse o meno i requisiti per partecipare alla gara di cui
lamenta la mancata conclusione o, a maggior ragione,
l’esistenza a suo carico di informative antimafia che
avrebbero comunque precluso l’aggiudicazione o l’esecuzione
del contratto) (Consiglio
di Stato, A.P.,
sentenza 04.05.2018 n. 5
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva e piani o programmi di
recupero - Tutela penale - Tutela sostanziale del corretto
assetto del territorio - Artt. 30 e 44, d.P.R. n. 380/2001.
La tutela penale si applica in astratto non solo ai piani di
lottizzazione in senso stretto, ma anche ai piani o
programmi di recupero, perché anche con tali piani può
essere realizzata una lottizzazione abusiva e gli artt.
artt. 30 e 44, comma 1, lettera e), del d.P.R. n. 380 del
2001 non escludono la loro applicabilità a particolari
categorie di atti, essendo finalizzati alla tutela
sostanziale del corretto assetto del territorio (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.05.2018 n. 18907 -
link a
www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Piano integrato di riqualificazione urbanistica,
edilizia e ambientale (PIRUEA) - Riqualificazione urbana e
ambientale - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Programmi integrati
comunali - Interesse pubblico del Comune - Edifici destinati
a uffici pubblici.
Quanto ai programmi integrati comunali, l'interesse pubblico
si definisce come interesse alla riqualificazione urbana e
ambientale, che deve essere caratterizzato dalla rilevante
valenza urbanistica ed edilizia e non come interesse del
Comune a conseguire un vantaggio sul piano finanziario.
Ed è, del resto, pacifico nel caso di specie che
l'intervento, per il quale sono stati utilizzati sia risorse
pubbliche che risorse private, abbia comunque natura
pubblicistica, perché nel suo ambito è stato costruito il
palazzo di giustizia, oltre ad altri edifici destinati a
uffici pubblici (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.05.2018 n. 18907 -
link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Concetto di "recupero di aree degradate" -
Utilizzazione funzionale al recupero di aree degradate -
Finalità della riqualificazione e dei programmi integrati -
Valutazioni amministrative - Fattispecie: utilizzazione area
agricola non degradata per recupero di aree degradate
limitrofe.
Il concetto di "recupero di aree degradate" deve
essere interpretato in senso ampio, consentendo di
ricomprendervi anche aree che oggettivamente non siano
degradate, a condizione che la loro utilizzazione sia
funzionale al recupero delle aree effettivamente degradate
(nella specie, area agricola, non degradata, destinata alla
costruzione di parcheggi pubblici asserviti ad un area,
limitrofa degradata e ritenuta ricompresa nelle finalità di
riqualificazione).
Pertanto, la finalità dei programmi integrati è quella
dell'effettivo recupero degli immobili fatiscenti e della
riqualificazione urbana di aree degradate e il loro
contenuto deve essere valutato nel suo complesso con
riferimento a tale finalità; cosicché sono consentiti
interventi in zone di espansione, se necessari per
assicurare l'unitarietà e la funzionalità
dell'urbanizzazione di un territorio (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 03.05.2018 n. 18907 -
link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Occorre distinguere il concetto di pertinenza
previsto dal diritto civile dal più ristretto concetto di
pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova
applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur
potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo
la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione
autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro
assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche
dell’intervento abusivo realizzato dalla ricorrente
risultanti dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il
predetto intervento -non essendo coessenziale ad un bene
principale e potendo essere successivamente utilizzato anche
in modo autonomo e separato- non può ritenersi pertinenza ai
fini urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia
sottoposto al preventivo rilascio del permesso di costruire.
---------------
Infine, risulta infondata la censura incentrata sulla natura pertinenziale
delle opere abusive in questione.
Infatti secondo una
consolidata giurisprudenza (ex multis TAR Lombardia
Milano, Sez. II, 11.02.2005, n. 365; TAR Lazio,
Sez. II, 04.02.2005, n. 1036) occorre distinguere il
concetto di pertinenza previsto dal diritto civile dal più
ristretto concetto di pertinenza inteso in senso
urbanistico, che non trova applicazione in relazione a
quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come
beni pertinenziali secondo la normativa privatistica,
assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra
costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime
del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto
delle caratteristiche dell’intervento abusivo realizzato
dalla ricorrente risultanti dalla motivazione dell’ordine di
demolizione, il predetto intervento -non essendo
coessenziale ad un bene principale e potendo essere
successivamente utilizzato anche in modo autonomo e separato- non può ritenersi pertinenza ai fini urbanistici, sì da
escludere che lo stesso sia sottoposto al preventivo
rilascio del permesso di costruire (TAR Campania-Napoli,
Sez. VII,
sentenza 03.05.2018 n. 2968 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla Corte di giustizia UE l’esame dei presupposti per
l’esclusione dell’operatore in caso di grave illecito
professionale.
Il Consiglio di Stato rimette alla Corte di giustizia UE la
questione della compatibilità, con il diritto dell’Unione
europea, della normativa interna sulle cause di esclusione
del concorrente dalla partecipazione a una procedura di
gara, in caso di grave illecito professionale che abbia
causato la risoluzione anticipata di un contratto di
appalto, nella parte in cui richiede che l’operatore possa
essere escluso solo se la risoluzione non sia contestata
giudizialmente o sia confermata all’esito di un giudizio.
---------------
Contratti pubblici – Gara – Grave illecito professionale
– Risoluzione anticipata del contratto di appalto –
Esclusione dell’operatore solo in caso di non contestazione
o conferma in sede giudiziale della risoluzione – Rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia UE
Deve essere rimessa alla Corte di
giustizia dell’Unione europea la questione pregiudiziale se
il diritto dell’Unione Europea e, precisamente, l’art. 57
par. 4 della Direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici,
unitamente al Considerando 101 della medesima Direttiva e al
principio di proporzionalità e di parità di trattamento
ostano ad una normativa nazionale, quale l’art. 80, comma 5,
lett. c), d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, che, definita quale
causa di esclusione obbligatoria di un operatore economico
il “grave illecito professionale”, stabilisce che, nel caso
in cui l’illecito professionale abbia causato la risoluzione
anticipata di un contratto d’appalto, l’operatore può essere
escluso solo se la risoluzione non è contestata o è
confermata all’esito di un giudizio (1).
---------------
(1) I. - Con l’ordinanza in rassegna la Quinta Sezione del
Consiglio di Stato rimette alla Corte di Giustizia UE la
questione pregiudiziale della compatibilità della normativa
interna in tema di esclusione obbligatoria dell’operatore
economico dalla procedura di gara in caso di grave illecito
professionale dell’operatore economico che abbia causato la
risoluzione anticipata di un contratto di appalto.
In
particolare, il Collegio dubita della compatibilità con il
diritto dell’Unione dell’interpretazione dell’art. 80, comma
5, lett. c), del d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui
richiede che l’esclusione dell’operatore economico possa
essere disposta solo nel caso in cui le significative
carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di
appalto o di concessione, che ne abbiano causato la
risoluzione anticipata, siano non contestate in giudizio o
confermate all’esito di un procedimento giudiziario.
II. - Nel caso esaminato dalla pronuncia in commento,
l’operatore economico era stato escluso dalla procedura di
gara, tra l’altro, sulla base di un provvedimento
amministrativo di risoluzione di un precedente contratto, i
cui presupposti erano, però, oggetto di contenzioso dinanzi
al giudice ordinario.
In primo grado, il Tar per la Regione Lombardia (sezione
staccata di Brescia, sez. II, sentenza 17.10.2017, n.
1246), pur ritenendo che l’esclusione dell’operatore per
grave illecito professionale richiedesse la mancanza di
contestazione giudiziale o la conferma all’esito di un
giudizio della sussistenza delle significative carenze di un
precedente contratto di appalto o di concessione, aveva
respinto il ricorso proposto dall’operatore in quanto il
provvedimento espulsivo era fondato anche su una diversa
ragione rappresentata dalla commissione di gravi violazioni
delle disposizioni poste a tutela della salute e sicurezza
del lavoro e dell’ambiente.
III. – Il Collegio, nel ritenere che con i motivi di appello
proposti sono state prospettate critiche ragionevoli alla
sentenza di prima grado, in quanto i comportamenti
addebitati al ricorrente quali violazioni delle disposizioni
poste a tutela della salute e sicurezza del lavoro e
dell’ambiente altro non sono che inadempimenti contrattuali
per i quali vi è stata contestazione dinanzi all’autorità
giudiziaria, osserva che:
a) la definizione della controversia richiede di valutare se
la stazione appaltante ha il potere di escludere un
operatore economico se la risoluzione è stata oggetto di
contestazione in giudizio e prima che il giudizio sia
definito;
b) l’art. 80, comma 5, lett. c), del d.lgs. n. 50 del 2016,
come interpretato dalla giurisprudenza amministrativa
prevalente, consente l’esclusione dell’operatore solo nel
caso in cui non vi sia stata contestazione giudiziale
dell’inadempimento ovvero le gravi carenze nell’esecuzione
di un precedente contratto siano state oggetto di un
accertamento dell’autorità giudiziaria;
c) il diritto europeo (art. 57, par. 4, della Direttiva
2014/24/UE e Considerando n. 101 della medesima direttiva)
consente l’esclusione dell’operatore economico se la
stazione appaltante è in condizione di dimostrare la
sussistenza di un grave illecito professionale, anche prima
che sia adottata una decisione definitiva e vincolante sulla
presenza di motivi di esclusione obbligatoria e, quindi, a
prescindere dall’eventuale contestazione giudiziale del
fatto;
d) la scelta di subordinare l’azione amministrativa agli
esiti del giudizio è astrattamente possibile, ma è
incompatibile con i tempi dell’azione amministrativa, in
quanto:
d1) risolto il contratto per grave inadempimento
dell’operatore economico, l’amministrazione dovrà indire una
nuova procedura di gara per concludere un nuovo contratto;
d2) all’operatore economico inadempiente sarà sufficiente
contestare in giudizio la risoluzione per ottenere
l’ingresso nella nuova procedura, dovendo l’amministrazione
attendere l’esito del giudizio per poter procedere
legittimamente alla sua esclusione;
d3) l’amministrazione non può assumere autonomamente la
decisione di escludere un operatore, dovendo attendere
l’esito del giudizio;
e) l’orientamento prevalente rende lo strumento non adeguato
allo scopo di alleggerire l’onere probatorio a carico
dell’amministrazione attraverso l’elencazione di casi in cui
è possibile escludere l’operatore economico, in quanto
l’azione amministrativa è arrestata dall’instaurazione di un
altro giudizio in cui è contestato il grave illecito
professionale;
f) sarebbe sufficiente imporre all’amministrazione di
fornire adeguata motivazione dell’esclusione dell’operatore,
lasciando al giudice amministrativo di sindacare la
ragionevolezza;
g) la norma interna fa dipendere dalla scelta dell’operatore
economico, di impugnare o meno la risoluzione in sede
giurisdizionale, la decisione dell’amministrazione
sull’esclusione del concorrente, in contrasto con i principi
europei di proporzionalità e di parità di trattamento.
IV. – Per completezza si segnala quanto segue:
h) per un diverso approccio sul medesimo tema si veda Cons.
giust. amm. reg. sic., 30.04.2018, n. 252, secondo cui,
anche in presenza di una risoluzione per inadempimento che
si trovi sub iudice, la stazione appaltante può applicare
ugualmente la causa di esclusione prevista dall’art. 80,
comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2018, n. 50,
valorizzando la clausola normativa di chiusura sulla
possibilità di dimostrare comunque “con mezzi adeguati che
l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità”, con la precisazione, tuttavia, che è
necessario che la stazione appaltante dimostri con elementi
probatori e motivi adeguatamente l’effettività, la gravità e
l’inescusabilità degli inadempimenti dell’impresa;
i) secondo Cons. Stato, sez. V, 02.03.2018, n. 1299,
l’elencazione dei gravi illeciti professionali, contenuta
nella lettera c), del quinto comma dell’art. 80, ha
carattere solo esemplificativo, con la conseguenza che la
stazione appaltante può escludere un operatore economico
anche per gravi inadempienze non riconducibili a quelle
tipizzate che siano qualificabili come gravi illeciti
professionali, purché l’amministrazione fornisca una
motivazione adeguata e la dimostrazione della sussistenza e
della gravità dell’illecito professionale contestato con
mezzi adeguati;
j) il
Tar per la Campania, sez. IV, ordinanza, 13.12.2017, n. 5893 (oggetto della
News Us, in data 19.12.2017, cui si rinvia per ulteriori approfondimenti
giurisprudenziali e dottrinali), ha rimesso alla Corte di
Giustizia dell’Unione europea la questione pregiudiziale “se
i principi comunitari di tutela del legittimo affidamento e
di certezza del diritto, di cui al Trattato sul
Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), ed i principi che
ne derivano, come la parità di trattamento, la non
discriminazione, la proporzionalità e la effettività, di cui
alla direttiva n. 2014/24/UE, nonché la disposizione di cui
all’art. 57, comma 4, lettere c) e g), di detta Direttiva,
ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale
quella italiana derivante dall’art. 80, comma 5, lettera c)
del D.Lg.vo n. 50/2016, secondo la quale la contestazione
in giudizio di significative carenze evidenziate
nell’esecuzione di un pregresso appalto, che hanno condotto
alla risoluzione anticipata di un precedente contratto di
appalto, preclude ogni valutazione alla stazione appaltante
circa l’affidabilità del concorrente, sino alla definitiva
statuizione del giudizio civile, e senza che la ditta abbia
dimostrato la adozione delle misure di self cleaning volte a
porre rimedio alle violazioni e ad evitare la loro
reiterazione”;
k) secondo
Corte di giustizia dell’UE, sez. IV, 14.12.2016 causa C-171/15, Taxi Services BV (in Foro amm., 2016,
2890, nonché oggetto della
News US in data
09.01.2017,
ai cui approfondimenti si rinvia; idem, sez. X, 18.12.2014, causa C-470/13, in Foro amm., 2014, 3034; idem, sez.
III, 13.12.2012, causa C-465/11, in Dir. pubbl.
comparato ed europeo, 2013, 713, con nota di PASSARELLI, in
Foro amm. -Cons. Stato, 2012, 3085, in Dir. comunitario
scambi internaz., 2013, 147 e in Giurisdiz. amm., 2012, III,
1055), “il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo
45, paragrafo 2, della direttiva 2004/18/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al
coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, non
osta a che una normativa nazionale obblighi
un’amministrazione aggiudicatrice a valutare, applicando il
principio di proporzionalità, se debba essere effettivamente
escluso un offerente in una gara d’appalto pubblico che ha
commesso un grave errore nell’esercizio della propria
attività professionale. Le disposizioni della direttiva
2004/18, in particolare quelle dell’articolo 2 e
dell’allegato VII A, punto 17, della medesima, interpretate
alla luce del principio della parità di trattamento, nonché
dell’obbligo di trasparenza che ne deriva, devono essere
interpretate nel senso che ostano a che un’amministrazione
aggiudicatrice decida di attribuire un appalto pubblico ad
un offerente che ha commesso un grave errore professionale,
per il fatto che l’esclusione di tale offerente dalla
procedura di gara sarebbe stata contraria al principio di
proporzionalità, mentre, secondo le condizioni della gara
d’appalto in questione, un offerente che avesse commesso un
grave errore professionale avrebbe dovuto necessariamente
essere escluso, senza tener conto del carattere
proporzionato o meno di tale sanzione”;
l) l’orientamento prevalente della giurisprudenza
amministrativa tende a negare la possibilità per la stazione
appaltante di escludere dalla gara l’operatore economico
quando non ricorra una delle ipotesi esemplificate nella
seconda parte dell’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50
del 2016.
In particolare, si è ritenuto che, quando, in
relazione alle gravi carenze nell’esecuzione di un
precedente contratto, con la stessa o con altra stazione
appaltante, non si siano prodotti gli effetti giuridici
della risoluzione anticipata “definitiva” (perché non
contestata ovvero confermata in giudizio) o
dell’applicazione di sanzioni (penali, risarcimento,
incameramento della garanzia), è preclusa
all’amministrazione ogni possibilità di valutazione
sull’affidabilità del concorrente.
In questo senso: Cons.
Stato, sez. V, 27.04.2017 n. 1955, in Guida al dir.,
2017, 21, 94, con nota di PONTE; Tar per la Campania–Napoli, sez. V, 12.10.2017, n. 4781; Tar per la
Sicilia, sez. II, 03.11.2017, n. 2511; Tar per la
Puglia, sez. III, 18.07.2017, n. 828; Tar per la
Puglia, sez. I, 30.12.2016, n. 1480; Tar per la
Puglia, sezione staccata di Lecce, sez. III, 22.12.2016, n. 1935; Tar per la Calabria, sez. I, 19.12.2016, n. 2522;
m) in dottrina si veda R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti
pubblici, Bologna, 2017, 854 ss., anche per una ampia
analisi della pregressa disciplina, delle linee guida dell’Anac
e della conformità della nuova disciplina nazionale a quella
europea;
n) l’art. 80, comma 13, d.lgs. n. 50 del 2016, prevede che
l’Anac, con proprie linee guida, “può precisare, al fine di
garantire omogeneità di prassi da parte delle stazioni
appaltanti, quali mezzi di prova considerare adeguati per la
dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui al
comma 5, lettera c), ovvero quali carenze nell'esecuzione di
un procedente contratto di appalto siano significative ai
fini del medesimo comma 5, lettera c)”.
In attuazione di
tale disposizione normativa con Delibera n. 1293 del 16.11.2016, l’Anac ha adottato la delibera n. 6, poi
modificata con successiva determinazione n. 1008 del 11.10.2017.
Sul tema, con specifico riferimento
all’aggiornamento da parte Anac delle Linee guida n. 6,
all’esito del primo correttivo al codice (d.lgs. n. 56 del
2017) si vedano L. MAZZEO e L. DE PAULI, Le linee guida
dell’ANAC in tema di gravi illeciti professionali, in
Urbanistica e appalti, 2018, 155 (Consiglio
di Stato, Sez. V,
ordinanza 03.05.2018 n. 2639
- commento tratto da e link a
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APPALTI:
Alla Corte di giustizia Ue l’esclusione dalla gara per grave
illecito professionale.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Grave illecito professionale – Art. 80, comma
5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2018 – Conseguente risoluzione
anticipata di un contratto d’appalto – Esclusione solo se la
risoluzione non è contestata o è confermata all’esito di un
giudizio – Compatibilità con la disciplina comunitaria –
Rimessione alla Corte di giustizia Ue.
Deve essere rimessa alla Corte di
giustizia Ue la questione se il diritto dell’Unione europea
e, precisamente, l’art. 57 par. 4 della Direttiva 2014/24/UE
sugli appalti pubblici, unitamente al Considerando 101 della
medesima Direttiva e al principio di proporzionalità e di
parità di trattamento ostano ad una normativa nazionale,
quale l’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2018, n.
50, che, definita quale causa di esclusione obbligatoria di
un operatore economico il “grave illecito professionale”,
stabilisce che, nel caso in cui l’illecito professionale
abbia causato la risoluzione anticipata di un contratto
d’appalto, l’operatore può essere escluso solo se la
risoluzione non è contestata o è confermata all’esito di un
giudizio (1).
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(1)
Ha chiarito la Sezione che tra l’art. 80, comma 5, lett. c),
d.lgs. 18.04.2018, n. 50 e la norma euro-unitaria non vi è
omogeneità.
L’art. 57, par. 4 della Direttiva 2014/24/UE stabilisce che
le amministrazioni appaltanti possono escludere gli
operatori economici “se l'amministrazione aggiudicatrice
può dimostrare con mezzi adeguati che l'operatore economico
si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, il che
rende dubbia la sua integrità”.
Tale disposizione deve essere letta contestualmente
all’indicazione contenuta nel Considerando 101 della
Direttiva: “È opportuno chiarire che una grave violazione
dei doveri professionali può mettere in discussione
l'integrità di un operatore economico e dunque rendere
quest'ultimo inidoneo ad ottenere l'aggiudicazione di un
appalto pubblico indipendentemente dal fatto che abbia per
il resto la capacità tecnica ed economica per l'esecuzione
dell'appalto. Tenendo presente che l'amministrazione
aggiudicatrice sarà responsabile per le conseguenze di una
sua eventuale decisione erronea, le amministrazioni
aggiudicatrici dovrebbero anche mantenere la facoltà di
ritenere che vi sia stata grave violazione dei doveri
professionali qualora, prima che sia stata presa una
decisione definitiva e vincolante sulla presenza di motivi
di esclusione obbligatori, possano dimostrare con qualsiasi
mezzo idoneo che l'operatore economico ha violato i suoi
obblighi, inclusi quelli relativi al pagamento di imposte o
contributi previdenziali, salvo disposizioni contrarie del
diritto nazionale.”.
Dalla lettura della disposizione risulta chiaro che il
legislatore europeo ha ritenuto di consentire l’esclusione
dell’operatore economico se la stazione appaltante è in
condizione di dimostrare la sussistenza di un grave illecito
professionale “anche prima che sia adottata una decisione
definitiva e vincolante sulla presenza di motivi di
esclusione obbligatori”.
In questo senso, del resto, ben si comprende il richiamo
alla responsabilità dell’amministrazione per una sua
eventuale decisione erronea.
18.4. Il legislatore interno, al contrario, ha stabilito che
l’errore professionale, passibile di risoluzione anticipata
(per definizione “grave” ex art. 1455 c.c. nonché ex
art. 108, comma 3, d.lgs. 18.04.2016, n. 50) non comporta
l’esclusione dell’operatore in caso di contestazione in
giudizio. La conseguenza è la necessaria subordinazione
dell’azione amministrativa agli esiti del giudizio; ciò è
astrattamente possibile, essendo comprensibile che la scelta
dell’amministrazione sia vincolata agli esiti di un
giudizio, ma è incompatibile con i tempi dell’azione
amministrativa.
Ciò in quanto, risolto il contratto per grave inadempimento
dell’operatore economico, l’amministrazione dovrà indire una
nuova procedura di gara per concludere un nuovo contratto;
all’operatore economico inadempiente sarà sufficiente
contestare in giudizio la risoluzione per ottenere
l’ingresso nella nuova procedura, dovendo l’amministrazione
attendere l’esito del giudizio per poter procedere
legittimamente alla sua esclusione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
ordinanza 03.05.2018 n. 2639 -
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo del riposo e
delle occupazioni - Configurabilità dell'illecito
amministrativo e/o dell'illecito penale - Abuso ripetuto di
strumenti sonori all'interno e all'esterno di un locale con
relativo disturbo del riposo e delle occupazioni delle
persone - Giurisprudenza - Art. 10 l. 26/10/1995 n. 447 e
art. 659 cod. pen..
La configurabilità dell'illecito amministrativo di cui
all'art. 10 L. 26.10.1995 n. 447, alla luce della
autorizzazione amministrativa rilasciatagli a diffondere
musica all'esterno di un locale, va esclusa quando vi è il
superamento delle normali modalità di esercizio (in specie,
sistematica e prolungata propagazione di musica a volume
elevato dall'impianto di amplificazione installato
all'esterno del locale) e la conseguente configurabilità del
reato di cui al primo comma dell'art. 659 cod. pen., in caso
di idoneità a disturbare un numero indeterminato di persone
(Cass. Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffré; conf. Sez.
3, n. 8351 del 24/06/2014, dep. 25/02/2015, Calvarese) (Corte
d Cassazione, Sez. III penale, sentenza III penale,
sentenza 02.05.2018 n. 18522
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APPALTI:
Esclusione per grave illecito professionale in caso di
risoluzioni e penali contrattuali sub iudice.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Risoluzione per inadempimento sub iudice –
Possibilità di escludere il concorrente dalla gara –
Condizione.
Anche in presenza di una risoluzione
per inadempimento che si trovi sub iudice, alla Stazione
appaltante non è precluso applicare ugualmente la causa di
esclusione ex art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2018,
n. 50, valorizzando la clausola normativa di chiusura sulla
possibilità di dimostrare comunque “con mezzi adeguati che
l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità”; è però necessario che la stazione appaltante
dimostri con elementi probatori e motivi adeguatamente,
l’effettività, gravità e inescusabilità degli inadempimenti
dell’impresa (1).
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(1)
La questione attiene all’interpretazione della lett. c) del
comma 5 dell’art. 80, d.lgs. 18.04.2018, n. 50, che per
quanto qui rileva stabilisce: “Le stazioni appaltanti
escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto un
operatore economico in una delle seguenti situazioni …
qualora: … c) la stazione appaltante dimostri con mezzi
adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di
gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua
integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le
significative carenze nell'esecuzione di un precedente
contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato
la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio,
ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno
dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad
altre sanzioni…”.
La norma in questione, la cui elencazione è meramente
esemplificativa, consente l’esclusione, invero, al di là
delle tipizzazioni che pur ne costituiscono il nucleo (al
cospetto delle quali opera un meccanismo di tipo
presuntivo), anche in tutti i casi in cui “la stazione
appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore
economico si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità.”
Ne consegue che a un’impresa non basta aver contestato in
giudizio la risoluzione contrattuale subìta per porsi
completamente al riparo, per tutta la durata –per giunta,
prevedibilmente cospicua- del processo, dal rischio di
esclusioni da gare d’appalto indotte dalla relativa vicenda
risolutoria.
Anche in presenza di una risoluzione per inadempimento che
si trovi sub iudice, infatti, alla Stazione
appaltante non è precluso applicare ugualmente la causa di
esclusione in discussione, valorizzando la clausola
normativa di chiusura sulla possibilità di dimostrare
comunque “con mezzi adeguati che l'operatore economico si
è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da
rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”.
All’uopo occorre, però, che essa sia appunto in grado di far
constare con i necessari supporti probatori, e con
motivazione adeguata, la effettività, gravità e
inescusabilità degli inadempimenti dell’impresa, e perciò,
correlativamente, la mera pretestuosità delle contestazioni
da questa sollevate in giudizio avverso la misura
risolutoria, oltre che, naturalmente, la dubbia “integrità
o affidabilità” del medesimo operatore.
Su una lunghezza d’onda simile, del resto, il
Cons. St., sez. V, con la sentenza 02.03.2018, n. 1299
ha già osservato che il pregresso inadempimento, anche se
non abbia prodotto gli effetti risolutivi, risarcitori o
sanzionatori tipizzati dal legislatore, può rilevare
comunque a fini escludenti qualora assurga al rango di “grave
illecito professionale”, tale da rendere dubbia
l'integrità e l'affidabilità dell'operatore economico, e
deve pertanto ritenersi rimessa alla discrezionalità della
Stazione appaltante la valutazione della portata di “pregressi
inadempimenti che non abbiano (o non abbiano ancora)
prodotto” simili effetti specifici, fermo restando che
in tale eventualità i correlativi oneri di prova e
motivazione incombenti sull’Amministrazione sono ben più
rigorosi e impegnativi rispetto a quelli operanti in
presenza delle particolari ipotesi esemplificate dal testo
di legge (CGARS,
sentenza 30.04.2018 n. 252
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APPALTI:
Gravi illeciti professionali – Risoluzione
contrattuale sub iudice – Stazione appaltante – Possibilità
di applicare la causa di esclusione di cui all’art. 80 del
d.lgs. n. 50/2016 – Supporti probatori – Motivazione.
L’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016, la cui elencazione dei
gravi illeciti professionali è meramente esemplificativa,
consente l’esclusione, al di là delle tipizzazioni che pur
ne costituiscono il nucleo (al cospetto delle quali opera un
meccanismo di tipo presuntivo), anche in tutti i casi in cui
“la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che
l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità.”
Ne consegue che a un’impresa non basta aver contestato in
giudizio la risoluzione contrattuale subìta per porsi
completamente al riparo, per tutta la durata del processo,
dal rischio di esclusioni da gare d’appalto indotte dalla
relativa vicenda risolutoria. Anche in presenza di una
risoluzione per inadempimento che si trovi sub iudice,
infatti, alla Stazione appaltante non è precluso applicare
ugualmente la causa di esclusione di cui al menzionato art.
80, valorizzando la clausola normativa di chiusura sulla
possibilità di dimostrare comunque “con mezzi adeguati
che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi
illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua
integrità o affidabilità”.
All’uopo occorre, però, che essa sia appunto in grado di far
constare con i necessari supporti probatori, e con
motivazione adeguata, la effettività, gravità e
inescusabilità degli inadempimenti dell’impresa, e perciò,
correlativamente, la mera pretestuosità delle contestazioni
da questa sollevate in giudizio avverso la misura
risolutoria, oltre che, naturalmente, la dubbia “integrità
o affidabilità” del medesimo operatore (CGARS,
sentenza 30.04.2018 n. 252 -
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ESPROPRIAZIONE:
Giurisdizione Ago nella controversia risarcitoria proposta
per i danni subiti dai lavori eseguiti in dipendenza del
provvedimento di espropriazione.
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Giurisdizione – Risarcimento danni – Espropriazione per
pubblica utilità – Danni conseguenti a lavori eseguiti in
dipendenza del provvedimento di espropriazione –
Giurisdizione del giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la
richiesta di risarcimento del danno asseritamente causato da
lavori di messa in sicurezza di una strada statale, eseguiti
in dipendenza di un provvedimento di espropriazione, ove si
tratti di conseguenze dannose di meri comportamenti (1).
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(1)
Ha chiarito il Tar che i danni asseritamente patiti sono
connesse a condotte pratiche ovvero di comportamenti
meramente materiali non riconducibili neppure mediatamente
all’esercizio del potere amministrativo e, quindi,
insuscettibili di radicare la giurisdizione, anche in sede
esclusiva, del giudice amministrativo ai sensi dell’art.
133, comma 1 lett. g), c.p.a., atteso che tale norma, in
coerenza con quanto prescritto dall’art. 7 c.p.a., pretende
l’inerenza della domanda giudiziale all’esercizio del potere
pubblico, e solo a tale condizione riconduce la controversia
alla giurisdizione amministrativa.
Richiamando un costante orientamento delle Sezioni unite
della Corte di cassazione (n. 25978 del 2016; n. 11292 del
2015; n. 13568 del 2015), il Tar ha ricordato che il
contenzioso involgente i comportamenti della pubblica
amministrazione e le relative implicazioni risarcitorie è
sottratto all’ambito cognitorio del giudice amministrativo,
cui “sono attribuite le domande di risarcimento del danno
che si ponga in rapporto di causalità diretta con
l’illegittimo esercizio (o con il mancato esercizio) del
potere pubblico, mentre resta riservato al giudice ordinario
soltanto il risarcimento del danno provocato da
comportamenti della p.a. che non trovano rispondenza nel
precedente esercizio di quel potere”
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 30.04.2018 n. 93
- commento tratto da e link a
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La questione è fondata, alla luce della corretta
individuazione del petitum sostanziale, da definirsi
come la domanda posta al giudice in relazione ai motivi del
ricorso.
Nella fattispecie in esame, tale domanda si identifica
sostanzialmente nel risarcimento del danno che il ricorrente
pretende gli sia derivato per effetto non della
determinazione dirigenziale n. 343/2017 che autorizza
l’esecuzione del piano di espropriazione, della quale assume
l’illegittimità senza chiederne l’annullamento, ma della
progettazione e della asseritamente inappropriata esecuzione
dei lavori per la messa in sicurezza della strada, disposti
con la determinazione dirigenziale n. 131/2014 di
approvazione della perizia dei lavori, ovvero dei risalenti
lavori, eseguiti nel 2008, di collegamento tra la S. P. 71 e
la S. P. 83, lavori che già avevano determinato una prima
espropriazione di superfici di proprietà dell’interessato.
Dette opere, secondo la prospettazione del ricorrente,
avrebbero determinato come conseguenza causale l’insorgenza
di una frana sui terreni posti a valle della strada
ricadenti nella p.f. 1221/1 di sua proprietà, e la
conseguente necessità di ulteriori interventi su tale
versante sottostrada.
Si tratta, dunque, di condotte pratiche ovvero di
comportamenti meramente materiali non riconducibili neppure
mediatamente all’esercizio del potere amministrativo e,
quindi, insuscettibili di radicare la giurisdizione, anche
in sede esclusiva, del giudice amministrativo ai sensi
dell’art. 133, comma 1, lett. g), cod. proc. amm., atteso
che tale norma, in coerenza con quanto prescritto dall’art.
7 cod. proc. amm., pretende l’inerenza della domanda
giudiziale all’esercizio del potere pubblico, e solo a tale
condizione riconduce la controversia alla giurisdizione
amministrativa.
Altrimenti,
il contenzioso involgente i
comportamenti della pubblica amministrazione e le relative
implicazioni risarcitorie, come costantemente ribadito dal
giudice del riparto della giurisdizione, è sottratto
all’ambito cognitorio del giudice amministrativo, cui “sono
attribuite le domande di risarcimento del danno che si ponga
in rapporto di causalità diretta con l’illegittimo esercizio
(o con il mancato esercizio) del potere pubblico, mentre
resta riservato al giudice ordinario soltanto il
risarcimento del danno provocato da <comportamenti> della
p.a. che non trovano rispondenza nel precedente esercizio di
quel potere”
(Cass., S.U. n. 25978 del 2016; Cass., S.U. n. 11292 del
2015; Cass., S.U. n. 13568 del 2015; TAR Lazio, sez.
I-quater, n. 3854/2017).
Ne consegue che, avendo ad oggetto le
conseguenze dannose di meri comportamenti, lo scrutinio del
ricorso in esame fuoriesce dall’ambito della giurisdizione
amministrativa per appartenere a quella ordinaria,
nell’ambito della quale il giudice ben potrà, se del caso,
disapplicare atti amministrativi dei quali eventualmente
ritenga l’illegittimità, ove ritenuti rilevanti al fine
della decisione.
Ed è appena il caso di rilevare che, anche
nella parte in cui la domanda posta con il ricorso debba
intendersi come opposizione alla stima dell’indennità di
espropriazione, la cognizione su di essa appartiene alla
Corte d’appello, e quindi ancora una volta al giudice
ordinario, al quale viene devoluta l’intera portata
patrimoniale (risarcitoria-indennitaria) della vicenda.
In ragione di quanto precede questo Tribunale deve declinare
la propria giurisdizione a favore del giudice ordinario, cui
appartiene la cognizione della presente causa e davanti al
quale il giudizio potrà essere riassunto, restando salvi gli
effetti sostanziali e processuali della domanda formulata in
questa sede, ove la stessa sia riproposta entro il termine
perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato
dell’odierna sentenza. |
ENTI
LOCALI:
Nomina di commissari straordinari a società colpita da interdittiva antimafia.
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Anticorruzione – Commissari straordinari – Società
colpita da informativa antimafia – Art. 32, comma 10, d.l.
n. 90 del 2012 – Indicazione prefettizia di elementi
indiziari – Non occorre.
Per l’applicazione delle misure
straordinarie di cui al comma 10 dell’art. 32, d.l.
24.06.2014, n. 90, convertito con l. 11.08.2014, n.114, è
sufficiente l’adozione di un’informazione antimafia, nulla
dovendo aggiungere il Prefetto in punto di elementi
indiziari, mentre un’adeguata puntualità della motivazione è
attesa in corrispondenza della lata discrezionalità che la
legge riconosce dal punto di vista della concreta funzione
cautelare.
Carattere, quest’ultimo, che presenta connotazioni di
discrezionalità pura, in quanto incentrata sul
raggiungimento di obiettivi di interesse pubblico connessi
all’esecuzione del contratto che la norma ha avuto cura di
individuare con puntualità.
Corollario di tale considerazione, dal punto di vista del
sindacato giurisdizionale, è rappresentato dai ristretti
confini entro cui deve contenersi l’accertamento del Giudice
amministrativo, non estensibile oltre un apprezzamento che
riguardi la manifesta irrazionalità, sproporzione del errore
di fatto nell’adozione della misura (1).
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(1) Ha chiarito il Tar che i commi 1 e 10 dell’art. 32, d.l.
24.06.2014, n. 90, convertito con l. 11.08.2014, n. 114,
hanno introdotto due ipotesi di applicazione di misure
straordinarie per società oggetto di attività di indagine
giudiziaria per specifici delitti contro l’amministrazione
pubblica o colpite da interdittiva antimafia.
La prima fattispecie (comma 1) di applicazione di tali
misure straordinarie, muove dal duplice presupposto
dell’esistenza di attività di indagine giudiziaria per
specifici delitti contro l’amministrazione pubblica e
dell’accertamento di una situazione di anomalia o di
condotte illecite o eventi criminali, che impongono di
intervenire sulla gestione di un'impresa aggiudicataria di
un contratto pubblico di lavori, servizi o forniture; in tal
caso, l’iniziativa procedimentale è del Presidente dell’Anac
che, informatone il Procuratore della Repubblica, chiede al
Prefetto del luogo ove ha sede la stazione appaltante,
alternativamente, che sia imposta la rinnovazione degli
organi sociali o che egli provveda direttamente alla
gestione straordinaria e temporanea gestione dell'impresa
limitatamente alla completa esecuzione del contratto di
appalto; le due misure si pongono in relazione di
consecutività la prima rispetto alla seconda, quest’ultima
avente carattere di maggiore invasività, salvi casi di
particolare gravità.
L’altra fattispecie (comma 10), invece, presenta
connotazioni affatto peculiari nei presupposti applicativi,
in quanto assume a proprio fondamento l’adozione di
un’informazione antimafia e la sussistenza di ragioni di
urgenza connesse alla tutela di specifici interessi pubblici
da soddisfare attraverso l’esecuzione del contratto affidato
all’impresa colpita dalla misura interdittiva antimafia.
La differenza tra le due fattispecie è netta, al punto da
indurre l’interprete a preferire una soluzione
interpretativa che le collochi entrambe sul piano
equivalente della generalità, piuttosto che della
specialità.
In proposito, mentre la fattispecie di cui al comma 1 è
funzionale alla tutela di sole esigenze di trasparenza
amministrativa, in quanto l’istituto opera in compresenza di
accertamenti giudiziari per delitti contro la pubblica
amministrazione e di una situazione di forte antigiuridicità
nella conduzione dell’impresa, l’altra ipotesi si colloca
nell’area delle misure di prevenzione amministrativa
antimafia, supponendo, invece, l’adozione di un’informazione
interdittiva nei confronti del contraente e la tutela di
esigenze di pubblico interesse da assicurarsi con la
prosecuzione del rapporto contrattuale.
In tal senso, il disallineamento sistematico tra le due
fattispecie suggerisce di qualificare l’ipotesi di cui al
comma 10, più propriamente, come eccezionale rispetto
all’effetto interdittivo integrale dell’informazione
antimafia –di cui, tra l’altro, già esistono esempi nel
d.lgs. 06.09.2011 n. 159- assumendo pertanto, connotazioni
proprie ed autonome rispetto all’ipotesi descritta nel primo
comma del citato art. 32; tale autonomia è altresì
rintracciabile nel diverso meccanismo di attivazione
procedimentale, nel primo caso affidato al Presidente dell’Anac,
in qualità di affidatario del controllo sulla trasparenza e
sulla lotta alla corruzione, nel secondo rimesso
integralmente al Prefetto, quale titolare della competenza
statale a livello locale in materia di pubblica sicurezza.
Tratti comuni tra i due modelli restano l’identità delle
misure applicabili e la relazione intercorrente di
sussidiarietà, predicato dell’alternatività di cui alla
lettera della legge
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 27.04.2018 n. 2800
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APPALTI:
Durc dell’ausiliaria irregolare e risarcimento danni da
perdita di chance per mancata aggiudicazione e metodo di
quantificazione.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla
gara – Durc irregolare – Esclusione immediata - Durc
irregolare di impresa ausiliaria – Art. 89, comma 3, d.lgs.
n. 50 del 2016 – Non comporta l’immediata esclusione - Ratio.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla
gara – Durc irregolare – Esclusione immediata - Durc
irregolare di impresa ausiliaria – Art. 89, comma 3, d.lgs.
n. 50 del 2016 – Regolarizzazione dell’impresa ausiliaria –
Limiti.
●
Risarcimento danni - Contratti della Pubblica
amministrazione – Danno da perdita di chance favorevole –
Criterio di quantificazione.
●
Ai sensi dell’art. 89, comma 3, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il
principio, secondo cui la stazione appaltante che, in sede
di verifica del possesso dei requisiti dichiarati, riceve
dall’ente previdenziale comunicazione di durc irregolare è
tenuta ad escludere l’operatore dalla procedura, revocando
l’aggiudicazione eventualmente effettuata, senza procedere
al previo invito alla regolarizzazione, vale nel caso di
irregolarità contributiva della impresa concorrente, non
potendo operare nel caso di irregolarità di impresa
ausiliaria della quale la concorrente intende avvalersi (1).
●
In caso di irregolarità nella posizione contributiva
dell’ausiliaria (motivo di esclusione obbligatoria ex art.
80, comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50), la stazione
appaltante non può imporre all’operatore economico, anziché
la sostituzione dell’ausiliaria di cui all’art. 89, comma 3,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, la regolarizzazione (2).
●
Il danno derivante non da mancata aggiudicazione di una gara
pubblica –che va risarcito nella misura del c.d. interesse
positivo, che ricomprende sia il mancato guadagno sia il
danno c.d. curriculare– ma da perdita di chance favorevole
va risarcito definendo la misura percentuale che, nella
situazione data, presentava per l’interessato la probabilità
di aggiudicazione –la chance appunto– tenendo conto della
fase della procedura in cui è stato adottato l’atto
illegittimo e come poi si sarebbe evoluta (3).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che all’esclusione immediata dalla
gara in caso di durc irregolare della impresa ausiliaria
osta la regola dettata dall’art. 89, comma 3, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, per il quale: “La stazione appaltante
verifica, conformemente agli articoli 85, 86 e 88, se i
soggetti della cui capacità l’operatore economico intende
avvalersi, soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se
sussistono motivi di esclusione ai sensi dell’articolo 80.
Essa impone all’operatore economico di sostituire i soggetti
che non soddisfano un pertinente criterio di selezione o per
i quali sussistono motivi obbligatori di esclusione”.
La disposizione costituisce una novità del nuovo corpo
normativo dei contratti pubblici del 2016, recependo la
previsione dell’art. 63 dir. 24/2014/UE, per cui: “L’amministratore
aggiudicatrice può imporre o essere obbligata dallo Stato
membro a imporre che l’operatore economico sostituisca un
soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di
esclusione” con ampliamento dell’ambito di operatività a
tutti i motivi di esclusione di cui all’art. 80.
In precedenza, sotto la vigenza del Codice dei contratti
pubblici di cui al d.lgs. 12.04.2006, n. 163, la
sostituzione era consentita solo nel caso di raggruppamento
temporaneo di imprese per i motivi ivi previsti (art. 37,
comma 19, d.lgs. n. 163 del 2006) e solamente nella fase
esecutiva (Cons.
St., sez. V, 20.01.2015, n. 169).
L’art. 89, comma 3, cit., invece, consente (anzi, impone) la
sostituzione anche nell’ambito di rapporto tra imprese
scaturito dalla stipulazione di un contratto di avvalimento
ed anche nella fase precedente l’esecuzione del contratto.
La sostituzione dell’ausiliaria durante la procedura è
istituto patentemente derogatorio al principio dell’immodificabilità
soggettiva del concorrente nel corso della procedura (nonché
di coloro di cui intende avvalersi: e, per questa via, della
stessa offerta), ma risponde all’esigenza stimata superiore
di evitare l’esclusione dell’operatore per ragioni a lui non
direttamente riconducibili e, in questo modo, sia pure
indirettamente, stimolare il ricorso all’avvalimento: il
concorrente, infatti, può far conto sul fatto che, nel caso
in cui l’ausiliaria non presenti i requisiti richiesti,
potrà procedere alla sua sostituzione e non sarà, per solo
questo fatto, escluso.
(2) Ostano all’obbligo di regolarizzazione le stesse ragioni che
Cons. St., A.P., 29.02.2016, n. 6, ha ritenuto
impeditive della regolarizzazione contributiva
dell’operatore economico che abbia partecipato come impresa
singola e, in particolare, anche a prescindere dalla natura
dell’invito alla regolarizzazione (che quella sentenza
chiaramente definisce: “istituto estraneo alla disciplina
dell’aggiudicazione e dell’esecuzione dei contratti pubblici”),
il principio di autoresponsabilità e parità di trattamento.
Se, infatti, come già detto, l’innovazione legislativa è
intesa a non penalizzare eccessivamente l’operatore
economico che abbia fatto affidamento sulle capacità e i
requisiti di un terzo, e che, senza colpa, si sia affidato a
un soggetto poi risultato inadeguato, tuttavia, la medesima
esigenza non può porsi nei confronti di quest’ultimo.
A questo, insomma, necessariamente vanno riferite le
conseguenze negative della sua condotta, ovvero di non poter
trarre vantaggi economici dalla partecipazione
all’esecuzione di un appalto pubblico.
Il principio di parità di trattamento vale non solo nei
rapporti tra gli operatori economici concorrenti, ma anche
tra questi e i loro ausiliari. Perciò questi ultimi come i
primi debbono “sopporta(re) le conseguenze di errori,
omissioni e, a fortiori, delle falsità commesse nella
formulazione dell’offerta e nella presentazione delle
dichiarazioni” (così, ancora una volta, secondo
l’Adunanza plenaria 29.02.2016, n. 6, la quale, a sua volta,
rinvia all’Adunanza
plenaria 25.02.2014, n. 9).
(3) Ha chiarito la Sezione che il risarcimento del danno da perdita
di chance esprime uno schema di reintegrazione patrimoniale
riguardo un bene della vita connesso a una situazione
soggettiva che, quando è sostitutiva di una reintegrazione
in forma specifica come nei contratti pubblici, poggia sul
fatto che un operatore economico che partecipa
ammissibilmente a una procedura di evidenza pubblica, per
ciò solo, è stimabile come portatore di un’astratta e
potenziale chance di aggiudicarsi il contratto (così
come chiunque, in generale, partecipi ad una procedura
comparativa per la possibilità di conseguire il bene o
l’utilità messi a concorso).
La chance iniziale e virtuale, che muove dall’essere
in potenza la medesima per tutti i concorrenti, varia poi
nel concretizzarsi e diviene misurabile in termini: non
trattandosi di competizione di azzardo ma di contesa
professionale in cui occorre mostrare titoli e capacità,
diviene effettiva e aumenta o diminuisce nel corso della
procedura fino a concentrarsi nella dimensione più elevata
in capo all’operatore primo classificato al momento della
formulazione della graduatoria finale, sfumando
progressivamente in capo agli altri.
Perciò se, nel corso della procedura, condotte illegittime
dell’amministrazione contrastano la normale affermazione
della chance di aggiudicazione, viene leso l’interesse
legittimo dell’operatore economico e –se è precluso anche il
bene della vita cui l’interesse è orientato– è lui dovuto il
risarcimento del danno nella misura stimabile della sua
chance perduta.
La quantificazione percentuale della figurata lesione della
chance identifica la dimensione effettiva di un lucro
cessante; del resto, l’operatore che partecipa alla gara non
è titolare attuale di un elemento patrimoniale che viene
leso dall’attività amministrativa, ma di una situazione
soggettiva strumentale al conseguimento di un’utilità
futura.
L’utilità futura –l’essere parte del contratto e il trarne
il legittimo lucro- è il bene della vita che gli è negato
dall’azione illegittima dell’amministrazione. La chance vi
rapporta in termini probabilistici le circostanze concrete,
allegate e provate, che rilevano per definire, nei limiti
del presumibile, la reale probabilità che aveva l’operatore
economico di essere prescelto e così di conseguire
quell’utilità: in una ricostruzione “dinamica”
dell’evolversi della vicenda e non “statica” (Cons.
St., sez. V, 08.10.2014, n. 5008; id.
17.07.2014, n. 3774)
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 26.04.2018 n. 2527 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
12. Così ricostruiti i fatti di causa, è possibile ora
procedere all’esame della censura svolta dall’appellante.
Essa è fondata per le ragioni che saranno esposte.
13. Con la sentenza 29.02.2016, n. 6, l’Adunanza
plenaria di questo Consiglio di Stato ha definitivamente
affrontato la questione dell’ammissibilità della
regolarizzazione postuma della posizione contributiva di
operatore economico partecipante ad una procedura di
evidenza pubblica dettando il seguente principio di diritto:
“Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, 8° comma, d.l.
21.06.2013 n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
l. 09.08.2013 n. 98, non sono consentite regolarizzazioni
postume della posizione previdenziale, dovendo l’impresa
essere in regola con l’assolvimento degli obblighi
previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione
dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata
della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la
stazione appaltante, restando dunque irrilevante un
eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione
contributiva.” (principio ribadito dall’Adunanza plenaria
con la sentenza 25.05.2016, n. 109).
La stazione appaltante che, in sede di verifica del possesso
dei requisiti dichiarati, riceve dall’ente previdenziale
comunicazione di D.U.R.C. irregolare è tenuta ad escludere
l’operatore dalla procedura, revocando l’aggiudicazione
eventualmente effettuata, senza procedere al previo invito
alla regolarizzazione.
14. Come bene ritenuto dalla sentenza, tuttavia, l’obbligo
di immediata esclusione vale nel caso di irregolarità
contributiva della impresa concorrente, non potendo operare
nel caso di irregolarità di impresa ausiliaria della quale
la concorrente intende avvalersi. Vi osta, infatti, la
regola dettata -all’interno del nuovo Codice dei contratti
pubblici- dall’art. 89, comma 3, d.lgs. 18.04.2016, n.
50, per il quale: “La stazione appaltante verifica,
conformemente agli articoli 85, 86 e 88, se i soggetti della
cui capacità l’operatore economico intende avvalersi,
soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono
motivi di esclusione ai sensi dell’articolo 80. Essa impone
all’operatore economico di sostituire i soggetti che non
soddisfano un pertinente criterio di selezione o per i quali
sussistono motivi obbligatori di esclusione”.
14.1. La disposizione costituisce una novità del nuovo corpo
normativo dei contratti pubblici del 2016, recependo la
previsione dell’art. 63 dir. 24/2014/UE, per cui:
“L’amministratore aggiudicatrice può imporre o essere
obbligata dallo Stato membro a imporre che l’operatore
economico sostituisca un soggetto per il quale sussistono
motivi non obbligatori di esclusione” con ampliamento
dell’ambito di operatività a tutti i motivi di esclusione di
cui all’art. 80.
In precedenza, sotto la vigenza del Codice dei contratti
pubblici di cui al d.lgs. n. 163 del 2006, la sostituzione
era consentita solo nel caso di raggruppamento temporaneo di
imprese per i motivi ivi previsti (art. 37, comma 19, d.lgs.
12.04.2006, n. 163) e solamente nella fase esecutiva
(così Cons. Stato, sez. V, 20.01.2015, n. 169).
L’art. 89, comma 3, cit., invece, consente (anzi, impone) la
sostituzione anche nell’ambito di rapporto tra imprese
scaturito dalla stipulazione di un contratto di avvalimento
ed anche nella fase precedente l’esecuzione del contratto
(per questo, è stato definito “istituto del tutto
innovativo” da Cons. Stato, III, 25.11.2015, n. 5359,
dove era stato posto il problema dell’immediata
applicabilità dell’art. 63 cit. prima del suo recepimento da
parte dell’ordinamento nazionale, nonché da Corte di
Giustizia dell’Unione europea in C-223/16 del 14.09.2017 causa Casertana costruzioni s.r.l. dove era stata
sottoposta la medesima questione).
14.2. La sostituzione dell’ausiliaria durante la procedura è
istituto patentemente derogatorio al principio dell’immodificabilità
soggettiva del concorrente nel corso della procedura (nonché
di coloro di cui intende avvalersi: e, per questa via, della
stessa offerta), ma risponde all’esigenza stimata superiore
di evitare l’esclusione dell’operatore per ragioni a lui non
direttamente riconducibili e, in questo modo, sia pure
indirettamente, stimolare il ricorso all’avvalimento: il
concorrente, infatti, può far conto sul fatto che, nel caso
in cui l’ausiliaria non presenti i requisiti richiesti,
potrà procedere alla sua sostituzione e non sarà, per solo
questo fatto, escluso.
15. Giunge al Collegio la questione se, in caso di
irregolarità nella posizione contributiva dell’ausiliaria
(motivo di esclusione obbligatoria ex art. 80, comma 4,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50), la stazione appaltante possa
imporre all’operatore economico, anziché la sostituzione
dell’ausiliaria di cui al più volte citato art. 89, comma 3,
la regolarizzazione.
15.1. Ritiene il Collegio che al quesito debba darsi
risposta negativa.
Ostano le stesse ragioni che Cons. Stato,
Ad. plen,, 29.02.2016, n. 6, ha ritenuto impeditive
della regolarizzazione contributiva dell’operatore economico
che abbia partecipato come impresa singola e, in
particolare, anche a prescindere dalla natura dell’invito
alla regolarizzazione (che quella sentenza chiaramente
definisce: “istituto estraneo alla disciplina
dell’aggiudicazione e dell’esecuzione dei contratti
pubblici”), il principio di autoresponsabilità e parità di
trattamento. Se, infatti, come già detto, l’innovazione
legislativa è intesa a non penalizzare eccessivamente
l’operatore economico che abbia fatto affidamento sulle
capacità e i requisiti di un terzo, e che, senza colpa, si
sia affidato a un soggetto poi risultato inadeguato,
tuttavia, la medesima esigenza non può porsi nei confronti
di quest’ultimo. A questo, insomma, necessariamente vanno
riferite le conseguenze negative della sua condotta, ovvero,
nel caso di specie, di non poter trarre vantaggi economici
dalla partecipazione all’esecuzione di un appalto pubblico.
Il principio di parità di trattamento vale non solo nei
rapporti tra gli operatori economici concorrenti, ma anche
tra questi e i loro ausiliari. Perciò questi ultimi come i
primi debbono “sopporta(re) le conseguenze di errori,
omissioni e, a fortiori, delle falsità commesse nella
formulazione dell’offerta e nella presentazione delle
dichiarazioni” (così, ancora una volta, secondo l’Adunanza
plenaria; la quale, a sua volta, rinvia a Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 9).
15.2. Per completezza deve precisarsi che l’eventuale errore
dell’I.N.P.S. cui sarebbe dovuto, secondo la stazione
appaltante e la controinteressata, l’emissione di un
D.U.R.C. negativo, così come la circostanza che nessun
pagamento postumo (affermazione che si legge nell’ultimo
paragrafo della memoria della controinteressata) sia
avvenuto, non rileva in sede di procedura di aggiudicazione,
non essendo la stazione appaltante tenuta a effettuare un
proprio vaglio preliminare della correttezza dell’operato
dell’ente previdenziale. Siffatto profilo della vicenda
attiene ai rapporti tra l’impresa e l’ente previdenziale e
non rileva, nel presente giudizio, come invece erroneamente
ritenuto dalla sentenza impugnata.
16. Per le ragioni esposte, la stazione appaltante avrebbe
dovuto imporre la sostituzione dell’impresa ausiliaria e non
richiedere la mera regolarizzazione della sua posizione
contributiva. La sentenza impugnata che ha ritenuto corretto
l’operato dell’amministrazione va, pertanto, riformata, con
conseguente annullamento del provvedimento di aggiudicazione
(determina di E.R.A.P. Marche – Presidio di Ascoli Piceno n.
113 del 21.04.2017).
17. L’appellante ha formulato in primo grado –e riproposto
in appello– l’intero apparato delle domande contemplato dal
Codice del processo amministrativo: dunque, non solo la
domanda di annullamento dell’aggiudicazione, ma anche quella
di dichiarazione di inefficacia del contratto eventualmente
intervenuto, e di risarcimento del danno mediante
reintegrazione in forma specifica ovvero attraverso
l’aggiudicazione dell’appalto e il subentro nel contratto.
In via subordinata ha, infine, proposto la domanda di
risarcimento del danno per equivalente nella misura del 10%
dell’importo dell’appalto rispetto all’offerta economica
presentata, oltre al danno c.d. curriculare e alle spese
occorse per la partecipazione.
17.1. E.R.A.P. Marche ha depositato nel presente giudizio il
contratto stipulato con la Am.Gr. s.r.l. il 02.08.2017, nonché documentazione attestante l’avanzamento
dei lavori.
17.2. Ritiene il Collegio di respingere la domanda di
declaratoria dell’inefficacia del contratto.
Ai sensi dell’art. 122 Cod. proc. amm. il giudice, in caso
di annullamento dell’aggiudicazione, qualora il vizio
dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovare la
gara e la domanda di subentro sia stata proposta, valuta se
dichiarare l’inefficacia del contratto stipulato alla luce
di una serie di elementi ivi espressamente indicati. Si
tratta, in particolare, “degli interessi delle parti,
dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire
l’aggiudicazione alla luce di vizi riscontrati, dello stato
di esecuzione del contratto e della possibilità di
subentrare nel contratto”.
Nel caso in esame, appare preponderante su ogni altra
considerazione lo stato decisamente avanzato di esecuzione
del contratto, dimostrato dai documenti versati in giudizio
dalle resistenti, che rende fuori luogo –anche alla luce
delle esigenze imperative di interesse generale alla
realizzazione degli appalti pubblici- imporre una stasi
nell’attività appaltata, quale giocoforza si determinerebbe
ove si consentisse il cambio dell’appaltatore, anche in
ragione della situazione abitativa, che appare tuttora
precaria, degli abitanti del grattacielo di Largo ...
(come si ricava dall’ordinanza del Sindaco del Comune di
Ascoli Piceno del 29.08.2016 n. 338, in atti).
Il contratto, pertanto, continua a produrre i suoi effetti
tra le parti originarie, senza dar luogo al subentro
dell’odierno appellante nella posizione dell’originario
aggiudicatario.
18. Escluso il risarcimento in forma specifica mediante
subentro nel contratto, occorre vagliare la domanda di
risarcimento dei danni per equivalente, come imposto,
peraltro, dall’art. 124 Cod. proc. amm.. Questa può essere
accolta nei limiti che si vanno ad esporre.
18.1. L’appellante ha richiesto la condanna
dell’amministrazione al risarcimento del danno nella misura
del 10% dell’importo dell’appalto rispetto all’offerta
economica presentata, oltre al danno c.d. curriculare e le
spese sostenute per la partecipazione alla procedura.
Sennonché, nella vicenda oggetto del giudizio, non ricorre un
danno c.d. da mancata aggiudicazione, da risarcire, per
costante giurisprudenza amministrativa, nella misura del
c.d. interesse positivo che ricomprende sia il mancato
guadagno sia il danno c.d. curriculare (da ultimo, sui
principi della giurisprudenza in tema di quantificazione del
danno da mancata aggiudicazione, Cons. Stato, Ad. plen., 12.05.2017, n. 2 e le pronunce ivi richiamate), quanto,
piuttosto, il danno c.d. da perdita di chance favorevole.
18.2. Il risarcimento del danno da perdita di
chance esprime
uno schema di reintegrazione patrimoniale riguardo un bene
della vita connesso a una situazione soggettiva che, quando
è sostitutiva di una reintegrazione in forma specifica come
nei contratti pubblici, poggia sul fatto che un operatore
economico che partecipa ammissibilmente a una procedura di
evidenza pubblica, per ciò solo, è stimabile come portatore
di un’astratta e potenziale chance di aggiudicarsi il
contratto (così come chiunque, in generale, partecipi ad una
procedura comparativa per la possibilità di conseguire il
bene o l’utilità messi a concorso).
La chance iniziale e
virtuale, che muove dall’essere in potenza la medesima per
tutti i concorrenti, varia poi nel concretizzarsi e diviene
misurabile in termini: non trattandosi di competizione di
azzardo ma di contesa professionale in cui occorre mostrare
titoli e capacità, diviene effettiva e aumenta o diminuisce
nel corso della procedura fino a concentrarsi nella
dimensione più elevata in capo all’operatore primo
classificato al momento della formulazione della graduatoria
finale, sfumando progressivamente in capo agli altri.
Perciò se, nel corso della procedura, condotte illegittime
dell’amministrazione contrastano la normale affermazione
della chance di aggiudicazione, viene leso l’interesse
legittimo dell’operatore economico e –se è precluso anche
il bene della vita cui l’interesse è orientato– è lui
dovuto il risarcimento del danno nella misura stimabile
della sua chance perduta (altra cosa è la questione della
concezione, ontologica o eziologica della chance, sulla
quale di recente questa Sezione, con sentenza 11.01.2018, n. 118, ha devoluto la questione all’Adunanza
Plenaria; ma sulla chance come entità patrimoniale a sé, v.
Cons. Stato, VI, 21.07.2016, n. 3304; V, 22.09.2015, n. 4431; V, 30.06.2015, n. 3249; IV, 20.01.2015, n. 131; V, 17.06.2014, n. 3082 e a partire da
Cons. Stato, sez. VI, 07.02.2002, n. 686).
18.3. La tecnica risarcitoria della chance impone un
ulteriore necessario passaggio: posto che l’illegittima
condotta dell’amministrazione ha qui determinato un danno
risarcibile nei termini indicati, per la sua quantificazione
occorre definire la misura percentuale che nella situazione
data presentava per l’interessato la probabilità di
aggiudicazione -la chance appunto– tenendo conto della
fase della procedura in cui è stato adottato l’atto
illegittimo e come poi si sarebbe evoluta.
18.4. Si tratta di passaggio necessario: per la
giurisprudenza l’operatore può beneficiare del risarcimento
per equivalente solo se la sua chance di aggiudicazione ha
effettivamente raggiunto un’apprezzabile consistenza, di
solito indicata dalle formule “probabilità seria e concreta”
o anche “elevata probabilità” di aggiudicazione del
contratto. Al di sotto di tale livello, dove c’è la “mera
possibilità” di aggiudicazione, vi è solo un ipotetico danno
comunque non meritevole di reintegrazione poiché in pratica
nemmeno distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa
di fatto (cfr., in tema di pubblici concorsi, Cons. Stato, III, 27.11.2017, n. 5559, nonché Cass., lav., 25.08.2017, n. 20408; in tema di contratti pubblici, Cons.
Stato, V, 07.06.2017, n. 2740; VI, 04.09.2015, n.
4115; 05.03.2015, n. 1099; VI, 20.10.2010, n. 7593).
18.5. In questa direzione, la quantificazione percentuale
della figurata lesione della chance identifica la dimensione
effettiva di un lucro cessante; del resto, l’operatore che
partecipa alla gara non è titolare attuale di un elemento
patrimoniale che viene leso dall’attività amministrativa, ma
di una situazione soggettiva strumentale al conseguimento di
un’utilità futura.
L’utilità futura –l’essere parte del contratto e il trarne
il legittimo lucro- è il bene della vita che gli è negato
dall’azione illegittima dell’amministrazione. La chance vi
rapporta in termini probabilistici le circostanze concrete,
allegate e provate, che rilevano per definire, nei limiti
del presumibile, la reale probabilità che aveva l’operatore
economico di essere prescelto e così di conseguire
quell’utilità: in una ricostruzione “dinamica”
dell’evolversi della vicenda e non “statica” (cfr. Cons.
Stato, V, 08.10.2014, n. 5008; 17.07.2014, n. 3774).
19. Facendo applicazione di tali principi alla vicenda
oggetto del giudizio, va rilevato che è accertato che
E.R.A.P. Marche, richiedendo la regolarizzazione della
posizione contributiva dell’ausiliaria invece di imporne la
sostituzione, ha indebitamente influito sulle possibilità di
aggiudicazione della Am.Gr. s.r.l., aumentandole,
e della società Ga.Ga. s.r.l., diminuendole.
19.1. Se, infatti, l’amministrazione, come dovuto, avesse
richiesto la sostituzione dell’ausiliaria, all’eventuale
inerzia o all’indicazione di soggetto inidoneo da parte
dell’aggiudicataria, sarebbe potuto seguire l’aggiudicazione
a favore della seconda classificata.
19.2. Perciò, considerato che, da un lato, la
regolarizzazione è stata richiesta quando l’offerta
dell’appellante era già stata considerata valida e inserita
al secondo posto della graduatoria, ma, d’altro canto,
valutato che, se l’amministrazione avesse richiesto la
sostituzione dell’ausiliaria, è oggettivamente ipotizzabile
–secondo l’id quod plerumque accidit e a parità dei
restanti fattori- che Am.Gr. s.r.l. si sarebbe
attivata individuando un’impresa ausiliaria idonea, è
possibile concludere che l’appellante aveva una concreta
chance di aggiudicazione del contratto (quantificabile, a
far ricorso alla sintesi percentuale, intorno al 20%) e
dunque, non “mera possibilità di conseguire l’utilità
sperata” .
20. Definita la consistenza della chance, occorre passare
alla identificazione del mancato guadagno, vale a dire del
lucro cessante in cui essa consiste.
Considerato che il ribasso offerto dall’appellante, pari al
23,245% sul valore dell’appalto, era sostanzialmente
equivalente al ribasso offerto dall’aggiudicataria (pari a
23,750%) onde, come si evince dal contratto stipulato, la
società Ga.Ga. s.r.l. avrebbe svolto i lavori
ricevendone il corrispettivo di € 1.567.498,65, avendo conto
dell’utile che normalmente avrebbe potuto trarre -che non
potrà stimarsi superiore al dieci per cento del valore a
base d’asta (€ 156.749,86)- ed applicando ad esso la
percentuale della chance precedentemente esposta (20%), il
Collegio giunge ad individuare nella somma di € 31.349,97 il
mancato guadagno a tale titolo (secondo il modello enunciato
già da Cons. Stato, sez. VI, 15.10.2012, n. 5279).
20.1. Alla somma così definita deve sottrarsi l’aliunde
perceptum vel percipiendum forfettariamente individuato in
mancanza di quantificazione di parte (cfr. su tale ultimo
profilo Cons. Stato, III, 04.10.2017, n. 4627: “la
detrazione dell’aliunde perceptum vel percipiendum è un
principio consolidato […] perché il principio di integrale
ristoro del danno […] comporta […] che il danneggiato non
possa ottenere una indebita locupletazione dal fatto
illecito, ciò che avverrebbe se una impresa, oltre a vedersi
ristorato […] il danno da mancata aggiudicazione della
commessa, non vedesse sottratto dalla sua sfera giuridica
patrimoniale quanto ha comunque conseguito, proprio per
effetto della mancata esecuzione di questa e della
“liberazione” di risorse, uomini, e mezzi per lo svolgimento
di diverse commesse, eseguendo altri rapporti contrattuali,
[…] la liberazione di risorse e mezzi non impiegati
nell’esecuzione della commessa è una esternalità positiva
per l’impresa, per quanto generata da un fatto causativo di
danno, sotto altra angolatura”.
Si giunge, al fine, a
riconoscere dovuta la somma di € 25.000,00 a titolo di
risarcimento del danno.
20.2. Quanto al c.d. danno curriculare, anche ad ammettere
che sia compatibile con il risarcimento del danno per
perdita di chance, esso è stato solo enunciato, ma non
provato, perciò non può essere qui riconosciuto (così Cons.
Stato, IV, 01.04.2015, n. 1708; V, 25.06.2014, n.
3220; sez. VI, 21.09.2010, n. 7004).
21. Passando all’esame del danno emergente,
non può essere
risarcito il danno consistente nelle spese sostenute per la
partecipazione alla procedura, perché la partecipazione alle
gare pubbliche di appalto implica per le imprese la
sopportazione di costi che, di norma, restano a carico delle
imprese medesime, sia in caso di aggiudicazione, sia in caso
di mancata aggiudicazione (Cons. Stato, IV,
01.04.2015,
n. 1708).
22. La somma indicata quale danno da risarcire va poi
incrementata per rivalutazione monetaria (secondo l'indice
medio dei prezzi al consumo elaborato dall'Istat), così da
attualizzare al momento della liquidazione il danno subito,
e gli interessi legali sulla somma complessiva dal giorno
della pubblicazione della sentenza (che con la liquidazione
del credito ne segna la trasformazione in credito di valuta)
sino al soddisfo. |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza
pacifica, i termini per la conclusione del procedimento
amministrativo devono reputarsi come ordinatori e non
perentori, sicché l'adozione del provvedimento conclusivo
dopo la relativa scadenza non ne implica di per sé
l'illegittimità.
---------------
I) Con il primo motivo gli istanti deducono la
violazione dell’art. 2 L. n. 241/1990, avendo il Comune di
Desio adottato l’ingiunzione di demolizione impugnata
successivamente al termine di conclusione del procedimento.
Il motivo è infondato atteso che, per giurisprudenza
pacifica, i termini per la conclusione del procedimento
amministrativo devono reputarsi come ordinatori e non
perentori, sicché l'adozione del provvedimento conclusivo
dopo la relativa scadenza non ne implica di per sé
l'illegittimità (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 08.04.2016,
n. 658, C.S., Sez. VI, 04.03.2013, n. 1257) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 26.04.2018 n. 1122 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione è atto necessitato e
vincolato nel contenuto, conseguendo all'abusività
dell'immobile.
---------------
II) Con il secondo motivo i ricorrenti deducono
l’erroneità dei presupposti ed il difetto di istruttoria
della predetta ingiunzione di demolizione, la quale non
avrebbe considerato precedenti lavori legittimamente
eseguiti sull’immobile, e che non avrebbe svolto la puntuale
individuazione delle opere che ne formano oggetto.
In linea generale, osserva il Collegio che l’ordine di
demolizione è atto necessitato e vincolato nel contenuto,
conseguendo all'abusività dell'immobile (TAR Campania,
Napoli, Sez. VII, 27.12.2017, n. 6082, TAR Puglia, Lecce,
Sez. I, 14.12.2017, n. 1973), non avendo peraltro gli
istanti contestato il presupposto diniego di sanatoria.
Gli abusi che formano oggetto del provvedimento impugnato
sono inoltre stati ivi puntualmente descritti, e
graficamente rappresentati nelle planimetri allegate,
dovendosi pertanto respingere il presente emotivo di ricorso
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 26.04.2018 n. 1122 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Inammissibile
un ricorso presentato dal difensore munito di procura
generale e non speciale.
E' inammissibile un ricorso presentato
dal difensore munito di procura generale e non speciale.
Invero, la procura speciale si caratterizza, rispetto alla
procura generale, per avere ad oggetto uno o più atti
giuridici singolarmente determinati, il che presuppone che
il soggetto il quale rilascia la procura abbia contezza del
contenuto dell'atto oggetto del potere rappresentativo
conferito, il quale, quindi, deve essere formato prima o
contestualmente al rilascio della procura.
A diverse conclusioni non potrebbe
giungersi neppure richiamando l’art. 182, comma 2, c.p.c.,
atteso che l’art. 39 c.p.a. rinvia alle norme del c.p.c.
soltanto in quanto compatibili o espressione di principi
generali e detta disposizione non è espressione di un
principio generale e comunque non può ritenersi compatibile
con i principi propri del processo amministrativo, atteso
che la previsione di un termine decadenziale per la notifica
del ricorso presuppone necessariamente il previo
conferimento del mandato speciale, con riferimento allo
specifico atto oggetto di impugnazione
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
3) Il ricorso è inammissibile.
3.1) Come rappresentato alla parte nel corso della camera di
consiglio del 17 aprile u.s., è stata allegata in atti
soltanto una procura generale alle liti del legale
rappresentante della società ricorrente, datata 02.07.2015,
in violazione del chiaro disposto dell’art. 40, co. 1, lett.
g), del c.p.a.
Tale disposizione esige, infatti, che, per il caso di
ricorso sottoscritto dal solo difensore, quest’ultimo sia
munito di procura speciale, non essendo evidentemente la
procura generale sufficiente per l’attribuzione della
rappresentanza tecnica nel processo amministrativo (TAR
Lombardia, Milano, III, 14/05/2015, n. 1152; TAR Lazio Roma
Sez. II, 08/01/2015, n. 145; id. 29/01/2018, n. 1023; TAR
Sardegna, 08.02.2017, n. 97).
La procura speciale si caratterizza, rispetto alla procura
generale, per avere ad oggetto uno o più atti giuridici
singolarmente determinati, il che presuppone che il soggetto
il quale rilascia la procura abbia contezza del contenuto
dell'atto oggetto del potere rappresentativo conferito, il
quale, quindi, deve essere formato prima o contestualmente
al rilascio della procura.
3.2) Nel caso di specie, la procura, da un lato, ha ad
oggetto genericamente tutti i giudizi d’interesse della
società ricorrente e, dall’altro, reca una data di gran
lunga anteriore a quella del ricorso in epigrafe.
4) Solo per completezza, preme osservare che, il termine che
secondo prassi giudiziaria viene concesso su richiesta di
parte a seguito dell’avviso di cui all’art. 73 c.p.a., è
funzionale alla possibilità di depositare memorie in ordine
all’avviso e non alla possibilità di integrare la
documentazione.
5) A diverse conclusioni non potrebbe giungersi neppure
richiamando l’art. 182, co. 2 c.p.c., atteso che, come già
evidenziato recentemente da questa Sezione (TAR Lombardia,
Milano, III, 03.02.2015, n. 381), l’art. 39 c.p.a. rinvia
alle norme del c.p.c. soltanto “in quanto compatibili o
espressione di principi generali”, per cui l’art. 182,
comma 2, c.p.c. non può essere ritenuto applicabile al
processo amministrativo.
Tale norma, infatti, in primo luogo non è espressione di un
principio generale, in quanto il processo amministrativo, a
differenza di quello civile –che ammette anche il
conferimento di un mandato generale alle liti– impone il
conferimento del mandato speciale prima della sottoscrizione
del ricorso da parte del difensore, trattandosi di processo
strutturato come prevalentemente di impugnazione; inoltre,
il predetto art. 182, comma 2, c.p.c. non può ritenersi
compatibile con i principi propri del processo
amministrativo, atteso che la previsione di un termine
decadenziale per la notifica del ricorso presuppone
necessariamente il previo conferimento del mandato speciale,
con riferimento allo specifico atto oggetto di impugnazione.
5.1) Un eventuale rinvio per integrare la documentazione che
avrebbe dovuto essere depositata da parte ricorrente
unitamente con il ricorso, d’altronde, oltre ad incidere
sulla durata del giudizio in violazione del dovere delle
parti di cooperare alla sua ragionevole durata (Cons. Stato,
Sez. IV, 01.07.2014, n. 3296), costituirebbe un
ingiustificato aggravio dei ruoli del Tribunale e
sottrarrebbe ad altri ricorrenti la possibilità di vedere
trattato il ricorso da essi proposto (TAR Lombardia, Milano,
15/12/2017, n. 2388).
6) Conclusivamente, quindi, il ricorso in epigrafe
specificato deve essere dichiarato inammissibile per difetto
di procura speciale alle liti (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 26.04.2018 n. 1091
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EDILIZIA PRIVATA:
Il contributo concessorio (comprendente oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione) è un’obbligazione
giuridica di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio
della concessione edilizia ed è qualificabile come
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all'insieme dei benefici arrecati al nuovo manufatto.
Le disposizioni che regolano la fattispecie si rinvengono
negli artt. 16 e 17 del DPR 380/2001.
L’art. 16, (rubricato “Contributo per il rilascio del
permesso di costruire”), dispone al comma 1 che “Salvo
quanto disposto dall'articolo 17, comma 3, il rilascio del
permesso di costruire comporta la corresponsione di un
contributo commisurato all'incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le
modalità indicate nel presente articolo e fatte salve le
disposizioni concernenti gli interventi di trasformazione
urbana complessi di cui al comma 2-bis”.
Ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. b), il contributo di
costruzione non è dovuto “per gli interventi di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al 20%, di edifici unifamiliari”. Nel caso di specie, è
pacifica la natura dell’intervento, consistente nella
ristrutturazione con incremento realizzato nel rispetto del
limite del 20% (cfr. memoria di costituzione del Comune,
pag. 5).
La norma riprende sostanzialmente il contenuto dell’art. 9,
comma 1, della L. 28/01/1977 n. 10, “in relazione al quale la
giurisprudenza aveva avuto modo di chiarire che il carattere
di unifamiliarità di un fabbricato a destinazione abitativa
è ricavabile dalle caratteristiche architettoniche
dell’edificio, in ragione del volume, della superficie, del
numero e della funzione e caratteristica dei vani, in
rapporto alle esigenze ed alla possibilità di utilizzo da
parte di un unico nucleo familiare”.
E’ stato tuttavia nello specifico osservato che l'esenzione
dal pagamento dei contributi di cui si discute ha la
funzione di agevolare i proprietari di alloggi unifamiliari,
presumendo il legislatore che gli interventi sugli stessi
non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione di
migliorare le condizioni di abitabilità degli edifici
medesimi, indipendentemente dalla loro dimensione.
La disposizione è diretta dunque a promuovere le opere di
adeguamento dei manufatti alle necessità abitative del
singolo nucleo familiare, circoscrivendone l’operatività
agli interventi che non mutino sostanzialmente l’entità
strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile e non ne
elevino (in modo apprezzabile) il valore economico.
---------------
In linea generale, la partecipazione del privato al costo
delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando
l’intervento determini un incremento del peso insediativo
con un’oggettiva rivalutazione dell’immobile, sicché
l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a
sopportare il carico socio economico che la realizzazione
comporta sotto il profilo urbanistico.
Alla luce di tale considerazione, la giurisprudenza ha
statuito che l’esenzione dal contributo di costruzione per
il caso di interventi di ristrutturazione di edifici
unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%,
costituisce oggetto di una previsione di carattere
eccezionale (applicabile in un ambito di stretta
interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal
legislatore): la ratio è di natura sociale ed è diretta
sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di
salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli
interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile alle
necessità abitative del nucleo familiare: l’edificio
unifamiliare, nell’accezione socio economica assunta dalla
norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà
immobiliare, e soltanto se presenti tali caratteri è
meritevole di un trattamento differenziato.
Il Collegio ritiene di aderire a tale orientamento. Anche
secondo questo TAR, l’esenzione in esame si giustifica come
aiuto alla famiglia che, banalmente, necessiti di ulteriore
spazio per la propria decorosa sistemazione abitativa.
La giurisprudenza recente ha parimenti sostenuto che “la
ratio che ispira la specifica esenzione ha un fondamento
sociale, con l’effetto che la nozione di edificio
unifamiliare non deve avere una accezione strutturale ma
socio-economica, coincidendo con la piccola proprietà
immobiliare, meritevole per gli interventi di
ristrutturazione dell’abitazione di un trattamento
differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie …” (e
in quel caso si è stabilito che la suddetta esenzione non
può trovare applicazione in una fattispecie relativa a una
villa di 19 vani con una superficie di 638,41 mq.).
Accedendo a tale approccio interpretativo, anche il TAR
Campania Salerno, sez. I – 22/06/2015 n. 1416 ha desunto
l’estraneità della fattispecie affrontata (si controverteva
dell’intervento su un fabbricato di 13 vani, avente
volumetria complessiva di mc. 1.338,78, distribuiti su tre
livelli) all’alveo applicativo della norma invocata,
“proprio in considerazione delle rilevate caratteristiche
costruttive e dimensionali dell’edificio ancorché
unifamiliare”.
---------------
La Società ricorrente, che ha ottenuto il titolo abilitativo
per i lavori di ristrutturazione e ampliamento di un
edificio unifamiliare, censura la pretesa del Comune di
applicare il contributo sul costo di costruzione.
La controversia ha quindi ad oggetto un giudizio di
accertamento negativo in ordine all’obbligazione pecuniaria
relativa al pagamento del contributo di costruzione,
nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, rispetto alla quale gli atti di liquidazione
sono privi di contenuto ed effetti provvedimentali
(Consiglio di Stato, sez. IV – 01/02/2017 n. 425).
Il gravame è infondato e deve essere rigettato.
0. Il Collegio richiama anzitutto i principi
giurisprudenziali elaborati nella materia controversa, per
cui il contributo concessorio (comprendente oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione) è un’obbligazione
giuridica di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio
della concessione edilizia (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI
– 07/02/2017 n. 728) ed è qualificabile come corrispettivo
di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a
carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi
delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei
benefici arrecati al nuovo manufatto (Consiglio di Stato,
sez. IV – 29/10/2015 n. 4950).
1. Le disposizioni che regolano la fattispecie si rinvengono
negli artt. 16 e 17 del DPR 380/2001.
L’art. 16, (rubricato “Contributo per il rilascio del
permesso di costruire”), dispone al comma 1 che “Salvo
quanto disposto dall'articolo 17, comma 3, il rilascio del
permesso di costruire comporta la corresponsione di un
contributo commisurato all'incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le
modalità indicate nel presente articolo e fatte salve le
disposizioni concernenti gli interventi di trasformazione
urbana complessi di cui al comma 2-bis”.
Ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. b), il contributo di
costruzione non è dovuto “per gli interventi di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al 20%, di edifici unifamiliari”. Nel caso di specie, è
pacifica la natura dell’intervento, consistente nella
ristrutturazione con incremento realizzato nel rispetto del
limite del 20% (cfr. memoria di costituzione del Comune,
pag. 5).
2. La norma riprende sostanzialmente il contenuto dell’art.
9, comma 1, della L. 28/01/1977 n. 10, “in relazione al
quale la giurisprudenza (cfr. TAR 07.09.1999 n. 770; TAR
Veneto 30.3.1996 n. 480) aveva avuto modo di chiarire che il
carattere di unifamiliarità di un fabbricato a destinazione
abitativa è ricavabile dalle caratteristiche architettoniche
dell’edificio, in ragione del volume, della superficie, del
numero e della funzione e caratteristica dei vani, in
rapporto alle esigenze ed alla possibilità di utilizzo da
parte di un unico nucleo familiare” (cfr. TAR Brescia,
sez. I – 13/05/2011 n. 713).
3. E’ stato tuttavia nello specifico osservato (cfr.
sentenza Sezione 10/08/2012 n. 1446, che risulta appellata)
che l'esenzione dal pagamento dei contributi di cui si
discute ha la funzione di agevolare i proprietari di alloggi
unifamiliari, presumendo il legislatore che gli interventi
sugli stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola
funzione di migliorare le condizioni di abitabilità degli
edifici medesimi, indipendentemente dalla loro dimensione
(Consiglio di Stato, sez. IV – 11/10/2006 n. 6065).
La disposizione è diretta dunque a promuovere le opere di
adeguamento dei manufatti alle necessità abitative del
singolo nucleo familiare, circoscrivendone l’operatività
agli interventi che non mutino sostanzialmente l’entità
strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile e non ne
elevino (in modo apprezzabile) il valore economico.
Sostiene la difesa comunale che la ricorrente ha
ristrutturato un edificio dismesso che ospitava più
famiglie, per favorire l’esercizio di un’attività di
ristorazione (e quindi a fini di lucro), e che solo il
particolare momento congiunturale non ha consentito di
individuare una figura professionale per la gestione
dell’attività, cosicché la proprietà ha scelto di
riconvertire l’immobile a residenza.
Detto ordine di idee merita di essere condiviso.
4. Osserva il Collegio che, in linea generale, la
partecipazione del privato al costo delle opere di
urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento determini
un incremento del peso insediativo con un’oggettiva
rivalutazione dell’immobile, sicché l'onerosità del permesso
di costruire è funzionale a sopportare il carico socio
economico che la realizzazione comporta sotto il profilo
urbanistico.
Alla luce di tale considerazione, la giurisprudenza (cfr.
TAR Campania Napoli, sez. VIII – 09/05/2012 n. 2136) ha
statuito che l’esenzione dal contributo di costruzione per
il caso di interventi di ristrutturazione di edifici
unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%,
costituisce oggetto di una previsione di carattere
eccezionale (applicabile in un ambito di stretta
interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal
legislatore): la ratio è di natura sociale ed è
diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di
tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare
per gli interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile
alle necessità abitative del nucleo familiare: l’edificio
unifamiliare, nell’accezione socio economica assunta dalla
norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà
immobiliare, e soltanto se presenti tali caratteri è
meritevole di un trattamento differenziato (TAR Lombardia
Milano, sez. IV – 02/07/2014 n. 1707).
5. Il Collegio ritiene di aderire a tale orientamento. Anche
secondo questo TAR (cfr. sez. I – 21/11/2014 n. 2180),
l’esenzione in esame si giustifica come aiuto alla famiglia
che, banalmente, necessiti di ulteriore spazio per la
propria decorosa sistemazione abitativa.
La giurisprudenza recente (cfr. TAR Toscana, sez. III –
26/04/2017 n. 616), ha parimenti sostenuto che “la ratio
che ispira la specifica esenzione ha un fondamento sociale,
con l’effetto che la nozione di edificio unifamiliare non
deve avere una accezione strutturale ma socio-economica,
coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole
per gli interventi di ristrutturazione dell’abitazione di un
trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie
edilizie …” (e in quel caso si è stabilito che la
suddetta esenzione non può trovare applicazione in una
fattispecie relativa a una villa di 19 vani con una
superficie di 638,41 mq.).
Accedendo a tale approccio interpretativo, anche il TAR
Campania Salerno, sez. I – 22/06/2015 n. 1416 ha desunto
l’estraneità della fattispecie affrontata (si controverteva
dell’intervento su un fabbricato di 13 vani, avente
volumetria complessiva di mc. 1.338,78, distribuiti su tre
livelli) all’alveo applicativo della norma invocata, “proprio
in considerazione delle rilevate caratteristiche costruttive
e dimensionali dell’edificio ancorché unifamiliare”.
6. Alla luce delle suindicate premesse, nella fattispecie
all’esame del Collegio non risultano sussistere i
presupposti delineati dalla norma.
Come ha osservato l’amministrazione (cfr. memoria finale,
pag. 7), senza repliche sul punto della parte ricorrente,
prima dell’ampliamento l’edificio inserito nella corte
agricola era disposto su tre piani, con un piano terra
avente cinque ampie stanze, con bagno e locale sottoscala
(per una superficie complessiva di 181,30 m²), un primo
piano dotato di quattro stanze grandi e due bagni (per
178,55 m²), e un piano secondo mansardato con tre ampie
stanze, per una superficie di 128,75 m².
Con la ristrutturazione, al piano terra sono state
realizzate –in ampliamento– una cucina per 78 m², una
dispensa con cella frigorifera, una cantina e la zona
raccolta e lavaggio del pentolame; un locale ricevimento,
due sale ristorante estese, un locale filtro, due bagni con
antibagno, due spogliatoi con doccia e servizio igienico
oltre a vani tecnici.
Al primo piano, uno spazio conversazione con bar e
guardaroba, tre ampie sale ristorante, un locale filtro, due
percorsi sporco/pulito, servizi clienti con accesso a due
servizi igienici, un vano scala, una terrazza abitabile, una
piattaforma elevatrice; al piano secondo, cinque vani
tecnici, un corridoio, un vano scala, una piattaforma
elevatrice, tre grandi stanze ciascuna con bagno, un vano di
servizio.
Ha puntualizzato la difesa comunale che, con il mutamento di
destinazione d’uso da ristorante ad abitazione, le
planimetrie non sono state incise, salvo il diverso uso dei
locali (dalle sale ristorante alle stanze o soggiorni, dagli
spogliatoi alle lavanderie, dagli spazi per conversazione o
ricevimento ai corridoi, di ben 32 e 39 m²).
7. Lo scopo di lucro perseguito con la ristrutturazione
(connesso alla previsione di numerosi ambienti destinati
alla ristorazione) si rivela concreto e non meramente
potenziale, avendo la proprietà attivamente cercato un
acquirente (si veda l’articolo pubblicato sul giornale
locale il 16/12/2016 –allegato n. 12 del Comune– che dà
conto della volontà di affidare la gestione della villa come
“ristorante o come fastosa residenza per feste,
ricevimenti, convegni, o servizi di catering”).
Dunque, l’immobile è stato posto in vendita per un utilizzo
commerciale successivamente alla conversione (senza opere)
della destinazione in residenziale. In aggiunta a tale
riflessione, si osserva che le ingenti dimensioni
(classificazione A/7 con oltre 18 vani) impediscono di
qualificare il fabbricato come semplice abitazione,
trattandosi di un’unità molto ampia con i tratti
dell’immobile di lusso, e dunque di una realtà strutturale
incompatibile con le caratteristiche delineate dalla
giurisprudenza per il riconoscimento del beneficio
dell’esenzione (si ribadisce: la decorosa sistemazione del
nucleo familiare).
8. In conclusione, la pretesa avanzata è infondata e deve
essere respinta (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.04.2018 n. 449 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi: procedimento e parere obbligatorio della
commissione paesaggistica.
Nella specie non appare invocabile la
causa di non annullabilità ex art. 21-octies, co. 2, primo
periodo, L. n. 241/1990, in quanto la mancata acquisizione
di un parere obbligatorio non comporta la mera violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti.
Infatti, la previsione normativa di un parere obbligatorio
attiene intrinsecamente alla sostanza del rapporto che
intercorre tra l’Amministrazione ed il privato; allorquando
viene previsto l’intervento dell’organo di amministrazione
attiva e di quello di amministrazione consultiva, la
fattispecie viene, infatti, disciplinata in termini
sostanziali, per cui il contenuto sostanziale del rapporto
non può prescindere dall’arricchimento derivante dal
contributo del collegio competente a fini consultivi.
Un tanto è stato confermato anche dalla giurisprudenza
dell’Adunanza plenaria, ai sensi della quale esistono alcuni
vizi di legittimità, tra cui quello della carenza di un
parere obbligatorio, che esprimono una radicale alterazione
dell’esercizio della funzione pubblica; precisamente nel
paragrafo 8.3.2 della predetta sentenza si afferma che “in
tutte le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o
parere obbligatorio, si versa nella situazione in cui il
potere amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché
il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il
relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non
potendo dettare le regole dell’azione amministrativa nei
confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo
munus” e che, dunque, si tratta di un vizio che altera
radicalmente l’esercizio della funzione pubblica.
---------------
... per la riforma della
sentenza 28.05.2014 n.
806
del TAR per la LIGURIA–GENOVA - SEZ. I, resa tra le parti,
concernente ordine demolizione opere abusive e ripristino
dello stato dei luoghi.
...
1. Con il primo motivo di gravame, l’appellante
ripropone il primo motivo di ricorso in primo grado, ovvero
la violazione dell’art. 2 della L.R. n. 22/2009, in quanto
non sarebbe stato reso il parere obbligatorio della
Commissione Locale per il Paesaggio.
...
2. Ritiene il Collegio che sia fondato il primo motivo
d’appello, avente carattere assorbente.
Il TAR ha respinto il primo motivo di ricorso, con la
seguente motivazione: “L’art. 2, co. 2, lett. e), L.R. n.
22/2009 impone l’acquisizione del parere obbligatorio della
commissione locale per il paesaggio nel caso di “irrogazione
dei provvedimenti sanzionatori di cui all'articolo 167 del
Codice”.
Nel caso di specie tale parere non è stato acquisito, e
tuttavia l’applicazione alla fattispecie della causa di non
annullabilità di cui all’art. 21-octies, co. 2, L. n. 241/90
appare incontestabile.
Il provvedimento sanzionatorio ex art. 167 D.L.vo n.
42/2004, infatti, ha natura vincolata; la mancata
acquisizione del parere costituisce, indubitabilmente, una
violazione delle norme sul (relativo) procedimento. Ciò
posto non pare dubitabile che il contenuto del provvedimento
impugnato non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato dal momento che il manufatto in questione,
realizzando un’alterazione dello stato dei luoghi
necessitava della prescritta autorizzazione (art. 149 D.L.vo
42/2004)”.
Tale assunto non appare condivisibile.
Nella specie, infatti, non appare invocabile la causa di non
annullabilità ex art. 21-octies, co. 2, primo periodo, L. n.
241/1990, in quanto la mancata acquisizione di un parere
obbligatorio non comporta la mera violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti.
Infatti, la previsione normativa di un parere obbligatorio
attiene intrinsecamente alla sostanza del rapporto che
intercorre tra l’Amministrazione ed il privato; allorquando
viene previsto l’intervento dell’organo di amministrazione
attiva e di quello di amministrazione consultiva, la
fattispecie viene, infatti, disciplinata in termini
sostanziali, per cui il contenuto sostanziale del rapporto
non può prescindere dall’arricchimento derivante dal
contributo del collegio competente a fini consultivi.
Un tanto è stato confermato anche dalla giurisprudenza
dell’Adunanza plenaria (cfr. sentenza n. 5 del 27.04.2015),
ai sensi della quale esistono alcuni vizi di legittimità,
tra cui quello della carenza di un parere obbligatorio, che
esprimono una radicale alterazione dell’esercizio della
funzione pubblica; precisamente nel paragrafo 8.3.2 della
predetta sentenza si afferma che “in tutte le situazioni
di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio,
si versa nella situazione in cui il potere amministrativo
non è stato ancora esercitato, sicché il giudice non può
fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e
assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le
regole dell’azione amministrativa nei confronti di un organo
che non ha ancora esercitato il suo munus” e che,
dunque, si tratta di un vizio che altera radicalmente
l’esercizio della funzione pubblica.
Ciò chiarito, va rilevato, poi, che, nella specie, non può
essere messo in dubbio la necessità dell’acquisizione del
parere della Commissione Locale per il Paesaggio in vista
dell’emanazione dell’ordinanza-ingiunzione impugnata.
Questa ultima, infatti, tra l’altro, fa riferimento al fatto
che l’immobile ricade in una zona di tutela paesaggistica di
cui al D.L.vo n. 42/2004 e di conseguenza dispone
l’applicazione dell’art. 167 del decreto stesso.
L’art. 2, co. 2, della L.R. n. 22/2009 prescrive che le
Commissioni locali per il paesaggio “esprimono pareri
obbligatori in relazione ai procedimenti: … d) di
irrogazione dei provvedimenti sanzionatori di cui all’art.
167 del Codice”.
Il tenore letterale della norma è chiaro nell’imporre
l’intervento consultivo della Commissione in ogni e
qualsiasi ipotesi sanzionatoria di cui all’art. 167, D.L.vo
n. 42/2004, ivi compresa quella riferita ad un ordine di
demolizione, non essendovi previste eccezioni di sorta.
La necessaria acquisizione del parere della Commissione,
poi, non può considerarsi nemmeno venuto meno, a seguito
dell’abrogazione della L.R. n. 22/2009, ad opera della L.R.
n. 13/2014, in quanto anche l’art. 11, co. 2, della L.R. n.
13/2014 prevede che, tuttora, le Commissioni Locali per il
Paesaggio esprimano pareri obbligatori congruamente motivati
in ordine ai procedimenti di competenza comunale individuati
dall’art. 9, co. 1, della L.R. n. 13/2014, che comprende,
sub lett. d), anche quelli di natura sanzionatoria di cui
all’art. 167, D.L.vo n. 42/2004.
Conclusivamente, va accolto il primo motivo
d’appello, avente carattere assorbente, e, conseguentemente,
in riforma della sentenza impugnata, va accolto il ricorso
in primo grado, nei termini esposti, con conseguente
annullamento dell’atto impugnato, salvi gli ulteriori
provvedimenti dell’Amministrazione (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 24.04.2018 n. 2484 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il certificato di
destinazione urbanistica è un documento volto a far
conoscere la destinazione urbanistica dei terreni e, quindi,
a certificare in via generale l'edificabilità o l'inedificabilità
dei suoli, con una chiara valenza dichiarativa circa
l'inserimento di un'area o di un immobile in una zona
urbanistica anziché in un'altra del territorio comunale.
Sicché, è inidoneo a fondare un ragionevole affidamento
sulla concreta realizzazione di ulteriore edificazione del
terreno che dipende non solo dalla diretta applicazione
delle norme urbanistiche ed edilizie ma anche dallo stato di
fatto del terreno e dall’esistenza di precedente
edificazione ed utilizzazione della densità del fondo
agricolo.
---------------
Quanto al certificato di destinazione urbanistica è
sufficiente rilevare come si tratti di un documento volto a
far conoscere la destinazione urbanistica dei terreni e,
quindi, a certificare in via generale l'edificabilità o l'inedificabilità
dei suoli, con una chiara valenza dichiarativa circa
l'inserimento di un'area o di un immobile in una zona
urbanistica anziché in un'altra del territorio comunale,
inidoneo, pertanto a fondare un ragionevole affidamento
sulla concreta realizzazione di ulteriore edificazione del
terreno che, come sopra detto, dipende non solo dalla
diretta applicazione delle norme urbanistiche ed edilizie ma
anche dallo stato di fatto del terreno e dall’esistenza di
precedente edificazione ed utilizzazione della densità del
fondo agricolo (TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 24.04.2018 n. 840 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nelle gare pubbliche non occorre impugnare gli
atti di aggiudicazione se sono stati impugnati quelli di
indizione del procedimento di gara atteso che l'annullamento
del bando di gara travolge il provvedimento di
aggiudicazione, sicché la mancata impugnazione di
quest'ultima non determina l'improcedibilità del ricorso.
---------------
1. È infondata anzitutto l’eccezione di improcedibilità
proposta dal Ministero perché la ricorrente non impugnato
l’aggiudicazione, in quanto la giurisprudenza che appare
preferibile ha precisato che “nelle gare pubbliche non
occorre impugnare gli atti di aggiudicazione se sono stati
impugnati quelli di indizione del procedimento di gara
atteso che l'annullamento del bando di gara travolge il
provvedimento di aggiudicazione, sicché la mancata
impugnazione di quest'ultima non determina l'improcedibilità
del ricorso” (Cons. St., sez. III, 05.12.2016, n. 5112)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 23.04.2018 n. 718 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Protrazione dell'abuso edilizio mediante il
completamento delle opere - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI -
Nuova volumetria - Sopraelevazione - Assenza di titolo
edilizio - Artt. 10 e 44 DPR 380/2001 - Art. 181 D. L.vo
42/2004.
La protrazione
di un abuso edilizio, mediante il completamento delle opere,
costituisce il reato ex art. 44 d.p.r. 380/2001, dovendo
tenersi conto delle opere complessivamente realizzate.
Fattispecie: realizzazione, in assenza del titolo edilizio,
di una sopraelevazione di 100 mq. collegata all'appartamento
sottostante con relativa contravvenzione ex art. 181, comma
1, del D.Lgs. 42/2004 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.04.2018 n. 17745
- link a
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LAVORI PUBBLICI:
Project financing - Art. 168 d.lgs. n. 50/2016 –
Durata delle concessioni - Criterio del VAN (Valore attuale
netto) – Valore positivo.
L’art. 168 del Codice dei Contratti, recependo l’art. 18
della Direttiva 2014/23/UE stabilisce il principio cardine
per cui la durata delle concessioni non è predeterminata, ma
deve essere calcolata in funzione dell’entità della
prestazione che il concessionario è tenuto a rendere e della
necessità di rientro degli investimenti.
Centrale per valutare la convenienza economica di
un’operazione di project financing è, quindi, il
criterio del Valore Attuale Netto (cd. VAN) che consente di
calcolare il valore del beneficio netto atteso
dall’iniziativa economica e la ricchezza incrementale
generata dall’investimento.
Tale indice, affinché un progetto possa essere valutato
favorevolmente, deve assumere un valore positivo, perché
solo in tal caso l’iniziativa risulta in grado di produrre
flussi monetari sufficienti a ripagare l’esborso iniziale ed
a remunerare i capitali impiegati nell’operazione (nella
specie, l’indice VAN, che risultava positivo solo a partire
dal quattordicesimo anno, appariva idoneo a giustificare la
durata della concessione di 15 anni) (TAR Lazio-Roma, Sez.
II-bis,
sentenza 19.04.2018 n. 4374 -
link a
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APPALTI:
La Corte di giustizia esclude la revisione periodica dei
prezzi per i settori speciali di cui alla direttiva
2004/17/CE.
La Corte di giustizia chiarisce che la direttiva 2004/17/CE
non osta a norme di diritto nazionale che non prevedano la
revisione periodica dei prezzi dopo l’aggiudicazione di
appalti rientranti nei settori considerati da tale direttiva
(c.d. settori speciali).
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Appalti pubblici – Settori speciali – Revisione prezzi –
Omessa previsione da parte del d.lgs. n. 163/2016 –
Direttiva 2004/17/CE e principi del TFUE non ostano.
La direttiva 2004/17/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, che
coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di
acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di
trasporto e servizi postali, come modificata dal regolamento
(UE) n. 1251/2011 della Commissione, del 30.11.2011, e i
principi generali ad essa sottesi devono essere interpretati
nel senso che essi non ostano a norme di diritto nazionale,
come quelle di cui al procedimento principale, che non
prevedono la revisione periodica dei prezzi dopo
l’aggiudicazione di appalti rientranti nei settori
considerati da tale direttiva (1).
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(1)
I. – Con la sentenza in epigrafe la Corte di giustizia
dell’Unione europea affronta le due questioni pregiudiziali
sottopostele dal
Consiglio di Stato, sez. IV, ordinanza 22.03.2017, n. 1297
(oggetto della
News US in data 24.03.2017), concernenti, da un
lato, la compatibilità, con il diritto europeo, della
previgente disciplina nazionale in tema di mancata
previsione di meccanismi obbligatori di revisione prezzi nei
cc.dd. settori speciali e, dall’altro, la validità della
medesima disciplina europea nella parte in cui non prevede
obbligatoriamente l’istituto della revisione prezzi
all’interno delle direttive di settore.
La vicenda sottesa alla pronuncia in esame può essere così
riassunta.
Rete Ferroviaria Italiana S.p.a. (di seguito RFI) aveva
aggiudicato ai ricorrenti nel procedimento principale, un
appalto relativo ai servizi di pulizia, di mantenimento del
decoro dei locali ed altre aree aperte al pubblico e servizi
accessori ubicati in stazioni, impianti, uffici ed officine
variamente dislocati nell’ambito della Direzione
compartimentale di Cagliari.
Il contratto conteneva una clausola specifica che stabiliva
le modalità di revisione del prezzo concordato, le quali
derogavano all’articolo 1664 c.c..
Nel corso della esecuzione di tale appalto, i ricorrenti
richiedevano alla RFI la revisione del prezzo dell’appalto
precedentemente concordato, affinché si tenesse conto di un
incremento dei costi contrattuali dovuto all’aumento delle
spese per il personale.
Con nota in data 22.02.2012, RFI respingeva la domanda,
ritenendo ingiustificata ed inaccoglibile la richiesta volta
all’adeguamento revisionale del corrispettivo d’appalto in
dipendenza del riferito incremento dei costi contrattuali.
A seguito di tale rigetto, i ricorrenti ricorrevano dinanzi
al Tar per la Sardegna che, con sentenza in data 11.06.2014,
respingeva il ricorso ritenendo:
a) la inapplicabilità dell’art. 115 d.lgs. n.
163/2006 (e delle analoghe, precedenti disposizioni: art. 6,
co. 4, l. n. 537/1993, come novellato dall’art. 44, l. n.
724/1994), “dovendosi ritenere che l’attività oggetto
dell’appalto in questione rientri tra i “settori speciali”
di cui alla parte III del codice degli appalti, sussistendo
sia il presupposto soggettivo che quello oggettivo al fine
di ritenere che il contratto di servizio di pulizia delle
stazioni ferroviarie rientri all’interno dell’ambito
stabilito dall’art. 217 del codice (…)”, in quanto “la
pulizia rientra nella normativa dei settori speciali quando
è funzionale a detta attività, il che si verifica qualora si
tratti di proprietà immobiliare di edifici che costituiscono
parte integrante della rete di produzione, distribuzione e
trasporto, indicate negli artt. 208 ss. d.lgs. n. 163 del
2006”;
b) che la revisione dei prezzi non era dovuta
nemmeno in forza del disposto di cui all’art. 1664 c.c.,
posto che “la norma in questione è comunque derogabile
dalla volontà delle parti che inseriscano nel contratto una
clausola contrattuale limitativa della revisione prezzi,
come avvenuto nel caso di specie attraverso le previsioni di
cui all’art. 6 del contratto n. 01/2006, stipulato tra le
parti in data 23.02.2006”.
A seguito di tale pronuncia, proponevano appello i
ricorrenti nel procedimento principale, sostenendo che
all’appalto in contestazione si sarebbe dovuto applicare il
disposto di cui all’articolo 115 del d.lgs. n. 163/2006 o,
in alternativa, l’art. 1664 c.c., a differenza di quanto
giudicato dal Tar per la Sardegna; inoltre, gli appellanti
contestavano la conformità al diritto dell’Unione degli
articoli 115 e 206 del d.lgs. n. 163/2006, sostenendo che
tali disposizioni, nella parte in cui portano ad escludere
la revisione dei prezzi nel settore dei trasporti e,
segnatamente, nei relativi contratti di pulizia, dovevano
ritenersi contrarie, in particolare, all’articolo 3,
paragrafo 3, TUE, agli articoli 26, 101 TFUE e seguenti,
nonché alla direttiva 2004/17.
Sotto tali profili, secondo la prospettazione degli
appellanti, la disciplina nazionale risulterebbe ultronea e
ingiustificata rispetto alla legislazione dell’Unione e tale
da porre l’impresa aggiudicataria di un appalto relativo a
servizi di pulizia, in posizione di soggezione e di
debolezza nei confronti dell’impresa pubblica, producendosi
in tal modo un ingiusto e sproporzionato disequilibrio
contrattuale volto ad alterare le regole di funzionamento
del mercato.
Infine, sostenevano i ricorrenti la invalidità della
direttiva 2004/17CE, nell’ipotesi in cui l’esclusione della
revisione dei prezzi in tutti i contratti stipulati e
applicati nei settori speciali discendesse direttamente
dalla direttiva.
II. – Il Consiglio di Stato, in sede di appello, così decideva:
c) riteneva applicabile al caso concreto la
disciplina degli appalti in considerazione della
aggiudicazione della gara da parte di un’amministrazione
aggiudicatrice ai sensi della direttiva (criterio
soggettivo) e della sussistenza di un nesso di strumentalità
dell’attività di pulizia, all’attività di trasporto
ferroviario, rientrante nell’ambito di applicazione della
suddetta direttiva (criterio oggettivo);
d) riteneva inapplicabile, conseguentemente,
l’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006, non richiamato -per i
settori speciali- dall’art. 206 del Codice;
e) riteneva impossibile, nel caso concreto, alcun
adeguamento del corrispettivo contrattualmente pattuito in
considerazione della specialità della disciplina degli
appalti che, come tale, per un verso si impone (in virtù dei
principi generali in tema di interpretazione), alla
disciplina generale e, per altro verso, rende inapplicabili
le disposizioni del codice civile per effetto di espressa
previsione normativa, posto che l’art. 2, co. 4, d.lgs. n.
163/2006, rende applicabili le “disposizioni stabilite
dal codice civile” solo “per quanto non espressamente
previsto” (Cons. Stato, sez. V, 22.10.2012, n. 5395;
Id., 09.06.2008, n. 2786);
f) riteneva necessaria la verifica della conformità al
diritto dell’Unione Europea degli articoli 206 e 217 d.lgs.
n. 163/2006, nella parte in cui escludono l’applicazione
dell’art. 115 agli appalti dei settori speciali e, come
desunto in via interpretativa, anche agli appalti di servizi
che, pur non rientrando nei settori speciali (nel caso di
specie, appalto del servizio di pulizia), sono a questi
legati da un nesso di strumentalità, proponendo le seguenti
questioni pregiudiziali:
f1) se sia conforme al diritto
dell’Unione Europea (in particolare con gli articoli 3, co. 3,
TUE, artt. 26, 56/58 e 101 TFUE, art. 16 Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea) ed alla Direttiva n.
17/2004 l’interpretazione del diritto interno che escluda la
revisione dei prezzi nei contratti afferenti ai cd. settori
speciali, con particolare riguardo a quelli con oggetto
diverso da quelli cui si riferisce la stessa Direttiva, ma
legati a questi ultimi da un nesso di strumentalità;
f2) se la Direttiva n. 17/2004
(ove si ritenga che l’esclusione della revisione dei prezzi
in tutti i contratti stipulati ed applicati nell’ambito dei
cd. settori speciali discenda direttamente da essa), sia
conforme ai principi dell’Unione Europea (in particolare,
agli articoli 3, co. 1 TUE, 26, 56/58 e 101 TFUE, art. 16
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), “per
l’ingiustizia, la sproporzionatezza, l’alterazione
dell’equilibrio contrattuale e, pertanto, delle regole di un
mercato efficiente”.
III. – Con la sentenza in esame, la Corte di giustizia dell’Unione
europea affronta le due questioni sollevate, rilevando,
quanto alla prima:
g) che dalla giurisprudenza della Corte emerge
che la direttiva 2004/17/CE, trovi applicazione non solo
agli appalti che sono aggiudicati nel settore di una delle
attività espressamente considerate agli articoli da 3 a 7,
ma, altresì, agli appalti che, anche se di natura diversa,
risultano comunque utili all’esercizio delle attività
definite dalla direttiva 2004/17/CE;
h) che, quindi, nei limiti in cui un appalto
aggiudicato da un ente aggiudicatore riveste un nesso con
un’attività da questo esercitata nei settori considerati
dagli articoli da 3 a 7 di tale direttiva, tale appalto deve
essere assoggettato alle procedure previste dalla direttiva
in oggetto (in tal senso, Corte di giustizia UE, 10.04.2008,
C‑393/06, Aigner, punti da 56 a 59);
i) che, tuttavia, da nessuna disposizione della
direttiva 2004/17/CE, emerge che quest’ultima debba essere
interpretata nel senso che essa osta a norme di diritto
nazionale, quale il combinato disposto degli articoli 115 e
206 del d.lgs. n. 163/2006, che non prevedono la revisione
periodica dei prezzi dopo l’aggiudicazione di appalti
rientranti nei settori considerati dalla medesima direttiva,
dal momento che quest’ultima non impone agli Stati membri
alcun obbligo specifico di prevedere disposizioni che
impongano all’ente aggiudicatore di concedere alla propria
controparte contrattuale una revisione al rialzo del prezzo
dopo l’aggiudicazione di un appalto;
j) che, parimenti, nemmeno i principi generali
sottesi alla direttiva 2004/17/CE e, segnatamente, il
principio di parità di trattamento e l’obbligo di
trasparenza che ne deriva, sanciti dall’articolo 10 di tale
direttiva, ostano a siffatte norme;
k) che, al contrario, non si potrebbe escludere
che una revisione del prezzo dopo l’aggiudicazione
dell’appalto possa entrare in conflitto con tale principio e
con tale obbligo (v., per analogia, sentenza del 07.09.2016,
C‑549/14, Finn Frogne, punto 40);
l) che, come rilevato dalla Commissione nelle
osservazioni scritte, il prezzo dell’appalto costituisce un
elemento di grande rilievo nella valutazione delle offerte
da parte di un ente aggiudicatore, così come nella decisione
di quest’ultimo di attribuire l’appalto a un operatore; tale
importanza emerge peraltro dal riferimento al prezzo
contenuto in entrambi i criteri relativi all’aggiudicazione
degli appalti di cui all’articolo 55, paragrafo 1, della
direttiva 2004/17. In tali circostanze, le norme di diritto
nazionale che non prevedono la revisione periodica dei
prezzi dopo l’aggiudicazione di appalti rientranti nei
settori considerati da tale direttiva sono piuttosto idonee
a favorire il rispetto dei suddetti principi;
m) che, in conclusione, la direttiva 2004/17/CE e
i principi generali ad essa sottesi devono essere
interpretati nel senso che essi non ostano a norme di
diritto nazionale, come quelle di cui al procedimento
principale, che non prevedono la revisione periodica dei
prezzi dopo l’aggiudicazione di appalti rientranti nei
settori considerati da tale direttiva.
Quanto alla seconda:
n) che dalla giurisprudenza della Corte emerge
che, qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione
di una norma dell’Unione o il giudizio sulla sua validità,
chiesti dal giudice nazionale, non hanno alcuna relazione
con l’effettività o con l’oggetto della controversia di cui
al procedimento principale o qualora il problema sia di
natura ipotetica, la Corte respinge la domanda presentata
dal giudice nazionale in quanto irricevibile (v., in tal
senso, sentenza del 28.03.2017, C‑72/15, Rosneft, punto 50 e
giurisprudenza ivi citata);
o) che la fattispecie concreta sulla quale il
giudice del rinvio ha chiesto lumi in merito alla validità
della direttiva 2004/17/CE, si fonda sulla premessa secondo
cui le disposizioni di cui al procedimento principale del
decreto legislativo n. 163/2006, non prevedendo la revisione
periodica dei prezzi degli appalti rientranti nei settori
considerati da tale direttiva, costituiscano attuazione di
quest’ultima;
p) che, dal momento che dall’esame della prima
questione emerge che né la direttiva 2004/17/CE, né i
principi generali ad essa sottesi ostano a norme di diritto
nazionale, come quelle di cui al procedimento principale,
che non prevedono la revisione periodica dei prezzi dopo
l’aggiudicazione di appalti rientranti nei settori
considerati da tale direttiva, la questione ha carattere
ipotetico e, conseguentemente, deve essere dichiarata
irricevibile.
IV. – Sul nuovo regime della revisione dei prezzi, si veda, in
dottrina:
q) DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici,
Bologna, 2017, 1630 ss. e 2343 ss., con ampia ricostruzione
storica e sistematica dell’istituto; in particolare, sulla
nuova disciplina, si veda p. 1632, ove si sottolinea
l’innovazione del nuovo codice degli appalti che prevede
espressamente –a differenza del codice del 2006- che la
revisione prezzi, contenuta nel disposto di cui all’art. 106
d.lgs. n. 50/2016, trovi applicazione anche con riguardo ai
settori speciali. Occorre anche rilevare come “la
revisione non è obbligatoria per legge come nella previgente
disciplina (artt. 114 e 133, d.lgs. n. 163/2006), ma
operante solo se prevista dai documenti di gara. Risulta
così superata la previgente giurisprudenza che annetteva
alle regole legali sulla revisione prezzi natura di norme
imperative che si imponevano comunque alle parti, con la
spettanza ex lege della revisione dei prezzi e l’inserimento
automatico delle clausole legali nei contratti e
sostituzione delle clausole contrattuali difformi”; così
DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, cit., 1633;
r) in generale, per un approfondimento
dell’istituto della revisione dei prezzi si vedano:
SARACINO, La revisione delle condizioni contrattuali, 2014,
in Manuale di diritto amministrativo. IV. I contratti
pubblici, a cura di F. CARINGELLA-M. GIUSTINIANI, Roma, Dike
Giuridica Editrice, 2014, 1428; CARBONE, La revisione dei
prezzi nei contratti di servizi e forniture e l'adeguamento
monetario degli appalti di lavori, in Riv. trim. app., 2013,
1, 65; PRESUTTI, Il silenzio serbato dalla stazione
appaltante sull'istanza di revisione dei prezzi, (Nota a
TAR. Puglia, Lecce, sez. III, 25.10.2012, n. 1746), in Urb e
app., 2013, 2, 210; GIAMPAOLINO - GOGGIAMANI, I pagamenti,
le penali, le revisioni dei prezzi, in Trattato sui
Contratti Pubblici, diretto da M.A. Sandulli, R. De Nictolis
e R. Garofoli, Milano, 2011, VIII Il regolamento di
attuazione, 4702; DELFINO, Commento all'art. 171, Modalità
per il calcolo e il pagamento della compensazione, in Il
nuovo regolamento appalti pubblici, a cura di R. GAROFOLI e
G. FERRARI, Roma, 2011, 765; SAVASTA, Commento all'art. 133,
Termini di adempimento, penali, adeguamenti dei prezzi, in
Codice dell'appalto pubblico, a cura di S. Baccarini, G.
Chinè, R. Proietti, Milano, 2011, 1528; CONTU e SALIS,
Commento all'art. 133 - Termini di adempimento, penali,
adeguamenti dei prezzi in Codice dei contratti pubblici,
annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di A.
Maggio e G. Steri, Napoli, 2009, 833; MARTINOTTI, Revisione
dei prezzi: ritorno al passato?, in Urb. e app., 2005, 5,
520.
V. – Sugli aspetti processuali della revisione dei prezzi, anche in
relazione alla differenza fra appalti e concessioni di
servizi, si veda:
s) Cass. civ., sez. un., 20.04.2017, in Foro it.,
2017, I, 3430, con nota di D’ANGELO;
t) DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, cit.,
2343, secondo cui “Innovando rispetto al passato, e
chiarendo dubbi che sul punto potevano sorgere, l'art. 133,
c. 1, lett. e), c.p.a., prevede la giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo non solo sulle clausole di
revisione prezzi relative a contratti aventi per oggetto
forniture e servizi (dove era già contemplata la
giurisdizione esclusiva sui meccanismi revisionali), ma
anche sui provvedimenti applicativi dell'adeguamento dei
prezzi nei contratti relativi a lavori pubblici. L'art. 133
c.p.a. rinvia ai meccanismi di revisione del prezzo di cui
agli artt. 115 e 133, d.lgs. n. 163/2006.
Il riferimento deve ora intendersi fatto all'art. 106, c. 1,
lett. a), codice del 2016 che contiene la disciplina della
revisione dei prezzi. La giurisdizione esclusiva riguarda le
controversie relative ai «provvedimenti» siano essi di
riconoscimento dell'an o di determinazione del quantum sulla
scorta di valutazioni discrezionali, e dunque relative all'an
e o al quantum della revisione e alle modalità di pagamento,
controversie queste ultime, che, secondo la costante
elaborazione della giurisprudenza, in passato spettavano al
giudice ordinario. Restano però del giudice ordinario le
controversie relative al mero pagamento delle somme, una
volta quantificate, ovvero in cui la quantificazione debba
avvenire in base a clausole contrattuali predeterminate
sicché non vi è alcuna discrezionalità della p.a.
Analogamente, rientrano nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo le controversie in tema di
adeguamento, modifiche o deroghe al prezzo chiuso nei
contratti di appalti pubblici — analogamente a quelle,
contigue, sulla revisione del prezzo, dalle quali si
distinguono solo per la mancanza di una clausola
contrattuale, peraltro il meccanismo del prezzo chiuso non è
più previsto dal nuovo codice appalti del 2016. L'art. 133,
c. 1, lett. e), c.p.a., non è stato sinora coordinato con il
codice appalti n. 50/2016, e fa perciò ancora riferimento ai
«provvedimenti applicativi dell'adeguamento dei prezzi ai
sensi dell'art. 133. c. 3 e 4, d.lgs. n. 163/2006».
Si tratta di una disciplina che contempla sia i
provvedimenti delle stazioni appaltanti in materia di
revisione dei prezzi, sia un d.m. annuale, quest'ultimo non
più contemplato dal codice n. 50/2016”
(Corte giust. comm. ue, Sez. IX,
sentenza 19.04.2018, C‑152/17 - commento tratto
da
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EDILIZIA PRIVATA:
Attività edificatoria abusiva - Reato urbanistico
- Natura di reato permanente - Consumazione e cessazione
della permanenza - Ultimazione dei lavori per completamento
dell'opera - Sospensione dei lavori volontaria o imposta -
Artt. 31 e 44, lett. b), d.P.R. 380/2001 - Giurisprudenza.
Il reato
urbanistico ha natura di reato permanente, la cui
consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione
e perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria
abusiva. La cessazione dell'attività si ha con l'ultimazione
dei lavori per completamento dell'opera, con la sospensione
dei lavori volontaria o imposta, con la sentenza di primo
grado, se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato
e sino alla data del giudizio (Sez. 3, n. 38136, 24/10/2001;
Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, Sullo; Sez. 3, n. 49990 del
04/11/2015, Quartieri; Sez. 3, n. 14501 del 07/12/2016, dep.
24/03/2017, Rocchio).
L'ultimazione dei lavori coincide con la conclusione dei
lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci
e gli infissi (Sez. 3, n. 5480 del 12/12/2013, Manzo; Sez.
3, n. 11646 del 16/10/2014, Barbuzzi).
Fattispecie: realizzazione, in assenza del permesso di
costruire, di una tettoia con basamento in calcestruzzo e
due prefabbricati, di cui uno ad uso abitativo, con
struttura portante in ferro, di cui era stata disposta la
demolizione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.04.2018 n. 17499
- link a
www.ambientediritto.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Sulla non equipollenza
sostanziale tra il titolo di studio di perito tecnico
edile e quello di geometra.
Se è vero che l’art. 16, comma 1, del
R.D. n. 275/1929 ha previsto per i periti industriali
una specializzazione (specialità di meccanico, elettricista,
edile, tessile, chimico, minerario e navale), stabilendo,
poi, nello specifico, che spettano loro le funzioni
esecutive per i lavori ad essi inerenti tanto che,
nell’introdurre il requisito dell’abilitazione professionale
per l’iscrizione al relativo Albo, tale suddivisione in
settori permane in ragione della specialità dei diplomi
conseguiti (l. n. 17/1990), cionondimeno, l’equiparazione
con l’attività e le prestazioni del geometra rimane
limitata al solo caso della progettazione e direzione di
modeste costruzioni edili non rimesse nell’esclusiva
competenza degli Ingegneri od Architetti (art. 16, citato,
lett. b), essendo, invece, riservata al geometra una
competenza più estesa (cfr. art. 16, lett. a-q, del R.D. n.
274/1929).
D’altro canto, come riconosciuto dallo stesso Consiglio
Nazionale dei Periti industriali e dei Periti industriali
laureati, si è “in assenza di una disposizione legislativa o
regolamentare” che sancisca l’equipollenza tra i titoli
professionali di diploma di perito industriale in edilizia e
di geometra rimanendo, invero, gli Albi per l’abilitazione
all’esercizio delle rispettive professioni separati ed
essendo, a tali fini, irrilevante la parziale coincidenza
delle classi di laurea triennale che consentono, in
relazione all’analoga preparazione, l’accesso all’esame di
Stato per l’iscrizione ai relativi Albi per le
corrispondenti figure laureate, appartenenti ad un diverso e
più qualificato profilo.
Ed invero, secondo condiviso orientamento giurisprudenziale,
dal quale il Collegio non ravvisa validi motivi per
discostarsi:
a) "l'equipollenza dei titoli di studio richiesti ai fini della
ammissione ad un pubblico concorso può essere riconosciuta
solo nei casi previsti dalla legge o dallo stesso bando di
concorso (nella specie, è stata esclusa l'equipollenza fra
il titolo di perito industriale e quello di geometra
richiesto dal bando)" (Consiglio di Stato 954/1991);
b) e, specificatamente, “in relazione alla valutazione di
equipollenza va detto che essa è riservata alla legge e non
è rimessa alla discrezionalità dell'amministrazione. Non vi
è alcuna equipollenza ex lege tra il titolo di geometra e
quello di perito industriale edile e non rileva in merito il
fatto che esistano affinità e parziali coincidenze fra le
attività svolte dai professionisti iscritti in albi
diversi”; “se si esaminano le competenze previste dalle
leggi sulla creazione dei rispettivi albi professionali si
potrà constatare che le competenze dei geometri sono più
ampie di quelle dei periti edili e pertanto la
discriminazione operata nel bando di concorso che ha
riservato la partecipazione ai soli geometri appare immune
da vizi di illogicità o di arbitrarietà”;
c) peraltro, “non può fondatamente contestarsi il potere
discrezionale dell'Amministrazione, in relazione ad un certo
tipo di incarico, di individuare i titoli professionali in
concreto "adeguati", a prescindere dalla circostanza che, in
astratto, altri titoli (nel caso quello di perito
industriale edile) possano essere ritenuti equipollenti a
quelli indicati”;
d) in definitiva, “allorché il bando di concorso richieda
tassativamente il possesso di un determinato titolo di
studio per l'ammissione ad un concorso pubblico, senza
prevedere il rilievo del titolo equipollente, non è
consentita la valutazione di un titolo di studio diverso,
salvo che l'equipollenza non sia stabilita da una norma di
legge. Il principio poggia sul dovuto riconoscimento in capo
all'Amministrazione che indice la procedura selettiva -ferma
la definizione del livello del titolo, affidata alla legge o
ad altra fonte normativa- di un potere discrezionale
nell'individuazione della tipologia del titolo stesso, da
esercitare tenendo conto della professionalità e della
preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire”;
e) ed invero, “l'istituto dell'equipollenza fra i titoli di studio
posseduti, ai fini della partecipazione ai pubblici
concorsi, ha carattere eccezionale e non è quindi
suscettibile di mera interpretazione analogica”.
---------------
VI. Con il primo motivo di ricorso, la parte lamenta
l’illegittimità del bando e del provvedimento di esclusione
per omessa valutazione della equipollenza sostanziale tra il
titolo di studio posseduto, perito tecnico edile, e quello
richiesto dal bando, geometra, ritenuta sussistente in
ragione della dedotta sovrapponibilità delle normative di
riferimento, contenenti, nella specie, la disciplina
regolamentare per la professione di perito industriale (art.
16 del R.D. n. 275/1929) e quella per la figura del geometra
(art. 16 del R.D. n. 274/1929).
VI.1. La censura è priva di pregio, non essendo
configurabile né una equiparazione sostanziale né una
equiparazione legale.
VI.1.1. Se, infatti, è vero che l’art. 16, comma 1, del R.D.
n. 275/1929 ha previsto per i periti industriali una
specializzazione (specialità di meccanico, elettricista,
edile, tessile, chimico, minerario e navale), stabilendo,
poi, nello specifico, che spettano loro le funzioni
esecutive per i lavori ad essi inerenti tanto che,
nell’introdurre il requisito dell’abilitazione professionale
per l’iscrizione al relativo Albo, tale suddivisione in
settori permane in ragione della specialità dei diplomi
conseguiti (l. n. 17/1990), cionondimeno, l’equiparazione
con l’attività e le prestazioni del geometra rimane limitata
al solo caso della progettazione e direzione di modeste
costruzioni edili non rimesse nell’esclusiva competenza
degli Ingegneri od Architetti (art. 16, citato, lett. b),
essendo, invece, riservata al geometra una competenza più
estesa (cfr. art. 16, lett. a-q, del R.D. n. 274/1929).
VI.1.2. D’altro canto, come riconosciuto dallo stesso
Consiglio Nazionale dei Periti industriali e dei Periti
industriali laureati, si è “in assenza di una
disposizione legislativa o regolamentare” che sancisca
l’equipollenza tra i titoli professionali di diploma di
perito industriale in edilizia e di geometra (nota prot. n.
2418/GE/df dell’08.05.2015), rimanendo, invero, gli Albi per
l’abilitazione all’esercizio delle rispettive professioni
separati (nota prot. 1236 del 05.05.2015 dell’U.O.C. Affari
legali) ed essendo, a tali fini, irrilevante la parziale
coincidenza delle classi di laurea triennale che consentono,
in relazione all’analoga preparazione, l’accesso all’esame
di Stato per l’iscrizione ai relativi Albi per le
corrispondenti figure laureate, appartenenti ad un diverso e
più qualificato profilo.
VI.1.3. Ed invero, secondo condiviso orientamento
giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ravvisa validi
motivi per discostarsi:
a) "l'equipollenza dei titoli di studio richiesti ai fini della
ammissione ad un pubblico concorso può essere riconosciuta
solo nei casi previsti dalla legge o dallo stesso bando di
concorso. (Nella specie, è stata esclusa l'equipollenza fra
il titolo di perito industriale e quello di geometra
richiesto dal bando)" (Consiglio di Stato 954/1991);
b) e, specificatamente, “in relazione alla valutazione di
equipollenza va detto che essa è riservata alla legge e non
è rimessa alla discrezionalità dell'amministrazione
(Consiglio di Stato 4902/2005). Non vi è alcuna equipollenza
ex lege tra il titolo di geometra e quello di perito
industriale edile e non rileva in merito il fatto che
esistano affinità e parziali coincidenze fra le attività
svolte dai professionisti iscritti in albi diversi”; “se si
esaminano le competenze previste dalle leggi sulla creazione
dei rispettivi albi professionali si potrà constatare che le
competenze dei geometri sono più ampie di quelle dei periti
edili e pertanto la discriminazione operata nel bando di
concorso che ha riservato la partecipazione ai soli geometri
appare immune da vizi di illogicità o di arbitrarietà”;
c) peraltro, “non può fondatamente contestarsi il potere
discrezionale dell'Amministrazione, in relazione ad un certo
tipo di incarico, di individuare i titoli professionali in
concreto "adeguati", a prescindere dalla circostanza che, in
astratto, altri titoli (nel caso quello di perito
industriale edile) possano essere ritenuti equipollenti a
quelli indicati” (TAR Toscana, Firenze, sez. II,
11.04.2012 n. 708 e n. 707);
d) in definitiva, “allorché il bando di concorso richieda
tassativamente il possesso di un determinato titolo di
studio per l'ammissione ad un concorso pubblico, senza
prevedere il rilievo del titolo equipollente, non è
consentita la valutazione di un titolo di studio diverso,
salvo che l'equipollenza non sia stabilita da una norma di
legge. Il principio poggia sul dovuto riconoscimento in capo
all'Amministrazione che indice la procedura selettiva -ferma
la definizione del livello del titolo, affidata alla legge o
ad altra fonte normativa- di un potere discrezionale
nell'individuazione della tipologia del titolo stesso, da
esercitare tenendo conto della professionalità e della
preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire”
(TAR Lombardia, Milano, sez. III, 19.07.2016 n. 1440);
e) ed invero, “l'istituto dell'equipollenza fra i titoli di
studio posseduti, ai fini della partecipazione ai pubblici
concorsi, ha carattere eccezionale e non è quindi
suscettibile di mera interpretazione analogica” (Cons.
di St., sez. VI, 08.02.2016 n. 495).
VI.1.4. Conseguentemente risulta infondata anche ogni
ulteriore censura avverso il bando di selezione, esente,
nella scelta del reperimento della figura professionale del
solo geometra e delle connesse competenze ad esso
ascrivibili –certificate, oltre che dal titolo di studio,
dal superamento dell’esame di abilitazione all’esercizio
della relativa professione e dall’iscrizione all’Albo
professionale corrispondente-, da ogni profilo di dedotta
palese illogicità o irrazionalità.
VI.1.5. Eletta tale via, l’esclusione di coloro non in
possesso del titolo richiesto nella lex specialis
regolante la selezione diviene atto di natura vincolata (TAR
Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 18.04.2018 n. 2541 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Poligono
di tiro e inquinamento acustico.
E' fondata la censura
sollevata avverso un’ordinanza contingibile e urgente
finalizzata a ridurre le emissioni acustiche provenienti da
un poligono di tiro, per un preteso superamento del limite
differenziale, nella parte in cui si lamenta l’uso
dell’ordinanza in violazione dei requisiti di urgenza, del
principio di proporzionalità in relazione al superamento dei
limiti e del criterio di preesistenza, il tutto anche in
relazione alla dedotta (e non contestata dal Comune o del
controinteressato, non costituiti) effettuazione di opere
mitigatorie successivamente al sopralluogo di ARPA
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
... per l'annullamento, previa misura cautelare,
- dell'ordinanza sindacale prot. 857 datata 19.01.2018, notificata
il 24.01.2018;
- per quanto occorra, della nota di ARPA class. 8.5, fasc.
2017.4.64.216 e relativi verbali di sopralluogo e rapporto
d'indagine prat. n. 2017.4.64.216, recanti n. di protocollo
comunale 16153 del 13.12.2017, tutti allegati all'ordinanza;
- di ogni atto presupposto, connesso e consequenziale e, in
particolare, del piano di zonizzazione acustica e suo
regolamento attuativo del Comune di Appiano Gentile, nella
parte in cui non prevede, come invece indicato in relazione
agli impianti sportivi, la non applicazione del limite
differenziale e laddove non prevede la corretta distanza tra
le classi acustiche.
...
Ritenuto, all’esito di una sommaria delibazione propria
della fase cautelare, che:
- il ricorso presenti profili di fondatezza, nella parte in cui
lamenta uso dell’ordinanza in violazione dei requisiti di
urgenza, violazione del principio di proporzionalità in
relazione al superamento dei limiti e violazione del
criterio di preesistenza, il tutto anche in relazione alla
dedotta (e non contestata dal Comune o del controinteressato,
non costituiti) effettuazione di opere mitigatorie
successivamente al sopralluogo di ARPA;
- sussista il danno grave ed irreparabile in relazione alla
possibilità di conseguenze di ordine amministrativo e
penale;
- la domanda cautelare vada quindi accolta (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
ordinanza 18.04.2018 n. 561
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione paesaggistica - Termine per
l'esecuzione dei progettati lavori - Efficacia, scadenza e
rinnovo (cinque anni) - Art. 146, c. 4, d.lgs. n. 42/2004.
La efficacia dell'autorizzazione paesaggistica, non
costituisce termine di durata dell'autorizzazione, ma
termine ultimo di ultimazione delle opere progettate,
sicché, ultimate le opere entro tale termine, non deve
ritenersi necessario il rinnovo dell'autorizzazione
medesima.
Diverso il profilo di valutazione per il caso di esecuzione
di interventi ulteriori o diversi da quelli autorizzati,
spetterà, comunque, al giudice del merito l'accertamento
della realizzazione di opere ulteriori/diverse, o la
realizzazione di opere stabili o, comunque, la mancata
rimozione delle opere stagionali (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.04.2018 n. 17135 -
link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'efficacia dell'autorizzazione paesaggistica non
costituisce termine di durata dell'autorizzazione, ma
termine ultimo di ultimazione delle opere progettate,
sicché, ultimate le opere entro tale termine, non deve
ritenersi necessario il rinnovo dell'autorizzazione
medesima.
Diverso il profilo di valutazione per il caso di esecuzione
di interventi ulteriori o diversi da quelli autorizzati,
rilevando, il Collegio, che sulla base della limitata
cognizione di questa Corte, cui non è consentito l'accesso
agli atti, spetterà al giudice del merito l'accertamento
della realizzazione di opere ulteriori/diverse, o la
realizzazione di opere stabili o, comunque, la mancata
rimozione delle opere stagionali.
---------------
Nondimeno, corretto risulta il rilievo del Tribunale, con
riferimento all'autorizzazione paesaggistica poiché la
previsione di un termine di efficacia riguarda
esclusivamente il termine per i lavori da eseguire, come
emerge dal tenore letterale del D.Lgs. n. 42 del 2004, art.
146, il quale prevede un termine di cinque anni, scaduto il
quale "l'esecuzione dei progettati lavori deve essere
sottoposta a nuova autorizzazione".
La efficacia dell'autorizzazione paesaggistica,
contrariamente all'assunto del ricorrente, non costituisce
termine di durata dell'autorizzazione, ma termine ultimo di
ultimazione delle opere progettate, sicché, ultimate le
opere entro tale termine, non deve ritenersi necessario il
rinnovo dell'autorizzazione medesima.
Diverso il profilo di valutazione per il caso di esecuzione
di interventi ulteriori o diversi da quelli autorizzati,
rilevando, il Collegio, che sulla base della limitata
cognizione di questa Corte, cui non è consentito l'accesso
agli atti, spetterà al giudice del merito l'accertamento
della realizzazione di opere ulteriori/diverse, o la
realizzazione di opere stabili o, comunque, la mancata
rimozione delle opere stagionali.
In altri termini, ciò che rileva rispetto al profilo
devoluto nel motivo di ricorso, e rispetto al quale deve
essere compiuto il sindacato di questa Corte, il
provvedimento è sorretto da motivazione corretta sul piano
del diritto (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.04.2018 n. 17135). |
EDILIZIA PRIVATA:
Differenza tra opera stagionale e opera precaria
- Esecuzione di opere stagionali - Permesso di costruire -
Necessità - Configurabilità del reato urbanistico - Art. 44
d.P.R. n.380/2001 - Giurisprudenza.
Il permesso di costruire è senz'altro richiesto per
l'esecuzione di opere stagionali, differenziandole da quelle
precarie che, per la loro stessa natura e destinazione, non
comportano effetti permanenti e definitivi sull'originario
assetto del territorio tali da richiedere il preventivo
rilascio di un titolo abilitativo.
L'opera stagionale, diversamente da quella precaria, non è,
infatti, destinata a soddisfare esigenze contingenti ma
ricorrenti, sia pure soltanto in determinati periodi
dell'anno e, per tale motivo, è soggetta a permesso di
costruire (ex multis Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016,
Arrigoni e altro; Sez. 3, n. 34763 del 21/06/2011, Bianchi;
Sez. 3, n. 236 del 13/06/2011; Sez. 3, n. 22868 del
13/06/2007, Mulas), da cui la configurazione del reato
urbanistico per il caso di mancata rimozione allo scadere
del termine stagionale poiché, in tale ipotesi, la
responsabilità discende dal combinato disposto dell'art. 44
d.P.R. n. 380 del 2011 e l'art. 40, comma 2, cod. pen. per
la mancata ottemperanza all'obbligo di rimozione insito nel
provvedimento autorizzatorio temporaneo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.04.2018 n. 17135 -
link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il permesso di costruire è senz'altro richiesto
per l'esecuzione di opere stagionali, differenziandole da
quelle precarie che, per la loro stessa natura e
destinazione, non comportano effetti permanenti e definitivi
sull'originario assetto del territorio tali da richiedere il
preventivo rilascio di un titolo abilitativo.
L'opera stagionale, diversamente da quella precaria, non è,
infatti, destinata a soddisfare esigenze contingenti ma
ricorrenti, sia pure soltanto in determinati periodi
dell'anno e, per tale motivo, è soggetta a permesso di
costruire, da cui la configurazione del reato urbanistico
per il caso di mancata rimozione allo scadere del termine
stagionale poiché, in tale ipotesi, la responsabilità
discende dal combinato disposto dell'art. 44 d.P.R. n. 380
del 2011 e l'art. 40 comma 2 cod. pen. per la mancata
ottemperanza all'obbligo di rimozione insito nel
provvedimento autorizzatorio temporaneo.
---------------
6. Così ricostruito l'ambito del sindacato del presente
giudizio, rileva, il Collegio, la congruità e correttezza
della motivazione del provvedimento impugnato che, come
evidenziato al par. 1.1. del ritenuto in fatto, ha escluso
il fumus commissi delicti con riguardo al reato
paesaggistico con motivazione congrua e corretta in diritto
e tutt'altro che assente.
Occorre ricordare che il permesso di costruire è senz'altro
richiesto per l'esecuzione di opere stagionali,
differenziandole da quelle precarie che, per la loro stessa
natura e destinazione, non comportano effetti permanenti e
definitivi sull'originario assetto del territorio tali da
richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo.
L'opera stagionale, diversamente da quella precaria, non è,
infatti, destinata a soddisfare esigenze contingenti ma
ricorrenti, sia pure soltanto in determinati periodi
dell'anno e, per tale motivo, è soggetta a permesso di
costruire (ex multis Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016,
Arrigoni e altro, Rv. 267759; Sez. 3, n. 34763 del
21/06/2011, Bianchi, Rv. 251243; Sez. 3, n. 236 del
13/06/2011; Sez. 3, n. 22868 del 13/06/2007, Mulas, Rv.
233926), da cui la configurazione del reato urbanistico per
il caso di mancata rimozione allo scadere del termine
stagionale poiché, in tale ipotesi, la responsabilità
discende dal combinato disposto dell'art. 44 d.P.R. n. 380
del 2011 e l'art. 40 comma 2 cod. pen. per la mancata
ottemperanza all'obbligo di rimozione insito nel
provvedimento autorizzatorio temporaneo, tant'è che il
Tribunale ha confermato il provvedimento con riguardo al
reato urbanistico (per il quale non ha ritenuto sussistente
il periculum in mora) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 17.04.2018 n. 17135). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzione a confine - Distanze tra costruzioni
- Diritto del confinante alla costruzione in aderenza o
appoggio - Giurisprudenza - Artt. 32, 44, 65, 72, 93, 94 e
95 d.P.R. 380/2001.
In materia urbanistica, quando il regolamento edilizio nulla
stabilisce in merito alla distanza dal confine il
preveniente ha diritto a costruire sul confine ed il
prevenuto in aderenza o appoggio ai sensi degli artt. 874,
875 e 877 cod. civ..
RISARCIMENTO DEL DANNO - Violazioni
urbanistiche - LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE - Legittimazione a
costituirsi parte civile nel procedimento penale - Lesione
di un diritto soggettivo - Necessità.
Sono legittimati a costituirsi parte civile nel procedimento
penale per violazioni urbanistiche solo i soggetti che
abbiano subito la lesione del proprio diritto soggettivo
(distanze, volumetria, altezza delle costruzioni, visuale,
areazione, etc.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.04.2018 n. 16685 -
link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Le Sezioni unite si pronunciano sul superamento del dissenso
espresso in conferenza di servizi dalle amministrazioni
preposte alla tutela di interessi sensibili.
---------------
Procedimento amministrativo – Conferenza di servizi –
Dissenso espresso da un'amministrazione preposta alla tutela
di interessi sensibili – Superamento del dissenso da parte
dell’amministrazione procedente – Necessaria rimessione
della questione al Consiglio dei Ministri.
In caso di dissenso espresso da
un’amministrazione preposta alla tutela di un interesse
sensibile, nel novero dei quali si colloca quello
paesaggistico, il meccanismo previsto dal 3° comma dell’art.
14-quater della l. n. 241/1990 impedisce alla conferenza di
servizi di procedere ulteriormente e rende doverosa, ove
l’amministrazione procedente intenda perseguire il
superamento del dissenso, la rimessione della decisione al
Consiglio dei ministri (1).
---------------
(1)
I. – Nella sentenza in epigrafe le Sezioni unite della Corte
di cassazione, pronunciando in sede di impugnazione di
sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche, si
occupano delle previsioni attinenti al funzionamento della
conferenza di servizi, con specifico riferimento al ruolo
che in tale modulo procedimentale assume il dissenso delle
amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili
(quali quelli ambientale, paesaggistico-territoriale, del
patrimonio storico-artistico, della tutela della salute e
della pubblica incolumità) e alle modalità di possibile
superamento di tale dissenso.
La pronuncia in rassegna è riferita alla disciplina dettata
dall’art. 14-quater della legge n. 241 del 1990 (rubricato “Effetti
del dissenso espresso nella conferenza di servizi”), nel
testo risultante dall’art. 49 del decreto-legge 31.05.2010,
n. 78, a sua volta fatto oggetto di interventi modificativi
dai decreti-legge 13.05.2011, n. 70 e 18.10.2012, n. 179.
L’intera disciplina della conferenza di servizi, come noto,
è stata successivamente rivisitata dal d.lgs. 30.06.2016, n.
127; attualmente, la disciplina dei “Rimedi per le
amministrazioni dissenzienti” è contenuta nel testo
novellato dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del
1990, mentre il vigente art. 14-quater della medesima legge
ha ad oggetto la “Decisione della conferenza di servizi”.
La normativa in vigore in tema di superamento del dissenso
espresso, in seno alla conferenza di servizi, dalle
amministrazioni portatrici di interesse sensibili (di cui al
novellato art. 14-quinquies cit.), stabilisce peraltro un
meccanismo procedimentale in parte diverso da quello in
precedenza previsto dall’art. 14-quater (vecchio testo), del
quale ultimo si occupano le Sezioni unite nella sentenza in
esame.
Ciò non toglie che, al di là degli specifici meccanismi di
tecnica procedimentale, tanto nella disciplina del (vecchio)
art. 14-quater quanto in quella del (nuovo) art.
14-quinquies il superamento del dissenso in materia di
interessi sensibili passi attraverso una strutturazione del
procedimento che vede uno spostamento all’esterno della
conferenza della formulazione di una quota della decisione e
il conseguente coinvolgimento del Consiglio dei ministri,
che è il profilo precipuo di cui si occupa la sentenza delle
Sezioni unite qui esaminata.
La fattispecie che ha condotto alla sentenza in esame può
essere così sintetizzata:
• la controversia attiene alla impugnazione da parte di un terzo
degli atti (tra cui permesso di costruire e autorizzazione
paesaggistica) a mezzo dei quali il Comune di Cortina
d’Ampezzo abilitava una società a costruire e poi gestire un
parcheggio posto al servizio di un supermercato, realizzato
con parziale copertura amovibile di un torrente;
• ottenuta dal terzo una prima sentenza di annullamento da parte
del Tribunale superiore delle acque pubbliche e riattivato
il procedimento ad istanza della società interessata, la
competente Soprintendenza per i beni architettonici e
paesaggistici esprimeva parere negativo sul vincolo
paesaggistico, cui faceva seguito da parte
dell’amministrazione comunale l’indizione di conferenza di
servizi a norma dell’art. 14 della legge n. 241 del 1990;
• nel corso della conferenza dei servizi la Soprintendenza ribadiva
il proprio parere negativo, cui faceva seguito la
dichiarazione del presidente della conferenza della
impossibilità di rilasciare i provvedimenti autorizzatori
richiesti, stante il parere vincolate sfavorevole
dell’autorità preposta alla cura dell’interesse
paesaggistico; il Comune di Cortina d’Ampezzo, a fronte di
tale esito della conferenza, con propria nota rimetteva la
questione alla Presidenza del Consiglio dei ministri, per il
superamento del dissenso qualificato, con la successiva
adozione degli atti propri di tale sequenza procedimentale;
• il terzo confinante impugnava dinanzi al Tribunale superiore
delle acque pubbliche la determinazione comunale di
rimessione della questione alla Presidenza del Consiglio dei
ministri e gli atti consequenziali;
• il Tribunale superiore delle acque pubbliche, con sentenza n. 228
del 2016, ha accolto l’impugnazione evidenziando quanto
segue: la conclusione dei lavori della conferenza dei
servizi, con dichiarazione del suo presidente circa la
impossibilità di rilasciare i provvedimenti richiesti,
stante il parere negativo della Soprintendenza, corrisponde
ad un arresto procedimentale definitivo, che non poteva
essere rimosso con autonoma iniziativa dell’amministrazione
comunale procedente; il Comune, con la decisione di indire
la conferenza dei servizi, ha autolimitato le proprie
prerogative, rimettendo la decisione alla stessa conferenza;
esclusivamente in senso alla conferenza di servizi era
quindi possibile rappresentare e manifestare le ragioni
d’interesse pubblico idonee a giustificare la rimessione
della questione in esame alla Presidenza del Consiglio dei
ministri;
• il Comune di Cortina d’Ampezzo e la società interessata alla
realizzazione del parcheggio hanno proposto ricorso per
cassazione; in particolare l’amministrazione comunale ha
evidenziato come la dichiarazione del presidente della
conferenza di servizi, cui si riferisce la sentenza gravata,
non abbia affatto inteso chiudere il procedimento, che il
verbale conclusivo della conferenza ha mera rilevanza
endoprocedimentale, che l’unico modo per risolvere il
conflitto innescato dal parere negativo della Soprintendenza
fosse la rimessione alla Presidenza del Consiglio dei
ministri e che spettasse al Comune procedere a tale
rimessione.
II. – La sentenza in esame imposta due percorsi motivazionali (il
primo dei quali non giunge tuttavia ad una valutazione
finale, essendo stato ritenuto non rilevante ai fini della
decisione) così sintetizzabili:
a) sulla necessità di impugnare il verbale
conclusivo della conferenza di servizi:
a1) nel richiamare
l'autolimitazione dei poteri decisori spettanti al Comune
scaturente dall'indizione della conferenza di servizi e la
conseguente necessità d'impugnare il verbale conclusivo
della conferenza stessa, si riecheggia la tesi (emersa nella
giurisprudenza amministrativa dopo le modifiche apportate
dall'art. 49 del decreto-legge n. 78 del 2010), che
prospetta il superamento della struttura dicotomica in
precedenza assegnata alla conferenza di servizi, tesi in
base alla quale, prima della modifica normativa richiamata,
si riteneva che la conferenza fosse articolata in due fasi,
la prima delle quali terminava con la determinazione
conclusiva della conferenza, mentre la seconda sfociava
nell'adozione del provvedimento finale da parte
dell'autorità procedente;
a2) si sostiene di contro che,
in seguito alle citate modifiche apportate dall’art. 49
cit., non sia più necessaria l'emanazione di un
provvedimento finale distinto dal verbale conclusivo della
conferenza di servizi, così che quest'ultimo avrebbe assunto
il duplice ruolo di determinazione conclusiva della
conferenza e di provvedimento finale del procedimento nel
quale essa si inserisce; quest'interpretazione sarebbe
sorretta per un verso dall'abrogazione del nono comma
dell'art. 14-ter della legge n. 241/1990, il quale prevedeva
che il provvedimento finale dell'amministrazione procedente
dovesse essere conforme alla determinazione conclusiva della
conferenza e, per altro verso, dalla riformulazione del
comma 6-bis del medesimo articolo, ove è previsto che
l'amministrazione procedente adotta la determinazione
motivata di conclusione del procedimento che sostituisce a
tutti gli effetti ogni altro atto di competenza delle
amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a
partecipare ma risultate assenti, alla predetta conferenza;
a3) il superamento della
concezione dicotomica della conferenza di servizi
comporterebbe, come conseguenza, l'impugnabilità del verbale
conclusivo della conferenza di servizi, in quanto atto a
valenza esoprocedimentale; si ritiene tuttavia non
necessario valutare la fondatezza della tesi ricostruita,
ciò perché la regola introdotta dalla riforma del 2010 non
vale comunque nei casi in cui la disciplina della conferenza
di servizi si distingua per profili di specialità, come
accade giustappunto nell'ipotesi di rimessione della
decisione al
Consiglio dei ministri per il superamento del dissenso
qualificato;
b) sul dissenso espresso da amministrazione preposta alla tutela di
interesse sensibile:
b1) in caso di dissenso espresso da
un'amministrazione preposta alla tutela di un interesse
sensibile, nel novero dei quali si colloca quello
paesaggistico, il meccanismo previsto dall'art. 14-quater,
comma 3°, della legge n. 241/1990 impedisce alla conferenza
di servizi di procedere ulteriormente e rende doverosa, ove
l'amministrazione procedente intenda perseguire il
superamento del dissenso, la rimessione della decisione al
Consiglio dei ministri;
b2) la legge quindi, in attuazione dei principi
costituzionali compendiati nell'art. 120 Cost. (che prevede,
tra l'altro, l'intervento sostitutivo del Governo "quando
lo richiedono la tutela dell'unità giuridica o dell'unità
economica" della Repubblica), al cospetto del
presupposto rappresentato dal "motivato dissenso" di
un'amministrazione preposta alla tutela degli interessi
sensibili enumerati, attribuisce il potere provvedimentale
alla istanza amministrativa massima della Repubblica nella
sua unità, e cioè al Consiglio dei ministri;
b3) è del tutto ininfluente che, in esito al
fallimento della conferenza di servizi, l'amministrazione
procedente formuli, o no, la riserva di rimettere la
questione al Consiglio dei ministri e che la conferenza
valuti, o no, gli interessi coinvolti ai fini di tale
rimessione: l'attribuzione della competenza al Consiglio dei
ministri non dipende da riserva o da valutazione alcuna, ma
scaturisce direttamente dalla legge;
b4) si prospetta il difetto assoluto di
attribuzione dell'amministrazione procedente, ma ai fini
dell'esercizio del potere provvedimentale, non già al fine
della rimessione della questione al Consiglio dei ministri.
III. – Si segnala per completezza quanto segue:
c) sulla conferenza di servizi è rinvenibile una
amplissima dottrina: sugli sviluppi dell’istituto
antecedenti all’entrata in vigore della legge n. 241/1990
cfr. D. D’ORSOGNA, Conferenza di servizi e amministrazione
della complessità, Torino, 2002, 55; per ampli riferimenti
dottrinali cfr. G. COCOZZA, La decisione plurale in
conferenza di servizi, Napoli, 2012, che contiene ricca
appendice bibliografica; per ulteriore rassegna di
bibliografica essenziale cfr. E. STICCHI DAMIANI, Conferenza
dei servizi, in Enc. Giur. Treccani – Diritto on-line, 2015;
ampie indicazioni di dottrina e giurisprudenza anche in N.
GAMBINO nota a Tar per il Lazio–Roma, sez. II-quater,
09.02.2015, n. 2338 in Foro it., 2016, III, 233; sulla
disciplina conseguente alla c.d. legge Madia cfr.: S.
BATTINI; La nuova disciplina della conferenza di servizi,
Roma, 2016; M. BOMBARDELLI, La nuova disciplina della
conferenza di servizi in Giur. it., 2016, 2793; G. VESPERINI,
La nuova conferenza di servizi in Giornale dir. amm., 2016,
578; M. BENEDETTI, L’attuazione della nuova conferenza di
servizi in Giornale dir. amm., 2017, 297; M. DE BENEDETTI –
A. ZENCA,
La riforma della conferenza di servizi alla luce delle
recenti disposizioni del d.lgs. n. 127 del 2016
in www.amministrazioneincammino.luiss.it 10.02.2017; per un
particolare inquadramento dell’istituto della conferenza di
servizi nell’ambito delle categorie civilistiche cfr. A.
PLAISANT, Dal diritto civile al diritto amministrativo,
Cagliari, 2^ ed., 2017, 277;
d) sulla riforma della conferenza di servizi di
cui alla legge 07.08.2015, n. 124 si vedano i seguenti
pareri resi dal Consiglio di Stato:
d1) Cons. Stato, comm. spec.,
07.04.2016, n. 890, sullo schema di decreto legislativo
recante norme in materia di riordino della disciplina della
conferenza di servizi;
d2) Cons. Stato, comm. spec.,
27.04.2018, n. 1127, relativo alle modalità di applicazione
dell’articolo 14-ter, comma 4, della legge n. 241/1990, come
sostituito dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. 30.06.2016, n.
127, in merito al rappresentante unico delle amministrazioni
statali in seno alla conferenza di servizi simultanea;
e) sulla disciplina per il superamento del
dissenso in materia di interessi sensibili si sono succeduti
nel tempo moduli procedimentali diversificati:
e1) l’art. 17, comma 3, della
legge 15.05.1997, n. 127 (che novellava l’art. 14, comma 4,
della legge n. 241/1990) ha introdotto una prima disciplina
in materia di interessi sensibili, secondo la quale in
presenza di motivato dissenso l’amministrazione procedente
può chiedere “una determinazione di conclusione del
procedimento al Presidente del Consiglio dei ministri,
previa deliberazione del Consiglio dei ministri”;
e2) l’art. 12 della legge
24.11.2000, n. 340 (che novellava l’art. 14-quater della
legge n. 241/1990) ha rimodulato l’organo decidente,
stabilendo che “la decisione è rimessa al Consiglio dei
ministri, ove l’amministrazione dissenziente o quella
procedente sia un’amministrazione statale, ovvero ai
competenti organi collegiali esecutivi degli enti
territoriali, nelle altre ipotesi”;
e3) l’art. 11 della legge
11.02.2005, n. 15 (che ancora novellava l’art. 14-quater
della legge n. 241/1990), ha effettuato ulteriore modifica
dell’organo decidente, che poteva essere il Consiglio dei
ministri, in caso di dissenso tra amministrazioni statali,
la Conferenza Stato-regioni, in caso di dissenso tra
un'amministrazione statale e una regionale o tra più
amministrazioni regionali, la Conferenza unificata, di cui
all'articolo 8 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281,
in caso di dissenso tra un'amministrazione statale o
regionale e un ente locale o tra più enti locali, con
possibilità, in ogni caso, di decisione finale del Consiglio
dei ministri;
e4) l’art. 49, comma 3, della
legge 31.05.2010, n. 78 (ancora novellando l’art. 14-quater
cit.) ha stabilito che nell’ipotesi in esame la decisione “è
rimessa dall'amministrazione procedente alla deliberazione
del Consiglio dei Ministri, che si pronuncia entro sessanta
giorni, previa intesa con la Regione o le Regioni e le
Province autonome interessate, in caso di dissenso tra
un'amministrazione statale e una regionale o tra più
amministrazioni regionali, ovvero previa intesa con la
Regione e gli enti locali interessati, in caso di dissenso
tra un'amministrazione statale o regionale e un ente locale
o tra più enti locali. Se l'intesa non è raggiunta nei
successivi trenta giorni, la deliberazione del Consiglio dei
Ministri può essere comunque adottata”; su questa
disciplina è intervenuta la Corte cost. con sentenza
11.07.2012, n. 179 (in Urbanistica e appalti, 2012, 1253,
con nota di MANTEGAZZA e Guida al dir., 2012, fasc. 36, 92,
con nota di PONTE), imponendo una intesa forte a tutela
delle competenze proprie delle regioni; è seguita
l’ulteriore riformulazione dell’art 14-quater cit. ad opera
dell’art. 33-octies del decreto-legge 17.10.2012, n. 179;
e5) l’art. 1 del d.lgs. 30.06.2016,
n. 127 (che ha rinnovato l’intera disciplina della
conferenza di servizi) ha inserito la disciplina dei “rimedi
per le amministrazioni dissenzienti” nel novellato art.
14-quinqueis della legge n. 241/1990, sul quale cfr. R. DI
PACE, La resistenza degli interessi sensibili nella nuova
disciplina della conferenza di servizi in Federalismi.it,
10.08.2016; si tratta di disciplina fortemente innovativa
sul piano procedimentale:
a) le amministrazioni preposte alla tutela degli intessi
sensibili devono proporre il proprio “motivato dissenso”
prima della conclusione della conferenza, il che le
legittima, a fronte della determinazione di conclusione
delle conferenza, a “proporre opposizione al presidente
del Consiglio dei ministri” (comma 1), la quale “sospende
l’efficacia della determinazione motivata di conclusione
della conferenza” (comma 3);
b) viene quindi indetta una riunione tra i partecipanti alla
conferenza “per l’individuazione di una soluzione
condivisa, che sostituisca la determinazione motivata di
conclusione della conferenza con i medesimi effetti”
(comma 4), riunione che viene reiterata in caso siano
coinvolti interessi di Regioni o Province autonome (comma
5);
c) in caso di esito negativo la questione è rimessa al
Consiglio dei ministri, con possibile partecipazione dei
Presidenti delle Regioni o Province autonome interessate; se
viene respinta l’opposizione “la determinazione motivata
di conclusione della conferenza acquisisce definitivamente
efficacia”; l’opposizione può essere accolta anche
parzialmente dal Consiglio dei ministri, “modificando di
conseguenza il contenuto della determinazione di conclusione
della conferenza” (comma 6);
f) sulla c.d. “struttura dicotomica” della
conferenza di servizi e sul suo superamento:
f1) sin dall’introduzione
dell’istituto si è discusso se le determinazioni conclusive
della conferenza di servizi avessero portata direttamente
lesiva o se dovessero essere seguite dall’adozione di
provvedimento formale dell’amministrazione procedente (sul
punto F.G. SCOCA, Analisi giuridica della conferenza di
servizi, in Dir. amm., 1999, 255);
f2) la tesi della necessaria
successiva adozione di provvedimento ha trovato conferma
nella modifica apportata alla legge 241/1990 dalla legge
24.11.2000 n. 340; il novellato art. 14-ter, comma 9, della
legge 241 cit. infatti espressamente richiedeva l’emanazione
di “un provvedimento finale conforme alla determinazione
conclusiva favorevole della conferenza di servizi”, il
quale sostituiva, “a tutti gli effetti, ogni
autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso
comunque denominato di competenza delle amministrazioni
partecipanti”; parte della giurisprudenza ha tuttavia
affermato la natura dichiarativa del provvedimento finale,
con conseguente necessità di diretta impugnazione della
determinazione conclusiva della conferenza (in tal senso
Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008, n. 3361), con ciò
valorizzando le previsioni normative che dichiaravano la
immediata esecutività della determinazione conclusiva della
conferenza (art. 14-quater, comma 2), che consentivano alle
amministrazioni silenti di impugnare la determinazione
conclusiva, entro trenta giorni dalla sua comunicazione
(art. 14-ter, settimo comma), che disponevano che il
provvedimento finale fosse “conforme alla determinazione
conclusiva favorevole della conferenza di servizi” (art.
14-ter, nono comma);
f3) dopo la riforma di cui alla
legge 11.02.2005 n. 15 si è consolidata la tesi opposta e ha
acquistato peso la concezione dicotomica della conferenza di
servizi, ciò a partire da Cons. Stato, sez. VI, 11.11.2008,
n. 5620, ove si afferma che sussiste “uno iato
sistematico fra la determinazione conclusiva della
conferenza (anche se di tipo decisorio) ed il successivo
provvedimento finale” e che solo a quest’ultimo “possa
essere riconosciuta una valenza effettivamente determinativa
della fattispecie (con conseguente sorgere dell’onere di
immediata impugnativa), mentre alla determinazione
conclusiva deve essere riconosciuto un carattere meramente
endoprocedimentale”, tesi che viene fondata sulla
disposta abrogazione della prevista immediata esecutività
della determinazione conclusiva nonché della immediata
impugnabilità del verbale conclusivo da parte delle
amministrazioni dissenzienti (cioè sul superamento di due
dei tre indici normativi sopra richiamati);
f4) l’art. 49 del decreto-legge
31.05.2010 n. 78, convertito in legge 30.07.2010 n. 122, ha
poi abrogato anche l’art. 14-ter, comma 9, cit., che
disponeva la conformità del provvedimento finale alla
determinazione conclusiva della conferenza; tale abrogazione
viene letta nel senso di superamento della tesi dicotomica,
non essendovi più necessità di provvedimento finale distinto
dal verbale conclusivo della conferenza di servizi; in tal
senso Tar per il Lazio–Roma, sez. II-quater, 09.02.2015, n.
2338 in Foro it., 2016, III, 233, con nota di GAMBINO;
f5) nella disciplina vigente,
introdotta dal d.lgs. n. 127 del 2016, l’art. 14-ter della
legge n. 241/1990 prevede, al comma settimo, che all’esito
dell’ultima riunione della conferenza di servizi
l’amministrazione procedente adotta la determinazione
motivata di conclusione della conferenza la quale, ai sensi
dell’art. 14-quater, comma 1, sostituisce ad ogni effetto
gli atti di assenso delle amministrazioni partecipanti; non
vi è più, quindi, dicotomia tra verbale conclusivo della
conferenza e successivo atto finale, bensì la diretta
assunzione, da parte dell’amministrazione procedente, della
determinazione motivata dotata di efficacia giuridica
esterna;
g) sui limiti alla formazione del silenzio-assenso e
sulla necessità di una determinazione conclusiva in materia
ambientale, anche in esito a conferenza di servizi, cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 25.01.2018, n. 499;
h) sulle censure di ordine formale, inerenti
violazioni delle garanzie procedimentali a tutela della
posizione delle amministrazioni pubbliche, e sul rilievo che
esse non possano essere formulate dai privati che impugnano
gli esiti della conferenza di servizi, cfr. Cons. Stato,
sez. V, 22.03.2012, n. 1640 in Giurisdiz. amm., 2012, I,
591, Riv. giur. Edilizia, 2012, I, 349, Riv. giur. Ambiente,
2012, 590 (m), con nota di MAESTRONI (Corte
di Cassazione, S.U. civili,
sentenza 16.04.2018 n. 9338 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La Corte costituzionale afferma l’inapplicabilità del
soccorso istruttorio, anche nella versione introdotta nel
2014, in caso di dichiarazione mendace.
La Corte costituzionale dichiara manifestamente
inammissibili, per difetto di rilevanza, le q.l.c. sollevate
dal TRGA di Trento con riferimento all’ambito temporale di
applicazione del soccorso istruttorio, come disciplinato
dalla Provincia autonoma di Trento, sul presupposto della
inapplicabilità dell’istituto, anche nella versione
introdotta nel 2014, in ipotesi di dichiarazione mendace.
---------------
Contratti pubblici – Gara – Soccorso istruttorio –
Dichiarazione mendace – Inapplicabilità – Disciplina
successiva al d.l. n. 90 del 2014 – Irrilevanza.
Devono essere dichiarate
manifestamente inammissibili, per difetto di rilevanza, le
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17,
secondo comma, della legge della Provincia autonoma di
Trento 23.10.2014, n. 9 sollevate, in riferimento all’art.
8, primo comma, numeri 1) e 17), del d.P.R. 31.08.1972, n.
670 e all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., nella
parte in cui prevede l’applicabilità del soccorso
istruttorio, nella versione introdotta dal d.l. n. 90 del
2014, alle gare indette a far data dal 29.10.2014 anziché a
quelle indette dal 25.06.2014, in considerazione
dell’inapplicabilità dell’istituto in ipotesi di
dichiarazione mendace (1).
---------------
(1)
I. - Con l’ordinanza in rassegna la Corte costituzionale ha
dichiarato manifestamente inammissibili le questioni di
legittimità costituzionale della norma introdotta dalla
Provincia autonoma di Trento (art. 17, secondo comma, legge
della Provincia autonoma di Trento 23.10.2014, n. 9)
mediante la quale è stata prevista l’applicabilità della
disciplina del soccorso istruttorio introdotta dal d.l. n.
90 del 2014 alle gare indette a far data dal 29.10.2014,
anziché a quelle indette a decorrere dal 25.06.2014, come
previsto dalla normativa nazionale.
La Corte ha, in particolare, ritenuto che in caso di
dichiarazione mendace, come avvenuto nel caso all’attenzione
del giudice a quo, l’istituto del soccorso istruttorio, in
base al costante indirizzo del giudice amministrativo, non
avrebbe comunque potuto trovare applicazione, neanche in
base alla formulazione successiva al 2014, pervenendo
pertanto ad una declaratoria di irrilevanza delle q.l.c.
sollevate.
II. - L’ordinanza di rimessione.
Con ordinanza del 27.03.2015, n. 129, (in Riv. giur.
edilizia, 2015, I, 669, per mero errore materiale indicata
come n. 120 nella pronuncia in commento), il Tribunale
regionale di giustizia amministrativa di Trento ha sollevato
q.l.c. dell’art. 17, comma 2, della legge della Provincia
autonoma di Trento 23.10.2014, n. 9, in relazione all’art.
8, primo comma, n. 1 e n. 17, dello Statuto speciale
d’autonomia e all’art. 117, secondo comma, lett. e), della
Costituzione. In particolare, il collegio ha osservato che:
a) nel caso di specie -relativo alla
partecipazione a un confronto concorrenziale indetto per
l’affidamento della fornitura di conglomerato bituminoso,
nonché del servizio di nolo a caldo per la fresatura e il
trasporto di materiali e per la sistemazione della
pavimentazione stradale delle strade provinciali e delle
strade statali della Comunità delle Giudicarie- la società
ricorrente -la cui aggiudicazione era stata annullata in
autotutela dalla Provincia- aveva reso una dichiarazione
completa, ma non rispondente al vero, avendo omesso la
menzione di un precedente penale gravante sul legale
rappresentante della società stessa;
b) il potere di soccorso istruttorio, in questo
caso, non poteva essere esercitato sulla base della
disciplina originaria, mentre poteva trovare applicazione in
base alla formulazione più ampia dell’istituto come
introdotta dal successivo art. 39 del d.l. n. 90 del 2014;
c) la legge provinciale aveva tuttavia differito
nel tempo la data di entrata in vigore della nuova
disciplina del soccorso istruttorio introdotta dal d.l. n.
90 del 2014 in materia di ritenuta competenza statale
esclusiva –la concorrenza– e, proprio a motivo di siffatto
differimento, la nuova disciplina più favorevole non era
ritenuta applicabile alla gara in contestazione, sicché il
TRGA di Trento riteneva la questione di legittimità
costituzionale rilevante oltre che non manifestamente
infondata per invasione della sfera di competenza
legislativa statale esclusiva in relazione alla disciplina
di diritto intertemporale introdotta dalla legge provinciale
in sede di recepimento della novella sul soccorso
istruttorio.
III. - La decisione della Corte costituzionale.
d) Con la decisione in rassegna la Corte
costituzionale dichiara manifestamente inammissibili le
questioni di legittimità costituzionale, per difetto di
rilevanza in relazione all’erroneo presupposto
interpretativo assunto dal giudice a quo, osservando che:
d1) la disciplina introdotta
con l’art. 39 del d.l. n. 90 del 2014 è ampliativa
dell’istituto del soccorso istruttorio in quanto permette di
sanare la mancanza, l’incompletezza e ogni altra
irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni
sostitutive ed è applicabile, in base alla legge statale,
alle procedure indette dopo il 25.06.2014;
d2) la disciplina del soccorso
istruttorio non intacca il principio –ritenuto pacifico in
rapporto alla disciplina anteriore– di inapplicabilità
dell’istituto in caso di falsa dichiarazione, con la
conseguenza che anche in tale versione ampliata l’istituto
non comprende l’ipotesi della dichiarazione mendace idonea a
fuorviare la stazione appaltante nell’individuazione e nella
valutazione dei requisiti di ammissione;
d3) in caso di falsa
dichiarazione è applicabile la previsione dell’art. 75 del
d.P.R. 28.12.2000, n. 445, in base al quale la falsità della
dichiarazione sostitutiva determina la decadenza dai
benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato
sulla base della dichiarazione stessa (nel caso di specie
rappresentato dall’aggiudicazione).
e) La Corte, in motivazione, dà atto della
sostanziale modifica del contesto normativo di riferimento
operato dal nuovo codice dei contratti pubblici sia in sede
nazionale che provinciale (essendo stata, in particolare,
abrogata la norma transitoria impugnata), ma ritiene che:
e1) lo ius superveniens
non possa venire in rilievo con riguardo a questioni
sollevate nell’ambito di giudizi di impugnazione di atti
amministrativi, in quanto, per il principio tempus regit
actum, la valutazione della legittimità del
provvedimento impugnato deve essere svolta con riguardo alla
situazione di fatto e di diritto esistente al momento della
sua adozione;
e2) non sussistano, pertanto, i
presupposti per la restituzione degli atti al giudice a quo
ai fini di un nuovo esame della rilevanza e della non
manifesta infondatezza della questione, risultando
ininfluente lo ius novum nel giudizio principale.
IV. - Per completezza, con riferimento al soccorso istruttorio, si
segnala quanto segue:
f)
Corte di giustizia UE, sez. VIII, sentenza 28.02.2018, nelle
cause riunite C-523/16 e C-536/16, MA.T.I. SUD
Spa/Centostazioni Spa e Duemme SGR Spa/CNPR (oggetto della
News US in data 07.03.2018, cui si rinvia anche
per ulteriori approfondimenti giurisprudenziali e
dottrinali), secondo cui, tra l’altro, il diritto
dell’Unione, i principi relativi all’aggiudicazione degli
appalti pubblici e il principio di proporzionalità “devono
essere interpretati nel senso che non ostano, in linea di
principio, a una normativa nazionale che istituisce un
meccanismo di soccorso istruttorio in forza del quale
l’amministrazione aggiudicatrice può, nel contesto di una
procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, invitare
l’offerente la cui offerta sia viziata da irregolarità
essenziali, ai sensi di detta normativa, a regolarizzare la
propria offerta previo pagamento di una sanzione pecuniaria,
purché l’importo di tale sanzione rimanga conforme al
principio di proporzionalità, circostanza questa che spetta
al giudice del rinvio verificare”;
g)
Corte di giustizia UE, sez. VIII, sentenza 10.05.2017,
C-131/16, Archus (oggetto della
News US in data 19.05.2017, cui si rinvia anche
per approfondimenti giurisprudenziali e dottrinali, nonché
in Foro amm., 2017, 999) che, nel dettare i requisiti del
soccorso istruttorio, esclude espressamente, da un lato, che
la richiesta di chiarimenti possa condurre alla
presentazione di quella che sarebbe in realtà una nuova
offerta e, dall’altro, che essa possa ovviare alla mancanza
di un documento o di un’informazione la cui comunicazione
era richiesta dai documenti dell’appalto;
h)
Corte di giustizia UE, sez. VI, sentenza 02.06.2016, in
causa C-27/15, Pippo Pizzo (oggetto della
News US in data 05.07.2016, nonché in Foro it.,
2017, IV, 206, con nota di CONDORELLI, e in Riv. trim.
appalti, 2016, 655), in punto di necessaria chiarezza della
disciplina di gara e sulla conseguente necessità di soccorso
istruttorio ove l’operatore economico sia caduto in errore
per ambiguità della normativa di gara o errore della
stazione appaltante;
i) Corte di giustizia UE, sez. X, sentenza
06.11.2014, C-42/13, Cartiera d’Adda in Urb. e app., 2015,
137, con nota di PATRITO, e in Dir. proc. amm., 2015, 1006,
con nota di MAMELI;
j) sull’evoluzione normativa dell’istituto del
soccorso istruttorio e del correlato principio di
tassatività delle cause di esclusione si veda R. DE NICTOLIS,
I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1054-1088, che
analizza dettagliatamente i singoli passaggi disciplinari ed
interpretativi, la cui scansione può essere sintetizzata con
richiamo alle fonti succedutesi nel tempo:
j1) art. 46, comma 1, d.lgs. n.
163 del 2006 nella sua originaria versione, sulla quale si è
pronunciato Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 9 (in
Foro it., 2014, III, 429, con note di TRAVI e SIGISMONDI, e
in Dir. proc. amm., 2014, 544, nota di BERTONAZZI), secondo
cui il potere di soccorso “non consente la produzione
tardiva del documento o della dichiarazione mancante o la
sanatoria della forma omessa, ove tali adempimenti siano
prescritti a pena di esclusione dal codice dei contratti
pubblici o dal suo regolamento d’attuazione o dalle leggi
dello Stato”;
j2) disciplina del d.lgs. n.
163 del 2006 novellata dal decreto-legge n. 90 del 2014, che
introduce il comma 1-ter all’art. 46 e il comma 2-bis
all’art. 38, ampliando significativamente le possibilità di
soccorso istruttorio e introducendo il soccorso a pagamento
(su tale disciplina A. CASTELLI, Il soccorso istruttorio <a
pagamento> tra contrasti giurisprudenziali e riforma codicistica, in Urb. e app., 2016, 1251);
j3) artt. 56, par. 3, direttiva
2014/24/UE e 76, par. 4, direttiva 2014/25/UE su cui C.
LAMBERTI e S. VILLAMENA, Nuove direttive appalti: <sistemi
di selezione> e <criteri di aggiudicazione>, in Urb. e app.,
2015, 873;
j4) art. 83, comma 9, d.lgs. n.
50 del 2016, sulla quale S. USAI, Il soccorso istruttorio
integrativo nel nuovo codice degli appalti, in Urb. e app.,
2016, 1139 e L. TARANTINO, Il soccorso istruttorio nel
vecchio e nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Urb. e
app., 2017, 127;
j5) infine la disciplina del
codice del 2016 novellata dal d.lgs. n. 57 del 2017, sul
quale F. APERIO BELLA, Le novità in tema di soccorso
istruttorio, in M.A. SANDULLI, M. LIPARI, F. CARDARELLI (a
cura di), Il correttivo al codice dei contratti pubblici,
Milano, 2017, 227 e F. MASTRAGOSTINO, Motivi di esclusione e
soccorso istruttorio dopo il correttivo al codice dei
contratti pubblici, in Urb. e app., 2017, 745;
k) sui più recenti orientamenti
giurisprudenziali:
k1) per una panoramica
generale: S. CRESTA e L. POLITO, Percorsi di giurisprudenza
– Il soccorso istruttorio nella contrattualistica pubblica,
in Giur. it., 2017, 2516 e, per gli anni precedenti, A.
MANZI, Percorsi di giurisprudenza – il soccorso istruttorio
negli appalti e negli altri procedimenti, in Giur. it.,
2016, 2520;
k2) Cons. Stato, sez. V,
14.07.2017, n. 3645, ove si afferma che, rispetto ai
requisiti di partecipazione, la stazione appaltante è libera
di attivare il soccorso istruttorio in favore dell’impresa
concorrente anche in un momento successivo
all’aggiudicazione in favore di quest’ultima, configurando
quindi una sorta di soccorso istruttorio “postumo”;
k3) in tema di c.d. <soccorso
istruttorio processuale>:
1. Cons. Stato, sez. III, 02.03.2017, n. 976, affronta
funditus il tema della ammissibilità anche di un
soccorso istruttorio “processuale”, con riferimento
all’ipotesi in cui la stazione appaltante abbia
illegittimamente ammesso alla gara un’offerta carente, sotto
il profilo meramente formale, del prescritto supporto
documentale e si evidenzi che la riscontrata carenza
documentale e probatoria, se accertata tempestivamente nel
corso dello svolgimento della procedura di gara, non avrebbe
consentito l’immediata esclusione dell’offerta, ma avrebbe
imposto alla stazione appaltante l’attivazione del
procedimento del soccorso istruttorio; a fronte della
contestazione in sede giudiziaria della altrui ammissione
alla procedura, per carenza formale, ad avviso della
sentenza in esame, il giudice non ha il potere di rilevare
d’ufficio la sanabilità del vizio di forma e la concreta
sussistenza del requisito controverso; non è neppure
necessario però che l’aggiudicatario illegittimamente
ammesso alla gara articoli un ricorso incidentale, teso ad
evidenziare l’ulteriore illegittimità commessa dalla
stazione appaltante, consistente nella omessa attivazione
del procedimento di soccorso istruttorio, potendosi invece
limitare ad una deduzione difensiva, in seno alla quale però
deve assolvere l’onere della prova (ex art. 2697 c.c.) circa
la sanabilità o meno dell’irregolarità commessa;
2. l’ammissibilità del c.d. “soccorso istruttorio
processuale” è stata successivamente confermata anche da
Cons. Stato, sez. V, 27.12.2017, n. 6078 e da Cons. Stato,
sez. V, 11.12.2017, n. 5826.
V. – Con riferimento al principio per cui nel processo
amministrativo impugnatorio la legittimità del provvedimento
deve essere valutata alla data di emanazione dell’atto si
segnala:
l) Corte cost., 09.03.2016, n. 49 (in Riv. giur.
edilizia, 2016, I, 8, con nota di STRAZZA, e in Giur. it.,
2016, 2233, con nota di VIPIANA PERPETUA), secondo cui,
analogamente alla ordinanza in commento, lo ius
superveniens non può venire in evidenza nel giudizio di
costituzionalità sollevato dai giudici amministrativi
poiché, secondo il principio tempus regit actum, la
valutazione della legittimità del provvedimento impugnato va
condotta con riguardo alla situazione di fatto e di diritto
esistente al momento della sua adozione. Nel medesimo senso
si vedano anche: Corte cost., 17 febbraio 2016, n. 30, in
Foro it., 2016, I, 1126 e in Giur. costit., 2016, 176, con
nota di DIOTALLEVI, secondo cui “in base al principio
tempus regit actum, alla stregua del quale si definiscono le
condizioni di validità di un provvedimento amministrativo,
la legittimità del diniego di nulla-osta va valutata in base
alla norma vigente al momento della sua adozione”; Corte
cost., 29.05.2014, n. 151, in Foro it., 2015, I, 1183,
in Giur. costit., 2014, 2431, in Rass. dir. farmaceutico,
2014, 763, in Ragiufarm, 2014, 144, 10 e in Ragiusan, 2014,
365, 168; Corte cost., 22.05.2013, n. 90, in Foro it., 2013,
I, 2061, in Dir. e giur. agr. e ambiente, 2013, 591, con
nota di GORLANI, e in Giur. costit., 2013, 1552; Corte
cost., 11.07.2012, n. 177, in Foro it., 2012, I, 2571 e in
Giur. costit., 2012, 2623; Corte cost., 11.06.2010, n.
209, in Foro it., 2011, I, 375, in Giur. costit., 2010,
2417, con nota di ESPOSITO, in Quaderni regionali, 2011, 310
e in Riv. giur. edilizia, 2010, I, 1025; Corte cost.,
20.11.2000, n. 509, in Foro it., 2001, I, 1475, in Ammin. it.,
2001, 287, in Giust. amm., 2001, 92, in Ragiusan, 2000, 199,
149, in Giur. costit., 2000, 4003, in Rass. amm. sanità,
2000, 472, in Quaderni regionali, 1999, 710, in Cons. Stato,
2000, II, 2193 e in Giur. it., 2001, 2372;
m) Cons. Stato, Ad. plen., 04.05.2012, n. 8 (in
Guida al dir., 2012, 23, 82, con nota di PONTE, in Corriere
merito, 2012, 745, con nota di RAIOLA, in Urb. e app., 2012,
905, con nota di D’HERIN, in Dir. e pratica amm., 2012, 9,
72, con nota di TOSCHEI, in Riv. neldiritto, 2012, 1601, con
nota di BERTOLINI, in Giurisdiz. amm., 2012, 13 e in Foro
amm.-Cons. Stato, 2012, 2234, con nota di GOTTI), secondo
cui la legittimità di un provvedimento va valutata al
momento della sua adozione, essendo irrilevanti i fatti
successivi; sicché la revoca dell’intera gara in autotutela,
peraltro consequenziale alla circostanza delle numerose
esclusioni e dei numerosi contenziosi pendenti, è del tutto
irrilevante e non fa venire meno né l’imputabilità al
concorrente della causa di esclusione, e dunque
l’incameramento della cauzione, né le ragioni legislative
sottese all’istituto della cauzione;
n) nel senso che la legittimità del provvedimento
amministrativo vada valutata in applicazione del principio
tempus regit actum, si vedano, tra le altre: Cons.
Stato, sez. VI, 01.02.2018, n. 663; Cons. Stato, sez. IV,
14.11.2017, n. 5231; Cons. Stato, sez. V, 06.09.2017, n.
4216; Cons. Stato, sez. VI, 05.07.2017, n. 3311; Cons.
Stato, sez. III, 27.06.2017, n. 3131; Cons. Stato,
21.06.2017, n. 3001; Cons. Stato, sez. III, 30.05.2017, n.
2576; Cons. Stato, sez. IV, 12.04.2017, n. 1700, in Foro amm.,
2017, 830 (Corte
Costituzionale,
ordinanza 13.04.2018 n. 76 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Collegamento
sostanziale tra imprese partecipanti a una gara pubblica.
In una gara di pubblico
appalto gli indizi di collegamento sostanziale tra imprese
partecipanti devono essere valutati di volta in volta con
riguardo alle concrete modalità di svolgimento della gara
stessa, tenendo presente che ratio della normativa è evitare
che sia non solo lesa, ma anche messa in pericolo la
correttezza della serie procedimentale finalizzata alla
scelta del contraente con la stazione appaltante, come si
ricava, infatti, dalla giurisprudenza penalistica sulla
quale quella amministrativa è stata elaborata, secondo la
quale il reato di turbata libertà degli incanti sussiste non
solo quando con l'uso dei mezzi previsti dall'art. 353 c.p.
la gara non può essere effettuata, restando essa deserta, ma
anche quando si disturba il suo regolare svolgimento,
influenzandone e alterandone il risultato che, senza
l'intervento perturbatore, avrebbe potuto essere diverso; il
bene protetto dalla norma non è, infatti, soltanto la
libertà di partecipare alle gare nei pubblici incanti o
nelle licitazioni private, ma anche la libertà di chi vi
partecipa ad influenzarne l'esito secondo la libera
concorrenza e il gioco della maggiorazione delle offerte.
La sussistenza di una posizione di controllo societario ai
sensi dell’articolo 2359 Cod. civ., ovvero la sussistenza di
una più generica relazione, anche di fatto, fra due
concorrenti è condizione necessaria, ma non anche
sufficiente perché si possa inferire il reciproco
condizionamento fra le offerte formulate; a tal fine è
altresì necessario che venga fornita adeguata prova circa il
fatto che la situazione di controllo o la relazione comporti
che le offerte sono imputabili a un unico centro
decisionale; tale prova, riferita alle concrete circostanze
del caso, riguarda l’esistenza di un unico centro
decisionale e non anche la concreta idoneità ad alterare il
libero gioco concorrenziale, ciò in quanto la
riconducibilità di due o più offerte a un unico centro
decisionale costituisce ex se elemento idoneo a violare i
generali principi in tema di par condicio, segretezza e
trasparenza delle offerte
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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Tali elementi concretizzano senza alcun dubbio i plurimi ed
univoci gravi indizi idonei a comprovare la sussistenza di
un collegamento sostanziale idoneo a turbare l’esplicazione
della libera concorrenza nella procedura concorsuale in
questione.
Ed invero, come risulta dal costante orientamento della
giurisprudenza amministrativa al quale pure questo Tribunale
si è graniticamente conformato da più di un decennio (cfr.,
per tutte, Tar Lombardia, sez. I, 18.05.2007, n. 4508): “In
una gara di pubblico appalto gli indizi di collegamento
sostanziale tra imprese partecipanti devono essere valutati
di volta in volta con riguardo alle concrete modalità di
svolgimento della gara stessa, tenendo presente che ratio
della normativa è evitare che sia non solo lesa, ma anche
messa in pericolo la correttezza della serie procedimentale
finalizzata alla scelta del contraente con la stazione
appaltante”.
Come si ricava, infatti, dalla giurisprudenza penalistica
sulla quale quella amministrativa è stata elaborata: “Il
reato di turbata libertà degli incanti sussiste non solo
quando con l'uso dei mezzi previsti dall'art. 353 c.p. la
gara non può essere effettuata, restando essa deserta, ma
anche quando si disturba il suo regolare svolgimento,
influenzandone e alterandone il risultato che, senza
l'intervento perturbatore, avrebbe potuto essere diverso; il
bene protetto dalla norma non è, infatti, soltanto la
libertà di partecipare alle gare nei pubblici incanti o
nelle licitazioni private, ma anche la libertà di chi vi
partecipa ad influenzarne l'esito secondo la libera
concorrenza e il gioco della maggiorazione delle offerte”.
Tale elaborazione è stata confermata, peraltro, anche di
recente, seppure in relazione alle previsioni del d.lgs. n.
163/2006, dal giudice di appello, per il quale: “L’art.
38, comma 1, lettera m-quater) del precedente Codice dei
contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 2006) è stata
introdotta dal legislatore nazionale (articolo 3, comma 1
del d.l. 25.09.2009, n. 135 convertito, con modificazioni,
dalla l. 20.11.2009, n. 166) al fine di conformarsi ai
rilievi sollevati dalla Corte di giustizia UE con la
sentenza 19.05.2009, in causa C-538/07. La Corte aveva
stigmatizzato la previsione di cui all’articolo 10, comma
1-bis, della l. 11.02.1004, n. 109, censurando il divieto di
sostanziale partecipazione contestuale da parte di imprese
per le quali sussistesse un rapporto di controllo o di
collegamento ai sensi dell’articolo 2359 Cod. civ., senza
lasciare alle imprese coinvolte la possibilità di dimostrare
che il rapporto suddetto non aveva in realtà influito sul
loro rispettivo comportamento nell’ambito di tale gara".
In base ad un consolidato orientamento, la sussistenza di
una posizione di controllo societario ai sensi dell’articolo
2359 Cod. civ., ovvero la sussistenza di una più generica “relazione,
anche di fatto” (secondo una formulazione
comprensibilmente ampia) fra due concorrenti è condizione
necessaria, ma non anche sufficiente perché si possa
inferire il reciproco condizionamento fra le offerte
formulate. A tal fine (recependo un’indicazione fornita in
modo netto dalla Corte di giustizia) è altresì necessario
che venga fornita adeguata prova circa il fatto “[che] la
situazione di controllo o la relazione comporti che le
offerte sono imputabili a un unico centro decisionale”.
Tale prova, riferita alle concrete circostanze del caso,
riguarda l’esistenza di un unico centro decisionale e non
anche la concreta idoneità ad alterare il libero gioco
concorrenziale. Ciò, in quanto la riconducibilità di due o
più offerte a un unico centro decisionale costituisce ex
se elemento idoneo a violare i generali principi in tema
di par condicio, segretezza e trasparenza delle offerte (in
tal senso, ex multis, Cons. Stato, V, 18.07.2012, n.
4189).
L’onere della prova del collegamento tra imprese ricade
sulla stazione appaltante o, comunque, sulla parte che ne
affermi l’esistenza, al fine della loro esclusione dalla
gara, dimostrazione che deve necessariamente fondarsi su
elementi di fatto univoci –non suscettibili cioè di letture
alternative o dubbie– desumibili sia dalla struttura
imprenditoriale dei soggetti coinvolti (ossia dal loro
assetto interno, personale o societario - cd. aspetto
formale), sia dal contenuto delle offerte dalle stesse
presentate (cd. aspetto sostanziale).
Inoltre, ai fini della predetta esclusione non è sufficiente
una generica ipotesi di collegamento “di fatto”,
essendo necessario che per tale via risulti concretamente
inciso l’interesse tutelato dalla norma, volta ad impedire
un preventivo concerto delle offerte (ex multis,
Cons. Stato, V, 16.12.2016 n. 5324) tale da comportare un
vulnus al principio di segretezza delle stesse” (Cons.
Stato, V, 04.01.2018, n. 58; 11.07.2016, n. 3057) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 12.04.2018 n. 972
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EDILIZIA PRIVATA: Opere
a scomputo oneri.
Come prevede ora l'art. 45 della l.r. n.
12/2005 (e l'art. 16 del d.p.r. n. 380/2001), lo scomputo
del valore delle opere di urbanizzazione non configura un
diritto dell'operatore, ma una mera possibilità, per la
quale occorre sempre il consenso e l'autorizzazione
dell'amministrazione.
L’ammissione allo scomputo
costituisce, infatti, l’oggetto di una valutazione
ampiamente discrezionale da parte dell'Amministrazione che
può optare per un diverso assetto di rapporti da essa
reputato maggiormente servente l'interesse pubblico e la
collettività di riferimento
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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Parimenti infondata è l’ulteriore eccezione di inammissibilità del
ricorso per carenza di interesse e intervenuta acquiescenza
incentrata sul fatto che il versamento degli oneri
concessori, conseguente alla nuova funzione, sia stato
richiesto e accettato dallo stesso operatore.
La circostanza che con l'istanza 22.05.2005 (cfr. doc. 10)
l'Impresa stessa si fosse detta pronta a versare la
differenza degli oneri conseguenti alla propria richiesta di
inserimento della destinazione direzionale, e che con la
successiva nota del 02.12.2005 (doc. 12) avesse presentato il
computo dei maggiori oneri urbanizzativi che da detta nuova
destinazione sarebbero conseguiti, senza richiedere di
variare la convenzione o di essere ammessa allo scomputo
degli oneri indotti dalla nuova funzione è, infatti,
circostanza che può rilevare sul giudizio di merito ma non
sulla ammissibilità dell’azione.
Ciò in quanto la domanda di restituzione riguarda somme di
denaro e per questa parte il rapporto controverso ha natura
paritetica, cosicché il pagamento delle somme in questione
non implica alcuna acquiescenza da parte del debitore, e per
l’effetto esclude l’inammissibilità del ricorso.
Nel merito tuttavia la domanda di ripetizione delle somme
per cui è causa è infondata per le convincente ragioni
opposte dall’amministrazione resistente.
Infatti è pacifico che con la delibera consiliare 28.04.2006
n. 31 di autorizzazione al c.d. diverso mix funzionale, vale
a dire la destinazione terziaria/direzionale (cfr. doc. 15)
l’amministrazione ha accolto la richiesta dell'Impresa,
senza dare luogo ad alcuna modifica al rapporto
sinallagmatico cristallizzato nella convenzione urbanistica
corrente tra le parti.
E, infatti, in termini coerenti con la propria richiesta,
l'Impresa non ha contestato né la suddetta delibera
consiliare 28.04.2006 n. 31, né le varie richieste comunali
che hanno richiesto il contributo (docc. 13, 22), e che sono
state puntualmente eseguite dopo aver proceduto a fornire
all’amministrazione la precisa quantificazione degli oneri
dovuti per la superficie direzionale assentita.
Ebbene è noto, al riguardo, che il contributo per oneri di
urbanizzazione ha natura di prestazione patrimoniale
causale, posta a carico del costruttore a titolo di
partecipazione al costo delle opere di urbanizzazione
connesse alle esigenze della collettività, che conseguono
agli interventi di edificazione e al maggior carico
urbanistico che si realizza nella zona in ordine all'aumento
della necessaria dotazione di servizi.
Ulteriore principio, qui rilevante, è quello che attiene
allo scomputo del valore delle opere di urbanizzazione dagli
importi dovuti per oneri di urbanizzazione:
come prevede ora
l'art. 45 della l. 12/2005 (e l'art. 16 del d.p.r. 380/2001) lo
scomputo del valore delle opere di urbanizzazione non
configura un diritto dell'operatore, ma una mera
possibilità, per la quale occorre sempre il consenso e
l'autorizzazione dell'amministrazione.
Ne consegue che, in difetto di autorizzazione e di accordo
espresso della p.a. sullo scomputo delle nuove opere, a
destinazione variata, dall'ammontare degli oneri,
l'operatore non dispone di alcuna pretesa tutelata diretta a
portare in detrazione dal valore delle suddette opere il
contributo di urbanizzazione dovuto.
L’ammissione allo scomputo costituisce, infatti, l’oggetto
di una valutazione ampiamente discrezionale da parte
dell'Amministrazione, che può optare per un diverso assetto
di rapporti da essa reputato maggiormente servente
l'interesse pubblico e la collettività di riferimento (cfr.
TAR Liguria, Sez. I, sentenza n. 955/2016; TAR
Trieste, I, 01.12.2016, n. 541; TAR Milano, II, 18.09.2013
n. 2184).
Il ragionamento non muta, e anzi la conclusione si rafforza,
come condivisibilmente sostiene l’amministrazione, a fronte
di una convenzione urbanistica sottoscritta, nella quale sia
già previsto lo scomputo (totale o parziale) dal contributo
dovuto del valore delle opere di urbanizzazione.
In quanto disciplinata dalla convenzione, l’eventuale
modifica del patto sinallagmatico regolante lo scomputo
presuppone pur sempre la convergente -e discrezionale-
espressione di volontà dell'Amministrazione e indi la
formazione di un accordo circa la diversa entità dello
scomputo (e di converso circa la diversa entità di introito
di oneri di urbanizzazione).
Ora, come sopra chiarito, nell'ambito delle proprie
discrezionali scelte urbanistiche, con l'originario piano
approvato in data 05.03.2004 e con la convenzione urbanistica
16.12.2004, il Comune ha espresso la scelta di autorizzare
la realizzazione di talune opere di urbanizzazione primaria
a scomputo in rapporto all'assetto del Piano così approvato,
comprendente destinazioni pressoché totalmente residenziali
e una limitata quota commerciale.
Altrettanto discrezionalmente ha ritenuto di lasciare
inalterato tale assetto allorquando -peraltro accedendo a
richiesta dell'operatore evidentemente più confacente ai
propri interessi imprenditoriali- il Comune ha ritenuto di
assentire con delibera C.C. 31/06 (doc. 15) un diverso mix
funzionale (direzionali/uffici), senza con ciò autorizzare
ulteriori scomputi degli oneri indotti dalle nuove
destinazioni né apportare modifica alcuna alla convenzione
urbanistica regolante i rapporti tra le parti, si può
supporre per una logica considerazione di opportunità
amministrativa in relazione al diverso -e più impattante-
equilibrio delle nuove funzioni.
Né appare corretta l'affermazione che con la delibera
consiliare 31/06 il Comune avrebbe "ritenuto che le opere
indicate a scomputo dall'Impresa consentissero a
quest'ultima di adempiere all'obbligo di contribuzione
previsto dall'art. 44 della Legge Regionale n. 12/2005,
anche a seguito dell'introduzione della nuova destinazione
direzionale nel Piano di Lottizzazione".
In realtà, tale delibera si è limitata a dare atto della
compatibilità delle funzioni richieste con il p.r.g. e della
possibilità di accedere alla modifica richiesta senza
apportare variante al Piano, ma —proprio per tale ragione e
comunque per una discrezionale scelta in tal senso- senza
intervenire su quanto previsto dalla convenzione per
l'attuazione dello strumento.
Emerge dunque in modo chiaro il contenuto dell'accordo inter
partes, nel quale è fissato un importo massimo di oneri
(euro 66.187,76,) da detrarsi dal valore delle opere
primarie (euro 154.670,93); la convenzione non prevede
affatto, come sostiene la parte ricorrente, che eventuali
oneri urbanizzativi derivanti da future e incerte modifiche
funzionali al piano esecutivo approvato avrebbero trovato
copertura sino a concorrenza del valore delle realizzande
opere urbanizzative.
Gli oneri sono stati, infatti, stimati all'atto della
presentazione del Piano esecutivo, rispetto alle
caratteristiche insediative e al mix funzionale risultante
dagli elaborati allegati alla convenzione 16.12.2004, ed è
esclusivamente rispetto a tali previsioni che il Comune ha
positivamente valutato la diretta realizzazione di
determinate opere di urbanizzazione primaria proposte da
Ie..
Attesa, dunque, la natura dell'atto convenzionale,
pienamente valida ed efficace, e costituente specifica fonte
dell'obbligazione pecuniaria contratta dall'Impresa, è priva
di fondamento la pretesa di quest’ultima di assegnare a tale
atto un significato diverso e difforme rispetto ai chiari
contenuti dell'obbligazione assunta, intesa
inequivocabilmente ed esclusivamente a scomputare i soli
oneri di urbanizzazione primaria, quantificati in euro
66.187,76, relativi al Piano esecutivo approvato con
delibera C.C. 63/2004.
Né appare decisivo il fatto, non contestato, che il valore
delle opere realizzate dalla società Ie., siano di
importo superiore rispetto agli oneri di urbanizzazione
primari derivanti tanto dall'originario titolo edilizio (d.i.a.
n. 60/2005) che dal successivo (d.i.a. n. 149/08).
Infatti, è assunto acquisito in giurisprudenza che
il
privato proponente un piano attuativo, nell'esercizio della
propria autonomia negoziale, ben può volontariamente
assumere con la convenzione urbanistica obblighi ulteriori a
quelli di legge, proprio in considerazione della natura di
accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento, che vede
il combinarsi di poteri pubblicistici e privatistici di
autoregolazione del reciproco assetto di interessi, con
l'assunzione di correlati obblighi e diritti di credito (ex multis TAR Trieste n. 541/2016; TAR. Milano n.
2184/2013 e 3717/2009; Cons. Stato, Sez. V, 26.11.2013, n.
5603).
Peraltro, la giurisprudenza non manca di evidenziare come
l'assunzione di obbligo eccedente il minimo legale possa
trovare giustificazione nell'ottenimento di benefici che la
convenzione urbanistica complessivamente comporta per il
privato, senza che possa dirsi perciò alterato l'equilibrio
del sinallagma contrattuale cristallizzato in convenzione.
Non può, infatti, sottacersi che il privato possa vantare un
interesse proprio alla realizzazione di opere di valore
superiore agli importi dovuti al Comune, anche allo scopo di
migliorare la qualità del contesto urbanizzato e
conseguentemente rendere commercialmente più appetibili le
edificazioni private (cfr. TAR Milano, Sez. II,
26.07.2016 n. 1507).
E d’altronde, anche se il pagamento degli oneri in
questione, come sopra rilevato, non può implicare
acquiescenza ai fini della domanda di ripetizione è evidente
come fosse implicito per le parti, e soprattutto per
l’impresa Ie., che la variazione di mix
terziaria-direzionale ottenuta era da porre in relazione
sinallagmatica con la prestazione, non scomputata, degli
oneri correlati alle diverse destinazioni assentite.
Il ricorso va quindi respinto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 10.04.2018 n. 954 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Clausola
sociale nelle gare pubbliche.
Nelle gare pubbliche la c.d. clausola
sociale deve essere interpretata in modo da non limitare la
libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di
attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente
escludente; l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle
dipendenze dell'appaltatore uscente, nello stesso posto di
lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere
armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di
impresa prescelta dall'imprenditore subentrante.
I lavoratori che non trovano spazio nell'organigramma
dell'appaltatore subentrante e che non vengono ulteriormente
impiegati dall'appaltatore uscente in altri settori sono
destinatari delle misure legislative in materia di
ammortizzatori sociali, ma la clausola non comporta invece
alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto
pubblico di assumere a tempo indeterminato e in forma
automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla
precedente impresa o società affidataria.
Sulla base di detti principi, è
illegittima una clausola di un bando che non si limita a
garantire il mantenimento in organico dei lavoratori già
impiegati presso il gestore uscente, ma impone un obbligo
specifico di assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori
in forze presso l’esecutore del servizio; la clausola
sociale, per come è prevista, non si limita, dunque, ad
assicurare i livelli occupazionali, ma si traduce in una
vera e propria sostituzione indebita nella struttura
organizzativa e nelle scelte imprenditoriali degli operatori
economici, imponendo la tipologia di contratto di lavoro da
stipulare
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
La censura è fondata.
Ed invero, mentre l’art. 6 del capitolato speciale si limita
a prevedere che: “ai sensi dell’art. 31 del CCNL 27.02.2014
per la categoria delle Agenzie di Somministrazione,
l’Agenzia aggiudicataria è tenuta a garantire il
mantenimento in organico dei lavoratori già utilizzati in
precedenza rilevando, per quanto possibile e ai sensi della
normativa vigente in materia, il personale utilizzato dal
precedente fornitore …” (capitolato, pag. 3), l’art. 14 del
medesimo capitolato, rubricato “responsabilità e oneri a
carico del fornitore”, stabilisce che: “sono compiti e
responsabilità dell’Agenzia fornitrice: assumere a tempo
indeterminato tutto il personale inviato in missione presso
gli Enti” (pag. 9).
La clausola sociale, per come è prevista, non si limita,
dunque, ad assicurare i livelli occupazionali, ma si traduce
in una vera e propria sostituzione indebita nella struttura
organizzativa e nelle scelte imprenditoriali degli operatori
economici, imponendo la tipologia di contratto di lavoro da
stipulare.
Circostanza che la rende contraria alla libertà d’impresa e
di organizzazione imprenditoriale, alla luce della costante
interpretazione delle norme nazionali ed eurounitarie
vigenti in materia che la giurisprudenza ha fornito, quale
principio fondamentale posto a tutela del mercato e della
massima partecipazione alle gare pubbliche.
In proposito, pare opportuno richiamare, innanzitutto,
l’approdo cui è pervenuta la Corte di giustizia dell’unione
europea, che ha da sempre sostenuto che le clausole sociali
vadano formulate in modo da contemperarne l’applicazione ai
principi di “libertà di stabilimento”, di “libera
prestazione dei servizi”, di “concorrenza” e di “libertà di
impresa” (cfr., fra le tante, Corte di giustizia europea,
grande sezione, 15.07.2015, causa C-271/2008; sez. IX,
18.09.2014, causa C-549/13).
Anche la Corte costituzionale ha affermato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 30 l. reg. Puglia 25.02.2010
n. 4, quanto al comma 1 del sostituito art. 25 l.reg. 03.08.2007 n. 25: “limitatamente alle parole "a tempo
indeterminato". Premesso che l'art. 25 l.reg. n. 25 del
2007, nella sua formulazione originaria, disponeva che
"Fatte salve le previsioni della contrattazione collettiva,
ove più favorevoli, la Regione, gli enti, le aziende e le
società strumentali della Regione devono prevedere nei bandi
di gara, avvisi e, comunque, nelle condizioni di contratto
per appalti di servizi l'utilizzo del personale già assunto
dalla precedente impresa appaltatrice, nonché le condizioni
economiche e contrattuali già in essere", la disposizione
censurata introduce uno strumento diverso dalla "clausola
sociale", in quanto non si limita a prevedere il
mantenimento in servizio di personale già assunto, ma
stabilisce in modo automatico e generalizzato l'"assunzione
a tempo indeterminato" del personale già "utilizzato" dalla
precedente impresa o società affidataria dell'appalto; in
tal modo viola l'art. 97 cost., e le norme interposte
dettate dall'art. 18 d.l. n. 112 del 2008, come modificato
dall'art. 19, comma 1, d.l. n. 78 del 2009, in materia di
reclutamento del personale delle società a partecipazione
pubblica, sotto il profilo della "imparzialità dell'azione
amministrativa e uniformità della stessa sul territorio
nazionale", nonché sotto il profilo del buon andamento
(sent. n. 267 del 2010)” (cfr. Corte Cost., 03.03.2011, n.
68).
Del resto, la giurisprudenza amministrativa ha costantemente
affermato che: “Nelle gare pubbliche la c.d. clausola
sociale deve essere interpretata conformemente ai principi
nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa
imprenditoriale e di concorrenza, risultando altrimenti essa
lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione
alla gara e limitando ultroneamente la platea dei
partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d'impresa,
riconosciuta e garantita dall'art. 41 Cost., che sta a
fondamento dell'autogoverno dei fattori di produzione e
dell'autonomia di gestione propria dell'archetipo del
contratto di appalto; la suddetta clausola deve quindi
essere interpretata in modo da non limitare la libertà di
iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un
effetto automaticamente e rigidamente escludente; l'obbligo
di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze
dell'appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel
contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e
reso compatibile con l'organizzazione di impresa prescelta
dall'imprenditore subentrante; i lavoratori, che non trovano
spazio nell'organigramma dell'appaltatore subentrante e che
non vengano ulteriormente impiegati dall'appaltatore uscente
in altri settori, sono destinatari delle misure legislative
in materia di ammortizzatori sociali, ma la clausola non
comporta invece alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria
di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed
in forma automatica e generalizzata il personale già
utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria”
(cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. III, 05.05.2017,
n. 2078, nonché, da ultimo, sez. V, 17.01.2018, n.
272).
Peraltro, l’art. 3 della legge della regione Lombardia 24.11.2017, n. 26, citato dalle controparti a sostegno
della loro tesi, non prevede alcun obbligo di assunzione a
tempo indeterminato, ma prevede solo la facoltà di
assorbire, compatibilmente con la gestione efficiente dei
lavori e servizi da affidare e con la libera organizzazione
di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante, il
personale adibito all’esecuzione del lavoro o allo
svolgimento del servizio oggetto dell’affidamento,
tutelando, dunque, il mantenimento in organico dei
lavoratori.
Né può affermarsi che l’obbligo di assunzione previsto dalla
clausola sociale, la cui ratio risponde a tutelare il
livello occupazionale dei lavoratori, possa variare in
ragione della specifica fonte da cui trae origine (nella
specie protocollo d’intesa tra Regione e sindacato e
contrattazione collettiva), atteso che, come è stato
osservato: “La latitudine applicativa degli obblighi
connessi alla c.d. "clausola sociale" come sopra delineata,
confermata dalla giurisprudenza eurounitaria (si vedano
Corte di Giustizia dell'Unione Europea 09/12/2004 in
C-460/2002 e 14/07/2005 in C-386/2003) non varia,
diversamente da quanto ritenuto dai giudici di prime cure,
in ragione della fonte da cui la stessa trae origine. …
Invero l'obbligo di riassorbimento del personale impiegato
dal precedente appaltatore va comunque armonizzato con
l'organizzazione d'impresa prescelta dall'imprenditore
subentrante, e ciò anche laddove tale obbligo sia previsto
dalla contrattazione collettiva. … Infatti la libertà di
iniziativa economica implica, di necessità, che a ciascun
imprenditore sia consentito, nei limiti segnati
dall'ordinamento, di organizzare la propria impresa come
meglio ritiene e ciò si oppone ad un'interpretazione tale da
compromettere la detta prerogativa e che privilegi una
scelta fatta a monte, inevitabilmente generalizzata ed
avulsa dal contesto specifico della singola organizzazione
aziendale.
In definitiva la c.d. "clausola sociale", qualunque sia la
fonte da cui derivi, dev'essere armonizzata con
l'organizzazione aziendale dell'imprenditore subentrante”
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.01.2018, n. 272).
Alla luce delle suesposte considerazioni, assorbendosi
l’ulteriore motivo di doglianza, il ricorso va accolto e,
per l’effetto, va disposto l’annullamento dei provvedimenti
impugnati (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 06.04.2018 n. 936
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Impugnazione
avverso il criterio di scelta del contraente.
E' inammissibile l’impugnazione avverso
il criterio di scelta del contraente; l'onere di immediata
impugnazione delle clausole del bando di gara o di concorso,
o della lettera di invito a prendere parte ad una procedura
selettiva, deve essere limitato esclusivamente a quelle
concernenti i requisiti di partecipazione impeditive
dell'ammissione dell'interessato alla medesima procedura
selettiva o che impongano, ai fini della partecipazione,
oneri assolutamente incomprensibili o manifestamente
sproporzionati ai caratteri della gara e che comportino,
quindi, l'impossibilità, per l'interessato, di accedere alla
procedura
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
Tanto premesso, il collegio ritiene che il ricorso sia da dichiararsi
inammissibile, risultando, sul punto, garantito il pieno
contraddittorio in considerazione del contenuto dell’istanza
di rinvio depositata dalla società ricorrente l’08.02.2018 -e non accolta in considerazione sia della
ratio
acceleratoria sottesa alla specialità del rito in materia di
appalti pubblici, sia in ragione del prelievo richiesto
proprio dall’interessata– nella quale la società ricorrente
mostra di essere pienamente consapevole della nota
problematica connessa alle possibili determinazioni
giurisdizionali in ordine all’impugnazione della lex
specialis di gara proposta prima dell’aggiudicazione della
stessa.
Ed invero, nonostante il Consiglio di Stato si sia di
recente espresso con un’isolata pronuncia in favore
dell’ammissibilità del ricorso giurisdizionale proposto
avverso gli atti di gara che prevedano illegittimamente
quale criterio di scelta del contraente quello del prezzo
più basso per effetto delle novità normative di diritto
sostanziale e processuale introdotte nel codice dei
contratti pubblici e nel codice del processo amministrativo
(Cons. Stato, sez. III, 02.05.2017, n. 2014), la stessa
sezione terza del Consiglio di Stato ha deciso di rimettere
la questione all’adunanza plenaria (Cons. Stato, sez. III,
ordinanza 07.11.2017, n. 5138), in considerazione del
granitico orientamento esistente, sul punto, sin dalla
storica pronuncia della medesima adunanza plenaria 29.01.2003, n. 1, per il quale i bandi di gara e di
concorso e le lettere di invito vanno normalmente impugnati
unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal
momento che sono questi ultimi ad identificare in concreto
il soggetto leso dal provvedimento, ed a rendere attuale e
concreta la lesione della situazione soggettiva
dell'interessato.
A fronte, infatti, della clausola
illegittima del bando di gara o del concorso, il
partecipante alla procedura concorsuale non è ancora
titolare di un interesse attuale all'impugnazione, dal
momento che egli non sa ancora se l'astratta e potenziale
illegittimità della predetta clausola si risolverà in un
esito negativo della sua partecipazione alla procedura
concorsuale, e quindi in una effettiva lesione della
situazione soggettiva, che solo da tale esito può derivare.
L'onere di immediata impugnazione delle clausole del bando
di gara o di concorso, o della lettera di invito a prendere
parte ad una procedura selettiva, deve essere limitato
esclusivamente a quelle concernenti i requisiti di
partecipazione impeditive dell'ammissione dell'interessato
alla medesima procedura selettiva o che impongano, ai fini
della partecipazione, oneri assolutamente incomprensibili o
manifestamente sproporzionati ai caratteri della gara e che
comportino, quindi, l'impossibilità, per l'interessato, di
accedere alla procedura.
Il collegio ritiene, dunque, di non potersi discostare, allo
stato, da tale orientamento, tutt’ora costante eccetto che
per l’isolata pronuncia succitata.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
dichiarato inammissibile (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 04.04.2018 n. 913
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ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
E’ noto che l’impugnazione dei
provvedimenti amministrativi deve essere proposta entro il
termine di decadenza di sessanta giorni (articolo 29 cod.
proc. amm.), e
che tale termine –entro il quale il ricorso deve essere
notificato alla pubblica amministrazione che ha emesso
l'atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati
(articolo 41, comma 2, cod. proc. amm.)– decorre “dalla
notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per
gli atti di cui non sia richiesta la notificazione
individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della
pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base
alla legge” (così ancora l’articolo 41, comma 2, cod. proc. amm.).
E ciò ferma restando la possibilità di proporre
successivamente motivi aggiunti, al fine di “introdurre
(...) nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte,
ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte”
(articolo 43, comma 1, cod. proc. amm.).
Al riguardo, costituisce acquisizione pacifica in
giurisprudenza, che il concetto di “piena conoscenza”
dell'atto lesivo non debba essere inteso quale conoscenza
integrale del contenuto dei provvedimenti che si intendono
impugnare, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la
cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento
finale. Ciò che è invece sufficiente ad integrare il
concetto di “piena conoscenza” –il verificarsi della quale
determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale– è la percezione dell'esistenza di un provvedimento
amministrativo e degli aspetti che ne determinano la lesività
della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da
rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad agire
contro di esso.
Tale soluzione è
fondata sulla considerazione che “mentre la consapevolezza
dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività,
integra la sussistenza di una condizione dell'azione,
rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all'impugnazione
dell'atto (così determinando quella “piena conoscenza”
indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del
provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce
sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle
ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi”.
In questo senso
“è rilevante osservare che l'ordinamento prevede l'istituto
dei “motivi aggiunti”, per il tramite dei quali il
ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso
derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti
al momento di proposizione del ricorso ma ignoti) o dalla
conoscenza integrale di atti prima non pienamente
conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di
sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta”.
Proprio tale previsione comprova la fondatezza
dell'interpretazione ora esposta della nozione di “piena
conoscenza” dell'atto oggetto di impugnazione, poiché se la
conoscenza necessaria e sufficiente per far insorgere
l’onere di impugnazione dovesse essere intesa come
“conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei motivi
aggiunti rimarrebbe sostanzialmente privo di un proprio
spazio di operatività.
---------------
Con specifico riferimento all’impugnazione del permesso
di costruire, la giurisprudenza ha, inoltre, costantemente
affermato che “il principio delle certezza delle situazioni
giuridiche e di tutela di tutti gli interessati, deve far
ritenere che non si possa lasciare il soggetto titolare di
un permesso edilizio nella perdurante incertezza circa la
sorte del proprio titolo, perché, nelle more, il ritardo
nell'impugnazione da parte di chi vi abbia interesse (...)
si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso
all'ulteriore avanzamento dei lavori, che ex post potrebbero
essere dichiarati illegittimi.”.
Tale principio è infatti
“(...) posto a tutela di tutte le parti, direttamente o
indirettamente interessate al provvedimento, ivi compreso,
naturalmente, anche l’interesse del soggetto titolare del
permesso di costruire, eventualmente illegittimo, a non
realizzare affatto una costruzione che sia suscettibile di
un futuro abbattimento.”.
Da ciò la conseguenza che “qualora
sia oggetto di contestazione la stessa astratta possibilità
di edificare in un certo terreno (...), la mera conoscenza
dell'iniziativa in corso appare elemento sufficiente ed
essenziale ai fini dell'identificazione del dies a quo per
l'impugnazione”.
Pertanto, chi contesta la possibilità stessa (l’an)
dell’edificazione, e non semplicemente le modalità con cui
questa viene esercitata (il quomodo), ha l’onere di agire
senza indugio per tutelare i propri interessi legittimi,
essendo sufficiente, ai fini del decorso del termine per
l’impugnazione, che sia nota l'esistenza e la lesività del
titolo edilizio, dato che resta sempre salva la possibilità
di proporre motivi aggiunti, qualora dalla conoscenza
integrale del provvedimento e degli atti presupposti
emergano ulteriori profili di illegittimità dell’atto,
precedentemente non noti.
---------------
12. Il ricorso introduttivo del giudizio è in parte irricevibile e
in parte inammissibile, per le ragioni che si espongono di
seguito.
13. Va, anzitutto, accolta l’eccezione di tardività
dell’impugnazione del permesso di costruire n. 137 del 2012.
13.1 E’ noto che l’impugnazione dei provvedimenti
amministrativi deve essere proposta entro il termine di
decadenza di sessanta giorni (articolo 29 cod. proc. amm.), e
che tale termine –entro il quale il ricorso deve essere
notificato alla pubblica amministrazione che ha emesso
l'atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati
(articolo 41, comma 2, cod. proc. amm.)– decorre “dalla
notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per
gli atti di cui non sia richiesta la notificazione
individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della
pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base
alla legge” (così ancora l’articolo 41, comma 2, cod. proc. amm.).
E ciò ferma restando la possibilità di proporre
successivamente motivi aggiunti, al fine di “introdurre
(...) nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte,
ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte”
(articolo 43, comma 1, cod. proc. amm.).
13.2 Al riguardo, costituisce acquisizione pacifica in
giurisprudenza, che il concetto di “piena conoscenza”
dell'atto lesivo non debba essere inteso quale conoscenza
integrale del contenuto dei provvedimenti che si intendono
impugnare, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la
cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento
finale. Ciò che è invece sufficiente ad integrare il
concetto di “piena conoscenza” –il verificarsi della quale
determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale– è la percezione dell'esistenza di un provvedimento
amministrativo e degli aspetti che ne determinano la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in
modo da rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad
agire contro di esso (Cons. Stato, Sez. IV, 29.10.2015,
n. 4945; Id., 28.05.2012, n. 3159).
Tale soluzione –secondo quanto affermato dal Consiglio di
Stato con la richiamata sentenza n. 4945 del 2015– è
fondata sulla considerazione che “mentre la consapevolezza
dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività,
integra la sussistenza di una condizione dell'azione,
rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all'impugnazione
dell'atto (così determinando quella “piena conoscenza”
indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del
provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce
sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle
ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi”.
In questo senso –prosegue ancora la sentenza richiamata–
“è rilevante osservare che l'ordinamento prevede l'istituto
dei “motivi aggiunti”, per il tramite dei quali il
ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso
derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti
al momento di proposizione del ricorso ma ignoti) o dalla
conoscenza integrale di atti prima non pienamente
conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di
sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta”.
Proprio tale previsione comprova la fondatezza
dell'interpretazione ora esposta della nozione di “piena
conoscenza” dell'atto oggetto di impugnazione, poiché se la
conoscenza necessaria e sufficiente per far insorgere
l’onere di impugnazione dovesse essere intesa come
“conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei motivi
aggiunti rimarrebbe sostanzialmente privo di un proprio
spazio di operatività.
13.3 Con specifico riferimento all’impugnazione del permesso
di costruire, la giurisprudenza ha, inoltre, costantemente
affermato che “il principio delle certezza delle situazioni
giuridiche e di tutela di tutti gli interessati, deve far
ritenere che non si possa lasciare il soggetto titolare di
un permesso edilizio nella perdurante incertezza circa la
sorte del proprio titolo, perché, nelle more, il ritardo
nell'impugnazione da parte di chi vi abbia interesse (...)
si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso
all'ulteriore avanzamento dei lavori, che ex post potrebbero
essere dichiarati illegittimi.”.
Tale principio è infatti
“(...) posto a tutela di tutte le parti, direttamente o
indirettamente interessate al provvedimento, ivi compreso,
naturalmente, anche l’interesse del soggetto titolare del
permesso di costruire, eventualmente illegittimo, a non
realizzare affatto una costruzione che sia suscettibile di
un futuro abbattimento.”.
Da ciò la conseguenza che “qualora
sia oggetto di contestazione la stessa astratta possibilità
di edificare in un certo terreno (...), la mera conoscenza
dell'iniziativa in corso appare elemento sufficiente ed
essenziale ai fini dell'identificazione del dies a quo per
l'impugnazione” (così Cons. Stato, Sez. V, 02.10.2014,
n. 4901).
Pertanto, chi contesta la possibilità stessa (l’an)
dell’edificazione, e non semplicemente le modalità con cui
questa viene esercitata (il quomodo), ha l’onere di agire
senza indugio per tutelare i propri interessi legittimi,
essendo sufficiente, ai fini del decorso del termine per
l’impugnazione, che sia nota l'esistenza e la lesività del
titolo edilizio, dato che resta sempre salva la possibilità
di proporre motivi aggiunti, qualora dalla conoscenza
integrale del provvedimento e degli atti presupposti
emergano ulteriori profili di illegittimità dell’atto,
precedentemente non noti (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.04.2018 n. 884
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La denuncia di inizio attività non è
impugnabile in quanto tale poiché “non è un provvedimento
amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni
caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto
privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere
un’attività direttamente ammessa dalla legge”.
E in questo senso si è, del resto, da sempre orientata la
giurisprudenza della Sezione, la quale non ha mai dubitato
dell’inammissibilità dell’impugnazione diretta della
denuncia.
---------------
14. E’, poi, inammissibile l’impugnazione della successiva
denuncia di inizio attività.
14.1 La denuncia di inizio attività non è, infatti,
impugnabile in quanto tale, poiché “non è un provvedimento
amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni
caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto
privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere
un’attività direttamente ammessa dalla legge” (Ad. Plen. n.
15 del 2011).
E in questo senso si è, del resto, da sempre
orientata la giurisprudenza della Sezione, la quale non ha
mai dubitato dell’inammissibilità dell’impugnazione diretta
della denuncia (cfr. ex multis: TAR Lombardia, Milano, Sez.
II, 15.02.2017, n. 389; Id., 29.11.2016, n.
2251; Id., 14.01.2016, n. 80; v. inoltre, tra le meno
recenti: Id., 15.11.2007, n. 6361; Id., 10.05.2007, n. 2894).
14.2 Tale consolidato orientamento va quindi ribadito anche
in questa sede (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.04.2018 n. 884
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Gli atti del PGT acquistano efficacia “con la
pubblicazione dell'avviso della loro approvazione definitiva
sul Bollettino Ufficiale della Regione”, ai sensi
dell’articolo 13, comma 11, della legge regionale n. 12 del
2005.
E’, dunque, dalla data di pubblicazione dell’avviso che
decorre il termine per l’impugnazione del piano, trattandosi
di pubblicazione prevista dalla legge, ai sensi
dell’articolo 41, comma 2, cod. proc. amm..
---------------
15. E’, poi, tardiva l’impugnazione del PGT del Comune di
Seregno, approvato con delibera n. 51 del 28.06.2014.
15.1 Gli atti del PGT acquistano infatti efficacia “con la
pubblicazione dell'avviso della loro approvazione definitiva
sul Bollettino Ufficiale della Regione”, ai sensi
dell’articolo 13, comma 11, della legge regionale n. 12 del
2005.
E’, dunque, dalla data di pubblicazione dell’avviso che
decorre il termine per l’impugnazione del piano, trattandosi
di pubblicazione prevista dalla legge, ai sensi
dell’articolo 41, comma 2, cod. proc. amm.
15.2 Nel caso oggetto del presente giudizio, l’avviso di
approvazione del PGT è stato pubblicato sul BURL – Serie
avvisi e concorsi n. 5 del 28.01.2015, ma il piano è
stato impugnato mediante ricorso straordinario al Presidente
della Repubblica portato alla notifica soltanto il 18.02.2016.
15.3 Da ciò l’irricevibilità dell’impugnazione (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.04.2018 n. 884
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Istanza
di correzione di errori materiali e di rettifica degli atti
di PGT.
La disposizione dell’articolo 13, comma
14-bis, della legge regionale 11.03.2005 n. 12 è chiara
nell’attribuire al Consiglio comunale la competenza ad
approvare atti di correzione degli errori materiali
contenuti nel PGT.
Laddove venga presentata, da un soggetto
interessato, un’istanza diretta effettivamente a ottenere la
correzione di un mero errore materiale, la questione deve
essere perciò rimessa necessariamente all’Organo consiliare,
mentre deve reputarsi affetta da incompetenza una
determinazione di segno negativo sul merito dell’istanza
assunta dal Responsabile dell’ufficio comunale preposto al
settore della pianificazione urbanistica.
Ciò non esclude la possibilità per gli uffici comunali di
svolgere una funzione di “filtro” nei confronti delle
istanze manifestamente inammissibili, ossia non
effettivamente dirette alla correzione di errori materiali,
ma palesemente volte a ottenere una variante dello strumento
urbanistico; laddove, infatti, nonostante la qualificazione
formale, la richiesta sia diretta a provocare la
modificazione della pianificazione esistente, non gradita al
richiedente, essa non può certamente seguire l’iter
semplificato previsto dal richiamato articolo 13, comma
14-bis, della legge regionale n. 12 del 2005.
In questi casi è, perciò, coerente con la stessa previsione
normativa sopra richiamata che l’inammissibilità
dell’istanza venga dichiarata dagli stessi uffici comunali,
senza necessità di un pronunciamento dell’Organo consiliare.
Il predetto
“filtro” degli uffici deve, tuttavia, arrestarsi alla
qualificazione formale dell’istanza dell’interessato, ossia
deve accertare unicamente che quanto allegato sia
qualificabile propriamente come un errore materiale in cui
sia incorso l’Organo consiliare, ovvero come un errore
occorso nella trasposizione della volontà dell’Organo negli
elaborati di piano; non spetta, invece, agli uffici comunali
–a fronte dell’allegazione di dati idonei a far emergere un
potenziale profilo di errore materiale– pronunciarsi nel
merito della richiesta di correzione, essendo la relativa
competenza rimessa al Consiglio comunale
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
16. Può quindi passarsi all’esame del ricorso per motivi
aggiunti, con il quale i ricorrenti censurano il riscontro
negativo fornito dal Dirigente e dall’Assessore all’istanza
di correzione di errore materiale da essi presentata.
17. Al riguardo, vanno respinte le eccezioni sollevate dalle
parti resistenti, secondo le quali i motivi aggiunti
sarebbero irricevibili o inammissibili, in quanto diretti
sostanzialmente a provocare una rimessione in termini
rispetto alla tardiva impugnazione del PGT.
17.1 Come, infatti, subito si dirà, nel caso di specie
l’istanza avanzata dai ricorrenti presenta effettivamente i
caratteri di una richiesta diretta a ottenere la mera
rettifica di un supposto errore nella trasposizione in atti
della volontà consiliare.
A fronte di una tale istanza, a prescindere dall’esercizio
della tutela giurisdizionale da parte degli interessati,
deve reputarsi doveroso l’avvio di un’apposita istruttoria
procedimentale da parte del Comune, atteso che costituisce
anzitutto un interesse dell’Amministrazione emendare gli
eventuali errori presenti nella pianificazione.
Deve tenersi presente, del resto, che –a differenza delle
ipotesi in cui venga sollecitato l’esercizio del potere di
autotutela– la mera correzione di errori materiali non
implica, per sua natura, alcuna ponderazione di interessi,
non essendo astrattamente configurabile un interesse
pubblico alla conservazione di una pianificazione che si
riveli meramente errata.
17.2 Né può ritenersi che, nel caso di specie, la
determinazione comunale impugnata avesse carattere meramente
confermativo della pianificazione vigente, atteso che la
nota censurata prende invece posizione sulla concreta
portata della pianificazione ed esclude nel merito la
sussistenza di un errore materiale nella trasposizione della
volontà consiliare.
17.3 In questo senso, la nota costituisce perciò l’esito del
procedimento di correzione di errore materiale, per cui
sussiste sia la legittimazione che l’interesse dei
richiedenti a censurarla.
17.4 Da ciò il rigetto delle eccezioni proposte.
18. Nel merito, il ricorso per motivi aggiunti è fondato,
nei sensi e nei termini che si espongono di seguito.
18.1 L’articolo 13, comma 14-bis, primo periodo della legge
regionale 11.03.2005, n. 12, nel testo vigente al tempo
dell’adozione della determinazione impugnata, stabiliva che
“I comuni, con deliberazione del consiglio comunale
analiticamente motivata, possono procedere alla correzione
di errori materiali e a rettifiche degli atti di PGT, non
costituenti variante agli stessi”.
18.2 Come già rilevato dalla Sezione, la disposizione è
chiara nell’attribuire al Consiglio comunale la competenza
ad approvare atti di correzione degli errori materiali
contenuti nel PGT (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 19.05.2016, n. 963).
Coerentemente con quanto affermato nel precedente ora
richiamato, laddove venga presentata, da un soggetto
interessato, un’istanza diretta effettivamente a ottenere la
correzione di un mero errore materiale, la questione deve
essere perciò rimessa necessariamente all’Organo consiliare,
mentre deve reputarsi affetta da incompetenza una
determinazione di segno negativo sul merito dell’istanza
assunta dal Responsabile dell’ufficio comunale preposto al
settore della pianificazione urbanistica.
18.3 Al riguardo, il Collegio reputa opportuno precisare che
ciò non esclude la possibilità per gli uffici comunali di
svolgere una funzione di “filtro” nei confronti delle
istanze manifestamente inammissibili, ossia non
effettivamente dirette alla correzione di errori materiali,
ma palesemente volte a ottenere una variante dello strumento
urbanistico.
Laddove infatti, nonostante la qualificazione formale, la
richiesta sia diretta a provocare la modificazione della
pianificazione esistente, non gradita al richiedente, essa
non può certamente seguire l’iter semplificato previsto dal
richiamato articolo 13, comma 14-bis, della legge regionale
n. 12 del 2005. E’, perciò, coerente con la stessa
previsione normativa ora richiamata che l’inammissibilità
dell’istanza venga dichiarata, in questi casi, dagli stessi
uffici comunali, senza necessità di un pronunciamento
dell’Organo consiliare, il quale rischierebbe, altrimenti,
di trovarsi ingolfato di richieste dirette solo in apparenza
a ottenere la correzione di presunti errori, ma in realtà
volte a sollecitare l’adozione di varianti.
Questa conclusione è, del resto, in linea con il precedente
ora richiamato, nel quale la Sezione ha appurato
l’incompetenza, nel caso specifico, del Responsabile
preposto al settore della pianificazione urbanistica,
proprio sulla base di una valutazione in concreto del
contenuto dell’istanza, che era effettivamente diretta alla
correzione di un prospettato errore materiale (consistente,
nella specie, nell’allegato contrasto tra due elaborati
cartografici del PGT).
18.4 Il predetto “filtro” degli uffici deve, tuttavia,
arrestarsi alla qualificazione formale dell’istanza
dell’interessato, ossia deve accertare unicamente che quanto
allegato sia qualificabile propriamente come un errore
materiale in cui sia incorso l’Organo consiliare, ovvero
come un errore occorso nella trasposizione della volontà
dell’Organo negli elaborati di piano. Non spetta, invece,
agli uffici comunali –a fronte dell’allegazione di dati
idonei a far emergere un potenziale profilo di errore
materiale– pronunciarsi nel merito della richiesta di
correzione, essendo la relativa competenza rimessa al
Consiglio comunale.
18.5 Nel caso oggetto del presente giudizio, i ricorrenti
hanno rappresentato circostanze obiettivamente consistenti
nell’allegazione di un errore materiale presente negli
elaborati di piano. In particolare, essi hanno evidenziato
che, a fronte del rigetto dell’osservazione coinvolgente
l’area di loro proprietà, le cartografie del PGT approvato
recano una diversa destinazione dell’area di loro proprietà.
Il profilo che essi hanno sottoposto all’Amministrazione
attiene, perciò, effettivamente all’esatta interpretazione
della volontà espressa dall’Organo consiliare nella
controdeduzione all’osservazione presentata rispetto al
piano adottato. Conseguentemente, la questione non può che
essere rimessa allo stesso Consiglio comunale. A
quest’Organo spetta infatti di chiarire la portata della
propria deliberazione, in quanto, sulla base di un esame
obiettivo ab extrinseco, potenzialmente all’origine
dell’errore materiale allegato dai ricorrenti, che
atterrebbe proprio alla traduzione in atti della volontà
consiliare.
18.6 Da ciò l’incompetenza del Dirigente e dell’Assessore a
pronunciarsi negativamente sull’istanza, secondo quanto
dedotto con il secondo motivo di impugnazione proposto con
il ricorso per motivi aggiunti.
19. Il Collegio deve astenersi, a questo punto, dall’esame
del primo motivo dedotto con lo stesso ricorso per motivi
aggiunti, avendo il vizio di incompetenza carattere
necessariamente assorbente (cfr. Ad. plen., 27.04.2015,
n. 5).
20. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso
introduttivo del giudizio deve essere dichiarato in parte
irricevibile e in parte inammissibile, mentre il ricorso per
motivi aggiunti deve essere accolto, nei sensi ora esposti (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.04.2018 n. 884
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URBANISTICA: Pianificazione
urbanistica e esigenze di tutela ambientale ed ecologica.
All’interno della pianificazione
urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela
ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la
necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere
un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi e
ciò in quanto l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del
potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone una visione affatto minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere
conto delle esigenze legate alla tutela di interessi
costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’articolo 9 della Costituzione.
In tale contesto spetta all’Ente esponenziale effettuare una
mediazione tra i predetti valori e gli altri interessi
coinvolti, quali quelli della produzione o delle attività
antropiche più in generale, che comunque non possono
ritenersi equiordinati in via assoluta.
Nel perseguimento degli obiettivi di tutela stabiliti sia
dal P.T.R. che dallo stesso P.T.C.P. e a protezione dei
valori paesaggistici ivi indicati ben si possono introdurre
ulteriori disposizioni, destinate a prevalere immediatamente
sugli strumenti comunali e riferite anche ad aree e a beni
che non siano stati direttamente e specificamente
individuati dal P.T.R.; d’altra parte, il riconoscimento
della possibilità per il P.T.C.P. di dettare siffatte
previsioni appare del tutto rispondente alle finalità stesse
dello strumento di pianificazione provinciale, cui l’art. 15
della l.r. n. 12/2005 attribuisce un ruolo di
rilievo in tema di conservazione dei valori ambientali e
paesaggistici
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
1. Il ricorso è infondato.
2. Con la prima e la seconda censura, da trattare
congiuntamente in quanto strettamente connesse, si assume
che l’area di proprietà della ricorrente, in ragione della
sua collocazione (cfr. Tavola 2, Sezione 6 del P.T.C.P.),
sarebbe stata resa, anche per l’assenza in loco di nuclei di
edifici, sostanzialmente inedificabile, in violazione dei
principi di proporzionalità e di tutela paesistica, e pur in
mancanza di un vincolo di inedificabilità di cui all’art.
134 del D.Lgs. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali);
inoltre, illegittimamente, sarebbe stata riconosciuta
efficacia prescrittiva a tutte le disposizioni contenute
nell’art. 26 delle N.d.A. del P.T.C.P., altresì connotato da
perplessità laddove prevede che i nuovi nuclei non possano
avere un’altezza massima superiore a quella già presente nel
nucleo di antica formazione, in ipotesi anche esterno al
comparto, che limiterebbe notevolmente la possibilità di
edificazione che, dovendosi concentrare in uno specifico
settore territoriale, non potrebbe che svilupparsi in
altezza; ulteriormente, la previa necessità di sottoporre i
progetti di intervento all’esame di impatto paesistico
determina un inutile aggravio procedimentale, visto che il
P.G.T. già subordina lo sviluppo del comparto ad un Piano
attuativo e alla stipula di un Accordo di programma con la
Provincia e il Parco Sud.
2.1. Le doglianze sono infondate.
L’area di proprietà della ricorrente, collocata dal P.G.T.
in Ambito di trasformazione denominato “AT1 Città Nuova”, è
stata classificata dal P.T.C.P. in un Ambito di rilevanza
paesistica (Tavola 2, sez. 6: all. 8 al ricorso).
Le previsioni riguardanti gli Ambiti di rilevanza paesistica
possiedono una efficacia prescrittiva e prevalente in quanto
appaiono certamente riconducibili al novero delle
“previsioni in materia di tutela dei beni ambientali e
paesaggistici in attuazione dell’articolo 77”, di cui alla
lett. a dell’art. 18, comma 2, della legge regionale n. 12
del 2005.
Tale ultima disposizione opera ad un livello
differente rispetto allo spettro applicativo dell’art. 134
del Codice dei beni culturali, e quindi nessun rilievo
assume il riferimento ai vincoli di inedificabilità –peraltro nemmeno previsti con riguardo all’ambito in cui è
situata la proprietà della ricorrente– discendenti da tale
norma e finalizzati alla tutela del “paesaggio relativamente
a quegli aspetti e caratteri che costituiscono
rappresentazione materiale e visibile dell’identità
nazionale, in quanto espressione di valori culturali” (art.
131, comma 2).
Tornando alla disciplina relativa all’attività
pianificatoria, l’art. 77 della legge regionale n. 12 del
2005 richiede la conformazione di tutti gli strumenti
urbanistici agli “obiettivi” e alle “misure generali” di
tutela paesaggistica, con facoltà di introdurre anche in
sede di P.T.C.P. “previsioni conformative di maggiore
definizione che, alla luce delle caratteristiche specifiche
del territorio, risultino utili ad assicurare l’ottimale
salvaguardia dei valori paesaggistici individuati dal PTR”.
La disposizione normativa non contiene, invero, alcun
riferimento ad aree o a specifici beni di rilevanza
paesaggistica, ma solo a “obiettivi”, “misure generali” e
“valori paesaggistici” indicati dal P.T.R.; in tal senso
appare utile richiamare la controdeduzione provinciale
all’osservazione n. 2 formulata dalla ricorrente, laddove si
afferma che ‘gli ambiti di rilevanza paesistica non
rappresentano esclusivamente uno “stato di fatto” ma
intendono esprimere anche la necessità di avviare un
processo di costruzione del paesaggio perseguendo obiettivi
quali l’integrazione delle istanze ambientali e
paesaggistiche nei processi di trasformazione urbana e
territoriale, il mantenimento della biodiversità, la
creazione di elementi di qualità naturalistica polivalenti,
la progettazione accurata degli spazi aperti e delle
relazioni tra questi e il costruito, il recupero delle aree
degradate quali occasioni per una vasta riqualificazione del
contesto paesistico ecc. Tali ambiti non precludono
l’edificazione’.
Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento degli obiettivi
di tutela stabiliti sia dal P.T.R. che dallo stesso P.T.C.P.
e a protezione dei valori paesaggistici ivi indicati, ben si
possano introdurre ulteriori disposizioni, destinate a
prevalere immediatamente sugli strumenti comunali e riferite
anche ad aree e a beni che non siano stati direttamente e
specificamente individuati dal P.T.R., come evidenziato con
chiarezza dalla Giunta regionale in sede di verifica del
P.T.C.P. adottato (Deliberazione n. IX/4282 del 25.10.2012, pag. 19: all. 9 della Provincia).
D’altra parte, il riconoscimento della possibilità per il
P.T.C.P. di dettare siffatte previsioni appare del tutto
rispondente alle finalità stesse dello strumento di
pianificazione provinciale, cui l’art. 15 della legge
regionale n. 12 del 2005 attribuisce un ruolo di rilievo in
tema di conservazione dei valori ambientali e paesaggistici
(cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1474;
08.10.2014, n. 2423).
A tal fine va richiamata anche la
segnalazione, in sede di verifica regionale, relativa
all’apparto normativo, secondo cui “gli articoli relativi
alle previsioni in materia di tutela dei beni ambientali e
paesaggistici (in attuazione dell’art. 77 LR 12/2005),
devono avere efficacia prescrittiva e prevalente sugli atti
dei PGT ai sensi dell’art. 18 della LR 12/2005. Pertanto si
invita l’amministrazione provinciale a valutare e
specificare gli aspetti prescrittivi degli articoli 17, 26,
28, 34, 58, 59, 60, e 61” (Deliberazione n. IX/4282 del 25.10.2012, pagg. 28-29: all. 9 della Provincia).
L’individuazione degli ambiti di rilevanza paesistica
costituisce oltretutto scelta che involge interessi di
carattere sovracomunale, ambientali e paesaggistici, la cui
tutela è stata affidata dalla legge regionale n. 12 del 2005
–in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione
e adeguatezza di cui all’art. 118, comma primo, della
Costituzione– alla Regione e alle Province. Questi
interessi sono dunque presi in considerazione dagli
strumenti di pianificazione territoriale approvati da tali
Enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si sovrappongono agli interessi
di carattere urbanistico la cui tutela è principalmente
affidata ai Comuni (TAR Lombardia, Milano, II, 05.04.2017, n. 798).
Va poi osservato che, come ogni altra scelta pianificatoria,
queste decisioni sono espressione dell’ampia discrezionalità
tecnica di cui l’Amministrazione dispone in materia e dalla
quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti
limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente
travisamento dei fatti (ex plurimis, Consiglio di Stato, IV,
27.12.2007, n. 6686); e che, nel caso di specie, non
sono stati evidenziati macroscopici profili di illogicità
nelle scelte operate dalla Provincia, non apparendo, al
contrario, illogici gli obiettivi “di perseguire la
conservazione dei caratteri che definiscono l’identità e la
leggibilità dei paesaggi attraverso il controllo dei
processi di trasformazione finalizzato alla tutela delle
preesistenze significative dei relativi contesti, oltre che
il miglioramento della qualità paesaggistica ed
architettonica degli interventi di trasformazione del
territorio” (Deliberazione n. IX/4282 del 25.10.2012,
pag. 19: all. 9 della Provincia; cfr., in giurisprudenza,
TAR Lombardia, Milano, II, 05.04.2017, n. 798).
Infine, deve essere segnalato che all’interno della
pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche
esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali
spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore
edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree
edificate e spazi liberi (cfr. Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656).
E ciò in quanto l’urbanistica, ed
il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non
possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al
diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto
minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli
enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello
sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui
l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben
può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di
interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano
quelli contemplati dall’articolo 9 della Costituzione; in
tale contesto spetta all’Ente esponenziale effettuare una
mediazione tra i predetti valori e gli altri interessi
coinvolti, quali quelli della produzione o delle attività
antropiche più in generale, che comunque non possono
ritenersi equiordinati in via assoluta (cfr. Consiglio di
Stato, IV, 10.05.2012, n. 2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451).
2.2. Quanto alla asserita illegittima cogenza dell’indirizzo
contenuto nell’art. 26, comma 3, punto b degli indirizzi,
delle N.d.A., ossia il divieto di realizzare costruzioni con
un’altezza massima superiore a quella degli edifici presenti
all’interno del nucleo di antica formazione, la stessa va
ritenuta infondata, giacché rientra nella discrezionalità
dell’Amministrazione individuare i parametri costruttivi,
purché gli stessi non siano abnormi o del tutto sganciati
dal contesto di riferimento. La parte ricorrente ha rilevato
che alcuni nuclei risultano posti a distanza rilevante
rispetto al comparto di sua proprietà, ma per quanto emerge
dall’esame delle tavole cartografiche depositate in
giudizio, l’ambito “AT1 Città Nuova” risulta collocato in
prossimità del nucleo di antica formazione di Rozzano e ciò
impone il rispetto e la coerenza di ogni intervento
costruttivo con il predetto punto di riferimento, al fine di
garantire l’unitarietà del contesto paesaggistico (cfr. all.
3 e 8 al ricorso).
2.3. Anche la necessità di preventiva sottoposizione dei
progetti di intervento all’esame di impatto paesistico di
cui all’art. 26, comma 3, punto c delle prescrizioni, delle
N.d.A., discende direttamente dalle disposizioni contenute
nel Piano paesaggistico regionale, agli artt. 8, comma 3, e
35 e ss., e si riferisce a tutti i progetti che incidono
sull’aspetto esteriore dei luoghi (all. 6 della Provincia).
2.4. Ciò determina il rigetto delle suesposte censure (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.04.2018 n. 880
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URBANISTICA: Richiamato
il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il
quale le scelte riguardanti la classificazione dei suoli
sono sorrette da ampia discrezionalità, va ribadito che in
tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva
rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto
scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo,
salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o
irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto
soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in
presenza di situazioni di affidamento qualificato del
privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non
sussistenti.
Oltretutto, gli specifici rilievi formulati dalla
ricorrente, oltre ad impingere nel merito delle scelte
dell’Amministrazione e a prospettare soltanto una differente
valutazione del contesto fattuale di riferimento, non si
fondano su elementi obiettivi in grado di dimostrare
l’abnormità o l’evidente irragionevolezza delle
determinazioni provinciali in relazione ai dati concreti
posti alla base delle stesse, soprattutto avuto riguardo
alla decisione di valorizzare il rapporto tra il tessuto
urbano esistente e gli spazi aperti, al fine di
salvaguardare l’identità dei luoghi e raggiungere un più
elevato grado di qualità paesistica.
---------------
In materia urbanistica non opera il principio del divieto di
reformatio in peius, in quanto in tale materia
l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità
nell’effettuazione delle proprie scelte che relega
l’interesse dei privati alla conferma della previgente
disciplina ad interesse di mero fatto non tutelabile in sede
giurisdizionale, tanto più se riferita a livelli di governo
differenti.
---------------
3. Con la terza doglianza si deduce l’illegittima inclusione
negli insediamenti rurali di interesse storico di una
struttura di recente costruzione denominata “Cascina Nuova”
che, conseguentemente, è stata assoggettata ad una rigorosa
disciplina vincolistica, ai sensi dell’art. 29 delle N.d.A.
3.1. La doglianza è infondata.
La ricorrente sostiene che tale complesso, denominato
“Cascina Nuova”, sia costituito da edifici di moderna
costruzione e sia in ogni caso privo di pregio storico,
culturale, architettonico, ecc.; inoltre ci si troverebbe al
cospetto di strutture fatiscenti e degradate e non più
funzionali per l’esercizio dell’attività agricola, come
dimostrato anche dalla mancata inclusione delle stesse
nell’ambito della Zona A del previgente strumento
urbanistico comunale.
In realtà, gli Uffici provinciali, in fase di
controdeduzione all’osservazione n. 1 formulata dalla
ricorrente, hanno sottolineato che “gli insediamenti rurali
costituiscono elementi costitutivi della trama fondamentale
del territorio agricolo. Il PTCP, nella sua componente
paesistica, intende evidenziare tali elementi di origine
storica, segnalati da apposito studio redatto per piano
vigente, anche qualora in cattivo stato manutentivo o mutati
nell’attuale destinazione d’uso, in quanto testimonianze di
una precedente strutturazione del territorio. Tali elementi,
se opportunamente valorizzati, possono costituire i
potenziali valori cardine per la costruzione di un nuovo
rapporto con gli spazi aperti che attribuisca identità ai
luoghi e persegua il raggiungimento di un più elevato grado
di qualità paesistica complessiva”.
Richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale
secondo il quale le scelte riguardanti la classificazione
dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità, va
ribadito che in tale ambito la posizione dei privati risulta
recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione,
in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice
amministrativo, salvo che non siano inficiate da
arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da
travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si
intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale
regola solo in presenza di situazioni di affidamento
qualificato del privato a una specifica destinazione del
suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451).
Oltretutto, gli specifici rilievi formulati dalla
ricorrente, oltre ad impingere nel merito delle scelte
dell’Amministrazione e a prospettare soltanto una differente
valutazione del contesto fattuale di riferimento, non si
fondano su elementi obiettivi in grado di dimostrare
l’abnormità o l’evidente irragionevolezza delle
determinazioni provinciali in relazione ai dati concreti
posti alla base delle stesse, soprattutto avuto riguardo
alla decisione di valorizzare il rapporto tra il tessuto
urbano esistente e gli spazi aperti, al fine di
salvaguardare l’identità dei luoghi e raggiungere un più
elevato grado di qualità paesistica (cfr. TAR Lombardia,
Milano, II, 27.02.2018, n. 564).
3.2. Ciò determina il rigetto della predetta censura.
4. Con la quarta doglianza si deduce la carenza di
motivazione e la contraddittorietà del comportamento
provinciale con riguardo ai rilevanti limiti apposti
all’edificabilità del comparto in cui è collocata la
proprietà della ricorrente, in quanto soltanto l’anno
precedente la stessa Provincia aveva dato parere favorevole
all’adozione del P.G.T. di Rozzano, attraverso il quale era
stata riconosciuta una adeguata potenzialità edificatoria
alla medesima area; non sarebbe, altresì, stata chiarita la
ragione della previsione di una fascia di rispetto dal
Naviglio più estesa rispetto a quanto stabilito nel P.T.R.A.
(Piano Territoriale Regionale d’Area dei Navigli Lombardi),
che limita tale fascia a 100 m.
4.1. La doglianza è infondata.
La Provincia nel rendere al Comune di Rozzano il parere di
compatibilità aveva già segnalato la presenza nell’ambito de
quo di elementi di rilevanza paesistica-ambientale, che
avrebbero dovuto condurre, in fase di progettazione e
attuazione, alla compattazione e densificazione della forma
urbana e all’individuazione di forme di compensazione
ambientale (cfr. pag. 8, punto 4.3.1.2, all. 11 al ricorso).
Va poi evidenziato che il parere di compatibilità del P.G.T.
ha avuto quale riferimento, a livello provinciale, il
P.T.C.P. approvato nel 2003, ossia circa un decennio
addietro; da ciò discende che non contrasta con il rilascio
del parere di compatibilità del P.G.T. la successiva
determinazione provinciale di regolamentare, con una certa
dose di innovatività, seppure in sostanziale linea di
continuità con il precedente strumento pianificatorio, una
specifica area, tenendo conto che lo strumento urbanistico
provinciale ha un livello di dettaglio minore rispetto al
P.G.T. e comunque, già in sede di rilascio del parere di
compatibilità, erano state evidenziate le linee direttrici
relative alla valorizzazione e allo sviluppo non solo
edilizio del comparto.
Infine, in materia urbanistica, non opera il principio del
divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia
l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità
nell’effettuazione delle proprie scelte che relega
l’interesse dei privati alla conferma della previgente
disciplina ad interesse di mero fatto non tutelabile in sede
giurisdizionale, tanto più se riferita a livelli di governo
differenti (cfr. Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n.
1326; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n.
566; 15.12.2017, n. 2393).
4.2. Nemmeno risulta fondata la parte della censura con cui
si deduce l’illegittima estensione della fascia di rispetto
dalla sponda del Naviglio rispetto alle previsioni del
P.T.R.A., in quanto la tutela contenuta nel P.T.C.P., oltre
ad essere in continuità con le previsioni del precedente
Piano provinciale del 2003, opera ad un livello differente
rispetto a quello contenuto nel Piano regionale, trattandosi
di strumenti urbanistici non solo espressione di livelli di
governo diversi, ma anche destinati a tutelare ambiti non
perfettamente omogenei, ovvero i corpi idrici, da una parte,
e il paesaggio complessivamente inteso, dall’altra: si
tratta di regimi normativi non sovrapponibili, ma coordinati
e reciprocamente integrati.
4.3. Pertanto, anche la predetta doglianza va respinta (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.04.2018 n. 880
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Nullità strutturale dell’atto amministrativo per assenza
degli elementi essenziali.
Nel diritto amministrativo la categoria
della nullità costituisce un’eccezione rispetto a quella
generale dell’annullabilità, che in particolare la nullità
strutturale (per assenza, cioè, degli elementi essenziali)
si verifica tutte le volte in cui l’atto amministrativo sia
privo dei requisiti necessari per poter essere
giuridicamente qualificato come tale, sulla scorta di un
raffronto meramente estrinseco rispetto al paradigma legale.
In questo quadro non costituisce causa di nullità l’omessa
protocollazione dell’atto amministrativo, che anzi assume
valore di mera irregolarità non viziante ai sensi
dell’articolo 21-octies della legge n. 241/1990, perché non
idonea ad incidere sul contenuto concreto dell’atto;
Lo stesso dicasi per la data dell’atto amministrativo, salvo
che il decorso del tempo non determini la consumazione del
potere in capo all’Amministrazione, e la stessa
sottoscrizione dell’atto amministrativo può anche non
assurgere a suo elemento essenziale, laddove concorrano
altri dati testuali che consentano comunque la sicura
attribuzione dell’atto all’Autorità amministrativa che lo ha
adottato
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
Innanzitutto, va considerato che nel diritto amministrativo
la categoria della nullità costituisce un’eccezione rispetto
a quella generale dell’annullabilità, che in particolare –per quanto qui di interesse– la nullità strutturale (per
assenza, cioè, degli elementi essenziali) si verifica tutte
le volte in cui l’atto amministrativo sia privo dei
requisiti necessari per poter essere giuridicamente
qualificato come tale, sulla scorta di un raffronto
meramente estrinseco rispetto al paradigma legale (cfr.,
C.d.S., Sez. V, sentenza n. 792/2012).
In questo quadro non costituisce causa di nullità l’omessa
protocollazione dell’atto amministrativo, che anzi assume
valore di mera irregolarità non viziante ai sensi
dell’articolo 21-octies L. n. 241/1990, perché non idonea ad
incidere sul contenuto concreto dell’atto (cfr., C.d.S.,
Sez. VI, sentenza n. 4113/2013). Lo stesso dicasi per la
data dell’atto amministrativo, salvo che il decorso del
tempo non determini la consumazione del potere in capo
all’Amministrazione
E la stesa sottoscrizione dell’atto amministrativo può anche
non assurgere a suo elemento essenziale, laddove concorrano
altri dati testuali che consentano comunque la sicura
attribuzione dell’atto all’Autorità amministrativa che lo ha
adottato (cfr., TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, sentenza n.
5245/2017) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.04.2018 n. 876
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EDILIZIA PRIVATA:
L’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla
tutela del vincolo -da esercitarsi in rapporto al principio
fondamentale dell’art. 9 Cost.- è sindacabile, in sede
giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità,
coerenza e completezza della valutazione, considerati anche
per l’aspetto concernente la correttezza del criterio
tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo
restando il limite della relatività delle valutazioni
scientifiche.
Sicché, in sede di giurisdizione di
legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si
ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il
sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello
dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una
valutazione alternativa, parimenti opinabile.
---------------
Nel caso di specie, peraltro, risulta per tabulas che il
decreto di apposizione del vincolo indiretto e la
presupposta relazione tecnico-scientifica siano stati
rinotificati al ricorrente muniti di timbro, data e
sottoscrizione, in tal modo superandosi tutti i vizi che
presentavano i medesimi atti già impugnati con il ricorso
principale.
Sotto il profilo motivazionale, va, invece, considerato che
l’apposizione di un vincolo a tutela di un bene di interesse
culturale è scelta tecnico-discrezionale caratterizzata da
ampi margini di opinabilità, con la conseguenza che
«l’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla
tutela -da esercitarsi in rapporto al principio
fondamentale dell’art. 9 Cost.- è sindacabile, in sede
giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità,
coerenza e completezza della valutazione, considerati anche
per l’aspetto concernente la correttezza del criterio
tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo
restando il limite della relatività delle valutazioni
scientifiche; sicché, in sede di giurisdizione di
legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si
ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il
sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello
dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una
valutazione alternativa, parimenti opinabile» (così, TAR
Lazio–Roma, Sez. II-quater, sentenza n. 7310/2017) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.04.2018 n. 876
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AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Zonizzazione
acustica.
L’attività demandata all’Amministrazione
per la classificazione acustica si connota in termini
ampiamente discrezionali, sia quanto alla delimitazione
delle singole zone, sia quanto alla loro classificazione,
specialmente in relazione all'individuazione delle classi
intermedie; la zonizzazione acustica costituisce, infatti,
esercizio di un vero e proprio potere pianificatorio
discrezionale, avente lo scopo di migliorare, ove possibile,
l’esistente, ma tenendo conto della pianificazione
urbanistica, al fine di non sacrificare le consolidate
aspettative di coloro che sono legittimamente insediati nel
territorio.
Le scelte effettuate dal Comune in subiecta materia, quindi,
sono espressione di discrezionalità tecnica, ancorata
all’accertamento di specifici presupposti di fatto, il primo
dei quali è proprio il preuso del territorio; di guisa che,
anche l’eventuale esercizio del potere discrezionale non può
che essere esercitato secondo i principi di proporzionalità
e ragionevolezza, i quali impongono alla Pubblica
Amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente
quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo
prefissato tenendo conto delle posizioni di interesse dei
privati coinvolti.
Occorre evitare la suddivisione del territorio a “macchia di
leopardo”, trattandosi di esigenza supportata anche da
ragioni tecnico-scientifiche, atteso che il rumore, per sua
natura, si diffonde da un luogo all’altro, per cui la
classificazione acustica deve tener conto degli effetti
prodotti dalla rumorosità delle attività antropiche non solo
con riguardo alla zona in cui le stesse sono inserite, ma
anche delle aree limitrofe, stante il carattere pervasivo e
diffusivo del rumore
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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7. Il primo motivo è infondato.
7.1. La legge 26-10-1995 n. 447, recante la “Legge quadro
sull'inquinamento acustico”, rappresenta la prima fonte
normativa organica in materia di tutela dell’ambiente
esterno e abitativo dall’inquinamento acustico (art. 1,
comma 1).
Nel ripartire le competenze in detta materia fra Stato,
Regioni, Provincie e Comuni, la legge quadro ha previsto
(all’art. 3) che: “Sono di competenza dello Stato:
a) la determinazione, ai sensi della L. 08.07.1986, n.
349, e successive modificazioni, con decreto del Presidente
del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro
dell'ambiente, di concerto con il Ministro della sanità e
sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di
Bolzano, dei valori di cui all'articolo 2; …”.
In attuazione di tale previsione è stato adottato il
d.P.C.M. 14.11.1997, recante la determinazione dei “valori
limite di emissione, i valori limite di immissione, i valori
di attenzione ed i valori di qualità…”, i quali, specifica
ancora il decreto, “sono riferiti alle classi di
destinazione d'uso del territorio riportate nella tabella A
allegata al presente decreto e adottate dai comuni ai sensi
e per gli effetti dell'art. 4, comma 1, lettera a) e
dell'art. 6, comma 1, lettera a), della legge 26.10.1995, n. 447” (cfr. art. 1, co. 2, d.P.C.M. 14.11.1997).
La Tabella A, dal canto proprio, prevede la classificazione
del territorio comunale in sei classi, che vanno dalla “I”,
che definisce le caratteristiche delle “aree particolarmente
protette”, connotate come quelle “nelle quali la quiete
rappresenta un elemento di base per la loro utilizzazione”,
come ad esempio le aree ospedaliere, scolastiche o di
particolare interesse urbanistico; all’ultima, la “VI”,
concernente le “aree esclusivamente industriali” e relativa
alle aree interessate soltanto da attività industriali e
prive di insediamenti abitativi.
Nel mezzo sono, quindi, collocate:
- in classe “II”: le “aree destinate ad uso prevalentemente
residenziale” (quali quelle interessate prevalentemente da
traffico veicolare locale, con bassa densità di popolazione
e con limitata presenza di attività commerciali e assenza di
attività industriali e artigianali);
- in classe “III”: le “aree tipo misto” (quali quelle
interessate da traffico veicolare locale o di
attraversamento, con media densità di popolazione, con
presenza di attività commerciali e uffici, con limitata
presenza di attività artigianali e con assenza di attività
industriali);
- in classe “IV”: le “aree di intensa attività umana” (in
cui rientrano quelle interessate da intenso traffico
veicolare, con alta densità di popolazione, con elevata
presenza di attività commerciali e uffici, con presenza di
attività artigianali; le aree in prossimità di strade di
grande comunicazione e di linee ferroviarie; le aree
portuali, le aree con limitata presenza di piccole
industrie).
- in classe “V”: le “aree prevalentemente industriali” (ove
rientrano quelle interessate da insediamenti industriali e
con scarsità di abitazioni).
A completamento del quadro normativo è, poi, intervenuto il
legislatore regionale della Lombardia che, con la legge n.
13 del 10.08.2001, ha stabilito tempi e modi della
classificazione acustica territoriale da parte comunale,
siccome preordinata “a suddividere il territorio in zone
acustiche omogenee così come individuate dalla tabella A
allegata al decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri 14.11.1997” (cfr. art. 2, co. 1, L.r. cit.).
In via attuativa, infine, la Giunta regionale Lombarda,
dando seguito all'art. 2, comma 3, della L.R. n. 13 cit., ha
provveduto a definire i criteri tecnici di dettaglio per la
redazione della classificazione acustica del territorio
comunale. Con deliberazione del 12.07.2002 n. VII/9776,
in particolare, la Giunta ha, fra l’altro, stabilito,
coerentemente ai criteri dettati dal legislatore regionale,
che lo “scopo fondamentale della classificazione deve essere
quello di rendere coerenti la destinazione urbanistica e la
qualità acustica dell'ambiente”.
Chiarendo, poi,
ulteriormente che: “per definire la classe acustica di una
determinata area e quindi i livelli del rumore presenti o
previsti per quell'area ci si deve in primo luogo basare
sulla destinazione urbanistica. La classificazione viene
attuata avendo come riferimento la prevalenza delle attività
insediate”.
Quanto al procedimento per l'individuazione delle zone
acustiche, si legge, nella richiamata d.G.R., che: “Si
intende per area una qualsiasi porzione di territorio che
possa essere individuata tramite una linea poligonale
chiusa. Si intende per classe una delle sei categorie
tipologiche di carattere acustico individuate nella tabella
A del D.P.C.M. 14.11.1997. Si intende per zona
acustica la porzione di territorio comprendente una o più
aree, delimitata da una poligonale chiusa e caratterizzata
da un identico valore della classe acustica. La zona, dal
punto di vista acustico, può comprendere più aree (unità
territoriali identificabili) contigue anche a destinazione
urbanistica diversa, ma che siano compatibili dal punto di
vista acustico e possono essere conglobate nella stessa
classe”.
Proseguendo sul punto, la Giunta -pur precisando come non
esistano dimensioni definibili a priori per l'estensione
delle singole zone– ha puntualizzato come si debba, da un
lato, evitare un eccessivo spezzettamento del territorio
urbanizzato con zone a differente valore limite, anche al
fine di rendere possibile un controllo della rumorosità
ambientale e di rendere stabili le destinazioni d'uso,
acusticamente compatibili, di parti sempre più vaste del
territorio comunale; e, dall’altro, ha esortato ad evitare
di introdurre un'eccessiva semplificazione, che porterebbe
ad un appiattimento della classificazione sulle classi
intermedie III o IV.
7.2 Dal quadro sin qui tratteggiato, si ricava come
l’attività demandata all’Amministrazione, per la
classificazione acustica in parola, si connoti in termini
ampiamente discrezionali, sia quanto alla delimitazione
delle singole zone, che quanto alla loro classificazione,
specialmente in relazione all'individuazione delle classi
intermedie (II, III e IV).
La zonizzazione acustica costituisce, infatti, esercizio di
un vero e proprio potere pianificatorio discrezionale,
avente lo scopo di migliorare, ove possibile, l’esistente
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.05.2015, n. 2316, conferma
TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.01.2013, n. 87; TAR
Lombardia, Brescia, sez. I, 02.04.2015, n. 477; id. Sez. I,
02.04.2015, n. 478) ma tenendo conto della pianificazione
urbanistica, al fine di non sacrificare le consolidate
aspettative di coloro che sono legittimamente insediati nel
territorio (TAR Toscana, sez. II, 04.11.2011, n.
1650, id., sez. II, 11.12.2010 n. 6724).
Le scelte effettuate dal Comune in subiecta materia, quindi,
sono espressione di discrezionalità tecnica, ancorata
all’accertamento di specifici presupposti di fatto, il primo
dei quali è proprio il preuso del territorio (cfr. TAR
Veneto, sez. III, 24.01.2007, n. 187; TAR Liguria,
sez. I, 21.02.2007 n. 354).
Di guisa che, anche
l’eventuale esercizio del potere discrezionale non può che
essere esercitato secondo i principi di proporzionalità e
ragionevolezza, i quali impongono alla Pubblica
Amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente
quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo
prefissato tenendo conto delle posizioni di interesse dei
privati coinvolti (TAR Lazio, Latina, sez. I, 16.09.2015, n. 616; TAR Veneto, sez. I, 30.05.2016, n. 568; TAR Toscana, I, 12.12.2016 n. 1771).
7.3. Ebbene, con specifico riguardo al caso di specie, il
Collegio ritiene che la scelta dell’Amministrazione,
concretizzatasi nella classificazione di tutto il centro
storico, inclusa Piazza della Libertà, in classe III, sia
esente dai vizi denunciati col ricorso.
Dalla documentazione prodotta in atti, infatti, la Piazza in
questione risulta coerentemente classificata in modo
omogeneo rispetto al contesto urbano circostante, senza che
si appalesino nella Piazza stessa elementi di tale pregnanza
da giustificarne una classificazione differenziata rispetto
al contesto medesimo.
Al riguardo, non va sottaciuta
l’esigenza –chiaramente avvertita in materia di
pianificazione acustica– di evitare la suddivisione del
territorio a “macchia di leopardo”, trattandosi di esigenza
supportata anche da ragioni tecnico-scientifiche, atteso che
il rumore, per sua natura, si diffonde da un luogo all’altro
( cfr. TAR Lombardia, Milano, IV sezione, 2015 n. 133,
per cui “la classificazione acustica deve tener conto degli
effetti prodotti dalla rumorosità delle attività antropiche
non solo con riguardo alla zona in cui le stesse sono
inserite, ma anche delle aree limitrofe, stante il carattere
pervasivo e diffusivo del rumore”- v. anche TAR
Lombardia, sez. IV, 11.10.2017, n. 1954).
Detta Piazza rappresenta, infatti, una delle principali di
Lissone, secondo Comune della Brianza, con circa 45.000
abitanti. La zona risulta, poi, caratterizzata dalla
presenza di funzioni terziarie e commerciali, atteso che,
sempre come documentato in atti, direttamente sulla piazza
affacciano le filiali di due istituti bancari mentre un
terzo si trova nelle immediate vicinanze e alla stessa
distanza è collocato l’ufficio postale (cfr. All. 13 di
parte resistente).
Sulla Piazza si affacciano ancora un
supermercato OVS (cfr. All. 1 di parte resistente), la
Farmacia Centrale (cfr. All. 6 di parte resistente) e vari
pubblici esercizi (bar, ristoranti, caffetterie, gelaterie,
pizzerie – v. All. 3, 4, 5, 6, 7, 8, 11 di parte
resistente). A circa 150 mt si trova la biblioteca comunale
e a circa 250 mt il Municipio (vd.si All. 14 e 15 di parte
resistente). Nel raggio di 180 mt, infine, si trovano studi
professionali di diversa natura, artigiani e attività
terziarie (cfr. All. 16, 17 e 18 di parte resistente).
La
Piazza stessa risulta anche attraversata, sul lato nord, dal
traffico veicolare locale (nel punto tra via Sant’Antonio e
Via Palazzine) mentre l’intero centro storico risulta
caratterizzato da notevole afflusso di veicoli vista anche
la rilevanza delle funzioni e delle attività che vi sono
ospitate. L’edificazione dell’area poi non è certo a bassa
densità come dimostrano le immagini prodotte in giudizio,
dove risultano anche edifici da 4 a 6 piani (v. foto All. 16
di parte resistente).
La zona comprensiva della Piazza si presenta, dunque,
pienamente in linea con le caratteristiche della classe III,
come sopra riportate e come declinate nella Tabella A,
annessa al d.P.C.M. 14/11/1997, oltreché nella d.G.R.
citata.
Si tratta, in definitiva, di un’area che presenta
caratteristiche non dissimili dal restante centro storico e
che risulta pertanto riconducibile fra le aree di tipo
misto, così come sopra connotate, in modo del tutto coerente
con la classificazione urbanistica del centro storico, dove
è ammessa una pluralità di funzioni.
7.4. L’esponente richiama l’attenzione sul Palazzo Terragni
che, tutelato come bene storico-artistico, consentirebbe di
catalogare l’area fra quelle "di particolare interesse
storico artistico e architettonico" che, in base alla d.G.R.
citata, sarebbero suscettibili di essere inserite in Classe
II.
Sennonché, va rammentato come la citata delibera regionale
per i centri storici prescriva che: “… salvo quanto sopra
detto per le aree di particolare interesse storico-artistico-architettonico, di norma non vanno
inseriti in Classe II, vista la densità di popolazione
nonché la presenza di attività commerciali e uffici, e ad
esse dovrebbe essere attribuita la classe III o IV”.
Ebbene, contrariamente all’assunto dell’esponente, l’area in
questione non può dirsi rientrante fra le ipotesi fatte
salve dalla disposizione in esame, in quanto, in disparte la
sua effettiva riconducibilità fra le aree di particolare
interesse storico-artistico-architettonico, la stessa d.G.R.
esonera dette aree dal normale assoggettamento alla classe
III o IV solo laddove “la quiete costituisca un requisito
essenziale per la loro fruizione” (v.si All. 13 parte
ricorrente, pag. 2.459).
Ciò che non può certo affermarsi in
relazione al caso di specie, dove Palazzo Terragni, opera
dell’architettura razionalista italiana presente sul lato
Est della Piazza, di proprietà comunale, costituisce tuttora
un luogo di spettacolo (cfr. doc. 17 degli allegati di
ricorrente, dove il Palazzo risulta sede del Teatro
comunale) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 27.03.2018 n. 829
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ingiunzione di demolizione, in quanto atto
dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera
edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da
esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con
l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera; ma deve
intendersi fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso
di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il
protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla
vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento
nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si
ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto
riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il
pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al
ripristino della legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse privata.
In definitiva, in ragione della natura vincolata dell'ordine
di demolizione, non è necessaria la preventiva comunicazione
di avvio del procedimento.
---------------
5. - Venendo all’articolato primo motivo di ricorso,
col quale vengono lamentati violazione e falsa applicazione
degli artt. 7 e 8 della legge n. 241 del 1990, nonché
eccesso di potere, specialmente per carenza di istruttoria,
travisamento dei fatti e contraddittorietà, anch’esso si
rivela infondato.
5.1 - La doglianza inerente il presunto mancato
coinvolgimento nel procedimento di adozione dell’ingiunzione
a demolire risulta priva di rilievo, atteso che in materia
di illeciti, e segnatamente di illeciti edilizi, l’avvenuta
constatazione della fattispecie per come cristallizzata
negli atti del sopralluogo assorbe la comunicazione di avvio
del procedimento, scaturendo i provvedimenti sospensivi e
demolitori ope legis dagli stessi.
Rammenta al riguardo la Sezione che, per costante
giurisprudenza, <<l’ingiunzione di demolizione, in quanto
atto dovuto in presenza della constatata realizzazione
dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale
difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente
motivata con l’affermazione dell’accertata abusività
dell’opera; ma deve intendersi fatta salva l’ipotesi in cui,
per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione
dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione
preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di
affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla
quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che
indichi, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia
dell’abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da
quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare
il sacrificio del contrapposto interesse privata>> (cfr.
Cons. Stato, sez. VI, 08.04.2016, n. 1393, nonché id., Sez.
IV, 02.11.2016, n. 4577).
In definitiva, in ragione della natura vincolata dell'ordine
di demolizione, non è necessaria la preventiva comunicazione
di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons.
Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né un'ampia
motivazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 29/11/2017, n.
5595).
Non rileva poi nemmeno la lamentata mancata notifica
all’interessato della relazione di sopralluogo della Polizia
Municipale, essendo i provvedimenti impugnati dotati, come
s’è detto, di motivazione per relationem, della quale
l’interessato era in grado di acquisire tutti gli elementi a
seguito della notifica dell’ordinanza di demolizione con
richiesta di accesso agli atti, che non risulta invece
esperita (peraltro, nonostante il ricorrente sottolinei
ripetutamente che la relazione di sopralluogo fosse da lui
non conosciuta, basa poi, contraddicendosi, sulla stessa
l’argomento di cui a pag. 7 ric., secondo il quale “i
vigili avrebbero rinvenuto nella proprietà … un manufatto
ancora in itinere”) (Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 27.03.2018 n. 815 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La pertinenza urbanistica, come noto, è
configurabile solo quando vi sia un oggettivo nesso
funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella
principale, cioè un nesso che non consenta altro che la
destinazione del bene accessorio a suddetto uso
pertinenziale durevole, sempreché l’opera secondaria non
comporti alcun maggiore carico urbanistico.
Per l’insorgere di tale nesso la volontà del soggetto cui
appartengono le cose di creare un vincolo di destinazione
pertinenziale, è necessaria, ma non sufficiente, se poi tra
di esse non sussiste oggettivamente tale vincolo di
strumentalità necessaria.
---------------
5.3 – Quanto alla asserita natura pertinenziale del
manufatto realizzato, essa, peraltro, non risulta in alcun
modo dimostrata dalla parte.
La pertinenza urbanistica, come noto, è configurabile solo
quando vi sia un oggettivo nesso funzionale e strumentale
tra la cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso
che non consenta altro che la destinazione del bene
accessorio a suddetto uso pertinenziale durevole, sempreché
l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico
urbanistico (cfr. Cons. St., Sez. VI, 29.01.2015, n. 406;
id., Sez. VI, 05.01.2015, n. 13).
Per l’insorgere di tale nesso la volontà del soggetto cui
appartengono le cose di creare un vincolo di destinazione
pertinenziale, è necessaria, ma non sufficiente, se poi tra
di esse non sussiste oggettivamente tale vincolo di
strumentalità necessaria.
Nel caso di specie, l’esistenza del rapporto pertinenziale
non può mutuarsi sic et simpliciter dalla asserita
intenzione di destinare la “loggia” -rectius,
più propriamente, il manufatto in muratura- a protezione di
un serbatoio idrico.
Rileva per completezza la Sezione che di suddetto serbatoio,
la conoscenza delle dimensioni e della funzione del quale
avrebbe potuto risultare utile ad un più completo
inquadramento della fattispecie, non è traccia nella
documentazione in atti, ivi comprese le rilevazioni della
Polizia municipale.
In sintesi, non può ritenersi comprovata in alcun modo la
sussistenza di tutti gli elementi costituivi del presunto
rapporto pertinenziale, essendosi la parte limitata a
richiamare la funzione ipotetica della “loggia” quale
protezione dalle avversità metereologiche del menzionato
serbatoio idrico ed avendo per ciò solo inquadrato l’opera
tra quelle assentibili con D.I.A. ex art. 22 del d. P.R. n.
380/2001 (Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 27.03.2018 n. 815 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Abbattimento
delle barriere architettoniche e normativa sulle distanze.
Ai sensi del combinato disposto degli
articoli 78 e 79 del d.P.R. n. 380/2001, nonché dell’art. 19
della l.r. n. 6/1989, le opere dirette all’abbattimento
delle barriere architettoniche possono essere realizzate in
deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti
edilizi, salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui
agli articoli 873 e 907 del codice civile.
Non risulta, dunque, applicabile in tali casi l’art. 9 del
d.m. n. 1444/1968, atteso che l’interpretazione
costituzionalmente orientata dell’art. 79 del d.p.r. n.
380/2001 porta ad estendere la deroga delle norme sulle
distanze previste dai regolamenti edilizi (dettate nel comma
1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di normazione primaria,
con il corollario di dover limitare al dato testuale il
richiamo all’art. 873 c.c. e quindi dell’inapplicabilità
della disciplina delle distanze dai fabbricati alieni
prevista dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968.
La normativa suddetta prevede, quindi, per l’abbattimento
delle barriere architettoniche, una specifica e automatica
deroga alla disciplina delle distanze prevista dagli
strumenti urbanistici comunali, senza la necessità di
valutazioni discrezionali dell’Amministrazione; né
l’applicazione di tale normativa è preclusa per la
realizzazione di nuove opere prive di autonomia funzionale,
come gli ascensori, che vengono ritenuti dalla
giurisprudenza alla stregua di “volumi tecnici o impianti
tecnologici”, e come la scala realizzata all’esterno per
assicurare l’uscita degli utenti dall’ascensore senza
incontrare ostacoli architettonici costituiti dai gradini
preesistenti
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
Con il presente ricorso la società istante ha impugnato il
provvedimento indicato in epigrafe, con il quale è stata
approvata la deroga alle distanze previste dalla disciplina
urbanistica comunale in relazione ad una variante di
progetto presentata dalle controinteressate per la
realizzazione di un ascensore e di un vano scala all’esterno
della sagoma dell’immobile di loro proprietà in applicazione
della legislazione sull’eliminazione delle barriere
architettoniche.
In seguito a tale approvazione, il progetto si trova a un
confine di 9 metri invece che di 10 rispetto alla
costruzione della ricorrente.
...
Nel merito, il ricorso è infondato, riportandosi,
essenzialmente, il collegio alla costante giurisprudenza del
giudice amministrativo per la quale: “Si intendono per
barriere architettoniche -ai sensi dell'art. 2, lett. A),
punti a) e b), d.m. 14.06.1989 n. 236 ("Prescrizioni
tecniche necessarie a garantire l'accessibilità,
l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di
edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai
fini del superamento e della eliminazione delle barriere
architettoniche")- "gli ostacoli fisici che sono fonte di
disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di
coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria
ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea",
ovvero "gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque
la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e
componenti". Appare pertanto evidente che fra tali ostacoli
debbono annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non
affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi
ortopedici, o comunque fonte di affaticamento -e, dunque,
di "disagio"- per chiunque, a causa dell'età o di patologie
di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi
fisici. Invero, non può ragionevolmente negarsi che
l'installazione di ascensori costituisca anche rimozione di
barriere architettoniche” (Cons. Stato, sez. VI , 05.03.2014, n. 1032).
Alla luce della giurisprudenza succitata, gli interventi
realizzati rientrano nell’ambito di applicazione della
disciplina sul superamento delle barriere architettoniche,
non trattandosi, quindi, come affermato da parte ricorrente,
di opere idonee a migliorare i servizi e il valore
immobiliare dell’edificio.
Ed invero, nella fattispecie in questione l’intervento è
stato realizzato per adeguare l’immobile, costituito da più
di tre livelli fuori terra, alla normativa sull’eliminazione
delle barriere architettoniche. E’ stato, dunque, realizzato
un ascensore, sono state demolite le vecchie scale
condominiali interne, troppo strette per montare il
servoscale, e costruite delle scale esterne.
Ai sensi del combinato disposto degli articoli 78 e 79 del
d.P.R. n. 380/2001, nonché dell’art. 19 della legge
regionale n. 6/89, le opere dirette all’abbattimento delle
barriere architettoniche possono essere realizzate in deroga
alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi,
salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli
articoli 873 e 907 del codice civile. Non risulta, dunque,
applicabile in tali casi l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968.
E’
stato, invero, affermato che l’interpretazione
costituzionalmente orientata dell’art. 79 del d.p.r. n.
380/2001 porta ad estendere la deroga delle norme sulle
distanze previste dai regolamenti edilizi (dettate nel comma
1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di normazione primaria,
con il corollario di dover limitare al dato testuale il
richiamo all’art. 873 c.c. e quindi dell’inapplicabilità
della disciplina delle distanze dai fabbricati alieni
prevista dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968 (cfr. TAR
Lazio, Latina, 22.09.2014, n. 726).
La normativa suddetta prevede, quindi, per l’abbattimento
delle barriere architettoniche, una specifica e automatica
deroga alla disciplina delle distanze prevista dagli
strumenti urbanistici comunali, senza la necessità di
valutazioni discrezionali dell’Amministrazione.
Né l’applicazione di tale normativa è preclusa per la
realizzazione di nuove opere prive di autonomia funzionale,
come gli ascensori, che vengono ritenuti dalla
giurisprudenza alla stregua di “volumi tecnici o impianti
tecnologici” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 05.12.2012, n.
6253), e come la scala, nel caso di specie, realizzata
all’esterno per assicurare l’uscita degli utenti
dall’ascensore senza incontrare ostacoli architettonici
costituiti dai gradini preesistenti.
La ricorrente assume, inoltre, che sarebbero state possibili
alternative all’intervento realizzato, ma senza fornire
alcuna prova del proprio assunto, né sono fondate le
considerazioni relative alla assunta creazione di una
ingiusta servitù a carico della ricorrente, atteso che
l’art. 79 del d.P.R. n. 380/2001 non esclude il principio di
reciprocità nell’applicazione della normativa in deroga al
regime sulle distanze.
In relazione, poi, all’asserita carenza di motivazione e di
istruttoria della delibera consiliare impugnata, dall’esame
della stessa risulta una, seppur sintetica, motivazione che
dà atto dell’autonoma valutazione effettuata dal Consiglio
comunale, espressosi in esecuzione della sentenza n. 72/2009
di questo Tribunale, che aveva accolto il ricorso per
incompetenza disponendo la “rimessione dell’affare
all’organo consiliare competente”.
Ed invero, secondo il costante orientamento della
giurisprudenza amministrativa, nel caso di provvedimenti
affetti solo da vizi di carattere formale, come quello di
incompetenza, non è necessaria una particolare, dettagliata
motivazione in ordine all’oggetto del provvedimento da
convalidare e degli atti a questo antecedenti (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 12.05.2011, n. 2863).
E tale orientamento risulta tanto più applicabile nel caso
di determinazione vincolata, come nella fattispecie
all’esame del Collegio.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
respinto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 27.03.2018 n. 809
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva – Art. 30 d.P.R. n.
380/2001 – Adozione di atti amministrativi sanzionatori –
Pregiudiziale penale – Non è richiesta – Principi fissati
dalla Corte di Strasburgo in tema di confisca penale –
Inapplicabilità.
L’art. 30 del d.P.R. n. 380/2001 prevede l’adozione di atti
amministrativi volti a colpire e sanzionare sul piano
amministrativo la lottizzazione abusiva di terreni, senza
che sia prevista alcuna pregiudiziale penale, cioè di previa
verifica della sussistenza della responsabilità penale di
cui all’art. 44, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001,
per cui il provvedimento di acquisizione del terreno, in via
amministrativa, non presuppone la previa pronuncia di una
sentenza di condanna penale.
Il provvedimento amministrativo de quo non può, quindi,
essere equiparato o assimilato alla confisca penale, per cui
non valgono nemmeno i principi fissati dalla Corte di
Strasburgo riguardo a quest’ultima tipologia di misura
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.03.2018 n. 1878 -
link a
www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA: Effetti
di un nuovo strumento urbanistico sulle pattuizioni di
natura privata contenute in una convenzione urbanistica.
La sussistenza di una convenzione
urbanistica non può impedire in assoluto al Comune di
introdurre, in sede di nuova pianificazione, una disciplina
diversa da quella prevista dalla convenzione stessa;
ragionare a contrario significherebbe negare il principio di
continuità dell’azione amministrativa la quale, al
contrario, deve poter sempre essere esercitata –anche con
esiti diversi rispetto a quelli precedenti– onde assicurare
la perdurante tutela all’interesse pubblico.
Tuttavia, ciò non significa che il sopravvenuto strumento
urbanistico possa travolgere le pattuizioni liberamente
assunte dai privati con le quali, per la tutela
dell’interesse privato, vengono disposte limitazione
all’attività costruttiva.
In presenza di queste pattuizioni,
il privato che si è vincolato con la stipula del contratto,
non può costruire liberamente adducendo la compatibilità
dell’intervento al sopravvenuto strumento urbanistico, ma
dovrà comunque attenersi ad esse, violando, in caso
contrario, i diritti degli altri soggetti (nella fattispecie
il TAR Milano ha dato atto che la precedente convenzione
urbanistica aveva fatto sorgere, fra i diversi proprietari
parti della convenzione stessa, reciproci obblighi di natura
civilistica, aventi ad oggetto il divieto di apportare
future modifiche volumetriche agli edifici realizzati)
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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30. In proposito il Collegio osserva quanto segue.
31. Come correttamente rileva la ricorrente, la sentenza n.
6186 del 2008 ha chiarito che l’art. 3 della convenzione
urbanistica del 1987 ha fatto sorgere, fra i diversi
proprietari parti della convenzione stessa, reciproci
obblighi di natura civilistica, aventi ad oggetto il divieto
di apportare future modifiche volumetriche agli edifici
realizzati. In sostanza, quindi, la convenzione urbanistica
ha fatto sorgere, con riferimento ad ogni singolo lotto, un
diritto di servitù gravante sui lotti vicini.
32. La ragione di questa previsione è presumibilmente dovuta
al fatto che l’area interessata dal piano urbanistico si
affaccia sul Lago di Como e che, conseguentemente, i
proprietari dei diversi lotti hanno voluto assicurarsi il
diritto di mantenere inalterata, anche per il futuro, la
veduta sul Lago.
33. L’annullamento dei titoli impugnati in quel giudizio è
stato quindi disposto in quanto gli stessi sono stati
rilasciati a soggetti non legittimati ad eseguire interventi
comportanti aumento volumetrico degli edifici esistenti, e
ciò in ritenuta violazione dell’art. 11, primo comma, del
d.lgs. n. 380 del 2001 il quale, come noto, stabilisce che
il permesso di costruire può essere rilasciato al
proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo.
34. Come anticipato, con il ricorso in esame, vengono
impugnati l’autorizzazione paesaggistica ed il permesso di
costruire che assentono la realizzazione di un intervento
pressoché identico a quello oggetto della precedente
controversia.
35. Sia il Comune di Tremezzina che i controinteressati
sostengono che, nonostante quanto disposto nella precedente
sentenza di questo TAR, i suddetti titoli potrebbero oggi
essere legittimamente rilasciati stante l’intervenuta
approvazione del nuovo PGT il quale avrebbe completamente
sostituito la disciplina urbanistica in precedenza dettata
per il compendio di interesse, senza peraltro prevedere
alcun divieto di ampliamento volumetrico degli edifici
esistenti. Le parti rilevano che argomentare a contrario
significherebbe negare al Comune la possibilità di esercizio
continuativo del proprio potere di pianificazione
territoriale, con l’assurdo risultato di cristallizzare
permanentemente, per una singola area, la disciplina dettata
da un risalente piano attuativo.
36. Ritiene il Collegio che queste argomentazioni non siano
del tutto condivisibili.
37. Si deve senz’altro convenire con le parti resistenti
quando affermano che la sussistenza di una convenzione
urbanistica non può impedire in assoluto al Comune di
introdurre, in sede di nuova pianificazione, una disciplina
diversa da quella prevista dalla convenzione stessa.
Ragionare a contrario significherebbe, come rilevano le
parti, negare il principio di continuità dell’azione
amministrativa la quale, al contrario, deve poter sempre
essere esercitata –anche con esiti diversi rispetto a
quelli precedenti– onde assicurare la perdurante tutela
all’interesse pubblico.
38. Ciò non significa però che il sopravvenuto strumento
urbanistico possa travolgere le pattuizioni liberamente
assunte dai privati con le quali, per la tutela
dell’interesse privato appunto, vengono disposte limitazione
all’attività costruttiva. In presenza di queste pattuizioni,
il privato che si è vincolato con la stipula del contratto,
non può costruire liberamente adducendo la compatibilità
dell’intervento al sopravvenuto strumento urbanistico, ma
dovrà comunque attenersi ad esse, violando, in caso
contrario, i diritti degli altri soggetti.
39. Ciò è proprio quanto accaduto nel caso in esame atteso
che –come ha chiarito la sentenza n. 6186 del 2008– l’art.
3 della convenzione urbanistica del 1987 ha fatto sorgere,
in capo ciascun proprietario, il diritto soggettivo a che le
costruzioni poste sui lotti vicini mantengano la
conformazione volumetrica esistente: la realizzazione di un
intervento di innalzamento del sottotetto comportante
aumento volumetrico dell’edificio esistente viola quindi
tali diritti.
40. I controinteressati sostengono che, nel caso concreto,
il sopravvenuto PGT avrebbe determinato l’estinzione
dell’obbligazione in quanto factum principis che renderebbe
impossibile la prestazione che ne costituisce oggetto.
41. Questa argomentazione non può essere condivisa in quanto
–al di là del fatto che i diritti di cui si discute
sembrano aver consistenza reale per cui non paiono
applicabili la norme sull’estinzione dell’obbligazione per
impossibilità sopravvenuta– il PGT (autorizza ma) non
obbliga l’effettuazione di interventi che comportino il
recupero a fini abitativi del sottotetto degli edifici
esistenti. Non vi è dunque alcun impedimento al rispetto del
divieto di ampliamento sancito dalla convenzione.
42. A questo punto va precisato che –come parimenti
chiarito nella sentenza n. 6186 del 2008– la violazione dei
diritti dei vicini non è ininfluente ai fini della
valutazione della legittimità dei titoli abilitativi che
assentono la realizzazione dell’opera. L’art. 11, comma
primo, del d.lgs. n. 380 del 2001 impone, infatti, ai comuni
l’obbligo di accertare la legittimazione del richiedente il
titolo; legittimazione evidentemente insussistente in capo a
chi pretende di costruire violando un diritto di servitù.
43. Né può ritenersi che tale accertamento fosse
eccessivamente gravoso per il Comune di Tremezzina atteso
che, come ancora rilevato nella sentenza n. 6186 del 2008, i
diritti di cui si discute trovano la loro fonte in una
convenzione urbanistica di cui è parte lo stesso Comune e di
cui quest’ultimo ha, quindi, piena disponibilità.
44. Si deve pertanto ritenere che sia l’autorizzazione
paesaggistica che il permesso di costruire impugnati in
questa sede riproducono gli stessi vizi dei precedenti atti
e si pongono, perciò, in contrasto con le statuizioni
contenute nella sentenza n. 6186 del 2008. Questi atti sono
quindi affetti da nullità ai sensi dell’art. 21-speties
della legge n. 241 del 1990.
45. Per quanto riguarda la domanda risarcitoria, ritiene il
Collegio che essa vada respinta in quanto non è provata la
sussistenza della colpa in capo all’Amministrazione.
Quest’ultima infatti, pur errando per le ragioni illustrate,
ha emesso i provvedimenti impugnati confidando nella loro
legittimità stante l’intervenuta approvazione del nuovo
strumento urbanistico.
46. Né si può ritenere che l’errore fosse facilmente
evitabile stante l’insussistenza di consolidati orientamenti
giurisprudenziali sulle questioni giuridiche affrontate in
questa sede (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.03.2018 n. 784
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Impugnazione
di una norma di regolamento.
Ai fini del giudizio di ammissibilità
dell'impugnazione di una norma di regolamento, occorre
distinguere tra regolamenti contenenti “volizioni
preliminari ”, caratterizzati da generalità ed
astrattezza, ovvero da previsioni normative astratte e
programmatiche, che non si traducono in un’immediata
incisione della sfera giuridica del destinatario, e
regolamenti contenenti “volizioni azioni”, ossia
previsioni destinate alla diretta applicazione, come tali
capaci di produrre un immediato effetto lesivo della sfera
giuridica del destinatario.
I regolamenti che contengono disposizioni suscettibili di
arrecare, in via immediata, una lesione attuale
dell'interesse di un soggetto, vanno pertanto autonomamente
e immediatamente impugnati, essendo conseguentemente
inammissibile il ricorso avverso un atto regolamentare che
abbia natura immediatamente precettiva, qualora ciò abbia
luogo solo in occasione dell'adozione dell’atto esecutivo,
meramente attuativo, essendo invece onere della parte
interessata attivarsi nell'ordinario termine di decadenza
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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III) Con il primo motivo, l’istante deduce altresì l’abnormità del
citato art. 5 del Regolamento Comunale, che nel consentire
l’esercizio di una sola sala giochi ogni 5.000 abitanti,
finirebbe per sancire surrettiziamente il criterio della
priorità, avendo il Comune di San Martino una popolazione di
circa 6.000 residenti, violando così l’art. 3 del D.L. n.
223/2006, la Direttiva Bolkestein, il D.L. 13.08.2011 n. 138,
e la normativa regionale in materia.
III.1) Ritiene il Collegio di poter prescindere dallo
scrutinio del presente motivo, avendo il provvedimento
impugnato una motivazione plurima, ed essendosi accertato,
in esito allo scrutinio dei precedenti motivi, la
legittimità di uno dei due profili su cui il medesimo si
fonda.
Come detto, l’ordinanza impugnata ha disposto la chiusura
della sala da giochi della ricorrente per un duplice ordine
di motivi, e pertanto, sia poiché la stessa è stata gestita
in “assenza dell’autorizzazione comunale”, che a causa della
“violazione dei criteri previsti dal Regolamento Comunale”.
Conseguentemente, anche qualora in esito allo scrutinio del
presente motivo, il medesimo venisse accolto, ritenendo
pertanto che il citato Regolamento sia effettivamente
illegittimo, il provvedimento impugnato manterrebbe tuttavia
la propria validità, considerato che la ricorrente, per
oltre sei anni, ha gestito la propria sala giochi in assenza
della prescritta autorizzazione.
III.2) Fermo restando quanto precede, ad abundantiam, il
Collegio dubita fortemente della tempestività
dell’impugnazione del Regolamento Comunale, come dedotto
dalla difesa della resistente.
III.2.1) In linea generale, osserva il Collegio che, ai fini
del giudizio di ammissibilità dell'impugnazione di una norma
di regolamento, occorre distinguere tra regolamenti
contenenti “volizioni preliminari”, caratterizzati da
generalità ed astrattezza, ovvero da previsioni normative
astratte e programmatiche, che non si traducono in
un’immediata incisione della sfera giuridica del
destinatario, e regolamenti contenenti “volizioni azioni”,
ossia previsioni destinate alla diretta applicazione, come
tali capaci di produrre un immediato effetto lesivo della
sfera giuridica del destinatario (TAR Toscana, Sez. I,
08.09.2015, n. 1194).
I regolamenti che contengono disposizioni suscettibili di
arrecare, in via immediata, una lesione attuale
dell'interesse di un soggetto, vanno pertanto autonomamente
ed immediatamente impugnati (C.S. Sez. V, 07.10.2016, n.
4130), essendo conseguentemente inammissibile il ricorso
avverso un atto regolamentare che abbia natura
immediatamente precettiva, qualora ciò abbia luogo solo in
occasione dell'adozione dell’atto esecutivo, meramente
attuativo, essendo invece onere della parte interessata
attivarsi nell'ordinario termine di decadenza (C.S. Sez. V,
19.11.2009, n. 7258).
III.2.2) Nella fattispecie per cui è causa, a fronte
dell’approvazione del Regolamento Comunale in data
23.09.2010, il 22.10.2010, e pertanto nei termini per poterlo
impugnare, la ricorrente ha presentato un’istanza di
autorizzazione, a cui era applicabile il nuovo regime, ciò
che ha inevitabilmente fatto sorgere l'interesse alla sua
immediata impugnazione (TAR Lazio, Latina, Sez. I,
16.02.2016, n. 103), che non ha tuttavia avuto luogo.
Con il primo motivo del citato ricorso R.G. n. 495/2011,
l’istante ha infatti sostenuto che il citato Regolamento non
avrebbe potuto essere applicato alla fattispecie, in quanto
non ancora entrato in vigore al momento della proposizione
dell’istanza. La sentenza n. 1318/2011, ha tuttavia respinto
il motivo, osservando che la ricorrente, dopo aver
presentato una prima istanza in data 22.10.2010, l’aveva
reiterata, espressamente dichiarando che la stessa era
proposta “in piena vigenza della nuova disciplina”,
riconoscendone pertanto apertamente la diretta applicabilità
al caso di specie, come desumibile dalla sua premessa (“che
ai sensi della normativa vigente il rilascio della licenza
deve essere effettuato per ogni 5.000 abitanti”).
In conclusione, sulla base del giudicato di cui alla
sentenza n. 1318/2011, nell’anno 2010, la ricorrente era a
conoscenza del contenuto del Regolamento Comunale posto a
fondamento del provvedimento in questa sede impugnato,
avendo inoltre sostenuto che il medesimo fosse alla stessa
direttamente applicabile, e senza averlo tuttavia
tempestivamente impugnato, malgrado le sue prescrizioni
fossero immediatamente cogenti, a prescindere da qualunque
provvedimento applicativo (V. per un caso simile TAR
Lazio, Roma, Sez. I, 13.12.2011, n. 9715, che ha ritenuto
riconducibile alle c.d. “volizioni azioni” le previsioni di
un regolamento che obbligavano le società ivi indicate ad
avere la sede legale in un determinato territorio, laddove
quello in questa sede impugnato ha sostanzialmente precluso
l’esercizio di una determinata attività in un territorio).
Il ricorso va pertanto respinto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.03.2018 n. 766
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Limiti
per l’applicabilità del c.d. terzo condono edilizio nelle
aree sottoposte a vincolo paesaggistico.
Ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett.
d), del decreto legge n. 269 del 30.09.2003, convertito
nella legge n. 326 del 24.11.2003 (c.d. terzo condono), le
opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici
vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, sono
sanabili solo se ricorrono congiuntamente le seguenti
condizioni:
a) si tratti di opere realizzate prima dell'imposizione del
vincolo;
b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo
edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro,
risanamento conservativo, manutenzione straordinaria);
d) vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del
vincolo.
Pertanto, ai sensi della legge n. 326 del 2003, un abuso
comportante la realizzazione di nuove superfici e nuova
volumetria in area assoggettata a vincolo paesaggistico, sia
esso di natura relativa o assoluta, non può essere condonato.
---------------
Il ricorso non è suscettibile di favorevole apprezzamento.
Come correttamente rilevato dalla difesa del Comune, il
Consiglio di Stato ha costantemente affermato che, ai sensi
dell’art. 32, comma 27, lett. d) del decreto legge n. 269
del 30.09.2003, convertito nella legge n. 326 del
24.11.2003 (cd. terzo condono), le opere abusivamente
realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui
quello ambientale e paesistico, sono sanabili solo se
ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
a) si tratti di opere realizzate prima della imposizione del
vincolo;
b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo
edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro,
risanamento conservativo, manutenzione straordinaria);
d) vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del
vincolo.
Pertanto, ai sensi della legge n. 326 del 2003, un abuso
comportante la realizzazione di nuove superfici e nuova
volumetria in area assoggettata a vincolo paesaggistico, sia
esso di natura relativa o assoluta, non può essere condonato
(Consiglio di Stato, Sezione VI, 02.05.2016, n. 1664 e
precedenti ivi richiamati).
Dalla su indicata applicabilità del c.d. terzo condono
edilizio, nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico,
alle sole opere di restauro o risanamento conservativo o di
manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se ed
in quanto conformi alle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici, deriva la non
sanabilità degli abusi realizzati dalla ricorrente.
Non vi è dubbio, infatti, che quand’anche volesse
qualificarsi l’intervento per cui è causa alla stregua di
ristrutturazione edilizia, come dedotto dalla parte
ricorrente, lo stesso non sarebbe condonabile, in quanto
comportante un aumento della superficie pari a 9,23 metri
quadri.
Da tale circostanza deriva la non condivisibilità
dell’ulteriore censura con cui la ricorrente sostiene che la
sanatoria andrebbe esclusa solo per le opere realizzate su
immobili soggetti a vincoli paesistici che comportino una
concreta incidenza sui valori ambientali, in tesi esclusa
trattandosi di una porzione di edificio interrata.
A tale interpretazione osta il chiaro dettato dell’art. 149
del d.lgs. n. 42/2004 ai sensi del quale “… non è comunque
richiesta l'autorizzazione prescritta dall'articolo 146,
dall'articolo 147 e dall'articolo 159:
a) per gli interventi di manutenzione ordinaria,
straordinaria, di consolidamento statico e di restauro
conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e
l'aspetto esteriore degli edifici…”.
Nel caso di specie, è stato realizzato un incremento
planovolumetrico che non consente di qualificare
l’intervento di che trattasi alla stregua di intervento
minore.
Deve, da ultimo, evidenziarsi che la domanda di condono
edilizio presentata dalla ricorrente ha ad oggetto un
intervento di carattere unitario, senza distinzione tra un
locale e l’altro, comportante una aumento di superficie pari
a 9,23 mq. e, dunque, superiore a quel limite del 2% della
superficie complessiva dell’edificio (pari a 165,00 mq.) per
il quale l’art. 32, comma 1, della l. n. 47/1995 esclude la
necessità del parere dell’amministrazione preposta alla
tutela del vincolo.
Il ricorso, in conclusione, è infondato e va respinto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 19.03.2018 n. 743
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' in re ipsa che l’annullamento della lex
specialis travolge tutti gli atti successivi della
procedura, con la conseguente necessaria riedizione della
gara ab initio.
---------------
III. Per quanto riguarda la domanda di risarcimento danni,
parte ricorrente non ha sciolto la riserva apposta alla
domanda risarcitoria relativa alla quantificazione del danno
derivante da perdita di chance.
D’altra parte, l’annullamento della procedura comporta il
risarcimento in forma specifica.
Come ribadito dalla richiamata decisione del Consiglio di
Stato, Sez. III, 11/01/2018, n. 127, è in re ipsa che
l’annullamento della lex specialis travolge tutti gli
atti successivi della procedura, con la conseguente
necessaria riedizione della gara ab initio (TAR
Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 14.03.2018 n. 544 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’attività di repressione degli abusi
edilizi non è assistita da particolari garanzie
partecipative, tanto che si esclude addirittura la necessità
di invio della comunicazione di avvio del procedimento agli
interessati.
Ne consegue, una volta esclusa la
necessità di comunicazione dell’apertura del procedimento,
che deve parimenti escludersi che ai destinatari del
provvedimento debbano essere riconosciute le prerogative
connesse alla partecipazione procedimentale fra cui quella
di presentare osservazioni (con conseguente obbligo per
l’amministrazione di prenderle in considerazione prima di
assumere la decisione finale).
Né si ritiene che l’Amministrazione debba corredare la
decisione sanzionatoria con gravosi supporti motivazionali,
essendo sufficiente che il provvedimento descriva con
sufficiente chiarezza la consistenza delle opere e le
ragioni per le quali le stesse sono ritenute in contrasto
con la vigente normativa urbanistico-edilizia.
---------------
Stabilisce il secondo comma dell’art. 31 del d.P.R. n. 380
del 2001 che, una volta accertata la realizzazione di
interventi in assenta di titolo edilizio, il comune deve
ordinarne la rimozione, indirizzando l’ordine sia all’autore
dell’abuso che al proprietario. Il terzo comma della stessa
norma, dispone poi che <<Se il responsabile dell'abuso non
provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei
luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il
bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo
le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di
opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto
gratuitamente al patrimonio del comune>>.
Questa diposizione riproduce la previsione contenuta nel
secondo comma dell'art. 7 della legge n. 47 del 1985, la
quale è stata oggetto di una pronuncia della Corte
costituzionale che ne ha escluso l’applicabilità nei
confronti del proprietario incolpevole, e cioè nei confronti
del proprietario che, estraneo all’abuso, abbia dimostrato
in modo inequivocabile, una volta venutone a conoscenza, di
essersi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli
dall'ordinamento.
La giurisprudenza, in applicazione di questi principi, ha
poi chiarito che, sebbene l’ordine di demolizione debba
sempre essere rivolto anche nei confronti del proprietario,
questi non può subire la perdita di proprietà dell’area di
sedime quando dimostri:
a) di non essere l’autore dell’abuso e di non aver compartecipato
alla sua realizzazione;
b) di essersi seriamente attivato nei confronti dell’autore che
abbia la disponibilità del bene, mediante diffide o altre
iniziative di carattere ultimativo, per costringerlo ad
eseguire la demolizione.
---------------
18. Con una prima censura, contenuta nel ricorso
introduttivo, parte ricorrente lamenta la mancata
attivazione delle garanzie partecipative in quanto il Comune
di Legnano, dopo averle inviato tardivamente l’avviso di
avvio del procedimento, non avrebbe adeguatamente valutato
le argomentazioni difensive da essa dedotte in sede
procedimentale e non avrebbe adeguatamente motivato la
decisione di emettere l’ordine di demolizione.
19. La censura è infondata per le ragioni di seguito
esposte.
20. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale,
dal quale il Collegio non ha motivo per discostarsi,
l’attività di repressione degli abusi edilizi non è
assistita da particolari garanzie partecipative, tanto che
si esclude addirittura la necessità di invio della
comunicazione di avvio del procedimento agli interessati
(cfr., fra le tante, TAR Lombardia Milano, sez. I, 12.04.2017, n. 847).
Ne consegue, una volta esclusa la
necessità di comunicazione dell’apertura del procedimento,
che deve parimenti escludersi che ai destinatari del
provvedimento debbano essere riconosciute le prerogative
connesse alla partecipazione procedimentale fra cui quella
di presentare osservazioni (con conseguente obbligo per
l’amministrazione di prenderle in considerazione prima di
assumere la decisione finale).
21. Né si ritiene che l’Amministrazione debba corredare la
decisione sanzionatoria con gravosi supporti motivazionali,
essendo sufficiente che il provvedimento descriva con
sufficiente chiarezza la consistenza delle opere e le
ragioni per le quali le stesse sono ritenute in contrasto
con la vigente normativa urbanistico-edilizia (cfr. fra le
tante, TAR Campania Napoli, sez. VIII, 28.08.2017, n.
4122).
22. Ciò premesso deve rilevarsi che il Comune di Legnano,
pur non essendovi tenuto, ha comunicato alla ricorrente
l’avvio del procedimento sanzionatorio permettendole quindi
di partecipare al procedimento.
23. Inoltre, nel corpo motivazionale del provvedimento, vi è
una analitica descrizione delle opere sanzionate nonché sono
chiarite le ragioni del ritenuto loro contrasto con la
vigente normativa: secondo il Comune le opere sono abusive
in quanto realizzate senza titolo. Il quadro motivazionale è
stato dunque sufficientemente delineato, e ciò sebbene
manchi una esplicita confutazione delle argomentazioni
dedotte dall’interessata in sede procedimentale.
24. Per tutte queste ragioni va ribadita l’infondatezza
della censura in esame.
...
38. Parimenti infondato è il ricorso proposto con motivi
aggiunti, diretto contro l’atto di accertamento della
mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, giacché con
esso vengono riproposte in sostanza le medesime cesure, come
visto infondate, dedotte nel ricorso introduttivo.
39. Si può ora passare all’esame del ricorso RG. n.
2925/2016, proposto dalla società Ad. s.a.s.
proprietaria degli immobili di cui è causa. Questo ricorso,
come anticipato, si rivolge unicamente contro l’atto di
accertamento della mancata ottemperanza all’ordine di
demolizione.
40. Con un’unica censura, la ricorrente sostiene di essere
estranea all’abuso e di aver posto in essere concrete
iniziative volte ad indurre l’utilizzatore del bene ad
ottemperare all’ordine di demolizione. Per questa ragione,
secondo la parte, il Comune non potrebbe penalizzarla
acquisendo al proprio patrimonio l’area di sua proprietà.
41. Ritiene il Collegio che questa censura sia infondata per
le ragioni di seguito esposte.
42. Stabilisce il secondo comma dell’art. 31 del d.P.R. n.
380 del 2001 che, una volta accertata la realizzazione di
interventi in assenta di titolo edilizio, il comune deve
ordinarne la rimozione, indirizzando l’ordine sia all’autore
dell’abuso che al proprietario. Il terzo comma della stessa
norma, dispone poi che <<Se il responsabile dell'abuso non
provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei
luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il
bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo
le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di
opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto
gratuitamente al patrimonio del comune>>.
43. Questa diposizione riproduce la previsione contenuta nel
secondo comma dell'art. 7 della legge n. 47 del 1985, la
quale è stata oggetto di una pronuncia della Corte
costituzionale che ne ha escluso l’applicabilità nei
confronti del proprietario incolpevole, e cioè nei confronti
del proprietario che, estraneo all’abuso, abbia dimostrato
in modo inequivocabile, una volta venutone a conoscenza, di
essersi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli
dall'ordinamento (cfr. Corte Costituzionale sent. 15.07.1991, n. 345).
44. La giurisprudenza, in applicazione di questi principi,
ha poi chiarito che, sebbene l’ordine di demolizione debba
sempre essere rivolto anche nei confronti del proprietario,
questi non può subire la perdita di proprietà dell’area di
sedime quando dimostri:
a) di non essere l’autore dell’abuso
e di non aver compartecipato alla sua realizzazione;
b) di
essersi seriamente attivato nei confronti dell’autore che
abbia la disponibilità del bene, mediante diffide o altre
iniziative di carattere ultimativo, per costringerlo ad
eseguire la demolizione (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 07.08.2015, n. 3897; id.
04.05.2015, n. 2211).
45. Ritiene il Collegio che questi elementi non ricorrano
nel caso di specie.
46. Si deve invero rilevare che Ad. s.a.s. ha diffidato
l’autore dell’abuso solo in data 26.10.2016, non solo
dopo che il termine per la demolizione era abbondantemente
scaduto, ma addirittura dopo che le era stato comunicato il
provvedimento di accertamento della mancata esecuzione
spontanea.
47. Ritiene il Collegio che la tardività dell’azione
intrapresa denoti l’insussistenza di un serio intento
dissociativo del proprietario, attivatosi evidentemente al
solo fine di costituire un espediente da far valere in
questo giudizio per evitare la perdita di proprietà del
proprio bene.
48. Va pertanto ribadita l’infondatezza del motivo in esame.
49. Essendo tutte le censure infondate vanno respinte sia la
domanda di annullamento che la domanda risarcitoria (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 09.03.2018 n. 683
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Chiusura
di vani aperti con ampliamento della superficie abitabile.
La chiusura di vani aperti, che
determina l'ampliamento della superficie abitabile e un
nuovo locale autonomamente utilizzabile, non può essere
ascritto né alla categoria della manutenzione straordinaria,
né a quella della ristrutturazione, essendo invece
qualificabile come intervento di trasformazione urbanistica
da ricondursi alla categoria della nuova costruzione, per la
realizzazione del quale dev'essere quindi necessariamente
ottenuto un titolo edilizio.
Non è, poi, decisivo il fatto che le nuove strutture non
sono realizzate in muratura, ma in materiale facilmente
amovibile e smontabile, atteso che per stabilire se il nuovo
manufatto abbia il carattere della stabilità piuttosto che
quello della amovibilità occorre aver riguardo non già alla
tipologia dei materiali utilizzati, ma alla funzione che al
manufatto stesso viene conferita dall’utilizzatore.
In sostanza, si deve escludere il carattere amovibile
qualora le nuove opere siano destinate a soddisfare esigenze
non temporanee (nella fattispecie si trattava della
realizzazione di una modifica della copertura del
fabbricato, con realizzazione di una articolata struttura di
metallo posta a sostegno di una tenda retrattile, e
dell’installazione di pannelli perimetrali di chiusura posti
sui lati della struttura.
Invero, tali opere hanno determinato una completa
trasformazione del bene, il quale si caratterizzava prima
per essere una spazio semi aperto, seppur coperto da tenda,
avente la funzione di andito carraio/pedonale non destinato
alla permanenza di persone, e si caratterizza ora invece per
essere uno spazio chiuso idoneo alla permanenza di persone,
che determina un ampliamento del locale utilizzato dal
ricorrente per l’esercizio della propria attività
commerciale)
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
25. Con una
seconda censura contenuta nel ricorso
introduttivo, parte ricorrente contesta il fondamento della
decisione avversata sostenendo che le opere sanzionate –contrariamente da quanto ritenuto dal Comune che le ha
qualificate come intervento di nuova costruzione–
dovrebbero ascriversi alla categoria della manutenzione
ordinaria (o, al limite a quella della manutenzione
straordinaria); con la conseguenza che, per procedere alla
loro realizzazione, non sarebbe necessario il rilascio di un
titolo edilizio. Per queste ragioni tali opere non
potrebbero considerarsi abusive.
26. In proposito si osserva quanto segue.
27. Secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale
formatosi in materia di classificazione degli interventi
edilizi, la chiusura di vani aperti che determina
l'ampliamento della superficie abitabile e un nuovo locale
autonomamente utilizzabile non può essere ascritto né alla
categoria della manutenzione straordinaria, né a quella
della ristrutturazione, essendo invece qualificabile come
intervento di trasformazione urbanistica da ricondursi alla
categoria della nuova costruzione, per la realizzazione del
quale dev'essere quindi necessariamente ottenuto un titolo
edilizio (cfr. TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 16.06.2017, n. 967; TAR Piemonte, Sez. I, 15.05.2014, n.
888; TAR Campania Salerno, sez. II, 26.11.2012, n.
2126; TAR Campania Napoli, sez. II, 07.05.2012, n.
2079; id., sez. IV 03.01.2002 , n. 50; TAR Valle
d'Aosta, 17.01.2007, n. 11).
28. Ciò premesso, va rilevato che, nel caso concreto, parte
ricorrente ha provveduto alla realizzazione delle seguenti
opere: a) modifica della copertura del fabbricato, con
realizzazione di una articolata struttura di metallo posta a
sostegno di una tenda retrattile; b) installazione di
pannelli perimetrali posti sui lati della struttura; c)
installazione di pannelli di chiusura paralleli alla Via
....
29. Ritiene il Collegio che tali opere abbiano determinato
una completa trasformazione del bene, il quale si
caratterizzava prima per essere una spazio semi aperto
(seppur coperto da tenda) avente la funzione di andito
carraio/pedonale (non destinato quindi alla permanenza di
persone), e si caratterizza ora invece per essere uno spazio
chiuso idoneo alla permanenza di persone, che determina
quindi, in sostanza, un ampliamento del locale utilizzato
dalla ricorrente per l’esercizio della propria attività
commerciale.
30. A supporto di questa conclusione vi sono le fotografie
depositate in giudizio dall’Amministrazione resistente in
data 27.09.2016 (doc. 7), dalle quali si evince che
lo spazio creato è dotato di strutture che ne consentono la
completa chiusura ed è altresì dotato di impianti ed arredi
funzionali alla permanenza di persone.
31. Si deve poi osservare che a smentire questa conclusione
non è decisivo il fatto che le nuove strutture non sono
realizzate in muratura ma in materiale facilmente amovibile
e smontabile (come detto anche la nuova copertura è
costituita da una tenda e le pareti perimetrali sono
costituite da pannelli).
Invero, secondo un consolidato
orientamento giurisprudenziale, ciò che rileva per stabilire
se il nuovo manufatto abbia il carattere della stabilità
piuttosto che quello della amovibilità, occorre aver
riguardo non già alla tipologia dei materiali utilizzati ma
alla funzione che al manufatto stesso viene conferita
dall’utilizzatore: in sostanza, si deve escludere il
carattere amovibile qualora le nuove opere, come nel caso di
specie, siano destinate a soddisfare esigenze non temporanee
(cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 12.06.2015, n. 2892;
TAR Campania Napoli, sez. IV, 22.05.2017, n. 2714).
32. Per tutte queste ragioni si deve ritenere che l’opera in
concreto sanzionata non possa essere ascritta alle categorie
della manutenzione ordinaria o della manutenzione
straordinaria, come vorrebbe invece parte ricorrente. Ne
consegue che per la sua realizzazione era necessario il
previo ottenimento di un titolo edilizio, la mancanza del
quale ne determina l’abusività.
33. Va dunque ribadita l’infondatezza della censura (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 09.03.2018 n. 683
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Immutabilità
soggettiva dei raggruppamenti temporanei.
Dal nuovo quadro normativo delineato
dal d.lgs. n. 50 del 2016, emergono valide ragioni a favore
di una più rigorosa applicazione del principio della
immutabilità soggettiva dei raggruppamenti temporanei
rispetto alle aperture manifestatesi nel vigore dell’art. 51
del d.lgs. n. 163 del 2006, avendo il legislatore optato per
la piena tutela del principio della “par condicio” nel corso
della gara, principio che potrebbe essere vulnerato qualora
ad un componente di un R.T.I. fosse consentito di sostituire
altri a sé, eludendo i controlli all’uopo prescritti.
Le
eccezioni sono, dunque, ammissibili soltanto in quanto
riguardino motivi indipendenti dalla volontà del soggetto
partecipante alla gara e trovino giustificazione
nell'interesse della stazione appaltante alla continuazione
della stessa; al di fuori delle ipotesi normativamente
previste non può che riprendere vigore il divieto, volto a
presidiare anche la complessiva serietà delle imprese che
partecipano alla gara, onde garantire la migliore
affidabilità del futuro contraente dell’amministrazione
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
15. Il ricorso incidentale è, nei sensi di seguito esposti,
fondato.
15.1. L’art. 48 del d.lvo 18.04.2016, n. 50, invocato
dalla ricorrente incidentale, al comma 9 vieta “qualsiasi
modificazione alla composizione dei raggruppamenti
temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a
quella risultante dall’impegno presentato in sede di
offerta”, fatto salvo quanto disposto dai successivi commi
18 e 19.
Questi ultimi, dal canto loro, consentono alla
S.A., nei casi “di fallimento, liquidazione coatta
amministrativa, amministrazione controllata, amministrazione
straordinaria, concordato preventivo ovvero procedura di
insolvenza concorsuale o di liquidazione del mandatario
ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in
caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del
medesimo ovvero in caso di perdita, in corso di esecuzione,
dei requisiti di cui all'articolo 80, ovvero nei casi
previsti dalla normativa antimafia”, di proseguire il
rapporto di appalto con un operatore economico subentrante
che abbia i requisiti di qualificazione.
15.2. La norma ricalca la previgente disciplina, portata
dall’art. 37 del d.lgs. n. 163/2006, in ordine alla quale,
sulla questione riguardante le modificazioni soggettive dei
raggruppamenti temporanei di impresa, la giurisprudenza non
si è pronunciata univocamente.
15.2.1. Secondo un orientamento più restrittivo, l'immodificabilità
soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche, preordinata
a garantire l'Amministrazione appaltante in ordine alla
verifica dei requisiti di idoneità morale, tecnico
organizzativa ed economica, non consente altre modifiche se
non quelle ammesse (tassativamente) dall'art. 37, commi 18 e
19 del d.lgs. n. 163 del 2006 (Consiglio di Stato, Sez. IV,
14.12.2012, n. 6446; id., 03.07.2014 n. 3344).
15.2.2. Secondo un altro orientamento, più estensivo, le
modifiche soggettive elusive del divieto posto dall’articolo
37, comma 9, del Codice dei contratti, sono quelle
riguardanti l'aggiunta o la sostituzione di imprese,
rispetto a quelle indicate al momento di partecipazione alla
gara e non anche quelle che conducono al recesso di una
delle imprese del raggruppamento o consorzio. In tal caso,
infatti, l'amministrazione, al momento del mutamento
soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di
capacità tecnica e di moralità dell'impresa o delle imprese
che restano, con la conseguenza che i rischi che il divieto
posto dal citato comma 9 dell’art. 37 del codice dei
contratti mira ad impedire non potrebbero verificarsi
(Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 842 del 16.02.2010,
Sez. V, n. 6546 del 10.09.2010).
15.2.3. Sulla questione si è espressa, quindi, l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 8 del 04.05.2012.
Con essa l’A.P. ha preliminarmente ricordato
che il principio di immodificabilità soggettiva dei
partecipanti alle gare pubbliche mira a garantire una
conoscenza piena, da parte delle amministrazioni
aggiudicatrici, dei soggetti che intendono contrarre con le
amministrazioni stesse, consentendo una verifica preliminare
e compiuta dei requisiti di idoneità morale,
tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria dei
concorrenti.
L’Adunanza Plenaria ha, quindi, ritenuto che
le
modifiche soggettive che si pongono in contrasto con il
principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti
alle gare pubbliche sono quelle che portano all'aggiunta o
alla sostituzione delle imprese partecipanti e non anche
quelle che conducono al recesso di una delle imprese del
raggruppamento: in tal caso, infatti, le esigenze di
effettuare una verifica preliminare dei requisiti di
idoneità morale, tecnico-organizzativa ed
economico-finanziaria dei concorrenti non risultano
frustrate poiché l'Amministrazione, al momento del recesso,
ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di
moralità dell'impresa o delle imprese che restano, sicché i
rischi che il divieto mira ad impedire non possono
verificarsi.
L’Adunanza Plenaria ha tuttavia aggiunto che
il recesso
dell'impresa componente di un raggruppamento nel corso della
procedura di gara non può valere a sanare una situazione di
preclusione all'ammissione alla procedura sussistente al
momento dell'offerta in ragione della sussistenza di cause
di esclusione riguardanti il soggetto recedente, pena la
violazione della par condicio tra i concorrenti.
Il divieto di modificazione soggettiva, di cui all’art. 37
del codice dei contratti, secondo quanto affermato
dall’Adunanza Plenaria, non ha, quindi, l'obiettivo di
precludere sempre e comunque il recesso dal raggruppamento
in costanza di procedura di gara ma quello di consentire
alla stazione appaltante di verificare il possesso dei
requisiti da parte dei soggetti che partecipano alla gara e,
correlativamente, di precludere modificazioni soggettive,
sopraggiunte ai controlli, e dunque, in grado di impedire le
suddette verifiche preliminari (Cons. Stato, III,
21.11.2014, n. 5752; Consiglio di Stato, 13.05.2009, n.
2964) ovvero di vanificarle (Cons. Stato, V, 23.11.2016, n.
4918; id., 23.07.2007, n. 4101).
Con l’ulteriore precisazione che il divieto di modifica
suddetto riguarda l’intero arco della procedura di evidenza
pubblica, mentre le eccezioni contemplate ai commi 18 e 19,
concernenti il fallimento del mandante e del mandatario, la
morte, l’interdizione o inabilitazione dell’imprenditore
individuale, nonché le ipotesi previste dalla normativa
antimafia, riguardano evenienze relative alla successiva
fase dell’esecuzione del contratto.
15.3. Nel passaggio dal Codice del 2006 a quello del 2016,
pur mantenendosi fermo il surrichiamato divieto, come sopra
interpretato, non è stata riprodotta nel nuovo Codice la
norma che, all’art. 51 del d.lgs. n. 163/2006, contemplava
espressamente la possibilità di subentro del soggetto
risultante da vicende societarie quali la cessione d’azienda
o di un suo ramo, trasformazioni, fusioni o scissioni,
previo accertamento dei requisiti richiesti.
L’art. 106 del d.lgs. 50/2016, infatti, nel prevedere alcune
ipotesi di modifiche soggettive dei contratti di appalto,
ammesse purché non implichino altre modifiche sostanziali al
contratto e non siano finalizzate a eludere l’applicazione
del codice, concerne soltanto la fase contrattuale,
esecutiva del rapporto, e non anche la fase amministrativa a
monte (Cons. Stato, V, 23.11.2016, n. 4918).
Tale norma non può essere applicata in via analogica o
estensiva alla fase di gara, ostandovi il suo carattere
eccezionale rispetto alla regola generale stabilita dal già
citato art. 48, comma 9, del d.lvo n. 50 del 2016.
Quest’ultima, ovvero il relativo divieto imposto dal
legislatore, riguarda "qualsiasi modificazione", con ciò
impedendosi all'interprete di escludere alcune delle
modificazioni dal "totale" di esse, complessivamente vietato
dal legislatore, come confermato dal fatto che il medesimo
legislatore ha provveduto espressamente ad indicare le
eccezioni al regime di divieto (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
22.12.2014 n. 6311; id., 03.07.2014, n. 3344).
Come già affermato dalla giurisprudenza in relazione alle
deroghe di cui ai commi 18 e 19 dell’art. 37 d.lgs.
163/2006, sovrapponibili in parte qua ai commi 17 e 18
dell’art. 48 del d.lgs. n. 50/2016, esse presuppongono che
sia già in atto l'esecuzione del contratto: la ratio della
deroga, infatti, va individuata "nell'esigenza di assicurare
l'esecuzione del contratto nei termini stabiliti e di
ovviare quindi ad un evento che colpisca uno dei componenti
del raggruppamento temporaneo di imprese che si è
aggiudicato la commessa con la sua sostituzione con altra
impresa, o l'assunzione della quota di esecuzione
originariamente spettante al medesimo componente da parte
degli altri. La sua operatività presuppone quindi
un'esecuzione in corso e, pertanto, che la prodromica
procedura di affidamento si sia conclusa" (Cons. Stato, V, 18.07.2017, n. 3539).
15.4. Da tale quadro emergono, dunque, valide ragioni a
favore di una più rigorosa applicazione del principio della
immutabilità soggettiva dei raggruppamenti temporanei
rispetto alle aperture manifestatesi nel vigore dell’art. 51
del d.lgs. n. 163/2006, avendo il legislatore optato per la
piena tutela del principio della “par condicio” nel corso
della gara, principio che potrebbe essere vulnerato qualora
ad un componente di un R.T.I. fosse consentito di sostituire
altri a sé, eludendo i controlli all’uopo prescritti (cfr.
da ultimo, Consiglio di Stato, V, 19.02.2018, n. 1031 che,
in applicazione dei suesposti principi, ha escluso che la
modifica riduttiva dell’R.T.I. derivante dal decesso del
mandante potesse determinare l’esclusione automatica dalla
gara, essendo stata ritenuta la natura dell’evento che ha
determinato la modifica tale da escludere ogni possibile
intento elusivo della lex specialis).
15.5. Le eccezioni sono, dunque, ammissibili soltanto in
quanto riguardino motivi indipendenti dalla volontà del
soggetto partecipante alla gara e trovino giustificazione
nell'interesse della stazione appaltante alla continuazione
della stessa. Al di fuori delle ipotesi normativamente
previste non può che riprendere vigore il divieto, volto a
presidiare anche la complessiva serietà delle imprese che
partecipano alla gara, onde garantire la migliore
affidabilità del futuro contraente dell’amministrazione
(TAR Lombardia, Brescia, II, 06/02/2017, n. 167; TAR
Puglia, Lecce, I, ordinanza 07/12/2016, n. 564).
16. Applicando le suesposte coordinate ermeneutiche al caso
di specie, il Collegio non può che ritenere fondate le
censure che fanno leva sulla violazione del principio di
immodificabilità soggettiva, come sopra tratteggiato.
16.1. Trapela da quanto allegato e documentato in atti la
modificazione di uno dei due soggetti (la mandataria Do.Ca.) componente dell’R.T.I. concorrente, avvenuta in
pieno svolgimento della procedura concorsuale, ovvero subito
dopo l’ammissione alla gara (che faceva espressamente “salvo
l’esito delle valutazioni dei requisiti soggettivi,
economico finanziari e tecnico professionali di
partecipazione dichiarati dai concorrenti”, giusto doc. n. 4
già citato, comunicato ai partecipanti a metà dicembre
2016).
La modifica ha avuto luogo de plano, non risultando in atti
alcun vaglio della stessa da parte dell’Amministrazione, né
alcun atto di ammissione della subentrante e, ancor meno,
una comunicazione di ammissione successiva alla
modificazione della composizione dell’R.T.I.
16.2. Risulta, pertanto, infondata l’eccezione di
inammissibilità dell’impugnazione incidentale da parte della
ricorrente principale, avanzata sul presupposto che la
ricorrente incidentale avrebbe dovuto impugnare
tempestivamente l’ammissione della ricorrente per far
valere, nei termini di cui all’art. 120, co. 2-bis c.p.a.,
le censure avanzate in questa sede.
È agevole replicare, al riguardo, che l’unico provvedimento
di ammissione, quello comunicato il 16.12.2016, essendo
precedente la modificazione dell’R.T.I., non onerava la
ricorrente incidentale di alcuna impugnazione. Ciò, in
disparte ulteriori considerazioni in ordine al regime
decadenziale applicabile al ricorso incidentale che, anche
nel contesto del rito disciplinato dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., resta pur sempre quello previsto dall’art. 42,
comma 1 c.p.a., con conseguente ancoraggio del dies a quo
del termine di introduzione dell’impugnativa incidentale
dalla notifica del ricorso principale anziché dal
provvedimento di ammissione (come efficacemente argomentato
di recente nella sentenza del Cons. Stato, III, 10.11.2017,
n. 5182).
16.3. Risulta, altresì, manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale, peraltro
genericamente prospettata da parte ricorrente, dell’art. 48
del d.lgs. n. 50/2016, ove inteso in senso preclusivo della
partecipazione alle gare “di imprese frutto di
trasformazioni, scissioni o fusioni o cessioni d’azienda”
(cfr. memoria dell’esponente datata 06.06.2017, in atti), in
relazione all’art. 41 (libertà d’iniziativa economica) e 3
(principio di ragionevolezza) della Costituzione.
Detta previsione, nell’interpretazione poc’anzi esposta, non
risulta né irragionevole né contrastante con l’art. 41 della
Costituzione, in quanto la stessa risponde all'esigenza di
tutelare la stessa libertà d’iniziativa economica, ove
declinata come libera concorrenza e par condicio dei
concorrenti, avuto riguardo agli effetti distorsivi sul
libero mercato derivanti dall’alterazione delle procedure di
gara; essa realizza, dunque, un congruo e non censurabile
bilanciamento tra il diritto d’iniziativa economica e il
principio di buon andamento, presidiato dall’art. 97 della
Costituzione, in disparte ogni ulteriore considerazione
ritraibile dalla valorizzazione del richiamo all'“utilità
sociale” ovvero ai “fini sociali”, di cui all’art. 41,
rispettivamente commi 2 e 3 della Costituzione (su cui cfr.
sentenze C. Cost. nn. 247 del 2010, 152 del 2010, 167 del
2009, 190 del 2001, 196 del 1998).
Va pertanto disattesa la richiesta di sollevare q.l.c. in
relazione all’art. 48 d.lgs. n. 50/2016.
16.4. Come correttamente affermato dalla controinteressata,
la ricorrente doveva essere esclusa dalla procedura
di gara in uno stadio anteriore a quello (della verifica di
anomalia) in cui è stata disposta l’esclusione oggetto di
contestazione, ovvero, doveva essere esclusa in applicazione
della regola generale (art. 48, comma 9, d.lgs. n. 50/2016)
che non consente di modificare la composizione dei
partecipanti ai raggruppamenti temporanei d’imprese durante
l’intero arco della procedura di evidenza pubblica,
concernendo le eccezioni contemplate dai commi 17 e 18 del
citato articolo evenienze relative unicamente alla
successiva fase dell’esecuzione del contratto, non
ricorrenti nella fattispecie in esame (cfr. Cons. Stato,
Sez. V, 20.01.2015, n. 169).
16.5. Né il rigore del divieto di modificazione soggettiva
può essere attenuato nel caso di specie richiamando, come
avvenuto nella memoria di parte resistente, la delibera ANAC
n. 244 dell’08.03.2017, posto che, in disparte altro, in essa
si legge che “appare ammissibile il subentro di altro
soggetto nella posizione di mandatario del RTI
aggiudicatario in caso di cessione di azienda, sempre che la
cessione sia comunicata alla stazione appaltante ed essa non
sia finalizzata a eludere l’applicazione del codice. La S.A.
dovrà pertanto verificare l’idoneità del cessionario, e
quindi i requisiti richiesti per la partecipazione alla
gara, che devono permanere per l’intera durata del
contratto. Dovrà inoltre verificare i requisiti di carattere
generale delle cedenti, al fine di accertare che la cessione
non sia diretta ad eludere l’applicazione del codice”.
Risultano evidenti le differenze fra la fattispecie per cui
è causa e il caso esaminato dall’ANAC, posto che, nel primo
caso a differenza del secondo la modifica è intervenuta nei
confronti di un soggetto che non era aggiudicatario, ma mero
partecipante alla gara e, dunque, diversamente da quanto
stabilito dall’Autorità Anticorruzione, nessun
approfondimento sull’“idoneità” e quindi “sul possesso dei
requisiti richiesti per la partecipazione alla gara” di
cedente e cessionaria risulta effettuato dalla S.A., onde
escludere che la cessione fosse “diretta ad eludere
l’applicazione del codice” (sulla necessità che la stazione
appaltante verifichi i requisiti di capacità e di moralità
delle concorrenti cfr. TAR Sicilia, Palermo, I,
12/11/2015, n. 2904).
16.6. Nel caso di specie, come correttamente evidenziato
dalla ricorrente incidentale, la Commissione di gara avrebbe
dovuto verificare il possesso dei requisiti al di là e al di
fuori delle previsioni di cui all’art. 32, co. 7, del d.lgs.
n. 50/2016, onde accertare che l’intervenuta cessione di
ramo d’azienda e il conseguente subentro della Soc. Tr.Fo. alla Soc. Do.Ca. quale mandataria dell’R.T.I.
non avesse finalità elusive e non tendesse a porre rimedio
alla mancanza dei requisiti di partecipazione da parte della
mandataria originaria.
16.7. In difetto di tale accertamento, va ribadita la
fondatezza del ricorso incidentale, poiché l’R.T.I.
ricorrente avrebbe dovuto essere escluso dalla gara a
seguito della modifica della sua composizione, avvenuta in
violazione dell’art. 48, co. 9, del d.lgs. n. 50 del 2016.
17. Conclusivamente il ricorso incidentale deve essere
accolto, con conseguente improcedibilità del ricorso
principale (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 09.03.2018 n. 663
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Abbandono e deposito incontrollato di rifiuti.
L'imputabilità delle condotte di
abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo in
capo al proprietario, o di chiunque abbia la giuridica
disponibilità del bene, presuppone necessariamente
l'accertamento in capo a quest'ultimo di un comportamento
doloso o colposo, nei limiti dell'esigibilità, non
ravvisando la disposizione dell'art. 192 del D.lgs. n. 152
del 2006 un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva o per
fatto altrui, con conseguente esclusione della natura di
obbligazione propter rem dell'obbligo di ripristino del
fondo a carico del titolare di un diritto di godimento sul
bene.
Pertanto, in caso di rinvenimento di rifiuti
abbandonati da parte di terzi ignoti, il proprietario del
fondo non può essere chiamato a rispondere della fattispecie
di abbandono (o deposito incontrollato) di rifiuti sulla
propria area se non viene individuato a suo carico
l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo
stesso soggetto non può essere destinatario di un'ordinanza
sindacale di rimozione e rimessione in pristino (commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
3.4. Venendo al contenuto proprio dell’ordinanza, è necessario dare conto
del relativo apparato motivazionale.
Dopo aver dato atto che a seguito delle indagini successive
alla rimozione del materiale inerte collocato sui terreni in
questione da parte della società proprietaria era emersa la
presenza di idrocarburi nello strato sottostante
“trasformato evidentemente in epoca diversa”, classificabili
come rifiuti non pericolosi, il Sindaco ha ritenuto che tale
abbandono di rifiuti fosse “da imputare direttamente al
proprietario dell’area”, in base alle seguenti valutazioni:
- “l’area oggetto del deposito di rifiuti è immediatamente
raggiungibile dalla strada sterrata collegata direttamente
alla Via Sessa, in prossimità della prospiciente azienda di
proprietà e quindi la signora Bu.An.Ga. [legale
rappresentante della società ricorrente] era in grado, senza
particolari incombenze, di svolgere la funzione di
protezione e custodia che gli è richiesta onde evitare che
la stessa potesse essere utilizzata come discarica abusiva
di rifiuti e quindi consentire eventuali sversamenti seppure
accidentali di idrocarburi;
- sotto il profilo causale e secondo un ragionamento
probabilistico… è del tutto ragionevole ritenere che la
società Amcofin s.r.l….fosse a conoscenza della situazione
pregressa all’atto di acquisto risalente al 2003;
- si ritiene di dover dedurre la responsabilità dell’attuale
proprietario in quanto a conoscenza all’atto di acquisito
dell’area della presenza della trasformazione dell’area
boscata con vincolo idrogeologico, senza alcun titolo
autorizzativo;
- in via residuale è ragionevole ritenere la responsabilità
del proprietario a titolo di colpa per aver accettato il
trasferimento della proprietà senza considerare la
trasformazione dell’area quale intervento edilizio non
autorizzato”.
3.5. Ad avviso del Collegio la motivazione a sostegno
dell’ordine di rimozione non risulta adeguata, apparendo
piuttosto l’esito di un’istruttoria sommaria e superficiale,
non supportata da sufficienti elementi di accertamento.
Risulta riconosciuto dall’Amministrazione, nell’ordinanza
impugnata, che la presenza di idrocarburi ("correlata" ad un
riporto di materiali con modifica assetto luoghi) è
collocabile in epoca antecedente all'acquisto dei terreni da
parte di Am. (anno 2003), e temporalmente attestabile in
epoca presunta tra il 1974 al 1980.
A fronte di tali dati le conseguenti determinazioni
dell’Amministrazioni non risultano coerenti, non essendo
dimostrato come possa essere imputata una responsabilità
all’attuale ricorrente.
3.6. Le conclusioni cui giunge l’Amministrazione in termini
di responsabilità della ricorrente postulano un’attualità
dei fatti imputabili (l’omessa vigilanza dell’area di
proprietà) che non si riscontra affatto negli elementi a
disposizione, considerato che la stessa ordinanza colloca
temporalmente il riporto dei materiali contenenti
idrocarburi in epoca assai risalente.
3.7. Un’ulteriore sovrapposizione dei piani cronologici dei
fatti si riscontra laddove l’Amministrazione imputa alla
ricorrente, al momento dell’acquisto (ovvero nel 2003), la
conoscenza della “situazione pregressa”, quando la presenza
di idrocarburi nello strato sottostante del terreno è stata
accertata soltanto a seguito delle analisi effettuate in
occasione dei lavori di ripristino dello stato dei luoghi,
ultimati nel gennaio 2016.
3.8. La colpa richiesta dall’art. 192 del D.lgs. 152/2006 ai
fini dell’attribuzione della responsabilità al proprietario
dell’area oggetto di abbandono di rifiuti implica un
comportamento esigibile dal proprietario, ovvero la
possibilità dello stesso di esercitare il controllo sul
proprio bene, il che presuppone l’attualità delle
circostanze di fatto integranti l’azione illecita. In altri
termini non può essere attribuita al proprietario alcuna
responsabilità per fatti avvenuti oltre trent’anni prima
dell’acquisto.
3.9. Il provvedimento impugnato presenta un supporto
argomentativo espresso in termini probabilistici, che mal si
concilia con gli accertamenti (rigorosi) che devono essere
posti alla base dell’ordine di rimozione, ai sensi dell’art.
192 del D.lgs. 152/2006.
Né possono sopperire alle evidenti mancanze istruttorie le
argomentazioni difensive dell’Amministrazione che non
trovano riscontro nell’ordinanza impugnata e costituiscono
comunque, al di là della loro pertinenza, un’inammissibile
integrazione postuma della motivazione del provvedimento.
3.10. Conclusivamente, va ricordato che l'imputabilità delle
condotte di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti
sul suolo in capo al proprietario o di chiunque abbia la
giuridica disponibilità del bene, presuppone necessariamente
l'accertamento in capo a quest'ultimo di un comportamento
doloso o colposo, nei limiti dell'esigibilità, non
ravvisando la disposizione dell'art. 192, D.lgs. n. 152 del
2006 un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva o per
fatto altrui, con conseguente esclusione della natura di
obbligazione propter rem dell'obbligo di ripristino del
fondo a carico del titolare di un diritto di godimento sul
bene (TAR Napoli sez. V, 06.02.2018, n. 752; TAR
Lecce, sez. III, 04.10.2017, n. 1569; Cons. Stato, sez. IV, 25.07.2017, n. 3672; TAR Palermo, sez. I, 18.09.2017, n. 2190).
Pertanto, "in caso di rinvenimento di rifiuti abbandonati da
parte di terzi ignoti, il proprietario del fondo non può
essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono
(o deposito incontrollato) di rifiuti sulla propria area se
non viene individuato a suo carico l'elemento soggettivo del
dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può
essere destinatario di un'ordinanza sindacale di rimozione e
rimessione in pristino" (TAR Napoli, sez. V, 07.06.2017, n. 3081).
4. Per le ragioni che precedono il ricorso va accolto e per
l’effetto va annullata l’ordinanza impugnata (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 08.03.2018 n. 651
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EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 27,
comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 attribuisce
all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza
e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia,
imponendo l’adozione di provvedimenti di demolizione anche
in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza
dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la
legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato.
In particolare, va rilevato che l’aggiunta all’originario
testo dell’articolo 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, apportata
dal comma 46 dell’articolo 32 del d. l. n 269 del 2003, che
contempla il potere soprintendentizio, non vale a privare
della competenza il dirigente comunale, in quanto il
legislatore ha chiarito, proprio con il comma 45 del
medesimo articolo 32 del d. l. n. 269 del 2003, che la
competenza dell’ente locale riguarda “tutti i casi di
difformità dalle norme urbanistiche e dalle prescrizioni
degli strumenti urbanistici”, tra cui, evidentemente,
anche quelli relativi ad immobili vincolati.
---------------
7. Il ricorso è infondato.
8. Il primo motivo non merita accoglimento.
Le violazioni poste a base dell’ordinanza di demolizione
riguardano esclusivamente la violazione di normativa di
carattere urbanistico–edilizio e, in particolare, l’assenza
del permesso di costruire. L’articolo 31 del d.P.R. n. 380
del 2001 obbliga il responsabile del competente ufficio
comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di
permesso, ad ingiungere la rimozione o la demolizione (cfr.
Cons. Stato, Sez. VI, n. 4400 del 2016). L’applicazione,
invocata dalla ricorrente, dell’articolo 27 del d.P.R. n.
380 del 2001 in luogo dell’articolo 31 del medesimo d.P.R.
non vale ad escludere la competenza del Comune ad
intervenire in caso di abuso.
Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio “l’art. 27,
comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 attribuisce
all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza
e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia,
imponendo l’adozione di provvedimenti di demolizione anche
in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza
dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la
legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato”
(Cons. Stato, Sez. VI, n. 4736 del 2017).
In particolare, va rilevato che l’aggiunta all’originario
testo dell’articolo 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, apportata
dal comma 46 dell’articolo 32 del d. l. n 269 del 2003, che
contempla il potere soprintendentizio, non vale a privare
della competenza il dirigente comunale, in quanto il
legislatore ha chiarito, proprio con il comma 45 del
medesimo articolo 32 del d. l. n. 269 del 2003, che la
competenza dell’ente locale riguarda “tutti i casi di
difformità dalle norme urbanistiche e dalle prescrizioni
degli strumenti urbanistici”, tra cui, evidentemente,
anche quelli relativi ad immobili vincolati
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 05.03.2018 n. 560 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di “pertinenza
urbanistica" ha peculiarità sue proprie che la
distinguono da quella civilistica.
L’articolo 6 del d.P.R. 06.06.2000, n. 380, prevede che
occorre il permesso di costruire, tra l’altro, per gli
interventi di “nuova costruzione”, che consistono
nella “costruzione di manufatti edilizi fuori terra o
interrati ovvero l’ampliamento di quelli esistenti
all’esterno dell’esistente” [lettera e)].
Nella fattispecie risulta dal verbale di accertamento la
realizzazione di un nuovo manufatto.
Al riguardo giova ricordare che “…più volte questo
Consiglio di Stato ha rimarcato come occorra il titolo
edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti,
quand'anche sotto il profilo civilistico essi si possano
qualificare come pertinenze.
La nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a
fini urbanistico-edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile
soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a
un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti
per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma
non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e
della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia
rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano
coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile
una diversa e autonoma utilizzazione economica.
Invero, a differenza della nozione civilistica di
pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può essere
considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad
un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito
di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico
urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume".
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio
generale per il quale occorre il rilascio della concessione
edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando
si tratti di un "manufatto edilizio": salva una diversa normativa regionale
o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale
quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed
ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente
edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come ad
es. una tettoia, che ne alteri la sagoma.
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio
generale per il quale occorre il rilascio della concessione
edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando
si tratti di un "manufatto edilizio": salva una diversa normativa regionale
o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale
quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed
ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente
edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come ad
es. una tettoia, che ne alteri la sagoma.”
---------------
9. Quanto al secondo motivo, la nozione di “pertinenza
urbanistica" ha peculiarità sue proprie che la
distinguono da quella civilistica.
L’articolo 6 del d.P.R. 06.06.2000, n. 380, prevede che
occorre il permesso di costruire, tra l’altro, per gli
interventi di “nuova costruzione”, che consistono
nella “costruzione di manufatti edilizi fuori terra o
interrati ovvero l’ampliamento di quelli esistenti
all’esterno dell’esistente” [lettera e)].
Nella fattispecie risulta dal verbale di accertamento la
realizzazione di un nuovo manufatto.
Al riguardo giova ricordare che “…più volte questo
Consiglio di Stato ha rimarcato come occorra il titolo
edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti,
quand'anche sotto il profilo civilistico essi si possano
qualificare come pertinenze.
La nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a
fini urbanistico-edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile
soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a
un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti
per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma
non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e
della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia
rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano
coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile
una diversa e autonoma utilizzazione economica (cfr. Cons.
St., Sez. Sez. VI, 02.02.2017, n. 694; Sez. VI, 04.01.2016,
n. 19; Sez. VI, 11.03.2014, n. 3952; Sez. V, n. 817 del
2013; Sez. IV, n. 615 del 2012).
La giurisprudenza di questo Giudice di appello è costante
nel ritenere che, a differenza della nozione civilistica di
pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può essere
considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad
un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito
di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico
urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume"
(Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n. 615, cit.).
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio
generale per il quale occorre il rilascio della concessione
edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando
si tratti di un "manufatto edilizio" (cfr. Sez. VI,
24.07.2014, n. 3952): salva una diversa normativa regionale
o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale
quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed
ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente
edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come ad
es. una tettoia, che ne alteri la sagoma.
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio
generale per il quale occorre il rilascio della concessione
edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando
si tratti di un "manufatto edilizio" (cfr. Sez. VI,
24.07.2014, n. 3952): salva una diversa normativa regionale
o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale
quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed
ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente
edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come ad
es. una tettoia, che ne alteri la sagoma” (Cons. Stato
n. 24 del 2018).
Nella specie è stata realizzata un’opera che, secondo quanto
riferisce l’amministrazione comunale, non ha carattere
precario, vista la struttura in cemento armato, né presenta
gli elementi della strumentalità funzionale rispetto
all’immobile in quanto attiene a necessità voluttuarie della
ricorrente.
Pertanto il motivo non merita accoglimento
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 05.03.2018 n. 560 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'individuazione dell'area da acquisirsi non deve
essere necessariamente contenuta nel provvedimento di
ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello
stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si
procede all'acquisizione del bene.
L’omessa indicazione, nell’ordinanza di demolizione,
dell’area che viene acquisita di diritto e gratuitamente al
patrimonio del Comune ai sensi del comma 3 dell’art. 31 per
il caso di inottemperanza all’ordine di demolizione non
costituisce ragione di illegittimità dell’ordinanza stessa
giacché la posizione del destinatario dell’ingiunzione è
tutelata dalla previsione di un successivo e distinto
procedimento di acquisizione dell’area, rispetto al quale,
tra l’altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di
accertamento dell'inottemperanza nel quale va indicata con
precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale.
---------------
10. Con riferimento al terzo motivo, la
giurisprudenza di questo Consiglio afferma che “l'individuazione
dell'area da acquisirsi non deve essere necessariamente
contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a
pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere
riportata nel momento in cui si procede all'acquisizione del
bene. L’omessa indicazione, nell’ordinanza di demolizione,
dell’area che viene acquisita di diritto e gratuitamente al
patrimonio del Comune ai sensi del comma 3 dell’art. 31 per
il caso di inottemperanza all’ordine di demolizione non
costituisce ragione di illegittimità dell’ordinanza stessa
giacché la posizione del destinatario dell’ingiunzione è
tutelata dalla previsione di un successivo e distinto
procedimento di acquisizione dell’area, rispetto al quale,
tra l’altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di
accertamento dell'inottemperanza nel quale va indicata con
precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale”
(Cons. Stato, Sez. VI, n. 13 del 2015).
Pertanto, anche tale motivo va disatteso
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 05.03.2018 n. 560 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il verbale di accertamento della inottemperanza
costituisce un atto endoprocedimentale, avente contenuto di accertamento
ed esplicante una funzione meramente preparatoria e
strumentale, occorrendo che la competente autorità
amministrativa ne faccia proprio l'esito attraverso un
formale atto produttivo degli effetti previsti dall' art.
31, comma 4, d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Il titolo per
l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei
registri immobiliari è costituito dall'accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire, ma per tale
atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di
inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale e
dichiarativo delle operazioni effettuate durante l'accesso
ai luoghi, ma solo il formale accertamento, che faccia
proprio l'esito del verbale e che costituisca, quindi, il
titolo ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita
dell'immobile al patrimonio comunale delle opere edilizie
abusivamente realizzate.
---------------
12. Il ricorso è, invece, inammissibile nella parte volta
all’annullamento del verbale di accertamento
dell’inottemperanza all’ordine di demolizione.
“La giurisprudenza è, infatti, costante nel ritenere che
il verbale di accertamento della inottemperanza costituisca
un atto endoprocedimentale, avente contenuto di accertamento
ed esplicante una funzione meramente preparatoria e
strumentale, occorrendo che la competente autorità
amministrativa ne faccia proprio l'esito attraverso un
formale atto produttivo degli effetti previsti dall' art.
31, comma 4, d.P.R. 06.06.2001, n. 380; il titolo per
l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei
registri immobiliari è costituito dall'accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire, ma per tale
atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di
inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale e
dichiarativo delle operazioni effettuate durante l'accesso
ai luoghi, ma solo il formale accertamento, che faccia
proprio l'esito del verbale e che costituisca, quindi, il
titolo ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita
dell'immobile al patrimonio comunale delle opere edilizie
abusivamente realizzate (Cons. St., sez. V, 17.06.2014, n.
3097).” (Cons. Stato, Sez. I, n. 2448 del 2017)
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 05.03.2018 n. 560 - link a
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APPALTI SERVIZI - LAVORI PUBBLICI:
Circa la possibilità da parte della Stazione
appaltante di prevedere l’esecuzione di un sopralluogo, la
questione è già stata affrontata e risolta in giurisprudenza
affermando che “non può pervenirsi alla conclusione a cui
perviene la ricorrente secondo cui, nella vigenza del nuovo
Codice degli Appalti, sia stata necessariamente espunta in
assoluto dall'ordinamento di settore ogni possibilità per le
stazioni appaltanti di prescrivere a pena di esclusione il
sopralluogo da parte dell'impresa del sito interessato (dai
lavori o dai servizi da eseguire), tanto con riguardo ai
lavori, quanto con riguardo ai servizi”.
La previsione di un tale adempimento veniva nell’occasione
ritenuta non essere in contrasto con il principio di
tassatività delle cause di esclusione poiché non attinente
“alle condizioni e ai requisiti di partecipazione ma
piuttosto all'offerta da formulare, ponendosi quale presidio
della sua serietà e attendibilità, sia a livello tecnico che
economico. A conferma della persistente ammissibilità di
clausole di gara impositive di obblighi di sopralluogo
(nonostante l'abrogazione formale dell'art. 106 d.P.R. n.
207/2010 e l'assenza di disposizioni specifiche al riguardo
nel nuovo Codice degli Appalti) si può comunque osservare
che l'art. 79, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, nel
disciplinare i termini per la presentazione delle offerte di
gara, prevede espressamente la seguente ipotesi normativa
"2. Quando le offerte possono essere formulate soltanto a
seguito di una visita dei luoghi....", così confermando la
generale possibilità di prescrivere il sopralluogo negli
atti di gara …”.
---------------
Quanto alla dedotta violazione dell’art. 83, comma 8, del
Codice (divieto di introduzione di cause di esclusione non
tipizzate) si rinvia alla già richiamata giurisprudenza
laddove si precisa che “non può pervenirsi alla conclusione
a cui perviene la ricorrente secondo cui, nella vigenza del
nuovo Codice degli Appalti, sia stata necessariamente
espunta in assoluto dall'ordinamento di settore ogni
possibilità per le stazioni appaltanti di prescrivere a pena
di esclusione il sopralluogo da parte dell'impresa del sito
interessato (dai lavori o dai servizi da eseguire)…”.
La mancata produzione dell’attestazione richiesta (relativa,
come anticipato, ad un adempimento essenziale ai fini della
formulazione di una offerta seria e attendibile), non è,
peraltro, sanabile mediante “soccorso istruttorio”.
L’istituto in questione, infatti, viene previsto dalla norma
invocata solo per "le carenze di qualsiasi elemento formale
della domanda" e non può trovare applicazione in ipotesi di
omessa presentazione di un documentano previsto a pena di
esclusione.
---------------
Il Collegio non può che prendere atto che la ricorrente
dichiarava “ai sensi degli articoli 46 e 47 del DPR
445/2000, consapevole delle sanzioni penali previste
dall’art. 76 per le ipotesi di falsità in atti e
dichiarazioni mendaci” di “aver preso visione dei luoghi ove
devono eseguirsi i lavori, di aver preso visione del
progetto e di avere preso conoscenza delle condizioni dei
locali …”.
La dichiarazione è smentita dall’Amministrazione che, come
già esposto, ne afferma a più riprese l’inaccessibilità,
nonché, dalla stessa ricorrente che, come più volte
evidenziato, riconosce di non aver effettuato alcun accesso
all’interno dell’edificio scolastico e di essersi limitata a
visionarlo dall’esterno.
Preso atto di tale contrasto, deve disporsi la trasmissione
della presente sentenza alla Procura della Repubblica di
Reggio Emilia per le eventuali valutazioni di competenza.
---------------
Il motivo è infondato.
Preliminarmente il Collegio precisa che:
- la preventiva esecuzione del sopralluogo, come già esposto,
veniva prevista in sede di approvazione dell’avvio della
procedura concorsuale (determinazione n. 273/2017);
- tale previsione, inizialmente non recepita nella Lettera di
invito, veniva successivamente inserita prevedendo una
comminatoria espressa di esclusione (il testo della clausola
introdotta, contrariamente a quanto dedotto, è chiaro ed
inequivoco nel prevedere la necessità di procedere a un
sopralluogo alla presenza di tecnici comunali);
- la ricorrente, nonostante la ricezione dell’integrazione in
questione, ometteva di procedere al richiesto sopralluogo
contattando i funzionari a tale scopo indicati affermando in
ricorso di aver ritenuto sufficiente l’autocertificazione
resa in sede di domanda di partecipazione (che come
anticipato e accertato in sede di discussione, avveniva solo
mediate visione dell’edificio dall’esterno).
Ciò premesso, si rileva che, circa la possibilità da parte
della Stazione appaltante di prevedere l’esecuzione di un
sopralluogo, la questione è già stata affrontata e risolta
in giurisprudenza affermando che “non può pervenirsi alla
conclusione a cui perviene la ricorrente secondo cui, nella
vigenza del nuovo Codice degli Appalti, sia stata
necessariamente espunta in assoluto dall'ordinamento di
settore ogni possibilità per le stazioni appaltanti di
prescrivere a pena di esclusione il sopralluogo da parte
dell'impresa del sito interessato (dai lavori o dai servizi
da eseguire), tanto con riguardo ai lavori, quanto con
riguardo ai servizi”.
La previsione di un tale adempimento veniva nell’occasione
ritenuta non essere in contrasto con il principio di
tassatività delle cause di esclusione poiché non attinente “alle
condizioni e ai requisiti di partecipazione ma piuttosto
all'offerta da formulare, ponendosi quale presidio della sua
serietà e attendibilità, sia a livello tecnico che
economico. A conferma della persistente ammissibilità di
clausole di gara impositive di obblighi di sopralluogo
(nonostante l'abrogazione formale dell'art. 106 d.P.R. n.
207/2010 e l'assenza di disposizioni specifiche al riguardo
nel nuovo Codice degli Appalti) si può comunque osservare
che l'art. 79, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, nel
disciplinare i termini per la presentazione delle offerte di
gara, prevede espressamente la seguente ipotesi normativa
"2. Quando le offerte possono essere formulate soltanto a
seguito di una visita dei luoghi....", così confermando la
generale possibilità di prescrivere il sopralluogo negli
atti di gara …” (TAR Lazio, Roma, Sez III, 12.04.2017,
n. 4480).
Che la “visita dei luoghi” fosse assolutamente
necessaria ai fini della formulazione dell’offerta derivava
dalla stessa natura dei lavori appaltati, specificati nella
delibera n. 273/2017 (e già descritti), che comportavano
interventi all’interno dell’edificio, inaccessibile ai non
autorizzati (inaccessibilità affermata a pag. 14 e pag. 18
della memoria di costituzione e a pag. 8 della memoria
conclusionale dell’Unione, in assenza di contestazioni sul
punto in giudizio).
Avuto riguardo alla descritta natura dei lavori da
eseguirsi, non può che rilevarsi che l’adempimento in
questione, peraltro imposto dalla delibera n. 273/2017, si
presentava come imprescindibile e coerente con la natura
dell’intervento appaltato, risolvendosi in una prescrizione
posta a presidio della serietà e attendibilità delle offerte
formulate.
La disposta integrazione, contrariamene a quanto affermato
in ricorso, non richiedeva necessariamente una proroga dei
termini di gara atteso che la norma invocata dalla
ricorrente (art. 73, comma 3. lett. b) del Codice) prevede
che “le stazioni appaltanti prorogano i termini per la
ricezione delle offerte in modo che gli operatori economici
interessati possano prendere conoscenza di tutte le
informazioni necessarie alla preparazione delle offerte nei
casi seguenti: … se sono effettuate modifiche significative
ai documenti di gara”.
La natura dell’adempimento integrativo in disamina, a parere
del Collegio, non costituisce alcuna significativa modifica
della legge di gara risolvendosi nella previsione di un
accesso ai locali interessarti ai lavori appaltati in
assenza del quale, per le ragioni già esposte, non poteva
formularsi una offerta ponderata.
Né, come afferma la ricorrente, può ritenersi che la
contestata integrazione abbia ridotto irragionevolmente i
tempi di approntamento della domanda rendendo impossibile o
eccessivamente difficoltoso elaborare l’offerta.
Sul punto basti osservare che il termine di presentazione
delle domanda veniva previsto in 20 giorni con scadenza il
10.07.2017 e la contestata integrazione interveniva il
27.06.2017 consentendo ai concorrenti di fruire di 13 giorni
per definire i termini delle rispettive offerte sulla base
degli esiti dell’accesso ai luoghi: spazio temporale da
ritenersi sufficiente ove si consideri che agli stessi erano
già noti, perché allegati alla Lettera di invito, il
capitolato speciale d’appalto, il computo metrico
estimativo, l’elenco prezzi unitari, la relazione tecnica,
la relazione materiali e le Tavole: documentazione che la
stessa ricorrente riconosce essere dettagliata, minuziosa,
chiara e completa (pag. 16 del ricorso).
Priva di pregio è la dedotta nullità delle attestazioni
rilasciati agli altri concorrenti per violazione dell’art.
40 del d.P.R. n. 445/2000.
I documenti in questione, come emerge dall’esame degli
stessi, consistono in dichiarazioni rese e sottoscritte
digitalmente dal RUP rilasciate ai legali rappresentanti
delle imprese, nelle quali si dà atto dell’avvenuta “visita
presso i luoghi in cui si svolgeranno le lavorazioni e presa
visione degli elaborati progettuali con/senza estrazione di
copia”, con indicazione della data in cui veniva
effettuato l’accesso.
Nessun profilo incertezza può, quindi, sussistere circa la
loto natura (non si è in presenza di un “atto notorio”)
né in merito alla loro completezza e conformità a quanto
richiesto dall’integrazione della Lettera di invito.
La doglianza, peraltro, è smentita dalla stessa ricorrente
nel successivo capo d’impugnazione ove, con riferimento al
documento rilasciato dal Comune a seguito del sopralluogo,
afferma che non consisterebbero in un verbale “in cui un
tecnico del Committente ha dato informazioni tecniche
specifiche ma solo di un attestato” (pag. 18 del
ricorso): esattamente ciò che era richiesto.
L’adempimento questione, in quanto necessario, non determina
alcun illegittimo aggravio del procedimento.
Quanto alla dedotta violazione dell’art. 83, comma 8, del
Codice (divieto di introduzione di cause di esclusione non
tipizzate) si rinvia alla già richiamata giurisprudenza
laddove si precisa che “non può pervenirsi alla
conclusione a cui perviene la ricorrente secondo cui, nella
vigenza del nuovo Codice degli Appalti, sia stata
necessariamente espunta in assoluto dall'ordinamento di
settore ogni possibilità per le stazioni appaltanti di
prescrivere a pena di esclusione il sopralluogo da parte
dell'impresa del sito interessato (dai lavori o dai servizi
da eseguire)…” (TAR Lazio, n. 2280/1917, cit.).
La mancata produzione dell’attestazione richiesta (relativa,
come anticipato, ad un adempimento essenziale ai fini della
formulazione di una offerta seria e attendibile), non è,
peraltro, sanabile mediante “soccorso istruttorio”.
L’istituto in questione, infatti, viene previsto dalla norma
invocata solo per "le carenze di qualsiasi elemento
formale della domanda" e non può trovare applicazione in
ipotesi di omessa presentazione di un documentano previsto a
pena di esclusione (ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez.
I, 18.012017, n. 878)
Quanto alla pretesa violazione del “principio di buona
fede precontrattuale” e di “imparzialità e buon
andamento” (dedotta al punti I.15 del ricorso) non può
che rilevarsi l’inammissibilità della censura poiché
allegata e non sviluppata.
...
Con il terzo motivo di ricorso viene dedotta in
subordine l’illegittimità dell’intera gara poiché la
necessita di un sopralluogo attestato dal Committente
avrebbe dovuto essere previsto nella disciplina di gara
originariamente e non introdotto in un secondo tempo.
La ricorrente riafferma l’illegittimità della mancata
proroga dei termini di presentazione della domanda ex art.
79 del Codice deducendo che l’originario termine di 20
giorni, fissato dalla Stazione appaltante, doveva essere
ricalcolato dalla integrazione disposta.
Circa tali ulteriori doglianze, non può che ravvisarsene
l’identità con quelle già formulate con il primo motivo di
ricorso con conseguente richiamo di quanto già considerato
in detta sede.
Nessun rilievo assumono, infine, le criticità evidenziate
dalla ricorrente con la memoria da ultimo depositata poiché,
a tacere della circostanza che si opera una irrituale
introduzione di nuove censure in giudizio, sono riferite a
segmenti procedimentali successivi all’esclusione della
stessa in relazione ai quali, non vanta alcun interesse.
A conclusione dell’illustrato scrutinio delle censure
oggetto di ricorso, il Collegio non può che prendere atto
che la ricorrente in data 27.06.2017 dichiarava “ai sensi
degli articoli 46 e 47 del DPR 445/2000, consapevole delle
sanzioni penali previste dall’art. 76 per le ipotesi di
falsità in atti e dichiarazioni mendaci” di “aver
preso visione dei luoghi ove devono eseguirsi i lavori, di
aver preso visione del progetto e di avere preso conoscenza
delle condizioni dei locali …” (doc. 5 di parte
ricorrente).
La dichiarazione è smentita dall’Amministrazione che, come
già esposto, ne afferma a più riprese l’inaccessibilità,
nonché, dalla stessa ricorrente che, come più volte
evidenziato, riconosce di non aver effettuato alcun accesso
all’interno dell’edificio scolastico e di essersi limitata a
visionarlo dall’esterno.
Preso atto di tale contrasto, deve disporsi
la trasmissione della presente sentenza alla Procura della
Repubblica di Reggio Emilia per le eventuali valutazioni di
competenza.
Per quanto precede il ricorso deve essere respinto con
condanna della ricorrente al pagamento delle spese di
giudizio nella misura liquidata in dispositivo (TAR Emilia
Romagna-Parma,
sentenza 05.03.2018 n. 69 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
È illegittimo, e non determina l'estinzione del
reato edilizio di cui all'art. 44, lett. b), del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire
in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici
interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo
nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in
quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la
"ratio" della sanatoria, collegabile alla già avvenuta
esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza
alla disciplina urbanistica.
---------------
5. I ricorsi risultano inammissibili per manifesta
infondatezza dei motivi e per genericità.
La sentenza impugnata (e la decisione di primo grado, in
doppia conforme) con motivazione adeguata, immune da
contraddizioni e da manifeste illogicità, e con corretta
applicazione della giurisprudenza di questa Corte di
cassazione, rileva come la struttura realizzata dagli
imputati sia "completamente chiusa su tutti i lati munita
di vere e proprie finestre, destinata a servizio
dell'adiacente servizio commerciale gestito dal Co. ... la
documentazione fotografica inoltre dimostra in modo
inequivocabile che la struttura realizzata non solo non
poteva essere edificata con il rilascio della semplice
D.I.A. ... ma non è per nulla un'opera precaria. Non può
infatti, definirsi, né amovibile né precaria una struttura
di grandi dimensioni realizzata nel cortile davanti
all'esercizio commerciale gestito dal Co. funzionalmente
destinato ad ospitare i clienti ...".
6. La sanatoria è stata correttamente ritenuta dalla
sentenza impugnata ininfluente per l'estinzione del reato,
poiché condizionata all'adempimento di prescrizioni,
peraltro non effettuate: "È illegittimo, e non determina
l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lett.
b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un
permesso di costruire in sanatoria condizionato
all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a
ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità
agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione
contrasta ontologicamente con la "ratio" della sanatoria,
collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla
loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica"
(Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015 - dep. 29/12/2015, Carratù
e altro, Rv. 26603401; vedi anche Sez. 3, n. 22256 del
28/04/2016 - dep. 27/05/2016, Rongo, Rv. 26729001).
7. La lettera A dell'art. 44 d.P.R. 380/2001 prevede
l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità
esecutive del titolo abilitativo -permesso di costruire-,
nel caso in giudizio mancava proprio il titolo abilitativo
del permesso di costruire, e quindi la norma applicabile è
quella della lettera B, dell'art. 44 cit..
8. Alla data della decisione della Corte di appello
(06.07.2015, reato accertato il 07.09.2010) il reato non era
prescritto, non rileva infatti l'attività successiva alla
pronuncia: "Ai fini del computo della prescrizione rileva
il momento della lettura del dispositivo della sentenza di
condanna e non quello successivo del deposito della stessa
(in applicazione del principio, la Corte ha dichiarato
inammissibile il ricorso che deduceva l'intervenuta
estinzione del reato per decorso del termine della
prescrizione, essendo il medesimo maturato dopo la pronuncia
della sentenza, anche se prima della data di notificazione
dell'estratto della decisione all'imputato contumace)"
(Sez. 1, n. 20432 del 27/01/2015 - dep. 18/05/2015, Lione,
Rv. 26336501).
L'inammissibilità, del resto, esclude la valutazione della
prescrizione eventualmente maturata dopo la sentenza
impugnata: "L'inammissibilità del ricorso per Cassazione
dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente
il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e
preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare
le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc.
pen. (nella specie la prescrizione del reato maturata
successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso)"
(Sez. U, n. 32 del
22/11/2000 - dep. 21/12/2000, D. L, Rv. 217266) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.02.2018 n. 9058). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il progettista
e direttore dei lavori risponde del reato edilizio,
quando la sua opera non si è limitata alla progettazione ma
è andata oltre.
"In tema di reati edilizi, è
configurabile la responsabilità del progettista in
caso di realizzazione di interventi edilizi necessitanti il
permesso di costruire, ma eseguiti in base ad una denuncia
di inizio attività accompagnata da dettagliata relazione a
firma del predetto professionista, in quanto l'attestazione
del progettista di "conformità delle opere da
realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in
contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi
vigenti" comporta l'esistenza in capo al medesimo di un
obbligo di vigilanza anche nel corso dell'esecuzione dei
lavori".
"In tema di violazioni
urbanistico-edilizie, la responsabilità per abuso edilizio
del committente, del titolare del permesso di
costruire, del direttore dei lavori e del
costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del
d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa dall'avvenuto rilascio
del titolo abilitativo in violazione di legge o degli
strumenti urbanistici, ovvero nell'ipotesi di intervento
realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima".
---------------
Può quindi affermarsi il seguente principio di diritto: «Per
il reato di cui all'art. 44, comma 1, lettera B, d.P.R.
380/2001, è configurabile la responsabilità del
progettista e direttore dei lavori, e del
costruttore in caso di realizzazione di interventi
edilizi necessitanti il permesso di costruire, ma eseguiti
in base ad una denuncia di inizio attività accompagnata da
dettagliata relazione a firma del predetto professionista,
in quanto l'attestazione del progettista di
"conformità delle opere da realizzare agli strumenti
urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati
ed ai regolamenti edilizi vigenti" comporta l'esistenza in
capo al medesimo di un effettivo e concreto obbligo di
vigilanza anche nel corso dell'esecuzione dei lavori, con la
logica conseguenza che -se i lavori eseguiti risultano
difformi e diversi da quelli autorizzati con D.I.A., e per
essi necessitava il permesso di costruire-, responsabile
dell'abuso è anche il progettista e direttore dei lavori, in
concorso con gli altri autori».
---------------
9. Manifestamente infondati risultano anche i ricorsi di Cu,
progettista e direttore dei lavori, e di Pa.,
esecutore materiale dei lavori.
Infatti Cu. non è stato condannato per reato diverso da
quello contestatogli (art. 110 cod. pen. e 44, comma 1,
lettera B, d.P.R. 380/2001), ma la motivazione della
sentenza della Corte
di appello (e in parte di quella del Tribunale) se richiama
l'attività di documentazione attestazione (dichiarazione di
conformità) del tecnico lo fa incidentalmente ai fini
dell'elemento soggettivo del reato.
Del resto il progettista e direttore dei lavori
risponde del reato edilizio, quando la sua opera non si è
limitata alla progettazione ma è andata oltre: "In tema
di reati edilizi, è configurabile la responsabilità del
progettista in caso di realizzazione di interventi
edilizi necessitanti il permesso di costruire, ma eseguiti
in base ad una denuncia di inizio attività accompagnata da
dettagliata relazione a firma del predetto professionista,
in quanto l'attestazione del progettista di
"conformità delle opere da realizzare agli strumenti
urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati
ed ai regolamenti edilizi vigenti" comporta l'esistenza in
capo al medesimo di un obbligo di vigilanza anche nel corso
dell'esecuzione dei lavori" (Sez. 3, n. 28267 del
09/05/2008 - dep. 10/07/2008, Pacecca e altri, Rv.
24082101); "In tema di violazioni urbanistico-edilizie,
la responsabilità per abuso edilizio del committente,
del titolare del permesso di costruire, del
direttore dei lavori e del costruttore,
individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del
2001, non è esclusa dall'avvenuto rilascio del titolo
abilitativo in violazione di legge o degli strumenti
urbanistici, ovvero nell'ipotesi di intervento realizzato
direttamente in base ad una D.I.A. illegittima" (Sez. 3,
n. 10106 del 21/01/2016 - dep. 11/03/2016, Torzini, Rv.
26629101).
Può quindi affermarsi il seguente principio di diritto: «Per
il reato di cui all'art. 44, comma 1, lettera B, d.P.R.
380/2001, è configurabile la responsabilità del
progettista e direttore dei lavori, e del
costruttore in caso di realizzazione di interventi
edilizi necessitanti il permesso di costruire, ma eseguiti
in base ad una denuncia di inizio attività accompagnata da
dettagliata relazione a firma del predetto professionista,
in quanto l'attestazione del progettista di
"conformità delle opere da realizzare agli strumenti
urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati
ed ai regolamenti edilizi vigenti" comporta l'esistenza in
capo al medesimo di un effettivo e concreto obbligo di
vigilanza anche nel corso dell'esecuzione dei lavori, con la
logica conseguenza che -se i lavori eseguiti risultano
difformi e diversi da quelli autorizzati con D.I.A., e per
essi necessitava il permesso di costruire-, responsabile
dell'abuso è anche il progettista e direttore dei lavori, in
concorso con gli altri autori».
9. 1. Relativamente al ricorso di Pa., oltre a quanto
visto sopra sotto il profilo della sua responsabilità, si
deve evidenziare che la sua intenzione di ottemperare alle
prescrizioni della sanatoria (impedito a suo dire dal
proprietario) non è rilevante ai fini dell'esclusione della
responsabilità, ma in tesi, potrebbe rilevare sul
trattamento sanzionatorio, che non risulta sia motivo di
ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.02.2018 n. 9058). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Valutazione
di impatto ambientale e principio di precauzione.
Il Consiglio di Stato delinea i contenuti della valutazione
di impatto ambientale e osserva che:
- alla stregua dei principi comunitari e nazionali, la valutazione
di impatto ambientale non concerne una mera e generica
verifica di natura tecnica circa l'astratta compatibilità
ambientale dell'opera, ma deve implicare la complessiva e
approfondita analisi comparativa di tutti gli elementi
incidenti sull'ambiente del progetto unitariamente
considerato, al fine di valutare in concreto -alla luce
delle alternative possibili e dei riflessi della stessa c.d.
"opzione zero"- il sacrificio imposto all'ambiente rispetto
all'utilità socioeconomica perseguita;
- le scelte effettuate in sede di VIA, istituto finalizzato alla
tutela preventiva dell’ambiente inteso in senso ampio, hanno
natura ampiamente discrezionale in quanto giustificate alla
luce dei valori primari e assoluti coinvolti;
- nel rendere il giudizio di valutazione di impatto ambientale,
l’amministrazione esercita una amplissima discrezionalità
che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto
tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di
oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo
profili particolarmente intensi di discrezionalità
amministrativa e istituzionale in relazione
all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati
coinvolti; di conseguenza, le posizioni soggettive delle
persone e degli enti coinvolti nella procedura sono
pacificamente qualificabili in termini di interesse
legittimo ed è altrettanto assodato che le relative
controversie non rientrano nel novero delle tassative ed
eccezionali ipotesi di giurisdizione di merito sancite
dall’art. 134 c.p.a.;
- la relativa valutazione di legittimità giudiziale, escludendo in
maniera assoluta il carattere sostitutivo della stessa, deve
essere limitata ad evidenziare la sussistenza di vizi
rilevabili ictu oculi, a causa della loro abnormità,
irragionevolezza, contraddittorietà e superficialità, con la
conseguenza che le scelte effettuate dall'Amministrazione si
sottraggono al sindacato del giudice amministrativo
ogniqualvolta le medesime non si appalesino come
manifestamente illogiche o incongrue.
Il Consiglio di Stato aggiunge che tale approccio necessita
di ulteriore conferma laddove le critiche avverso
l’esercizio del potere tecnico discrezionale si concentrano
sul rispetto del principio di precauzione, di cui all’art.
191 TFUE e agli artt. 3-ter e 301 d.lgs. n. 152 del 2006, la
cui invocazione, peraltro, impone l’introduzione di elementi
di valutazione particolarmente dettagliati, per evitare di
estenderne eccessivamente la portata; al riguardo il
Consiglio di Stato ritiene che il principio di precauzione:
i cui tratti giuridici si individuano lungo un percorso
esegetico fondato sul binomio analisi dei rischi-carattere
necessario delle misure adottate, presuppone l'esistenza di
un rischio specifico all'esito di una valutazione quanto più
possibile completa, condotta alla luce dei dati disponibili
che risultino maggiormente affidabili e che deve concludersi
con un giudizio di stretta necessità della misura;
non può legittimare un'interpretazione delle disposizioni
normative, tecniche ed amministrative vigenti in un dato
settore che ne dilati il senso fino a ricomprendervi vicende
non significativamente pregiudizievoli;
non conduce automaticamente a vietare ogni attività che, in
via di mera ipotesi, si assuma foriera di eventuali rischi
per la salute delle persone e per l'ambiente, privi di ogni
riscontro oggettivo e verificabile, richiedendo esso stesso
una seria e prudenziale valutazione, alla stregua
dell'attuale stato delle conoscenze scientifiche
disponibili, dell'attività che potrebbe ipoteticamente
presentare dei rischi, valutazione consistente nella
formulazione di un giudizio scientificamente attendibile
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
---------------
12. Relativamente alla censura dell’esercizio della discrezionalità
tecnica, il Collegio ritiene opportuno premettere alcune
considerazioni di ordine generale.
12.1. Invero, si osserva che, alla stregua dei principi
comunitari e nazionali, la valutazione di impatto ambientale
non concerne una mera e generica verifica di natura tecnica
circa l'astratta compatibilità ambientale dell'opera, ma
deve implicare la complessiva e approfondita analisi
comparativa di tutti gli elementi incidenti sull'ambiente
del progetto unitariamente considerato, al fine di valutare
in concreto -alla luce delle alternative possibili e dei
riflessi della stessa c.d. "opzione zero"- il sacrificio
imposto all'ambiente rispetto all'utilità socioeconomica
perseguita (cfr. Cons. Stato, sez. V, 06.07.2016, n.
3000; id., 31.05.2012 n. 3254).
Ebbene, circa l’esatta individuazione della natura del
potere e l’ampia latitudine della discrezionalità esercitata
dall’amministrazione in sede di VIA, in quanto istituto
finalizzato alla tutela preventiva dell’ambiente inteso in
senso ampio, il Collegio non intende deflettere dagli
approdi esegetici cui è pervenuta la recente giurisprudenza
(internazionale e nazionale), da cui emerge la natura
ampiamente discrezionale delle scelte effettuate,
giustificate alla luce dei valori primari ed assoluti
coinvolti (cfr., Cons. St., sez. II, 02.10.2014, n.
3938; sez. IV , 09.01.2014, n. 36; sez. IV, 17.09.2013, n. 4611 sez. VI, 13.06.2011, n. 3561;
Corte giust., 25.07.2008, c-142/07; Corte cost., 07.11.2007, n. 367, cui si rinvia a mente del combinato
disposto degli artt. 74, co. 1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.).
E’ stato chiarito che nel rendere il giudizio di valutazione
di impatto ambientale, l’amministrazione esercita una
amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero
giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di
verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di
misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente
intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in
relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e
privati coinvolti; la natura schiettamente discrezionale
della decisione finale risente dunque dei suoi presupposti
sia sul versante tecnico che amministrativo.
Di conseguenza, le posizioni soggettive delle persone e
degli enti coinvolti nella procedura sono pacificamente
qualificabili in termini di interesse legittimo ed è
altrettanto assodato che le relative controversie non
rientrano nel novero delle tassative ed eccezionali ipotesi
di giurisdizione di merito sancite dall’art. 134 c.p.a.
(cfr., sotto l’egida della precedente normativa, identica in
parte qua, Cons. St., ad. plen., 09.01.2002, n. 1).
12.2. È proprio in ragione di tali particolari profili che
caratterizzano il giudizio di valutazione di impatto
ambientale che il Collegio, prescindendo da specifiche
aggettivazioni (debole o forte), ritiene che la relativa
valutazione di legittimità giudiziale, escludendo in maniera
assoluta il carattere sostitutivo della stessa, debba essere
limitata ad evidenziare la sussistenza di vizi rilevabili
ictu oculi, a causa della loro abnormità, irragionevolezza,
contraddittorietà e superficialità.
Invero, il giudizio di
compatibilità ambientale quand'anche reso sulla base di
criteri oggettivi di misurazione, pienamente esposti al
sindacato del giudice amministrativo, è attraversato, come
visto, da profili particolarmente intensi di discrezionalità
amministrativa sul piano dell'apprezzamento degli interessi
pubblici in rilievo e della loro ponderazione rispetto
all'interesse all'esecuzione dell'opera, con la conseguenza
che le scelte effettuate dall'Amministrazione si sottraggono
al sindacato del giudice amministrativo ogniqualvolta le
medesime non si appalesino come manifestamente illogiche o
incongrue (in termini, di recente, Cons. Stato, sez. IV, 27.03.2017, n. 1392).
12.3. Sulla scorta di ricevuti principi (cfr., Cass. civ.,
sez. un., 17.02.2012, nn. 2312 e 2313; Corte cost., 03.03.2011, n. 175; Cons. St., sez. VI,
09.02.2011, n.
871), cui si rinvia a mente del combinato disposto degli
artt. 74, co. 1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.:
a) la sostituzione, da parte del giudice amministrativo,
della propria valutazione a quella riservata alla
discrezionalità dell’amministrazione costituisce ipotesi di
sconfinamento vietato della giurisdizione di legittimità
nella sfera riservata alla p.a., quand’anche l’eccesso in
questione sia compiuto da una pronuncia il cui contenuto
dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento
dell’atto;
b) in base al principio di separazione dei poteri sotteso al
nostro ordinamento costituzionale, solo l’amministrazione è
in grado di apprezzare, in via immediata e diretta,
l’interesse pubblico affidato dalla legge alle sue cure;
c) conseguentemente, il sindacato sulla motivazione delle
valutazioni discrezionali:
I) deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della
verifica della non pretestuosità della valutazione degli
elementi di fatto acquisiti;
II) non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare
la mera non condivisibilità della valutazione stessa;
III) può disporre c.t.u. o verificazione al fine di
esercitare più penetranti controlli, con particolare
riguardo ai profili accertativi.
13. Tale approccio necessita di ulteriore conferma laddove,
come nel caso di specie, le critiche avverso l’esercizio del
potere tecnico discrezionale si concentrano sul rispetto del
principio di precauzione di cui all’art. 191 TFUE e agli
artt. 3-ter e 301 d.lgs. n. 152 del 2006, la cui
invocazione, peraltro, impone l’introduzione di elementi di
valutazione particolarmente dettagliati, per evitare di
estenderne eccessivamente la portata.
Invero, condividendo sul punto quanto espresso dalla
costante giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, sez.
V, 27/12/2013, n. 6250; Cons. giust. amm. Sicilia sez.
giurisd., 03/09/2015, n. 581), il Collegio ritiene che il
principio di precauzione:
a) i cui tratti giuridici si individuano lungo un percorso
esegetico fondato sul binomio analisi dei rischi-carattere
necessario delle misure adottate, presuppone l'esistenza di
un rischio specifico all'esito di una valutazione quanto più
possibile completa, condotta alla luce dei dati disponibili
che risultino maggiormente affidabili e che deve concludersi
con un giudizio di stretta necessità della misura;
b) non può legittimare un'interpretazione delle disposizioni
normative, tecniche ed amministrative vigenti in un dato
settore che ne dilati il senso fino a ricomprendervi vicende
non significativamente pregiudizievoli;
c) non conduce automaticamente a vietare ogni attività che,
in via di mera ipotesi, si assuma foriera di eventuali
rischi per la salute delle persone e per l'ambiente, privi
di ogni riscontro oggettivo e verificabile, richiedendo esso
stesso una seria e prudenziale valutazione, alla stregua
dell'attuale stato delle conoscenze scientifiche
disponibili, dell'attività che potrebbe ipoteticamente
presentare dei rischi, valutazione consistente nella
formulazione di un giudizio scientificamente attendibile.
14. Facendo applicazione dei suesposti principi alla vicenda
per cui è causa, sulla scorta delle risultanze documentali
in atti, il collegio osserva quanto segue:
a) molte delle censure appaiono generiche, pertanto
inammissibili;
b) ad ogni modo, tutte le censure che contrastano il
contenuto del compendio delle valutazioni discrezionali
poste a base del positivo provvedimento definitivo di VIA
sono inammissibili per le ragioni esposte al precedente § 12
(in particolare 12.3); il Comune ricorrente, in buona
sostanza, attacca l’opportunità delle scelte, tecniche e
amministrative, rimesse all’autorità preposta alla cura di
tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti,
sostituendo alle contestate valutazioni, che non superano
mai la soglia dell’abnormità o della manifesta illogicità,
le proprie soluzioni (valoristiche, progettuali,
istituzionali, economiche);
c) inoltre, tutte le censure dirette a contestare l’omessa
valutazione degli impatti cumulativi delle attività
autorizzate sono anche infondate, in considerazione della
sufficienza ed idoneità delle prescrizioni imposte dalla
Commissione, secondo il principio di massima precauzione,
come già condivisibilmente ravvisato dal Giudice di primo
grado:
c.1) divieto di svolgere contemporaneamente ulteriori
indagini sismiche in ambiti geografici dove la distanza fra
le imbarcazioni sismiche sia inferiore, nel punto più vicino
atteso, a 55 miglia nautiche (100 km), in modo da garantire
un’adeguata via di fuga ai mammiferi marini (così come già
ribadito anche nel rapporto ISPRA 2012);
c.2) divieto di contemporanea esecuzione di indagini
sismiche 2D e 3D se non siano trascorsi almeno 12 mesi dalla
prima campagna;
c.3) limitatamente ai permessi di ricerca 2D, se in futuro
dovesse risultare necessario effettuare una ulteriore
campagna di approfondimento geofisico del tipo 3D dovrà
essere attivata una nuova procedura di valutazione
ambientale;
c.4) per minimizzare qualsiasi interferenza o impatto
cumulativo dovuto alla simultaneità delle operazioni
all’interno di due aree adiacenti assegnate allo stesso
proponente, l’esecuzione del rilevamento deve essere
effettuata impiegando un'unica nave di acquisizione e quindi
un'unica sorgente acustica, eliminando in tal modo ogni
possibilità di sovrapposizione di effetti legati alla
generazione di più segnali acustici contemporaneamente
presenti in una medesima area;
c.5) nel caso in cui uno o più titoli minerari vengano
rilasciati con una tempistica tale che renda possibile
effettuare i lavori nello stesso periodo in cui si svolgerà
l’attività di prospezione geofisica proposta, il proponente
è tenuto a prendere contatti con il possibile altro
operatore per redigere un cronoprogramma delle operazioni
che ne escluda la simultaneità e ad effettuare la verifica
dei titoli minerari rilasciati nei dintorni al fine di
redigere un cronoprogramma delle attività che ne escluda la
simultaneità, con la conseguente esclusione della
possibilità di effettuazione simultanea di indagini sismiche
in aree adiacenti;
c.6) obbligo di esecuzione del biomonitoraggio e di un piano
di monitoraggio bioacustico preventivo e successivo alla
crociera sismica, con la previsione che il piano preventivo
debba consentire di definire le strategie di mitigazione da
adottare nel corso delle operazioni di air gun;
c.7) definizione di una zona di esclusione/area di
sicurezza, attorno alla sorgente di rumore per
l'individuazione del rischio potenziale per i mammiferi
marini suddivisa in due aree di cui una per il danno fisico
e una più esterna per il disturbo potenziale;
c.8) indicazione di precisi parametri di misurazione
acustica per suddividere l'area di sicurezza.
15. In conclusione, alla luce di quanto considerato, il
Collegio, ravvisando che i motivi di appello impingono nel
merito delle valutazioni riservate all’amministrazione,
ravvisa l’inammissibilità degli stessi.
16. Stante, da un lato, l’infondatezza di alcune censure e,
dall’altro, l’inammissibilità di altre, l’appello deve
essere respinto (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.02.2018 n. 1240 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I provvedimenti con cui viene ingiunta la
demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente
ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di
pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione
dell’abuso.
In tale ottica, l’atto che ordina l’eliminazione delle opere
realizzate, oltre a sanzionare l’abuso contestato, può
ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa
oggettiva rilevazione e descrizione dell’abuso accertato
(accertamento della sua “consistenza fisica” univocamente
correlata all’enucleazione materiale del precetto violato),
presupposto giustificativo, necessario e sufficiente a
fondare l'emanazione della misura sanzionatoria della
demolizione, atteso che l’esercizio del potere repressivo
degli abusi edilizi mediante applicazione della misura
ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è in
re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
---------------
L’appello appare prima facie infondato, come già
evidenziato in sede cautelare.
In ordine al primo motivo di appello, dall’analisi
della documentazione versata in atti emerge all’evidenza una
chiara ricostruzione degli abusi realizzati e della relativa
consistenza, così come compiutamente descritti nel
provvedimento sanzionatorio impugnato.
In linea di diritto, va ricordato il principio, ancora di
recente ribadito dall’Adunanza plenaria (cfr. dec. n. 9 del
2017) a mente del quale i provvedimenti con cui viene
ingiunta la demolizione di un immobile abusivo e giammai
assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti
in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine
alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle
inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell’abuso.
In tale ottica, l’atto che ordina l’eliminazione delle opere
realizzate, oltre a sanzionare l’abuso contestato, può
ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa
oggettiva rilevazione e descrizione dell’abuso accertato
(accertamento della sua “consistenza fisica”
univocamente correlata all’enucleazione materiale del
precetto violato), presupposto giustificativo, necessario e
sufficiente a fondare l'emanazione della misura
sanzionatoria della demolizione, atteso che l’esercizio del
potere repressivo degli abusi edilizi mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il
quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua
rimozione.
In linea di fatto, nel caso in esame l’iter confluito nel
provvedimento sanzionatorio ha consentito di verificare la
consistenza delle opere abusive, che gli stessi appellanti
hanno ammesso di aver realizzato al fine di coordinare la
parte preesistente con quella condonata.
In coerenza con l’accertata consistenza delle opere, nel
caso di specie l’ordinanza appare estremamente dettagliata,
sia in relazione alla ricostruzione ed individuazione degli
abusi, nonché in merito alla relativa qualificazione.
Tali emergenze evidenziano altresì l’infondatezza del
secondo ordine di rilievi, in quanto l’ordine contenuto
nella parte dispositiva trova piena esplicazione, in
relazione all’individuazione delle opere abusive da
demolire, nella parte motiva e ricostruttiva della
consistenza degli interventi contestati.
Se per un verso nessun elemento concreto viene
indicato da parte appellante al fine di evidenziare
l’eventuale rischio per le parti non abusive, per un
altro verso l’estremo dettaglio dell’ordinanza
sanzionatoria esclude ogni incertezza al riguardo (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.02.2018 n. 1087 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il privato, sanzionato con l'ordine di
demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva,
non può invocare tout court l'applicazione a suo favore
dell'art. 34 del t.u. n. 380 del 2001, potendo addurre che
sia onere dell'amministrazione verificare i requisiti
indicati dalla norma solo qualora abbia già fornito seria ed
idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura
e sull'utilizzazione del bene residuo.
A tal fine non è certo sufficiente l'allegazione che la
demolizione implicherebbe una notevole spesa e potrebbe
incidere sulla funzionalità interna del locale preesistente,
specie laddove, come nel caso de quo, nessun concreto
elemento al riguardo sia stato fornito.
Oltre al mancato assolvimento dell’onere probatorio facente
capo alla parte che invoca l’applicazione della norma che
eccezionalmente consente una sanzione alternativa alla
demolizione, secondo la giurisprudenza fatta propria anche
dalla sezione, la stessa non è applicabile alle opere
realizzate senza titolo per ampliare un manufatto
preesistente.
---------------
In materia va ribadito che il privato, sanzionato con
l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera
edilizia abusiva, non può invocare tout court
l'applicazione a suo favore dell'art. 34 del t.u. n. 380 del
2001, potendo addurre che sia onere dell'amministrazione
verificare i requisiti indicati dalla norma solo qualora
abbia già fornito seria ed idonea dimostrazione del
pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del
bene residuo; a tal fine non è certo sufficiente
l'allegazione che la demolizione implicherebbe una notevole
spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità interna del
locale preesistente, specie laddove, come nel caso de quo,
nessun concreto elemento al riguardo sia stato fornito.
Oltre al mancato assolvimento dell’onere probatorio facente
capo alla parte che invoca l’applicazione della norma che
eccezionalmente consente una sanzione alternativa alla
demolizione, secondo la giurisprudenza fatta propria anche
dalla sezione (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI
01.06.2016 n. 2325), la stessa non è applicabile alle opere
realizzate senza titolo per ampliare un manufatto
preesistente (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.02.2018 n. 1087 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il permesso in sanatoria ex art. 36, d.P.R.
06.06.2001 n. 380 è ottenibile solo su istanza di parte ed a
condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della
realizzazione del manufatto, sia della presentazione della
domanda.
Viceversa, con la invocata “sanatoria giurisprudenziale”
viene in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali
che si colloca, in linea di massima, al di fuori di
qualsiasi indicazione normativa “positiva”.
---------------
A conferma dell’infondatezza della prospettazione di parte
appellante, da ultimo, la stessa invoca un principio (quella
della c.d. sanatoria giurisprudenziale) invero
normativamente superato nonché recessivo rispetto al chiaro
disposto normativo vigente ed ai principi connessi al
perseguimento dell’abusiva trasformazione del territorio;
tali principi sono, d’altra parte, posti a fondamento del
preminente e condiviso orientamento giurisprudenziale, a
tenore del quale (cfr. ex multis Consiglio di Stato
sez. VI 18.07.2016 n. 3194) il permesso in sanatoria ex art.
36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 è ottenibile solo su istanza di
parte ed a condizione che l'intervento risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia
della realizzazione del manufatto, sia della presentazione
della domanda; viceversa, con la invocata “sanatoria
giurisprudenziale” viene in rilievo un atto atipico con
effetti provvedimentali che si colloca, in linea di massima,
al di fuori di qualsiasi indicazione normativa “positiva”
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.02.2018 n. 1087 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La verifica dell’effetto pregiudizievole
dell’intervento demolitorio sulla struttura preesistente ha
impulso su istanza dell’interessato e deve precedere
unicamente l'irrogazione della demolizione successivamente
all'inottemperanza del destinatario al primo ordine di
ripristino e condiziona quindi la sola demolizione d'ufficio
o in danno.
L'Amministrazione, dunque, solo in ipotesi di mancata
demolizione spontanea da parte dell'interessato e prima di
avviare la demolizione d'ufficio, è tenuta a valutare
l'istanza dell'interessato di sostituzione della misura demolitoria
con quella sanzionatoria in ragione dell'asserito
pregiudizio alla parte di immobile legittimamente costruita.
---------------
5.4. Non è infine fondata la censura con la quale il
ricorrente sostiene che il Comune avrebbe dovuto irrogare la
sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, stante il
pericolo di pregiudizio alla parte legittimamente costruita
derivante dall'esecuzione della demolizione delle opere
abusive. La verifica dell’effetto pregiudizievole
dell’intervento demolitorio sulla struttura preesistente ha
impulso su istanza dell’interessato e deve precedere
unicamente l'irrogazione della demolizione successivamente
all'inottemperanza del destinatario al primo ordine di
ripristino e condiziona quindi la sola demolizione d'ufficio
o in danno (cfr. TAR Campania, 04.04.2013, n. 1769).
5.4.1. L'Amministrazione, dunque, solo in ipotesi di mancata
demolizione spontanea da parte dell'interessato e prima di
avviare la demolizione d'ufficio, è tenuta a valutare
l'istanza dell'interessato di sostituzione della misura
demolitoria con quella sanzionatoria in ragione
dell'asserito pregiudizio alla parte di immobile
legittimamente costruita (TAR Palermo sez. III, 23.01.2015,
n. 211) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 25.01.2018 n. 127 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha già
avuto modo di affermare che, in presenza di una situazione
di obiettiva incertezza sui confini, l’eventuale assunzione
per mero errore, da parte di un Comune, di provvedimenti
relativi al territorio di altri Comuni non dà luogo a
nullità degli atti.
---------------
16. Resiste alle censure della ricorrente anche l’atto
inibitorio della segnalazione certificata di inizio attività
emesso dal Comune di Casatenovo.
Il provvedimento evidenzia, infatti, anzitutto il mancato
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica. Circostanza,
questa, che di per sé sola è idonea a sorreggere la
determinazione con la quale è stato reso noto alla
ricorrente “che non sarà possibile le realizzazione degli
interventi (...)”. E ciò in quanto la realizzazione, sulla
base di una segnalazione certificata di inizio attività, di
opere concernenti immobili vincolati è in ogni caso
“subordinata al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative” (v. articolo 22, comma 6, del d.P.R. n. 380 del
2001).
17. Non può, poi, trovare accoglimento la censura –articolata con il quarto motivo di ricorso– specificamente
diretta contro l’ordinanza del Comune di Missaglia, nella
parte in cui ordina la rimozione della stanga di ferro e
delle ramaglie che, secondo quanto dedotto dalla signora
Vismara nell’atto introduttivo del giudizio, si troverebbero
invece nel territorio del Comune di Casatenovo.
Al riguardo, deve rilevarsi che è la stessa ricorrente ad
aver allegato che, a seguito di più approfondite indagini, è
emerso che lo sbarramento si trova proprio nel territorio
del Comune di Missaglia, per cui la censura deve intendersi
oggetto di implicita rinuncia.
Non può invece darsi seguito alla richiesta della ricorrente
(formulata nella memoria del 27.03.2017, p. 20) di
intendere la doglianza come proposta –per le medesime
ragioni– contro l’ordinanza emessa dal Comune di Casatenovo.
E ciò sia in quanto si tratterebbe di una non consentita
mutatio libelli, sia perché il vizio dedotto contro
l’ordinanza del Comune di Casatenovo non potrebbe comportare
comunque la nullità del provvedimento e non sarebbe quindi
in nessun caso rilevabile d’ufficio.
La giurisprudenza ha
infatti già avuto modo di affermare che, in presenza di una
situazione di obiettiva incertezza sui confini, l’eventuale
assunzione per mero errore, da parte di un Comune, di
provvedimenti relativi al territorio di altri Comuni non dà
luogo a nullità degli atti (Cons. Stato, Sez. V, 27.05.2014,
n. 2713) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 28.07.2017 n. 1707 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Laddove un atto sia fondato su una pluralità di
motivazioni, ciascuna sufficiente a sorreggerlo, la mancata
impugnazione o il rigetto delle censure articolate contro
una di queste comporta il venir meno dell’interesse allo
scrutinio delle rimanenti doglianze dirette contro le
ulteriori ragioni poste a sostegno della determinazione
assunta dall’amministrazione.
---------------
19. Alla luce di quanto precede, il Collegio ritiene di
potersi esimere dallo scrutinare le ulteriori censure
articolate contro i provvedimenti impugnati nel presente
giudizio.
Tali doglianze ruotano, infatti, tutte intorno al tema
dell’esistenza di sentieri di interesse pubblico sul terreno
della signora Vi.; circostanza affermata dai Comuni
resistenti e contestata dalla ricorrente. Al riguardo, la
difesa del Comune di Casatenovo, in prossimità dell’udienza,
ha chiesto anzi espressamente lo svolgimento di una
consulenza tecnica o di una verificazione, allo scopo di
dirimere tale aspetto controverso.
Il Collegio ritiene che la richiesta non possa essere
accolta, poiché la soluzione della questione non è rilevante
ai fini della decisione della causa, in quanto:
- non influisce sulla legittimità della condizione apposta
all’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di
Missaglia, secondo quanto sopra detto;
- non influisce neppure sulla legittimità del provvedimento
inibitorio della segnalazione certificata di inizio attività
assunto dal Comune di Casatenovo e delle ordinanze di
demolizione emesse dai due Comuni interessati, posto che –come diffusamente illustrato– tutti questi atti sono basati
anzitutto sulla realizzazione delle opere in assenza
dell’autorizzazione paesaggistica.
Deve perciò tenersi fede al consolidato indirizzo
giurisprudenziale per il quale laddove un atto sia fondato
su una pluralità di motivazioni, ciascuna sufficiente a
sorreggerlo, la mancata impugnazione o il rigetto delle
censure articolate contro una di queste comporta il venir
meno dell’interesse allo scrutinio delle rimanenti doglianze
dirette contro le ulteriori ragioni poste a sostegno della
determinazione assunta dall’amministrazione (cfr. ex multis
Cons. Stato, Sez. IV, 12.05.2016, n. 1921; Id., Sez. VI,
20.03.2015, n. 1532) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 28.07.2017 n. 1707 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'avvenuta realizzazione in zona sismica di
volumetrie non previste dal titolo abilitativo configura
altresì la contravvenzione di cui all'art. 93 del d.p.r. n.
380 del 2001 ove la stessa non sia stata preceduta dalla
denuncia di inizio di attività e dalla presentazione, al
competente Sportello unico, dei relativi progetti.
Ciò in quanto il reato di omessa denuncia lavori in zona
sismica, previsto dall'art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è
configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona
inclusa tra quelle a basso indice sismico, atteso che l'art.
83, comma 2, del medesimo decreto, non pone alcuna
distinzione in merito alle categorie delle zone medesime.
---------------
L'art. 94 del D.P.R. n. 380/2001 richiede la preventiva
autorizzazione scritta dei competenti uffici tecnici
regionali con esclusione dei lavori che debbano essere
eseguiti nelle zone "a bassa sismicità all'uopo indicate nei
decreti di cui all'articolo 83"; zone tra le quali, secondo
quanto esposto dalla ricorrente, rientrerebbe anche la zona
di Corato, classificata come "zona 3".
E tuttavia, il Tribunale, con motivazione apparente, assume
l'avvenuta integrazione del reato contestato all'art. 94
essendo state le opere realizzate in zona sismica, senza
avere accertato se il territorio del comune di Corato fosse
stato inserito o meno nelle zone a bassa sismicità.
---------------
In tema di legislazione antisismica, i
reati di omessa denuncia dei lavori e presentazione dei
progetti e di inizio dei lavori senza preventiva
autorizzazione hanno natura di reati permanenti, la cui
consumazione si protrae sino a che il responsabile,
rispettivamente, non presenta la relativa denuncia con
l'allegato progetto, non termina l'intervento oppure non
ottiene la relativa autorizzazione.
---------------
4. Parzialmente fondato è, invece, il terzo motivo di
ricorso proposto da Ma.Cl.Ru..
Secondo la ricorrente, il Tribunale pugliese, andando,
ancora una volta, oltre i vincolanti confini della
contestazione, avrebbe ritenuto di ravvisare la violazione
dell'obbligo di preventiva denuncia di esecuzione dell'opera
al Genio civile con riferimento all'aumento di volumetria e
non, come invece riportato nell'imputazione, per avere
realizzato l'orditura del solaio in legno differente da
quella descritta in progetto.
Tanto più che, non trattandosi, in quest'ultimo caso, di
modifica di ordine strutturale, non sarebbe stata
obbligatoria la denuncia ex art. 93. Fermo restando che,
ricadendo il comune di Corato in zona classificata a bassa
sismicità, non sarebbe stato comunque applicabile il regime
autorizzativo di cui all'art. 94 del D.P.R. 380/2001, che
prevede l'esame preventivo dei contenuti tecnici delle
progettazioni strutturali, al fine di verificare che gli
stessi siano conformi alle N.T.C. vigenti.
4.1. Orbene, quanto al primo ordine di censure è appena il
caso di ribadire, secondo quanto già osservato al § 3.1. del
presente "considerato in diritto", che l'avvenuta
realizzazione in zona sismica di volumetrie non previste dal
titolo abilitativo, vero oggetto della contestazione,
configura altresì la contravvenzione di cui all'art. 93 del
d.p.r. n. 380 del 2001 ove la stessa non sia stata preceduta
dalla denuncia di inizio di attività e dalla presentazione,
al competente Sportello unico, dei relativi progetti. Ciò in
quanto il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica,
previsto dall'art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è
configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona
inclusa tra quelle a basso indice sismico, atteso che l'art.
83, comma 2, del medesimo decreto, non pone alcuna
distinzione in merito alle categorie delle zone medesime
(Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, dep. 06/06/2011, Morini,
Rv. 250369).
4.2. Fondate sono, invece, le censure che riguardano la
configurabilità, nel caso di specie, della contravvenzione
di cui all'art. 94 del D.P.R. n. 380/2001.
Tale disposizione, infatti, richiede la preventiva
autorizzazione scritta dei competenti uffici tecnici
regionali con esclusione dei lavori che debbano essere
eseguiti nelle zone "a bassa sismicità all'uopo indicate
nei decreti di cui all'articolo 83"; zone tra le quali,
secondo quanto esposto dalla ricorrente, rientrerebbe anche
la zona di Corato, classificata come "zona 3".
E tuttavia, il Tribunale, con motivazione apparente, assume
l'avvenuta integrazione del reato contestato all'art. 94
essendo state le opere realizzate in zona sismica, senza
avere accertato se il territorio del comune di Corato fosse
stato inserito o meno nelle zone a bassa sismicità.
5. Fondato è, altresì, il quarto motivo di ricorso
proposto da Ma.Cl.Ru. in relazione all'avvenuta maturazione
del termine di prescrizione.
In tema di legislazione antisismica, i reati di omessa
denuncia dei lavori e presentazione dei progetti e di inizio
dei lavori senza preventiva autorizzazione hanno natura di
reati permanenti, la cui consumazione si protrae sino a che
il responsabile, rispettivamente, non presenta la relativa
denuncia con l'allegato progetto, non termina l'intervento
oppure non ottiene la relativa autorizzazione (Sez. 3, n.
1145 in data 08/10/2015, dep. 14/01/2016, Stabile, Rv.
266015).
Nel caso di specie, peraltro, la sentenza impugnata non ha
specificamente indicato i motivi per i quali i lavori
dovessero ritenersi ultimati soltanto il 03/05/2011, data
della dichiarazione di fine lavori presentata presso
l'Ufficio Tecnico del Comune di Corato, e non il 30/07/2009,
data della dichiarazione di ultimazione dei lavori di
carattere strutturale, depositata presso l'Assessorato alle
Opere Pubbliche - Settore L.L.P.P., limitandosi ad
affermare, nonostante i rilievi difensivi sul punto, che in
presenza di un contrasto tra le due dichiarazioni dovesse
ritenersi "maggiormente attendibile la comunicazione
effettuata per ultima".
Osserva, tuttavia, il Collegio che la motivazione offerta
dal Tribunale ha natura meramente apparente, non essendo
state specificate le ragioni che sottendono alla
ricostruzione offerta in sentenza.
6. Consegue alle esposte considerazioni che la sentenza
impugnata dovrebbe essere annullata, con rinvio, al fine di
consentire al tribunale pugliese di sottoporre a nuovo esame
le questioni poste.
Tuttavia, considerato che, nelle more, entrambe le
fattispecie contestate ai capi a) e b) sono ormai estinte
per intervenuta prescrizione, deve essere pronunciata
sentenza di annullamento senza rinvio.
6.1. Per completezza va, da ultimo, rilevato che pur essendo
fondati i motivi di censura proposti da entrambi gli
imputati con riferimento alla mancata motivazione in ordine
alla concedibilità della causa di non punibilità di cui
all'art. 131-bis cod. pen., pur ritualmente richiesta dalla
difesa, la declaratoria di estinzione del reato per
prescrizione prevale sulla esclusione della punibilità per
particolare tenuità del fatto, in quanto essa, estinguendo
il reato, rappresenta un esito più favorevole per
l'imputato, mentre la seconda lascia inalterato l'illecito
penale nella sua materialità storica e giuridica (Sez. 6, n.
11040 del 27/01/2016, dep. 16/03/2016, Calabrese, Rv.
266505).
Ne consegue che la relativa questione deve ritenersi
assorbita dalla ritenuta prescrizione dei reati de quibus.
7. Alla luce di quanto in precedenza argomentato, la
sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio,
poiché i reati sono estinti per prescrizione.
Per tale motivo, deve, altresì, disporsi la revoca
dell'ordine di demolizione dell'opera abusiva (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
20.06.2017 n. 30651). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’autorizzazione all’installazione degli impianti
pubblicitari rilasciata dai Comuni in base alla disciplina
speciale (segnatamente in base all’art. 23 del Codice della
Strada), nel rispetto dei criteri e dei vincoli fissati
nell’apposito regolamento comunale e nel piano generale
degli impianti pubblicitari (a loro volta previsti dall’art.
3 d.lgs. n. 507/1993) ha anche una valenza
edilizia-urbanistica ed assolve, pertanto, alle esigenze di
tutela sottesa al rilascio di un ulteriore titolo
abilitativo rappresentato dal rilascio del titolo edilizio
secondo la disciplina di cui al d.lgs. n. 380 del 2001.
Il Collegio è consapevole che una parte della giurisprudenza
amministrativa in passato ha accolto una tesi contraria, che
non esclude in assoluto la necessità del titolo edilizio per
l’installazione degli impianti pubblicitari, ma richiede
anche il permesso di costruire allorché vi sia un
sostanziale mutamento del territorio nel suo contesto
preesistente sia sotto il profilo urbanistico che sotto
quello edilizio (in tal senso anche la prevalente
giurisprudenza penale).
Tale tesi non appare, tuttavia, condivisibile alla luce
delle seguenti considerazioni.
In primo luogo, essa non sembra tenere conto della
“specialità” della disciplina di settore (codice della
strada e decreto legislativo n. 507 del 1993) la quale, come
riconosciuto anche dalla Corte costituzionale, prescrive
regole e obblighi pianificatori specifici volti a tutelare,
anche, le esigenze “dell’assetto del territorio e delle sue
caratteristiche abitative, estetiche, ambientali e di
viabilità”.
Di conseguenza, prescrivere in aggiunta all’autorizzazione
di settore, anche il rilascio del permesso di costruire si
tradurrebbe in una duplicazione del sistema autorizzatorio e
sanzionatorio che risulterebbe sproporzionata, perché non
giustificata dall’esigenza, già salvaguardata in base alla
disciplina speciale (cfr. art. 3 d.lgs. n. 507 del 1993), di
tutelare l’interesse al corretto assetto del territorio.
L’inutile complicazione cui darebbe luogo la tesi della
duplicazione dei titoli autorizzatori risulta, peraltro, in
netta controtendenza rispetto all’esigenza, fortemente
perseguita dal legislatore anche nei più recenti interventi
legislativi (cfr., ad esempio, d.lgs. 30.06.2016, n. 126),
di semplificare i procedimenti amministrativi, convogliando
i titoli abilitativi necessari allo svolgimento di
un’attività privata all’interno di un procedimento unitario.
Gli interessi legati all’assetto urbanistico, pertanto,
devono essere perseguiti dal Comune non attraverso la
duplicazione dei titoli autorizzatori, ma vanno, al
contrario, valutati, nel rispetto del principio di
semplificazione e unicità del procedimento amministrativo,
all’interno del procedimento di rilascio dell’autorizzazione
prevista dall’art. 23, comma 4, codice della strada, con la
conseguenza che quest’ultima autorizzazione dovrà essere
negata nel caso in cui l’installazione risulti incompatibile
con le esigenze urbanistico-edilizie.
Ulteriori elementi interpretativi a sostegno di questa tesi
si desumono poi dall’art. 168 d.lgs. 22.01.2004, n. 42
(Codice dei beni culturali e del paesaggio), che
testualmente dispone “Chiunque colloca cartelli o altri
mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni di cui
all’art. 153 è punito con le sanzioni previste dal decreto
legislativo 30.04.1992, n. 285 e successive modificazioni”.
In tal modo, come evidenziato da parte appellante, la norma
ha sottratto i cartelli pubblicitari alla disciplina
generale prevista per le costruzioni e le opere in genere,
assoggettandoli, ove sprovvisti del nulla osta
paesaggistico, alle sanzioni amministrative previste dal
codice della strada e non già alle sanzioni penali previste
per le costruzioni abusive.
Ancora, in tale direzione depone l’orientamento delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione le quali,
pronunciando in tema di riparto della giurisdizione in
materia di determinazioni di rimozione di impianti
pubblicitari (in questo processo sulla giurisdizione si è
formato il giudicato implicito), hanno in più occasioni
escluso o che il provvedimento con il quale un Comune intima
la rimozione coattiva di un impianto pubblicitario rientri
nella categoria degli «atti e provvedimenti» in materia di
urbanistica ed edilizia - la cui cognizione, com’è noto, è
devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, affermando espressamente che non si verte
“in tema di uso del territorio, ma di godimento abusivo di
beni demaniali, con riferimento al quale il legislatore
detta una disciplina specifica”.
---------------
... per la riforma della
sentenza 31.12.2011
n. 1688
del TAR CALABRIA-CATANZARO: SEZ. I, resa tra le parti,
concernente demolizione impianto pubblicitario e ripristino
dello stato dei luoghi
...
6. L’appello merita accoglimento.
7. Occorre, preliminarmente, ricostruire nei suoi tratti
essenziali la specifica disciplina vigente in materia di
impianti pubblicitari.
Il riferimento va, in primo luogo, alle norme del Codice
della strada (d.lgs. 30.04.1992 n. 285), alle quali si sono
presto affiancate quelle di cui al d.lgs. 15.11.1993 n. 507
(«Revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla
pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della
tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei
comuni e delle province»).
L’attività pubblicitaria è regolamentata dall’art. 23, comma
4, del Codice della strada, il quale prevede che la
collocazione di cartelli e di altri mezzi pubblicitari lungo
le strade o in vista di esse sia «soggetta in ogni caso
ad autorizzazione da parte dell’ente proprietario della
strada».
All'interno del perimetro dei centri abitati, la competenza
al rilascio dell’autorizzazione è, in tutti i casi, dei
Comuni, fatto salvo il preventivo nulla osta dell'ente
proprietario nei casi in cui la strada appartenga al demanio
statale, regionale o provinciale. Nella sostanza, chi
intende esporre un mezzo pubblicitario «deve presentare
la relativa domanda» all’Ente proprietario della strada,
il quale rilascia apposita autorizzazione al posizionamento
dello stesso (art. 53, comma 3, regolamento di attuazione
del Codice della strada, approvato con d.P.R. 16.12.1992 n.
495).
Lo stesso regolamento di attuazione del Codice della strada
fissa, poi, i requisiti tipologici degli impianti
pubblicitari da allocare lungo le strade e le fasce di
pertinenza (art. 48, comma 1), demandando alla potestà
regolamentare dei Comuni la possibilità di prevedere
ulteriori «limitazioni dimensionali» (art. 48, comma
2).
Va ancora evidenziato che l’attività pubblicitaria, infatti,
si esercita nel rispetto delle indicazioni e dei vincoli
contenuti in due importanti strumenti di pianificazione e
programmazione generale: il regolamento comunale ed il piano
generale degli impianti pubblicitari.
Infatti, in questa materia, l’art. 3 del decreto legislativo
n. 507 del 1993 ha previsto in capo ai Comuni l’obbligo di
adottare un «apposito regolamento» per l’applicazione
dell'imposta sulla pubblicità e per l’effettuazione del
servizio delle pubbliche affissioni. Attraverso tale
strumento, i Comuni sono tenuti a disciplinare le modalità
di effettuazione della pubblicità e possono stabilire
limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie in
relazione ad esigenze di pubblico interesse.
I contenuti essenziali del regolamento, indicati dalla
legge, sono i seguenti: 1) determinare la tipologia e la
quantità degli impianti pubblicitari; 2) stabilire le
modalità per ottenere l'autorizzazione all'installazione; 3)
indicare i criteri per la realizzazione del piano generale
degli impianti pubblicitari; 4) fissare la ripartizione
della superficie degli impianti pubblici da destinare alle
affissioni di natura istituzionale, sociale o comunque prive
di rilevanza economica e quella da destinare alle affissioni
di natura commerciale, nonché la superficie degli impianti
da attribuire a soggetti privati, per l’effettuazione di
affissioni dirette.
Con l’adozione del piano generale degli impianti
pubblicitari, il Comune provvede alla razionale
distribuzione sul territorio degli impianti pubblicitari,
indicando i siti ove è possibile collocare gli stessi.
Come ha precisato Corte cost., 17.07.2002 n. 455: «La
tutela interessi pubblici presenti nella attività
pubblicitaria effettuata mediante l’installazione di
cartelloni si articola dunque, nel decreto legislativo n.
507 del 1993, in un duplice livello di intervento: l’uno,
di carattere generale e pianificatorio, mirante ad escludere
che le autorizzazioni possano essere rilasciate dalle
amministrazioni comunali in maniera causale, arbitraria e
comunque senza una chiara visione dell’assetto del
territorio e delle sue caratteristiche abitative, estetiche,
ambientali e di viabilità; l'altro, a contenuto
particolare e concreto, in sede di provvedimento
autorizzatorio, con il quale le diverse istanze dei privati
vengono ponderate alla luce delle previsioni di piano e solo
se sono conformi a tali previsioni possono essere
soddisfatte».
8. Questa ricostruzione del panorama legislativo vigente
consente di ritenere che l’autorizzazione all’installazione
degli impianti pubblicitari rilasciata dai Comuni in base
alla disciplina speciale (segnatamente in base all’art. 23
del Codice della Strada), nel rispetto dei criteri e dei
vincoli fissati nell’apposito regolamento comunale e nel
piano generale degli impianti pubblicitari (a loro volta
previsti dall’art. 3 d.lgs. n. 507/1993) abbia anche una
valenza edilizia-urbanistica ed assolva, pertanto, alle
esigenze di tutela sottesa al rilascio di un ulteriore
titolo abilitativo rappresentato, secondo la tesi del Comune
(fatta propria dal Tar) dal rilascio del titolo edilizio
secondo la disciplina di cui al d.lgs. n. 380 del 2001.
9. Il Collegio è consapevole che una parte della
giurisprudenza amministrativa in passato (cfr. Cons. St.,
sez. V, 17.05.2007 n. 2497) ha accolto una tesi contraria,
che non esclude in assoluto la necessità del titolo edilizio
per l’installazione degli impianti pubblicitari, ma richiede
anche il permesso di costruire allorché vi sia un
sostanziale mutamento del territorio nel suo contesto
preesistente sia sotto il profilo urbanistico che sotto
quello edilizio (in tal senso anche la prevalente
giurisprudenza penale: cfr., da ultimo Cass. Pen. Sez. III,
08.05.2015, n. 19185).
10. Tale tesi non appare, tuttavia, condivisibile alla luce
delle seguenti considerazioni.
10.1. In primo luogo, essa non sembra tenere conto della “specialità”
della disciplina di settore (codice della strada e decreto
legislativo n. 507 del 1993) la quale, come riconosciuto
anche dalla Corte costituzionale, prescrive regole e
obblighi pianificatori specifici volti a tutelare, anche, le
esigenze “dell’assetto del territorio e delle sue
caratteristiche abitative, estetiche, ambientali e di
viabilità”.
Di conseguenza, prescrivere in aggiunta all’autorizzazione
di settore, anche il rilascio del permesso di costruire si
tradurrebbe in una duplicazione del sistema autorizzatorio e
sanzionatorio che risulterebbe sproporzionata, perché non
giustificata dall’esigenza, già salvaguardata in base alla
disciplina speciale (cfr. art. 3 d.lgs. n. 507 del 1993), di
tutelare l’interesse al corretto assetto del territorio.
10.2. L’inutile complicazione cui darebbe luogo la tesi
della duplicazione dei titoli autorizzatori risulta,
peraltro, in netta controtendenza rispetto all’esigenza,
fortemente perseguita dal legislatore anche nei più recenti
interventi legislativi (cfr., ad esempio, d.lgs. 30.06.2016,
n. 126), di semplificare i procedimenti amministrativi,
convogliando i titoli abilitativi necessari allo svolgimento
di un’attività privata all’interno di un procedimento
unitario.
Gli interessi legati all’assetto urbanistico, pertanto,
devono essere perseguiti dal Comune non attraverso la
duplicazione dei titoli autorizzatori, ma vanno, al
contrario, valutati, nel rispetto del principio di
semplificazione e unicità del procedimento amministrativo,
all’interno del procedimento di rilascio dell’autorizzazione
prevista dall’art. 23, comma 4, codice della strada, con la
conseguenza che quest’ultima autorizzazione dovrà essere
negata nel caso in cui l’installazione risulti incompatibile
con le esigenze urbanistico-edilizie.
10.3. Ulteriori elementi interpretativi a sostegno di questa
tesi si desumono poi dall’art. 168 d.lgs. 22.01.2004, n. 42
(Codice dei beni culturali e del paesaggio), che
testualmente dispone “Chiunque colloca cartelli o altri
mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni di cui
all’art. 153 è punito con le sanzioni previste dal decreto
legislativo 30.04.1992, n. 285 e successive modificazioni”.
In tal modo, come evidenziato da parte appellante, la norma
ha sottratto i cartelli pubblicitari alla disciplina
generale prevista per le costruzioni e le opere in genere,
assoggettandoli, ove sprovvisti del nulla osta
paesaggistico, alle sanzioni amministrative previste dal
codice della strada e non già alle sanzioni penali previste
per le costruzioni abusive.
10.4. Ancora, in tale direzione depone l’orientamento delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione le quali,
pronunciando in tema di riparto della giurisdizione in
materia di determinazioni di rimozione di impianti
pubblicitari (in questo processo sulla giurisdizione si è
formato il giudicato implicito), hanno in più occasioni
escluso o che il provvedimento con il quale un Comune intima
la rimozione coattiva di un impianto pubblicitario rientri
nella categoria degli «atti e provvedimenti» in
materia di urbanistica ed edilizia - la cui cognizione,
com’è noto, è devoluta alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, affermando espressamente che non si
verte “in tema di uso del territorio, ma di godimento
abusivo di beni demaniali, con riferimento al quale il
legislatore detta una disciplina specifica” (cfr. Cass.
Sez. Un. 14.01.2009, n. 563; 18.11.2008 n. 27334, 06.06.2007
n. 13230, 17.07.2006 n. 16129 e 19.11.1998 n. 11721).
11. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello
deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma della
sentenza appellata, deve essere accolto il ricorso di primo
grado (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.01.2017 n. 236 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La decorrenza del termine per
ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi
dell'edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli
cui l'atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque
indicati) dalla data in cui si renda palese ed
oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita
protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile
dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la
sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
In materia di impugnazione del permesso di costruire, è
sufficiente la cd. "vicinitas", quale elemento che distingue
la posizione giuridica del ricorrente da quella della
generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere
a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a
ché il provvedimento dell'Amministrazione sia
procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme
vigenti in materia.
---------------
La conoscenza effettiva e completa della concessione
edilizia rilasciata a terzi -che deve essere provata da chi
eccepisce la tardività dell'impugnazione- si verifica di
regola, in mancanza di diversi mezzi di inoppugnabile prova,
con l'ultimazione dei lavori di costruzione dell'immobile e
non con solo il loro inizio occorre pertanto che le parti
evidenzino elementi di prova di una conoscenza anteriore
dell'opera assentita e della sua consistenza o una
ultimazione dei lavori in epoca anteriore oltre sessanta
giorni rispetto alla proposizione del ricorso.
---------------
2.4. Rimarca in proposito il Collegio che consolidata e
condivisibile giurisprudenza ha con continuità affermato il
principio per cui “la decorrenza del termine per
ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi
dell'edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli
cui l'atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque
indicati) dalla data in cui si renda palese ed
oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita
protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile
dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la
sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
In materia di impugnazione del permesso di costruire, è
sufficiente la cd. "vicinitas", quale elemento che distingue
la posizione giuridica del ricorrente da quella della
generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere
a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a
ché il provvedimento dell'Amministrazione sia
procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme
vigenti in materia” (Consiglio Stato , sez. IV,
05.01.2011, n. 18).
Nel caso in esame –proprio tenuto conto della tipologia di
censure che vennero avanzate in primo grado- considerato che
il ricorso di primo grado venne notificato il 02.10.2009,
non può evincersi che lo stesso fosse stato proposto
tardivamente (si rammenta in proposito che, mentre il
permesso di costruire n. 432 adottato il 31.10.2008 era
stato rilasciato il 27.01.2009 e pubblicato in pari data
sull’albo pretorio comunale l’intervento edilizio aveva
avuto inizio nel febbraio 2009 con l’apposizione del
cartello e la parte strutturale dell’edificio era stata
realizzata nel giugno 2009).
In particolare non risulta affatto provato dalle odierne
parti appellanti (si rammenta in proposito il consolidato
orientamento per cui “la conoscenza effettiva e completa
della concessione edilizia rilasciata a terzi -che deve
essere provata da chi eccepisce la tardività
dell'impugnazione- si verifica di regola, in mancanza di
diversi mezzi di inoppugnabile prova, con l'ultimazione dei
lavori di costruzione dell'immobile e non con solo il loro
inizio occorre pertanto che le parti evidenzino elementi di
prova di una conoscenza anteriore dell'opera assentita e
della sua consistenza o una ultimazione dei lavori in epoca
anteriore oltre sessanta giorni rispetto alla proposizione
del ricorso” -TAR Liguria Genova, sez. I, 19.12.2006, n.
1711-) che alla data del 02.08.2009 la parte originariamente
ricorrente in primo grado fosse stata in grado di percepire
con certezza la lesività dell’opera ed i profili di
illegittimità asseritamente attingenti i titoli abilitativi
rilasciati, di guisa che la censura va certamente disattesa
e può procedersi all’esame del merito della controversia.
2.4.1. Si sottolinea in proposito che parte appellata si
doleva non già della demolizione e successiva riedificazione
dell’edificio (il che avrebbe consentito di percepire la
lesività dell’azione amministrativa autorizzata) ma che ciò
fosse avvenuto senza che l’immobile ricostruito rispettasse
l’altezza, la sagoma e l’area di ingombro di quello
demolito.
E’ agevole riscontare che in simile ipotesi la percezione
della lesività non potesse avvenire in epoca antecedente
alla definizione dei lavori.
Né, avuto riguardo all’esito della verificazione, è stato
provato dalle parti odierne appellanti che almeno 60 giorni
prima della notifica del ricorso introduttivo del giudizio
di primo grado fosse possibile avvedersi da parte degli
originari ricorrenti dell’avvenuta modifica della sagoma.
La censura di tardività del mezzo introduttivo del giudizio
di primo grado deve essere pertanto disattesa
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.06.2013 n. 3456 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza amministrativa maggioritaria si è a lungo interrogata per cercare di
ricondurre ad unità la molteplicità di concetti in astratto
sussumibili nel termine “ristrutturazione edilizia”.
Essa è sostanzialmente pervenuta ad una distinzione fondata
su una tripartizione.
E’ stata riconosciuta la possibilità di una ristrutturazione
c.d. “pesante” ex art. 10, comma 1, lett. c), dpr
380/2001
che comporti modifiche di volume: la giurisprudenza più
recente cerca tuttavia di “contenere” sotto il
profilo quantitativo detti incrementi [ex multis si
veda TAR Toscana Firenze Sez. III, 27.08.2012, n. 1470 “nonostante
l'art. 10, comma 1, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001 -T.U.
Edilizia- preveda la possibilità di ristrutturazioni che
comportino modifiche di volume -cosiddetta ristrutturazione
pesante-, ciò non significa che qualsiasi ampliamento di
edifici preesistenti debba essere automaticamente ascritto
alla fattispecie della ristrutturazione: qualora si
ammettesse la possibilità di un apprezzabile aumento
volumetrico dell'edificio ai sensi dell'art. 10, comma 1,
lett. c), del d.p.r. n. 380/2001 verrebbe meno la linea di
distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova
costruzione. Pertanto costituiscono ristrutturazione
edilizia unicamente gli ampliamenti di modesta entità.]".
Accanto a questa -e per differenza- è stata individuata la
categoria della ristrutturazione “lieve”: essa
ricorre quindi allorché non siano in programma ampliamenti
volumetrici.
Si è peraltro chiarito che “il mutamento di destinazione d'uso
di una porzione dell'immobile, portando ad un organismo in
parte diverso dal precedente e contribuendo ad aumentare il
carico urbanistico, deve ritenersi rientrante nell'ambito
della categoria della "ristrutturazione edilizia", come si
evince dall'esplicito riferimento a tale tipologia di
intervento presente nell'art. 10, comma 1, lett. c), d.p.r.
n. 380/2001".
Inoltre, e per quel che più interessa nell’ambito del
presente procedimento, è stata considerata riconducibile al
concetto di “ristrutturazione” ex art. 3, lett. d), del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380 anche la demolizione e
ricostruzione di un edificio preesistente.
Ciò integra una deviazione “concettuale”,
peraltro espressamente voluta dal Legislatore: se di regola
la ristrutturazione postula il ripristino dell’esistente, in
tale ultimo caso l’esistente viene meno.
In ordine al concetto di “ciò che è esistente e si può
quindi ristrutturare” la giurisprudenza è peraltro
concorde nell’affermare che “il concetto di ristrutturazione
edilizia postula necessariamente la preesistenza di un
fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio
dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura, con la conseguenza che la ricostruzione su ruderi
o su un edificio che risulta da tempo demolito anche se
soltanto in parte, costituisce a tutti gli effetti una nuova
opera, che, come tale, è soggetta alle comuni regole
edilizie e paesaggistiche vigenti al momento della
riedificazione.”.
Ciò premesso, e soffermandosi sulla terza fattispecie di
ristrutturazione edilizia sinora menzionata (id est:
demolizione e ricostruzione di un edificio preesistente) la
giurisprudenza si è interrogata in ordine alla possibilità,
sulla base della legislazione nazionale, di un ampliamento
concettuale di quest’ultima, sino ad ammettere che essa
possa implicare modifiche a volume, sagoma, ed area di sedime.
La giurisprudenza maggioritaria ha fornito tassativa
risposta negativa al quesito in ultimo formulato: si è
condivisibilmente affermato infatti, ancora di recente, che
“costituiscono ristrutturazione urbanistica sia la
trasformazione degli organismi edilizi con un insieme
sistematico di opere che possono portare anche ad un
organismo in tutto od in parte diverso dal precedente,
sempre che detti interventi riguardino solo alcuni elementi
dell'edificio (ripristino o sostituzione di alcuni elementi
costituitivi dell'edificio; eliminazione, modifica e
inserimento di nuovi elementi o nuovi impianti), sia la
demolizione e ricostruzione, sempre che ciò avvenga con la
stessa volumetria e sagoma. Laddove invece vi sia un
mutamento della sagoma, debbono ravvisarsi gli estremi della
nuova costruzione”.
---------------
3. Passando adesso all’esame del merito delle riunite cause,
l’ordine logico da seguire, al fine di dare partita risposta
alle censure prospettate dalle parti appellanti, dovrebbe
muovere in primo luogo dalla indicazione –ed
interpretazione- del quadro normativo vigente al momento
dell’adozione dei provvedimenti gravati; successivamente ci
si dovrebbe interrogare in ordine alla eventuale refluenza
delle modifiche normative medio tempore intervenute (punti
10, 11, 12 dell’appello del Comune di Terni, pagg. 15 e 16 e
segg.).
3.1. Tuttavia, per mera comodità espositiva, ed al fine di
sgombrare immediatamente il campo da censure inaccoglibili,
ritiene il Collegio in primo luogo di esplicitare quale sia
il concetto di “opere eseguibili attraverso la
ristrutturazione”, anche tenuto conto degli approdi
raggiunti dal Giudice delle Leggi in materia e di
soffermarsi, immediatamente dopo, sulla problematica
relativa alla incidenza sul gravato permesso di costruire (e
sulla contestata variante) del disposto di cui all’art. 12,
comma 2, del regolamento regionale 03.11.2008, n. 9 e della
previsione normativa di cui all’art. 52 della l.r. Umbria
16.09.2011, n. 8 (che ha così sostituito, ampliandone
l’ambito applicativo, il testo originario della lett. d)
dell’art. 3 della l.r. dell’Umbria n. 1/2004: “d)
«interventi di ristrutturazione edilizia», gli interventi
rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un
insieme sistematico di opere che possono portare a un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono la sostituzione
degli elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la
modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti, la
modifica o realizzazione di aperture anche esterne, nonché
l’aumento del numero delle unità immobiliari e delle
superfici utili interne. Nell’ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione anche con
modifiche della superficie utile coperta, sagoma e area di
sedime preesistenti, senza incremento della superficie utile
coperta medesima, fatte salve le innovazioni necessarie per
l’adeguamento alla normativa antisismica, per gli interventi
di prevenzione sismica e per l’installazione di impianti
tecnologici”).
3.2. Quanto al primo profilo, come è noto, l’art. 10
(Interventi subordinati a permesso di costruire) del D.P.R.
06.06.2001 n. 380 prevede che “Costituiscono interventi
di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e
sono subordinati a permesso di costruire:
a) gli interventi di nuova costruzione;
b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica;
c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino aumento di unità immobiliari,
modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle
superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi
nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della
destinazione d'uso. (19)
Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi
o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di
immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di
costruire o a denuncia di inizio attività.
Le regioni possono altresì individuare con legge ulteriori
interventi che, in relazione all'incidenza sul territorio e
sul carico urbanistico, sono sottoposti al preventivo
rilascio del permesso di costruire. La violazione delle
disposizioni regionali emanate ai sensi del presente comma
non comporta l'applicazione delle sanzioni di cui
all'articolo 44.".
L’art. 3, lett. d), del predetto D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (del
quale appare utile riportare anche la successiva lett. e)
prevede che:
d) "interventi di ristrutturazione edilizia", gli interventi
rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un
insieme sistematico di opere che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le
sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica;
e) "interventi di nuova costruzione", quelli di
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non
rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti.
Inoltre, la successiva lett. f) dell’articolo in ultimo
citato, prevede che “f) gli "interventi di
ristrutturazione urbanistica", quelli rivolti a
sostituire l'esistente tessuto urbanistico-edilizio con
altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi
edilizi, anche con la modificazione del disegno dei lotti,
degli isolati e della rete stradale.”.
La giurisprudenza amministrativa maggioritaria –che questo
Collegio condivide- si è a lungo interrogata per cercare di
ricondurre ad unità la molteplicità di concetti in astratto
sussumibili nel termine “ristrutturazione edilizia”.
Essa è sostanzialmente pervenuta ad una distinzione fondata
su una tripartizione.
E’ stata riconosciuta la possibilità di una ristrutturazione
c.d. “pesante” ex art. 10, comma 1, lett. c), suindicato
che comporti modifiche di volume: la giurisprudenza più
recente cerca tuttavia di “contenere” sotto il
profilo quantitativo detti incrementi [ex multis si
veda TAR Toscana Firenze Sez. III, 27.08.2012, n. 1470 “nonostante
l'art. 10, comma 1, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001 -T.U.
Edilizia- preveda la possibilità di ristrutturazioni che
comportino modifiche di volume -cosiddetta ristrutturazione
pesante-, ciò non significa che qualsiasi ampliamento di
edifici preesistenti debba essere automaticamente ascritto
alla fattispecie della ristrutturazione: qualora si
ammettesse la possibilità di un apprezzabile aumento
volumetrico dell'edificio ai sensi dell'art. 10, comma 1,
lett. c), del d.p.r. n. 380/2001 verrebbe meno la linea di
distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova
costruzione. Pertanto costituiscono ristrutturazione
edilizia unicamente gli ampliamenti di modesta entità.]".
Accanto a questa -e per differenza- è stata individuata la
categoria della ristrutturazione “lieve”: essa
ricorre quindi allorché non siano in programma ampliamenti
volumetrici.
Si è peraltro chiarito che (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
24.09.2012, n. 1683) “il mutamento di destinazione d'uso
di una porzione dell'immobile, portando ad un organismo in
parte diverso dal precedente e contribuendo ad aumentare il
carico urbanistico, deve ritenersi rientrante nell'ambito
della categoria della "ristrutturazione edilizia", come si
evince dall'esplicito riferimento a tale tipologia di
intervento presente nell'art. 10, comma 1, lett. c), d.p.r.
n. 380/2001".
Inoltre, e per quel che più interessa nell’ambito del
presente procedimento, è stata considerata riconducibile al
concetto di “ristrutturazione” ex art. 3, lett. d), del
D.P.R. 06.06.2001 n. 380 anche la demolizione e
ricostruzione di un edificio preesistente.
Ciò –è bene sottolinearlo- integra una deviazione “concettuale”,
peraltro espressamente voluta dal Legislatore: se di regola
la ristrutturazione postula il ripristino dell’esistente, in
tale ultimo caso l’esistente viene meno.
In ordine al concetto di “ciò che è esistente e si può
quindi ristrutturare” la giurisprudenza è peraltro
concorde nell’affermare che (TAR Calabria Catanzaro Sez. I,
13.06.2012, n. 581) “il concetto di ristrutturazione
edilizia postula necessariamente la preesistenza di un
fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio
dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura, con la conseguenza che la ricostruzione su ruderi
o su un edificio che risulta da tempo demolito anche se
soltanto in parte, costituisce a tutti gli effetti una nuova
opera, che, come tale, è soggetta alle comuni regole
edilizie e paesaggistiche vigenti al momento della
riedificazione.”.
Ciò premesso, e soffermandosi sulla terza fattispecie di
ristrutturazione edilizia sinora menzionata (id est:
demolizione e ricostruzione di un edificio preesistente) la
giurisprudenza si è interrogata in ordine alla possibilità,
sulla base della legislazione nazionale, di un ampliamento
concettuale di quest’ultima, sino ad ammettere che essa
possa implicare modifiche a volume, sagoma, ed area di sedime.
La giurisprudenza maggioritaria ha fornito tassativa
risposta negativa al quesito in ultimo formulato: si è
condivisibilmente affermato infatti, ancora di recente, che
“costituiscono ristrutturazione urbanistica sia la
trasformazione degli organismi edilizi con un insieme
sistematico di opere che possono portare anche ad un
organismo in tutto od in parte diverso dal precedente,
sempre che detti interventi riguardino solo alcuni elementi
dell'edificio (ripristino o sostituzione di alcuni elementi
costituitivi dell'edificio; eliminazione, modifica e
inserimento di nuovi elementi o nuovi impianti), sia la
demolizione e ricostruzione, sempre che ciò avvenga con la
stessa volumetria e sagoma. Laddove invece vi sia un
mutamento della sagoma, debbono ravvisarsi gli estremi della
nuova costruzione” (Cons. Stato Sez. IV, 12.02.2013, n.
844).
3.2.1. E quid iuris, quanto a tale ultimo profilo,
laddove ci si trovasse al cospetto di legislazioni regionali
che estendono –nei termini sinora menzionati- il concetto di
ristrutturazione sino a ricomprendervi la demolizione e
ricostruzione con modifiche al volume, alla sagoma od
all’area di sedime?
Con la importante decisione n. 309/2011, i cui principi
devono essere integralmente richiamati in questa sede, la
Corte Costituzionale ha richiamato la propria precedente
decisione (sentenza n. 303 del 2003, punto 11.2 del
Considerato in diritto), con la quale essa aveva ricondotto
nell'ambito della normativa di principio in materia di
governo del territorio le disposizioni legislative
riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi
ed ha affermato che “a fortiori sono principi
fondamentali della materia le disposizioni che definiscono
le categorie di interventi, perché è in conformità a queste
ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi,
con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi
e alle relative sanzioni, anche penali. L'intero corpus
normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla
definizione degli interventi, con particolare riferimento
alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione
urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione
edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di
ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri
interventi (restauro e risanamento conservativo,
manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria),
dall'altro. La definizione delle diverse categorie di
interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato.”
Da tale affermazione la Consulta ha fatto conseguire il
principio per cui “tali categorie sono individuate
dall'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, collocato nel titolo
I della parte I del testo unico, intitolato «Disposizioni
generali». In particolare, la lettera d) del comma 1 di
detto articolo include, nella definizione di
«ristrutturazione edilizia», gli interventi di demolizione e
ricostruzione con identità di volumetria e di sagoma
rispetto all'edificio preesistente; la successiva lettera e)
classifica come interventi di «nuova costruzione» quelli di
«trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non
rientranti nelle categorie definite alle lettere
precedenti». In base alla normativa statale di principio,
quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non
rispetti la sagoma dell'edificio preesistente -intesa
quest'ultima come la conformazione planivolumetrica della
costruzione e il suo perimetro considerato in senso
verticale e orizzontale- configura un intervento di nuova
costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
A conferma di ciò non sta solo il dato letterale dell'art.
3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001 -che fa
riferimento alla «stessa volumetria e sagoma» dell'edificio
preesistente e ammette «le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica»- ma vi è anche la
successiva legislazione statale in materia edilizia. L'art.
5, commi 9 e ss., del decreto-legge 13.05.2011, n. 70
(Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per
l'economia), convertito, con modificazioni, nella legge
12.07.2011, n. 106, infatti, nel regolare interventi di
demolizione e ricostruzione con ampliamenti di volumetria e
adeguamenti di sagoma, non ha qualificato tali interventi
come ristrutturazione edilizia, né ha modificato la
disciplina dettata al riguardo dall'art. 3 del d.P.R. n. 380
del 2001.
La linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione
e quelle degli altri interventi edilizi, d'altronde, non può
non essere dettata in modo uniforme sull'intero territorio
nazionale, la cui «morfologia» identifica il paesaggio,
considerato questo come «la rappresentazione materiale e
visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici
particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue
pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti
molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son
pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli».
Da tali presupposti (esplicitati dalla Corte Costituzionale
nel breve stralcio motivazionale che si è pedissequamente
riportato sopra) è stata fatta discendere la statuizione per
cui, l'art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della
legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, come
interpretato dall'art. 22 della legge della Regione
Lombardia n. 7 del 2010, nel definire come ristrutturazione
edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il
vincolo della sagoma, fosse in contrasto con il principio
fondamentale stabilito dall'art. 3, comma 1, lettera d), del
d.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente violazione dell'art.
117, terzo comma, Cost., in materia di governo del
territorio.
Parimenti lesivo dell'art. 117, terzo comma, Cost., è l'art.
103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005,
nella parte in cui, qualificando come «disciplina di
dettaglio» numerose disposizioni legislative statali,
prevedeva la disapplicazione della legislazione di principio
in materia di governo del territorio dettata dall'art. 3 del
d.P.R. n. 380 del 2001 con riguardo alla definizione delle
categorie di interventi edilizi.”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.06.2013 n. 3456 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
La legittimità di un provvedimento amministrativo si
deve accertare con riferimento allo stato di fatto e di
diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo
il principio del "tempus regit actum", con conseguente
irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in
alcun caso legittimare ex post precedenti atti
amministrativi.
La giurisprudenza civile di legittimità, a propria volta,
ritiene il detto canone valutativo principio di
imprescindibile applicazione.
La materia urbanistica, e quella edilizia, non fanno certo
eccezione a detta regola generale: (ex multis: “per
il principio tempus regit actum, la legittimità del rigetto
del permesso di costruire deve essere rapportata alla
situazione di diritto riscontrabile alla data della relativa
emanazione).
---------------
4. Così sommariamente illustrati i principi ai quali ci si
atterrà nell’esame della controversia, ritiene il Collegio
immediatamente di rilevare che la tesi di parte appellante
che postula l’applicabilità alla presente controversia del
disposto di cui all’art. 12, comma 2, del regolamento
regionale 03.11.2008, n. 9 e della previsione normativa di
cui all’art. 52 della l.r. Umbria 16.09.2011, n. 8 non
coglie nel segno.
La tesi delle parti appellanti è quella per cui le dette
disposizioni –la seconda delle quali avrebbe avuto, in
particolare, portata interpretativa e, quindi, retroattiva-
dovevano trovare applicazione con riguardo al permesso di
costruire contestato in primo grado e rilasciato il
17.01.2009 ed avrebbe errato quindi il primo giudice ad
escluderne la refluenza sulla causa.
4.1. Nessuna delle doglianze prospettate convince il
Collegio.
4.2 Costituisce principio generale costantemente predicato
dalla pacifica giurisprudenza amministrativa quello per cui
“la legittimità di un provvedimento amministrativo si
deve accertare con riferimento allo stato di fatto e di
diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo
il principio del "tempus regit actum", con conseguente
irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in
alcun caso legittimare ex post precedenti atti
amministrativi” (Cons. Stato Sez. IV, 21.08.2012, n.
4583).
La giurisprudenza civile di legittimità, a propria volta,
ritiene il detto canone valutativo principio di
imprescindibile applicazione (ex multis: Cass. civ.
Sez. VI, 22.02.2012, n. 2672).
La materia urbanistica, e quella edilizia, non fanno certo
eccezione a detta regola generale: (ex multis: “per
il principio tempus regit actum, la legittimità del rigetto
del permesso di costruire deve essere rapportata alla
situazione di diritto riscontrabile alla data della relativa
emanazione”. -Cons. Stato Sez. IV, 09.02.2012, n. 693-).
Ratione temporis, quindi, esattamente il primo
giudice ha escluso in radice l’applicabilità di dette
disposizioni al processo in corso, ovvero la loro
valutabilità ex post ed incidenza sul permesso di
costruire antecedentemente rilasciato.
4.3. La tesi secondo cui l’art. 52 della l.r. Umbria 16.09.2011, n. 8 avesse natura interpretativa (e quindi
portata retroattiva) collide con l’espresso dettato del
comma 6 dell’art. 143 della legge predetta (“La definizione
degli interventi edilizi di cui all'articolo 3 della L.R. n.
1/2004 come modificato e integrato dall'articolo 52 della
presente legge, si applica anche alle istanze di titoli
abilitativi presentate in applicazione della normativa
previgente.”) che, all’evidenza, limita la “retroattività”
della portata della medesima (ammesso che di retroattività
possa discorrersi in simile ipotesi) alle “istanze” già
presentate (e non ancora esitate, ovviamente) al momento
della entrata in vigore della disposizione predetta non
estendendola ai titoli abilitativi già rilasciati.
Ciò assume rilievo troncante nell’escludere la fondatezza
della critica appellatoria, potendosi soltanto per
completezza aggiungere che ogni contraria opzione
ermeneutica che ne “estendesse” la portata sino a
ricomprendervi titoli abilitativi già rilasciati, o
addirittura, che abbiano avuto esecuzione, come nel caso di
specie, (ingiustificabile comunque sulla scorta della
interpretazione letterale) indurrebbe a dubitare
fondatamente della legittimità costituzionale della stessa.
Il titolo abilitativo rilasciato all’appellante società,
quindi, deve essere valutato alla stregua della prescrizione
contenuta nel testo originario della lett. d) dell’art. 3
della legge regionale dell’Umbria n. 1/2004 (“«interventi di
ristrutturazione edilizia», gli interventi rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare a un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali
interventi comprendono la sostituzione degli elementi
costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi e impianti, la modifica o
realizzazione di aperture anche esterne, nonché la modifica
del numero delle unità immobiliari e delle superfici utili
interne. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione
edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella
demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria, sagoma
e area di sedime preesistenti, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica, per gli interventi di prevenzione sismica e per
l'installazione di impianti tecnologici;».”).
4.4. Analoghe obiezioni possono muoversi alla tesi che
postula la sopravvenuta applicabilità dell’art. 12, comma 2,
del regolamento regionale 03.11.2008, n. 9 che, in quanto
disposizione di natura regolamentare non potrebbe ex post
integrare –modificandola in via retroattiva- la portata di
una norma di legge, a nulla rilevando che esso sia stato
introdotto precedentemente alla contestata variante (essendo
incontestabilmente successivo al permesso di costruire n.
432 del 31.10.2008 cui la variante accede) e stante la
portata limitata della variante medesima (come esattamente
colto dal primo giudice e non contestato dalle parti
appellanti).
A tale disposizione, infatti, non può attribuirsi la portata
di mera “specificazione” del precetto contenuto nel’art. 3
della legge regionale umbra n. 1/2004: in ogni caso, lo si
ribadisce è certamente esatto l’ iter motivo contenuto nella
citata decisione, laddove si evidenzia che la portata
“sanante” della variante in sanatoria è da intendersi
limitata alle opere ivi contemplate, di guisa che essa non
potrebbe incidere sulle contestate modifiche di sagoma.
Lo jus superveniens mentovato dalle appellanti,
conclusivamente, non può trovare applicazione nella odierna
vicenda processuale.
4.5. Per tale ragione il Collegio ritiene che neppure possa
ipotizzarsi la possibilità di sollevare questione di
legittimità costituzionale dei precetti normativi estensivi
di cui alla suindicata disposizione di cui all’art. 52 della
l.r. Umbria 16.09.2011, n. 8: quest’ultima infatti non
rileva nella presente causa.
Il precetto espresso dalla sopracitata decisione della Corte
Costituzionale n. 309/2011, verrà invece tenuto presente
allorché, immediatamente di seguito, ci si interrogherà in
ordine alla interpretazione delle disposizioni normative
ratione temporis applicabili alla odierna fattispecie,
in adesione al consolidato orientamento secondo il quale tra
due interpretazioni “possibili” di una disposizione
di legge l’interprete debba privilegiare quella che appaia
costituzionalmente compatibile (Cass. civ. Sez. V,
25.09.2006, n. 20757)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.06.2013 n. 3456 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
a) Le scelte effettuate dall’Amministrazione in
sede di formazione ed approvazione dello strumento
urbanistico generale sono accompagnate da un'amplissima
valutazione discrezionale: dette scelte, quindi, appaiono
insindacabili nel merito e sono per ciò stesso attaccabili
solo per errori di fatto, per abnormità e irrazionalità
delle stesse. L'Amministrazione non è tenuta a fornire
apposita motivazione in ordine alle scelte operate in sede
di pianificazione del territorio comunale, se non
richiamando le ragioni di carattere generale che
giustificano l'impostazione del piano.
Le scelte urbanistiche adottate per ciò che attiene la
destinazione delle singole aree non necessitano di una
specifica motivazione se non nel caso che la scelta medesima
vada ad incidere negativamente su posizioni giuridicamente
differenziate, ravvisabili unicamente nell'esistenza di
piani e/o progetti di lottizzazione convenzionati già
approvati o situazioni di diverso regime urbanistico
accertate da sentenze passate in giudicato. Un soggetto
privato non può invocare una sorta di diritto alla
immutabilità della classificazione urbanistica dell'area di
sua proprietà sulla scorta di una semplice richiesta di
edificazione, che è del tutto inidonea a configurare una
posizione qualificata rispetto ai nuovi intendimenti
dell'Amministrazione.
La preesistente destinazione urbanistica non impedisce
l'introduzione di previsioni di segno diverso in virtù
dell'esercizio di uno ius variandi pacificamente
riconosciuto all'Amministrazione. La posizione del soggetto
che avanza una richiesta di edificazione assume un contenuto
di semplice aspettativa, senza che perciò possa configurarsi
a carico dell'ente locale un onere di specifica motivazione
in ordine alla disposta variazione urbanistica dell'area,
ben potendo soccorrere al riguardo l'esposizione delle
ragioni di carattere generale sottese alle scelte di
gestione del territorio comunale.
b) In capo ai privati coinvolti nelle previsioni di piano non è
comunque configurabile un’aspettativa qualificata ad una
destinazione edificatoria in relazione ad una precedente
determinazione dell’amministrazione, ma soltanto
un’aspettativa generica al mantenimento della destinazione
urbanistica "gradita" ovvero ad una reformatio in
melius, analoga a quella di ogni altro proprietario di aree,
che aspiri ad una utilizzazione comunque proficua
dell’immobile; onde non può essere invocata la cd.
polverizzazione della motivazione, la quale si porrebbe in
contrasto con la natura generale dell’atto, che -come tale-
non richiede altra motivazione rispetto a quella
automaticamente esplicitata dai criteri di ordine tecnico
osservati per la redazione dello stesso.
c) Più precisamente, le uniche evenienze, che richiedono una più
incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici
generali, sono date dal superamento degli standard minimi di
cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree.
Dalla lesione dell'affidamento
qualificato del privato, derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di
silenzio rifiuto su una domanda di concessione e, infine,
dalla modificazione in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo.
In sostanza, una
motivazione specifica è necessaria nei casi in cui si incida
su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime
aspettative dei privati proprietari, in conseguenza di
statuizioni giurisdizionali passate in giudicato, nonché di
accordi con l'ente locale e di convenzioni di lottizzazione,
posto che in tali evenienze la compattezza della motivazione
costituisce lo strumento dal quale deve emergere l'avvenuta
comparazione tra il pubblico interesse cui si finalizza la
nuova scelta e quello del privato, assistito, appunto, da
una aspettativa tutelata.
Negli altri casi (di reformatio in pejus o di non
reformatio in melius, rispetto alle aspettative del privato
proprietario) non sussiste la necessità di una motivazione
specifica delle nuove destinazioni urbanistiche rispetto a
quelle che possono agevolmente evincersi dai criteri di
ordine tecnico-urbanistico seguiti per la redazione dello
strumento stesso.
d) Le osservazioni dei privati ai progetti di
strumenti urbanistici (nel caso di specie un piano
urbanistico comunale) sono un mero apporto collaborativo
alla formazione di detti strumenti e non danno luogo a
peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro
rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo
sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano.
Tuttavia, l'obbligo di motivazione esistente, nell'ipotesi
che una variante urbanistica incida su un'area determinata,
trova la sua sede anche nella fase dell'esame delle
osservazioni dal privato proposte, che, pur qualificate come
meri apporti collaborativi alle scelte urbanistiche
dell'Amministrazione ad una analitica confutazione dei quali
l'Amministrazione non può dirsi obbligata, comportano
comunque che il loro rigetto, perché possa ritenersi
legittimo, sia assistito da una congrua motivazione, anche
non dettagliata, quanto alla loro incompatibilità con le
linee generali dello strumento urbanistico o della sua
variante.
e) Le scelte di pianificazione urbanistica
appartengono alla sfera degli apprezzamenti di merito
dell'Amministrazione per cui, in ordine ad esse, non sono
ipotizzabili censure di disparità di trattamento basate
sulla comparazione con la destinazione impressa ad immobili
adiacenti, dovendo tali scelte obbedire solo al superiore
criterio di razionalità nella definizione delle linee
dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico alla
sicurezza delle persone e dell'ambiente, e non anche ai
criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei
vincoli.
---------------
8. - Con successiva ordinanza 05.09.2011, n. 292, questo
Tribunale Amministrativo ha precisato, con riferimento ad
alcune delle censure prospettate, come la giurisprudenza sia
consolidata nel senso che:
a) Le scelte effettuate dall’Amministrazione in sede di formazione
ed approvazione dello strumento urbanistico generale sono
accompagnate da un'amplissima valutazione discrezionale:
dette scelte, quindi, appaiono insindacabili nel merito e
sono per ciò stesso attaccabili solo per errori di fatto,
per abnormità e irrazionalità delle stesse.
L'Amministrazione non è tenuta a fornire apposita
motivazione in ordine alle scelte operate in sede di
pianificazione del territorio comunale, se non richiamando
le ragioni di carattere generale che giustificano
l'impostazione del piano.
Le scelte urbanistiche adottate per ciò che attiene la
destinazione delle singole aree non necessitano di una
specifica motivazione se non nel caso che la scelta medesima
vada ad incidere negativamente su posizioni giuridicamente
differenziate, ravvisabili unicamente nell'esistenza di
piani e/o progetti di lottizzazione convenzionati già
approvati o situazioni di diverso regime urbanistico
accertate da sentenze passate in giudicato. Un soggetto
privato non può invocare una sorta di diritto alla
immutabilità della classificazione urbanistica dell'area di
sua proprietà sulla scorta di una semplice richiesta di
edificazione, che è del tutto inidonea a configurare una
posizione qualificata rispetto ai nuovi intendimenti
dell'Amministrazione.
La preesistente destinazione urbanistica non impedisce
l'introduzione di previsioni di segno diverso in virtù
dell'esercizio di uno ius variandi pacificamente
riconosciuto all'Amministrazione. La posizione del soggetto
che avanza una richiesta di edificazione assume un contenuto
di semplice aspettativa, senza che perciò possa configurarsi
a carico dell'ente locale un onere di specifica motivazione
in ordine alla disposta variazione urbanistica dell'area,
ben potendo soccorrere al riguardo l'esposizione delle
ragioni di carattere generale sottese alle scelte di
gestione del territorio comunale (Cons. Stato, Sez. IV,
16.02.2011, n. 1015; 24.02.2011, n. 1222).
b) In capo ai privati coinvolti nelle previsioni di piano non è
comunque configurabile un’aspettativa qualificata ad una
destinazione edificatoria in relazione ad una precedente
determinazione dell’amministrazione, ma soltanto
un’aspettativa generica al mantenimento della destinazione
urbanistica "gradita" ovvero ad una reformatio in
melius, analoga a quella di ogni altro proprietario di
aree, che aspiri ad una utilizzazione comunque proficua
dell’immobile; onde non può essere invocata la cd.
polverizzazione della motivazione, la quale si porrebbe in
contrasto con la natura generale dell’atto, che -come tale-
non richiede altra motivazione rispetto a quella
automaticamente esplicitata dai criteri di ordine tecnico
osservati per la redazione dello stesso (Cons. Stato, Sez.
IV, 12 maggio, n. 2843, Sez. III, 06.10.2009, n. 1610).
c) Più precisamente, le uniche evenienze, che richiedono una più
incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici
generali, sono date dal superamento degli standard minimi di
cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree; dalla lesione dell'affidamento
qualificato del privato, derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di
silenzio rifiuto su una domanda di concessione e, infine,
dalla modificazione in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo (Cons. Stato, Sez. IV, 12.01.2011, n. 133;
09.12.2010, n. 8682; 13.10.2010, n. 7492); in sostanza, una
motivazione specifica è necessaria nei casi in cui si incida
su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime
aspettative dei privati proprietari, in conseguenza di
statuizioni giurisdizionali passate in giudicato, nonché di
accordi con l'ente locale e di convenzioni di lottizzazione
(Cons. Stato, Sez. IV, 21.12.2009, n. 8514), posto che in
tali evenienze la compattezza della motivazione costituisce
lo strumento dal quale deve emergere l'avvenuta comparazione
tra il pubblico interesse cui si finalizza la nuova scelta e
quello del privato, assistito, appunto, da una aspettativa
tutelata (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2010, n. 6886).
Negli altri casi (di reformatio in pejus o di non
reformatio in melius, rispetto alle aspettative del
privato proprietario) non sussiste la necessità di una
motivazione specifica delle nuove destinazioni urbanistiche
rispetto a quelle che possono agevolmente evincersi dai
criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti per la
redazione dello strumento stesso (Cons. Stato, Sez. IV,
15.07.2008, n. 3552).
d) Le osservazioni dei privati ai progetti di strumenti urbanistici
(nel caso di specie un piano urbanistico comunale) sono un
mero apporto collaborativo alla formazione di detti
strumenti e non danno luogo a peculiari aspettative, con la
conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica
motivazione, essendo sufficiente che esse siano state
esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le
considerazioni generali poste a base della formazione del
piano (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2010, n. 6911;
01.03.2010, n. 1182).
Tuttavia, l'obbligo di motivazione esistente, nell'ipotesi
che una variante urbanistica incida su un'area determinata,
trova la sua sede anche nella fase dell'esame delle
osservazioni dal privato proposte, che, pur qualificate come
meri apporti collaborativi alle scelte urbanistiche
dell'Amministrazione ad una analitica confutazione dei quali
l'Amministrazione non può dirsi obbligata, comportano
comunque che il loro rigetto, perché possa ritenersi
legittimo, sia assistito da una congrua motivazione, anche
non dettagliata, quanto alla loro incompatibilità con le
linee generali dello strumento urbanistico o della sua
variante (Cons. Stato, Sez. IV, 09.12.2010, n. 8650).
e) Le scelte di pianificazione urbanistica appartengono alla sfera
degli apprezzamenti di merito dell'Amministrazione per cui,
in ordine ad esse, non sono ipotizzabili censure di
disparità di trattamento basate sulla comparazione con la
destinazione impressa ad immobili adiacenti, dovendo tali
scelte obbedire solo al superiore criterio di razionalità
nella definizione delle linee dell'assetto territoriale,
nell'interesse pubblico alla sicurezza delle persone e
dell'ambiente, e non anche ai criteri di proporzionalità
distributiva degli oneri e dei vincoli (Cons. Stato, Sez.
III, 17.09.2010, n. 2536; Sez. IV, 21.04.2010, n. 2264;
18.06.2009, n. 4024; 07.07.2008, n. 3358)
(TAR Umbria,
sentenza 14.12.2012 n. 521 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Ai sensi
dell'art. 13 della
legge n. 64 del 1974, requisito di legittimità degli
strumenti urbanistici generali e delle loro varianti è che
siano preceduti, nelle zone sismiche, dal parere del
competente ufficio del genio civile, attribuzione poi
traslata alla Regione.
Occorre aggiungere, alla luce dell’evoluzione avutasi nella
vicenda procedimentale in esame, che l’art. 13 della legge
n. 64 del 1974, nel prevedere l’obbligo del Comune,
ricadente in zona dichiarata sismica, di richiedere il
parere all’ufficio del genio civile (o Regione) sui piani
regolatori anteriormente all’adozione della relativa
deliberazione, non può che essere interpretato nel senso che
tale parere deve anche intervenire anteriormente
all’adozione medesima.
La norma
si conforma infatti all’esigenza per cui, in sede di
programmazione di primo (ed anche di secondo livello), deve
essere valutata la compatibilità della destinazione impressa
alla zona ed alle aree nella stessa ricomprese, con la
struttura, la morfologia e l’andamento del territorio.
---------------
12. - Dall’esperita
istruttoria, prima ancora che gli aspetti di
logicità/illogicità e conformità allo stato dei luoghi del
P.R.G. e delle destinazioni di zona contestate, è emerso che
lo strumento urbanistico è stato adottato, con delibera
consiliare n. 107 del 25.06.2003, senza previa acquisizione
del parere di compatibilità sismica, in violazione di quanto
prescritto dall’allora vigente art. 13 della legge
02.02.1974, n. 64.
Ed invero dalla relazione di verificazione del 17.12.2010 si
inferisce che detto parere sismico non è stato richiesto dal
Comune di Spoleto, sebbene nella parte strutturale del piano
sia contenuto un, chiaramente non equivalente, studio sullo
sviluppo del territorio in funzione dell’eventuale rischio
sismico.
Giova precisare che solamente con l’art. 13 della l.r.
22.02.2005, n. 11, al comma 9, è stato previsto che il
parere sismico è espresso dal Comune stesso in sede di
adozione, tenendo conto degli elaborati del P.R.G. relativi
alle indagini geologiche, idrogeologiche e idrauliche,
nonché agli studi di microzonazione sismica. Ma tale
disciplina, ratione temporis, non era applicabile al
momento dell’adozione del P.R.G., oggetto della presente
impugnativa.
Corollario di ciò è che la norma di riferimento era il già
ricordato art. 13 della legge n. 64 del 1974.
Ai sensi di tale disposizione, requisito di legittimità
degli strumenti urbanistici generali e delle loro varianti è
che siano preceduti, nelle zone sismiche, dal parere del
competente ufficio del genio civile, attribuzione poi
traslata alla Regione (in termini Cons. Stato, Sez. IV,
04.03.2003, n. 1196; 08.05.2000, n. 2643; 19.02.1999, n.
176; C.G.A., 13.10.1998, n. 607).
Occorre aggiungere, alla luce dell’evoluzione avutasi nella
vicenda procedimentale in esame, che l’art. 13 della legge
n. 64 del 1974, nel prevedere l’obbligo del Comune,
ricadente in zona dichiarata sismica, di richiedere il
parere all’ufficio del genio civile (o Regione) sui piani
regolatori anteriormente all’adozione della relativa
deliberazione, non può che essere interpretato nel senso che
tale parere deve anche intervenire anteriormente
all’adozione medesima (così Cons. Stato, Sez. IV,
08.05.2000, n. 2643; Sez. IV, 13.04.2005, n. 1743).
La norma
si conforma infatti all’esigenza per cui, in sede di
programmazione di primo (ed anche di secondo livello), deve
essere valutata la compatibilità della destinazione impressa
alla zona ed alle aree nella stessa ricomprese, con la
struttura, la morfologia e l’andamento del territorio.
Lo studio geologico in prospettiva della prevenzione del
rischio sismico ed idrogeologico, che risulta
successivamente intervenuto, oltre a costituire un’evidente
inversione procedimentale, non può avere efficacia sanante,
in quanto non proviene da un organo terzo rispetto
all’Amministrazione titolare del potere di pianificazione
urbanistica, e perché si è tradotto, per quanto è dato
evincere dal verbale della conferenza istituzionale,
essenzialmente, nella redazione delle carte dello zoning
del rischio geologico, sì che non può ritenersi che la
finalità prevista dalla norma sia stata comunque
adeguatamente raggiunta
(TAR Umbria,
sentenza 14.12.2012 n. 521 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’apposizione di una o più condizioni al rilascio
di un titolo edilizio può ritenersi generalmente ammessa
soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla
realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto
di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento
diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo
edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione
dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione
edilizia subordinatamente all’impegno del privato a
rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura
espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è
volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile
alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con
il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”.
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità
estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo
svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando
l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a
quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di
rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via
generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive,
ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente
previsti dalla legge, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale di detti
provvedimenti.
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2.1. La doglianza è fondata.
L’apposizione di una o più condizioni al rilascio di un
titolo edilizio può ritenersi generalmente ammessa soltanto
quando si vada ad incidere su aspetti legati alla
realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto
di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento
diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo
edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione
dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione
edilizia subordinatamente all’impegno del privato a
rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura
espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non
è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile
alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con
il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”
(TAR Abruzzo, Pescara, 08.02.2007, n. 153).
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità
estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo
svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando
l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a
quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di
rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via
generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive,
ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente
previsti dalla legge, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti
(cfr. Consiglio di Stato, V, 24.03.2001, n. 1702).
2.2. A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione
apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità
complessiva della concessione assentita, “dal momento che
l’invalidità di una condizione apposta all’atto
amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto
stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia
costituito il motivo essenziale della dichiarazione di
volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza
di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e
l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione
dell’invalidità della condizione, non può certamente
prodursi quando si tratti –come nel caso di specie– di atti
dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e
quando l’autorità amministrativa, che si determina per il
provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto
predeterminato dalle fonti normative, in assenza di
discrezionalità nel quid” (TAR Abruzzo, Pescara,
08.02.2007, n. 153) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 10.09.2010 n. 5655 - link a
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