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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di MAGGIO 2018

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aggiornamento al 19.05.2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 19.05.2018

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Interventi, opere e costruzioni in aree protette - Titoli abilitativi - Rilascio di tre distinti e autonomi provvedimenti - Artt. 149, 181 d.lgs. n. 42/2004 - Artt. 3, 10, 22, 37, 44, 81, 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001.
La realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi nazionali, regionali e riserve naturali) è subordinata al rilascio di tre distinti provvedimenti, quali il permesso di costruire, l'autorizzazione paesaggistica e, ove previsto, il nulla osta dell'Ente parco (con la conseguenza che questi ultimi due atti amministrativi mantengono la loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio, anche quando siano attribuiti dalla legge regionale ad un organo unico, chiamato a compiere una duplice valutazione in ragione della pluralità degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali e della piena autonomia, rispetto a quella paesaggistica ed urbanistica, della normativa sulle aree protette) (Cass. Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.05.2018 n. 20739 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per la realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi nazionali, regionali e riserve naturali) occorrono tre distinti ed autonomi provvedimenti: il permesso di costruire, l'autorizzazione paesaggistica e, ove previsto, il nulla osta dell'Ente parco.
Questi ultimi due atti amministrativi possono essere attribuiti dalla legge regionale anche ad un organo unico, che è comunque chiamato a compiere una duplice valutazione, mantenendo la loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio e ciò in considerazione della pluralità degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali e della piena autonomia, rispetto a quella paesaggistica ed urbanistica, della normativa sulle aree protette, che non ha per oggetto la sola tutela del paesaggio o del territorio, ma quella più ampia dei valori ambientali complessivi dell'ecosistema.
Ne consegue che possono concorrere tra loro i reati previsti dall'art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, quello previsto dall'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004 e quello previsto dagli artt. 13 e 30 legge n. 394 del 1991, che richiede il rilascio del nulla osta dell'Ente Parco per la realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree protette.
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3. Anche il secondo motivo è infondato.
Questa Corte ha già affermato il principio, al quale occorre dare continuità, che per la realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree protette (parchi nazionali, regionali e riserve naturali) occorrono tre distinti ed autonomi provvedimenti: il permesso di costruire, l'autorizzazione paesaggistica e, ove previsto, il nulla osta dell'Ente parco.
Questi ultimi due atti amministrativi possono essere attribuiti dalla legge regionale anche ad un organo unico, che è comunque chiamato a compiere una duplice valutazione, mantenendo la loro autonomia ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio (Sez. 3, n. 20738 del 11/03/2003, Fechino, Rv. 225298) e ciò in considerazione della pluralità degli interessi presidiati dalle rispettive norme penali e della piena autonomia, rispetto a quella paesaggistica ed urbanistica, della normativa sulle aree protette, che non ha per oggetto la sola tutela del paesaggio o del territorio, ma quella più ampia dei valori ambientali complessivi dell'ecosistema.
Ne consegue che possono concorrere tra loro i reati previsti dall'art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, quello previsto dall'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004 e quello previsto dagli artt. 13 e 30 legge n. 394 del 1991, che richiede il rilascio del nulla osta dell'Ente Parco per la realizzazione di interventi, opere e costruzioni in aree protette.
Il ricorrente non può certo dolersi del fatto che non gli sia stato contestato anche il reato del quale invoca l'applicazione in sostituzione di quello paesaggistico (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.11.2014 n. 48002 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per la realizzazione di interventi, opere e costruzioni in arie protette (parchi nazionali, regionali e riserve naturali) occorrono tre distinti autonomi provvedimenti: la concessione edilizia, l'autorizzazione paesaggistica e, ove necessario, il nulla osta dell'Ente parco.
Questi ultimi due atti amministrativi possono essere attribuiti da legge regionale anche ad un organo unico, chiamato a compiere la duplice valutazione. Essi, però, mantengono la loro autonomia ad ogni arretro, ivi compreso quello sanzionatorio.
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Il ricorso non è puntuale.
Premesso che la previsione normativa (l'esecuzione di lavori o di modificazione ambientale in zona vincolata senza la prescritta autorizzazione) "configura un reato formale, la cui struttura non prevede il verificarsi di un evento di danno" e che "ai fini della realizzazione del reato, basta perciò che l'agente faccia un diverso uso rispetto alla destinazione del bene protetto dal vincolo paesaggistico, mentre non è necessario che ricorra l'ulteriore elemento dell'avvenuta alterazione detto stato dei luoghi" (Cass. Sez. 3° n. 7508, 12.07.1991 RV. 188986), va rilevato che la Corte di Appello ha assolto l'obbligo della motivazione spiegando esaurientemente le ragioni del proprio convincimento su tutti i punti rilevanti ritenendo infondato il rilievo secondo cui l'intervento realizzato nel terreno soggetto a vincolo paesaggistico, non poteva integrare il reato urbanistico e quello paesaggistico, avendo accertato, in fatto, che tale intervento ha comportato una modifica stabile strutturale e funzionale dell'assetto urbanistico-territoriale idoneo anche a modificare, in modo innovativo, rilevante e definitivo l'assetto ambientale.
Infatti la realizzazione di una pista di attraversamento del fiume Sagone, rientrante nell'area del Parco fluviale del Po, mediante riporto di materiale di cava con modifica delle sponde e taglio della vegetazione, costituisce intervento edilizio assoggettabile al regime concessorio e, nel contempo, alterazione permanente dello stato dei luoghi che la normativa paesaggistica mira ad evitare.
Essendo l'ambiente il bene giuridico tutelato e sussistendo indisponibilità giuridica dei beni privati soggetti alla relativa normativa, l'abusiva esecuzione su un manufatto di imponenti proporzioni che ha apportato una modifica stabile, rilevante e definitiva dell'assetto ambientale, costituisce intervento da assoggettare al regime autorizzatorio.
Ne consegue che, attesa la diversità dei beni protetti, "per la realizzazione di interventi, opere e costruzioni in arie protette (parchi nazionali, regionali e riserve naturali) occorrono tre distinti autonomi provvedimenti: la concessione edilizia, l'autorizzazione paesaggistica e, ove necessario, il nulla osta dell'Ente parco. Questi ultimi due atti amministrativi possono essere attribuiti da legge regionale anche ad un organo unico, chiamato a compiere la duplice valutazione. Essi, però, mantengono la loro autonomia ad ogni arretro, ivi compreso quello sanzionatorio" (Cassazione Sez. 3° n. 12917/1998, Adorno, RV. 212189; Sez. 3° n. 9138/2000, Migliorini, RV. 217218).
Pertanto, la sentenza è congruamente motivata e sfugge alle erronee censure dei ricorrenti (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.05.2003 n. 20738).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sicurezza degli impianti e responsabilità civili e penali dei manutentori: una sentenza sulla quale riflettere.
Il comune di Genova ha recentemente inviato alle associazioni di categoria la nota 15.03.2018 n. 93397 di prot. avente per oggetto “segnalazione situazioni di pericolo per le persone – responsabilità manutentori” nella quale si fa riferimento alla sentenza 26.10.2016 n. 44968 della Corte di Cassazione, Sez. feriale penale, che specifica l’obbligo per il manutentore che riscontri problemi di sicurezza su un impianto di mettere “fuori servizio” l’impianto stesso.
In pratica, si segnala che
una semplice “diffida” del manutentore al proprietario dell’impianto affinché non lo utilizzi in quanto pericoloso non costituisce quella ”messa fuori servizio” dell’impianto stesso che deve essere effettuata dal tecnico abilitato che ha riscontrato la non idoneità dell’impianto a funzionare.
Secondo la Corte di Cassazione, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che "quando l'obbligo di impedire l'evento ricade su più persone che debbano intervenire o intervengano in tempi diversi, il nesso di causalità tra la condotta omissiva o commissiva del titolare di una posizione di garanzia (il Responsabile Tecnico dell’impresa di manutenzione abilitata ai sensi del DM 37/2008) non viene meno per effetto del successivo mancato intervento da parte di un altro soggetto, parimenti destinatario dell'obbligo di impedire l'evento, configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai sensi dell'articolo 41, comma primo, C.P.”.
La mancata eliminazione, a parere della Corte, “di una situazione di pericolo (derivante da fatto commissivo od omissivo dell'agente), ad opera di terzi, non è una distinta causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento, ma una causa/condizione negativa grazie alla quale la prima continua ad essere efficace”.
In pratica, la sentenza afferma che “non è sufficiente che il successivo garante, o uno dei successivi (il manutentore/installatore), intervenga, ma è indispensabile che, intervenendo, sollecitato o meno dal precedente garante (il proprietario/conduttore dell’impianto), rimuova effettivamente la fonte di pericolo dovuta alla condotta (azione od omissione) di quest'ultimo, con la conseguenza che, ove l'intervento risulti incompleto, insufficiente, tale da non rimuovere quella fonte, il precedente garante, qualora si verifichi l'evento, anche a causa del mancato rispetto, da parte sua, di quelle norme precauzionali, non può non risponderne”.
Ed a nulla valgono i rilievi circa il fatto che la “messa fuori servizio” dell’impianto avrebbe comportato un intervento su parti dell’impianto di proprietà esclusiva del conduttore/proprietario dell’appartamento nel quale è installato l’impianto stesso.
Nel dispositivo della sentenza viene infatti giudicata infondata l’interpretazione, avanzata dalla difesa dell’imputato (una ditta manutentrice) circa una eventuale “erronea applicazione dell'art. 40 c.p. per la mancanza di fonte giuridica dei poteri autoritativi connessi alla messa fuori servizio dell'impianto, i quali dovrebbero essere individuati (sempre secondo la difesa dell’imputato) in capo ad un soggetto pubblico, piuttosto che al tecnico manutentore”. Secondo la Corte, infatti, la "messa fuori servizio dell'apparecchio doveva essere effettuata dal tecnico che riscontrasse l'inidoneità, che avrebbe dovuto anche diffidare il proprietario dell'impianto dall'utilizzarlo ed indicare le prescrizioni necessarie per la messa a norma dello stesso”.
Nel rigettare quindi il ricorso dell’imputato, la Corte di Cassazione sottolinea che i doveri gravanti sul manutentore sono stati adeguatamente motivati nella sentenza della Corte d’Appello avverso la quale l’imputato era ricorso in Cassazione, motivazioni che avevano evidenziato “sia gli aspetti di colpa specifica, connessa all'obbligo del tecnico di chiudere l'impianto controllato, nel caso di inidoneità funzionale ovvero, come nel caso di specie, logistica, ossia di situazione ‘pericolosa per la sicurezza delle persone, degli animali domestici e dei beni’ (…) ed anche sia i profili di colpa generica, ossia l'imperizia ed anche la negligenza, ascrivibili all'imputato”.
Questa sentenza pone indubbiamente seri interrogativi circa il comportamento che il tecnico deve adottare nel caso in cui, nel corso delle operazioni di controllo e manutenzione, rilevi situazioni tali da costituire un oggettivo pericolo nell’utilizzo normale dell’impianto. Per evitare problemi, pertanto, il tecnico manutentore dovrà attenersi a determinate regole di condotta e ad adottare provvedimenti tali da rendere evidente una riapertura non autorizzata dell’erogazione del gas.
In pratica, ed è questo il comportamento che come CNA Installazione Impianti consigliamo, per salvaguardarsi da eventuali contestazioni, il manutentore dovrà eseguire le seguenti operazioni:
   1. mettere fuori servizio l’impianto;
   2. diffidare per iscritto l’occupante (il responsabile) dall’utilizzo dell’impianto;
   3. indicare le operazioni necessarie per il ripristino delle condizioni di sicurezza (03.05.2018 - tratto da e link a www.cna.it).
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MASSIMA
1. I ricorsi sono infondati.
Va premesso che i vizi della motivazione dedotti attengono principalmente a censure afferenti l'impianto della motivazione nella quale i giudici di merito hanno espresso la valutazione di dati probatori, con argomentazioni esaustive, congrue e privi di smagliature logiche o contraddittorietà rilevabili.
E' principio consolidato che in tema di sindacato della motivazione il compito del giudice di legittimità, che non deve certo sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, è esclusivamente quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando completa e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
2. In relazione alla specifica posizione di Del Zo., va evidenziato che la Corte di appello ha fatto corretta applicazione dei principi affermati in giurisprudenza in tema di pluralità di posizioni di garanzia e non contestualità delle condotte. Tale tematica è contenuta sia nella doglianza proposta dal difensore dell'imputato che nei motivi nn. 2, 3 e 4, del responsabile civile, relative specificamente all'asserita interruzione del nesso causale a seguito dell'esistenza di decorsi causali alternativi e delle concorrenti responsabilità o della stessa vittima o di altri soggetti (il Comune di Brindisi e la concessionaria Energeko Gas Italia).
3. La giurisprudenza di legittimità ha infatti stabilito che "
quando l'obbligo di impedire l'evento ricade su più persone che debbano intervenire o intervengano in tempi diversi, il nesso di causalità tra la condotta omissiva o commissiva del titolare di una posizione di garanzia non viene meno per effetto del successivo mancato intervento da parte di un altro soggetto, parimenti destinatario dell'obbligo di impedire l'evento, configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai sensi dell'articolo 41, comma primo, cod. pen.. In questa ipotesi, la mancata eliminazione di una situazione di pericolo (derivante da fatto commissivo od omissivo dell'agente), ad opera di terzi, non è una distinta causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento, ma una causa/condizione negativa grazie alla quale la prima continua ad essere efficace (affermazione resa nell'ambito di un procedimento penale per i reati di omicidio colposo e di lesioni personali colpose provocati dal malfunzionamento di una caldaia installata in un appartamento, addebitato alla condotta colposa di colui che aveva rilasciato erroneamente la dichiarazione di idoneità dell'impianto e di coloro che avevano eseguito in modo analogamente erroneo alcuni lavori di manutenzione che non avevano rimosso la condizione di pericolo derivante dalle condizioni dell'impianto)" (in tal senso, Sez. 4, n. 43078 del 28/04/2005, Poli ed altri, Rv. 232416)
4. Tale principio ha trovato applicazione anche in una fattispecie similare a quella oggetto del presente giudizio: Sez. 4, n. 37992 del 11/07/2012, De Angelis, Rv. 254368 e prende le mosse dall'importante arresto (Sez. 4, n. 4793/1991 del 06/12/1990, estensore Battisti, Rv. 191805, che stabilì: "
In tema di responsabilità per un evento che si aveva obbligo di evitare, per escludere, nel caso di successione di garanti, la responsabilità di uno dei precedenti garanti, che abbia violato determinate norme precauzionali, non è sufficiente che il successivo garante, o uno dei successivi, intervenga, ma è indispensabile che, intervenendo, sollecitato o meno dal precedente garante, rimuova effettivamente la fonte di pericolo dovuta alla condotta (azione od omissione) di quest'ultimo, con la conseguenza che, ove l'intervento risulti incompleto, insufficiente, tale da non rimuovere quella fonte, il precedente garante, qualora si verifichi l'evento, anche a causa del mancato rispetto, da parte sua, di quelle norme precauzionali, non può non risponderne (ciò è una conseguenza logica dei principi in tema di prevedibilità ed evitabilità dell'evento, in tema di dorninabilità della fonte di pericolo e in tema di affidamento)".
5. In riferimento alla condotta più risalente nel tempo, rispetto all'evento lesivo, la recente giurisprudenza ha ribadito che
il nesso di causalità tra la condotta omissiva del titolare della posizione di garanzia, tenuto per primo ad intervenire, non viene meno per effetto del mancato intervento da parte di altro garante, "sempre che la posizione di pericolo non si sia modificata, per effetto del tempo trascorso o di un comportamento del secondo garante, in modo tale da escludere la riconducibilità al primo garante della nuova situazione creatasi" (così Sez. 4, n. 1194/2014 del 15/11/2013, Braidotti e altro, Rv. 258232).
6. Orbene la Corte di appello ha considerato irrilevante il tempo trascorso tra la condotta riferibile al ricorrente e l'evento, proprio in applicazione dei summenzionati principi, in quanto la mancata eliminazione della situazione di pericolo da parte degli altri tecnici che ebbero ad effettuare le manutenzioni successive a quelle poste in essere dal Del Zo. non aveva costituito una causa sopravvenuta, da sola sufficiente a cagionare l'evento mortale.
Ciò ha desunto valutando gli elementi di prova acquisiti e quindi verificando la mancanza di elementi ulteriori che rendessero plausibile ipotizzare decorsi causali alternativi od elementi di fatto idonei a considerare interrotto il nesso causale, posto che dalla perizia era risultato confermato che la propagazione di monossido di carbonio all'interno dell'appartamento era stata provocata dall'errata collocazione della caldaia di quella tipologia (B) in un locale interno all'appartamento, mentre aveva influito solo in minima parte il cattivo funzionamento della canna fumaria.
7. Tale ultimo elemento di fatto e le mancate eliminazioni della situazione di pericolo da parte dei successivi tecnici o dello stesso Pl. o da parte degli enti di controllo non avevano costituito perciò -come coerentemente argomentato nella parte motiva dell'impugnata sentenza- altrettante distinte cause sopravvenute, idonee da sole a cagionare l'evento, ma mere condizioni negative, grazie alle quali ogni singola condotta, posta in essere autonomamente ed in violazione delle norme cautelari di riferimento, aveva continuato ad essere efficace.
8. Infatti, a risposta della eventuale responsabilità del Pl., adombrata nel ricorso del responsabile civile, discendente dal fatto di avere disposto l'installazione della caldaia da esterno nell'appartamento (luogo non idoneo per quel tipo di caldaia) e per averla ivi mantenuta, va richiamato l'orientamento dì questa Corte che ha ritenuto che la condotta imprudente delle vittime non costituisca fatto eccezionale ed atipico idoneo ad interrompere il nesso di causalità (a tale proposito cfr. Sez. 4, n. 37992 del 11/07/2012, De Angelis, Rv. 254368).
Inoltre l'incidenza nel decorso causale dell'evento dell'asserita otturazione della canna fumaria (dovendosi prescindere dalla riferibilità o meno alla stessa vittima dell'intervento volto a limitare le infiltrazioni di aria dall'esterno) è stata esclusa dalla Corte di merito con un percorso argomentativo immune da vizi logici e, come si è detto, insindacabile in questa sede.
8. Parimenti infondata anche la censura sollevata nella prima parte del ricorso di Del Zo., di contenuto sostanzialmente analogo alle doglianze del primo motivo proposto dal responsabile civile Di To. Do., con cui si è lamentata l'erronea applicazione dell'art. 40 c.p. per la mancanza di fonte giuridica dei poteri autoritativi connessi alla messa fuori servizio dell'impianto, i quali dovrebbero essere individuati in capo ad un soggetto pubblico, piuttosto che al tecnico manutentore nonostante le indicazioni del modello di controllo delle caldaie contenuto nell'allegato al D.P.R. n. 412 del 1993, modello poi riprodotto e sviluppato nell'allegato G del d.lgs n. 192 del 2005.
9. Va infatti osservato dall'analisi della menzionata fonte normativa (D.P.R. 26.08.1993, n. 412, Regolamento recante norme per la progettazione, l'installazione, l'esercizio e la manutenzione degli impianti termici degli edifici ai fini del contenimento dei consumi di energia, in attuazione dell'art. 4, comma 4, della legge 09.01.1991, n. 10, vigente al momento dei due accessi di Del Zo.), emerge che l'allegato H contiene non solo il modulo relativo al "Rapporto di controllo tecnico" (obbligatorio in forza dell'art. 11), ove è prevista un'apposita sezione relativa alle Prescrizioni, ma anche la guida alla compilazione delle stesse specifiche sezioni, ove al punto 6 è indicato: "Nello spazio PRESCRIZIONI il tecnico, avendo riscontrato e non eliminato carenze tali da compromettere la sicurezza di funzionamento dell'impianto, dopo aver messo fuori servizio l'apparecchio e diffidato l'occupante dal suo utilizzo, indica le operazioni necessarie per il ripristino delle condizioni di sicurezza".
La dizione utilizzata evidenzia che la "messa fuori servizio" dell'apparecchio doveva essere effettuata dal tecnico che riscontrasse l'inidoneità, che avrebbe dovuto anche diffidare il proprietario dell'impianto dall'utilizzarlo ed indicare le prescrizioni necessarie per la messa a norma dello stesso.
10. L'analisi dei predetti doveri, gravanti sul tecnico manutentore, è stata svolta nella parte motiva della sentenza di appello che ha affermato la penale responsabilità con una tenuta argomentativa immune da censure (pp. 11 e 12): sono stati evidenziati sia gli aspetti di colpa specifica, connessa all'obbligo del tecnico di chiudere l'impianto controllato, nel caso di inidoneità funzionale ovvero, come nel caso di specie, logistica, ossia di situazione "pericolosa per la sicurezza delle persone, degli animali domestici e dei beni" (secondo quanto previsto nel modulo H) ed anche sia i profili di colpa generica, ossia l'imperizia ed anche la negligenza, ascrivibili all'imputato.
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Si legga, al riguardo, anche:
  
Impianti termici - Vademecum CNA Installazione Impianti sulla periodicità della manutenzione degli impianti ad uso civile (Confederazione Nazionale dell'Artigianato e della Piccola e Media Impresa, 08.05.2018);
  
Sicurezza degli impianti e responsabilità civili e penali dei manutentori (Confederazione Nazionale dell'Artigianato e della Piccola e Media Impresa, maggio 2018);
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 Caldaia difettosa, in caso di decesso del proprietario il tecnico negligente risponde di omicidio colposo.
Cassazione: la messa fuori servizio dell'apparecchio deve essere effettuata dal tecnico che riscontra l'inidoneità, il quale deve anche diffidare il proprietario dell'impianto dall'utilizzarlo e indicare le prescrizioni necessarie per la messa a norma  (14.11.2016 - link a www.casaeclima.com).
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Con la
sentenza 26.10.2016 n. 44968, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di un tecnico contro la condanna alla pena di 6 mesi di reclusione per omicidio colposo, per aver causato la morte del proprietario di un immobile dovuta a delle omissioni nella certificazione delle carenze funzionali della caldaia. (...continua).

IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGOL’ordine illegittimo va eseguito. Cassazione. Il dipendente a sua difesa può richiedere l’intervento del giudice del lavoro anche in forma urgente. I giudici estendono alla pubblica amministrazione le regole del settore privato.
Il dipendente pubblico non può rifiutarsi, di regola, di eseguire un ordine di servizio illegittimo invocando una eccezione di inadempimento del datore di lavoro.

Con la sentenza 19.04.2018 n. 9736, la Corte di Cassazione -Sez. lavoro- si esprime in modo netto sull’estensione alla pubblica amministrazione del principio che la giurisprudenza ha elaborato con riferimento ai rapporti di lavoro privato.
Quindi, anche, per i dipendenti pubblici vige il limite per cui, a fronte di ordini di servizio o direttive che possono determinare pregiudizio ai diritti del lavoratore, quali l’assegnazione di mansioni dequalificanti, la facoltà di rifiutare l’adempimento della prestazione richiesta si produce unicamente nel caso in cui l’inadempimento del datore di lavoro sia totale.
In ogni altro caso, così come per i rapporti di lavoro privato, i pubblici dipendenti che ricevano disposizioni di servizio foriere di arrecare pregiudizio alla loro professionalità o ad altro diritto riconnesso al contratto di lavoro sono comunque tenuti ad adempiere all’ordine ricevuto. Aggiunge la Cassazione che resta salvo il diritto per i lavoratori del pubblico impiego, non diversamente da quanto avviene per quelli del settore privato, di richiedere l’intervento del giudice del lavoro, anche in via d’urgenza, affinché venga rilevato il carattere illecito delle direttive datoriali e disposta la rimozione dei loro effetti.
Il caso esaminato dalla Suprema corte è relativo al licenziamento del comandante di un corpo di polizia municipale, nei cui confronti sono state promosse alcune azioni disciplinari, l’ultima delle quali sfociata nel provvedimento espulsivo, in quanto sono stati disattesi gli ordini di servizio impartiti dal segretario comunale. Il comandante ha impugnato il licenziamento sul presupposto, tra l’altro, che gli ordini di servizio avevano connotazione illegittima e che, pertanto, ad essi non doveva essere data esecuzione.
La Corte d’appello di Roma ha accolto la tesi della dipendente comunale, concludendo che la mancata osservanza delle disposizioni di servizio adottate dal segretario comunale eccedendo il proprio campo di competenze non costituisse inadempimento sanzionabile.
La Corte di cassazione rigetta questa lettura e afferma che anche i dipendenti pubblici -in applicazione dell’articolo 2, comma 2, del Testo unico del pubblico impiego, a norma del quale ai rapporti di lavoro dei dipendenti della Pa si applicano (salve espresse eccezioni) le leggi sui rapporti di lavoro privato- devono conformarsi alle disposizioni di servizio illegittime, senza poter invocare il principio della eccezione di inadempimento al di fuori dei casi più estremi in cui risulti richiesto di porre in essere fatti costituenti reato, ovvero azioni contrarie ai doveri di diligenza e fedeltà nei confronti della pubblica amministrazione.
Inoltre la lavoratrice aveva dedotto l’invalidità del licenziamento per essere stato comminato nel periodo di interdizione conseguente a matrimonio. La Corte d’appello ha accolto anche questa prospettazione, dichiarando la nullità del licenziamento sul presupposto che esso è intervenuto dopo le pubblicazioni e prima del decorso di un anno dopo le nozze.
La Corte di cassazione riforma la sentenza anche sotto questo profilo, osservando che la presunzione di riconducibilità del licenziamento a “causa di matrimonio” non opera se a fondamento del provvedimento espulsivo sia posta una contestazione degli addebiti avviata prima del periodo di interdizione.
In altri termini, se il procedimento disciplinare è iniziato prima della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, la circostanza che il licenziamento sia stato intimato durante il periodo di interdizione non esprime effetti sulla validità della iniziativa espulsiva, in quanto è da escludere che la volontà del datore possa essere ricondotta a una condizione (il matrimonio della dipendente) che ancora non era conosciuta (articolo Il Sole 24 Ore 20.04.2018).
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FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 1748/2016 la Corte di appello di Roma ha dichiarato la nullità del licenziamento intimato dal Comune di Sperlonga alla dipendente Ci.Pa..
2. Secondo la ricostruzione dei fatti contenuta in tale sentenza, Ci.Pa. aveva adito il Giudice del lavoro presso il Tribunale di Latina e, premesso di avere svolto funzioni di Comandante della Polizia Municipale del Comune di Sperlonga dal 10.06.2000, aveva dedotto che a partire dal maggio 2003 il Sindaco e il Segretario Comunale (quest'ultimo anche con le funzioni di Dirigente Generale, Responsabile della Polizia municipale e preposto all'Ufficio dei procedimenti disciplinari) avevano iniziato a tenere nei suoi confronti atteggiamenti vessatori costituenti "mobbing", attraverso l'imposizione di ordini professionalmente dequalificanti e la privazione di funzioni istituzionali, fino al licenziamento irrogato per mancata ottemperanza agli ordini del superiore ed assenze ingiustificate dal servizio.
2.1. La ricorrente aveva esposto che, non essendosi uniformata alle direttive del Sindaco, in data 14.11.2003 aveva ricevuto la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per n. 5 giorni e in data 31.03.2004 la medesima sanzione per n. 10 giorni, fino ad arrivare al licenziamento del 05.05.2004 preceduto da due contestazioni.
Tutto ciò premesso, aveva dedotto l'illegittimità delle sanzioni conservative e del licenziamento per mancata affissione del codice disciplinare e del solo licenziamento perché intervenuto tra la richiesta delle pubblicazioni di matrimonio ed un anno dopo la celebrazione dello stesso, in violazione degli artt. 1 e segg. L. n. 7/1963, nonché per infondatezza degli addebiti, per insussistenza del giustificato motivo soggettivo, per inesistenza di un inadempimento sanzionabile e per violazione del principio di terzietà (il Segretario Comunale era anche responsabile del procedimento disciplinare).
2.2. Il Tribunale adito aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, con conseguente diritto della ricorrente alla reintegrazione nel posto di lavoro, mentre aveva dichiarato non esservi luogo a provvedere sulle rimanenti domande, da intendersi rinunciate ex art. 75, comma 1 c.p.p. per avvenuta costituzione di parte civile della Ciccarelli nel giudizio penale (per abuso di ufficio e falso) a carico del Sindaco, del Segretario Comunale e di altri soggetti a vario titolo coinvolti nei fatti descritti.
2.3. Il Giudice di primo grado aveva osservato che, alla stregua del Regolamento della Polizia Municipale di Sperlonga, al Comandante del Corpo di Polizia Municipale erano demandate funzioni di responsabilità del servizio e che quindi la Ciccarelli aveva tutti i poteri di gestione ed organizzazione del lavoro dei vigili urbani, mentre al Segretario Comunale, per lo stesso Regolamento, era demandata la sovrintendenza allo svolgimento dei compiti affidati al Corpo.
Aveva dunque affermato che il Comandante organizza e gestisce il Corpo di Polizia Municipale mentre il Segretario comunale impartisce al predetto Comandante le direttive di ordine generale. Sulla scorta di tale premesse, aveva ritenuto che le condotte contestate, relative alla mancata osservanza dei servizi programmati dal Segretario comunale, non integrassero condotte idonee a giustificare la sanzione espulsiva: l'attribuzione dei poteri che alla Ci. derivavano dal Regolamento escludeva di poter dare rilevanza, ai fini del giudizio di proporzionalità, al "turbamento della regolarità del servizio e alla confusione per la sovrapposizione degli ordini", ragioni poste alla base del recesso.
2.4. Tale sentenza era stata impugnata da entrambe le parti. La Ci. aveva censurato la dichiarazione di estinzione del giudizio con riferimento alle domande risarcitorie. Il Comune di Sperlonga aveva censurato la sentenza nella parte relativa alla declaratoria di illegittimità del licenziamento.
3. La Corte di appello di Roma, rigettato l'appello proposto dalla Ci., in parziale riforma della sentenza impugnata, confermata nel resto, ha dichiarato la nullità del licenziamento in luogo della declaratoria di illegittimità di cui la sentenza impugnata.
3.1. Ha reputato preliminare ed assorbente rispetto all'esame dei motivi di appello l'eccezione mossa dalla Ciccarelli con il ricorso di primo grado riguardante la nullità del licenziamento intimato dopo la richiesta di pubblicazioni civili del matrimonio, sulla quale il Tribunale non si era pronunciato per implicito assorbimento della questione. Ha osservato, in sintesi, quanto segue:
   - il 26.04.2004 era pervenuta al Comune di Sperlonga la richiesta delle pubblicazioni del matrimonio (poi effettivamente celebrato in data in data 14.06.2004) per cui il licenziamento intervenuto il 05.05.2004 doveva ritenersi intimato a causa di matrimonio, in virtù della presunzione di cui all'art. 1, commi 1 e 2, L. n. 7/1963;
   - a fronte di ciò, spettava alla parte datoriale fornire la prova contraria, onde vincere la suddetta presunzione; incombeva dunque al Comune di Sperlonga provare che il licenziamento, seppure intervenuto nel periodo in cui opera il divieto, era stato legittimamente intimato perché sorretto da motivo legittimo diverso dal matrimonio, ossia per giusta causa ex art. 3 lett. a) L. n. 860/1950, pena la nullità dei licenziamento medesimo;
   - parte datoriale aveva dedotto di essersi determinata al recesso per reprimere i gravi atti di insubordinazione della Ci., che non si era uniformata alle direttive del Segretario Comunale e di avere intimato legittimamente la sanzione espulsiva ai sensi del contratto collettivo in esito alla precedente doppia recidiva;
   - tuttavia, non era stata provata in giudizio la colpa grave che integra giusta causa di licenziamento, non avendo il Comune fornito la rigorosa prova richiesta per superamento la presunzione a suo carico;
   - la mancata osservanza degli ordini, anche comportanti le assenze della Ciccarelli nei giorni degli orari programmati dal Segretario comunale, era giustificata dal fatto che si trattava di ordini illegittimi, poiché basati su un potere estraneo a quello proprio del Responsabile del Servizio di Polizia Municipale e tanto poteva desumersi dalle norme del nuovo Regolamento del 1998 che delineava i compiti e le attribuzioni del Responsabile del Servizio (nella specie, del Segretario comunale) come direttive di massima da impartire al Comandante, il quale invece esercita il potere esecutivo, gestionale ed organizzativo del relativo Corpo;
   - ai sensi del Regolamento di Polizia Municipale del 1995, il Corpo di Polizia Municipale dipende direttamente dal Sindaco o dall'assessore delegato, che impartiscono ordini e direttive tramite il Comandante del Corpo, responsabile del servizio; quest'ultimo provvede all'organizzazione e alla direzione tecnico operativa degli appartenenti al corpo/servizio, all'impiego tecnico operativo del personale dipendente, all'assegnazione alle unità, ai reparti e ai servizi speciali, all'esercizio del potere ispettivo, alla predisposizione dei turni, tutte competenze sulle quali si era attestato io "
scontro" tra le divergenti determinazioni del Comandante, da un lato, e del Segretario Comunale, dall'altro;
   - tali attribuzioni del Comandante del Corpo non erano venute meno per il fatto che il Segretario comunale era stato designato titolare delle funzioni di Responsabile del Servizio di Polizia; difatti, la nuova regolamentazione comunale (Regolamento dell'Ordinamento generale degli uffici e dei servizi, deliberato dalla Giunta nel 1998) prevede che i responsabili degli uffici e dei servizi abbiano la responsabilità del "generale andamento degli uffici cui sono preposti" (art. 7, co. 3), nonché della "gestione delle risorse economiche, di personale e strumentali ad essi assegnate, ciò per "dare effettiva attuazione agli obiettivi contenuti del programma amministrativo" (art. 7, co. 5); essi adottano "in via generale" gli atti conclusivi del procedimento amministrativo delle determinazioni adesso correlate (art. 7, co. 4); trattasi di prerogative di ordine generale programmatico, che nulla hanno a che vedere con la gestione del personale, la sua organizzazione sul territorio, la predisposizione dei turni e degli orari giornalieri di lavoro e in genere delle migliori modalità operative dell'attività di Polizia.
3.2. In conclusione, la Corte distrettuale ha ritenuto che tutte le mancanze poste a base del licenziamento e dei precedenti provvedimenti disciplinari, ivi comprese le assenze dal servizio, risultavano collegate alla inosservanza delle disposizioni provenienti dal Segretario Comunale in contrasto con quelle provenienti dalla stessa Ciccarelli nell'esercizio dei poteri direttivi ed organizzativi di Comandante del Corpo, cosicché la mancata osservanza di quei disposizioni non costituisce inadempimento; né il Comune aveva dimostrato (e nemmeno allegato) le ragioni per le quali aveva proceduto, nei confronti della ricorrente, alla dedotta privazione dei poteri.
4. Per la cassazione di tale sentenza il Comune di Sperlonga ha proposto ricorso affidato a sei motivi. Ha resistito con controricorso la Ci.. Entrambe le parti ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
In particolare, la difesa della Ci. ha eccepito la nullità/inesistenza della procura rilasciata dal Sindaco di Sperlonga, quale legale rappresentante del Comune, per carenza della delibera autorizzatoria della Giunta comunale a proporre impugnazione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
...
2. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione di legge e omesso esame di fatti decisivi per il giudizio e precisamente:
   a) sussistenza di provvedimenti disciplinari n. 20836 del 14.11.2003 e n. 5905 del 31.03.2004, antecedenti anche alla richiesta di pubblicazione di matrimonio del 26.04.2004, e costituenti presupposto essenziale del provvedimento di recesso, alla luce dell'art. 25 CCNL del 10.04.1999, in ragione della recidiva biennale;
   b) avvio del procedimento disciplinare con nota prot. n. 8031 del 07.01.2004 (tre mesi prima della richiesta di pubblicazioni di matrimonio) e rinvii del procedimento per l'audizione a difesa (la cui prima convocazione era stata fissata per il 29.03.2004) richiesti dalla stessa Ciccarelli e tali da comportare il differimento del procedimento fino alla data del 05.05.2004.
Si rileva che, ove tali fatti decisivi fossero stati considerati, la Corte d'appello avrebbe dovuto ritenere superata la presunzione iuris tantum di cui all'art. 1, comma 3, L. n. 7/1963.
3. Il secondo motivo denuncia violazione di legge in relazione agli artt, 2086 c.c. e 2094 c.c., art. 2, comma 2, e art. 5 d.lgs. 165/2001, artt. 6 e 7 Regolamento dell'Ordinamento generale degli Uffici e dei Servizi del Comune di Sperlonga (adottato con delibera della G.M. n. 41/1998), nonché del generale principio in base al quale il lavoratore dipendente che non condivida gli ordini e le direttive impartite dal suo superiore o dal datore di lavoro non ha il diritto né la facoltà di disattenderli autonomamente, disponendo invece della mera facoltà di esperire rimedi giurisdizionali, anche cautelari, apprestati dall'ordinamento per l'accertamento dell'eventuale illegittimità degli ordini e/o delle direttive e per il ripristino della legalità eventualmente violata. Violazione di legge in relazione all'art. 51 c.p. e dei principi affermati, in applicazione analogica di tale norma, dalla giurisprudenza del lavoro, secondo cui l'ordine illegittimo che il lavoratore ha diritto di disattendere è solo quello con cui venga richiesto di commettere un illecito, ovvero di porre in essere una condotta contraria ai doveri di fedeltà e diligenza verso la parte datoriale.
Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 1, co. 5, L. n. 7/1963 e norme correlate ai principi generali in tema di "colpa grave" della lavoratrice, idonea a superare la presunzione di licenziamento a causa di matrimonio.
3.1. Si assume che nella premessa del provvedimento licenziamento prot. n. 8031 del 05.05.2004 era stato ascritto alla dipendente di non avere ottemperato a specifici ordini di servizio e di avere in tal modo creato un grave disservizio e precisamente, con la contestazione del 07.01.2004, di non avere svolto, secondo quanto disposto la programmazione settimanale, il servizio esterno di controllo del traffico dalle ore 8,00 alle ore 11,00, come richiesto anche in attuazione delle disposizioni impartite alla prefettura di Latina, e di essere stata ingiustificatamente assente dal servizio nei giorni 25, 26 e 27.12.2003; con la contestazione del 19.01.2004, di non avere svolto in data 30.12.2003 il turno di servizio programmato dalle 15,00 alle 21,00; di essere stata ingiustificatamente assente dal servizio il giorno 10.01.2004 e di non avere svolto in data 07.01.2004 il servizio dalle ore 15,00 alle ore 21,00 come programmato, bensì arbitrariamente di avere prestato servizio dalle ore 8,00 alle ore 14.
3.2. Si deduce altresì con il secondo motivo che la dipendente non solo non aveva osservato gli obblighi nascenti dagli ordini di servizio impartiti dal Responsabile del Servizio, ma aveva addirittura emesso specifici ordini di servizio, anche all'indirizzo degli altri componenti della Polizia municipale, contrastanti con quelli del Responsabile del Servizio, in tal modo cagionando grave confusione nei destinatari degli ordini, come confermato dai testi in sede istruttoria.
4. Il terzo motivo denuncia violazione di legge ed omesso esame dei seguenti fatti decisivi per il giudizio:
   a) inesistenza di un vero e proprio Corpo di Polizia Municipale per difetto dei presupposti previsti dal Regolamento del 1995 (numero di addetti pari o superiore a n. 7 unità) e quindi difetto in capo alla ricorrente della posizione di Comandante del Corpo e conseguente legittimo affidamento della responsabilità del servizio di polizia municipale ad un soggetto diverso;
   b) in ogni caso, piena legittimità degli ordini di servizio emessi dal Segretario comunale, essendo chiara, nel Regolamento del 1998 vigente al tempo dei fatti, l'attribuzione al Responsabile del Servizio di compiti gestionali e tenuto conto che la sopravvenienza del nuovo Regolamento aveva comportato l'abrogazione di ogni precedente, incompatibile disposizione.
Si rileva che l'art. 7 del nuovo Regolamento espressamente dispone che i Responsabili dei servizi e degli uffici sono direttamente responsabili dell'andamento degli uffici cui sono preposti e della gestione delle risorse economiche, di personale e strumentali assegnati e curano l'organizzazione degli uffici e dei servizi nell'ambito delle direttive e degli indirizzi politici espressi dagli organi di governo, assumendo i necessari atti di gestione.
...
8. Meritano accoglimento i primi tre motivi, da esaminare congiuntamente in quanto interconnessi, mentre il quarto (vertente sul vizio di omessa pronuncia) è inammissibile per difetto di autosufficienza e i restanti (vertenti sui motivi di appello non esaminati dalla Corte di appello) sono inammissibili in quanto relativi a questioni rimaste assorbite nella soluzione accolta dal giudice di appello e suscettibili di riproposizione in sede di rinvio.
9. La L. n. 7 del 1963, art. 1, dispone "...del pari nulli sono i licenziamenti attuati a causa del matrimonio" specificando al comma 3, "si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio .... a un anno dopo la celebrazione., sia stato disposto per causa di matrimonio".
Il termine "disposto" allude ad una decisione della parte datoriale che sia maturata ed adottata nell'arco temporale indicato per legge (cfr. Cass. n. 27055 del 2013). Tale presupposto tuttavia -ad avviso del Collegio- non può ravvisarsi laddove si verta in un'ipotesi di procedimento disciplinare già avviato anteriormente alla data della richiesta di pubblicazioni di matrimonio; in tale caso, non può presumersi la riconducibilità della volontà datoriale alla "causa di matrimonio", non essendo i relativi presupposti neppure venuti ad esistenza alla data in cui è stata esercitata l'azione disciplinare.
Non è ravvisabile, in radice, alcun nesso logico né giuridico tra la volontà datoriale di avviare e dare corso ad un procedimento disciplinare e la richiesta di pubblicazioni di matrimonio che intervenga nel corso di tale procedimento.
9.1. Risulta dalla sentenza impugnata che la richiesta di pubblicazioni di matrimonio pervenne al Comune di Sperlonga il 26.04.2004, nelle more del procedimento disciplinare già avviato ed in corso a quella data.
9.2. Tale ragione ha carattere assorbente e impone la cassazione con rinvio per l'esame dei motivi di appello proposti dal Comune di Sperlonga, rimasti assorbiti nella diversa soluzione accolta dal giudice di appello. Difatti, la sentenza impugnata ha accolto la domanda di impugnativa del licenziamento per ragioni diverse da quelle esaminate dal Giudice di primo grado, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento in quanto sanzione eccessiva e sproporzionata rispetto alla gravità effettiva dei fatti. La Corte di appello ha invece ritenuto il licenziamento affetto da nullità, perché intimato per "causa di matrimonio".
10.
La sentenza impugnata è incorsa in un'ulteriore violazione di legge laddove ha affermato che il dipendente che non condivida direttive o istruzioni impartite dal superiore ovvero dal datore di lavoro ovvero le ritenga dequalificanti abbia il potere o il diritto di disattenderle in luogo del più limitato diritto di azionare i rimedi giurisdizionali predisposti dall'ordinamento per l'accertamento della illegittimità di tali direttive o istruzioni ai fini dell'annullamento.
10.1.
Nell'ambito del rapporto di lavoro privato, questa Corte ha affermato che la nozione di insubordinazione, nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale (Cass. n. 7795 del 2017).
Più in generale
il lavoratore può chiedere giudizialmente l'accertamento della legittimità di un provvedimento datoriale che ritenga illegittimo, ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario (conseguibile anche in via d'urgenza), di eseguire la prestazione lavorativa richiesta, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni impartite dall'imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., e può legittimamente invocare l'eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., solo nel caso in cui l'inadempimento del datore di lavoro sia totale (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 831 del 2016 e n. 18866 del 2016).
Tali principi trovano applicazione nel rapporto di pubblico impiego privatizzato, anche in ragione del rinvio operato dall'art. 2, co. 2, d.lgs. n. 165/2001.
10.2. La Corte d'appello ha invertito il principio generale secondo cui
costituisce onere del lavoratore, soprattutto se dipendente di un ente pubblico, spiegare le ragioni per cui abbia disatteso ordini di servizio o direttive impartitegli creando turbamento alla regolarità e continuità del servizio. Non risulta infatti dalla sentenza impugnata che fosse stato richiesto alla dipendente di porre in essere fatti costituenti reato o comunque comportamenti contrari ai doveri di diligenza e fedeltà per l'amministrazione (in relazione all'art. 51 c.p.).
11.
Il ricorso va dunque accolto per quanto di ragione e la sentenza va cassata con rinvio alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

COMPETENZE GESTIONALINel nuovo ordinamento delle autonomie locali, competente a conferire la procura alle liti al difensore del Comune è il Sindaco e non la Giunta, la cui delibera, siccome priva di valenza esterna, ha natura meramente gestionale e tecnica.
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In tema di ricorso per cassazione, la procura speciale al difensore, prescritta a pena di nullità dall'art. 365 cod. proc. civ., può essere conferita al difensore esclusivamente dal soggetto legittimato a stare in giudizio ai sensi dell'art. 75 cod. proc. civ., il quale, per il Comune, è il solo Sindaco (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267) e non la giunta comunale.
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1. Preliminarmente, va disattesa l'eccezione sollevata dalla Ci. in sede di memoria difensiva ex art. 378 c.p.c..
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 5802 del 2016), nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, competente a conferire la procura alle liti al difensore del Comune è il Sindaco e non la Giunta, la cui delibera, siccome priva di valenza esterna, ha natura meramente gestionale e tecnica (Cass. 23.03.2016 n. 5802).
In tema di ricorso per cassazione, la procura speciale al difensore, prescritta a pena di nullità dall'art. 365 cod. proc. civ., può essere conferita al difensore esclusivamente dal soggetto legittimato a stare in giudizio ai sensi dell'art. 75 cod. proc. civ., il quale, per il Comune, è il solo Sindaco (art. 50 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267) e non la giunta comunale (Cass. 18062 del 2010) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 19.04.2018 n. 9736).

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: R. Cartasegna, A PROPOSITO DEL NUOVO REGOLAMENTO EDILIZIO DELLA REGIONE PIEMONTE (11.05.2018).

GURI - GUUE - BURL ( e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 18.05.2018 "Aggiornamento Albo regionale delle imprese boschive (l.r. 31/2008 – art. 57)" (decreto D.S. 15.05.2018 n. 6934).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 17.05.2018 "Approvazione dei contenuti della relazione di dettaglio relativa all’individuazione delle aree idonee e a quelle non idonee alla localizzazione degli impianti di recupero e smaltimento di rifiuti urbani e speciali della provincia di Bergamo. (art. 16, c. 2-bis, l.r. 26/2003)" (deliberazione G.R. 14.05.2018 n. 119).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 17.05.2018 "Terzo aggiornamento 2018 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 10.05.2018 n. 6623).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 15.05.2018 n. 111 "Regolamento recante: «Approvazione delle linee guida sulle modalità di svolgimento delle funzioni del direttore dei lavori e del direttore dell’esecuzione»" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 07.03.2018 n. 49).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 14.05.2018 "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 30.04.2018, in attuazione della legge 26.10.1995, n. 447 e del decreto legislativo 17.02.2017, n. 42" (comunicato regionale 08.05.2018 n. 78).

APPALTI SERVIZI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 02.05.2018 "Regolamentazione regionale dello standard professionale e formativo del manutentore del verde" (decreto D.U.O. 23.04.2018 n. 5777).

APPALTI SERVIZI - PATRIMONIO: G.U. 28.04.2018 n. 98 "Criteri ambientali minimi per l’affidamento del servizio di illuminazione pubblica" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 28.03.2018).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: R. Cartasegna, A PROPOSITO DEL NUOVO REGOLAMENTO EDILIZIO DELLA REGIONE PIEMONTE (11.05.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: D. U. Galetta, Accesso (civico) generalizzato ed esigenze di tutela dei dati personali ad un anno dall’entrata in vigore del Decreto FOIA: la trasparenza de “le vite degli altri”? (09.05.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa introduttiva. 2. Sulle tre tipologie di accesso post D.lgs. 97/2016: cenni essenziali. 3. Accesso (civico) generalizzato e tutela degli interessi contrapposti: esiste un principio di tutela preferenziale dell'interesse conoscitivo? 3.1. Il confuso quadro di riferimento a livello nazionale (fra norme cogenti e strumenti c.d. di soft law). 3.2. Il quadro normativo di riferimento a livello sovranazionale: gli elementi essenziali. 3.3. Sulla non esistenza di un “principio di tutela preferenziale dell'interesse conoscitivo” e la complessità del giudizio di bilanciamento che le amministrazioni sono chiamate ad operare. 4. L’obbligo di consultare i controinteressati e le relative conseguenze. 5. Gli elementi della valutazione discrezionale dell’amministrazione, nel contrasto fra diritto d’accesso (civico) generalizzato ed esigenze di protezione dei dati personali: l’importanza della dimensione sociale dei dati personali. 6. Segue. L’applicazione del principio di proporzionalità quale strumento di corretto bilanciamento dei diritti e degli interessi in gioco. 7.  L’importanza della motivazione del provvedimento finale adottato a seguito di un’istanza di accesso (civico) generalizzato. 8. Il rapporto tra accesso (civico) generalizzato e accesso classico: qualche opportuna precisazione. 9. L’accesso (civico) generalizzato, fra tutela di legittime istanze conoscitive e rischi di interferenza indebita ne “le vite degli altri”: riflessioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Berti, Note critiche sulla “funzionalizzazione” dell’accesso civico generalizzato (11.05.2018 - tratto da link a www.giustizia-amministrativa.it).
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ABSTRACT L’accesso civico generalizzato è, per definizione, un diritto che spetta a “chiunque”, “indipendentemente dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti” [art. 7, comma 1, lett. h), Legge delega n. 241/2015], che “non e' sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente.” (art. 5, comma 3, D.Lgs. 33/2013) e la cui unica ragione d’essere sta nello “scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico” (art. 5, comma 2, D.Lgs. 33/2013), sì che la relativa istanza “non richiede motivazione” (art. 5, comma 3, D.Lgs. 33/2013).
Una delle questioni più rilevanti, sul piano pratico e teorico, poste in questo primo periodo di applicazione dell’istituto, concerne la possibilità o meno di sindacare le “finalità” dell’istanza e le “effettive motivazioni” dell’istante, verificandone la coerenza rispetto alla ratio legis.
La risposta al quesito sembra essere negativa, perché il dato normativo depone inequivocabilmente nel senso della netta emancipazione di questo tipo di accesso dal vincolo della “strumentalità” rispetto ad una dimensione di interessi (pubblici o privati) che non sia quella propria ed insindacabile del richiedente, il cui diritto conoscitivo è riconosciuto ex se come espressione della “libertà di informazione” [art. 7, comma 1, lett. h) Legge delega n. 124/2015].
Ne consegue che il giudizio di ponderazione dell’interesse conoscitivo con gli altri contrapposti interessi (a cominciare dalla tutela dei dati personali) non potrà che essere svolto sulla base di criteri “oggettivi”, avuto riguardo al “pregiudizio concreto” arrecabile a detti interessi, come prevede l’art. 5-bis, comma 2, del D.Lgs. 33/2013.
Né la “funzionalizzazione” dell’accesso civico generalizzato può essere recuperata mediante la figura dell’”abuso del diritto”, atteso che esso è “limite modale” dell’”esercizio del diritto”, ma non consente di indagare le “motivazioni” dello stesso, ricavandone un’ulteriore limitazione del suo contenuto.
che essa sembra prestarsi ad alterare, per via interpretativa, i connotati di un istituto chiaramente concepito e voluto dal legislatore come a-causale.
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Sommario: 1. Premessa: accesso civico generalizzato e tutela della privacy. 2. L’accesso civico generalizzato (introdotto dal Decreto legislativo 25.05.2016 n. 97) e l’art. 5-bis del Decreto Legislativo 14.03.2013 n. 33. 3. I primi orientamenti del Garante per la privacy. 4. La posizione del Garante per la privacy sulla questione della sindacabilità delle “finalità” dell’istanza di accesso civico generalizzato e delle “effettive motivazioni” dell’istante. 5. Argomenti pro e contro l’ammissibilità di un sindacato sulle “effettive motivazioni” dell’istanza di accesso civico generalizzato. 5.1. Argomenti a favore. 5.2. Argomenti contro. 6. Sull’”abuso” del diritto di accesso civico generalizzato. 7. La posizione della giurisprudenza amministrativa. 8. Il giudizio di ponderazione degli interessi contrapposti ai sensi dell’art. 5-bis, comma 2, D.Lgs. 33/2013. 9. Le potenzialità applicative dell’”accesso parziale” con oscuramento dei dati personali.

EDILIZIA PRIVATA: L. B. Molinaro, NO ALLE DEMOLIZIONI NEI COMUNI DISSESTATI - FOCUS SULLA PROVVISTA FINANZIARIA TRA BILANCIO COMUNALE E FONDO DI ROTAZIONE (10.05.2018 - link a www.ambientediritto.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Gli orientamenti della giurisprudenza penale e amministrativa. La sanzione demolitoria quale autonoma espressione del potere giurisdizionale. 3. Il procedimento tipico disciplinato dall’art. 32, comma 12, del d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n. 326 del 2003. 4. Le novità introdotte dal d.P.R. n. 115 del 2002. 5. La convenzione interministeriale del 15.12.2005. 6. Il giudizio comparativo sui costi. 7. La copertura finanziaria. 8. Le circolari della Cassa depositi e prestiti s.p.a. regolanti la materia. 9. Il concetto di indebitamento e il divieto a carico dei comuni “dissestati” di contrarre mutui. 10. Ancora in tema di adesione al fondo rotativo. Il resoconto finale della riunione della commissione Arconet del 13.04.2016. 11. Conclusioni.

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Anastasi, IL QUADRO DELLA TUTELA DEI DATI PERSONALI NELLA DISCIPLINA DEL GDPR (26.04.2018 - link a www.ambientediritto.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa; 2. Codici di condotta; 3. Certificazioni; 4. Data Breach; 5. Diritto alla portabilità dei dati; 6. Responsabile del trattamento; 7. Responsabilità e quadro sanzionatorio.

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi ai progetti esclusi anche dai tetti alla spesa di personale. Contratti enti locali. Corsa a regolamenti e intese decentrate. In settimana la Corte dei conti esamina l’accordo.
Mentre si avvicina la firma definitiva del nuovo contratto nazionale per le Funzioni locali, che sarà esaminato dalla Corte dei conti in settimana, in molte amministrazioni è cominciata la corsa all’approvazione dei regolamenti e alla stipula dei decentrati: ad accenderla è stata la deliberazione 26.04.2018 n. 6 della sezione Autonomie della Corte dei conti (si veda Il Sole 24 Ore del 28 aprile), in cui i giudici hanno chiarito che gli incentivi per le funzioni tecniche vanno al di fuori del tetto del fondo accessorio.
La deliberazione risolve il dubbio sull’inclusione o meno nel tetto del fondo degli incentivi per le funzioni tecniche; ma non dice se queste risorse devono comunque continuare a essere inserite nel fondo, né se devono essere incluse nella spesa del personale e, in caso positivo, se concorrono o meno alla determinazione del tetto generale.
Le motivazioni utilizzate dalla delibera vanno nella direzione di ritenere che sulla base delle modifiche apportate dalla legge di bilancio 2018 agli incentivi delle funzioni tecniche si possono applicare i principi dettati dalla delibera 51/2011 delle Sezioni riunite di controllo; in quella decisione erano stati fissati i principi da utilizzare per l’inclusione o meno nel tetto del salario accessorio dei compensi che hanno caratteristiche peculiari, escludendo i vecchi incentivi per gli appalti di opere pubbliche. Quelle motivazioni portano a includere le risorse per i nuovi incentivi nel fondo, e nella spesa del personale, ma a considerarle in deroga a entrambi i tetti.
Dalla pronuncia della sezione autonomie si deve trarre la conclusione che l’esclusione dal tetto del salario accessorio riguarda esclusivamente i compensi maturati a partire dallo scorso 1° gennaio, cioè dall’entrata in vigore della legge di bilancio 2018. Non ci sono infatti indicazioni che possono portare a considerare questa come una norma di interpretazione autentica, quindi con decorrenza retroattiva.
Gli ambiti della regolamentazione e della contrattazione decentrata sono differenti, e non sono tra loro sovrapponibili. Spetta alla regolamentazione la decisione sulla quantità delle somme poste a base d’asta da destinare all’incentivazione del personale: ovviamente entro il tetto massimo del 2% fissato dal legislatore, che in via di fatto non può comunque essere superiore all’1,6% visto che la stessa disposizione obbliga a riservare il 20% per gli incentivi non al personale ma al miglioramento dei servizi.
Spetta alla regolamentazione comprendere nel tetto anche l’incentivazione del personale delle eventuali centrali di committenza, graduare i compensi ati in relazione all’importo e prevedere le decurtazioni in caso di ritardi o costi aggiuntivi, anche se non direttamente ascrivibili al personale. La contrattazione deve invece provvedere alla ripartizione delle risorse tra le varie figure previste dal legislatore, ricordando che i dipendenti progettisti di opere pubbliche o responsabili della sicurezza non possono essere incentivati con queste somme.
I contratti decentrati possono inoltre stabilire forme di correlazione tra l’erogazione dei compensi e l’incentivazione della performance, cioè disporre eventuali tagli alla produttività o alla retribuzione di risultato delle posizioni organizzative che ricevono compensi per le funzioni tecniche; tagli che ovviamente andrebbero ad alimentare il salario accessorio dei dipendenti o delle posizioni organizzative che non sono destinatari degli incentivi (articolo Il Sole 24 Ore del 14.05.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi tecnici, rebus contabilizzazione dopo la decisione della Corte dei Conti.
La decisione con cui la Sezione autonomie della Corte dei conti (deliberazione 26.04.2018 n. 6, si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 30 aprile) ha promosso il comma 526 della legge 205/2017 e sottratto gli incentivi per le funzioni tecniche dalla qualificazione giuridica di «spese di personale» apre la strada alla loro liquidazione al di fuori dei vincoli del salario accessorio, almeno a partire dal 01.01.2018.
L’ultima interpretazione della Corte dei conti
Tutte le amministrazioni interessate, quindi, sono chiamate a rivedere l'allocazione in bilancio di quella spesa, senza tuttavia disporre di regole certe su come operare. È la stessa Corte, infatti, che afferma come, messo da parte il problema dei vincoli, restano da chiarire «le specifiche modalità operative di contabilizzazione».
Il comma 526 della legge 205/2017, rimarcando quanto già previsto dall'articolo 113, comma 2, del Dlgs 50/2016, si limita ad affermare che «gli incentivi fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture». In sostanza, quindi, le risorse dovranno essere contabilizzate al titolo I della spesa (se riguardano servizi o forniture di parte corrente) e al Titolo II della spesa (se riguardano opere pubbliche), con classificazione coerente con quella del tipo dell'appalto a cui gli incentivi sono riferiti.
In sostanza la natura «accessoria» di queste spese, in relazione a quella principale costituita dalla fornitura, dal servizio o dal lavoro, ne assorbe la contabilizzazione, creando una sorta di capitalizzazione della spesa di personale, superando anche le distinzioni previste dal piano dei conti finanziario allegato 6 al Dlgs 118/2011.
Ipotesi sull’allocazione in bilancio
Volendo fornire alcune prime sommarie indicazioni, è possibile ipotizzare che questi incentivi debbano essere imputati contabilmente sullo stesso capitolo di spesa riferito alla prestazione principale, senza quindi qualificarli come spesa di personale. Se, ad esempio, un ente, in sede di appalto della refezione scolastica, deve contabilizzare 10mila euro di incentivi per funzioni tecniche, le risorse saranno allocate sul medesimo capitolo dove sarà pagata la ditta aggiudicataria del servizio di refezione.
Si osserva, tuttavia, che questo principio dovrebbe trovare applicazione per tutte le voci afferenti il quadro economico del servizio/fornitura, come le spese di pubblicazione, le commissioni, eccetera, al fine di fornire un quadro complessivo della spesa dell'ente.
Se per i lavori questa prassi è oramai consolidata, lo è meno per i servizi e le forniture per le quali, in attesa di chiarimenti e in assenza di una specifica disposizione normativa, queste voci restano contabilizzate a parte. Per quanto riguarda le modalità di finanziamento, se per i lavori le risorse devono essere integralmente disponibili al momento dell'avvio dell'opera, per cui anche gli incentivi saranno finanziati attraverso il fondo pluriennale di spesa, non così per la maggior parte di appalti di forniture e servizi.
Per questi ultimi, e in particolare per i contratti di somministrazione che, avendo una durata pluriennale, vengono imputati a bilancio sui singoli esercizi in cui vengono svolte le prestazioni, gli incentivi saranno «spalmati» lungo tutta la durata del contratto e finanziati con le risorse dei singoli esercizi.
Irap
Maggiori dubbi sussistono per quanto riguarda l'Irap. Il nuovo Codice dei contratti ha confermato che la percentuale è comprensiva dei soli oneri previdenziali e assistenziali, lasciando fuori l'Irap. Nonostante l'interpretazione fornita dalla Corte dei conti (Sezioni riunite
deliberazione 30.06.2010 n. 33), l'orientamento prevalente dei giudici aditi è quello di ritenere la spesa a carico esclusivo dei bilanci e quindi fuori dal tetto del 2% degli incentivi (si veda, da ultimo, il Tribunale di Verona n. 114/2017 relativo ai compensi per l'avvocatura).
Gli enti che si trovano ad aderire a tale interpretazione dovrebbero quindi contabilizzare l'Irap come spesa corrente e farla rientrare nei limiti della spesa di personale oppure possono assimilarla allo stesso regime dell'incentivo?
A tal fine sarebbe opportuno un nuovo intervento del legislatore, analogo a quello contenuto nell'articolo 3, comma 29, della legge 350/2003 riferito, tuttavia, agli incentivi di progettazione secondo la legge Merloni, ora abrogata.
Fondo per acquisto di attrezzature
Resta inoltre da chiarire se anche la quota del 20% degli incentivi da dedicare al fondo per l'acquisto di attrezzature, strumentazioni, eccetera debba ricevere lo stesso trattamento contabile, la cui codifica potrà essere attribuita solamente nel momento in cui sarà assunta la decisione sulla spesa da finanziare, superando quindi le difficoltà connesse al rispetto del piano dei conti finanziario.
In questo caso riteniamo che il valore dell'appalto rappresenti solamente una base di calcolo e che, non ravvisandosi alcuna stretta correlazione con l'opera, la fornitura o il servizio, tale spesa sia da contabilizzare utilizzando la voce del piano dei conti più appropriata.
In attesa della formalizzazione della spesa da sostenere, gli enti potranno allocare le risorse in un capitolo di spesa della missione 20, programma 03, utilizzabile anche durante l'esercizio con delibera di giunta alla stregua di un utilizzo del fondo per passività potenziali. Lo stanziamento di spesa, se espressamente finanziato e non utilizzato nell'anno, confluirà poi tra i fondi accantonati del risultato di amministrazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.05.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHESugli incentivi tecnici via libera solo a metà. Corte conti. Niente retroattività e nodo fondi.
La Corte dei conti si è espressa: gli incentivi per le funzioni tecniche non rientrano nel tetto al salario accessorio imposto dalla riforma Madia (si veda anche Il Sole 24 Ore di sabato). Problema chiuso? Tutt’altro.

I magistrati contabili (Corte dei Conti, Sez. autonomie, deliberazione 26.04.2018 n. 6) evidenziano che la disposizione della legge 205/2017 non ha valore di interpretazione autentica e, quindi, non presenta le caratteristiche proprie di questa tipologia di norme, a partire dalla retroattività. Gli incentivi riconosciuti per il periodo compreso fra l'entrata in vigore del Dlgs 50/2016 e il 31.12.2017 restano quindi soggetti ai limiti previsti per il salario accessorio, come aveva stabilito la stessa sezione Autonomie nella deliberazione 06.04.2017 n. 7.
In secondo luogo, per la corresponsione degli importi in questione è necessario un regolamento con il quale venga data attuazione all'articolo 113 del Codice appalti. Regolamento nel quale stabilire una serie di fattori che la norma demanda alle singole amministrazioni, in primis la percentuale (il 2% è, infatti, la misura massima).
Se è pur vero che il Dlgs 50/2016 è entrato in vigore già da un paio d'anni, molte amministrazioni hanno preferito non affrontare il problema, nascondendosi dietro il paravento della posizione della Corte dei conti che metteva l'ente davanti a una scelta: pagare gli incentivi per funzioni tecniche a pochi dipendenti o corrispondere il premio legato alla performance alla generalità dei lavoratori? Oggi, quindi, si deve riprendere in mano la questione. Con il regolamento approvato, si possono liquidare i compensi anche relativi a periodi passati, purché le risorse siano state accantonate.
Anche se il regolamento c’è già, servono le risorse, da trovare tra le pieghe del bilancio. Questione è tutt'altro che scontata. E se poi si arriva al pagamento, scatta il limite annuo per dipendente, fissato nel 50% del trattamento complessivo lordo. Con opere di una certa rilevanza, il tetto è facilmente raggiungibile.
Da ultimo, giove far rilevare un'altra conseguenza pratica della posizione della Corte dei conti. Per motivare l’esclusione degli incentivi per funzioni tecniche dal campo di applicazione dell'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017, la Corte afferma che i compensi gravano «su risorse autonome e predeterminate del bilancio, diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale». E questo come si concilia con i contratti nazionali, vecchi e nuovi, per i quali gli incentivi transitano dal fondo decentrato? Sono o non sono spesa di personale, con conseguente riflesso sul vincolo? (articolo Il Sole 24 Ore del 30.04.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Il regolamento di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 costituisce elemento integrativo della fattispecie produttiva del compenso incentivante ivi previsto e, perciò, non pone un problema di retroattività applicativa per gli incarichi espletati prima della sua adozione, ma di semplice perfezionamento della predetta fattispecie.
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1) – Il Sindaco del Comune di Città di Castello (PG), con nota del 24/11/2017, ha inoltrato a questa Sezione, una richiesta di parere, ex art. 7, comma 8, della l. n. 131/2003, “in merito all’applicazione retroattiva del regolamento conseguente all’accordo decentrato sui criteri e modalità di riparto dell’incentivo di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2017, fermi [restando] la condizione di preventivo accantonamento della quota a ciò destinata in sede di approvazione del programma negoziale e gli ulteriori obblighi derivanti dai vincoli in materia di costituzione del fondo per salario accessorio” (v. pag. 2).
2) – La richiesta di parere è motivata dal fatto che il Comune ha riscontrato “orientamenti non univocamente concordanti” delle Sezioni Regionali di controllo della Corte dei conti “nel sancire l’irretroattività” dei regolamenti adottati per il riparto del fondo incentivazione, ex artt. 113 del d.lgs. n. 50/2016 e analoghe, precedenti disposizioni.
In tal senso ha richiamato, per la tesi dell’applicazione retroattiva del regolamento “anche [agli] incarichi conferiti e svolti nelle more [della] definizione dell’accordo sindacale e quindi prima del regolamento” stesso, Sezione Reg. Controllo Basilicata
parere 08.03.2017 n. 7 e Sez. Regionale di controllo Lombardia parere 07.11.2017 n. 305. Per la tesi opposta, della irretroattività del predetto regolamento agli incarichi espletati prima della sua adozione, ha invece richiamato Sezione Regionale di Controllo Toscana, parere 26.10.2017 n. 177.
...
5) – Ciò premesso, nel merito, è da osservare che questa Sezione ha già esaminato un’analoga richiesta di parere, riferita non già agli incarichi di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 (espletati prima dell’adozione del regolamento ivi previsti), ma agli incarichi ancora precedenti, espletati tra la data di entrata in vigore del d.l. 90/2014, convertito dalla l. n. 114/2014 (che con gli artt. 13 e 13-bis ha modificato gli artt. 92 e 93 del d.lgs. n. 163/2006) ed il ripetuto d.lgs. n. 50/2016.
In tale circostanza, la Sezione si è limitata a richiamare la
deliberazione 08.05.2009 n. 7 e deliberazione 24.03.2015 n. 11, della Sezione delle Autonomie, che avevano risolto i problemi di “diritto intertemporale” per gli incentivi in discorso, in ipotesi di norme disciplinanti diversamente la materia.
In tal senso la Sezione aveva dato per scontato che i regolamenti specificamente previsti dalle normative susseguitesi nel tempo potevano applicarsi (ratione temporis) agli incarichi previsti altrettanto specificamente dalle medesime disposizioni di riferimento, espletati nelle more dell’adozione dei regolamenti stessi (v. Sez. Reg. Controllo Umbria parere 17.01.2018 n. 3) .
5.1) – La più dettagliata articolazione della problematica illustrata nella richiesta di parere all’esame induce, ora, a precisare meglio la posizione di questa Sezione, circa l’applicabilità dei regolamenti che disciplinano gli incentivi di che trattasi anche agli incarichi espletati nelle more della loro adozione, ma comunque dopo l’entrata in vigore delle nuove norme primarie di riferimento.
5.2) – Come correttamente osservato dalla maggior parte delle Sezioni Regionali di controllo che si sono pronunciate in proposito, il “regolamento” previsto dalle varie disposizioni che si sono susseguite nel tempo sugli incentivi in argomento (v. da ultimo l’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016) rappresenta una “condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse […] del fondo” (v. testualmente Sezione Reg. Contr. Veneto parere 07.09.2016 n. 353 e, in termini, Sez. Reg. Controllo Lombardia parere 07.11.2017 n. 305, parere 12.06.2017 n. 191 e parere 09.06.2017 n. 185).
5.3) – Peraltro, la Sezione Regionale di Controllo Basilicata ha avuto modo di precisare che
il “regolamento”, quale “condizione” del diritto all’incentivo, non è una “condizione sospensiva del diritto a percepire l’incentivo maturato”, ma è un “elemento che concorre al formarsi della fattispecie complessa che dà luogo alla determinazione e liquidazione dell’incentivo stesso (v.
parere 08.03.2017 n. 7, paragrafo 5.2).
In questa ottica, se proprio si vuole continuare a parlare di “condizione”, deve essere chiaro che si è in presenza di una “condicio iuris”, ossia di un elemento normativo che concorre al perfezionamento della fattispecie produttiva del diritto all’incentivo.
5.4) – Così inquadrato il regolamento previsto dall’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, è evidente che esso si inserisce in tutte le fattispecie produttive del diritto all’incentivo che si correlano agli incarichi affidati ed espletati nella vigenza dell’appena citato decreto legislativo, anche a quelli conclusisi prima dell’adozione del ridetto regolamento.
5.5) – Nel tratteggiato contesto,
l’applicazione del regolamento di cui al richiamato art. 113 agli incentivi degli incarichi espletati prima della sua adozione (ma pur sempre dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016) non pone un problema di efficacia “retroattiva” del regolamento stesso, ma di concreto perfezionamento della fattispecie produttiva del diritto all’incentivo.
Da questo punto di vista, pertanto,
il Collegio ritiene di dover dissentire dalle valutazioni della Sezione Regionale di controllo Toscana, che ha affrontato l’argomento dell’efficacia dei regolamenti in discorso sul piano formale della irretroattività degli “atti amministrativi a contenuto normativo”, piuttosto che su quello sostanziale della funzione concretamente espletata per l’insorgenza del più volte menzionato diritto all’incentivo (v. parere 26.10.2017 n. 177).
6) –
Va da sé che il diritto all’incentivo ex art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 resta subordinato anche alla sussistenza di tutte le altre condizioni previste dal medesimo art. 113, comma 2, ivi compreso il relativo accantonamento, come fatto presente dallo stesso sindaco del Comune di Città di Castello, in una pacifica prospettazione, non oggetto di quesito (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 19.03.2018 n. 41).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni ex art. 110 TUEL e limiti lavoro flessibile.
Domanda
Poiché solo gli incarichi di cui all’art. 110 comma 1 del d.lgs. 267/2000 sono esclusi dal limite del lavoro flessibile previsto dall’art. 9 comma 28 del d.l. 78/2010, potreste spiegare, in sintesi, la differenza tra incarichi “in” e “fuori” della dotazione organica?
Risposta
L’assunzione ai sensi del comma 1 del d.lgs. 267/2000 è, a tutti gli effetti, sostitutiva di un’assunzione a tempo indeterminato, quindi per un posto “di ruolo”, cioè per una posizione che l’amministrazione ritiene strettamente necessaria per la conduzione degli ordinari servizi dell’ente. Di conseguenza i dirigenti/responsabili a tempo determinato delle strutture di massima dimensione dell’organigramma dell’ente non possono che essere assunti ai sensi del comma 1.
Al contrario le assunzioni di cui al comma 2, essendo previste al di fuori della ordinaria dotazione organica dell’ente, presuppongono un’esigenza straordinaria e temporanea che non necessariamente deve essere prevista nella dotazione.
Tipici esempi di assunzione extra-dotazionale sono quella del geologo che viene assunto per il tempo necessario per la redazione, adozione e approvazione degli strumenti di pianificazione urbanistica generale, ma di cui l’ente non ha necessità nell’ordinaria gestione delle pratiche edilizie, oppure lo specialista di gestione e rendicontazione dei fondi europei che viene assunto per il periodo di durata del progetto finanziato con tali fondi.
Per evitare spiacevoli inconveniente sull’assoggettabilità o meno al limite di cui all’art. 9, comma 28 (17.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Verifica requisiti e risorse avvalimento.
Domanda
In sede di gara, nel caso in cui un operatore partecipi ricorrendo all’istituto dell’avvalimento, come devono essere verificati i requisiti e le risorse che l’ausiliario mette a disposizione?
Risposta
Il quesito in oggetto riguarda un istituto, quello dell’avvalimento, che presenta evidenti problemi di carattere applicativo, sia per gli operatori, nonché per le Stazioni Appaltanti che in sede di gara devono valutare la correttezza formale e sostanziale della documentazione presentata.
Istituto, tra l’altro, particolarmente attenzionato da ANAC per l’anno in corso, come evidenziato nella Direttiva Programmatica sull’Attività di Vigilanza per il 2018 approvata dal Consiglio nella seduta del 14.03.2018, dove si legge […] che in relazione agli avvalimenti è stato rilevato un pressoché generale utilizzo dell’istituto in via astratta limitato ad un prestito meramente cartolare propedeutico alla partecipazione alle gare, non accompagnato da un concreto impiego in fase esecutiva delle risorse e dei mezzi facenti capo all’impresa ausiliaria, nonché nell’assenza di controlli da parte della stazione appaltante […].
Proprio per evitare il ricorso a queste forme di avvalimento e per consentire l’attività di controllo prevista dall’art. 89 del codice, il correttivo ha integrato l’ultimo periodo dell’art. 89, comma 1, del d.lgs. 50/2016 prevedendo […] “il contratto di avvalimento contiene, a pena di nullità, la specificazione dei requisiti forniti e delle risorse messe a disposizione dell’impresa ausiliaria”.
Al fine di verificare la correttezza della documentazione presentata dal concorrente che partecipa utilizzando tale forma di istituto, occorre in primo luogo stabilire se trattasi di avvalimento di “garanzia”, o c.d. “operativo”. Nella prima ipotesi rientrano quei requisiti che sono connotati dal carattere dell’immaterialità, ad esempio la solidità economica e finanziaria, per i quali parte della giurisprudenza ritiene che non sia necessaria la specificazione delle risorse gestionali e immateriali messe a disposizione.
Nel caso di avvalimento c.d. operativo è consolidato l’orientamento giurisprudenziale, da ultimo C.d.S. sez. V 12.03.2018 n. 1543, secondo il quale nelle gare pubbliche non può ritenersi valido ed efficace il contratto di avvalimento che si limiti ad indicare genericamente che l’impresa ausiliaria si obbliga nei confronti della concorrente a fornirle i propri requisiti e a mettere a sua disposizione le risorse necessarie, di cui essa è mancante, per tutta la durata dell’appalto, senza però in alcun modo precisare in che cosa tali risorse materialmente consistano.
Pertanto, la Stazione appaltante dovrà verificare, in base al caso specifico, che nel contratto di avvalimento (o quanto meno nella documentazione presentata, qualora parte dell’oggetto del contratto, pur non puntualmente determinato sia comunque agevolmente determinabile, C.d.S. a.p. del 04.11.2016 n. 23), siano specificati in modo dettagliato i mezzi e le risorse messe a disposizione, quali a titolo meramente esemplificativo:
   • attrezzature e/o mezzi e/o impianti;
   • risorse qualificate (personale) per consentire l’esecuzione della prestazione;
   • percorsi formativi specifici;
   • controlli periodici nella forma di visite, ispezioni, tutoraggio;
   • altri elementi capaciti, in base al caso specifico, di trasferire la propria esperienza.
Si ricordano gli obblighi di comunicazione in materia presso l’ANAC (16.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI FORNITURE: Acquisto di carburante per autotrazione al di fuori della convenzione Consip disponibile. Possibilità di far ricorso alla deroga di cui all’art. 1, comma 7, del DL 95/2012.
L’art. 1, comma 7, del DL 95/2012, obbliga le pubbliche amministrazioni ad utilizzare le convenzioni Consip per particolari categorie merceologiche di beni, ivi compresi i carburanti. Con successive modifiche, è stata inserita una deroga che consente alle pubbliche amministrazioni, qualora ricorrano determinate condizioni, di approvvigionarsi attraverso altre centrali di committenza o con procedure di evidenza pubblica.
Tuttavia, tale deroga è stata sospesa fino al 31 dicembre 2018 in virtù di quanto stabilito dalle leggi n. 208/2015 (art. 1, comma 494) e n. 205/2017 (art. 1, comma 417). Ne deriva che anche per l'esercizio 2018 non è consentito l’approvvigionamento di carburante al di fuori delle convenzioni messe a disposizione da Consip.

Il Comune deve avviare una procedura di affidamento della fornitura di carburante per autotrazione per i mezzi di proprietà comunale, essendo in scadenza l’attuale contratto. Alla luce del fatto che nel territorio comunale non vi sono distributori aderenti alla Convenzione Consip in essere, l’Ente chiede di sapere se sia possibile procedere all’affidamento della fornitura al di fuori di tale Convenzione facendo ricorso alla deroga prevista dall’art. 1, comma 7, terzo periodo, del DL 95/2012 (e, in caso affermativo, quali siano le corrette modalità di affidamento del servizio nonché di calcolo del prezzo base), ovvero se tale deroga sia attualmente sospesa in forza del seguente quinto periodo.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Per una approfondita disamina del quadro normativo relativo alle modalità di approvvigionamento di carburanti da parte delle pubbliche amministrazioni si rinvia ad un precedente parere
[1] reso dallo scrivente Servizio, già noto all’Ente instante.
Di conseguenza si forniranno qui di seguito soltanto gli elementi utili a comprendere se, allo stato attuale, vi sia la possibilità per le amministrazioni pubbliche di ricorrere a modalità di approvvigionamento del carburante diverse dalle convenzioni messe a disposizione da Consip.
Come noto, l’art. 1, comma 7, del decreto legge 06.07.2012, n. 95
[2], obbliga le pubbliche amministrazioni ad utilizzare le convenzioni Consip per particolari categorie merceologiche di beni, ivi compresi i carburanti. Tuttavia, negli anni seguenti, il legislatore ha deciso di intervenire sulla materia ammettendo alcune possibilità di deroga. Val la pena ricordare, in questa sede, le modifiche più recenti apportate al suddetto comma 7 dell’art. 1, intervenute per gli effetti delle ultime leggi di stabilità.
In particolare, l’art. 1, comma 494, della legge 28.12.2015, n. 208
[3], ha modificato
l’art. 1, comma 7, terzo periodo, del DL 95/2012, stabilendo che “È fatta salva la possibilità di procedere ad affidamenti, nelle indicate categorie merceologiche, anche al di fuori delle predette modalità, a condizione che gli stessi conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure di evidenza pubblica, e prevedano corrispettivi inferiori almeno (…) del 3 per cento per le categorie merceologiche carburanti extra-rete, carburanti rete (…) rispetto ai migliori corrispettivi indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip SpA e dalle centrali di committenza regionali (…)
[4].
Tuttavia, nella stessa sede, ha inserito anche un ulteriore periodo, il quinto, al comma 7 dell’art. 1, che recita: “Al fine di concorrere al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica attraverso una razionalizzazione delle spese delle pubbliche amministrazioni riguardanti le categorie merceologiche di cui al primo periodo del presente comma, in via sperimentale, dal 01.01.2017 al 31.12.2019 non si applicano le disposizioni di cui al terzo periodo del presente comma. (…)”.
Si tratta, in sostanza, di una sospensione della deroga appena ammessa, giustificata con la necessità di concorrere al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica attraverso una razionalizzazione delle spese delle pubbliche amministrazioni nelle categorie merceologiche già indicate.
Più di recente la norma è stata ulteriormente modificata, per opera dell’art. 1, comma 417, della legge 27.12.2017, n. 205
[5], che ha stabilito che il termine finale della sospensione della deroga sia anticipato al 31.12.2018.
Ne deriva che, come nell’esercizio 2017, anche nel 2018 le amministrazioni pubbliche dovranno necessariamente utilizzare le convenzioni Consip disponibili per gli approvvigionamenti di carburante e per le altre categorie merceologiche indicate dalla norma. Potranno invece utilizzare di nuovo altri strumenti (fra cui il ricorso al mercato), a far data dal 01.01.2019 (salvo nuove modifiche alla norma in parola).
In questo senso va interpretata anche la deliberazione n. 348/2017/PAR della Corte dei Conti del Veneto
[6], che ribadisce il divieto per le pubbliche amministrazioni, per gli esercizi 2017, 2018 [e 2019] [7], di sottrarsi al meccanismo delle convenzioni-quadro e stabilire un rapporto diretto con un fornitore, con le modalità stabilite nel terzo periodo del comma 7. Una volta trascorso il lasso temporale indicato, in cui la deroga è sospesa, le amministrazioni che lo vorranno, dopo averne accertate l’economicità e la convenienza, potranno procedere anche autonomamente, ma sempre con l’obbligo di individuare il fornitore mediante procedura di evidenza pubblica, secondo i principi generali e le modalità previste dalle norme citate [8].
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[1] Si tratta, nello specifico, del parere prot. n. 2510 del 17/03/2016. Nel parere si sosteneva la possibilità di procedere ad affidamenti che conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure ad evidenza pubblica (a condizione che gli stessi prevedano corrispettivi inferiori).
Tuttavia si ritiene doveroso segnalare che il parere è stato reso nel marzo 2016, e quindi in un momento in cui trovava applicazione la disposizione di cui al terzo periodo del comma 7 dell’art. 1 in esame, non essendo ancora in essere la sospensione dell’applicazione di tale norma derogatoria, che il quinto periodo del medesimo comma 7 faceva decorrere dall’01.01.2017 (si veda infra nel testo del presente parere).
[2] “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini.” Decreto legge convertito con modificazioni dalla L. 07.08.2012, n. 135.
[3] “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2016)”.
[4] Si ricorda che, l’art. 45, comma 1-bis, della legge regionale 12.12.2014, n. 26, ha disposto che “Ai sensi della disciplina statale in materia di centralizzazione della committenza, i soggetti di cui all'articolo 43 [compresi gli enti locali, ndr] sono obbligati ad aderire ai contratti quadro stipulati dalla Centrale unica di committenza regionale nei limiti della loro vigenza e fino alla concorrenza dell'importo massimo degli stessi.” Si rileva peraltro che allo stato attuale non risultano stipulati dalla Centrale unica di committenza regionale contratti quadro in relazione all’approvvigionamento di carburanti.
[5] “Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020”.
[6] L’Ente instante richiama un’altra deliberazione della Corte dei Conti, questa volta della sezione Friuli Venezia Giulia (n. 35/2016), nella quale i giudici contabili esprimevano un altro avviso. Si ritiene tuttavia che questa pronuncia non soccorra nel caso in esame, poiché la Corte del FVG si è espressa in un momento (gennaio 2016) in cui la sospensione, sebbene già prevista, non era ancora attiva, né lo sarebbe stata per tutto l’esercizio 2016, trovando infatti applicazione a far data dal 01.01.2017.
[7] Da intendersi 2017 e 2018, ai sensi della modifica successivamente operata dalla legge n. 205/2017.
[8] Si veda anche il commento alla deliberazione della Corte dei Conti veneta presente sul sito www.segretaricomunalivighenzi.it. Qui si osserva come la sezione Veneto motivi tale conclusione “in virtù dell’ossequio alla normativa di legge, chiara sul punto, ma che si giustifica a ragione del carattere di sperimentalità della disapplicazione della deroga, che serve appunto al legislatore per valutare dati alla mano se l’adesione al Mepa e alle convenzioni Consip effettivamente consente un risparmio su tutto il territorio nazionale ovvero se, come nel caso segnalato alla sezione Veneto, l’acquisto in autonomia –a maggior ragione se attivato con procedure ad evidenza pubblica– consente risparmi anche molto consistenti”
(15.05.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblicazione dati su performance.
Domanda
Nell’ambito della sezione Amministrazione trasparente > Performance è prevista la pubblicazione sia del Piano della performance che della Relazione sulla performance. Siamo un comune con meno di 5.000 abitanti.
L’obbligo vale anche per il nostro ente?
Risposta
Per poter rispondere al quesito occorre mettere assieme un po' di norme legislative e (tentare di) ricostruire il quadro complessivo.
La prima disposizione da tenere a mente è l’art. 10 del d.lgs. 150/2009 (cd: decreto Brunetta), rubricato “Piano della performance e Relazione sulla performance” che prevede l’obbligo di dotarsi del Piano e della Relazione, per tutte le pubbliche amministrazioni. Nella medesima disposizione, va considerato, però, l’art. 16 che determina gli articoli per i quali gli enti locali dovevano “adeguare i proprio ordinamenti”. Tra gli articoli citati (comma 2) non compare l’articolo 10, quindi, l’obbligo –a novembre 2009, data di entrata in vigore del decreto Brunetta– non era immediatamente applicabile alle autonomie locali.
Sempre nell’articolo 10, al comma 1-bis, di recente inserito dall’art. 8, comma 1, lettera d), d.lgs. 25.05.2017, n. 74 (decreto Madia), si prevede che:
   1-bis. Per gli enti locali, ferme restando le previsioni di cui all’articolo 169, comma 3-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, la Relazione sulla performance di cui al comma 1, lettera b), può essere unificata al rendiconto della gestione di cui all’articolo 227 del citato decreto legislativo.
Di rilievo, sempre nell’art. 10, del d.lgs. 150/2009, vi è anche il comma 5, che recita:
   5. In caso di mancata adozione del Piano della performance è fatto divieto di erogazione della retribuzione di risultato ai dirigenti che risultano avere concorso alla mancata adozione del Piano, per omissione o inerzia nell’adempimento dei propri compiti, e l’amministrazione non può procedere ad assunzioni di personale o al conferimento di incarichi di consulenza o di collaborazione comunque denominati.
Un’altra norma che deve essere considerata è l’articolo 169, del TUEL 18.08.2000, n. 267, rubricato “Piano Esecutivo di Gestione”, che, al comma 3-bis, prevede:
   3-bis. Il PEG è deliberato in coerenza con il bilancio di previsione e con il documento unico di programmazione. Al PEG è allegato il prospetto concernente la ripartizione delle tipologie in categorie e dei programmi in macroaggregati, secondo lo schema di cui all’allegato n. 8 al d.lgs. 118/2011 e successive modificazioni. Il piano dettagliato degli obiettivi di cui all’art. 108, comma 1, del presente testo unico e il piano della performance di cui all’art. 10 del d.lgs. 150/2009, sono unificati organicamente nel PEG.
Per complicarla ancora un po’, va ricordato che il comma 3, del medesimo articolo, prevede che l’applicazione dei commi 1 e 2 era facoltativa per gli enti locali con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti (prima, tale limite, era fissato a 15.000 ab.), fermo restando gli altri obblighi da assolvere.
Infine, va ricordato l’articolo 10, del d.lgs. 14.03.2013, n. 33 (cd: decreto Trasparenza) che, al comma 8, dispone quanto segue:
   8. Ogni amministrazione ha l’obbligo di pubblicare sul proprio sito istituzionale nella sezione: «Amministrazione trasparente» di cui all’art. 9:
a) il Piano triennale per la prevenzione della corruzione;
b) il Piano e la Relazione di cui all’art. 10 del d.lgs. 150/2009;
c) i nominativi ed i curricula dei componenti degli organismi indipendenti di valutazione di cui all’art. 14 del d.lgs. 150/2009.

Ricostruito il –non facile– quadro normativo, riassuntivamente, si ritiene di condividere le conclusioni a cui è pervenuta la Corte dei conti – Sezione regionale di controllo per la Sardegna, con la deliberazione n. 1/2018/PAR del 09.01.2018, con la quale si sostiene che:
   a) anche i Comuni inferiori ai 5 mila abitanti, pur non essendo tenuti all’adozione del PEG, devono redigere il piano delle Performance;
   b) data la ridotta dimensione dell’ente, che comporta una minima dotazione di personale e spazi angusti nella programmazione della spesa, si tratta di una programmazione minimale, ma comunque necessaria in quanto le norme in materia non hanno previsto aree di esenzione;
   c) L’adozione del piano, per tutti gli enti locali, è condizione necessaria per l’esercizio della facoltà assunzionale negli esercizi finanziari a venire. Inoltre “l’assegnazione, in via preventiva di precisi obiettivi da raggiungere e la valutazione successiva del grado di raggiungimento degli stessi rappresentano una condizione indispensabile per l’erogazione della retribuzione di risultato” (Sez. controllo Veneto, deliberazione n. 161/PAR/2013; Sez. controllo Puglia, deliberazione n. 123/PAR/2013 e 15/PAR/2016);
   d) L’eventuale accertamento della mancata adozione del Piano della Performance (e del Peg per i Comuni superiori ai 5.000 abitanti), può comportare, inoltre, il divieto di erogazione della retribuzione di risultato ai dirigenti che ne risultino responsabili.
In definitiva, la risposta al quesito è affermativa, specificando che la Relazione sulla Performance, può anche essere unificata, approvandola contestualmente, al rendiconto della gestione, di cui all’articolo 227 del TUEL 267/2000.
Il Piano e la Relazione andranno, poi, tempestivamente, pubblicati nel sito web istituzionale, al link: Amministrazione trasparente > Performance > Piano della performance e Relazione sulla performance, come stabilito nel nuovo “Albero della Trasparenza”, approvato, nell’allegato 1, della deliberazione ANAC n. 1310 del 28.12.2016, recante “Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni contenute nel d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016″ (15.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Incarico art. 90 personale quiescenza.
Domanda
È possibile conferire un incarico ai sensi dell’art. 90 del d.lgs. 267/2000 ad un soggetto in pensione?
Risposta
L’oggetto del quesito è quanto mai complesso, a seguito della stratificazione di norme e di interpretazioni giuridiche, che si sono succedute nel tempo in materia di conferimento di incarichi a personale in quiescenza.
Chiarito ciò, quella che segue, è la nostra posizione, scaturente dalla lettura della norma (art. 5, comma 9, d.l. 95/2012, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135) e dalla rigorosa applicazione dell’articolo 12 delle pre-leggi del codice civile, nell’ambito del principio di “prudenza”.
Il conferimento di un incarico, ai sensi dell’art. 90 del TUEL 18.08.2000, n. 267, a personale in quiescenza, è da ritenersi conferibile, a condizione che l’incarico medesimo non abbia ad oggetto e non preveda nella realtà fattuale, l’espletamento di funzioni direttive o dirigenziali né attività di studio o di consulenza.
In tal senso è bene che nell’atto di conferimento dell’incarico venga specificata, con adeguata motivazione, la natura stessa dell’incarico che sarà previsto in una struttura autonoma posta alle dirette dipendenze del Sindaco, con finalità di supporto, raccordo e collaborazione al Sindaco ed eventualmente alla Giunta e agli assessori, escludendo qualsiasi svolgimento di attività direttiva o dirigenziale che possa, in qualche modo, essere ricompresa tra le attività gestionali delle varie strutture apicali presenti nell’ente. Analoga esclusione dovrà essere prevista per le attività di studio e consulenza.
Con le siffatte caratteristiche, l’incarico potrà essere anche di natura retribuita, secondo le specifiche disposizioni contenute nei commi 2 e 3 del citato art. 90 TUEL.
In pratica, alla luce delle disposizioni di legge, si ritiene di aderire all’interpretazione fornita dal parere 23.03.2016 n. 27 della Corte dei conti, sezione regionale per la Liguria (10.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi codice contratti.
Domanda
Alla luce della modifica dell’articolo 113 del codice dei contratti intervenuta con la legge di bilancio per il 2018 (comma 5-bis dell’articolo del codice) secondo cui “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”, si può fondatamente ritenere che tali compensi non debbano più “sottostare” ai vincoli di spesa previsti per il trattamento accessorio dei dipendenti?
Risposta
La questione della qualificazione degli incentivi per funzioni tecniche (ex progettazione) di cui ora all’articolo 113 del nuovo codice dei contratti è risultata immediatamente dibattuta considerata la sostanziale differenza rispetto al dettato delle norme pregresse contenute nel decreto legislativo 163/2006.
Dopo alterne interpretazioni, la sezione plenaria della Corte dei Conti (con le deliberazioni, per ciò che in questa sede interessa, nn. 7 e 24/2017) ha ribadito la sostanziale natura di spese di funzionamento ed in quanto tali, semplificando, soggette ai limiti/vincoli di contenimento delle spese previste per il trattamento accessorio dei dipendenti.
Circostanza, evidentemente, che ha creato (per il 2016) il non irrilevante problema di assicurare sia il pagamento degli incentivi (maturati) sia della produttività “generale” dei dipendenti restando nei limiti di importo pregresso dell’accessorio.
Per effetto delle problematiche in argomento, con la legge di bilancio per il 2018 (legge 205/2017) è stato innestato uno specifico comma 5-bis nell’articolo 113 la cui interpretazione, in realtà (come ammette la recentissima sezione delle Autonomie con la delibera n. 6/2018 che risolve definitivamente il problema, come si vedrà), non è risultata pacifica.
In particolare, dubbi sono stati espressi dalla sezione regionale della Lombardia (con la delibera 40/2018) e con la deliberazione della sezione regionale della Puglia (con la delibera 9/2018) che hanno rimesso la questione interpretativa della nuova norma alla sezione delle Autonomie.
Sezione, che proprio con la deliberazione n. 6/2018 ha definitivamente risolto la problematica affermando la “Gli incentivi per le funzioni tecniche (…) devono ritenersi non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Le argomentazioni, varie, poggiano su alcune considerazioni specifiche: in primo luogo lo stesso intervento del legislatore che altro fine non dovrebbe avere se non quello di fornire un definitivo chiarimento (peraltro ancora criptico); in secondo luogo il fatto che gli stessi incentivi soggiacciono già ad una serie di limiti autonomi (la misura del 2% dell’importo posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente) per cui risulta difficile un pericolo di “espansione” incontrollata.
Ulteriore aspetto, poi, rilevato immediatamente dai primi commentatori –come puntualizzato invero già dalla sezione regionale della Lombardia (con la delibera n. 40/2018)-, è che gli incentivi per le funzioni tecniche sono, “per loro natura, estremamente variabili nel corso del tempo e, come tali, difficilmente assoggettabili a limiti di finanza pubblica a carattere generale, che hanno come parametro di riferimento un predeterminato anno base (qual è anche l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017). Il riferimento, infatti, ad un esercizio precedente diviene, in modo del tutto casuale, favorevole o penalizzante per i dipendenti dei vari enti pubblici”.
Pertanto, si ritiene di poter rispondere positivamente al quesito per i recentissimi chiarimenti espressi dalla Sezione Autonomie (09.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Criteri pubblicazione dati e sanzioni.
Domanda
Dove possiamo trovare dei riferimenti certi per sapere cosa possiamo o non possiamo pubblicare su Albo pretorio on-line e su Amministrazione trasparente, senza rischio di incorrere nelle pesanti sanzioni irrogate dal Garante privacy?
Risposta
La questione di compatibilità tra il diritto alla conoscibilità dell’organizzazione e delle attività delle pubbliche amministrazioni (disciplinato da ultimo dal d.lgs. 33/2013) e la tutela dei dati personali delle persone fisiche, è, e resta, una delle vicende più controverse della nostra legislazione. I due diritti, spesso, sono confliggenti e compete agli “operatori del settore” trovare una non facile linea di comportamento che renda conciliabili il diritto alla conoscenza e il diritto alla tutela dei dati.
Il documento più importante che possiamo citare, per provare a dirimere l’annoso conflitto tra trasparenza e privacy, è un atto del Garante Privacy italiano, datato 15.05.2014, recante “Linee guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri enti obbligati” (Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 134 del 12.06.2014).
Il documento nasce dall’esigenza di “individuare un quadro organico e unitario di garanzie finalizzato a indicare apposite cautele in relazione alle ipotesi di diffusione di dati personali mediante la pubblicazione sui siti web da parte di organismi pubblici e in particolare di quelli chiamati a dare attuazione al d.lgs. n. 33/2013”.
I principi generali e le indicazioni più importanti contenute nel documento sono, sinteticamente, le seguenti:
   a) occorre pubblicare solo dati esatti, aggiornati e contestualizzati;
   b) per gli atti che contengono dati personali, verificare, prima della pubblicazione, l’esistenza di una norma di legge o di regolamento che ne preveda l’obbligo;
   c) è vietata la pubblicazione di dati sulla SALUTE e sulla VITA SESSUALE delle persone. Gli altri DATI SENSIBILI possono essere diffusi solo laddove indispensabili al perseguimento delle finalità di rilevante interesse pubblico;
   d) qualora si intenda pubblicare dati personali ulteriori rispetto a quelli previsti nel d.lgs. 33/2013, occorre procedere all’anonimizzazione dei dati, evitando soluzioni che consentano l’identificazione dell’interessato.
Con riferimento alla precedente lettera b), va specificato che per la pubblicazione di dati sensibili e giudiziari, occorre sempre verificare l’esistenza di una norma di legge (nazionale o regionale), non essendo più sufficiente la sola previsione regolamentare.
Una volta definita la qualificazione del dato personale –dato comune, sensibile o giudiziario– occorre rispettare i seguenti principi:
PER I DATI COMUNI, indicati all’articolo 4, comma 1, lettera b), del d.lgs. 196/2003, si applica il principio di pertinenza e non eccedenza, che significa che gli enti non possono rendere intellegibili i dati personali non necessari, eccedenti o non pertinenti con le finalità di pubblicazione.
PER I DATI GIUDIZIARI, indicati all’articolo 4, comma 1, lettera e), del d.lgs. 196/2003, i medesimi possono essere diffusi solo se indispensabili per raggiungere le finalità di pubblicazione.
PER I DATI SENSIBILI, indicati all’articolo 4, comma 1, lettera d), del d.lgs. 196/2003, gli stessi, possono essere diffusi solo se indispensabili per raggiungere le finalità di pubblicazione (sempre in presenza di una norma specifica che ne imponga la pubblicazione).
Una forma particolare di tutela esiste per due dati sensibili: la vita sessuale e la salute: i cosiddetti “dati ultrasensibili”.
Per la vita sessuale esiste un divieto assoluto di diffusione per finalità di trasparenza. Per altre finalità i dati possono essere diffusi solo se indispensabili.
Per i dati riferiti alla salute della persona, il divieto di pubblicazione è assoluto, senza alcuna deroga o eccezione.
Nell’elenco che segue, vengono riassunte le tre tipologie di dati e le possibilità di diffusione via web (Albo pretorio e Amministrazione trasparente):
   •
DATI COMUNI (serve una norma di legge o di regolamento)
Nome e cognome, sesso, stato civile, data e luogo di nascita, indirizzo, codice fiscale, e-mail, telefono, titolo di studio, professione, ISEE, IBAN, eccetera.
   •
DATI SENSIBILI (solo norma di legge)
Razza, etnia, convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, opinioni politiche, adesione a sindacati, partiti o associazioni a carattere filosofico, politico, sindacale; SALUTE E VITA SESSUALE
   •
DATI GIUDIZIARI (solo norma di legge)
Dati idonei a rilevare provvedimenti in materia di casellario giudiziale, anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e relativi carichi pendenti, o la qualità di imputato o di indagato (08.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sindaco rieletto. Aspettativa.
Il sindaco rieletto è tenuto a presentare una rinnovata istanza per il collocamento in aspettativa ex art. 81 del d.lgs. 267/2000, attesa la stretta connessione tra espletamento del singolo mandato elettivo e la facoltà, per il lavoratore dipendente, di richiedere detta aspettativa.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine all’aspettativa spettante al Sindaco ai sensi dell’art. 81 del d.lgs. 267/2000.
In particolare, l’Ente pone la questione se la domanda di collocamento in aspettativa per l’espletamento del mandato, da parte del Sindaco, lavoratore dipendente presso un’azienda privata, debba essere ripresentata in caso di rielezione al secondo mandato. L’Amministrazione istante ritiene che la disposizione legislativa in argomento, nello specifico la locuzione “per tutto il periodo di espletamento del mandato” debba essere interpretata con riferimento al singolo mandato. Conseguentemente è dell’avviso che l’interessato, Sindaco rieletto, debba presentare una nuova istanza per il collocamento in aspettativa per il secondo mandato elettivo.
Nel ritenere condivisibile l’orientamento esposto dal Comune, si esprimono le seguenti considerazioni.
Com’è noto, l’art. 81, comma 1, del d.lgs. 267/2000 dispone che i sindaci, i presidenti delle province, i presidenti dei consigli comunali e provinciali, i presidenti dei consigli circoscrizionali, i presidenti delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché i membri delle giunte di comuni e province, che siano lavoratori dipendenti, possono essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita per tutto il periodo di espletamento del mandato.
La ratio della citata norma consiste nella tutela espressamente riconosciuta dal legislatore all’amministratore locale, finalizzata a rendere concreto il precetto di cui all’art. 51, terzo comma, della Costituzione, che fa salvo il diritto di chi è chiamato a svolgere funzioni pubbliche elettive di disporre del tempo necessario al loro ottimale adempimento, conservando al contempo il posto di lavoro.
La giurisprudenza civilistica ha affermato che l’aspettativa in argomento ha lo scopo di rendere compatibile, per i lavoratori chiamati a funzioni pubbliche, l’espletamento di tali funzioni con la condizione di prestatore di lavoro subordinato
[1].
Premesso un tanto, con specifico riferimento alla durata del mandato, si rappresenta che l’art. 4, comma 1, della l.r. 19/2013 prevede che il Sindaco duri in carica per un periodo di cinque anni
[2].
La giustizia amministrativa
[3] ha affermato in proposito che, sebbene il TUEL non contenga un’espressa previsione in ordine al momento in cui entra in carica il Sindaco, non è contestabile che l’organo monocratico di vertice dell’ente locale si insedi immediatamente, per effetto della proclamazione dell’avvenuta elezione consacrata nell’apposito verbale dell’ufficio elettorale centrale e che, nel medesimo istante, cessi il mandato del predecessore [4].
E’ da considerare parimenti che il Sindaco è abilitato a compiere tutti gli atti di competenza e assume tutte le funzioni fino dal momento della proclamazione.
Pertanto, la circostanza che ad essere rieletto Sindaco sia la medesima persona
[5] appare ininfluente ai fini della fissazione dei termini di cessazione del mandato precedente e ai fini della determinazione dell’inizio del mandato elettivo successivo, in quanto è determinante l’intervenuto rinnovo degli organi amministrativi comunali.
Si noti inoltre come il legislatore, sia statale che regionale
[6], nel disciplinare la rieleggibilità alla medesima carica nello stesso ente, abbia introdotto delle particolari limitazioni riferite all’aver ricoperto, per due mandati consecutivi, la carica di sindaco. La formulazione della norma richiama espressamente la fattispecie del “secondo mandato”, a rafforzare il convincimento secondo cui ogni singolo mandato è distinto dal precedente e dal successivo, a prescindere dal soggetto che ricopre la carica elettiva [7].
Si ravvisa, pertanto una stretta connessione tra espletamento del singolo mandato elettivo e la facoltà, per il lavoratore dipendente eletto, di richiedere il collocamento in aspettativa per l’espletamento di dette funzioni.
A tal fine, quindi, il Sindaco rieletto è tenuto a presentare una rinnovata istanza, correlata al mandato conseguente alla nuova tornata elettorale.
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[1] Cfr. Cass. Civile, sentenza n. 21396 del 05.10.2006.
[2] Tale durata si riferisce alla scadenza naturale del mandato e può essere ridotta nelle ipotesi di cessazione anticipata dalla carica contemplate nella legislazione vigente. Si fa infatti riferimento, nelle due diverse fattispecie, a ipotesi di “mandato pieno” o a “mandato con durata ridotta”.
[3] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 4694 del 2006.
[4] Cfr. anche L’ordinamento locale nel Friuli Venezia Giulia, Vademecum sui principali aspetti di interesse per gli amministratori locali, pag. 21 e circolare n. 14/EL del 06.06.2016 del Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale della Direzione centrale autonomie locali e coordinamento delle riforme, in cui si sottolinea che con la proclamazione degli eletti cessano dalla carica i consiglieri uscenti, il Sindaco uscente e la Giunta nominata dallo stesso.
[5] Il Sindaco uscente potrebbe anche non ricandidarsi.
[6] Cfr. art. 4, comma 2, della l.r. 19/2013.
[7] Si pensi inoltre anche ai vari adempimenti previsti dal legislatore e connessi alla durata dei singoli mandati: la relazione di inizio e fine mandato, l’indennità di fine mandato, prevista al temine dell’incarico amministrativo
(04.05.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Differenze reclutamento ex art. 110.
Domanda
Poiché solo gli incarichi di cui all’art. 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000 sono esclusi dal limite del lavoro flessibile previsto dall’art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010, potreste spiegare, in sintesi, la differenza tra incarichi “in” e “fuori” della dotazione organica?
Risposta
L’assunzione ai sensi del comma 1 del d.lgs. 267/2000 è, a tutti gli effetti, sostitutiva di un’assunzione a tempo indeterminato, quindi per un posto “di ruolo”, cioè per una posizione che l’amministrazione ritiene strettamente necessaria per la conduzione degli ordinari servizi dell’ente. Di conseguenza i dirigenti/responsabili a tempo determinato delle strutture di massima dimensione dell’organigramma dell’ente non possono che essere assunti ai sensi del comma 1.
Al contrario le assunzioni di cui al comma 2, essendo previste al di fuori della ordinaria dotazione organica dell’ente, presuppongono un’esigenza straordinaria e temporanea che non necessariamente deve essere prevista nella dotazione. Tipici esempi di assunzione extra-dotazionale sono quella del geologo che viene assunto per il tempo necessario per la redazione, adozione e approvazione degli strumenti di pianificazione urbanistica generale, ma di cui l’ente non ha necessità nell’ordinaria gestione delle pratiche edilizie, oppure lo specialista di gestione e rendicontazione dei fondi europei che viene assunto per il periodo di durata del progetto finanziato con tali fondi.
Per evitare spiacevoli inconveniente sull’assoggettabilità o meno al limite di cui all’art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010 suggeriamo, pertanto, un’attenta analisi della specifica situazione di volta in volta (03.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Possibilità deroga linee guida ANAC.
Domanda
Durante la programmazione dell’attività contrattuale, nella nostra stazione appaltante si sono sollevate alcune questioni circa la possibilità (o meno) di non applicare integralmente le linee guida ANAC ed i bandi tipo.
Considerato che nel caso di specie le linee guida interessate (in particolare le linee guida n. 2 e le linee guida n. 4) non sono vincolanti –ed allo stesso modo, riteniamo, debbono essere qualificati i bandi tipo– si chiede di conoscere in che modo occorre procedere.
Risposta
La questione della deroga, rispetto alle linee guida ed ai bandi tipo, risulta –oggettivamente– di grande importanza pratica soprattutto in relazione sia alla “legittimità” di tali comportamenti sia in relazione all’intensità di eventuali vincoli imposti dai documenti dell’ANAC.
In primo luogo, non si ritenga superfluo rilevare che gli atti prodotti dall’Autorità anticorruzione –evidentemente– non assurgono ad atti con valenza normativa né regolamentare. E’ ben vero però, come anche sostenuto da recentissima giurisprudenza, che il legislatore ha intenso individuare un “soggetto” a cui affidare compiti di controllo, monitoraggio e indirizzo dell’attività contrattuale. E di quanto la stazione appaltante –e meno che mai i RUP– può prescindere.
Si pensi, solamente per tacer d’altro, alla fondamentale funzione di stabilire la disciplina di dettaglio (in tema di RUP od offerta economicamente più vantaggiosa) o addirittura agli autentici compiti attuativi di norme codicistiche (l’istituzione e la disciplina dell’albo dei commissari di gara).
Analoghe considerazioni possono essere espresse in relazione ai bandi tipo. Ora, pur vero che la produzione degli atti/documenti appena citati si situa a livello di atti amministrativi è altrettanto vero che tali documenti contengono dei modelli virtuosi proposti (e ad uso) alle (delle) stazioni appaltanti.
Questo significa, ovviamente, che il RUP ad essi si deve attener nella sua attività istruttoria di proposizione delle proposte della legge speciale di gara.
Problemi operativi pone l’eventuale scostamento.
In primo luogo, l’eventuale proposta di deroga deve avere ad oggetto –ammesso che sia possibile– un modello maggiormente virtuoso (in termini di trasparenza, oggettività, lealtà amministrativa) rispetto a quelli proposti dall’autorità anticorruzione.
Sembra chiaro, infatti, annotare che modelli più restrittivi (nei confronti della concorrenza, della trasparenza, della correttezza) si scontrano prima ancora che con i documenti ANAC con lo stesso dato legislativo.
In ogni caso, la possibilità di scostamento dalle linee guida –e dai bandi tipo– è ammessa dalla stessa Autority ma occorre una congrua motivazione.
Lo scostamento senza motivazione integra infatti –secondo la recente giurisprudenza– la peculiare fattispecie di vizio di legittimità dell’eccesso di potere rendendo gli atti adottati dalla stazione appaltante illegittimi. In questo senso, ha avuto modo di esprimersi la recente sentenza del Tar Abruzzo, Pescara, sez. I, n. 125/2018.
Pertanto, ed infine, alla domanda se la “deroga” alle indicazioni dell’ANAC sia o meno possibile si ritiene di poter rispondere positivamente fermo restando l’esigenza di una adeguata motivazione che, ovviamente, andrà inserita nella determinazione a contrattare.
È bene, comunque, che il margine di deroga abbia una disciplina “regolamentare” della stazione appaltante per evitare che i vari RUP (o dirigenti/ responsabili di servizi) agiscano in modo anarchico e personale nella predisposizione degli atti di gara (02.05.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI SERVIZI: Affidamento della realizzazione di un evento.
   1) Per le acquisizioni di servizi di importo pari o superiore a 1.000 euro e inferiore alla soglia comunitaria le PP.AA. sono tenute a fare ricorso al MePA o ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi dell’art. 328, c. 1, del D.P.R. 207/2010, ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure.
   2) Il principio di rotazione si applica con riferimento all’affidamento immediatamente precedente, nei casi in cui quest’ultimo e l’attuale affidamento abbiano ad oggetto una commessa rientrante nello stesso settore di servizi, e comporta, di norma, il divieto di invito a procedure dirette all’assegnazione di un appalto, nei confronti del contraente uscente e dell’operatore economico invitato e non affidatario nel precedente affidamento.
   3) Negli affidamenti diretti di importo superiore a 20.000 euro la stazione appaltante, prima di stipulare il contratto, verifica che l’aggiudicatario sia in possesso dei requisiti di carattere generale di cui all’art. 80 del D.Lgs. 50/2016 e di quelli speciali, se previsti, nonché delle condizioni soggettive che la legge prevede per l’esercizio di particolari professioni o l’idoneità a contrarre con la P.A. in relazione a specifiche attività.

Il Comune, che intende affidare direttamente l’organizzazione di un evento, di valore stimato nell’importo massimo di 30.000 euro, chiede di conoscere quale sia la migliore procedura da adottare, alla luce di quanto previsto dal decreto legislativo 18.04.2016, n. 50
[1] e dalle linee guida n. 4 [2], emanate dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC).
In particolare, l’Ente pone le seguenti questioni:
   - se sia obbligatorio reperire il contraente attraverso il Mercato elettronico della Pubblica Amministrazione (MePA) ed, in caso affermativo, se si possa procedere a trattativa diretta con un unico operatore, a partire da un metaprodotto “evento analogo”;
   - qualora non sussista l’obbligo di ricorso al MePA, come si possa identificare il soggetto eventualmente interessato a realizzare il servizio;
   - se il principio di rotazione implichi che si debba tener conto solo dell’ultimo affidamento disposto a favore di una determinata ditta;
   - quali siano i controlli assolutamente necessari da eseguire prima di procedere all’affidamento.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa Direzione centrale si esprimono le seguenti considerazioni.
Occorre, anzitutto, ricordare che l’attività di consulenza giuridico-amministrativa alla quale è preposto questo Ufficio è finalizzata a fornire un’illustrazione degli istituti giuridici nell’ambito dei quali sono riconducibili le specifiche fattispecie prospettate, fermo restando che compete all’amministrazione procedente determinarsi in ordine alle scelte concrete da adottare caso per caso.
Un tanto premesso si rappresenta, anzitutto, che per gli acquisti di servizi di importo pari o superiore a 1.000 euro e inferiore alla soglia di rilievo comunitario le pubbliche amministrazioni sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione o ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi dell’articolo 328, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure (articolo 1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296).
I contratti stipulati in violazione dell’obbligo sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa (articolo 1, comma 1, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95
[3]).
È, comunque, possibile effettuare l’acquisizione sul mercato libero qualora il servizio non sia disponibile sul MePA o, pur essendo disponibile, esso risulti –per mancanza di qualità essenziali– inidoneo rispetto alle necessità dell’amministrazione procedente.
Le predette disposizioni rimangono pienamente cogenti anche dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 50/2016, stante il combinato disposto dei suoi articoli 36 e 37.
L’articolo 36
[4] del D.Lgs. 50/2016, dopo aver previsto che l’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria avvengono nel rispetto, tra gli altri, del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti (comma 1), sancisce che «Fermo restando quanto previsto dagli articoli 37 [5] e 38 [6]» e fatta salva la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie, le stazioni appaltanti procedono agli affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro, mediante affidamento diretto, anche senza previa consultazione di due o più operatori economici [comma 2, lettera a)].
L’articolo 37 del D.Lgs. 50/2016 dispone che «fermi restando gli obblighi di utilizzo di strumenti di acquisto e di negoziazione, anche telematici, previsti dalle vigenti disposizioni in materia di contenimento della spesa», le stazioni appaltanti possono procedere direttamente e autonomamente all’acquisizione di servizi di importo inferiore a 40.000 euro, nonché attraverso l’effettuazione di ordini a valere su strumenti di acquisto messi a disposizione dalle centrali di committenza e dai soggetti aggregatori (comma 1, primo periodo).
La predetta impostazione trova conferma nelle linee guida ANAC n. 4 laddove, dopo aver rilevato che «Restano fermi gli obblighi di utilizzo di strumenti di acquisto (di cui all’articolo 3, comma 1, lettera cccc) del Codice dei contratti pubblici) e di negoziazione (di cui all’articolo 3, comma 1, lettera dddd) del Codice dei contratti pubblici), anche telematici, previsti dalle vigenti disposizioni in materia di contenimento della spesa nonché la normativa sulla qualificazione delle stazioni appaltanti e sulla centralizzazione e aggregazione della committenza», viene chiarito che per il ricorso a tali strumenti «si applicano le medesime condizioni di trasparenza, pubblicità e motivazione» descritte nelle stesse linee guida (paragrafo 1.3).
Quanto al quesito concernente la possibilità di procedere a trattativa diretta con un unico operatore, a partire da un metaprodotto “evento analogo” –che, come chiarito dall’Ente per le vie brevi, deve intendersi quale richiesta di supporto alla procedura in considerazione dell’attuale irreperibilità sul MePA di “metaprodotti”– si rappresenta che, per valutare la disponibilità del bene/servizio da acquisire, occorre fare riferimento alla descrizione relativa alla voce “tipologia di bene/servizio”, inserita nell’ambito della più generale “categoria merceologica” dei bandi di abilitazione degli operatori economici.
Circa il quesito volto a chiarire la portata del principio di rotazione, si segnala che la questione viene affrontata ai paragrafi 3.6 e 3.7 delle linee guida ANAC, nei quali viene precisato, in particolare, che il principio:
   - si applica «con riferimento all’affidamento immediatamente precedente a quello di cui si tratti, nei casi in cui i due affidamenti, quello precedente e quello attuale, abbiano ad oggetto una commessa rientrante […] nello stesso settore di servizi» (paragrafo 3.6, primo periodo);
   - «comporta, di norma, il divieto di invito a procedure dirette all’assegnazione di un appalto, nei confronti del contraente uscente e dell’operatore economico invitato e non affidatario nel precedente affidamento» (paragrafo 3.6, secondo periodo);
   - «Fermo restando quanto previsto al paragrafo 3.6, secondo periodo, il rispetto del principio di rotazione degli affidamenti e degli inviti fa sì che l’affidamento o il reinvito al contraente uscente abbiano carattere eccezionale e richiedano un onere motivazionale più stringente» (paragrafo 3.7, primo periodo).
Relativamente ai controlli necessari da eseguire prima di procedere all’affidamento del servizio occorre segnalare che l’articolo 36, comma 6-bis, del D.Lgs. 50/2016, trattando degli affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro che avvengono nei mercati elettronici, chiarisce che la verifica sull’assenza dei motivi di esclusione di cui all’articolo 80 dello stesso decreto è effettuata su un campione significativo “in fase di ammissione e di permanenza
[7], dal soggetto responsabile dell’ammissione al mercato elettronico e stabilisce che «Resta ferma la verifica sull’aggiudicatario ai sensi del comma 5».
Il predetto comma 5 dispone che, qualora la stazione appaltante abbia fatto ricorso alle procedure negoziate di cui al comma 2, la verifica (del possesso) dei requisiti (quelli di ordine generale, necessari per poter contrarre con la pubblica amministrazione) avviene sull’aggiudicatario; la stazione appaltante verifica anche il possesso dei requisiti economici e finanziari e tecnico professionali eventualmente previsti.
A tale riguardo si segnala che le linee guida ANAC, trattando degli affidamenti diretti per importi superiori a 20.000 euro, prevedono che «la stazione appaltante, prima di stipulare il contratto, nelle forme di cui all’articolo 32, comma 14, del Codice dei contratti pubblici, procede alle verifiche del possesso dei requisiti di carattere generale di cui all’articolo 80 del Codice dei contratti pubblici e di quelli speciali, se previsti, nonché delle condizioni soggettive che la legge stabilisce per l’esercizio di particolari professioni o l’idoneità a contrarre con la P.A. in relazione a specifiche attività» (paragrafo 4.2.4).
Infine, relativamente al capitolato concernente l’organizzazione dell’evento oggetto di quesito si segnala, in via collaborativa, che:
   - ai sensi dell’articolo 3[8], comma 1, lettera ff)
[9] e dell’articolo 35 [10], comma 4, primo periodo [11], del D.Lgs. 50/2016, il valore dell’appalto deve essere indicato al netto dell’imposta sul valore aggiunto (IVA);
   - nell’affidamento diretto, il ricorso al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa si pone come eccezione, risultando priva di utilità la previsione di criteri di attribuzione del punteggio in presenza di un solo interlocutore. Inoltre, l’articolo 95
[12], comma 3, lett. c) [13], del D.Lgs. 50/2016 consente di utilizzare il criterio del minor prezzo per gli appalti di servizi di importo fino a 40.000 euro.
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[1] «Codice dei contratti pubblici».
[2] Concernenti le procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici, approvate dal Consiglio dell’Autorità con delibera n. 1097 del 26.10.2016 e aggiornate al decreto legislativo 19.04.2017, n. 56 con delibera del Consiglio n. 206 del 01.03.2018.
[3] Convertito in legge, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, della legge 07.08.2012, n. 135.
[4] «Contratti sotto soglia».
[5] «Aggregazioni e centralizzazione delle committenze».
[6] Il richiamo all’articolo 38 («Qualificazione delle stazioni appaltanti e centrali di committenza») non rileva in questa sede, atteso che le sue previsioni riguardano le procedure di acquisizione di forniture e servizi di importo pari o superiore a 40.000 euro (v. articolo 37, comma 1, secondo periodo).
[7] Si tratta quindi, di controlli che «valgono ai fini della partecipazione degli operatori economici alle procedure di affidamento» (ANAC, comunicato del Presidente del 10.12.2015).
[8] «Definizioni».
[9] «Ai fini del presente codice si intende per: […] «ff) “contratti sotto soglia”, i contratti pubblici il cui valore stimato al netto dell’imposta sul valore aggiunto è inferiore alle soglie di cui all’articolo 35; […]».
[10] «Soglie di rilevanza comunitaria e metodi di calcolo del valore stimato degli appalti».
[11] «Il calcolo del valore stimato di un appalto pubblico di lavori, servizi e forniture è basato sull’importo totale pagabile, al netto dell’IVA, valutato dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore.».
[12] «Criteri di aggiudicazione dell’appalto».
[13] «Può essere utilizzato il criterio del minor prezzo: […] c) per i servizi e le forniture di importo fino a 40.000 euro, […]»
(26.04.2018- link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

APPALTI: Quesito: Posso accordare la richiesta di accesso agli atti relativi all'offerta tecnica del primo classificato?
Risposta: L'art. 53, comma 2, lett. c), del D.Lgs. n. 50/2016 esplicitamente statuisce che l'esercizio del diritto di accesso agli atti di gara è differito "in relazione alle offerte, fino all'aggiudicazione".
Con il termine "aggiudicazione" deve intendersi il provvedimento di aggiudicazione definitiva, non la proposta di aggiudicazione che in quanto atto endoprocedimentale non è soggetta ad autonoma impugnazione.
Il diritto di accesso agli atti, in considerazione delle sue rilevanti finalità di pubblico interesse costituisce, ai sensi dell'articolo 22, secondo comma, della legge n. 241/1990, principio generale dell'attività amministrativa al fine di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza.
Il procedimento di accesso agli atti non è però rimesso alla potestà regolamentare e alla discrezionalità delle singole Amministrazioni, ma è regolato compiutamente dalla legge che, nel prevedere la tutela della riservatezza del terzo, nella specie il "know how" industriale concernente l'offerta tecnica presentata in sede di gara, ha fatto d'altra parte salvo il diritto degli interessati alla visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per la cura o la difesa dei propri interessi (Consiglio di Stato Sezione IV, 07.06.2006, n. 3418).
Dunque, se generalmente non si rilevano condizioni ostative relativamente alla documentazione amministrativa e economica, già nota ai concorrenti partecipanti alla seduta pubblica, diversamente per l'accesso all'offerta tecnica è necessario che la Stazione Appaltante, prima di procedere accordando lo stesso, bilanci tra il diritto del richiedente ed il diritto alla riservatezza dell'altro concorrente.
L'aggiudicatario su richiesta formale della S.A. dovrà indicare motivatamente quali elementi dell'offerta tecnica rientrano nei know how aziendali. Solo successivamente la Stazione Appaltante potrà accordare la richiesta del concorrente (tratto dalla newsletter 05.04.2018 n. 198 di http://asmecomm.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Quesito: Per l'affidamento del servizio per la gestione delle sanzioni amministrative al codice della strada, permane oggi ancora il monopolio delle Poste Italiane in materia di notifica degli atti giudiziari?
Risposta: Dal 10.09.2017 è caduto, formalmente, il monopolio di Poste Italiane nella comunicazione ai cittadini di sanzioni comminate per violazione del codice stradale e le notifiche giudiziarie.
L'art. 1, commI 57 e 58, della L. n. 124/2017 sopprime l'attribuzione in esclusiva al fornitore del servizio universale postale (Poste), prevedendo che entro 90 giorni dall'entrata in vigore AGCOM dovrà stabilire i requisiti di affidabilità, professionalità e onorabilità che gli operatori dovranno garante .
Nel periodo di regime transitorio Comuni e Società di riscossione potranno sottoscrivere contratti annuali per recapitare sanzioni e atti giudiziari esclusivamente con Poste Italiane.
Pertanto al momento Poste Italiane resta l'unica società legittimata per tale servizio fino alla conclusione dell'esecuzione dell'appalto (tratto dalla newsletter 02.03.2018 n. 196 di http://asmecomm.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo disposto dal citato art. 96, lett. f), del R.D. 25.07.1904 n. 523 implica l'inedificabilità assoluta delle aree poste a distanza minore di metri 10 dal piede degli argini.
La giurisprudenza, al riguardo, ha chiarito che:
   - “comporta vincolo inderogabile di inedificabilità ex art. 33, 1. 28.02.1985 n. 47, tale da precludere il rilascio di concessione in sanatoria, l'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, secondo cui sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti: ... f) ... le fabbriche ... a distanza dal piede degli argini e loro accessori minore di ( ... ) metri dieci”;
   - “a nulla rilevano le intenzioni manifestate o meno dalla parte interessata quanto alla possibile demolizione di un manufatto abusivo adiacente ad un torrente, dovendosi unicamente avere riguardo all'esistenza di un vincolo di inedificabilità assoluta entro i dieci metri dalla sponda del corso d'acqua pubblica, con il conseguente obbligo per l'ente vigilante d'imporne la demolizione indipendentemente dal consenso o dissenso del soggetto interessato, ai sensi dell'art. 33, legge n. 47 del 1985, poiché in nessun modo l'abuso edilizio realizzato in violazione di una norma inderogabile potrebbe essere sanato considerandolo come un'opera a difesa della sponda, trattandosi di un volume edilizio costruito per tutt'altro scopo”.
   - il vincolo in questione è efficace e cogente sia nel caso in cui il corso d'acqua sia stato coperto da una strada pubblica (Tribunale superiore delle acque pubbliche, n. 30/1990) sia nel caso in cui l'acqua demaniale non sia suscettibile di utilizzazione a fini pubblici o collettivi.
L'art. 93 del RD n. 523/1904, inoltre, stabilisce che “formano parte degli alvei i rami o canali, o diversivi dei fiumi, torrenti, rivi e scolatoi pubblici, ancorché in alcuni tempi dell'anno rimangono asciutti”.
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2.5. Sotto altro profilo, il vincolo di inedificabilità entro la fascia di rispetto di dieci metri dal corso d'acqua, diversamente da quanto dedotto dai ricorrenti, non è stato apposto in epoca successiva alla data di realizzazione del manufatto, trattandosi di limite inderogabile imposto ex lege dall'art. 96, lett. f), del Regio Decreto 25.07.1904 n. 523, entrato in vigore in epoca molto precedente alla realizzazione dell'opera.
In particolare, il vincolo disposto dal citato art. 96, lett. f), del Regio Decreto 25.07.1904 n. 523 implica l'inedificabilità assoluta delle aree poste a distanza minore di metri 10 dal piede degli argini.
La giurisprudenza, al riguardo, ha chiarito che:
   - “comporta vincolo inderogabile di inedificabilità ex art. 33, l. 28.02.1985 n. 47, tale da precludere il rilascio di concessione in sanatoria, l'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, secondo cui sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti: ... f) ... le fabbriche ... a distanza dal piede degli argini e loro accessori minore di ( ... ) metri dieci” (TAR Veneto, Sez. II, n. 2795/2003);
   - “a nulla rilevano le intenzioni manifestate o meno dalla parte interessata quanto alla possibile demolizione di un manufatto abusivo adiacente ad un torrente, dovendosi unicamente avere riguardo all'esistenza di un vincolo di inedificabilità assoluta entro i dieci metri dalla sponda del corso d'acqua pubblica, con il conseguente obbligo per l'ente vigilante d'imporne la demolizione indipendentemente dal consenso o dissenso del soggetto interessato, ai sensi dell'art. 33, legge n. 47 del 1985, poiché in nessun modo l'abuso edilizio realizzato in violazione di una norma inderogabile potrebbe essere sanato considerandolo come un'opera a difesa della sponda, trattandosi di un volume edilizio costruito per tutt'altro scopo” (Tribunale superiore delle acque pubbliche, n. 91/2003; v., in senso conforme, anche TAR Toscana, Sezione III, n. 277/2003 e Tribunale superiore delle acque pubbliche, n. 31/1999).
   - il vincolo in questione è efficace e cogente sia nel caso in cui il corso d'acqua sia stato coperto da una strada pubblica (Tribunale superiore delle acque pubbliche, n. 30/1990) sia nel caso in cui l'acqua demaniale non sia suscettibile di utilizzazione a fini pubblici o collettivi (TAR Toscana, n. 81/1981).
L'art. 93 del Regio Decreto n. 523/1904, inoltre, stabilisce che “formano parte degli alvei i rami o canali, o diversivi dei fiumi, torrenti, rivi e scolatoi pubblici, ancorché in alcuni tempi dell'anno rimangono asciutti”.
Vanno respinti, pertanto, i primi quattro motivi di ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 17.05.2018 n. 1288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In sede di impugnazione di ordinanza di demolizione di opere abusive emanata in pendenza del termine per la presentazione della domanda di sanatoria edilizia, ex art. 32 d.l. 30.09.2003 n. 269 (...), il g.a., chiamato ad applicare la sospensione di cui all'art. 44 l. 18.02.1985 n. 47, deve valutarne (così come per qualsiasi altra norma) la ricorrenza dei relativi presupposti in relazione al caso concreto, escludendola laddove le opere in questione non siano astrattamente condonabili, sotto il profilo oggettivo, temporale, finanziario.
La sospensione del giudizio di cui all'art. 44, l. 18.02.1985 n. 47 (richiamato dall'art. 32 d.l. n. 269 del 2003, conv. in l. n. 326 del 2003) non è applicabile in relazione alle opere assolutamente non suscettibili di sanatoria, come sono, tra le altre, le opere abusive eseguite ( ... ) in contrasto con preesistenti vincoli di inedificabilità (ai sensi dell'art. 33, l. n. 47 del 1985).
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2.6. Quanto all’ultimo motivo, osserva il Collegio che l'intimazione contenuta nel provvedimento impugnato, relativa alla sola porzione di opera che, come visto, non è suscettibile di sanatoria, non viola il principio di sospensione fissato dall'art. 44 della l. n. 47/1985, atteso che tale principio non trova applicazione per le opere assolutamente insuscettibili di sanatoria.
Sul punto la giurisprudenza costante ha affermato che “in sede di impugnazione di ordinanza di demolizione di opere abusive emanata in pendenza del termine per la presentazione della domanda di sanatoria edilizia, ex art. 32 d.l. 30.09.2003 n. 269 ( ... ), il g.a., chiamato ad applicare la sospensione di cui all'art. 44 l. 18.02.1985 n. 47, deve valutarne (così come per qualsiasi altra norma) la ricorrenza dei relativi presupposti in relazione al caso concreto, escludendola laddove le opere in questione non siano astrattamente condonabili, sotto il profilo oggettivo, temporale, finanziario. La sospensione del giudizio di cui all'art. 44, l. 18.02.1985 n. 47 (richiamato dall'art. 32 d.l. n. 269 del 2003, conv. in l. n. 326 del 2003) non è applicabile in relazione alle opere assolutamente non suscettibili di sanatoria, come sono, tra le altre, le opere abusive eseguite ( ... ) in contrasto con preesistenti vincoli di inedificabilità (ai sensi dell'art. 33, l. n. 47 del 1985)” (TAR Campania-Napoli, Sezione VI, n. 3816/2005; conf. TAR Campania-Napoli, Sezione IV, n. 18085/2004; TAR Campania-Napoli, Sezione VI, n. 17690/2004; TAR Campania-Napoli, Sezione IV, n. 16733/2004; TAR Campania-Napoli, Sezione VI, n. 14660/2004 e TAR Campania-Napoli, Sezione VI, n. 9527/2004).
2.7. In ragione delle suesposte considerazioni il ricorso è infondato e va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 17.05.2018 n. 1288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Presupposti applicativi del danno da perdita di chance e della responsabilità precontrattuale alla luce della Adunanza Plenaria n. 5 del 2018.
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Risarcimento danni - Danno da perdita di chance – Presupposti – Individuazione.
  
Risarcimento danni – Presupposti – Annullamento provvedimento amministrativo, con salvezza del riesercizio – Non spetta.
  
Risarcimento danni – Responsabilità precontrattuale –Presupposti – Individuazione.
   Il danno da perdita di chance presuppone "una rilevante probabilità del risultato utile" frustrata dall’agire illegittimo dell'amministrazione, non identificabile nella perdita della semplice possibilità di conseguire il risultato sperato, bensì nella perdita attuale di un esito favorevole, anche solo probabile, se non addirittura la prova certa di una probabilità di successo almeno pari al cinquanta per cento o quella che l’interessato si sarebbe effettivamente aggiudicato il bene della vita cui aspirava (1).
  
L’annullamento di un provvedimento amministrativo, con salvezza del riesercizio, ad esito libero, del potere da parte della medesima amministrazione, non può mai fondare l’accoglimento di una domanda risarcitoria non venendo in rilievo un giudicato di spettanza (2)
  
Ai fini della sussistenza della responsabilità precontrattuale è necessaria la prova del danno patrimoniale (derivante dalla lesione della libertà di autodeterminazione negoziale) rappresentato dalle perdite economiche subite (a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate) diverse da quelle ritraibili a titolo di lucro cessante (c.d. interesse positivo, di cui non si ammette il ristoro). (3)
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   (1) Cons. St., sez. IV, 07.03.2013, n. 1403; id., sez. V, 27.12.2017, n. 6088; id., sez. V, 25.02.2016, n. 762; id., sez. VI, 18.10.2017, n. 4822.
   (2) Cons. St., sez. IV, nn. 1615 del 2018, 826 del 2018.
   (3) Cons. St., A.P., 04.05.2018, n. 5 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.05.2018 n. 2907 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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4.1)
Quanto al riconoscimento del danno da perdita di chance, deve rammentarsi che esso, per costante giurisprudenza presuppone "una rilevante probabilità del risultato utile" frustrata dall’agire illegittimo dell'amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 07.03.2013, n. 1403 ), non identificabile nella perdita della semplice possibilità di conseguire il risultato sperato, bensì nella perdita attuale di un esito favorevole, anche solo probabile (cfr. Sez. V, 27.12.2017, n. 6088), se non addirittura -secondo più restrittivi indirizzi- la prova certa di una probabilità di successo almeno pari al cinquanta per cento (Sez. V, 25.02.2016, n. 762) o quella che l’interessato si sarebbe effettivamente aggiudicato il bene della vita cui aspirava (Sez. VI, 18.10.2017, n. 4822).

Nel caso di specie, il conseguimento del bene della vita era affatto aleatorio perché condizionato:
   a) all’inserimento dell’intervento nel programma di riqualificazione;
   b) alla presentazione del programma di riqualificazione secondo le indicazioni del bando ministeriale ed entro il termine ivi indicato;
   c) all’ammissione a finanziamento del programma di riqualificazione.
4.2) In ogni caso,
l’annullamento di un provvedimento amministrativo, con salvezza del riesercizio, ad esito libero, del potere da parte della medesima amministrazione, non può mai fondare l’accoglimento di una domanda risarcitoria non venendo in rilievo un giudicato di spettanza (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, nn. 1615 del 2018, 826 del 2018 ivi i richiami applicativi dei principi elaborati sul punto dalla Plenaria n. 2 del 2017).
Nella specie il Tar, con statuizione non impugnata, ha annullato per difetto di motivazione la delibera comunale che ha deciso di abbandonare la partecipazione al programma nazionale di edilizia sperimentale, onerando il comune di esplicitare le ragioni della sua scelta.
4.3.) Quanto al ristoro delle spese sostenute, l’avviso di selezione (mai impugnato in parte qua), all’art. 6, intitolato “Clausola di salvaguardia” -dopo aver precisato al primo comma che “Il presente avviso non costituisce offerta al pubblico ai sensi dell'art.1336 del C.C., non è impegnativo per l'amministrazione comunale e non è impegnativo per i soggetti che dovessero aderire all’invito, prima della formalizzazione dell'offerta, come stabilito nel precedente punto 5”- ha disposto al secondo e terzo comma che:
   - “Nulla è dovuto dall’amministrazione comunale, anche a titolo di rimborso delle spese sostenute, ai soggetti proponenti le cui proposte non dovessero risultare inserite nel programma o per le quali non si dovesse dar corso alla procedura di approvazione, o la stessa procedura di approvazione non si dovesse concludere in senso positivo”.
   - “Il recepimento delle proposte private d'intervento all'interno del programma non costituirà in ogni caso approvazione della proposta d'intervento, la cui effettiva attuabilità è condizionata alla positiva conclusione dell'intera procedura di approvazione e finanziamento del programma stesso”.
Orbene è evidente che se nemmeno il recepimento delle proposte nel programma costituisce approvazione della proposta d’intervento, e che la sua attuabilità è condizionata alla conclusione dell’intera procedura di approvazione e finanziamento del programma (ad opera dell’Amministrazione statale a ciò preposta), non può operarsi alcuna utile distinzione ai fini dell’esclusione di ogni forma di riconoscimento economico per le proposte private presentate, nemmeno nella forma di rimborso delle spese sostenute.
4.4.) Sotto tale angolazione
non possono neppure trovare ingresso i principi elaborati dalla giurisprudenza (Cons. Stato, sez. III, n. 2497 del 2016; sez. IV, n. 156 del 2013) circa la inefficacia di clausole del bando di gara che esonerino la p.a. da qualsiasi responsabilità precontrattuale e l’obbligo di interpretare gli atti costitutivi di una procedura di evidenza pubblica secondo buona fede: nella specie, infatti, non si è in presenza di una autentica procedura di evidenza pubblica e la clausola in esame non esonera preventivamente la p.a. dalla responsabilità civile a titolo di responsabilità precontrattuale.
Responsabilità che, in ogni caso –oltre a non essere stata espressamente allegata- non potrebbe ritenersi configurabile alla luce degli stringenti parametri individuati dalla Plenaria n. 5 del 2018; in particolare non si ravvisa l’affidamento incolpevole del soggetto coinvolto nelle trattative, relativamente al mancato rimborso delle spese di progettazione, e non è provato il danno patrimoniale (derivante dalla lesione della libertà di autodeterminazione negoziale) rappresentato dalle perdite economiche subite (a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate) diverse da quelle ritraibili a titolo di lucro cessante (c.d. interesse positivo, di cui non si ammette il ristoro).
5.) In conclusione l’appello in epigrafe, e le domande risarcitorie con esso riproposte, deve essere rigettato.

EDILIZIA PRIVATA: Sulla trasformazione di una porzione -autorimessa o deposito- di immobile, nel suo complesso a destinazione abitativa, con l’effetto di incidere in modo determinate sul relativo carico urbanistico.
Questo Tribunale ha considerato «l’aggiunta di un vano, ricavato da parte di superficie del deposito adiacente al piano terra» alla stregua di «una difformità rilevante rispetto al progetto approvato», atteso che «in luogo di uno spazio destinato a deposito sono stati realizzati un volume ed una superficie residenziali … Di conseguenza, non si tratta di una mera opera interna, derivandone, in conseguenza del peculiare uso sostanzialmente diverso rispetto a quello assentito … un superamento dei parametri edilizi consentiti».
A conclusioni analoghe giunge anche il TAR Lazio, secondo cui «nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, … deve ritenersi che … allorché lo stesso [cambio di destinazione d’uso] intervenga … tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall’esecuzione di opere…».

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Sul primo aspetto, con comunicazione n. 15795 del 24.10.2016, di «riscontro alle controdeduzioni del 27/09/2016 prot. n. 14046», il Comune di Roccapiemonte aveva rappresentato che «agli atti d’ufficio non risulta alcuna comunicazione, SCIA o altra pratica edilizia dalla quale riscontrare l’avvenuta legittimazione della variazione effettivamente operata».
Al riguardo, non può essere condiviso quanto affermato da parte ricorrente, secondo cui «in assenza di opere, non contestate nel provvedimento, il mutamento di destinazione fra categorie omogenee è libero» (pag. 7 del ricorso).
È vero infatti che l’invocato art. 2, co. 5, L.R. n. 19/2001, ha reso «libero il mutamento di destinazione d’uso senza opere purché nell’ambito di categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee (co. 5, art. 2 cit.)», sul presupposto che «nell’ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi stante le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell’ambito della medesima categoria» (Cons. di Stato, I, sent. n. 3586/2006).
Nel caso in esame, tuttavia, viene in rilievo la diversa questione della trasformazione di una porzione -autorimessa o deposito- di immobile, nel suo complesso a destinazione abitativa, con l’effetto di incidere in modo determinate sul relativo carico urbanistico.
In fattispecie analoga, questo Tribunale ha considerato «l’aggiunta di un vano, ricavato da parte di superficie del deposito adiacente al piano terra» alla stregua di «una difformità rilevante rispetto al progetto approvato», atteso che «in luogo di uno spazio destinato a deposito sono stati realizzati un volume ed una superficie residenziali … Di conseguenza, non si tratta di una mera opera interna, derivandone, in conseguenza del peculiare uso sostanzialmente diverso rispetto a quello assentito … un superamento dei parametri edilizi consentiti» (sez. I, sent. n. 1016/2013, confermata dal Consiglio di Stato, VI, sent. n. 216/2015).
A conclusioni analoghe giunge anche il TAR Lazio, secondo cui «nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, … deve ritenersi che … allorché lo stesso [cambio di destinazione d’uso] intervenga … tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall’esecuzione di opere…
» (sez. II-bis, sent. n. 4577/2017) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 14.05.2018 n. 742 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l’esecuzione dell’opera comportano e le capacità occorrenti per superarle.
A questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione “non modesta” essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. n. 64 cit., la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri.

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Sulla qualificazione, infine, del professionista incaricato, il Comune rileva che il progetto -assentito in base alla legge n. 219/1981, recante «Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 19.03.1981, n. 75, recante ulteriori interventi in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981. Provvedimenti organici per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori colpiti»- è sottoscritto da un perito edile, non abilitato a tal fine.
Per vero, il «Progetto di variante-stralcio mediante scorporo di unità abitativa “autonoma” dalla concessione con contributo n. 273/03 (Richiesta di nuova concessione) Aggiornamento richiesto con nota U.T.C. n. 4254 del 26/11/07» in data 04.12.2007 -approvato dal Comune di Roccapiemonte in data 25.02.2010 (verbale n. 138 Commissione ex art. 14 legge n. 219/1981)- e la Relazione tecnica allegata risultano elaborati dal perito edile Gi.Fa., il quale dichiara, tra l’altro, che:
   - «il danno subito dall’immobile è da ritenersi in stretta connessione con l’evento sismico dell’23/11/80 e successive scosse sismiche; e che pertanto l’intervento di riparazione proposto è indispensabile al fine di una tale rifusione dei danni subiti»;
   - «i lavori saranno diretti e collaudati dallo stesso».
Al riguardo, l’art. 16, R.D. n. 275/1929 (Regolamento per la professione di perito industriale), stabilisce che «spettano ai periti industriali, per ciascuno nei limiti delle rispettive specialità di meccanico, elettricista, edile, tessile, chimico, minerario, navale ed altre analoghe, le funzioni esecutive per i lavori alle medesime inerenti.
Possono inoltre essere adempiute: … b) dai periti edili anche la progettazione e direzione di modeste costruzioni civili, senza pregiudizio di quanto è disposto da speciali norme legislative, nonché la misura, contabilità e liquidazione dei lavori di costruzione…
».
Si tratta della medesima locuzione utilizzata dal Legislatore in relazione ai geometri (art. 16, lett. m, R.D. n. 274/1929: «L’oggetto ed i limiti dell’esercizio professionale di geometra sono regolati come segue: … m) progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili»), rispetto ai quali il Consiglio di Stato ha affermato che «il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l’esecuzione dell’opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione “non modesta” essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. n. 64 cit., la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri» (Cons. di Stato, V, sent. n. 883/2015).
Le conclusioni raggiunte con riferimento alle predette questioni consentono di affermare la legittimità del provvedimento impugnato.
Il ricorso deve, pertanto, essere respinto (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 14.05.2018 n. 742 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante “l’ordine di demolizione di opera edilizia abusiva” deve ritenersi “sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività del manufatto”.
Ciò in quanto “l’attività di repressione degli abusi edilizi costituisce manifestazione di potere non discrezionale, bensì del tutto vincolato, ancorato semmai ad un mero accertamento tecnico dello stato dei luoghi”.
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9. Sempre per l’infondatezza deve infine concludersi in ordine all’asserito difetto di motivazione, atteso che per giurisprudenza costante “l’ordine di demolizione di opera edilizia abusiva” deve ritenersi “sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività del manufatto” (così Cons. St., sez. IV, 28.02.2017, n. 908); ciò in quanto “l’attività di repressione degli abusi edilizi costituisce manifestazione di potere non discrezionale, bensì del tutto vincolato, ancorato semmai ad un mero accertamento tecnico dello stato dei luoghi” (TAR Campania , Napoli, sez. III, 20.02.2018, n. 1096) (TAR Umbria, sentenza 11.05.2018 n. 303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’Adunanza plenaria restituisce alla Sezione la decisione della questione rimessale relativa alla spettanza del risarcimento del danno in caso di aggiudicazione dell’appalto senza gara.
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Risarcimento danni – Contratti della Pubblica amministrazione – Risarcimento da perdita di chance - Affidamento senza gara – Impresa del settore – An risarcimento danni – Contrasto di giurisprudenza – Rimessione all’Adunanza plenaria – Restituzione alla Sezione per la decisione della questione rimessa.
E’ restituita alla Sezione la decisione della questione -che era stata rimessa All'Adunanza plenaria- se spetti, in caso di affidamento diretto, senza gara, di un appalto, il risarcimento danni per equivalente derivante da perdita di chance ad una impresa concorrente che avrebbe che potuto concorrere quale operatore del settore economico (1).
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   (1) Il Cons. St., sez. V, 11.01.2018, n. 118 con sentenza non definitiva aveva rimesso all’Adunanza plenaria la questione se spetti, in caso di affidamento diretto, senza gara, di un appalto, il risarcimento danni per equivalente derivante da perdita di chance ad una impresa concorrente che avrebbe che potuto concorrere quale operatore del settore economico.
L’Adunanza plenaria ha ritenuto che la questione ad essa deferita non possa essere utilmente esaminata nell’ambito della presente controversia, ravvisandosi dunque l’opportunità di restituire gli atti alla Sezione, ai sensi dell’art. 99, comma 1, ultimo periodo, c.p.a..
Ha affermato che assume, al riguardo, rilievo significativo il fatto che la questione rimessa all’Adunanza plenaria –quella, cioè, dell’opzione, tra “teoria ontologica” e “teoria eziologica”– non sembra aver riferimento soltanto al problema dell’astratta risarcibilità della chance, ma implica rilevanti conseguenze in ordine alla qualificazione della natura giuridica della figura, all’identificazione degli elementi costitutivi della fattispecie, all’accertamento dell’ingiustizia del danno e del nesso di causalità, all’accertamento probatorio ed al grado di certezza con esso richiesto, alla determinazione della consistenza della situazione soggettiva vantata nei confronti del debitore, agli eventuali criteri di liquidazione del danno.
Ora, come risulta palese dalla lettura della sentenza non definitiva a cui accede l’ordinanza di rimessione, la Quinta Sezione sembrerebbe essersi già pronunciata su diversi dei profili sopra cennati, quali la sussistenza del nesso di causalità tra il comportamento dell’amministrazione –l’affidamento del contratto senza gara– e la perdita di chance, l’esistenza e la consistenza, anche ai fini risarcitori, della chance di aggiudicazione e le connesse valutazioni legate al profilo probatorio. Potrebbero, in tal modo, essere stati toccati profili attinenti, in ultima analisi, alla determinazione stessa della natura giuridica della perdita di chance, nonché al danno risarcibile.
Le affermazioni contenute nella sentenza non definitiva n. 118 del 2018 in ordine alla sussistenza del nesso di causalità ed alla consistenza della chance di aggiudicazione –quest’ultima calcolata secondo una percentuale correlata al numero dei potenziali concorrenti di una gara virtuale– potrebbero, così, implicare l’utilizzazione di un metodo di accertamento dell’illecito e di liquidazione del danno, la cui correttezza potrebbe apparire strettamente correlata ai quesiti prospettati sulla ricostruzione dell’illecito e sulle conseguenze sull’esistenza e sulla liquidazione del danno da perdita di chance; quesiti, peraltro, risolvibili in astratto anche attraverso l’individuazione di percorsi ricostruttivi alternativi ovvero intermedi e comunque eclettici rispetto alla dicotomia tra “teoria ontologica” e “teoria eziologica”.
In una situazione del genere, caratterizzata dall’incertezza sopra descritta, la pronuncia dell’Adunanza plenaria, da una parte, potrebbe inammissibilmente interferire con profili già esaminati dalla Sezione con la sentenza non definitiva; dall’altra, potrebbe risultare in qualche modo condizionata dalle chiavi ricostruttive utilizzate dalla Sezione e dalle scelte già operate con sentenza, così escludendo la possibilità stessa di un esame approfondito dei quesiti prospettati non condizionato da tali scelte.
Verrebbe, in tal modo, esclusa la possibilità dell’affermazione di un principio di diritto conseguente ad un esame pieno delle fattispecie (Consiglio di Stato, A.P., ordinanza 11.05.2018 n. 7
- commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla Corte di giustizia UE l’ordine di esame del ricorso principale e di quello incidentale se in gara ci sono più di due concorrenti non evocati in giudizio o le cui offerte non sono censurate.
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Processo amministrativo - Rito appalti – Ricorso incidentale escludente – Rapporto con ricorso principale – Pluralità di concorrenti non evocati in giudizio o le cui offerte non sono censurate - Esame di entrambi i ricorsi – Autonomia di valutazione del giudice – Rimessione alla Corte di giustizia UE.
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia UE la questione se l’art. 1, paragrafi 1, comma 3, e 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989 -che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.12.2007- possa essere interpretato nel senso che esso consente che, allorché alla gara abbiano partecipato più imprese e le stesse non siano state evocate in giudizio (e comunque avverso le offerte di talune di queste non sia stata proposta impugnazione), sia rimessa al Giudice, in virtù dell’autonomia processuale riconosciuta agli Stati membri, la valutazione della concretezza dell’interesse dedotto con il ricorso principale da parte del concorrente destinatario di un ricorso incidentale escludente reputato fondato, utilizzando gli strumenti processuali posti a disposizione dell’ordinamento, e rendendo così armonica la tutela di detta posizione soggettiva rispetto ai consolidati principi nazionali in punto di domanda di parte (art. 112 c.p.c.), prova dell’interesse affermato (art. 2697 c.c.), limiti soggettivi del giudicato che si forma soltanto tra le parti processuali e non può riguardare la posizione dei soggetti estranei alla lite (art. 2909 c.c.) (1).
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   (1) La questione era stata rimessa da Cons. St., sez. V, ord., 06.11.2017, n. 5103.
Ha premesso l’Alto Consesso che gli sforzi del legislatore nazionale del Codice dei contratti, nella parte in cui ha modificato l’art. 120 c.p.a., per adeguarsi alle prescrizioni dei competenti organismi europei ed il dialogo costante della giurisdizione amministrativa con la Corte di Giustizia non hanno del tutto eliso le incertezze degli interpreti su alcune problematiche in materia di pubblici incanti: tra queste, rientra certamente la tematica dei rapporti intercorrenti tra il ricorso principale ed il ricorso incidentale c.d. “escludente”.
L’Adunanza plenaria, dopo aver tratteggiato una puntuale ricostruzione di tutte le pronunce della stessa Adunanza plenaria e della Corte di giustizia intervenute sulla materia del rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale nella materia delle gare pubbliche ha ricordato con la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia 05.04.2016 in causa C-689/13 (Puligienica).
La Corte ha affermato che i princìpi enunciati con la sentenza Fastweb del 2013 risultano applicabili anche nel caso di una gara con più di due concorrenti (“il numero di partecipanti alla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi, così come il numero di partecipanti che hanno presentato ricorsi e la divergenza dei motivi dai medesimi dedotti, sono privi di rilevanza ai fini dell’applicazione del principio giurisprudenziale che risulta dalla sentenza Fastweb” –punto 29 della motivazione-) e che l’interesse del ricorrente principale destinatario del ricorso incidentale escludente non deve essere ricollegato all’iniziativa giurisdizionale, bensì all’operato della stessa amministrazione, che potrebbe agire in autotutela, annullando l’intera procedura (“non è escluso che una delle irregolarità che giustificano l’esclusione tanto dell’offerta dell’aggiudicatario quanto di quella dell’offerente che contesta il provvedimento di aggiudicazione dell’amministrazione aggiudicatrice vizi parimenti le altre offerte presentate nell’ambito della gara d’appalto, circostanza che potrebbe comportare la necessità per tale amministrazione di avviare una nuova procedura” –punto 28 della motivazione-).
Successivamente alla sentenza “Puligienica”, la Corte di giustizia è tornata nuovamente sul tema con due recenti pronunce:
   a) nell’ultima in ordine cronologico, resa dalla Sezione VIII, il 10.05.2017 nella causa C-131/16 (Archus) è stato affermato che la direttiva 92/13 deve essere interpretata nel senso che, nel caso in cui una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico abbia dato luogo alla presentazione di due offerte e all’adozione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, di due determinazioni che contemporaneamente rigettano l’offerta di uno degli offerenti ed aggiudicano l’appalto all’altro, l’offerente escluso, che ha presentato un ricorso avverso le due determinazioni, deve poter chiedere l’esclusione dell’offerta dell’aggiudicatario, in modo che la nozione di “un determinato appalto”, ai sensi dell’art. 1, par. 3, della Direttiva 92/13 possa ricomprendere l’eventuale avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico: secondo la giurisprudenza nazionale (si veda Cass. civ., sez. un., 29.12.2017, n. 31226, considerando 3.3.2) in tal modo sarebbe stato “reso ancora più esplicito l'enunciato della sentenza Fastweb relativo alla possibilità che l'amministrazione aggiudicatrice sia indotta a constatare l'impossibilità di procedere alla scelta di un'offerta regolare, spiegando che: "Da un lato, infatti, l'esclusione di un offerente può far sì che un altro offerente ottenga l'appalto direttamente nell'ambito della stessa procedura. D'altro, nell'ipotesi di esclusione di tutti gli offerenti e dell'indizione di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, ciascuno degli offerenti potrebbe parteciparvi e, quindi, ottenere indirettamente l'appalto" (punto 52). Con il che è definitivamente chiarito che basta la mera eventualità del rinnovo della gara a radicare l'interesse del ricorrente a contestare l'aggiudicazione.”.
Nella sentenza del 21.12.2016, Bietergemeinschaft Technische Gebäudebetreuung und Caverion Österreich (C 355/15 punti da 13 a 16, 31 e 36) la Corte ha, invece, affermato che “ad un offerente la cui offerta era stata esclusa dall’amministrazione aggiudicatrice da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico poteva essere negato l’accesso a un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico in quanto la decisione di esclusione di tale offerente era stata confermata da una decisione che ha acquisito autorità di cosa giudicata prima che il giudice investito del ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto statuisse, in modo tale che detto offerente doveva essere considerato definitivamente escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico in questione”.
La giurisprudenza nazionale non è, peraltro, concorde in ordine alle conseguenze da trarre dalle statuizioni della Corte di Giustizia dell’Unione europea citate ai punti V e VI del precedente paragrafo.
Il rilievo attribuito al concetto di “interesse strumentale alla ripetizione della procedura” dalle statuizioni della Corte di Giustizia ha consentito l’affermazione di alcuni punti fermi:
   a) nessuno dubita che, nel caso in cui siano rimasti in gara unicamente due concorrenti e gli stessi propongano ricorsi reciprocamente escludenti, si imponga la disamina di ambedue i mezzi di impugnazione dai medesimi proposti, quali che siano i motivi di censura ivi contenuti;
   b) parimenti, nessuna perplessità sussiste circa l’esattezza dell’affermazione secondo cui ad analoghe conclusioni deve pervenirsi (anche in presenza di una pluralità di contendenti rimasti in gara), ove il ricorso principale contenga motivi che, se accolti, comporterebbero il rinnovo della procedura in quanto:
      I) si censuri la regolarità della posizione -non soltanto dell’aggiudicatario e di tutti gli altri concorrenti rimasti in gara, collocati in posizione migliore della propria ma, anche- dei rimanenti concorrenti collocati in posizione deteriore;
      II) ovvero perché siano proposte censure avverso la lex specialis idonee, ove ritenute fondate, ad invalidare l’intera selezione evidenziale;
   c) in tali casi, si è raggiunta una piena concordanza di opinioni circa l’obbligatorietà dell’esame del ricorso principale, in quanto dall’accoglimento di quest’ultimo discenderebbe con certezza la caducazione integrale della gara e verrebbe così tutelato il subordinato interesse strumentale alla riedizione della procedura.
Sussiste incertezza, viceversa, nell’evenienza in cui, essendo rimasti in gara una pluralità di contendenti:
   a) i ricorsi reciprocamente escludenti non riguardino la posizione di talune delle ditte rimaste in gara di guisa che, anche laddove entrambi i ricorsi (principale ed incidentale) siano scrutinati, e dichiarati fondati, rimarrebbero pur tuttavia alcune offerte non “attinte” dai vizi riscontrati;
   b) al contempo, il ricorso principale non prospetti censure avverso la lex specialis tese ad invalidare l’intera gara e determinanti –ove accolte- la certa ripetizione della procedura.
L’Adunanza ha quindi affermato che sul punto sono enucleabili due filoni interpretativi; entrambi muovono dall’identico punto di partenza (dall’accoglimento del ricorso incidentale “escludente” discende l’insussistenza dell’interesse diretto e immediato del ricorrente principale riguardo all’aggiudicazione perché, essendo stato accertato che lo stesso è stato indebitamente ammesso alla gara, questi certamente non può ottenere l’aggiudicazione), ma divergono nelle conclusioni:
   a) secondo una prima linea esegetica (Cons. St., sez. V, 20.07.2017, n. 3593) la sentenza della Grande Sezione 05.04.2016 in causa C-689/13- Puligienica imporrebbe anche in simili evenienze la disamina del ricorso principale, pur dopo l’avvenuto accoglimento del ricorso incidentale escludente, non dovendosi tenere conto del numero delle imprese partecipanti (e del fatto che alcune siano rimaste estranee al giudizio) né dei vizi prospettati come motivi di ricorso principale poiché la domanda di tutela può essere evasa soltanto con l’esame di tutti i motivi di ricorso, principale e incidentale: nella descritta situazione non costituirebbe evenienza necessaria l’aggiudicazione del contratto all’impresa successivamente classificata, perché la stazione appaltante potrebbe sempre ritenere opportuno, dinanzi all’esclusione delle prime classificate, riesaminare in autotutela gli atti di ammissione delle altre imprese al fine di verificare se il vizio accertato sia loro comune, di modo che non vi resti spazio effettivo per aggiudicare a un’offerta regolare e si addivenga alla ripetizione della procedura;
   b) secondo un altro approccio ermeneutico, viceversa (Cons. St., sez. III, 26.05.2016, n. 3708), nell’evenienza data, l’esame del ricorso principale si imporrebbe soltanto laddove l’accoglimento dello stesso produca come effetto conformativo, un vantaggio, anche mediato e strumentale, per il ricorrente principale, tale dovendosi intendere anche quello al successivo riesame, in via di autotutela, delle offerte affette dal medesimo vizio riscontrato con la sentenza di accoglimento: ma, nel caso di più di due imprese partecipanti alla gara delle quali solo due siano in giudizio, ciò potrebbe avvenire soltanto se fosse rimasto accertato che anche le offerte delle restanti imprese risultino affette dal medesimo vizio che aveva giustificato la statuizione di esclusione dalla procedura dell’offerente parte della controversia.
Tali incertezze interpretative hanno indotto l’Adunanza plenaria, in qualità di giudice di ultima istanza, di disporre in via pregiudiziale il rinvio della questione alla Corte di giustizia (Consiglio di Stato, A.P., ordinanza 11.05.2018 n. 6 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di un muro di recinzione - Modifica rilevante dell'assetto urbanistico del territorio - Permesso a costruire - Necessità - Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi, la realizzazione di un muro di recinzione necessita del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli "interventi di nuova costruzione" di cui all'art. 3, lett. e), del d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e altro) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.05.2018 n. 20739 - link a
www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: PRIVACY: Possibile registrare i colleghi di lavoro per tutelarsi. Per la Cassazione sussiste la deroga prevista dal d.lgs. 196/2003 non essendo necessario il consenso altrui se la registrazione mira a difendere un proprio diritto in sede giudiziaria come quello di salvare il proprio posto di lavoro.
No al licenziamento di chi registra i colleghi per difendersi.
Non solo è illegittimo ma scatta anche la reintegra del dipendente licenziato, per grave violazione della privacy, per aver registrato, e filmato, delle conversazioni ad insaputa dei colleghi, senza averle mai diffuse all'esterno, ed al solo fine di precostituirsi degli elementi di difesa per salvaguardare la propria posizione in azienda.

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3.2. Va innanzitutto chiarito che, sulla base della normativa a tutela della privacy (d.lgs. 30.06.2003, n. 196, oggetto di successivi aggiornamenti), per 'trattamento' dei dati personali si deve intendere qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati -art. 4, lett. a)- e che per 'dato personale' si deve intendere qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale -art. 4, lett. b)- e così, dunque, qualunque informazione che possa fornire dettagli sulle caratteristiche, abitudini, stile di vita, relazioni personali, orientamento sessuale, situazione economica, stato civile, stato di salute etc. della persona fisica ma anche e soprattutto le immagini e la voce della persona fisica.
Ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. n. 196/2003, il trattamento di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell'interessato.
L'art. 167, co. 1, sotto la rubrica 'trattamento illecito di dati', apre il capo II (dedicato agli illeciti penali) del titolo III (rubricato 'sanzioni') del d.lgs. n. 196/2003. La norma prevede due distinte condotte tipiche, diversamente sanzionate: l'una relativa al trattamento illecito di dati personali da cui derivi nocumento al titolare dei dati stessi e l'altra consistente nella comunicazione o diffusione dei dati illecitamente trattati, indipendentemente dal potenziale nocumento che ne derivi a terzi.
Entrambe le condotte presuppongono un preventivo trattamento dei dati personali altrui, realizzato in violazione delle prescrizioni dettate, tra gli altri, dall'art. 23 del medesimo d.lgs..
Ai sensi dell'art. 4, co. 1, lett. m), la condotta di 'diffusione' consiste, poi, nel 'dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione'.
Il trattamento dei dati personali, ammesso di norma in presenza del consenso dell'interessato, può essere eseguito anche in assenza di tale consenso, se, come statuisce l'art. 24, co. 1, lettera f), è volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria o per svolgere le investigazioni difensive previste dalla legge n. 397/2000, e ciò a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.
Si tratta, come è di tutta evidenza, della previsione di una deroga che rende l'attività, se svolta nel rispetto delle condizioni ivi previste, di per sé già a monte lecita.
In tale ipotesi, e dunque laddove il trattamento dei dati personali operato in assenza del consenso del titolare dei dati medesimi sia strettamente strumentale alla tutela giurisdizionale di un diritto da parte di chi tale trattamento effettua e pertanto sia finalizzato all'esercizio delle prerogative di difesa, è evidentemente anche insussistente il presupposto delle condotte incriminatrici previste dall'art. 167, co. 1, del d.lgs. n. 196/2003.
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente sottolineato, in termini generali, come la rigida previsione del consenso del titolare dei dati personali subisca "deroghe ed eccezioni quando si tratti di far valere in giudizio il diritto di difesa, le cui modalità di attuazione risultano disciplinate dal codice di rito" (Cass., Sez. U., 08.02.2011, n. 3034). Ciò sulla scorta dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.
In linea con tale impostazione ed in ambito più strettamente lavoristico è stato ulteriormente precisato che
la registrazione fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel genus delle riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 cod. civ., ha natura di prova ammissibile nel processo civile del lavoro così come in quello penale. Si è, quindi, ritenuto (v. Cass. 29.12.2014, n. 27424 ed i richiami in essa contenuti a Cass. 22.04.2010, n. 9526 ed a Cass. 14.11.2008, n. 27157), alla luce della giurisprudenza delle Sezioni penali di questa S.C., che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, è prova documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi, in ogni caso, di registrazione operata da persona protagonista della conversazione, estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere testimonianza nel processo (espressamente in tal senso v. Cass. pen. n. 31342/2011; Cass. pen. n. 16986/2009; Cass. pen. n. 14829/2009; Cass. pen. n. 12189/2005; Cass. pen., Sez. U., n. 36747/2003).
E' stato, altresì, chiarito che
l'iporesi derogatoria di cui all'art. 24 del d.lgs. n. 196/2003 che permette di prescindere dal consenso dell'interessato sussiste anche quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione viene eseguita, sia necessario, per far valere o difendere un diritto (Cass. 20.09.2013, n. 21612).
Unica condizione richiesta è che i dati medesimi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (cfr. la sopra richiamata Cass., Sez. U., n. 3033/2011 nonché Cass. 11.07.2013, n. 17204 e Cass. 10.08.2013, n. 18443).
Quanto poi al concreto atteggiarsi del diritto di difesa, è stato ritenuto che la pertinenza dell'utilizzo rispetto alla tesi difensiva va verificata nei suoi termini astratti e con riguardo alla sua oggettiva inerenza alla finalità di addurre elementi atti a sostenerla e non alla sua concreta idoneità a provare la tesi stessa o avendo riguardo alla ammissibilità e rilevanza dello specifico mezzo istruttorio (v. la già citata Cass. n. 21612/2013).
Inoltre,
il diritto di difesa non va considerato limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso (cfr. la già citata Cass. n. 27424/2014).
Non a caso nel codice di procedura penale il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost. sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento: basti pensare al diritto alle investigazioni difensive ex art. 391-bis cod. proc. pen. e ss., alcune delle quali possono esercitarsi addirittura prima dell'eventuale instaurazione di un procedimento penale (cfr. art. 391-nonies cod. proc. pen.), oppure ai poteri processuali della persona offesa, che -ancor prima di costituirsi, se del caso, parte civile- ha il diritto, nei termini di cui all'art. 408 cod. proc. pen. e ss., di essere informata dell'eventuale richiesta di archiviazione, di proporvi opposizione e, in tal caso, di ricorrere per cassazione contro il provvedimento di archiviazione che sia stato emesso de plano, senza previa fissazione dell'udienza camerale.
Nella fattispecie qui in esame, la Corte territoriale, con accertamento non censurabile in questa sede, dopo aver premesso che quelle di cui si discuteva erano registrazioni di colloqui ad opera del Ch., vale a dire di una delle persone presenti e partecipi ad essi, ha ritenuto che il suddetto dipendente avesse adottato tutte le dovute cautele al fine di non diffondere le registrazioni dal medesimo effettuate all'insaputa dei soggetti coinvolti ed ha considerato operante la deroga relativa all'ipotesi per cui il consenso non fosse richiesto, trattandosi di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.
Così ha evidenziato che
la condotta era stata posta in essere dal dipendente 'per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari non proprio cristalline' e per 'precostituirsi un mezzo di prova visto che diversamente avrebbe potuto trovarsi nella difficile situazione di non avere strumenti per tutelare la propria posizione ritenuta pregiudicata dalla condotta altrui'.
Il tutto in un contesto caratterizzato da un conflitto tra il Ch. ed i colleghi di rango più elevato e da inascoltate recriminazioni relative a disorganizzazioni lavorative asseritamente alla base delle indicate contestazioni disciplinari (cfr. pag. 9 della sentenza, ultimo capoverso fino al primo di pag. 10) in cui il reperimento delle varie fonti di prova poteva risultare particolarmente difficile a causa di eventuali possibili 'sacche di omertà' come era dato apprezzare da quanto emerso in sede di istruttoria (cfr. pag. 10 della sentenza, penultimo capoverso).
Ed allora,
si trattava di una condotta legittima, pertinente alla tesi difensiva del lavoratore e non eccedente le sue finalità, che come tale non poteva in alcun modo integrare non solo l'illecito penale ma anche quello disciplinare, rispondendo la stessa alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto, ciò sia alla stregua dell'indicata previsione derogatoria del codice della privacy sia, in ipotetica sua incompatibilità con gli obblighi di un rapporto di lavoro e di quelli connessi all'ambiente in cui esso si svolge, sulla base dell'esistenza della scriminante generale dell'art. 51 cod. pen., di portata generale nell'ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico (e su ciò dottrina e giurisprudenza sono, com'è noto, da sempre concordi -cfr. la già richiamata Cass. n. 27424/2014-).
Altro sarebbe stato -sia ben chiaro- se si fosse trattato di registrazioni di conversazioni tra presenti effettuate a fini illeciti (ad esempio estorsivi o di violenza privata): ma non è questo il senso della contestazione disciplinare per cui è causa che, per quanto si rileva dal contenuto della stessa testualmente riportato nella sentenza impugnata, aveva avuto ad oggetto la 'gravissima' ed 'intollerabile' violazione della legge sulla privacy 'comportante l'ipotesi del trattamento illecito dei dati punibile con la reclusione da 6 a 24 mesi'.
Né, invero, risulta provato che il Ch., come si legge sempre nella contestazione disciplinare, a metà dicembre 2012, avesse scattato foto nella zona dell'ingresso merci al solo scolo di prendere in giro un suo collega di lavoro.
Nella specie, dunque, la condotta legittima del Ch. non poteva in alcun modo ledere il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, fondato, come di regola, sulle capacità del dipendente di adempiere in modo puntuale l'obbligazione lavorativa, dovendo escludersi che i fatti al medesimo addebitati nella lettera di contestazione potessero configurare inadempimenti contrattuali di sorta (perché qui iure suo utitur neminem laedit) o -peggio- azioni delittuose.
4.1. Le considerazioni che precedono consentono, poi, di ritenere fondato il primo motivo del ricorso principale (con assorbimento del secondo).
4.2. La condotta del Ch., in sé lecita, non poteva rilevare in sede disciplinare.
Del tutto evidente è che il clima di tensione e sospetti venutosi a creare tra gli 'ignari colleghi' dopo da 'rivelazione' delle registrazioni e cioè una situazione facente capo al prestatore di lavoro ma non costituente inadempimento, al più poteva assumere rilevanza, in una prospettiva del tutto diversa, in termini di obiettiva incompatibilità del dipendente con l'ambiente di lavoro, se tale da rendere insostenibile la situazione incidendo negativamente sulla stessa organizzazione del lavoro e sul regolare funzionamento dell'attività, e dunque, ove ricorrenti i relativi presupposti, quale giustificato motivo oggettivo di licenziamento (cfr. Cass. 25/07/2003, n. 11556; Cass. 11.08.1998, n. 7904), non certo sotto il profilo disciplinare.
Ed allora va considerato che nella locuzione 'insussistenza del fatto contestato' di cui dell'art. 18, co. 5, della legge n. 300 del 1970 come novellato dalla legge n. 92/2012 il fatto deve intendersi in senso giuridico e non meramente materiale.
In primo luogo, va tenuto presente che il mero fatto -come giustamente osservato da certa dottrina- non ha mai un proprio autonomo rilievo nel mondo giuridico al di fuori della qualificazione che, in maniera espressa od implicita, ne fornisca una data norma.
Non lo si può apprezzare e non può produrre effetti giuridici senza riferimenti normativi. Diversamente, per definizione ricade nell'irrilevante giuridico.
Ad analogo risultato conduce l'approccio ermeneutico sotto una visuale strettamente processualistica.
Per consolidata giurisprudenza (cfr., per tutte, Cass., Sez. U., 10.01.2006, n. 141) giusta causa o giustificato motivo di licenziamento sono fatti impeditivi o estintivi del diritto del dipendente di proseguire nel rapporto di lavoro, vale a dire eccezioni (non a caso, ex art. 5 legge n. 604/1966 la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento devono essere provati dal datore di lavoro).
E tutte le eccezioni, proprio perché tali, sono composte da un fatto (inteso in senso storico-fenomenico) e dalla sua significatività giuridica (in termini di impedimento, estinzione o modificazione della pretesa azionata dall'attore).
In altre parole, per sua stessa natura l'eccezione non ha mai ad oggetto un mero fatto, ma sempre un fatto giuridico.
Lo stesso punto d'arrivo è suggerito in un'ottica sostanzialistica e di coerenza interna del vigente art. 18 St. lav., nonché di compatibilità costituzionale.
Infatti, se per insussistenza del fatto contestato si intendesse quella a livello meramente materiale si otterrebbe l'illogico effetto di riconoscere maggior tutela (quella reintegratoria c.d. attenuata di cui all'art. 18, co. 4) a chi abbia comunque commesso un illecito disciplinare (seppur suscettibile di mera sanzione conservativa alla stregua dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili) rispetto a chi, invece, non ne abbia commesso alcuno, avendo tenuto una condotta lecita.
L'esito sarebbe quello di una irragionevole disparità di trattamento, in violazione dell'art. 3 Cost., oltre che di una intrinseca e inspiegabile aporia all'interno della medesima disposizione di legge.
Va allora ribadito il principio già affermato da questa Corte secondo cui: "
L'insussistenza del fatto contestato, di cui all'art. 18 St. lav., come modificato dall'art. 1, co. 42, della l. n. 92 del 2012, comprende l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità" (cfr. Cass. 13.10.2015, n. 20540; Cass. 20.09.2016, n. 18418 e le più recenti Cass. 26.05.2017, n. 13383 e Cass. 31.05.2017, n. 13799).
5. Conclusivamente, va accolto il primo motivo di ricorso principale, assorbito il secondo e va rigettato il ricorso incidentale; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte d'appello di Roma che farà applicazione del principio sopra indicato e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 10.05.2018 n. 11322).

ATTI AMMINISTRATIVI: La condanna alla astreinte è possibile solo in presenza di violazione dei giudicato e non di sentenza esecutiva.
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Processo amministrativo - Giudizio di ottemperanza – Esecuzione di sentenza non passata in giudicato – Astreinte - Decorrenza – Individuazione.
La decorrenza della astreinte, chiesta con il ricorso per l’esecuzione di una sentenza del giudice di primo grado non passata in giudicato, decorre dal giorno in cui detta sentenza diventa irrevocabile e non dal passaggio in giudicato della sentenza che ha ordinato la sua esecuzione (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che -stante l’insuperabile differenza ontologica fra giudizio di esecuzione di una sentenza non ancora divenuta irrevocabile e giudizio di esecuzione del giudicato vero e proprio- a fronte della univocità del tenore testuale della lett. e) del comma 4 dell’art. 114 c.p.a., è impossibile addivenire ad una conclusione diversa da quella che fa decorrere la penalità di mora da quando la sentenza di cognizione diventa irrevocabile, facendo leva su argomenti di carattere sistematico e teleologico che condurrebbero ad una non consentita estensione dell’ambito applicativo di una misura sanzionatoria (Cons. St., A.P., n. 15 del 2014; id., sez. IV, n. 469 del 2016; id., sez. V, n. 1821 del 2015) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.05.2018 n. 2815 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti di autotutela sugli ordini di demolizione sono retti dai principi enucleati dalla Adunanza plenaria n. 9 del 2017.
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Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Autotutela – Interesse pubblico – Motivazione - Limiti.
  
Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Sostituzione con sanzione pecuniaria – Valutabilità nella fase esecutiva del procedimento demolitorio
  
I provvedimenti di autotutela (anche di secondo grado) sugli ordini di demolizione, e dunque la loro riconferma, non incontrano i limiti stabiliti dalla plenaria 17.10.2017, n. 8 in ordine all’individuazione motivata dell’interesse pubblico ma sono retti dai principi enucleati dalla plenaria 17.10.2017, n. 9, con la conseguenza che non richiedono una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso stesso (1).
  
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione (2).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che nel caso sottoposto al suo esame il Comune indotto in errore dall’appellante circa la consistenza delle opere sanande, l’interesse pubblico è da ritenere autoevidente e non richiede quindi una particolare ostensione argomentativa, secondo il recente insegnamento dell’Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 8; tale pronuncia, inoltre, ha avuto ad oggetto l’autotutela su provvedimenti ampliativi: nel caso di specie, invece, nella sostanza (come si dirà in prosieguo) si tratta della conferma di un ordine di demolizione per abusivismo edilizio.
Ha aggiunto che è pur vero che, con la su citata pronuncia, l’Adunanza plenaria ha escluso la configurabilità dell’interesse pubblico in re ipsa con riferimento all’esercizio del potere di autotutela sui titoli edilizi in sanatoria, quali atti di natura ampliativa, ma la vicenda in esame sottende l’esercizio di un potere sanzionatorio avente carattere ripristinatorio e doveroso
La Sezione (14.12.2016, n. 5262) ha peraltro già opinato, in epoca precedente a tale fondamentale pronuncia, che “allorquando una concessione edilizia in sanatoria sia stata ottenuta dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa”.
   (2) Cons. St., sez. VI, 23.11.2017, n. 5472 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.05.2018 n. 2799 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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7.3.2. Da tanto consegue anche l’infondatezza del terzo connesso profilo di censura, in quanto:
   -
essendo stato il Comune indotto in errore dall’appellante circa la consistenza delle opere sanande, l’interesse pubblico è da ritenere autoevidente e non richiede quindi una particolare ostensione argomentativa, secondo il recente insegnamento dell’Adunanza plenaria n. 8 del 2017; tale pronuncia, inoltre, ha avuto ad oggetto l’autotutela su provvedimenti ampliativi: nel caso di specie, invece, nella sostanza (come si dirà in prosieguo) si tratta della conferma di un ordine di demolizione per abusivismo edilizio;
   - questa Sezione ha peraltro già opinato, in epoca precedente a tale fondamentale pronuncia, che “
allorquando una concessione edilizia in sanatoria sia stata ottenuta dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa” (cfr. sentenza 14.12.2016, n. 5262);
   - è pur vero che, con la su citata pronuncia, l’Adunanza plenaria ha escluso la configurabilità dell’interesse pubblico in re ipsa con riferimento all’esercizio del potere di autotutela sui titoli edilizi in sanatoria, quali atti di natura ampliativa, ma la vicenda in esame sottende l’esercizio di un potere sanzionatorio avente carattere ripristinatorio e doveroso; in ogni caso i principi espressi dall’Adunanza plenaria sono comunque estensibili alla controversia in esame;
   - deve infatti rilevarsi che
anche nel caso di specie il potere di autotutela esercitato dall’amministrazione, avente ad oggetto un precedente provvedimento repressivo dell’ordine demolitorio invece che un titolo edilizio risultato illegittimo, sottende “l’evidente esigenza di un deciso contrasto al grave e diffuso fenomeno dell'abusivismo edilizio, che deve essere fronteggiato con strumenti efficaci e tempestivi e con la piena consapevolezza delle gravi implicazioni che esso presenta in relazione a svariati interessi di rilievo costituzionale (quali la salvaguardia del territorio e del paesaggio, nonché la tutela della pubblica incolumità)”;
   - non va peraltro trascurato, per rimarcare nella specie la natura vincolata dell’atto oggetto del presente giudizio, che
l’ordine demolitorio rivitalizzato dall’amministrazione comunale non solo non risulta più intaccato nella sua portata effettuale dalle derminazioni in autotutela dell’amministrazione, ma nemmeno è stato interessato da alcun intervento annullatorio dell’Autorità giurisdizionale;
   - poiché viene in considerazione, nel caso di specie, un titolo in sanatoria di carattere parziale, il provvedimento oggetto di gravame non è espressione del potere di autotutela decisoria, intimamente discrezionale, ma si fonda sulla mera presa d’atto del perimetro abilitativo della sanatoria, la cui validità non è quindi messa in discussione;
   -
nel caso di specie viene infatti in considerazione un provvedimento di assenso postumo avente ad oggetto soltanto una parte delle opere oggetto della relativa istanza, di guisa che quella residua risulta estranea all’alveo della sanatoria stessa, nel rispetto quindi del principio secondo cui i limiti imposti dal legislatore alla concessione della sanatoria sono tassativi e non soggetti ad “alcuna possibilità di estensione discrezionale da parte della PA (Cons. giust. amm., n. 941 del 2009), onde consentire la tutela di valori fondamentali (a livello costituzionale ed internazionale) quali il governo del territorio, l’ambiente, il paesaggio;
   - dagli atti di causa si evince che la società ha assunto una condotta tale da indurre in errore l’amministrazione, per avere affermato in sede giurisdizionale, contrariamente al vero, che le opere descritte nell’ordinanza demolitoria prot. n. 39669/6924 del 03.10.1996 erano oggetto della domanda di condono n. 422 del 1995;
   - tale condotta è pertanto inidonea a consolidare una posizione di affidamento secondo le stesse coordinate ermeneutiche elaborate dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 8 del 2017;
   -
deve escludersi, in definitiva, che le cautele divisate dall’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 possano trovare ingresso in un caso come quello in esame stante la doverosità dell’intervento repressivo della P.A. e l’incidenza dell’autotutela su un provvedimento d’indole sanzionatoria e non certo di carattere autorizzatorio o comunque ampliativo.
7.3.3. Non può configurarsi inoltre alcun conflitto con il decreto del Presidente del Tar Toscana, sez. III, n. 4438 del 04.09.2003 -come dedotto a pagina 7 del ricorso di primo grado- in quanto con tale pronuncia monocratica si dava semplicemente atto dell’intervenuta revoca del provvedimento demolitorio con l’atto del 01.02.1997 e pertanto, al di là dell’uso di formule di mero stile, non postulava alcuna valutazione circa l’effettiva integrale soddisfazione dell’originaria pretesa della parte ricorrente in modo da acquisire forza di giudicato.
7.4. Sono del pari infondati gli ulteriori vizi-motivi articolati avverso il provvedimento impugnato (pagine 8 e ss. del ricorso di primo grado), in quanto:
   - non vi è alcuna interferenza tra il provvedimento impugnato ed il (previo) parziale accoglimento della domanda di sanatoria, stante la rilevata diversità delle aree interessate dai rispettivi interventi;
   - la reviviscenza dell’ordinanza demolitoria del 03.10.1996 non è preclusa dal fatto che la stessa era stata precedentemente revocata comportando l’atto impugnato il travolgimento proprio di tale precedente determinazione di autotutela;
   - l’impugnato provvedimento nemmeno può ritenersi precluso dall’istanza di irrogazione di sanzione pecuniaria del 24.06.2003 rimasta inevasa non assumendo tale iniziativa la valenza di domanda di sanatoria;
   -
i presupposti (normativi ed ermeneutici) dell’istituto della fiscalizzazione dell’illecito edilizio si pongono infatti su un piano ontologicamente diverso da quelli della sanatoria sia perché esso trova il proprio fondamento nella impossibilità di rimuovere le conseguenze dell’illecito senza creare danni irreparabili alla parte di edificio eseguita in conformità al permesso a costruire sia perché il pagamento della sanzioni pecuniarie, se esclude che opere edilizie abusive possano essere legittimamente demolite, non ne rimuove, però, il carattere antigiuridico (Cons. Stato, Sez. IV, 29.09.2011, n. 5412);
   - va altresì rilevato che, come da orientamento ormai pienamente consolidato di questo Consiglio (da ultimo, sez. IV, 27.07.2017, n. 3728) “
la P.A. non ha alcun obbligo di reiterare l’ingiunzione a demolire dopo che ha respinto una istanza di sanatoria presentata successivamente all’originario ordine di demolizione (cfr. ex plurimis sez. V, n. 466 del 2015 e Sez. VI, n. 1909 del 2013 cui si rinvia a mente dell'art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.)”;
   - ad ogni modo, detta istanza contiene espresso riferimento all’ordinanza demolitoria di cui al provvedimento prot. 37771 del 21.10.1997 che riguarda le opere oggetto della domanda di sanatoria n. 423 del 1995, insistenti come detto sul mappale n. 535, invece che le diverse opere, pur della medesima consistenza, di cui all’ordinanza di demolizione prot. n. 39669/6924 del 03.10.1996;
   - la pronuncia cautelare che abbia, seppur temporaneamente, fatto venir meno l’obbligo di dare esecuzione all’ordine di ripristino dello status quo ante incide sul decorso del termine di 90 giorni concesso agli interessati per provvedere nel senso che questo riprende a decorrere dopo il venir meno degli effetti della stessa pronuncia, di tal che l’ordinanza cautelare del Tar per la Toscana (n. 483 del 03.06.1997) ha comportato la sospensione dell’ordinanza demolitoria del 03.10.1996 soltanto a decorrere dall’intervento della pronuncia cautelare invece che, retroattivamente, dalla data di emanazione del provvedimento impugnato;
   - va quindi escluso che, come si assume dall’appellante, l’accoglimento della domanda cautelare abbia assunto carattere ostativo alla consumazione del termine di novanta giorni prescritto dalle legge per la sua esecuzione essendo questo, avuto riguardo alla data cui risale la notificazione dell’ordine demolitorio (09.10.1996), già ampiamente decorso al momento del pronunciamento cautelare;
   - né la validità della sanzione demolitoria può dirsi inficiata dalla vagheggiata possibilità di applicare, in sua vece, la sanzione pecuniaria a norma dell’art. 12 della legge n. 47 del 1985, in quanto “
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione: il dato testuale della legge è univoco ed insuperabile, in coerenza col principio per il quale, accertato l'abuso, l'ordine di demolizione va senz'altro emesso. La norma, inoltre, è chiara nel riferirsi soltanto al caso in cui si sia in presenza di opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23.11.2017 n. 5472).
8. Infondate sono anche le censure articolate nei riguardi del provvedimento sub b) del precedente § 1 (pagine 12 e ss. del ricorso di primo grado) avendo la società valorizzato ancora una volta la circostanza della presentazione di istanza di irrogazione di sanzione pecuniaria sostitutiva di quella demolitoria.
Vale al riguardo osservare, come da orientamento di questa Sezione, che “
l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione è normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa, che si limita a formalizzare l'effetto (acquisizione gratuita del bene al patrimonio comunale) già verificatosi alla scadenza del termine assegnato con l'ingiunzione stessa. La giurisprudenza ha pacificamente confermato tale lettura, affermando che l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate è una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all'inottemperanza dell'ordine di demolizione. Né in senso ostativo può assumere rilevanza l'assenza di motivazione specifica sulle ragioni d'interesse pubblico perseguite mediante l'acquisizione, essendo in re ipsa l'interesse all'adozione della misura, stante la natura interamente vincolata del provvedimento (ex multis Cons. di Stato, Sez. IV, 05.05.2017 n. 2053 e Sez. V, 15.07.2013, n. 3834)” (cfr. sentenza 27.07.2017, n. 3728).
Ne consegue che
la prospettata impossibilità di demolire le opere abusive senza pregiudizio della parte costruita legittimamente, a tacer della necessità di fornire ogni dimostrazione al riguardo incombente sul medesimo istante, può impedire l’esecuzione in danno dell’ordine demolitorio ma non anche l’effetto acquisitivo dell’area di sedime siccome contemplato come automatico dalla normativa in materia (art. 31 del D.P.R n. 380 del 2001).
Va altresì evidenziato che il provvedimento in questione concerne le richiamate ordinanze demolitorie prot. n. 37771 e n. 37773 del 21.10.1997, relative alle opere insistenti sul mappale n. 535, non interessate da alcun provvedimento di ritiro o annullamento giurisdizionale sì da conservare piena efficacia repressiva delle opere ivi contestate.

EDILIZIA PRIVATA: La lamentata violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, per l’omessa comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, non sussiste ai fini dell’esercizio del potere repressivo in materia edilizia avendo questo carattere interamente doveroso.
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L’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso.
In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore.
In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento, né un'ampia motivazione.

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7.2. Infondato è il primo motivo del ricorso instaurativo della lite (pagina 6), col quale si lamenta la violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, per l’omessa comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento; invero, tale diaframma partecipativo non è necessario ai fini dell’esercizio del potere repressivo in materia edilizia avendo questo carattere interamente doveroso.
A tal riguardo, il ricorrente valorizza la natura di secondo grado dell’atto impugnato essendo inteso al ritiro della determinazione a sua volta repressiva dell’ordine demolitorio, lamentando quindi la mancanza del profilo motivazionale richiesto dall’invocato art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 in punto di interesse pubblico.
La deduzione non può essere condivisa, in quanto, come opinato anche di recente da questa Sezione (sentenza 28.03.2018, n. 1959), il potere di autotutela costituisce la riedizione del potere originariamente esercitato in modo da essere attratto alla relativa disciplina.
Non va trascurata infatti la circostanza che, attraverso l’atto impugnato, l’amministrazione, nel ritirare il precedente provvedimento di autotutela, ha di fatto riesercitato il potere sanzionatorio edilizio, per il quale, secondo orientamento pretorio tanto consolidato da assurgere a jus receptum, non si richiede la previa instaurazione del contraddittorio procedimentale innescato dall’avviso di avvio del procedimento per la natura vincolata della irroganda sanzione.
Come ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio (in particolare la recente Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 9; successivamente si veda la prima applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n. 5595), “l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né un'ampia motivazione”.
7.2.1. Comunque la censura risulta neutralizzata anche per effetto del principio di dequotazione dei vizi formali di cui all’art. 21-octies della medesima legge n. 241 del 1990, in quanto, come si dirà in prosieguo, la società ricorrente non avrebbe potuto offrire all’attenzione dell’amministrazione circostanze di fatto e di diritto tali da indurre a determinazioni diverse da quella adottata
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.05.2018 n. 2799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sulla disciplina dei contratti di acquisto o locazione di immobili.
Contratti della Pubblica amministrazione – Acquisto o locazione di immobili – Principi applicabili – Art. 4, d.lgs. n. 50 del 2016 – Applicabilità.
L’art. 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, così come modificato dall’art. 5, d.lgs. 19.04.2017, n. 56, letto in combinato disposto con l’art. 17, lett. a), dello stesso Codice dei contratti comporta che in riferimento ai contratti “aventi ad oggetto l’acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni” vanno rispettati i principi “di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica” previsti dall’art. 4 per tutti i contratti pubblici esclusi, in tutto o in parte, dall’ambito di applicazione oggettiva del codice.
 Conseguentemente, la vigilanza e il controllo sui detti contratti pubblici sono attribuiti all’Autorità Nazionale Anticorruzione ai sensi dell’art. 213 dello stesso Codice
(Consiglio di Stato, comm. spec., parere 10.05.2018 n. 1241 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una veranda su un balcone, chiusa sui lati, costituisce una trasformazione urbanistico-edilizia del preesistente manufatto incompatibile con la qualificazione edilizia di manutenzione straordinaria o risanamento conservativo o pertinenza dell'immobile principale, in quanto idonea a modificarne la sagoma e creare nuovo volume, costituendo quindi una nuova costruzione o comunque un ampliamento della costruzione esistente soggetta al preventivo rilascio del permesso di costruire.
In sostanza, una veranda costituisce, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti per poi essere prontamente rimossa, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile; né rileva la natura dei materiali utilizzati per la chiusura, in quanto, anche ove realizzata con pannelli in alluminio, costituisce comunque un aumento volumetrico.
Essa rientra, pertanto, nel novero degli "interventi di nuova costruzione" di cui all'art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001, o comunque in quello degli “interventi di ristrutturazione edilizia” implicanti aumento di volumetria e modifica della sagoma dell’edificio: categorie di interventi soggette entrambe al rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettere a) e c), del DP.R. 380 del 2001 e come tali sanzionabili, in caso di assenza del titolo edilizio, con l’ordine demolitorio e ripristinatorio di cui all’art. 31 D.P.R.. 380 del 2001.
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6. Il ricorso è infondato nel merito, il che consente di prescindere dall’esame dell’eccezione preliminare formulata dalla difesa dell’amministrazione.
6.1. Secondo la consolidata giurisprudenza di questo TAR, “La realizzazione di una veranda su un balcone, chiusa sui lati, costituisce una trasformazione urbanistico-edilizia del preesistente manufatto incompatibile con la qualificazione edilizia di manutenzione straordinaria o risanamento conservativo o pertinenza dell'immobile principale, in quanto idonea a modificarne la sagoma e creare nuovo volume, costituendo quindi una nuova costruzione o comunque un ampliamento della costruzione esistente soggetta al preventivo rilascio del permesso di costruire” (TAR Torino sez. I 09.11.2012 n. 1181; sez. I 06.03.2014 n. 386).
In sostanza, una veranda costituisce, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti per poi essere prontamente rimossa, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile; né rileva la natura dei materiali utilizzati per la chiusura, in quanto, anche ove realizzata con pannelli in alluminio, costituisce comunque un aumento volumetrico.
Essa rientra, pertanto, nel novero degli "interventi di nuova costruzione" di cui all'art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001, o comunque in quello degli “interventi di ristrutturazione edilizia” implicanti aumento di volumetria e modifica della sagoma dell’edificio: categorie di interventi soggette entrambe al rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettere a) e c), del DP.R. 380 del 2001 e come tali sanzionabili, in caso di assenza del titolo edilizio, con l’ordine demolitorio e ripristinatorio di cui all’art. 31 D.P.R.. 380 del 2001.
In tal senso, di recente, TAR Napoli sez. IV 22.05.2017 n. 2714; TAR Lazio-Roma, sez. II 07.04.2017 n. 4389.
6.2. Nel caso di specie, sia il verbale di sopralluogo sia la documentazione fotografica attinta in tale occasione (doc. 3 Comune) attestano chiaramente che la veranda ha determinato un incremento volumetrico e una modifica della sagoma dell’edificio. Essa, pertanto, necessitava di permesso di costruire e giustamente è stata sanzionata dall’amministrazione con l’ordine di demolizione.
7. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso va respinto (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 09.05.2018 n. 557 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittima l'ordinanza di demolizione di un pergolato in ferro delle dimensioni di 20,30 x 5,90 mq. e un forno a legna in mattoni non infisso al suolo in area condominiale.
È stato realizzato un pergolato in ferro delle dimensioni di 20,30 x 5,90 mq. e un forno a legna in mattoni non infisso al suolo in area condominiale.
Dette opere non comportano aumento volumetrico né aumento di superfici utili e non incidono sul carico urbanistico.
Né è stata verificata l’incompatibilità delle opere con le prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici comunali o con altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia (es.: norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie ovvero disposizioni contenute nel codice dei beni culturali).
Viceversa, sul piano sistematico, le opere per consistenza strutturale, morfologia dell’area di sedime localizzata all’interno di spazi condominiali e destinazione obbediscono ai medesimi criteri ispiratori della recente disciplina sul riordino dell’attività edilizia libera e semilibera di cui al d.lgs. 25.11.2016 n. 222.
In particolare l’art. 6-bis del d.P.R. n. 380/2001, come novellato dall’art. 3, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 222/2016, senza alcuna tassonomia di fattispecie disciplinate, fa riferimento, in via residuale, agli interventi –non riconducibili all’elenco di cui agli artt. 6 (edilizia libera), 10 (interventi subordinati a permesso di costruire) e 22 (interventi subordinati a SCIA)– realizzabili in forza di comunicazione anche per via telematica.
La norma –mercé la previsione della clausola condizionale che “non vi è interessamento delle parti strutturali dell’edificio”– ha disciplinato in modo flessibile un tertium genus di opere: quelle non del tutto libere, in quanto non ricomprese nell’elencazione tassativa prevista dall’art. 6; nondimeno non subordinate a permesso di costruire o a SCIA.
Il dato positivo richiamato è paradigmatico di un indirizzo normativo e pretorio che riserva il controllo preventivo, e con esso l’apparato sanzionatorio ripristinatorio, ai soli interventi edilizi realmente incidenti sull’assetto del territorio, eccettuando gli interventi edilizi c.d. minori come quelli oggetto di causa.

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... per la riforma della sentenza 01.12.2016 n. 2591 del TAR CAMPANIA - SEZ. STACCATA DI SALERNO: SEZ. II, resa tra le parti, concernente 1) dell'ordinanza di demolizione prot. 36210 del 29.10.2012, notificata il 05.11.2012, a firma del Dirigente del Settore Territorio e Ambiente del Comune di Nocera Superiore; 2) dell'ordinanza di sospensione dei lavori prot. 24457 del 03.08.2012, successivamente notificata il 07.08.2012.
1) dell'ordinanza prot. n. 17384 del 23.4.2015, successivamente notificata al ricorrente in data 04.05.2015, a firma del Dirigente del Settore Territorio e Ambiente del Comune di Nocera Inferiore; 2) della presupposta relazione tecnica prot. n. 23070 U.T.C../STA del 25.07.2012; 3) di tutti gli atti presupposti, connessi e conseguenti.
...
7. Il motivo è fondato ed ha carattere assorbente delle residue censure.
7.1 È stato realizzato un pergolato in ferro delle dimensioni di 20,30 x 5,90 mq. e un forno a legna in mattoni non infisso al suolo in area condominiale.
Dette opere non comportano aumento volumetrico né aumento di superfici utili e non incidono sul carico urbanistico.
Per di più sono state realizzate –come risulta dalla relazione depositata in giudizio dell’INAIL n. 1169/98, ente proprietario del condominio– nel 1988.
7.2 Né –va sottolineato– è stata verificata l’incompatibilità delle opere con le prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici comunali o con altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia (es.: norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie ovvero disposizioni contenute nel codice dei beni culturali).
7.3 Viceversa, sul piano sistematico, le opere per consistenza strutturale, morfologia dell’area di sedime localizzata all’interno di spazi condominiali e destinazione obbediscono ai medesimi criteri ispiratori della recente disciplina sul riordino dell’attività edilizia libera e semilibera di cui al d.lgs. 25.11.2016 n. 222.
In particolare l’art. 6-bis del d.P.R. n. 380/2001, come novellato dall’art. 3, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 222/2016, senza alcuna tassonomia di fattispecie disciplinate, fa riferimento, in via residuale, agli interventi –non riconducibili all’elenco di cui agli artt. 6 (edilizia libera), 10 (interventi subordinati a permesso di costruire) e 22 (interventi subordinati a SCIA)– realizzabili in forza di comunicazione anche per via telematica.
7.4 La norma –mercé la previsione della clausola condizionale che “non vi è interessamento delle parti strutturali dell’edificio”– ha disciplinato in modo flessibile un tertium genus di opere: quelle non del tutto libere, in quanto non ricomprese nell’elencazione tassativa prevista dall’art. 6; nondimeno non subordinate a permesso di costruire o a SCIA.
7.5 Il dato positivo richiamato è paradigmatico di un indirizzo normativo e pretorio che riserva il controllo preventivo, e con esso l’apparato sanzionatorio ripristinatorio, ai soli interventi edilizi realmente incidenti sull’assetto del territorio, eccettuando gli interventi edilizi c.d. minori come quelli oggetto di causa.
8. Conclusivamente l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma dell’appellata sentenza, va accolto il ricorso di prime cure (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 08.05.2018 n. 2743 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Illegittimo esercizio del potere amministrativo – Rilascio di concessione edilizia in violazione del piano di recupero - Risarcimento del danno – Legittimazione passiva – Titolare del diritto di proprietà sul bene al momento del verificarsi dell’evento dannoso – Alienazione inter vivos – Parti acquirenti – Carenza di titolarità.
Il diritto al risarcimento dei danni subiti da un bene (nella specie, conseguente all’illegittimo esercizio del potere amministrativo, per il rilascio di una concessione edilizia in violazione del piano di recupero vigente) spetta a chi ne sia proprietario al momento del verificarsi dell’evento dannoso e si configura come diritto autonomo rispetto a quello di proprietà, non seguendo quest’ultimo in caso di alienazione inter vivos a titolo particolare, salvo che nell’atto di alienazione vi sia espressamente prevista la cessione (v. Cass. Sez. Un., 16.02.2016, n. 2951) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.05.2018 n. 2695 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 15, comma 3, del D.P.R. 380 del 2001 in caso di mancata realizzazione dell’opera nel corso del termine di efficacia del permesso di costruire la realizzazione della parte dell'intervento non ultimata è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività ai sensi dell’articolo 22.
Si procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo di costruzione.
Il fatto che il completamento dell’opera non ultimata nei termini richieda un nuovo ed autonomo titolo edilizio non significa che l’oggetto di tale nuovo titolo possa essere considerato in modo del tutto avulso da quanto originariamente prospettato, essendo, infatti, la nuova domanda (o scia) diretta non a porre in essere un nuovo intervento ma a realizzare “la parte non ultimata” di quello iniziale che non ha potuto essere portato a compimento a causa della decadenza del titolo edilizio.
L’amministrazione in sede di esame del permesso finalizzato alla ultimazione delle opere deve, pertanto, prendere in considerazione l’intervento originario vagliandolo, se del caso, alla luce dello jus superveniens.
Per cui il titolo potrà essere negato solo se medio tempore è intervenuta una disciplina urbanistica che non consente la realizzazione dell’opera.
Allo stesso modo, l’Amministrazione potrà aggiornare l’ammontare del contributo solo se la normativa che ne regola la quantificazione sia variata o qualora il nuovo titolo richiesto comporti una variazione della destinazione d’uso originaria (in tal senso deve intendersi l’inciso “ove necessario” riferito al ricalcolo del contributo).

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Il ricorso è fondato.
Ai sensi dell’art. 15, comma 3, del D.P.R. 380 del 2001 in caso di mancata realizzazione dell’opera nel corso del termine di efficacia del permesso di costruire la realizzazione della parte dell'intervento non ultimata è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione certificata di inizio attività ai sensi dell’articolo 22. Si procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo di costruzione.
Il fatto che il completamento dell’opera non ultimata nei termini richieda un nuovo ed autonomo titolo edilizio non significa che l’oggetto di tale nuovo titolo possa essere considerato in modo del tutto avulso da quanto originariamente prospettato, essendo, infatti, la nuova domanda (o scia) diretta non a porre in essere un nuovo intervento ma a realizzare “la parte non ultimata” di quello iniziale che non ha potuto essere portato a compimento a causa della decadenza del titolo edilizio.
L’amministrazione in sede di esame del permesso finalizzato alla ultimazione delle opere deve, pertanto, prendere in considerazione l’intervento originario vagliandolo, se del caso, alla luce dello jus superveniens.
Per cui il titolo potrà essere negato solo se medio tempore è intervenuta una disciplina urbanistica che non consente la realizzazione dell’opera.
Allo stesso modo, l’Amministrazione potrà aggiornare l’ammontare del contributo solo se la normativa che ne regola la quantificazione sia variata o qualora il nuovo titolo richiesto comporti una variazione della destinazione d’uso originaria (in tal senso deve intendersi l’inciso “ove necessario” riferito al ricalcolo del contributo, TAR Sicilia, Sezione II Palermo, sentenza n. 487 del 01/03/2013).
Nella fattispecie che viene in decisione, tuttavia, non si prospetta un problema di jus superveniens: più semplicemente il comune di Firenze ha ritenuto che la dia presentata dalla Sig.ra De Ro. nel 2017 abbia ad oggetto un intervento del tutto autonomo rispetto a quello originario ed ha proceduto al vaglio di ammissibilità edilizia ed urbanistica muovendo da tale erroneo presupposto.
Il ricorso deve, pertanto, essere accolto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 07.05.2018 n. 641 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Pareri legali – Accesso – Parere reso dal professionista dopo l’avvio di un procedimento contenzioso o dopo l’inizio di attività tipiche precontenziose – Riservatezza.
In tema di accesso ai pareri legali, allorché la consulenza si manifesta dopo l’avvio di un procedimento contenzioso (giudiziario, arbitrale, od anche meramente amministrativo) oppure dopo l’inizio di tipiche attività precontenziose, se il parere reso dal professionista individuato dall’Amministrazione non è destinato a sfociare in una determinazione amministrativa finale, ma mira a fornire all’ente pubblico tutti gli elementi tecnico -giuridici utili per tutelare i propri interessi, essa resta caratterizzata dalla riservatezza, che mira a tutelare non solo l’opera intellettuale del legale, ma anche la stessa posizione dell’amministrazione, la quale, esercitando il proprio diritto di difesa, protetto costituzionalmente, deve poter fruire di una tutela non inferiore a quella di qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 07.05.2018 n. 383 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La concessione edilizia non è necessaria per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "jus excludendi alios".
Occorre, invece, la concessione, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica.
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I ricorrenti sono proprietari di un piccolo appezzamento di terreno agricolo ubicato nel Comune di Montemurlo e dopo l'acquisto, a1fine di proteggere il fondo hanno realizzato una modesta recinzione con filo spinato sorretto da pali in legno infissi nel suolo.
La recinzione posta di fronte ad area privata fu realizzata nel 1981 e l’ordinanza impugnata ingiungeva la demolizione.
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 841 c.c. e 1 L. 10/1977 poiché per le recinzioni dei fondi rustici senza opere murarie non è necessaria la concessione edilizia trattandosi di una manifestazione del diritto di proprietà e cioè dello jus excludendi alios.
...
Il ricorso è fondato in accoglimento del primo motivo che ha natura dirimente rendendo superfluo affrontare anche gli altri.
E’ principio pacifico in giurisprudenza che la concessione edilizia non è necessaria per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "jus excludendi alios"; occorre, invece, la concessione, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica (vedasi ex multis Consiglio di Stato 5908/2017 ).
Avendo, pertanto, i ricorrenti esercitato una facoltà riconducibile al diritto dominicale e priva di rilievo sul piano edilizio l’ordinanza di demolizione è provvedimento illegittimo in quanto privo di qualsiasi base normativa (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 04.05.2018 n. 597 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La Plenaria, nel configurare la responsabilità precontrattuale prima della scelta del contraente, indica i requisiti per la risarcibilità del danno da ritardo.
L’Adunanza plenaria, nel configurare la responsabilità precontrattuale anteriormente alla scelta del contraente, stabilisce anche i presupposti per la risarcibilità del danno da ritardo procedimentale.
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Responsabilità civile – Attività amministrativa autoritativa – Responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione – Configurabilità.
  
Contratti pubblici – Responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione – Configurabilità anteriormente alla scelta del contraente.
  
Contratti pubblici – Responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione – Configurabilità per qualsiasi comportamento anche successivo al bando e contrario a buona fede.
  
Contratti pubblici – Responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione – Presupposti – Individuazione.
  
Anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare oltre alle norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illecite frutto dell’altrui scorrettezza. (1)
  
Nell’ambito del procedimento di evidenza pubblica, i doveri di correttezza e buona fede sussistono, anche prima e a prescindere dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica, con conseguente possibilità di configurare una responsabilità precontrattuale da comportamento scorretto nonostante la legittimità dei singoli provvedimenti che scandiscono il procedimento. (2)
  
La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione può derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai doveri di correttezza e buona fede.(3)
  
Affinché nasca la responsabilità dell’amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose), ma occorrono gli ulteriori seguenti presupposti: a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà; b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo; c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all’amministrazione. (4)
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   (1, 2, 3, 4) I. – Con la decisione in rassegna l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha affrontato la problematica relativa alla configurabilità della responsabilità precontrattuale anteriormente alla scelta del contraente e alla possibilità di estenderla ai comportamenti dell’amministrazione successivi alla pubblicazione del bando di gara idonei a porne nel nulla gli effetti o a ritardarne l’eliminazione o la conclusione, rispondendo affermativamente ad entrambi i quesiti posti dalla sezione rimettente, con conseguente piena applicabilità dei precetti di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c. nell’ambito del procedimento di evidenza pubblica, all’esito, tuttavia, di una rigorosa verifica in concreto circa l’esistenza dei presupposti applicativi dell’illecito civile e di ulteriori condizioni di contesto che la pronuncia si fa carico di indicare.
   II. – L’ordinanza di rimessione.
Con ordinanza 24.11.2017 n. 5492 (oggetto della News US del 28.11.2017 con ampi riferimenti di giurisprudenza e di dottrina cui si rinvia) la terza sezione del Consiglio di Stato ha deferito all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a. il quesito se la responsabilità precontrattuale sia o meno configurabile anteriormente alla individuazione del contraente, allorché gli aspiranti alla posizione di contraenti sono solo partecipanti ad una gara e possono vantare un interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione e, in caso di risposta affermativa, l’ulteriore questione se la responsabilità precontrattuale debba riguardare esclusivamente il comportamento dell’amministrazione anteriore al bando, che ha fatto sì che quest’ultimo venisse comunque pubblicato nonostante fosse conosciuto, o dovesse essere conosciuto, che non ve ne erano i presupposti indefettibili, ovvero debba estendersi a qualsiasi comportamento successivo all’emanazione del bando e attinente alla procedura di evidenza pubblica, idoneo a porne nel nulla gli effetti o a ritardarne l’eliminazione o la conclusione.
La vicenda processuale scaturisce da un annullamento in autotutela di una gara di appalto per contraddittorietà tra gli atti della lex specialis ritenuto legittimo da TAR che riconosceva al contempo la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante liquidando all’impresa ricorrente il danno nei limiti dell’interesse negativo, chiesto in via subordinata rispetto alla domanda demolitoria.
La sentenza veniva gravata in appello sia dall’impresa ricorrente (per la domanda di annullamento respinta) che dalla stazione appaltante (per la domanda risarcitoria accolta), per quanto di rispettivo interesse, e la III sezione del Consiglio di Stato rimetteva all’Adunanza plenaria i quesiti testé richiamati.
In particolare dopo aver ricostruito l’originario indirizzo giurisprudenziale in materia di responsabilità precontrattuale della P.A., con particolare riferimento alla più risalente giurisprudenza della Corte di cassazione, l’ordinanza evidenziava il passaggio delle relative controversie alla giurisdizione amministrativa, imposto dalla legge n. 205 del 2000 e ratificato dalla nota decisione dell’Adunanza plenaria (05.09.2005, n. 6, in Foro it.,2009, III, 124; Foro amm. CDS 2006, 1, 86 con nota di VACCA).
L’ordinanza poneva quindi in evidenza come la prima giurisprudenza amministrativa, successiva all’entrata in vigore della citata legge n. 205, avesse in sostanza recepito gli orientamenti della Cassazione, riconoscendo la responsabilità precontrattuale in tutti i casi in cui la P.A. -dopo l'aggiudicazione- intervenga con provvedimenti di vario tipo (revoche, annullamenti, dinieghi di stipula o approvazione) che vanificano, dall'esterno, gli esiti della procedura di selezione. In tale contesto, la responsabilità è stata indifferentemente configurata dalla giurisprudenza sia in presenza del preventivo annullamento per illegittimità di atti della sequenza procedimentale, sia nell'assodato presupposto della loro validità ed efficacia, ma sempre e solo nel caso di intervenuta aggiudicazione.
La terza sezione così elencava le diverse fattispecie emerse nella prassi:
   1) revoca dell'indizione della gara e dell'aggiudicazione per esigenze di una ampia revisione del progetto, disposta vari anni dopo l'espletamento della gara;
   2) impossibilità di realizzare l'opera prevista per essere mutate le condizioni dell'intervento;
   3) annullamento d'ufficio degli atti di gara per un vizio rilevato dall'amministrazione solo successivamente all'aggiudicazione definitiva e che avrebbe potuto rilevare già all'inizio della procedura;
   4) revoca dell'aggiudicazione, o rifiuto a stipulare il contratto dopo l'aggiudicazione, per mancanza dei fondi.
Osservava quindi che nella giurisprudenza successiva erano poi emersi due diversi orientamenti, rispetto ai quali sollecitava l’intervento chiarificatore e nomofilattico dell’Adunanza plenaria.
Un primo orientamento (cfr. ad es. Cons. Stato, sez. V, 15.07.2013, n. 3831, in Rivista Giuridica dell'Edilizia 2013, 5, I, 925; Contratti, 2014, 146, con nota di PASSARELLA; Rass. avv. Stato, 2014, fasc. 1, 173, con nota di ROMEO), in sostanza riconosce la sussistenza della responsabilità precontrattuale anche nella fase che precede la scelta del contraente e, quindi,prima e a prescindere dall’aggiudicazione.
Un secondo orientamento (cfr. ad es. Cons. Stato, sez. III, 29.07.2015, n. 3748 in Foro Amministrativo 2016, 3, 562 con nota di PIGNATTI), invece, ritiene che la responsabilità precontrattuale della P.A. sia connessa alla violazione delle regole di condotta tipiche della formazione del contratto non potendo che riguardare fatti svoltisi in tale fase, con la conseguenza che la stessa non è configurabile anteriormente alla scelta del contraente, vale a dire della sua individuazione, allorché gli aspiranti alla posizione di contraenti sono solo partecipanti ad una gara e possono vantare un interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione.
Nel rimettere la questione all’Adunanza plenaria, l’ordinanza prendeva posizione a favore del secondo più restrittivo orientamento, evidenziando alcuni argomenti fondati su un approccio ermeneutico ritenuto maggiormente rispondente ai principi civilistici.
   III. – La decisione dell’Adunanza plenaria.
Con la pronuncia in rassegna l’Adunanza plenaria decide le questioni sottoposte alla sua attenzione, nei termini che seguono:
      a) premette un’ampia ricostruzione storica dell’istituto della responsabilità precontrattuale nella disciplina del codice civile evidenziando come nell’intenzione originaria dei compilatori del codice civile del 1942, l’art. 1337 cod. civ. rappresentava un’espressione tipica della c.d. solidarietà corporativa, vale a dire di quel tipo di solidarietà che unisce tutti i fattori di produzione verso la realizzazione della massima produzione nazionale, sanzionando conseguentemente le condotte scorrette che impedivano il raggiungimento di tale scopo mentre nel mutato quadro costituzionale, è affermazione largamente condivisa quella secondo cui il dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede rappresenta una manifestazione del più generale dovere di solidarietà sociale che trova il suo principale fondamento nell’articolo 2 della Costituzione (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. I, 12.07.2016, n. 14188);
      b) osserva che il generale dovere di solidarietà che grava reciprocamente su tutti i membri della collettività, si intensifica e si rafforza, trasformandosi in dovere di correttezza e di protezione, quando tra i consociati si instaurano “momenti relazionali” socialmente o giuridicamente qualificati, in ragione del particolare status –professionale e, talvolta, pubblicistico– rivestito dai protagonisti della vicenda “relazionale”; ciò vale a fortiori per chi esercita una funzione amministrativa, costituzionalmente sottoposta ai principi di imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.), da cui il cittadino si aspetta uno sforzo maggiore, in termini di correttezza, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento, rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de populo;
      c) nel disegno costituzionale, che pone al centro l’individuo (art. 2 Cost.), l’attenzione si sposta dal perseguimento dell’utilità sociale alla tutela della persona e delle sue libertà sicché la “funzione” del dovere di correttezza non è più tanto (o solo) quella di favorire la conclusione di un contratto (valido) e socialmente utile quanto quella di tutela della libertà di autodeterminazione negoziale, cioè di quel diritto (espressione a sua volta del principio costituzionale che tutela la libertà di iniziativa economica) di autodeterminarsi liberamente nelle proprie scelte negoziali, senza subire interferenza illecite derivante da condotte di terzi connotate da slealtà e scorrettezza;
      d) il nuovo legame che così si instaura tra dovere di correttezza e libertà di autodeterminazione negoziale (che va a sostituire l’impostazione precedente che legava alla correttezza la tutela dell’interesse nazionale) impedisce allora di restringerne lo spazio applicativo alle sole situazioni in cui sia stato avviato un vero e proprio procedimento di formazione del contratto o, comunque, esista una trattativa che abbia raggiunto già una fase molto avanzata, tanto da far sorgere il ragionevole affidamento circa la conclusione del contratto.
Al contrario, la valenza costituzionale del dovere di correttezza impone di ritenerlo operante in un più vasto ambito di casi, in cui, pur eventualmente mancando una «trattativa» in senso tecnico-giuridico, venga, comunque, in rilievo una situazione “relazionale” qualificata, capace di generare ragionevoli affidamenti e fondate aspettative;
      e) la nuova concezione del dovere di correttezza trova conferma nei più recenti orientamenti della giurisprudenza civile che ha ritenuto configurabile la c.d. responsabilità precontrattuale da contratto valido ma svantaggioso (Cass. civ., sez. un., 19.12.2017 -rectius 2007-, n. 26725 in Contratti, 2008, 221, n. SANGIOVANNI; Giur. it., 2008, 347, n. COTTINO; Dir. fallim., 2008, II, 1, n. SARTORI; Giur. comm., 2008, II, 344, n. GOBBO; Resp. civ. e prev., 2008, 547, n. GRECO; La responsabilità civile, 2008, 525, n. TOSCHI VESPASIANI; Corti salernitane, 2007, 840; Riv. dir. comm., 2008, II, 17; Dir. e giur., 2008, 407, n. RUSSO; Banca, borsa ecc., 2009, II, 133, n. BOVE; Strumentario avvocati, 2008, fasc. 3, 24, n. MOTTI) e sull’esistenza di un dovere di correttezza anche in capo a colui che non è “parte” rispetto ad una trattativa che si svolge inter alios (cfr. Cass. civ., sez. un., 08.04.2011, n. 8034 in Foro it., 2011, I, 2750; Riv. dir. proc., 2012, 474, n. VILLATA; Banca, borsa ecc., 2011, II, 698, n. GARDELLA, sulla responsabilità da prospetto informativo non veritiero; Cass. civ., sez. I, 27.09.1995, n. 10235 sulle lettere di patronage deboli in Foro it. Rep.: 1996, Contratto in genere [1740], n. 216; Corriere giur., 1996, 301, n. STINGONE; Società, 1996, 288, n. FIGONE; Arch. civ., 1996, 471; Giur. it., 1996, I, 1, 738, n. CHINÉ; Nuova giur. civ., 1996, I, 278, n. CAVANNA; Giust. civ., 1996, I, 3007, n. CALICETI; Cass. civ., sez. III, 18.07.2012 –rectius 2002-, n. 10403, in Foro it., 2003, I, 2147, n. FABRIZIO-SALVATORE; Giur. it., 2003, 672, n. MARAZZI; Danno e resp., 2003, 537, n. ADDANTE; Giur. comm., 2003, II, 441, n. DI MARCELLO; Giur. comm., 2003, II, 598, n. LOMONACO; Giust. civ., 2003, I, 2876 sulla responsabilità civile della società di revisione per erronea certificazione dello stato patrimoniale di una società nei confronti di acquirenti di quote societarie);
      f) venendo all’attività autoritativa della pubblica amministrazione rammenta che la giurisprudenza, sia civile che amministrativa, ha in più occasioni affermato che anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza (cfr., fra le altre, Cons. Stato, sez. IV, 06.03.2015, n. 1142; sez. VI, 06.02.2013, n. 633; Cons. Stato, Cons. Stato, ad. plen., 05.09.2005, n. 6 cit.; Cass. civ., sez. I, 12.05.2015, n. 9636; Cass. civ., sez. I, 03.07.2014, n. 15250; Cass. civ., sez. un. 12.05.2008, n. 11656, in Foro it. Rep.: 2008, Contratti pubblici [1735], n. 557; Corriere giur., 2008, 1380, n. CLARICH, FIDONE; Immobili & dir., 2009, fasc. 1, 77, n. DE TILLA; Ammin. it., 2008, 1685; Riv. not., 2009, 1475, n. GRAZIANO;);
      g) rammenta la distinzione tra regole di validità e regole di comportamento osservando che le regole di diritto pubblico hanno ad oggetto il provvedimento (l’esercizio diretto ed immediato del potere) e la loro violazione determina, di regola, l’invalidità del provvedimento adottato. Al contrario, le regole di diritto privato hanno ad oggetto il comportamento (collegato in via indiretta e mediata all’esercizio del potere) complessivamente tenuto dalla stazione appaltante nel corso della gara.
La loro violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità. Non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento), ma regole di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto).
Rammenta al riguardo la fattispecie della responsabilità dell’amministrazione da provvedimento favorevole poi annullato in via giurisdizionale o per autotutela (cfr. Cass. civ., sez. un., ordinanze “gemelle” 23.05.2011, nn. 6594, 6595, 6596, in Foro it., 2011, I, 2387, con nota di TRAVI; Giust. civ., 2011, I, 1209, n. LAMORGESE;; Resp. civ. e prev., 2011, 1743, n. SCOGNAMIGLIO; Giurisdiz. amm., 2011, III, 298; Giust. civ., 2011, I, 2316 (m), n. D'ANGELO; Giur. it., 2012, 192, n. COMPORTI; Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2011, 1606; Giust. civ., 2012, I, 2769 (m), n. SALVAGO; Corriere giur., 2011, 934, n. DI MAJO; Riv. giur. edilizia, 2011, I, 406, n. CAPONIGRO; Giur. it., 2012, 193, n. COMPORTI; Urbanistica e appalti, 2011, 915, n. MASERA; Cass. civ., sez. un., 22.01.2015, n. 1162 in Riv. giur. edilizia, 2015, I, 201 e Cass. civ., sez. un., 04.09.2015, n. 17586 in Riv. neldiritto, 2016, 467; Riv. giur. edilizia, 2015, I, 1044, n. SINISI; Dir. proc. amm., 2016, 547, n. GALLO; Foro it. Rep.: 2016, Giustizia amministrativa [3340], n. 206);
      h) accede all’orientamento giurisprudenziale secondo cui il dovere di correttezza e buona fede (e l’eventuale responsabilità precontrattuale in caso di sua violazione) sussiste, prima e a prescindere dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica strumentale alla scelta del contraente, che si pone quale strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale nell’ambito di un sistema di “trattative (c.d. multiple o parallele) che determinano la costituzione di un rapporto giuridico sin dal momento della presentazione delle offerte, secondo un’impostazione che risulta rafforzata dalla irrevocabilità delle stesse” (cfr. Cass. civ., sez. I, 12.05.2015, n. 9636, in Giur. it., 2015, 1963, n. RACCA, PONZIO; Nuova giur. civ., 2015, I, 983, n. SCOGNAMIGLIO; Riv. corte conti, 2015, fasc. 3, 464; Corriere giur., 2016, 56, n. AGNELLO; Foro it. Rep.: 2015, Contratti pubblici [1735], n. 323; Cass. civ., sez. I, 03.07.2014, n. 15260 in Foro it., 2015, I, 643, con nota di GALLI; Riv. giur. Molise e Sannio, 2014, fasc. 3, 1, n. SANTORO; in termini, nella giurisprudenza amministrativa, cfr., fra le altre, Cons. Stato, sez. IV, 06.03.2015, n. 1142; Cons. Stato, sez. V, 15.07.2013, n. 3831);
      i) ciò in quanto “la disciplina in materia di culpa in contrahendo non necessita, infatti, di un rapporto personalizzato tra p.a. e privato, che troverebbe la sua unica fonte nel provvedimento di aggiudicazione, ma è posta a tutela del legittimo affidamento nella correttezza della controparte, che sorge sin dall’inizio del procedimento. Diversamente argomentando, l’interprete sarebbe invece costretto a scindere un comportamento che si presenta unitario e che conseguentemente non può che essere valutato nella sua complessità” (così testualmente Cass. civ., sez. un. –rectius sez. I -n. 15260/2014, cit.);
      j) rileva che anche secondo il legislatore i doveri di correttezza e di lealtà gravano sulla pubblica amministrazione anche quando essa esercita poteri autoritativi sottoposti al regime del procedimento amministrativo; in tal senso depongono i seguenti indici normativi:
         j1) l’art. 1 della legge 07.08.1990, n. 241 assoggetta l’attività amministrativa ai principi dell’ordinamento comunitario, tra i quali assume un rilievo primario la tutela dell’affidamento legittimo (Corte di Giustizia dell’UE, 03.05.1978, C-12/77 Topfer);
         j2) gli artt. 21-nonies, comma 1, e 21-quinquiesdella l. n. 241 del 1990 nel disciplinare i presupposti del potere di autotutela prescrivono che si deve sempre considerare l’affidamento del privato rispetto a un precedente provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica e sul quale basa una precisa strategia imprenditoriale;
         j3) l’art. 10 dello Statuto del contribuente approvato con la legge n. 212 del 2000 che contiene un esplicito richiamo, sebbene settoriale, al “principio della collaborazione e della buona fede”;
         j4) l’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241/1990 superando per tabulas il diverso orientamento in passato espresso dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 15.09.2005, n. 7 in Foro it., 2006, III, 1, n. SIGISMONDI; Foro amm. -Cons. Stato, 2005, 2519; Urbanistica e appalti, 2006, 61, n. CLARICH, FONDERICO; Riv. corte conti, 2005, fasc. 5, 183; Giur. it., 2006, 1060; Riv. corte conti, 2005, fasc. 6, 321; Riv. amm., 2005, 1014; Danno e resp., 2006, 903, n. COVUCCI; Giust. civ., 2006, I, 1319, n. MICARI; Rass. dir. farmaceutico, 2006, 287; Riv. giur. edilizia, 2005, I, 1524; Rass. avv. Stato, 2005, fasc. 4, 193, n. BALDANZA – ha introdotto la risarcibilità (anche) del c.d. danno da mero ritardo che è fattispecie di danno da comportamento, non da provvedimento: la violazione del termine di conclusione sul procedimento di per sé non determina, infatti, l’invalidità del provvedimento adottato in ritardo (tranne i casi eccezionali e tipici di termini “perentori”), ma rappresenta un comportamento scorretto dell’amministrazione, comportamento che genera incertezza e, dunque, interferisce illecitamente sulla libertà negoziale del privato, ledendo il diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale, eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali, fermo restando l’onere del privato di fornire la prova, oltre che del ritardo e dell’elemento soggettivo, del rapporto di causalità esistente tra la violazione del termine del procedimento e il compimento di scelte negoziali pregiudizievoli che non avrebbe altrimenti posto in essere.
      k) conclude nel senso che i doveri di correttezza, lealtà e buona fede hanno un ampio campo applicativo, anche rispetto all’attività procedimentalizzata dell’amministrazione, operando pure nei procedimenti non finalizzati alla conclusione di un contratto con un privato sicché risulterebbe eccessivamente restrittiva e, per molti versi contraddittoria, la tesi secondo cui, nell’ambito dei procedimenti di evidenza pubblica, i doveri di correttezza (e la conseguente responsabilità precontrattuale dell’amministrazione in caso di loro violazione) nascono solo dopo l’adozione del provvedimento di aggiudicazione;
      l) per analoghe ragioni esclude che la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione nella fase anteriore all’aggiudicazione possa riguardare esclusivamente il comportamento anteriore al bando, e, quindi, debba essere circoscritta alle ipotesi in cui l’amministrazione ha fatto sì che il bando venisse pubblicato nonostante fosse conosciuto o conoscibile che non vi erano i presupposti indefettibili.
Tale soluzione implicherebbe delle limitazioni di responsabilità che non trovano fondamento normativo e che contrastano con l’atipicità (delle modalità di condotta) che caratterizza l’illecito civile. Pertanto qualsiasi comportamento anche se successivo al bando che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede può essere fonte di responsabilità precontrattuale:
      m) al giudice spetta condurre una rigorosa verifica, da svolgersi necessariamente in concreto, circa l’effettiva sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie generatrice del diritto al risarcimento del danno e segnatamente:
         m1) la prova dell’esistenza dell’affidamento incolpevole;
         m2) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà;
         m3) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo secondo il regime probatorio di cui all’art. 2043 c.c.;
         m4) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione;
      n) nel giudizio di accertamento degli elementi costitutivi della responsabilità precontrattuale occorre valutare con particolare attenzione in sede applicativa i seguenti profili:
         n1) il tipo di procedimento di evidenza pubblica che viene in rilievo (anche tenendo conto dei diversi margini di discrezionalità di cui la stazione appaltante dispone a seconda del criterio di aggiudicazione previsto dal bando);
         n2) lo stato di avanzamento del procedimento rispetto al momento in cui interviene il ritiro degli atti di gara;
         n3) il fatto che il privato abbia partecipato al procedimento e abbia, dunque, quanto meno presentato l’offerta (in assenza della quale le perdite eventualmente subite saranno difficilmente riconducibili, già sotto il profilo causale, a comportamenti scorretti tenuti nell’ambito di un procedimento al quale egli è rimasto estraneo);
         n4) la conoscenza o, comunque, la conoscibilità, secondo l’onere di ordinaria diligenza richiamato anche dall’art. 1227, comma 2, cod. civ., da parte del privato dei vizi (di legittimità o di merito) che hanno determinato l’esercizio del potere di autotutela (anche tenendo conto del tradizionale principio civilistico, secondo cui non può considerarsi incolpevole l’affidamento che deriva dalla mancata conoscenza della norma imperativa violata);
         n5) la c.d. affidabilità soggettiva del privato partecipante al procedimento (ad esempio, non sarà irrilevante verificare se avesse o meno i requisiti per partecipare alla gara di cui lamenta la mancata conclusione o, a maggior ragione, l’esistenza a suo carico di informative antimafia che avrebbero comunque precluso l’aggiudicazione o l’esecuzione del contratto).
   IV. – Sulla giurisdizione in materia di comportamenti scorretti della p.a. che cagionano danni all’integrità patrimoniale ed alla libertà negoziale del privato, si segnalano le seguenti decisioni:
      o) sulla giurisdizione a conoscere della domanda di risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale della P.A., da ultimo, Cass. civ., sez. un., 27.04.2017, n. 10413 (in Foro it, 2017, I, 3693 cui si rinvia per i richiami di dottrina e giurisprudenza, non menzionata dalla Plenaria), secondo cui “Quando la p.a. agisca iure privatorum, è devoluta al giudice ordinario la controversia sulla responsabilità precontrattuale, ivi compreso l'accertamento dell'idoneità del comportamento della p.a. ad ingenerare nei terzi, anche per mera colpa, un ragionevole affidamento in ordine alla conclusione di un contratto”; Cass. civ., sez. un., 04.07.2017, n. 16419 (oggetto della News US in data 14.07.2017, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui "La domanda di risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale proposta da una p.a., in qualità di stazione appaltante, nei confronti del soggetto affidatario di lavori o servizi pubblici appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario,trattandosi di richiesta afferente non alla fase pubblicistica della gara ma a quella prodromica, nella quale si lamenta la violazione degli obblighi di buona fede e correttezza; in tale ipotesi, infatti, il giudice predetto è chiamato a decidere di una controversia avente ad oggetto un diritto soggettivo la cui lesione sia stata non conseguente, bensì soltanto occasionata da un procedimento amministrativo di affidamento di lavori o servizi";
      p) sulla giurisdizione esclusiva in materia di responsabilità precontrattuale relativa a gara, Cons. Stato sez. III, 31.08.2016 n. 3755 (in Dir. proc. amm., 2017, 677 ss. con nota di E. ROMANI), secondo cui "sussiste la giurisdizione amministrativa esclusiva nelle controversie di responsabilità precontrattuale disciplinata dall'art. 133, comma 1, lett. e) del c.p.a. laddove l'amministrazione appaltante deduca la responsabilità precontrattuale del privato partecipante alla gara. (Fattispecie relativa ad una gara indetta da un ente ospedaliero perl'individuazione dell'istituto di credito con cui stipulare un contratto di mutuo)";
       q) in fattispecie diversa dall’evidenza pubblica Cass. civ., sez. un., 12.05.2008, n. 11656 cit., citata in motivazione, ha ritenuto che “La controversia avente ad oggetto l'azione di responsabilità precontrattuale proposta da un privato nei confronti della p.a., in riferimento all'esito negativo delle trattative intercorse, a partire dall'anno 2001, per la stipulazione di un contratto di compravendita di cosa futura (nella specie, di complesso edilizio da costruire sul terreno del costruttore per adibirlo ad uffici amministrativi), in cui l'attore non postula la demolizione di alcun atto amministrativo, né contesta la procedura di individuazione del contraente, ma allega soltanto l'esistenza di un illecito extracontrattuale da parte della medesima amministrazione, attiene ad una pretesa che ha consistenza di diritto soggettivo ed appartiene, pertanto, alla giurisdizione del giudice ordinario; infatti, una volta esclusa l'applicabilità dell'art. 6 l. n. 205 del 2000, rilevante ratione temporis, riprodotto nell'art. 244 del d.lgs. n. 163 del 2006 -vertendosi in controversia riguardante la compravendita di cosa futura e non già la procedura di affidamento di lavori, servizi o forniture- la giurisdizione va affermata in base al criterio di riparto ancorato alla distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi e, dunque, in funzione della natura della situazione soggettiva dedotta in giudizio”;
      r) in materia di risarcimento dei danni subiti per l'affidamento ingenerato dal provvedimento favorevole successivamente annullato e quindi in conseguenza del comportamento scorretto della p.a. si vedano le ordinanze “gemelle” Cass. civ., sez. un., citate in motivazione:
         r1) 23.05.2011, n. 6594 secondo cui “In tema di riparto della giurisdizione, l'attrazione (ovvero concentrazione) della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio; pertanto, qualora si tratti di provvedimento amministrativo rispetto al quale l'interesse tutelabile è quello pretensivo, il soggetto che può chiedere la tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo è colui che, a seguito di una fondata richiesta, si è visto ingiustamente negare o ritardare il provvedimento richiesto; qualora si tratti di provvedimento rispetto al quale l'interesse tutelabile si configura come oppositivo, il soggetto che può chiedere la tutela risarcitoria dinanzi al medesimo giudice è soltanto colui che è portatore dell'interesse alla conservazione del bene o della situazione di vantaggio direttamente pregiudicati dal provvedimento contro il quale ha proposto ricorso (nella specie, sulla base di detto principio, le sezioni unite hanno dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario nella controversia proposta da colui che, avendo ricevuto una concessione edilizia, poi legittimamente annullata, in via di autotutela, aveva chiesto il risarcimento dei danni subiti per l'affidamento ingenerato dal provvedimento favorevole)”;
         r2) idem, 23.05.2011, n. 6595 secondo cui “Nel caso di annullamento giurisdizionale di una concessione edilizia, rilasciata in conformità col certificato di destinazione urbanistica emesso dal comune, non si configura alcuna lesione dell'interesse legittimo del titolare della concessione, ma può configurarsi una lesione dell'affidamento in lui ingenerato dal provvedimento favorevole: la relativa tutela risarcitoria è perciò devoluta al giudice ordinario”;
         r3) idem, 23.05.2011, n. 6596 secondo cui “Nel caso di annullamento giurisdizionale dell'aggiudicazione di un appalto, non si configura alcuna lesione dell'interesse legittimo dell'impresa beneficiaria dell'aggiudicazione, ma può configurarsi una lesione dell'affidamento in essa ingenerato dal provvedimento favorevole: la relativa tutela risarcitoria è perciò devoluta al giudice ordinario”;
         r4) Cass. civ., sez. un., 04.09.2015, n. 17586, sempre citata in motivazione, ha successivamente ribadito che “Anche nell'assetto normativo scaturito dal codice del processo amministrativo, non è possibile ritenere che l'azione di risarcimento danni per affidamento incolpevole del beneficiario del provvedimento amministrativo emesso illegittimamente e poi rimosso per annullamento in autotutela divenuto definitivo o per annullamento in sede giurisdizionale posa spettare alla giurisdizione del giudice amministrativo in forza della norma dell'art. 7, 4º comma, c.p.a., nel presupposto che si tratti di una controversia relativa al risarcimento del danno per la lesione di un interesse legittimo, dovendosi in tal caso viceversa ritenere che la giurisdizione spetti al giudice ordinario, avendo la pretesa azionata natura di diritto soggettivo”;
         r5) tale orientamento è stato di recente ribadito da Cass. civ., sez. un., ordinanza 22.06.2017, n. 15640 in Foro it. Rep.: 2017, Contratti pubblici [1735], n. 119 oggetto della News US del 04.07.2017 (ai cui approfondimento di dottrina e giurisprudenza si rinvia) secondo cui “La controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento danni proposta da colui che, avendo ottenuto l'aggiudicazione in una gara per l'affidamento di un appalto pubblico, successivamente annullata dal giudice amministrativo perché illegittima, deduca la lesione dell'affidamento ingenerato dal provvedimento di aggiudicazione apparentemente legittimo, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, non essendo chiesto in giudizio l'accertamento della illegittimità dell'aggiudicazione e, quindi, non rimproverandosi alla p.a. l'esercizio illegittimo di un potere consumato nei suoi confronti, ma la colpa consistita nell'averlo indotto a sostenere spese nel ragionevole convincimento della prosecuzione del rapporto fino alla scadenza del termine previsto dal contratto stipulato a seguito della gara”;
      s) Cass. civ., sez. un., ordinanza 15.12.2017, n. 30221 in Foro it.: Rep. 2017, Giurisdizione civile [3330], n. 135 oggetto della News US del 05.01.2018 (ai cui approfondimenti si rinvia) ha invece ritenuto la giurisdizione amministrativa in caso di condotta ostruzionistica della p.a. affermando che “La complessiva condotta della p.a., di gestione dell'istruttoria di un procedimento sulla domanda di erogazione di aiuti finanziari latamente discrezionali, quali quelli previsti dall'art. 6 l.prov. Trento n. 6 del 1999, che non fissa presupposti cogenti, implicando pertanto valutazioni di opportunità e convenienza circa la meritevolezza dell'impresa richiedente, onde garantire l'impiego oculato di risorse pubbliche ed evitare che l'agevolazione concretizzi una perdita certa per l'erario, non si risolve in una sequenza di singoli comportamenti dei funzionari investiti del relativo potere ma integra una condotta tipica amministrativa di impostazione di contatti ed interlocuzioni con la richiedente volti, anche con provvedimenti formali, a conseguire le condizioni migliori affinché l'impegno delle risorse pubbliche possa valutarsi vantaggioso o quanto meno non destinato ad una prognosi sicuramente sfavorevole; pertanto, è attribuita alla cognizione del giudice amministrativo la domanda di risarcimento del danno prospettato come derivante da quella condotta, siccome in rapporto di causalità diretta con l'illegittimo esercizio del potere pubblico”;
      t) la giurisdizione amministrativa in materia di danno da ritardo era stata affermata già da Cons. Stato, Ad. plen., 15.09.2005, n. 7 cit. ed ora viene ribadita dalla pronuncia della Plenaria in rassegna che richiama la previsione dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 1, Cod. proc. amm., la quale devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di “risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”. Precisa la Plenaria che il ritardo lede la libertà negoziale del soggetto ed il suo diritto soggettivo al rispetto del termine di conclusione del procedimento fissato direttamente dalla legge in ciò accogliendo la tesi espressa da M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, Giappichelli, 1995;
   V. – In materia di responsabilità precontrattuale si segnalano le seguenti problematiche di ordine sostanziale:
      u) sulla natura della responsabilità precontrattuale della P.A. e sul conseguente regime giuridico, con particolare riferimento all’onere della prova ed al termine di prescrizione, si rilevano orientamenti divergenti tra le giurisdizioni civile ed amministrativa e nell’ambito di ciascuna di esse:
         u1) Cass. civ., sez. I, 12.07.2016, n. 14188 (in Rivista del Notariato 2017, 4, II, 776 con nota di RINALDO e in Foro it., 2016, I, 2685, con nota di PALMIERI, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), ritiene che "la responsabilità precontrattuale, ai sensi degli art. 1337 e 1338 c.c., va inquadrata nella responsabilità di tipo contrattuale da "contatto sociale qualificato", inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ai sensi dell'art. 1173 c.c. e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, ai sensi degli art. 1175 e 1375 c.c., con conseguente applicabilità del termine decennale di prescrizione ex art. 2946 c.c."; secondo Cass. civ., sez. I, 20.12.2011 n. 27648 “La trattativa precontrattuale crea un obbligo di comportamento in buona fede, che distingue tale fattispecie da quella di cui all'art. 2043 c.c., nella quale per contro la lesione precede l'instaurazione di un qualsiasi rapporto tra le parti. La responsabilità che ne scaturisce è di natura contrattuale onde il danneggiato dovrà provare, oltre al danno sofferto, solo la condotta antigiuridica, non anche la colpa del danneggiante”; nel senso che la responsabilità precontrattuale della P.A. sia ricompresa nell’ambito di quella extracontrattuale ex art. 2043 c.c., parrebbe invece orientarsi Cass. civ., sez. un., 2704.2017, n. 10413 cit. (non menzionata dalla Plenaria);
         u2) Cons. Stato, sez. IV, 28.12.2016 n. 5497 in Foro amm., 2016, 2939 (m), ritiene invece che “La fattispecie del danno da ritardo va pienamente ricondotta allo schema generale dell'art. 2043 c.c., con conseguente applicazione rigorosa del principio dell'onere della prova in capo al danneggiato circa la sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell'illecito, con l'avvertenza inoltre che, nell'azione di responsabilità per danni, il principio dispositivo, sancito in generale dall'art. 2697, 1º comma, c.c., opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento”; in senso conforme Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5199 con ampi richiami di giurisprudenza, secondo cui “La fattispecie del danno da ritardo va inquadrata nel genus della responsabilità c.d. "aquiliana" ex art. 2043 codice civile, con conseguente applicazione del principio dell'onere della prova, in capo al danneggiato, in ordine alla sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell'illecito in questione”; in generale sulla responsabilità aquiliana da attività provvedimentale illegittima si veda di recente Cons. Stato, sez. IV, 04.07.2017, n. 3254;
         u3) la pronuncia della Plenaria in rassegna richiama espressamente l’art. 2043 c.c. nell’analisi degli elementi costitutivi della fattispecie e lo stesso principio di atipicità dell’illecito aquiliano propendendo pertanto per la natura extracontrattuale della responsabilità precontrattuale;
         u4) sul punto specifico relativo alla necessità che la controparte sia stata o meno individuata, ai fini della configurabilità della responsabilità della P.A., pare diversamente orientata Cass. civ., sez. un., 27.04.2017, n. 10413 cit. (non menzionata dalla Plenaria), secondo cui “La p.a. che, agendo iure privatorum, intrattiene con una controparte già individuata trattative finalizzate alla stipulazione di un contratto di diritto privato, incorre in responsabilità precontrattuale in tutti i casi in cui il suo comportamento contrasti con i principî della correttezza e della buona fede";
      v) sui limiti ai danni riconoscibili in sede di responsabilità precontrattuale, Cons. Stato, sez. IV, 15.09.2014, 4674 (in Guida al diritto 2014, 41, 94 con nota di TOMASSETTI e in Foro it., 2015, III, 106, con nota di GALLI cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui "il danno risarcibile a titolo di responsabilità precontrattuale in relazione alla mancata stipula di un contratto d'appalto o in relazione all'invalidità dello stesso, comprende le spese sostenute dall'impresa per aver partecipato alla gara (danno emergente), ma anche e soprattutto la perdita, se adeguatamente provata, di ulteriori occasioni di stipulazione di altri contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi, impedite proprio dalle trattative indebitamente interrotte (lucro cessante), con esclusione del mancato guadagno che sarebbe derivato dalla stipulazione ed esecuzione del contratto non concluso";
      w) sulla configurabilità della responsabilità precontrattuale per sopravvenienze normative si veda Cons. Stato, sez. V, 26.06.2015, n. 3237 (in Foro it., 2015, III, 672, con nota di TRAVI), secondo cui "la responsabilità precontrattuale dell'amministrazione, per violazione del dovere di lealtà e di correttezza, va esclusa in presenza di una revoca disposta una decina di giorni dopo l'atto revocato e motivata con sopravvenienze legislative e istituzionali che impedivano l'assunzione di impegni finanziari con la durata prevista";
      x) sulla configurabilità della responsabilità precontrattuale in presenza di contratto valido ma pregiudizievole –su cui la pronuncia della Plenaria in rassegna si sofferma diffusamente– si veda anche Cass. civ., sez. I, 23.03.2016, n. 5762 (in Foro it., 2016, I, 1703, con nota di P. PARDOLESI cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui "la regola posta dall'art. 1337 c.c. non si riferisce alla sola ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative ma ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso ed implica il dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l'ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto";
      y) sulla differenza fra responsabilità precontrattuale e responsabilità da impossibile esecuzione del giudicato, Cons. Stato, Ad. plen., 12.05.2017, n. 2 (in Foro it., 2017, III, 433, con nota di TRAVI; Guida al diritto 2017, 24, 95 con nota di PONTE; nonché oggetto della News US in data 16.05.2017, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui "l'impossibilità (sopravvenuta) di esecuzione in forma specifica dell'obbligazione nascente dal giudicato —che dà vita in capo all'amministrazione ad unaresponsabilità assoggettabile al regime della responsabilità di natura contrattuale, che l'art. 112, comma 3, c.p.a., sottopone peraltro ad un regime derogatorio rispetto alla disciplina civilistica— non estingue l'obbligazione, ma la converte, "ex lege", in una diversa obbligazione, di natura risarcitoria, avente ad oggetto l'equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato in sostituzione della esecuzione in forma specifica; l'insorgenza di tale obbligazione può essere esclusa solo dalla insussistenza originaria o dal venir meno del nesso di causalità, oltre che dell'antigiuridicità della condotta"; Cons. Stato, sez. VI, 11.01.2010, n. 20 (in Guida al diritto 2010, 10, 98 con nota di PONTE), secondo cui "la qualificazione della responsabilità derivante da illegittimaaggiudicazione come precontrattuale non impedisce il ristoro del danno da perdita di "chance". Tuttavia nel rispetto del principio generale sancito dall'art. 2697 c.c., la parte che invoca il danno da perdita di "chance" ne deve fornire la prova rigorosa. Le occasioni favorevoli di cui si lamenta la perdita non devono essere astratte, ma avere un minimo di concretezza, che non è integrata dalla produzione di bandi pubblicati per analoghi appalti nel periodo in questione";
      z) sull’ammissibilità della responsabilità precontrattuale in caso di autotutela, cfr., tra le tante, Cons. Stato, sez. V, 06.12.2006, n. 7194 (in Guida al diritto 2007, 3, 85 con nota di PONTE; Urbanistica e appalti, 2007, 595, con nota di TUCCARI), secondo cui "è ammissibile la risarcibilità del danno, a titolo di responsabilità precontrattuale della p.a., nell'ipotesi in cuil'amministrazione procedente, rilevando un errore nel procedimento di gara già esperito, rimuova in autotutela la gara stessa, ancorché fosse già intervenuta l'aggiudicazione in capo all'impresa vincitrice della selezione".
Peraltro sul punto la pronuncia in rassegna contiene una inciso rilevante laddove, nel richiedere la conoscenza o, comunque, la conoscibilità, secondo l’onere di ordinaria diligenza richiamato anche dall’art. 1227, comma 2, cod. civ., da parte del privato dei vizi (di legittimità o di merito) che hanno determinato l’esercizio del potere di autotutela, precisa che occorre tener conto “del tradizionale principio civilistico, secondo cui non può considerarsi incolpevole l’affidamento che deriva dalla mancata conoscenza della norma imperativa violata” (tra le tante si veda da ultimo Cass. civ., sez. III, 18.05.2016 n. 10156 secondo cui “In materia di invalidità negoziale, ove essa derivi dalla violazione di una norma imperativa o proibitiva di legge, o di altre norme aventi efficacia di diritto obiettivo, cioè tali da dover essere note, per presunzione assoluta, alla generalità dei cittadini, ovvero tali, comunque, da potere essere conosciute attraverso un comportamento di normale diligenza, non si può configurare colpa contrattuale a carico dell'altro contraente, che abbia omesso di far rilevare alla controparte l'esistenza delle norme stesse”); ne discende che, in caso di annullamento della gara per violazione di norme di legge, di regola, non potrà ritenersi sussistente un affidamento incolpevole meritevole di tutela secondo quanto prescritto dall’art. 1338 c.c. stante la presunzione di conoscenza della norma di legge violata in capo al privato.
      aa) sull’ammissibilità della responsabilità precontrattuale in caso di revoca dell’aggiudicazione provvisoria, Tar per la Campania, sede di Napoli, sez. I, 14.09.2016, n. 4300, in lamministrativista.it, 08.11.2016, con nota di NUZZO), secondo cui "il provvedimento di revoca dell'aggiudicazione provvisoria ascrivibile alla colpevole condotta della stazione appaltante e, in particolare, alle incontestate criticità e ritardi registrati durante la fase di pubblicazione della "lex specialis" ed al conseguenziale slittamento dei termini di partecipazione, nonché alla lenta celebrazione delle attività di esame delle offerte, determina il sorgere di una responsabilità precontrattuale, riconducibile al modello extracontrattuale o da fatto illecito di cui all'art. 2043 c.c.";
      bb) sulle possibili implicazioni in tema di responsabilità precontrattuale nel project financing, derivanti dalla valorizzazione del comportamento amministrativo scorretto operato dalla Plenaria lungo l’intero arco di sviluppo della funzione amministrativa si evidenzia che:
         - la costante giurisprudenza amministrativa afferma che, anche una volta dichiarata di pubblico interesse una proposta di realizzazione di lavori pubblici ed individuato quindi il promotore privato, l’amministrazione non è tenuta a dare corso alla procedura di gara per l’affidamento della relativa concessione, posto che tale scelta costituisce una tipica e prevalente manifestazione di discrezionalità amministrativa nella quale sono implicate ampie valutazioni in ordine all’effettiva esistenza di un interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, tali da non potere essere rese coercibili nell’ambito del giudizio di legittimità che si svolge in sede giurisdizionale amministrativa (Cons. Stato, sez. III, 20.03.2014, n. 1365; Cons. Stato, sez. III, 24.05.2013, n. 2838; Cons. Stato, sez. V, 06.05.2013, n. 2418);
         - la posizione di vantaggio acquisita per effetto della dichiarazione di pubblico interesse si esplica solo all’interno della gara, una volta che la decisione di affidare la concessione sia stata assunta (Cons. Stato, sez. V, 21.06.2016, n. 2719; idem, 03.05.2016, n. 1692); questo vantaggio si sostanzia nel fatto che il progetto del promotore è posto a base della successiva gara e che, laddove all’esito di quest’ultima sia selezionato un progetto migliore, lo stesso promotore ha un diritto potestativo di rendersi aggiudicatario adeguando la propria proposta a quella migliore;
         - da questo inquadramento viene tratto il corollario, ai fini della responsabilità civile per culpa in contrahendo, che anche dopo la dichiarazione di pubblico interesse dell’opera non si è costituito un distinto, speciale ed autonomo rapporto precontrattuale, interessato dalla responsabilità precontrattuale, a che l’amministrazione dia poi comunque corso alla procedura di finanza di progetto e che per contro la valutazione amministrativa della perdurante attualità dell’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera continua a essere immanente e comporta un’assunzione consapevole di rischio a che quanto proposto non venga poi stimato conforme all’interesse pubblico e dunque davvero da realizzare (cfr. Cons. Stato, sez. III, 20.03.2014, n. 1365; successivamente Cons. Stato, sez. V, 21.06.2016, n. 2719; Cons. Stato, sez. V, 03.05.2016, n. 1692; più di recente nello stesso senso: Cons. Stato, V, 18.01.2017, n. 207; idem 21.12.2017, n. 6009; idem, 11.01.2018, n. 111 in Foro Amministrativo (Il) 2018, 1, 13);
         - si precisa tuttavia, talvolta, che dopo la dichiarazione di pubblico interesse della proposta del promotore l’amministrazione non disponga di «un’incondizionata facoltà di recesso ad nutum della procedura (il che risulterebbe evidentemente contrario ai generali canoni di ragionevolezza e buona fede che connotano anche questo settore dell’ordinamento)» (così Cons. Stato, sez. V, 13.03.2017, n. 1139 richiamata da Cons. Stato, V, 21.12.2017, n. 6009);
         - e si valorizza la condotta del promotore per escludere la responsabilità precontrattuale precisandosi che non solo il soggetto pubblico aggiudicatore ma anche il proponente privato è obbligato a «collaborare in modo pieno al fine di individuare soluzioni giuridicamente e finanziariamente sostenibili»; dacché «non si possono far gravare soltanto sull’amministrazione le conseguenze della negativa conclusione della procedura laddove il proponente, pur se consapevole delle criticità connesse ad alcuni aspetti qualificanti della proposta, abbia nondimeno insistito (e in modo consapevole) su tali aspetti, in tal modo contribuendo in modo determinante al giudizio negativo infine espresso dal CIPE e alla scelta per una diversa opzione realizzativa» (così Cons. Stato, V, 13.03.2017, n. 1139 richiamata da Cons. Stato, V, 21.12.2017, n. 6009); in tale affermazione si rileva una anticipazione di quanto affermato dalla Plenaria con la pronuncia in rassegna nel senso “che nell’ambito del procedimento amministrativo (a maggior ragione in quello di evidenza pubblica cui partecipano operatori economici qualificati), il dovere di correttezza è un dovere reciproco, che grava, quindi, anche sul privato, a sua volta gravato da oneri di diligenza e di leale collaborazione verso l’Amministrazione”;
      cc) sulla rilevanza, ai fini di responsabilità precontrattuale, della minuta o puntuazione, Cass. civ., sez. un., 06.03.2015, n. 4628 (in Diritto & Giustizia 2015, 9 marzo con nota di TARANTINO e in Foro it., 2015, I, 2016, con nota di GIOVANELLA cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui "in presenza di contrattazione preliminare relativa a compravendita immobiliare che sia scandita in due fasi, con la previsione di stipula di un contratto preliminare successiva alla conclusione di un primo accordo, il giudice di merito deve preliminarmente verificare se tale accordo costituisca già esso stesso contratto preliminare valido e suscettibile di conseguire effetti ex art. 1351 e 2932 c.c., ovvero anche soltanto effetti obbligatori ma con esclusione dell'esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento. Riterrà produttivo di effetti l'accordo denominato come preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell'interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare. La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, potrà dar luogo a responsabilità per la mancata conclusione del contratto stipulando, da qualificarsi di natura contrattuale per la rottura del rapporto obbligatorio assunto nella fase precontrattuale";
   VI. - Circa il risarcimento del danno da ritardo mero, per lesioni degli interessi procedimentali e, in generale, sulla tutela del c.d. interesse strumentale nell’attuale ordinamento del processo amministrativo, caratterizzato dalla peculiare disciplina delle condizioni delle azioni (in particolare interesse ad agire e legittimazione), che mira alla realizzazione del giusto processo ex art. 111 Cost., si vedano:
      dd) Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 (specie §§ 5 ss., e 9.2. ss., in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; Riv. dir. proc., 2015, 1256, con nota di FANELLI; Giur. it., 2015, 2192 con nota di FOLLIERI; Dir. proc. ammin., 2016, 205, con nota di PERFETTI e TROPEA, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza); sez. V, 22.01.2015, n. 272, in Foro it., 2015, III, 345 cui si rinvia per ogni riferimento di dottrina e giurisprudenza; tutte nel senso:
         dd1) di non consentire la tutela del c.d. interesse strumentale perché in contrasto con le esigenze di evitare l’abuso del processo ed il sindacato su poteri non ancora esercitati dalla stazione appaltante;
         dd2) di considerare il processo quale risorsa scarsa da attingere solo dopo essere stato superato il filtro delle condizioni dell’azione in cui è insito un giudizio di meritevolezza della pretesa;
         dd3) di esigere che il processo sia volto a tutelare interessi concreti ed attuali e non futuri ed incerti, di mero fatto quando non emulativi, per giunta rimessi ad una incoercibile nuova determinazione dell’Amministrazione;
      ee) in dottrina: R. DE NICTOLIS, Codice del processo amministrativo cit., 759 ss, 2056 ss., nega in radice che l’interesse strumentale sia configurabile quale interesse legittimo;
      ff) la opposta tesi della configurabilità, anche in termini di veri e propri diritti, di situazioni soggettive procedimentali, come situazioni giuridiche autonome rispetto al contenuto sostanziale del provvedimento finale, è stata sostenuta da M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, Giappichelli, 1995, F. FIGORILLI, Il contraddittorio nel procedimento amministrativo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, A. PUBUSA, Diritti dei cittadini e pubblica amministrazione, Torino, Giappichelli, 1996, A. ZITO, Le pretese partecipative del privato nel procedimento amministrativo, Milano, Giuffrè, 1996, E. FOLLIERI, Lo stato dell'arte della tutela risarcitoria degli interessi legittimi. Possibili profili ricostruttivi, in Dir. proc. amm., n. 2/1998, M. RENNA, Obblighi procedimentali e responsabilità dell'amministrazione in, Dir. amm. 2005, 3, 557;
      gg) questa tesi è stata respinta dall’indirizzo sino ad ora dominante nella giurisprudenza del Consiglio di Stato che rifiuta la possibilità di risarcire il danno ogni qual volta non sia riconoscibile con certezza la spettanza del bene della vita finale (sull’inquadramento generale v. Cons. Stato, Ad. plen., 12.05.2017, n. 2, oggetto della News US in data 16.05.2017 e in Foro it., 2017, III, 433, con nota di TRAVI; Ad. plen. n. 5 del 2015 cit.; Ad. plen. n. 9 del 2014 cit., cui si rinvia per ogni approfondimento); per questa via si esclude il danno da mero ritardo procedimentale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 02.10.2017, n. 4570; sez. V, 25.03.2016, n. 1239, oggetto della News US in data 31.03.2016 cui si rinvia per ogni approfondimento); da lesione di un mero interesse di fatto o emulativo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.04.2016, n. 1436; sez. V, 10.02.2015, n. 675, in Riv. neldiritto, 2015, 1033, con nota di GALATI, cui si rinvia per ogni approfondimento); da annullamento del provvedimento amministrativo per vizi puramente formali (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.07.2017, n. 3520; sez. IV, 04.07.2017, n. 3255); e si mantiene un atteggiamento rigoroso, sotto il profilo causale e statistico, circa i presupposti per il riconoscimento del danno da perdita di chance specie per le gare di appalto (cfr. Cons. Stato, sez. V, 25.02.2016, n. 762, in Foro it., 2016, III; 468, con nota di CONDORELLI; sez. V, 30.06.2015, n. 3249, id., 2015, III, 440, con nota di TRIMARCHI BANFI; sez. IV, 15.09.2014, n. 4674, id., 2015, III, 106, con nota di GALLI; sul versante civile v. da ultimo Cass. civ., sez. I, 29.11.2016, n. 24295, id., 1374, con nota di DI ROSA cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza);
      hh) tale indirizzo dovrà essere rimeditato alla luce del principio di diritto reso dalla pronuncia della Plenaria in rassegna con riferimento al danno da mero ritardo, anche se l’autonoma rilevanza, anche economica, del “bene tempo”, se da un lato giustifica l’apertura della Plenaria, dall’altro non rende necessaria, dal punto di vista della coerenza sistematica, una indiscriminata apertura alla tutelabilità di tutte le posizioni giuridiche soggettive procedimentali, in via autonoma rispetto al bene della vita finale, come confermato dalla quasi coeva pronuncia della Plenaria n. 4/2018 che, escludendo l’onere di tempestiva impugnazione delle clausole del bando non immediatamente lesive, ha negato l’autonoma tutelabilità di un diritto alla legittimità della procedura di gara sganciato dalla spettanza dell’utilità finale, in linea con l’orientamento tradizionale;
      ii) circa la inidoneità della violazione dei termini del procedimento, salvo i casi eccezionali e tipici di termini perentori previsti dalla legge, a determinare ex se la illegittimità del provvedimento si veda Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 10 in Foro it., 2014, III, 213; Giurisdiz. amm., 2013, ant., 640; Giur. it., 2014, 1179 (m), n. GNES; Urbanistica e appalti, 2014, 830, n. FOÀ; Dir. e pratica amm., 2014, fasc. 6, 65 (m), n. D'INCECCO BAYARD DE VOLO; Nuovo notiziario giur., 2015, 153; Cons. Stato, sez. IV, 16.11.2011, n. 6051 in Foro it., 2012, III, 636.
A tal proposito in materia di violazione del termine per la stipula del contratto Cons. Stato sez. V, 31.08.2016 n. 3742 ha affermato che “Il termine di sessanta giorni dal momento in cui diviene definitiva l'aggiudicazione dell'appalto, fissato dall'art. 11, comma 9, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 per la stipula del contratto, non ha natura perentoria, né alla sua inosservanza può farsi risalire ex se un'ipotesi di responsabilità precontrattuale ex lege della Pubblica amministrazione, se non in costanza di tutti gli elementi necessari per la sua configurabilità; infatti le conseguenze che derivano in via diretta dall'inutile decorso di detto termine, sono, da un lato, la facoltà dell'aggiudicatario, mediante atto notificato alla stazione appaltante, di sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto; dall'altro, il diritto al rimborso delle spese contrattuali documentate, senza alcun indennizzo” (cfr. di recente nello stesso senso Cons. Stato, sez. III, 26.03.2018 n. 1882; Tar per il Lazio–Roma - sez. III, 16.12.2016 n. 12544) (
Consiglio di Stato, A.P., sentenza 04.05.2018 n. 5 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'Adunanza plenaria riconosce la responsabilità precontrattale anche prima dell’aggiudicazione definitiva.
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Risarcimento danni – Responsabilità precontrattuale – Nell’esercizio dell’attività autoritativa – Configurabilità-
  
Risarcimento danni – Responsabilità precontrattuale – Contratti della Pubblica amministrazione – Responsabilità precontrattuale – Configurabilità anche prima dell’aggiudicazione – Possibilità.
  
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica amministrazione – Responsabilità precontrattuale – Configurabilità per comportamenti anteriori al bando – Possibilità.
  
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica amministrazione – Responsabilità precontrattuale – Presupposti – Individuazione.
  
Anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare oltre alle norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illecite frutto dell’altrui scorrettezza (1).
  
Nell’ambito del procedimento di evidenza pubblica, i doveri di correttezza e buona fede sussistono, anche prima e a prescindere dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica, con conseguente possibilità di configurare una responsabilità precontrattuale da comportamento scorretto nonostante la legittimità dei singoli provvedimenti che scandiscono il procedimento (1).
  
La responsabilità precontrattuale della Pubblica amministrazione può derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai doveri di correttezza e buona fede (1).
  
Affinché nasca la responsabilità dell’amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose), ma occorrono gli ulteriori seguenti presupposti:
a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà;
b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo; c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all’amministrazione (1).

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   (1) La questione era stata rimessa Cons. St., sez. III, 24.11.2017, n. 5491.
L’Adunanza plenaria ritiene che le questioni rimesse dalla Sezione Terza debbano essere risolte nel senso che:
      a) il dovere di correttezza e di buona fede oggettiva (e la conseguente responsabilità precontrattuale derivante dalla loro violazione) sia configurabile in capo all’Amministrazione anche prima e a prescindere dall’adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva;
      b) tale responsabilità sia configurabile senza che possa riconoscersi rilevanza alla circostanza che la scorrettezza maturi anteriormente alla pubblicazione del bando oppure intervenga nel corso della procedura di gara.
La contraria tesi, verso cui propende l’ordinanza di rimessione (e la giurisprudenza in essa richiamata), muove dalla premessa teorica che il dovere di correttezza e di buona fede trovi il suo presupposto in una “trattativa” già in stato avanzato, tale da far sorgere un ragionevole affidamento nella conclusione del contratto (la c.d. “trattativa affidante”).
In questa prospettiva, invero, si giustifica la conclusione secondo cui, nelle procedure ad evidenza pubblica, è soltanto l’aggiudicazione (definitiva) il momento a partire dal quale il partecipante alla gara può fare un ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto e, dunque, può dolersi del “recesso” ingiustificato dalle trattative che la stazione appaltante abbia posto in essere attraverso l’esercizio dei poteri di autotutela pubblicistici sugli atti di gara.
Tale premessa teorica sembra, in effetti, trovare un supporto nella formulazione testuale dell’art. 1337 cod. civ., che pone il dovere di correttezza in capo alle “parti” della “trattativa” e del “procedimento di formazione del contratto”, a maggior ragione se tale norma viene letta alla luce dell’intenzione del legislatore storico, quale emergente dalla Relazione al Codice civile (paragrafo n. 612). Nell’intenzione originaria dei compilatori del codice civile del 1942, l’art. 1337 cod. civ. rappresentava un’espressione tipica della c.d. solidarietà corporativa, vale a dire di quel tipo di solidarietà che, come esplicitato nel citato paragrafo delle relazione illustrativa, unisce tutti i fattori di produzione verso la realizzazione della massima produzione nazionale.
Ad avviso dell’Adunanza plenaria, l’attuale portata del dovere di correttezza è oggi tale da prescindere dall’esistenza di una formale “trattativa” e, a maggior ragione, dall’ulteriore requisito che tale trattativa abbia raggiunto un livello così avanzato da generare una fondata aspettativa in ordine alla conclusione del contratto.
Ciò che il dovere di correttezza mira a tutelare non è, infatti, la conclusione del contratto, ma la libertà di autodeterminazione negoziale: tant’è che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il relativo danno risarcibile non è mai commisurato alle utilità che sarebbero derivate dal contratto sfumato, ma al c.d. interesse negativo (l’interesse appunto a non subire indebite interferenze nell’esercizio della libertà negoziale) o, eventualmente, in casi particolari, al c.d. interesse positivo virtuale (la differenza tra l’utilità economica ricavabile dal contratto effettivamente concluso e il diverso più e più vantaggioso contratto che sarebbe stato concluso in assenza dell’altrui scorrettezza).
Il progressivo ampliamento del dovere di correttezza (anche a prescindere dall’esistenza di una trattativa precontrattuale in senso stretto) ha trovato riscontro anche rispetto all’attività autoritativa della Pubblica amministrazione sottoposta al regime del procedimento amministrativo, quando a dolersi della scorrettezza è proprio il privato che partecipa al procedimento.
La giurisprudenza, sia civile che amministrativa, ha, infatti, in più occasioni affermato che anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione è tenuta a rispettare non soltanto le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma anche le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza (Cons. St., sez. VI, 06.02.2013, n. 633; id., sez. IV, 06.03.2015, n. 1142; id., A.P., 05.09.2005, n. 6).
Di qui la possibilità che una responsabilità da comportamento scorretto sussista nonostante la legittimità del provvedimento amministrativo che conclude il procedimento.
In tale contesto va richiamata anche la recente sentenza della sez. VI, 06.03.2018, n. 1457, che ha espressamente evocato un modello di pubblica amministrazione, come si è andato evolvendo nel diritto vivente, permeato dai principi di correttezza e buona amministrazione, desumibili dall’art. 97 Cost..
Da quanto sopra evidenziato emerge, quindi, che i doveri di correttezza, lealtà e buona fede hanno un ampio campo applicativo, anche rispetto all’attività procedimentalizzata dell’amministrazione, operando pure nei procedimenti non finalizzati alla conclusione di un contratto con un privato.
In tale contesto, pertanto, risulterebbe eccessivamente restrittiva e, per molti versi contraddittoria, la tesi secondo cui, nell’ambito dei procedimenti di evidenza pubblica, i doveri di correttezza (e la conseguente responsabilità precontrattuale dell’amministrazione in caso di loro violazione) nascono solo dopo l’adozione del provvedimento di aggiudicazione.
Aderendo a tale impostazione, si finirebbero, infatti, per creare a favore del soggetto pubblico “zone franche” di responsabilità, introducendo in via pretoria un regime “speciale” e “privilegiato”, che si porrebbe in significativo contrasto con i principi generali dell’ordinamento civile e con la chiara tendenza al progressivo ampliamento dei doveri di correttezza emergente dal percorso giurisprudenziale e normativo di cui si è dato atto.
La limitazione, prospettata (in via subordinata) dall’ordinanza di rimessione, della responsabilità dell’amministrazione ai soli comportamenti anteriori al bando è volta ad introdurre, aprioristicamente e in astratto, limitazioni di responsabilità che non trovano fondamento normativo e che contrastano con l’atipicità (delle modalità di condotta) che caratterizza l’illecito civile.
Ha ancora aggiunta l’Alto Consesso che l’illecito civile si incentra sull’ingiusta lesione della situazione giuridica soggettiva (o, in caso di responsabilità contrattuale, sull’inadempimento dell’obbligazione), senza che assumano rilievo le specifiche modalità comportamentali che hanno determinato tale lesione (o l’inadempimento dell’obbligazione). È, dunque, mutuando una qualificazione penalistica, un illecito a forma libera e causalmente orientato.
Deve, pertanto, ritenersi che la responsabilità precontrattuale della Pubblica amministrazione possa configurarsi anche prima dell’aggiudicazione e possa derivare non solo da comportamenti anteriori al bando, ma anche da qualsiasi comportamento successivo che risulti contrario, all’esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai più volte richiamati doveri di correttezza e buona fede.
Lo stesso affidamento incolpevole del privato, oltre ad essere soltanto uno degli elementi della complessa fattispecie che perfeziona l’illecito, deve, peraltro, essere valutato tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e sempre considerando che nell’ambito del procedimento amministrativo (a maggior ragione in quello di evidenza pubblica cui partecipano operatori economici qualificati), il dovere di correttezza è un dovere reciproco, che grava, quindi, anche sul privato, a sua volta gravato da oneri di diligenza e di leale collaborazione verso l’Amministrazione.
Gli aspetti da considerare nel momento in cui si procede all’applicazione di tali principi (e si verifica, quindi, nel caso concreto, se effettivamente ricorrono gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità) sono molteplici e non predeterminabili in astratto, perché dipendono dalla innumerevoli variabili che possono, di volta in volta, connotare la specifica situazione.
Solo a titolo esemplificativo, si può, tuttavia, evidenziare la necessità di valutare con particolare attenzione in sede applicativa i seguenti profili, che rappresentano significativi sintomi in grado di condizionare il giudizio sull’esistenza dei sopra richiamati presupposti della responsabilità:
   a) il tipo di procedimento di evidenza pubblica che viene in rilievo (anche tenendo conto dei diversi margini di discrezionalità di cui la stazione appaltante dispone a seconda del criterio di aggiudicazione previsto dal bando);
   b) lo stato di avanzamento del procedimento rispetto al momento in cui interviene il ritiro degli atti di gara;
   c) il fatto che il privato abbia partecipato al procedimento e abbia, dunque, quanto meno presentato l’offerta (in assenza della quale le perdite eventualmente subite saranno difficilmente riconducibili, già sotto il profilo causale, a comportamenti scorretti tenuti nell’ambito di un procedimento al quale egli è rimasto estraneo);
   d) la conoscenza o, comunque, la conoscibilità, secondo l’onere di ordinaria diligenza richiamato anche dall’art. 1227, comma 2, cod. civ., da parte del privato dei vizi (di legittimità o di merito) che hanno determinato l’esercizio del potere di autotutela (anche tenendo conto del tradizionale principio civilistico, secondo cui non può considerarsi incolpevole l’affidamento che deriva dalla mancata conoscenza della norma imperativa violata);
   e) la c.d. affidabilità soggettiva del privato partecipante al procedimento (ad esempio, non sarà irrilevante verificare se avesse o meno i requisiti per partecipare alla gara di cui lamenta la mancata conclusione o, a maggior ragione, l’esistenza a suo carico di informative antimafia che avrebbero comunque precluso l’aggiudicazione o l’esecuzione del contratto) (
Consiglio di Stato, A.P., sentenza 04.05.2018 n. 5 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva e piani o programmi di recupero - Tutela penale - Tutela sostanziale del corretto assetto del territorio - Artt. 30 e 44, d.P.R. n. 380/2001.
La tutela penale si applica in astratto non solo ai piani di lottizzazione in senso stretto, ma anche ai piani o programmi di recupero, perché anche con tali piani può essere realizzata una lottizzazione abusiva e gli artt. artt. 30 e 44, comma 1, lettera e), del d.P.R. n. 380 del 2001 non escludono la loro applicabilità a particolari categorie di atti, essendo finalizzati alla tutela sostanziale del corretto assetto del territorio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.05.2018 n. 18907 - link a
www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Piano integrato di riqualificazione urbanistica, edilizia e ambientale (PIRUEA) - Riqualificazione urbana e ambientale - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Programmi integrati comunali - Interesse pubblico del Comune - Edifici destinati a uffici pubblici.
Quanto ai programmi integrati comunali, l'interesse pubblico si definisce come interesse alla riqualificazione urbana e ambientale, che deve essere caratterizzato dalla rilevante valenza urbanistica ed edilizia e non come interesse del Comune a conseguire un vantaggio sul piano finanziario.
Ed è, del resto, pacifico nel caso di specie che l'intervento, per il quale sono stati utilizzati sia risorse pubbliche che risorse private, abbia comunque natura pubblicistica, perché nel suo ambito è stato costruito il palazzo di giustizia, oltre ad altri edifici destinati a uffici pubblici (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.05.2018 n. 18907 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Concetto di "recupero di aree degradate" - Utilizzazione funzionale al recupero di aree degradate - Finalità della riqualificazione e dei programmi integrati - Valutazioni amministrative - Fattispecie: utilizzazione area agricola non degradata per recupero di aree degradate limitrofe.
Il concetto di "recupero di aree degradate" deve essere interpretato in senso ampio, consentendo di ricomprendervi anche aree che oggettivamente non siano degradate, a condizione che la loro utilizzazione sia funzionale al recupero delle aree effettivamente degradate (nella specie, area agricola, non degradata, destinata alla costruzione di parcheggi pubblici asserviti ad un area, limitrofa degradata e ritenuta ricompresa nelle finalità di riqualificazione).
Pertanto, la finalità dei programmi integrati è quella dell'effettivo recupero degli immobili fatiscenti e della riqualificazione urbana di aree degradate e il loro contenuto deve essere valutato nel suo complesso con riferimento a tale finalità; cosicché sono consentiti interventi in zone di espansione, se necessari per assicurare l'unitarietà e la funzionalità dell'urbanizzazione di un territorio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.05.2018 n. 18907 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche dell’intervento abusivo realizzato dalla ricorrente risultanti dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il predetto intervento -non essendo coessenziale ad un bene principale e potendo essere successivamente utilizzato anche in modo autonomo e separato- non può ritenersi pertinenza ai fini urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia sottoposto al preventivo rilascio del permesso di costruire.
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Infine, risulta infondata la censura incentrata sulla natura pertinenziale delle opere abusive in questione.
Infatti secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis TAR Lombardia Milano, Sez. II, 11.02.2005, n. 365; TAR Lazio, Sez. II, 04.02.2005, n. 1036) occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
Ne consegue che, tenuto conto delle caratteristiche dell’intervento abusivo realizzato dalla ricorrente risultanti dalla motivazione dell’ordine di demolizione, il predetto intervento -non essendo coessenziale ad un bene principale e potendo essere successivamente utilizzato anche in modo autonomo e separato- non può ritenersi pertinenza ai fini urbanistici, sì da escludere che lo stesso sia sottoposto al preventivo rilascio del permesso di costruire (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 03.05.2018 n. 2968 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla Corte di giustizia UE l’esame dei presupposti per l’esclusione dell’operatore in caso di grave illecito professionale.
Il Consiglio di Stato rimette alla Corte di giustizia UE la questione della compatibilità, con il diritto dell’Unione europea, della normativa interna sulle cause di esclusione del concorrente dalla partecipazione a una procedura di gara, in caso di grave illecito professionale che abbia causato la risoluzione anticipata di un contratto di appalto, nella parte in cui richiede che l’operatore possa essere escluso solo se la risoluzione non sia contestata giudizialmente o sia confermata all’esito di un giudizio.
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Contratti pubblici – Gara – Grave illecito professionale – Risoluzione anticipata del contratto di appalto – Esclusione dell’operatore solo in caso di non contestazione o conferma in sede giudiziale della risoluzione – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia dell’Unione europea la questione pregiudiziale se il diritto dell’Unione Europea e, precisamente, l’art. 57 par. 4 della Direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici, unitamente al Considerando 101 della medesima Direttiva e al principio di proporzionalità e di parità di trattamento ostano ad una normativa nazionale, quale l’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, che, definita quale causa di esclusione obbligatoria di un operatore economico il “grave illecito professionale”, stabilisce che, nel caso in cui l’illecito professionale abbia causato la risoluzione anticipata di un contratto d’appalto, l’operatore può essere escluso solo se la risoluzione non è contestata o è confermata all’esito di un giudizio (1).
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   (1) I. - Con l’ordinanza in rassegna la Quinta Sezione del Consiglio di Stato rimette alla Corte di Giustizia UE la questione pregiudiziale della compatibilità della normativa interna in tema di esclusione obbligatoria dell’operatore economico dalla procedura di gara in caso di grave illecito professionale dell’operatore economico che abbia causato la risoluzione anticipata di un contratto di appalto.
In particolare, il Collegio dubita della compatibilità con il diritto dell’Unione dell’interpretazione dell’art. 80, comma 5, lett. c), del d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui richiede che l’esclusione dell’operatore economico possa essere disposta solo nel caso in cui le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione, che ne abbiano causato la risoluzione anticipata, siano non contestate in giudizio o confermate all’esito di un procedimento giudiziario.
   II. - Nel caso esaminato dalla pronuncia in commento, l’operatore economico era stato escluso dalla procedura di gara, tra l’altro, sulla base di un provvedimento amministrativo di risoluzione di un precedente contratto, i cui presupposti erano, però, oggetto di contenzioso dinanzi al giudice ordinario.
In primo grado, il Tar per la Regione Lombardia (sezione staccata di Brescia, sez. II, sentenza 17.10.2017, n. 1246), pur ritenendo che l’esclusione dell’operatore per grave illecito professionale richiedesse la mancanza di contestazione giudiziale o la conferma all’esito di un giudizio della sussistenza delle significative carenze di un precedente contratto di appalto o di concessione, aveva respinto il ricorso proposto dall’operatore in quanto il provvedimento espulsivo era fondato anche su una diversa ragione rappresentata dalla commissione di gravi violazioni delle disposizioni poste a tutela della salute e sicurezza del lavoro e dell’ambiente.
   III. – Il Collegio, nel ritenere che con i motivi di appello proposti sono state prospettate critiche ragionevoli alla sentenza di prima grado, in quanto i comportamenti addebitati al ricorrente quali violazioni delle disposizioni poste a tutela della salute e sicurezza del lavoro e dell’ambiente altro non sono che inadempimenti contrattuali per i quali vi è stata contestazione dinanzi all’autorità giudiziaria, osserva che:
      a) la definizione della controversia richiede di valutare se la stazione appaltante ha il potere di escludere un operatore economico se la risoluzione è stata oggetto di contestazione in giudizio e prima che il giudizio sia definito;
      b) l’art. 80, comma 5, lett. c), del d.lgs. n. 50 del 2016, come interpretato dalla giurisprudenza amministrativa prevalente, consente l’esclusione dell’operatore solo nel caso in cui non vi sia stata contestazione giudiziale dell’inadempimento ovvero le gravi carenze nell’esecuzione di un precedente contratto siano state oggetto di un accertamento dell’autorità giudiziaria;
      c) il diritto europeo (art. 57, par. 4, della Direttiva 2014/24/UE e Considerando n. 101 della medesima direttiva) consente l’esclusione dell’operatore economico se la stazione appaltante è in condizione di dimostrare la sussistenza di un grave illecito professionale, anche prima che sia adottata una decisione definitiva e vincolante sulla presenza di motivi di esclusione obbligatoria e, quindi, a prescindere dall’eventuale contestazione giudiziale del fatto;
      d) la scelta di subordinare l’azione amministrativa agli esiti del giudizio è astrattamente possibile, ma è incompatibile con i tempi dell’azione amministrativa, in quanto:
         d1) risolto il contratto per grave inadempimento dell’operatore economico, l’amministrazione dovrà indire una nuova procedura di gara per concludere un nuovo contratto;
         d2) all’operatore economico inadempiente sarà sufficiente contestare in giudizio la risoluzione per ottenere l’ingresso nella nuova procedura, dovendo l’amministrazione attendere l’esito del giudizio per poter procedere legittimamente alla sua esclusione;
         d3) l’amministrazione non può assumere autonomamente la decisione di escludere un operatore, dovendo attendere l’esito del giudizio;
      e) l’orientamento prevalente rende lo strumento non adeguato allo scopo di alleggerire l’onere probatorio a carico dell’amministrazione attraverso l’elencazione di casi in cui è possibile escludere l’operatore economico, in quanto l’azione amministrativa è arrestata dall’instaurazione di un altro giudizio in cui è contestato il grave illecito professionale;
      f) sarebbe sufficiente imporre all’amministrazione di fornire adeguata motivazione dell’esclusione dell’operatore, lasciando al giudice amministrativo di sindacare la ragionevolezza;
      g) la norma interna fa dipendere dalla scelta dell’operatore economico, di impugnare o meno la risoluzione in sede giurisdizionale, la decisione dell’amministrazione sull’esclusione del concorrente, in contrasto con i principi europei di proporzionalità e di parità di trattamento.
   IV. – Per completezza si segnala quanto segue:
      h) per un diverso approccio sul medesimo tema si veda Cons. giust. amm. reg. sic., 30.04.2018, n. 252, secondo cui, anche in presenza di una risoluzione per inadempimento che si trovi sub iudice, la stazione appaltante può applicare ugualmente la causa di esclusione prevista dall’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2018, n. 50, valorizzando la clausola normativa di chiusura sulla possibilità di dimostrare comunque “con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”, con la precisazione, tuttavia, che è necessario che la stazione appaltante dimostri con elementi probatori e motivi adeguatamente l’effettività, la gravità e l’inescusabilità degli inadempimenti dell’impresa;
      i) secondo Cons. Stato, sez. V, 02.03.2018, n. 1299, l’elencazione dei gravi illeciti professionali, contenuta nella lettera c), del quinto comma dell’art. 80, ha carattere solo esemplificativo, con la conseguenza che la stazione appaltante può escludere un operatore economico anche per gravi inadempienze non riconducibili a quelle tipizzate che siano qualificabili come gravi illeciti professionali, purché l’amministrazione fornisca una motivazione adeguata e la dimostrazione della sussistenza e della gravità dell’illecito professionale contestato con mezzi adeguati;
      j) il Tar per la Campania, sez. IV, ordinanza, 13.12.2017, n. 5893 (oggetto della News Us, in data 19.12.2017, cui si rinvia per ulteriori approfondimenti giurisprudenziali e dottrinali), ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea la questione pregiudiziale “se i principi comunitari di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, di cui al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), ed i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, la proporzionalità e la effettività, di cui alla direttiva n. 2014/24/UE, nonché la disposizione di cui all’art. 57, comma 4, lettere c) e g), di detta Direttiva, ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana derivante dall’art. 80, comma 5, lettera c) del D.Lg.vo n. 50/2016, secondo la quale la contestazione in giudizio di significative carenze evidenziate nell’esecuzione di un pregresso appalto, che hanno condotto alla risoluzione anticipata di un precedente contratto di appalto, preclude ogni valutazione alla stazione appaltante circa l’affidabilità del concorrente, sino alla definitiva statuizione del giudizio civile, e senza che la ditta abbia dimostrato la adozione delle misure di self cleaning volte a porre rimedio alle violazioni e ad evitare la loro reiterazione”;
      k) secondo Corte di giustizia dell’UE, sez. IV, 14.12.2016 causa C-171/15, Taxi Services BV (in Foro amm., 2016, 2890, nonché oggetto della News US in data 09.01.2017, ai cui approfondimenti si rinvia; idem, sez. X, 18.12.2014, causa C-470/13, in Foro amm., 2014, 3034; idem, sez. III, 13.12.2012, causa C-465/11, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2013, 713, con nota di PASSARELLI, in Foro amm. -Cons. Stato, 2012, 3085, in Dir. comunitario scambi internaz., 2013, 147 e in Giurisdiz. amm., 2012, III, 1055), “il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 45, paragrafo 2, della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, non osta a che una normativa nazionale obblighi un’amministrazione aggiudicatrice a valutare, applicando il principio di proporzionalità, se debba essere effettivamente escluso un offerente in una gara d’appalto pubblico che ha commesso un grave errore nell’esercizio della propria attività professionale. Le disposizioni della direttiva 2004/18, in particolare quelle dell’articolo 2 e dell’allegato VII A, punto 17, della medesima, interpretate alla luce del principio della parità di trattamento, nonché dell’obbligo di trasparenza che ne deriva, devono essere interpretate nel senso che ostano a che un’amministrazione aggiudicatrice decida di attribuire un appalto pubblico ad un offerente che ha commesso un grave errore professionale, per il fatto che l’esclusione di tale offerente dalla procedura di gara sarebbe stata contraria al principio di proporzionalità, mentre, secondo le condizioni della gara d’appalto in questione, un offerente che avesse commesso un grave errore professionale avrebbe dovuto necessariamente essere escluso, senza tener conto del carattere proporzionato o meno di tale sanzione”;
      l) l’orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa tende a negare la possibilità per la stazione appaltante di escludere dalla gara l’operatore economico quando non ricorra una delle ipotesi esemplificate nella seconda parte dell’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016.
In particolare, si è ritenuto che, quando, in relazione alle gravi carenze nell’esecuzione di un precedente contratto, con la stessa o con altra stazione appaltante, non si siano prodotti gli effetti giuridici della risoluzione anticipata “definitiva” (perché non contestata ovvero confermata in giudizio) o dell’applicazione di sanzioni (penali, risarcimento, incameramento della garanzia), è preclusa all’amministrazione ogni possibilità di valutazione sull’affidabilità del concorrente.
In questo senso: Cons. Stato, sez. V, 27.04.2017 n. 1955, in Guida al dir., 2017, 21, 94, con nota di PONTE; Tar per la Campania–Napoli, sez. V, 12.10.2017, n. 4781; Tar per la Sicilia, sez. II, 03.11.2017, n. 2511; Tar per la Puglia, sez. III, 18.07.2017, n. 828; Tar per la Puglia, sez. I, 30.12.2016, n. 1480; Tar per la Puglia, sezione staccata di Lecce, sez. III, 22.12.2016, n. 1935; Tar per la Calabria, sez. I, 19.12.2016, n. 2522;
      m) in dottrina si veda R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 854 ss., anche per una ampia analisi della pregressa disciplina, delle linee guida dell’Anac e della conformità della nuova disciplina nazionale a quella europea;
      n) l’art. 80, comma 13, d.lgs. n. 50 del 2016, prevede che l’Anac, con proprie linee guida, “può precisare, al fine di garantire omogeneità di prassi da parte delle stazioni appaltanti, quali mezzi di prova considerare adeguati per la dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui al comma 5, lettera c), ovvero quali carenze nell'esecuzione di un procedente contratto di appalto siano significative ai fini del medesimo comma 5, lettera c)”.
In attuazione di tale disposizione normativa con Delibera n. 1293 del 16.11.2016, l’Anac ha adottato la delibera n. 6, poi modificata con successiva determinazione n. 1008 del 11.10.2017.
Sul tema, con specifico riferimento all’aggiornamento da parte Anac delle Linee guida n. 6, all’esito del primo correttivo al codice (d.lgs. n. 56 del 2017) si vedano L. MAZZEO e L. DE PAULI, Le linee guida dell’ANAC in tema di gravi illeciti professionali, in Urbanistica e appalti, 2018, 155 (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 03.05.2018 n. 2639 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla Corte di giustizia Ue l’esclusione dalla gara per grave illecito professionale.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Grave illecito professionale – Art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2018 – Conseguente risoluzione anticipata di un contratto d’appalto – Esclusione solo se la risoluzione non è contestata o è confermata all’esito di un giudizio – Compatibilità con la disciplina comunitaria – Rimessione alla Corte di giustizia Ue.
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia Ue la questione se il diritto dell’Unione europea e, precisamente, l’art. 57 par. 4 della Direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici, unitamente al Considerando 101 della medesima Direttiva e al principio di proporzionalità e di parità di trattamento ostano ad una normativa nazionale, quale l’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2018, n. 50, che, definita quale causa di esclusione obbligatoria di un operatore economico il “grave illecito professionale”, stabilisce che, nel caso in cui l’illecito professionale abbia causato la risoluzione anticipata di un contratto d’appalto, l’operatore può essere escluso solo se la risoluzione non è contestata o è confermata all’esito di un giudizio (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che tra l’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2018, n. 50 e la norma euro-unitaria non vi è omogeneità.
L’art. 57, par. 4 della Direttiva 2014/24/UE stabilisce che le amministrazioni appaltanti possono escludere gli operatori economici “se l'amministrazione aggiudicatrice può dimostrare con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, il che rende dubbia la sua integrità”.
Tale disposizione deve essere letta contestualmente all’indicazione contenuta nel Considerando 101 della Direttiva: “È opportuno chiarire che una grave violazione dei doveri professionali può mettere in discussione l'integrità di un operatore economico e dunque rendere quest'ultimo inidoneo ad ottenere l'aggiudicazione di un appalto pubblico indipendentemente dal fatto che abbia per il resto la capacità tecnica ed economica per l'esecuzione dell'appalto. Tenendo presente che l'amministrazione aggiudicatrice sarà responsabile per le conseguenze di una sua eventuale decisione erronea, le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero anche mantenere la facoltà di ritenere che vi sia stata grave violazione dei doveri professionali qualora, prima che sia stata presa una decisione definitiva e vincolante sulla presenza di motivi di esclusione obbligatori, possano dimostrare con qualsiasi mezzo idoneo che l'operatore economico ha violato i suoi obblighi, inclusi quelli relativi al pagamento di imposte o contributi previdenziali, salvo disposizioni contrarie del diritto nazionale.”.
Dalla lettura della disposizione risulta chiaro che il legislatore europeo ha ritenuto di consentire l’esclusione dell’operatore economico se la stazione appaltante è in condizione di dimostrare la sussistenza di un grave illecito professionale “anche prima che sia adottata una decisione definitiva e vincolante sulla presenza di motivi di esclusione obbligatori”.
In questo senso, del resto, ben si comprende il richiamo alla responsabilità dell’amministrazione per una sua eventuale decisione erronea.
18.4. Il legislatore interno, al contrario, ha stabilito che l’errore professionale, passibile di risoluzione anticipata (per definizione “grave” ex art. 1455 c.c. nonché ex art. 108, comma 3, d.lgs. 18.04.2016, n. 50) non comporta l’esclusione dell’operatore in caso di contestazione in giudizio. La conseguenza è la necessaria subordinazione dell’azione amministrativa agli esiti del giudizio; ciò è astrattamente possibile, essendo comprensibile che la scelta dell’amministrazione sia vincolata agli esiti di un giudizio, ma è incompatibile con i tempi dell’azione amministrativa.
Ciò in quanto, risolto il contratto per grave inadempimento dell’operatore economico, l’amministrazione dovrà indire una nuova procedura di gara per concludere un nuovo contratto; all’operatore economico inadempiente sarà sufficiente contestare in giudizio la risoluzione per ottenere l’ingresso nella nuova procedura, dovendo l’amministrazione attendere l’esito del giudizio per poter procedere legittimamente alla sua esclusione (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 03.05.2018 n. 2639  - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo del riposo e delle occupazioni - Configurabilità dell'illecito amministrativo e/o dell'illecito penale - Abuso ripetuto di strumenti sonori all'interno e all'esterno di un locale con relativo disturbo del riposo e delle occupazioni delle persone - Giurisprudenza - Art. 10 l. 26/10/1995 n. 447 e art. 659 cod. pen..
La configurabilità dell'illecito amministrativo di cui all'art. 10 L. 26.10.1995 n. 447, alla luce della autorizzazione amministrativa rilasciatagli a diffondere musica all'esterno di un locale, va esclusa quando vi è il superamento delle normali modalità di esercizio (in specie, sistematica e prolungata propagazione di musica a volume elevato dall'impianto di amplificazione installato all'esterno del locale) e la conseguente configurabilità del reato di cui al primo comma dell'art. 659 cod. pen., in caso di idoneità a disturbare un numero indeterminato di persone (Cass. Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffré; conf. Sez. 3, n. 8351 del 24/06/2014, dep. 25/02/2015, Calvarese) (Corte d Cassazione, Sez. III penale, sentenza III penale, sentenza 02.05.2018 n. 18522 - link a
www.ambientediritto.it).

APPALTI: Esclusione per grave illecito professionale in caso di risoluzioni e penali contrattuali sub iudice.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Risoluzione per inadempimento sub iudice – Possibilità di escludere il concorrente dalla gara – Condizione.
Anche in presenza di una risoluzione per inadempimento che si trovi sub iudice, alla Stazione appaltante non è precluso applicare ugualmente la causa di esclusione ex art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2018, n. 50, valorizzando la clausola normativa di chiusura sulla possibilità di dimostrare comunque “con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”; è però necessario che la stazione appaltante dimostri con elementi probatori e motivi adeguatamente, l’effettività, gravità e inescusabilità degli inadempimenti dell’impresa (1).
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   (1) La questione attiene all’interpretazione della lett. c) del comma 5 dell’art. 80, d.lgs. 18.04.2018, n. 50, che per quanto qui rileva stabilisce: “Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni … qualora: … c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni…”.
La norma in questione, la cui elencazione è meramente esemplificativa, consente l’esclusione, invero, al di là delle tipizzazioni che pur ne costituiscono il nucleo (al cospetto delle quali opera un meccanismo di tipo presuntivo), anche in tutti i casi in cui “la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità.”
Ne consegue che a un’impresa non basta aver contestato in giudizio la risoluzione contrattuale subìta per porsi completamente al riparo, per tutta la durata –per giunta, prevedibilmente cospicua- del processo, dal rischio di esclusioni da gare d’appalto indotte dalla relativa vicenda risolutoria.
Anche in presenza di una risoluzione per inadempimento che si trovi sub iudice, infatti, alla Stazione appaltante non è precluso applicare ugualmente la causa di esclusione in discussione, valorizzando la clausola normativa di chiusura sulla possibilità di dimostrare comunque “con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”.
All’uopo occorre, però, che essa sia appunto in grado di far constare con i necessari supporti probatori, e con motivazione adeguata, la effettività, gravità e inescusabilità degli inadempimenti dell’impresa, e perciò, correlativamente, la mera pretestuosità delle contestazioni da questa sollevate in giudizio avverso la misura risolutoria, oltre che, naturalmente, la dubbia “integrità o affidabilità” del medesimo operatore.
Su una lunghezza d’onda simile, del resto, il Cons. St., sez. V, con la sentenza 02.03.2018, n. 1299 ha già osservato che il pregresso inadempimento, anche se non abbia prodotto gli effetti risolutivi, risarcitori o sanzionatori tipizzati dal legislatore, può rilevare comunque a fini escludenti qualora assurga al rango di “grave illecito professionale”, tale da rendere dubbia l'integrità e l'affidabilità dell'operatore economico, e deve pertanto ritenersi rimessa alla discrezionalità della Stazione appaltante la valutazione della portata di “pregressi inadempimenti che non abbiano (o non abbiano ancora) prodotto” simili effetti specifici, fermo restando che in tale eventualità i correlativi oneri di prova e motivazione incombenti sull’Amministrazione sono ben più rigorosi e impegnativi rispetto a quelli operanti in presenza delle particolari ipotesi esemplificate dal testo di legge (CGARS, sentenza 30.04.2018 n. 252 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gravi illeciti professionali – Risoluzione contrattuale sub iudice – Stazione appaltante – Possibilità di applicare la causa di esclusione di cui all’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016 – Supporti probatori – Motivazione.
L’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016, la cui elencazione dei gravi illeciti professionali è meramente esemplificativa, consente l’esclusione, al di là delle tipizzazioni che pur ne costituiscono il nucleo (al cospetto delle quali opera un meccanismo di tipo presuntivo), anche in tutti i casi in cui “la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità.”
Ne consegue che a un’impresa non basta aver contestato in giudizio la risoluzione contrattuale subìta per porsi completamente al riparo, per tutta la durata del processo, dal rischio di esclusioni da gare d’appalto indotte dalla relativa vicenda risolutoria. Anche in presenza di una risoluzione per inadempimento che si trovi sub iudice, infatti, alla Stazione appaltante non è precluso applicare ugualmente la causa di esclusione di cui al menzionato art. 80, valorizzando la clausola normativa di chiusura sulla possibilità di dimostrare comunque “con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”.
All’uopo occorre, però, che essa sia appunto in grado di far constare con i necessari supporti probatori, e con motivazione adeguata, la effettività, gravità e inescusabilità degli inadempimenti dell’impresa, e perciò, correlativamente, la mera pretestuosità delle contestazioni da questa sollevate in giudizio avverso la misura risolutoria, oltre che, naturalmente, la dubbia “integrità o affidabilità” del medesimo operatore (CGARS, sentenza 30.04.2018 n. 252 - link a
www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE: Giurisdizione Ago nella controversia risarcitoria proposta per i danni subiti dai lavori eseguiti in dipendenza del provvedimento di espropriazione.
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Giurisdizione – Risarcimento danni – Espropriazione per pubblica utilità – Danni conseguenti a lavori eseguiti in dipendenza del provvedimento di espropriazione – Giurisdizione del giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno asseritamente causato da lavori di messa in sicurezza di una strada statale, eseguiti in dipendenza di un provvedimento di espropriazione, ove si tratti di conseguenze dannose di meri comportamenti (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che i danni asseritamente patiti sono connesse a condotte pratiche ovvero di comportamenti meramente materiali non riconducibili neppure mediatamente all’esercizio del potere amministrativo e, quindi, insuscettibili di radicare la giurisdizione, anche in sede esclusiva, del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1 lett. g), c.p.a., atteso che tale norma, in coerenza con quanto prescritto dall’art. 7 c.p.a., pretende l’inerenza della domanda giudiziale all’esercizio del potere pubblico, e solo a tale condizione riconduce la controversia alla giurisdizione amministrativa.
Richiamando un costante orientamento delle Sezioni unite della Corte di cassazione (n. 25978 del 2016; n. 11292 del 2015; n. 13568 del 2015), il Tar ha ricordato che il contenzioso involgente i comportamenti della pubblica amministrazione e le relative implicazioni risarcitorie è sottratto all’ambito cognitorio del giudice amministrativo, cui “sono attribuite le domande di risarcimento del danno che si ponga in rapporto di causalità diretta con l’illegittimo esercizio (o con il mancato esercizio) del potere pubblico, mentre resta riservato al giudice ordinario soltanto il risarcimento del danno provocato da comportamenti della p.a. che non trovano rispondenza nel precedente esercizio di quel potere” (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 30.04.2018 n. 93 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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La questione è fondata, alla luce della corretta individuazione del petitum sostanziale, da definirsi come la domanda posta al giudice in relazione ai motivi del ricorso.
Nella fattispecie in esame, tale domanda si identifica sostanzialmente nel risarcimento del danno che il ricorrente pretende gli sia derivato per effetto non della determinazione dirigenziale n. 343/2017 che autorizza l’esecuzione del piano di espropriazione, della quale assume l’illegittimità senza chiederne l’annullamento, ma della progettazione e della asseritamente inappropriata esecuzione dei lavori per la messa in sicurezza della strada, disposti con la determinazione dirigenziale n. 131/2014 di approvazione della perizia dei lavori, ovvero dei risalenti lavori, eseguiti nel 2008, di collegamento tra la S. P. 71 e la S. P. 83, lavori che già avevano determinato una prima espropriazione di superfici di proprietà dell’interessato.
Dette opere, secondo la prospettazione del ricorrente, avrebbero determinato come conseguenza causale l’insorgenza di una frana sui terreni posti a valle della strada ricadenti nella p.f. 1221/1 di sua proprietà, e la conseguente necessità di ulteriori interventi su tale versante sottostrada.
Si tratta, dunque, di condotte pratiche ovvero di comportamenti meramente materiali non riconducibili neppure mediatamente all’esercizio del potere amministrativo e, quindi, insuscettibili di radicare la giurisdizione, anche in sede esclusiva, del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. g), cod. proc. amm., atteso che tale norma, in coerenza con quanto prescritto dall’art. 7 cod. proc. amm., pretende l’inerenza della domanda giudiziale all’esercizio del potere pubblico, e solo a tale condizione riconduce la controversia alla giurisdizione amministrativa.
Altrimenti,
il contenzioso involgente i comportamenti della pubblica amministrazione e le relative implicazioni risarcitorie, come costantemente ribadito dal giudice del riparto della giurisdizione, è sottratto all’ambito cognitorio del giudice amministrativo, cui “sono attribuite le domande di risarcimento del danno che si ponga in rapporto di causalità diretta con l’illegittimo esercizio (o con il mancato esercizio) del potere pubblico, mentre resta riservato al giudice ordinario soltanto il risarcimento del danno provocato da <comportamenti> della p.a. che non trovano rispondenza nel precedente esercizio di quel potere (Cass., S.U. n. 25978 del 2016; Cass., S.U. n. 11292 del 2015; Cass., S.U. n. 13568 del 2015; TAR Lazio, sez. I-quater, n. 3854/2017).
Ne consegue che,
avendo ad oggetto le conseguenze dannose di meri comportamenti, lo scrutinio del ricorso in esame fuoriesce dall’ambito della giurisdizione amministrativa per appartenere a quella ordinaria, nell’ambito della quale il giudice ben potrà, se del caso, disapplicare atti amministrativi dei quali eventualmente ritenga l’illegittimità, ove ritenuti rilevanti al fine della decisione.
Ed è appena il caso di rilevare che,
anche nella parte in cui la domanda posta con il ricorso debba intendersi come opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione, la cognizione su di essa appartiene alla Corte d’appello, e quindi ancora una volta al giudice ordinario, al quale viene devoluta l’intera portata patrimoniale (risarcitoria-indennitaria) della vicenda.
In ragione di quanto precede questo Tribunale deve declinare la propria giurisdizione a favore del giudice ordinario, cui appartiene la cognizione della presente causa e davanti al quale il giudizio potrà essere riassunto, restando salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda formulata in questa sede, ove la stessa sia riproposta entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato dell’odierna sentenza.

ENTI LOCALI: Nomina di commissari straordinari a società colpita da interdittiva antimafia.
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Anticorruzione – Commissari straordinari – Società colpita da informativa antimafia – Art. 32, comma 10, d.l. n. 90 del 2012 – Indicazione prefettizia di elementi indiziari – Non occorre.
Per l’applicazione delle misure straordinarie di cui al comma 10 dell’art. 32, d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con l. 11.08.2014, n.114, è sufficiente l’adozione di un’informazione antimafia, nulla dovendo aggiungere il Prefetto in punto di elementi indiziari, mentre un’adeguata puntualità della motivazione è attesa in corrispondenza della lata discrezionalità che la legge riconosce dal punto di vista della concreta funzione cautelare.
Carattere, quest’ultimo, che presenta connotazioni di discrezionalità pura, in quanto incentrata sul raggiungimento di obiettivi di interesse pubblico connessi all’esecuzione del contratto che la norma ha avuto cura di individuare con puntualità.
Corollario di tale considerazione, dal punto di vista del sindacato giurisdizionale, è rappresentato dai ristretti confini entro cui deve contenersi l’accertamento del Giudice amministrativo, non estensibile oltre un apprezzamento che riguardi la manifesta irrazionalità, sproporzione del errore di fatto nell’adozione della misura (1).

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   (1) Ha chiarito il Tar che i commi 1 e 10 dell’art. 32, d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con l. 11.08.2014, n. 114, hanno introdotto due ipotesi di applicazione di misure straordinarie per società oggetto di attività di indagine giudiziaria per specifici delitti contro l’amministrazione pubblica o colpite da interdittiva antimafia.
La prima fattispecie (comma 1) di applicazione di tali misure straordinarie, muove dal duplice presupposto dell’esistenza di attività di indagine giudiziaria per specifici delitti contro l’amministrazione pubblica e dell’accertamento di una situazione di anomalia o di condotte illecite o eventi criminali, che impongono di intervenire sulla gestione di un'impresa aggiudicataria di un contratto pubblico di lavori, servizi o forniture; in tal caso, l’iniziativa procedimentale è del Presidente dell’Anac che, informatone il Procuratore della Repubblica, chiede al Prefetto del luogo ove ha sede la stazione appaltante, alternativamente, che sia imposta la rinnovazione degli organi sociali o che egli provveda direttamente alla gestione straordinaria e temporanea gestione dell'impresa limitatamente alla completa esecuzione del contratto di appalto; le due misure si pongono in relazione di consecutività la prima rispetto alla seconda, quest’ultima avente carattere di maggiore invasività, salvi casi di particolare gravità.
L’altra fattispecie (comma 10), invece, presenta connotazioni affatto peculiari nei presupposti applicativi, in quanto assume a proprio fondamento l’adozione di un’informazione antimafia e la sussistenza di ragioni di urgenza connesse alla tutela di specifici interessi pubblici da soddisfare attraverso l’esecuzione del contratto affidato all’impresa colpita dalla misura interdittiva antimafia.
La differenza tra le due fattispecie è netta, al punto da indurre l’interprete a preferire una soluzione interpretativa che le collochi entrambe sul piano equivalente della generalità, piuttosto che della specialità.
In proposito, mentre la fattispecie di cui al comma 1 è funzionale alla tutela di sole esigenze di trasparenza amministrativa, in quanto l’istituto opera in compresenza di accertamenti giudiziari per delitti contro la pubblica amministrazione e di una situazione di forte antigiuridicità nella conduzione dell’impresa, l’altra ipotesi si colloca nell’area delle misure di prevenzione amministrativa antimafia, supponendo, invece, l’adozione di un’informazione interdittiva nei confronti del contraente e la tutela di esigenze di pubblico interesse da assicurarsi con la prosecuzione del rapporto contrattuale.
In tal senso, il disallineamento sistematico tra le due fattispecie suggerisce di qualificare l’ipotesi di cui al comma 10, più propriamente, come eccezionale rispetto all’effetto interdittivo integrale dell’informazione antimafia –di cui, tra l’altro, già esistono esempi nel d.lgs. 06.09.2011 n. 159- assumendo pertanto, connotazioni proprie ed autonome rispetto all’ipotesi descritta nel primo comma del citato art. 32; tale autonomia è altresì rintracciabile nel diverso meccanismo di attivazione procedimentale, nel primo caso affidato al Presidente dell’Anac, in qualità di affidatario del controllo sulla trasparenza e sulla lotta alla corruzione, nel secondo rimesso integralmente al Prefetto, quale titolare della competenza statale a livello locale in materia di pubblica sicurezza. Tratti comuni tra i due modelli restano l’identità delle misure applicabili e la relazione intercorrente di sussidiarietà, predicato dell’alternatività di cui alla lettera della legge (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 27.04.2018 n. 2800 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Durc dell’ausiliaria irregolare e risarcimento danni da perdita di chance per mancata aggiudicazione e metodo di quantificazione.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Durc irregolare – Esclusione immediata - Durc irregolare di impresa ausiliaria – Art. 89, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016 – Non comporta l’immediata esclusione - Ratio.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Durc irregolare – Esclusione immediata - Durc irregolare di impresa ausiliaria – Art. 89, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016 – Regolarizzazione dell’impresa ausiliaria – Limiti.
  
Risarcimento danni - Contratti della Pubblica amministrazione – Danno da perdita di chance favorevole – Criterio di quantificazione.
  
Ai sensi dell’art. 89, comma 3, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il principio, secondo cui la stazione appaltante che, in sede di verifica del possesso dei requisiti dichiarati, riceve dall’ente previdenziale comunicazione di durc irregolare è tenuta ad escludere l’operatore dalla procedura, revocando l’aggiudicazione eventualmente effettuata, senza procedere al previo invito alla regolarizzazione, vale nel caso di irregolarità contributiva della impresa concorrente, non potendo operare nel caso di irregolarità di impresa ausiliaria della quale la concorrente intende avvalersi (1).
  
In caso di irregolarità nella posizione contributiva dell’ausiliaria (motivo di esclusione obbligatoria ex art. 80, comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50), la stazione appaltante non può imporre all’operatore economico, anziché la sostituzione dell’ausiliaria di cui all’art. 89, comma 3, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, la regolarizzazione (2).
  
Il danno derivante non da mancata aggiudicazione di una gara pubblica –che va risarcito nella misura del c.d. interesse positivo, che ricomprende sia il mancato guadagno sia il danno c.d. curriculare– ma da perdita di chance favorevole va risarcito definendo la misura percentuale che, nella situazione data, presentava per l’interessato la probabilità di aggiudicazione –la chance appunto– tenendo conto della fase della procedura in cui è stato adottato l’atto illegittimo e come poi si sarebbe evoluta (3).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che all’esclusione immediata dalla gara in caso di durc irregolare della impresa ausiliaria osta la regola dettata dall’art. 89, comma 3, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, per il quale: “La stazione appaltante verifica, conformemente agli articoli 85, 86 e 88, se i soggetti della cui capacità l’operatore economico intende avvalersi, soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ai sensi dell’articolo 80. Essa impone all’operatore economico di sostituire i soggetti che non soddisfano un pertinente criterio di selezione o per i quali sussistono motivi obbligatori di esclusione”.
La disposizione costituisce una novità del nuovo corpo normativo dei contratti pubblici del 2016, recependo la previsione dell’art. 63 dir. 24/2014/UE, per cui: “L’amministratore aggiudicatrice può imporre o essere obbligata dallo Stato membro a imporre che l’operatore economico sostituisca un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione” con ampliamento dell’ambito di operatività a tutti i motivi di esclusione di cui all’art. 80.
In precedenza, sotto la vigenza del Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 12.04.2006, n. 163, la sostituzione era consentita solo nel caso di raggruppamento temporaneo di imprese per i motivi ivi previsti (art. 37, comma 19, d.lgs. n. 163 del 2006) e solamente nella fase esecutiva (Cons. St., sez. V, 20.01.2015, n. 169).
L’art. 89, comma 3, cit., invece, consente (anzi, impone) la sostituzione anche nell’ambito di rapporto tra imprese scaturito dalla stipulazione di un contratto di avvalimento ed anche nella fase precedente l’esecuzione del contratto.
La sostituzione dell’ausiliaria durante la procedura è istituto patentemente derogatorio al principio dell’immodificabilità soggettiva del concorrente nel corso della procedura (nonché di coloro di cui intende avvalersi: e, per questa via, della stessa offerta), ma risponde all’esigenza stimata superiore di evitare l’esclusione dell’operatore per ragioni a lui non direttamente riconducibili e, in questo modo, sia pure indirettamente, stimolare il ricorso all’avvalimento: il concorrente, infatti, può far conto sul fatto che, nel caso in cui l’ausiliaria non presenti i requisiti richiesti, potrà procedere alla sua sostituzione e non sarà, per solo questo fatto, escluso.
   (2) Ostano all’obbligo di regolarizzazione le stesse ragioni che Cons. St., A.P., 29.02.2016, n. 6, ha ritenuto impeditive della regolarizzazione contributiva dell’operatore economico che abbia partecipato come impresa singola e, in particolare, anche a prescindere dalla natura dell’invito alla regolarizzazione (che quella sentenza chiaramente definisce: “istituto estraneo alla disciplina dell’aggiudicazione e dell’esecuzione dei contratti pubblici”), il principio di autoresponsabilità e parità di trattamento.
Se, infatti, come già detto, l’innovazione legislativa è intesa a non penalizzare eccessivamente l’operatore economico che abbia fatto affidamento sulle capacità e i requisiti di un terzo, e che, senza colpa, si sia affidato a un soggetto poi risultato inadeguato, tuttavia, la medesima esigenza non può porsi nei confronti di quest’ultimo.
A questo, insomma, necessariamente vanno riferite le conseguenze negative della sua condotta, ovvero di non poter trarre vantaggi economici dalla partecipazione all’esecuzione di un appalto pubblico.
Il principio di parità di trattamento vale non solo nei rapporti tra gli operatori economici concorrenti, ma anche tra questi e i loro ausiliari. Perciò questi ultimi come i primi debbono “sopporta(re) le conseguenze di errori, omissioni e, a fortiori, delle falsità commesse nella formulazione dell’offerta e nella presentazione delle dichiarazioni” (così, ancora una volta, secondo l’Adunanza plenaria 29.02.2016, n. 6, la quale, a sua volta, rinvia all’Adunanza plenaria 25.02.2014, n. 9).
   (3) Ha chiarito la Sezione che il risarcimento del danno da perdita di chance esprime uno schema di reintegrazione patrimoniale riguardo un bene della vita connesso a una situazione soggettiva che, quando è sostitutiva di una reintegrazione in forma specifica come nei contratti pubblici, poggia sul fatto che un operatore economico che partecipa ammissibilmente a una procedura di evidenza pubblica, per ciò solo, è stimabile come portatore di un’astratta e potenziale chance di aggiudicarsi il contratto (così come chiunque, in generale, partecipi ad una procedura comparativa per la possibilità di conseguire il bene o l’utilità messi a concorso).
La chance iniziale e virtuale, che muove dall’essere in potenza la medesima per tutti i concorrenti, varia poi nel concretizzarsi e diviene misurabile in termini: non trattandosi di competizione di azzardo ma di contesa professionale in cui occorre mostrare titoli e capacità, diviene effettiva e aumenta o diminuisce nel corso della procedura fino a concentrarsi nella dimensione più elevata in capo all’operatore primo classificato al momento della formulazione della graduatoria finale, sfumando progressivamente in capo agli altri.
Perciò se, nel corso della procedura, condotte illegittime dell’amministrazione contrastano la normale affermazione della chance di aggiudicazione, viene leso l’interesse legittimo dell’operatore economico e –se è precluso anche il bene della vita cui l’interesse è orientato– è lui dovuto il risarcimento del danno nella misura stimabile della sua chance perduta.
La quantificazione percentuale della figurata lesione della chance identifica la dimensione effettiva di un lucro cessante; del resto, l’operatore che partecipa alla gara non è titolare attuale di un elemento patrimoniale che viene leso dall’attività amministrativa, ma di una situazione soggettiva strumentale al conseguimento di un’utilità futura.
L’utilità futura –l’essere parte del contratto e il trarne il legittimo lucro- è il bene della vita che gli è negato dall’azione illegittima dell’amministrazione. La chance vi rapporta in termini probabilistici le circostanze concrete, allegate e provate, che rilevano per definire, nei limiti del presumibile, la reale probabilità che aveva l’operatore economico di essere prescelto e così di conseguire quell’utilità: in una ricostruzione “dinamica” dell’evolversi della vicenda e non “statica” (Cons. St., sez. V, 08.10.2014, n. 5008; id. 17.07.2014, n. 3774) (
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.04.2018 n. 2527 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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12. Così ricostruiti i fatti di causa, è possibile ora procedere all’esame della censura svolta dall’appellante. Essa è fondata per le ragioni che saranno esposte.
13. Con la sentenza 29.02.2016, n. 6, l’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato ha definitivamente affrontato la questione dell’ammissibilità della regolarizzazione postuma della posizione contributiva di operatore economico partecipante ad una procedura di evidenza pubblica dettando il seguente principio di diritto: “
Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, 8° comma, d.l. 21.06.2013 n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 09.08.2013 n. 98, non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l’impresa essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva.” (principio ribadito dall’Adunanza plenaria con la sentenza 25.05.2016, n. 109).
La stazione appaltante che, in sede di verifica del possesso dei requisiti dichiarati, riceve dall’ente previdenziale comunicazione di D.U.R.C. irregolare è tenuta ad escludere l’operatore dalla procedura, revocando l’aggiudicazione eventualmente effettuata, senza procedere al previo invito alla regolarizzazione.
14. Come bene ritenuto dalla sentenza,
tuttavia, l’obbligo di immediata esclusione vale nel caso di irregolarità contributiva della impresa concorrente, non potendo operare nel caso di irregolarità di impresa ausiliaria della quale la concorrente intende avvalersi. Vi osta, infatti, la regola dettata -all’interno del nuovo Codice dei contratti pubblici- dall’art. 89, comma 3, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, per il quale: “La stazione appaltante verifica, conformemente agli articoli 85, 86 e 88, se i soggetti della cui capacità l’operatore economico intende avvalersi, soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ai sensi dell’articolo 80. Essa impone all’operatore economico di sostituire i soggetti che non soddisfano un pertinente criterio di selezione o per i quali sussistono motivi obbligatori di esclusione”.
14.1.
La disposizione costituisce una novità del nuovo corpo normativo dei contratti pubblici del 2016, recependo la previsione dell’art. 63 dir. 24/2014/UE, per cui: “L’amministratore aggiudicatrice può imporre o essere obbligata dallo Stato membro a imporre che l’operatore economico sostituisca un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione” con ampliamento dell’ambito di operatività a tutti i motivi di esclusione di cui all’art. 80.
In precedenza, sotto la vigenza del Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 163 del 2006, la sostituzione era consentita solo nel caso di raggruppamento temporaneo di imprese per i motivi ivi previsti (art. 37, comma 19, d.lgs. 12.04.2006, n. 163) e solamente nella fase esecutiva (così Cons. Stato, sez. V, 20.01.2015, n. 169).
L’art. 89, comma 3, cit., invece, consente (anzi, impone) la sostituzione anche nell’ambito di rapporto tra imprese scaturito dalla stipulazione di un contratto di avvalimento ed anche nella fase precedente l’esecuzione del contratto (per questo, è stato definito “istituto del tutto innovativo” da Cons. Stato, III, 25.11.2015, n. 5359, dove era stato posto il problema dell’immediata applicabilità dell’art. 63 cit. prima del suo recepimento da parte dell’ordinamento nazionale, nonché da Corte di Giustizia dell’Unione europea in C-223/16 del 14.09.2017 causa Casertana costruzioni s.r.l. dove era stata sottoposta la medesima questione).
14.2.
La sostituzione dell’ausiliaria durante la procedura è istituto patentemente derogatorio al principio dell’immodificabilità soggettiva del concorrente nel corso della procedura (nonché di coloro di cui intende avvalersi: e, per questa via, della stessa offerta), ma risponde all’esigenza stimata superiore di evitare l’esclusione dell’operatore per ragioni a lui non direttamente riconducibili e, in questo modo, sia pure indirettamente, stimolare il ricorso all’avvalimento: il concorrente, infatti, può far conto sul fatto che, nel caso in cui l’ausiliaria non presenti i requisiti richiesti, potrà procedere alla sua sostituzione e non sarà, per solo questo fatto, escluso.
15. Giunge al Collegio la questione se, in caso di irregolarità nella posizione contributiva dell’ausiliaria (motivo di esclusione obbligatoria ex art. 80, comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50), la stazione appaltante possa imporre all’operatore economico, anziché la sostituzione dell’ausiliaria di cui al più volte citato art. 89, comma 3, la regolarizzazione.
15.1. Ritiene il Collegio che al quesito debba darsi risposta negativa.
Ostano le stesse ragioni che Cons. Stato, Ad. plen,, 29.02.2016, n. 6, ha ritenuto impeditive della regolarizzazione contributiva dell’operatore economico che abbia partecipato come impresa singola e, in particolare, anche a prescindere dalla natura dell’invito alla regolarizzazione (che quella sentenza chiaramente definisce: “istituto estraneo alla disciplina dell’aggiudicazione e dell’esecuzione dei contratti pubblici”), il principio di autoresponsabilità e parità di trattamento. Se, infatti, come già detto, l’innovazione legislativa è intesa a non penalizzare eccessivamente l’operatore economico che abbia fatto affidamento sulle capacità e i requisiti di un terzo, e che, senza colpa, si sia affidato a un soggetto poi risultato inadeguato, tuttavia, la medesima esigenza non può porsi nei confronti di quest’ultimo. A questo, insomma, necessariamente vanno riferite le conseguenze negative della sua condotta, ovvero, nel caso di specie, di non poter trarre vantaggi economici dalla partecipazione all’esecuzione di un appalto pubblico.
Il principio di parità di trattamento vale non solo nei rapporti tra gli operatori economici concorrenti, ma anche tra questi e i loro ausiliari. Perciò questi ultimi come i primi debbono “sopporta(re) le conseguenze di errori, omissioni e, a fortiori, delle falsità commesse nella formulazione dell’offerta e nella presentazione delle dichiarazioni (così, ancora una volta, secondo l’Adunanza plenaria; la quale, a sua volta, rinvia a Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 9).
15.2. Per completezza deve precisarsi che l’eventuale errore dell’I.N.P.S. cui sarebbe dovuto, secondo la stazione appaltante e la controinteressata, l’emissione di un D.U.R.C. negativo, così come la circostanza che nessun pagamento postumo (affermazione che si legge nell’ultimo paragrafo della memoria della controinteressata) sia avvenuto, non rileva in sede di procedura di aggiudicazione, non essendo la stazione appaltante tenuta a effettuare un proprio vaglio preliminare della correttezza dell’operato dell’ente previdenziale. Siffatto profilo della vicenda attiene ai rapporti tra l’impresa e l’ente previdenziale e non rileva, nel presente giudizio, come invece erroneamente ritenuto dalla sentenza impugnata.
16. Per le ragioni esposte, la stazione appaltante avrebbe dovuto imporre la sostituzione dell’impresa ausiliaria e non richiedere la mera regolarizzazione della sua posizione contributiva. La sentenza impugnata che ha ritenuto corretto l’operato dell’amministrazione va, pertanto, riformata, con conseguente annullamento del provvedimento di aggiudicazione (determina di E.R.A.P. Marche – Presidio di Ascoli Piceno n. 113 del 21.04.2017).
17. L’appellante ha formulato in primo grado –e riproposto in appello– l’intero apparato delle domande contemplato dal Codice del processo amministrativo: dunque, non solo la domanda di annullamento dell’aggiudicazione, ma anche quella di dichiarazione di inefficacia del contratto eventualmente intervenuto, e di risarcimento del danno mediante reintegrazione in forma specifica ovvero attraverso l’aggiudicazione dell’appalto e il subentro nel contratto.
In via subordinata ha, infine, proposto la domanda di risarcimento del danno per equivalente nella misura del 10% dell’importo dell’appalto rispetto all’offerta economica presentata, oltre al danno c.d. curriculare e alle spese occorse per la partecipazione.
17.1. E.R.A.P. Marche ha depositato nel presente giudizio il contratto stipulato con la Am.Gr. s.r.l. il 02.08.2017, nonché documentazione attestante l’avanzamento dei lavori.
17.2. Ritiene il Collegio di respingere la domanda di declaratoria dell’inefficacia del contratto.
Ai sensi dell’art. 122 Cod. proc. amm. il giudice, in caso di annullamento dell’aggiudicazione, qualora il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovare la gara e la domanda di subentro sia stata proposta, valuta se dichiarare l’inefficacia del contratto stipulato alla luce di una serie di elementi ivi espressamente indicati. Si tratta, in particolare, “degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce di vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto”.
Nel caso in esame, appare preponderante su ogni altra considerazione lo stato decisamente avanzato di esecuzione del contratto, dimostrato dai documenti versati in giudizio dalle resistenti, che rende fuori luogo –anche alla luce delle esigenze imperative di interesse generale alla realizzazione degli appalti pubblici- imporre una stasi nell’attività appaltata, quale giocoforza si determinerebbe ove si consentisse il cambio dell’appaltatore, anche in ragione della situazione abitativa, che appare tuttora precaria, degli abitanti del grattacielo di Largo ... (come si ricava dall’ordinanza del Sindaco del Comune di Ascoli Piceno del 29.08.2016 n. 338, in atti).
Il contratto, pertanto, continua a produrre i suoi effetti tra le parti originarie, senza dar luogo al subentro dell’odierno appellante nella posizione dell’originario aggiudicatario.
18. Escluso il risarcimento in forma specifica mediante subentro nel contratto, occorre vagliare la domanda di risarcimento dei danni per equivalente, come imposto, peraltro, dall’art. 124 Cod. proc. amm.. Questa può essere accolta nei limiti che si vanno ad esporre.
18.1. L’appellante ha richiesto la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno nella misura del 10% dell’importo dell’appalto rispetto all’offerta economica presentata, oltre al danno c.d. curriculare e le spese sostenute per la partecipazione alla procedura.
Sennonché, nella vicenda oggetto del giudizio, non ricorre un danno c.d. da mancata aggiudicazione, da risarcire, per costante giurisprudenza amministrativa, nella misura del c.d. interesse positivo che ricomprende sia il mancato guadagno sia il danno c.d. curriculare (da ultimo, sui principi della giurisprudenza in tema di quantificazione del danno da mancata aggiudicazione, Cons. Stato, Ad. plen., 12.05.2017, n. 2 e le pronunce ivi richiamate), quanto, piuttosto, il danno c.d. da perdita di chance favorevole.
18.2.
Il risarcimento del danno da perdita di chance esprime uno schema di reintegrazione patrimoniale riguardo un bene della vita connesso a una situazione soggettiva che, quando è sostitutiva di una reintegrazione in forma specifica come nei contratti pubblici, poggia sul fatto che un operatore economico che partecipa ammissibilmente a una procedura di evidenza pubblica, per ciò solo, è stimabile come portatore di un’astratta e potenziale chance di aggiudicarsi il contratto (così come chiunque, in generale, partecipi ad una procedura comparativa per la possibilità di conseguire il bene o l’utilità messi a concorso).
La chance iniziale e virtuale, che muove dall’essere in potenza la medesima per tutti i concorrenti, varia poi nel concretizzarsi e diviene misurabile in termini: non trattandosi di competizione di azzardo ma di contesa professionale in cui occorre mostrare titoli e capacità, diviene effettiva e aumenta o diminuisce nel corso della procedura fino a concentrarsi nella dimensione più elevata in capo all’operatore primo classificato al momento della formulazione della graduatoria finale, sfumando progressivamente in capo agli altri.

Perciò se, nel corso della procedura, condotte illegittime dell’amministrazione contrastano la normale affermazione della chance di aggiudicazione, viene leso l’interesse legittimo dell’operatore economico e –se è precluso anche il bene della vita cui l’interesse è orientato– è lui dovuto il risarcimento del danno nella misura stimabile della sua chance perduta (altra cosa è la questione della concezione, ontologica o eziologica della chance, sulla quale di recente questa Sezione, con sentenza 11.01.2018, n. 118, ha devoluto la questione all’Adunanza Plenaria; ma sulla chance come entità patrimoniale a sé, v. Cons. Stato, VI, 21.07.2016, n. 3304; V, 22.09.2015, n. 4431; V, 30.06.2015, n. 3249; IV, 20.01.2015, n. 131; V, 17.06.2014, n. 3082 e a partire da Cons. Stato, sez. VI, 07.02.2002, n. 686).
18.3.
La tecnica risarcitoria della chance impone un ulteriore necessario passaggio: posto che l’illegittima condotta dell’amministrazione ha qui determinato un danno risarcibile nei termini indicati, per la sua quantificazione occorre definire la misura percentuale che nella situazione data presentava per l’interessato la probabilità di aggiudicazione -la chance appunto– tenendo conto della fase della procedura in cui è stato adottato l’atto illegittimo e come poi si sarebbe evoluta.
18.4. Si tratta di passaggio necessario:
per la giurisprudenza l’operatore può beneficiare del risarcimento per equivalente solo se la sua chance di aggiudicazione ha effettivamente raggiunto un’apprezzabile consistenza, di solito indicata dalle formule “probabilità seria e concreta” o anche “elevata probabilità” di aggiudicazione del contratto. Al di sotto di tale livello, dove c’è la “mera possibilità” di aggiudicazione, vi è solo un ipotetico danno comunque non meritevole di reintegrazione poiché in pratica nemmeno distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto (cfr., in tema di pubblici concorsi, Cons. Stato, III, 27.11.2017, n. 5559, nonché Cass., lav., 25.08.2017, n. 20408; in tema di contratti pubblici, Cons. Stato, V, 07.06.2017, n. 2740; VI, 04.09.2015, n. 4115; 05.03.2015, n. 1099; VI, 20.10.2010, n. 7593).
18.5. In questa direzione,
la quantificazione percentuale della figurata lesione della chance identifica la dimensione effettiva di un lucro cessante; del resto, l’operatore che partecipa alla gara non è titolare attuale di un elemento patrimoniale che viene leso dall’attività amministrativa, ma di una situazione soggettiva strumentale al conseguimento di un’utilità futura.
L’utilità futura –l’essere parte del contratto e il trarne il legittimo lucro- è il bene della vita che gli è negato dall’azione illegittima dell’amministrazione. La chance vi rapporta in termini probabilistici le circostanze concrete, allegate e provate, che rilevano per definire, nei limiti del presumibile, la reale probabilità che aveva l’operatore economico di essere prescelto e così di conseguire quell’utilità: in una ricostruzione “dinamica” dell’evolversi della vicenda e non “statica
(cfr. Cons. Stato, V, 08.10.2014, n. 5008; 17.07.2014, n. 3774).
19. Facendo applicazione di tali principi alla vicenda oggetto del giudizio, va rilevato che è accertato che E.R.A.P. Marche, richiedendo la regolarizzazione della posizione contributiva dell’ausiliaria invece di imporne la sostituzione, ha indebitamente influito sulle possibilità di aggiudicazione della Am.Gr. s.r.l., aumentandole, e della società Ga.Ga. s.r.l., diminuendole.
19.1. Se, infatti, l’amministrazione, come dovuto, avesse richiesto la sostituzione dell’ausiliaria, all’eventuale inerzia o all’indicazione di soggetto inidoneo da parte dell’aggiudicataria, sarebbe potuto seguire l’aggiudicazione a favore della seconda classificata.
19.2. Perciò, considerato che, da un lato, la regolarizzazione è stata richiesta quando l’offerta dell’appellante era già stata considerata valida e inserita al secondo posto della graduatoria, ma, d’altro canto, valutato che, se l’amministrazione avesse richiesto la sostituzione dell’ausiliaria, è oggettivamente ipotizzabile –secondo l’id quod plerumque accidit e a parità dei restanti fattori- che Am.Gr. s.r.l. si sarebbe attivata individuando un’impresa ausiliaria idonea, è possibile concludere che l’appellante aveva una concreta chance di aggiudicazione del contratto (quantificabile, a far ricorso alla sintesi percentuale, intorno al 20%) e dunque, non “mera possibilità di conseguire l’utilità sperata” .
20. Definita la consistenza della chance, occorre passare alla identificazione del mancato guadagno, vale a dire del lucro cessante in cui essa consiste.
Considerato che il ribasso offerto dall’appellante, pari al 23,245% sul valore dell’appalto, era sostanzialmente equivalente al ribasso offerto dall’aggiudicataria (pari a 23,750%) onde, come si evince dal contratto stipulato, la società Ga.Ga. s.r.l. avrebbe svolto i lavori ricevendone il corrispettivo di € 1.567.498,65, avendo conto dell’utile che normalmente avrebbe potuto trarre -che non potrà stimarsi superiore al dieci per cento del valore a base d’asta (€ 156.749,86)- ed applicando ad esso la percentuale della chance precedentemente esposta (20%), il Collegio giunge ad individuare nella somma di € 31.349,97 il mancato guadagno a tale titolo (secondo il modello enunciato già da Cons. Stato, sez. VI, 15.10.2012, n. 5279).
20.1. Alla somma così definita deve sottrarsi l’aliunde perceptum vel percipiendum forfettariamente individuato in mancanza di quantificazione di parte (cfr. su tale ultimo profilo Cons. Stato, III, 04.10.2017, n. 4627: “la detrazione dell’aliunde perceptum vel percipiendum è un principio consolidato […] perché il principio di integrale ristoro del danno […] comporta […] che il danneggiato non possa ottenere una indebita locupletazione dal fatto illecito, ciò che avverrebbe se una impresa, oltre a vedersi ristorato […] il danno da mancata aggiudicazione della commessa, non vedesse sottratto dalla sua sfera giuridica patrimoniale quanto ha comunque conseguito, proprio per effetto della mancata esecuzione di questa e della “liberazione” di risorse, uomini, e mezzi per lo svolgimento di diverse commesse, eseguendo altri rapporti contrattuali, […] la liberazione di risorse e mezzi non impiegati nell’esecuzione della commessa è una esternalità positiva per l’impresa, per quanto generata da un fatto causativo di danno, sotto altra angolatura”.
Si giunge, al fine, a riconoscere dovuta la somma di € 25.000,00 a titolo di risarcimento del danno.
20.2. Quanto al c.d. danno curriculare, anche ad ammettere che sia compatibile con il risarcimento del danno per perdita di chance, esso è stato solo enunciato, ma non provato, perciò non può essere qui riconosciuto (così Cons. Stato, IV, 01.04.2015, n. 1708; V, 25.06.2014, n. 3220; sez. VI, 21.09.2010, n. 7004).
21. Passando all’esame del danno emergente,
non può essere risarcito il danno consistente nelle spese sostenute per la partecipazione alla procedura, perché la partecipazione alle gare pubbliche di appalto implica per le imprese la sopportazione di costi che, di norma, restano a carico delle imprese medesime, sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione (Cons. Stato, IV, 01.04.2015, n. 1708).
22. La somma indicata quale danno da risarcire va poi incrementata per rivalutazione monetaria (secondo l'indice medio dei prezzi al consumo elaborato dall'Istat), così da attualizzare al momento della liquidazione il danno subito, e gli interessi legali sulla somma complessiva dal giorno della pubblicazione della sentenza (che con la liquidazione del credito ne segna la trasformazione in credito di valuta) sino al soddisfo.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza pacifica, i termini per la conclusione del procedimento amministrativo devono reputarsi come ordinatori e non perentori, sicché l'adozione del provvedimento conclusivo dopo la relativa scadenza non ne implica di per sé l'illegittimità.
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I) Con il primo motivo gli istanti deducono la violazione dell’art. 2 L. n. 241/1990, avendo il Comune di Desio adottato l’ingiunzione di demolizione impugnata successivamente al termine di conclusione del procedimento.
Il motivo è infondato atteso che, per giurisprudenza pacifica, i termini per la conclusione del procedimento amministrativo devono reputarsi come ordinatori e non perentori, sicché l'adozione del provvedimento conclusivo dopo la relativa scadenza non ne implica di per sé l'illegittimità (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 08.04.2016, n. 658, C.S., Sez. VI, 04.03.2013, n. 1257) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 26.04.2018 n. 1122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione è atto necessitato e vincolato nel contenuto, conseguendo all'abusività dell'immobile.
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II) Con il secondo motivo i ricorrenti deducono l’erroneità dei presupposti ed il difetto di istruttoria della predetta ingiunzione di demolizione, la quale non avrebbe considerato precedenti lavori legittimamente eseguiti sull’immobile, e che non avrebbe svolto la puntuale individuazione delle opere che ne formano oggetto.
In linea generale, osserva il Collegio che l’ordine di demolizione è atto necessitato e vincolato nel contenuto, conseguendo all'abusività dell'immobile (TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 27.12.2017, n. 6082, TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 14.12.2017, n. 1973), non avendo peraltro gli istanti contestato il presupposto diniego di sanatoria.
Gli abusi che formano oggetto del provvedimento impugnato sono inoltre stati ivi puntualmente descritti, e graficamente rappresentati nelle planimetri allegate, dovendosi pertanto respingere il presente emotivo di ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 26.04.2018 n. 1122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Inammissibile un ricorso presentato dal difensore munito di procura generale e non speciale.
E' inammissibile un ricorso presentato dal difensore munito di procura generale e non speciale.
Invero, la procura speciale si caratterizza, rispetto alla procura generale, per avere ad oggetto uno o più atti giuridici singolarmente determinati, il che presuppone che il soggetto il quale rilascia la procura abbia contezza del contenuto dell'atto oggetto del potere rappresentativo conferito, il quale, quindi, deve essere formato prima o contestualmente al rilascio della procura.
A diverse conclusioni non potrebbe giungersi neppure richiamando l’art. 182, comma 2, c.p.c., atteso che l’art. 39 c.p.a. rinvia alle norme del c.p.c. soltanto in quanto compatibili o espressione di principi generali e detta disposizione non è espressione di un principio generale e comunque non può ritenersi compatibile con i principi propri del processo amministrativo, atteso che la previsione di un termine decadenziale per la notifica del ricorso presuppone necessariamente il previo conferimento del mandato speciale, con riferimento allo specifico atto oggetto di impugnazione
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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3) Il ricorso è inammissibile.
3.1) Come rappresentato alla parte nel corso della camera di consiglio del 17 aprile u.s., è stata allegata in atti soltanto una procura generale alle liti del legale rappresentante della società ricorrente, datata 02.07.2015, in violazione del chiaro disposto dell’art. 40, co. 1, lett. g), del c.p.a.
Tale disposizione esige, infatti, che, per il caso di ricorso sottoscritto dal solo difensore, quest’ultimo sia munito di procura speciale, non essendo evidentemente la procura generale sufficiente per l’attribuzione della rappresentanza tecnica nel processo amministrativo (TAR Lombardia, Milano, III, 14/05/2015, n. 1152; TAR Lazio Roma Sez. II, 08/01/2015, n. 145; id. 29/01/2018, n. 1023; TAR Sardegna, 08.02.2017, n. 97).
La procura speciale si caratterizza, rispetto alla procura generale, per avere ad oggetto uno o più atti giuridici singolarmente determinati, il che presuppone che il soggetto il quale rilascia la procura abbia contezza del contenuto dell'atto oggetto del potere rappresentativo conferito, il quale, quindi, deve essere formato prima o contestualmente al rilascio della procura.
3.2) Nel caso di specie, la procura, da un lato, ha ad oggetto genericamente tutti i giudizi d’interesse della società ricorrente e, dall’altro, reca una data di gran lunga anteriore a quella del ricorso in epigrafe.
4) Solo per completezza, preme osservare che, il termine che secondo prassi giudiziaria viene concesso su richiesta di parte a seguito dell’avviso di cui all’art. 73 c.p.a., è funzionale alla possibilità di depositare memorie in ordine all’avviso e non alla possibilità di integrare la documentazione.
5) A diverse conclusioni non potrebbe giungersi neppure richiamando l’art. 182, co. 2 c.p.c., atteso che, come già evidenziato recentemente da questa Sezione (TAR Lombardia, Milano, III, 03.02.2015, n. 381), l’art. 39 c.p.a. rinvia alle norme del c.p.c. soltanto “in quanto compatibili o espressione di principi generali”, per cui l’art. 182, comma 2, c.p.c. non può essere ritenuto applicabile al processo amministrativo.
Tale norma, infatti, in primo luogo non è espressione di un principio generale, in quanto il processo amministrativo, a differenza di quello civile –che ammette anche il conferimento di un mandato generale alle liti– impone il conferimento del mandato speciale prima della sottoscrizione del ricorso da parte del difensore, trattandosi di processo strutturato come prevalentemente di impugnazione; inoltre, il predetto art. 182, comma 2, c.p.c. non può ritenersi compatibile con i principi propri del processo amministrativo, atteso che la previsione di un termine decadenziale per la notifica del ricorso presuppone necessariamente il previo conferimento del mandato speciale, con riferimento allo specifico atto oggetto di impugnazione.
5.1) Un eventuale rinvio per integrare la documentazione che avrebbe dovuto essere depositata da parte ricorrente unitamente con il ricorso, d’altronde, oltre ad incidere sulla durata del giudizio in violazione del dovere delle parti di cooperare alla sua ragionevole durata (Cons. Stato, Sez. IV, 01.07.2014, n. 3296), costituirebbe un ingiustificato aggravio dei ruoli del Tribunale e sottrarrebbe ad altri ricorrenti la possibilità di vedere trattato il ricorso da essi proposto (TAR Lombardia, Milano, 15/12/2017, n. 2388).
6) Conclusivamente, quindi, il ricorso in epigrafe specificato deve essere dichiarato inammissibile per difetto di procura speciale alle liti (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 26.04.2018 n. 1091 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contributo concessorio (comprendente oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) è un’obbligazione giuridica di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio della concessione edilizia ed è qualificabile come corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici arrecati al nuovo manufatto.
Le disposizioni che regolano la fattispecie si rinvengono negli artt. 16 e 17 del DPR 380/2001.
L’art. 16, (rubricato “Contributo per il rilascio del permesso di costruire”), dispone al comma 1 che “Salvo quanto disposto dall'articolo 17, comma 3, il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo e fatte salve le disposizioni concernenti gli interventi di trasformazione urbana complessi di cui al comma 2-bis”.
Ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. b), il contributo di costruzione non è dovuto “per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”. Nel caso di specie, è pacifica la natura dell’intervento, consistente nella ristrutturazione con incremento realizzato nel rispetto del limite del 20% (cfr. memoria di costituzione del Comune, pag. 5).
La norma riprende sostanzialmente il contenuto dell’art. 9, comma 1, della L. 28/01/1977 n. 10, “in relazione al quale la giurisprudenza aveva avuto modo di chiarire che il carattere di unifamiliarità di un fabbricato a destinazione abitativa è ricavabile dalle caratteristiche architettoniche dell’edificio, in ragione del volume, della superficie, del numero e della funzione e caratteristica dei vani, in rapporto alle esigenze ed alla possibilità di utilizzo da parte di un unico nucleo familiare”.
E’ stato tuttavia nello specifico osservato che l'esenzione dal pagamento dei contributi di cui si discute ha la funzione di agevolare i proprietari di alloggi unifamiliari, presumendo il legislatore che gli interventi sugli stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione di migliorare le condizioni di abitabilità degli edifici medesimi, indipendentemente dalla loro dimensione.
La disposizione è diretta dunque a promuovere le opere di adeguamento dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare, circoscrivendone l’operatività agli interventi che non mutino sostanzialmente l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico.
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In linea generale, la partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento determini un incremento del peso insediativo con un’oggettiva rivalutazione dell’immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico.
Alla luce di tale considerazione, la giurisprudenza ha statuito che l’esenzione dal contributo di costruzione per il caso di interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione di carattere eccezionale (applicabile in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore): la ratio è di natura sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare: l’edificio unifamiliare, nell’accezione socio economica assunta dalla norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà immobiliare, e soltanto se presenti tali caratteri è meritevole di un trattamento differenziato.
Il Collegio ritiene di aderire a tale orientamento. Anche secondo questo TAR, l’esenzione in esame si giustifica come aiuto alla famiglia che, banalmente, necessiti di ulteriore spazio per la propria decorosa sistemazione abitativa.
La giurisprudenza recente ha parimenti sostenuto che “la ratio che ispira la specifica esenzione ha un fondamento sociale, con l’effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve avere una accezione strutturale ma socio-economica, coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di ristrutturazione dell’abitazione di un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie …” (e in quel caso si è stabilito che la suddetta esenzione non può trovare applicazione in una fattispecie relativa a una villa di 19 vani con una superficie di 638,41 mq.).
Accedendo a tale approccio interpretativo, anche il TAR Campania Salerno, sez. I – 22/06/2015 n. 1416 ha desunto l’estraneità della fattispecie affrontata (si controverteva dell’intervento su un fabbricato di 13 vani, avente volumetria complessiva di mc. 1.338,78, distribuiti su tre livelli) all’alveo applicativo della norma invocata, “proprio in considerazione delle rilevate caratteristiche costruttive e dimensionali dell’edificio ancorché unifamiliare”.
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La Società ricorrente, che ha ottenuto il titolo abilitativo per i lavori di ristrutturazione e ampliamento di un edificio unifamiliare, censura la pretesa del Comune di applicare il contributo sul costo di costruzione.
La controversia ha quindi ad oggetto un giudizio di accertamento negativo in ordine all’obbligazione pecuniaria relativa al pagamento del contributo di costruzione, nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, rispetto alla quale gli atti di liquidazione sono privi di contenuto ed effetti provvedimentali (Consiglio di Stato, sez. IV – 01/02/2017 n. 425).
Il gravame è infondato e deve essere rigettato.
0. Il Collegio richiama anzitutto i principi giurisprudenziali elaborati nella materia controversa, per cui il contributo concessorio (comprendente oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) è un’obbligazione giuridica di tipo pubblicistico che sorge con il rilascio della concessione edilizia (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 07/02/2017 n. 728) ed è qualificabile come corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici arrecati al nuovo manufatto (Consiglio di Stato, sez. IV – 29/10/2015 n. 4950).
1. Le disposizioni che regolano la fattispecie si rinvengono negli artt. 16 e 17 del DPR 380/2001.
L’art. 16, (rubricato “Contributo per il rilascio del permesso di costruire”), dispone al comma 1 che “Salvo quanto disposto dall'articolo 17, comma 3, il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel presente articolo e fatte salve le disposizioni concernenti gli interventi di trasformazione urbana complessi di cui al comma 2-bis”.
Ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. b), il contributo di costruzione non è dovuto “per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”. Nel caso di specie, è pacifica la natura dell’intervento, consistente nella ristrutturazione con incremento realizzato nel rispetto del limite del 20% (cfr. memoria di costituzione del Comune, pag. 5).
2. La norma riprende sostanzialmente il contenuto dell’art. 9, comma 1, della L. 28/01/1977 n. 10, “in relazione al quale la giurisprudenza (cfr. TAR 07.09.1999 n. 770; TAR Veneto 30.3.1996 n. 480) aveva avuto modo di chiarire che il carattere di unifamiliarità di un fabbricato a destinazione abitativa è ricavabile dalle caratteristiche architettoniche dell’edificio, in ragione del volume, della superficie, del numero e della funzione e caratteristica dei vani, in rapporto alle esigenze ed alla possibilità di utilizzo da parte di un unico nucleo familiare” (cfr. TAR Brescia, sez. I – 13/05/2011 n. 713).
3. E’ stato tuttavia nello specifico osservato (cfr. sentenza Sezione 10/08/2012 n. 1446, che risulta appellata) che l'esenzione dal pagamento dei contributi di cui si discute ha la funzione di agevolare i proprietari di alloggi unifamiliari, presumendo il legislatore che gli interventi sugli stessi non abbiano carattere di lucro, ma la sola funzione di migliorare le condizioni di abitabilità degli edifici medesimi, indipendentemente dalla loro dimensione (Consiglio di Stato, sez. IV – 11/10/2006 n. 6065).
La disposizione è diretta dunque a promuovere le opere di adeguamento dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare, circoscrivendone l’operatività agli interventi che non mutino sostanzialmente l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico.
Sostiene la difesa comunale che la ricorrente ha ristrutturato un edificio dismesso che ospitava più famiglie, per favorire l’esercizio di un’attività di ristorazione (e quindi a fini di lucro), e che solo il particolare momento congiunturale non ha consentito di individuare una figura professionale per la gestione dell’attività, cosicché la proprietà ha scelto di riconvertire l’immobile a residenza.
Detto ordine di idee merita di essere condiviso.
4. Osserva il Collegio che, in linea generale, la partecipazione del privato al costo delle opere di urbanizzazione è dovuta allorquando l’intervento determini un incremento del peso insediativo con un’oggettiva rivalutazione dell’immobile, sicché l'onerosità del permesso di costruire è funzionale a sopportare il carico socio economico che la realizzazione comporta sotto il profilo urbanistico.
Alla luce di tale considerazione, la giurisprudenza (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VIII – 09/05/2012 n. 2136) ha statuito che l’esenzione dal contributo di costruzione per il caso di interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari entro il limite di ampliamento del 20%, costituisce oggetto di una previsione di carattere eccezionale (applicabile in un ambito di stretta interpretazione ancorato ai parametri predefiniti dal legislatore): la ratio è di natura sociale ed è diretta sostanzialmente ad apprestare uno strumento di tutela e di salvaguardia alla piccola proprietà immobiliare per gli interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare: l’edificio unifamiliare, nell’accezione socio economica assunta dalla norma, coincide in altri termini con la piccola proprietà immobiliare, e soltanto se presenti tali caratteri è meritevole di un trattamento differenziato (TAR Lombardia Milano, sez. IV – 02/07/2014 n. 1707).
5. Il Collegio ritiene di aderire a tale orientamento. Anche secondo questo TAR (cfr. sez. I – 21/11/2014 n. 2180), l’esenzione in esame si giustifica come aiuto alla famiglia che, banalmente, necessiti di ulteriore spazio per la propria decorosa sistemazione abitativa.
La giurisprudenza recente (cfr. TAR Toscana, sez. III – 26/04/2017 n. 616), ha parimenti sostenuto che “la ratio che ispira la specifica esenzione ha un fondamento sociale, con l’effetto che la nozione di edificio unifamiliare non deve avere una accezione strutturale ma socio-economica, coincidendo con la piccola proprietà immobiliare, meritevole per gli interventi di ristrutturazione dell’abitazione di un trattamento differenziato rispetto alle altre tipologie edilizie …” (e in quel caso si è stabilito che la suddetta esenzione non può trovare applicazione in una fattispecie relativa a una villa di 19 vani con una superficie di 638,41 mq.).
Accedendo a tale approccio interpretativo, anche il TAR Campania Salerno, sez. I – 22/06/2015 n. 1416 ha desunto l’estraneità della fattispecie affrontata (si controverteva dell’intervento su un fabbricato di 13 vani, avente volumetria complessiva di mc. 1.338,78, distribuiti su tre livelli) all’alveo applicativo della norma invocata, “proprio in considerazione delle rilevate caratteristiche costruttive e dimensionali dell’edificio ancorché unifamiliare”.
6. Alla luce delle suindicate premesse, nella fattispecie all’esame del Collegio non risultano sussistere i presupposti delineati dalla norma.
Come ha osservato l’amministrazione (cfr. memoria finale, pag. 7), senza repliche sul punto della parte ricorrente, prima dell’ampliamento l’edificio inserito nella corte agricola era disposto su tre piani, con un piano terra avente cinque ampie stanze, con bagno e locale sottoscala (per una superficie complessiva di 181,30 m²), un primo piano dotato di quattro stanze grandi e due bagni (per 178,55 m²), e un piano secondo mansardato con tre ampie stanze, per una superficie di 128,75 m².
Con la ristrutturazione, al piano terra sono state realizzate –in ampliamento– una cucina per 78 m², una dispensa con cella frigorifera, una cantina e la zona raccolta e lavaggio del pentolame; un locale ricevimento, due sale ristorante estese, un locale filtro, due bagni con antibagno, due spogliatoi con doccia e servizio igienico oltre a vani tecnici.
Al primo piano, uno spazio conversazione con bar e guardaroba, tre ampie sale ristorante, un locale filtro, due percorsi sporco/pulito, servizi clienti con accesso a due servizi igienici, un vano scala, una terrazza abitabile, una piattaforma elevatrice; al piano secondo, cinque vani tecnici, un corridoio, un vano scala, una piattaforma elevatrice, tre grandi stanze ciascuna con bagno, un vano di servizio.
Ha puntualizzato la difesa comunale che, con il mutamento di destinazione d’uso da ristorante ad abitazione, le planimetrie non sono state incise, salvo il diverso uso dei locali (dalle sale ristorante alle stanze o soggiorni, dagli spogliatoi alle lavanderie, dagli spazi per conversazione o ricevimento ai corridoi, di ben 32 e 39 m²).
7. Lo scopo di lucro perseguito con la ristrutturazione (connesso alla previsione di numerosi ambienti destinati alla ristorazione) si rivela concreto e non meramente potenziale, avendo la proprietà attivamente cercato un acquirente (si veda l’articolo pubblicato sul giornale locale il 16/12/2016 –allegato n. 12 del Comune– che dà conto della volontà di affidare la gestione della villa come “ristorante o come fastosa residenza per feste, ricevimenti, convegni, o servizi di catering”).
Dunque, l’immobile è stato posto in vendita per un utilizzo commerciale successivamente alla conversione (senza opere) della destinazione in residenziale. In aggiunta a tale riflessione, si osserva che le ingenti dimensioni (classificazione A/7 con oltre 18 vani) impediscono di qualificare il fabbricato come semplice abitazione, trattandosi di un’unità molto ampia con i tratti dell’immobile di lusso, e dunque di una realtà strutturale incompatibile con le caratteristiche delineate dalla giurisprudenza per il riconoscimento del beneficio dell’esenzione (si ribadisce: la decorosa sistemazione del nucleo familiare).
8. In conclusione, la pretesa avanzata è infondata e deve essere respinta (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.04.2018 n. 449 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi: procedimento e parere obbligatorio della commissione paesaggistica.
Nella specie non appare invocabile la causa di non annullabilità ex art. 21-octies, co. 2, primo periodo, L. n. 241/1990, in quanto la mancata acquisizione di un parere obbligatorio non comporta la mera violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti.
Infatti, la previsione normativa di un parere obbligatorio attiene intrinsecamente alla sostanza del rapporto che intercorre tra l’Amministrazione ed il privato; allorquando viene previsto l’intervento dell’organo di amministrazione attiva e di quello di amministrazione consultiva, la fattispecie viene, infatti, disciplinata in termini sostanziali, per cui il contenuto sostanziale del rapporto non può prescindere dall’arricchimento derivante dal contributo del collegio competente a fini consultivi.
Un tanto è stato confermato anche dalla giurisprudenza dell’Adunanza plenaria, ai sensi della quale esistono alcuni vizi di legittimità, tra cui quello della carenza di un parere obbligatorio, che esprimono una radicale alterazione dell’esercizio della funzione pubblica; precisamente nel paragrafo 8.3.2 della predetta sentenza si afferma che “in tutte le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio, si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le regole dell’azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus” e che, dunque, si tratta di un vizio che altera radicalmente l’esercizio della funzione pubblica.
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... per la riforma della sentenza 28.05.2014 n. 806 del TAR per la LIGURIA–GENOVA - SEZ. I, resa tra le parti, concernente ordine demolizione opere abusive e ripristino dello stato dei luoghi.
...
1. Con il primo motivo di gravame, l’appellante ripropone il primo motivo di ricorso in primo grado, ovvero la violazione dell’art. 2 della L.R. n. 22/2009, in quanto non sarebbe stato reso il parere obbligatorio della Commissione Locale per il Paesaggio.
...
2. Ritiene il Collegio che sia fondato il primo motivo d’appello, avente carattere assorbente.
Il TAR ha respinto il primo motivo di ricorso, con la seguente motivazione: “L’art. 2, co. 2, lett. e), L.R. n. 22/2009 impone l’acquisizione del parere obbligatorio della commissione locale per il paesaggio nel caso di “irrogazione dei provvedimenti sanzionatori di cui all'articolo 167 del Codice”.
Nel caso di specie tale parere non è stato acquisito, e tuttavia l’applicazione alla fattispecie della causa di non annullabilità di cui all’art. 21-octies, co. 2, L. n. 241/90 appare incontestabile.
Il provvedimento sanzionatorio ex art. 167 D.L.vo n. 42/2004, infatti, ha natura vincolata; la mancata acquisizione del parere costituisce, indubitabilmente, una violazione delle norme sul (relativo) procedimento. Ciò posto non pare dubitabile che il contenuto del provvedimento impugnato non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato dal momento che il manufatto in questione, realizzando un’alterazione dello stato dei luoghi necessitava della prescritta autorizzazione (art. 149 D.L.vo 42/2004)
”.
Tale assunto non appare condivisibile.
Nella specie, infatti, non appare invocabile la causa di non annullabilità ex art. 21-octies, co. 2, primo periodo, L. n. 241/1990, in quanto la mancata acquisizione di un parere obbligatorio non comporta la mera violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti.
Infatti, la previsione normativa di un parere obbligatorio attiene intrinsecamente alla sostanza del rapporto che intercorre tra l’Amministrazione ed il privato; allorquando viene previsto l’intervento dell’organo di amministrazione attiva e di quello di amministrazione consultiva, la fattispecie viene, infatti, disciplinata in termini sostanziali, per cui il contenuto sostanziale del rapporto non può prescindere dall’arricchimento derivante dal contributo del collegio competente a fini consultivi.
Un tanto è stato confermato anche dalla giurisprudenza dell’Adunanza plenaria (cfr. sentenza n. 5 del 27.04.2015), ai sensi della quale esistono alcuni vizi di legittimità, tra cui quello della carenza di un parere obbligatorio, che esprimono una radicale alterazione dell’esercizio della funzione pubblica; precisamente nel paragrafo 8.3.2 della predetta sentenza si afferma che “in tutte le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio, si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le regole dell’azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus” e che, dunque, si tratta di un vizio che altera radicalmente l’esercizio della funzione pubblica.
Ciò chiarito, va rilevato, poi, che, nella specie, non può essere messo in dubbio la necessità dell’acquisizione del parere della Commissione Locale per il Paesaggio in vista dell’emanazione dell’ordinanza-ingiunzione impugnata.
Questa ultima, infatti, tra l’altro, fa riferimento al fatto che l’immobile ricade in una zona di tutela paesaggistica di cui al D.L.vo n. 42/2004 e di conseguenza dispone l’applicazione dell’art. 167 del decreto stesso.
L’art. 2, co. 2, della L.R. n. 22/2009 prescrive che le Commissioni locali per il paesaggio “esprimono pareri obbligatori in relazione ai procedimenti: … d) di irrogazione dei provvedimenti sanzionatori di cui all’art. 167 del Codice”.
Il tenore letterale della norma è chiaro nell’imporre l’intervento consultivo della Commissione in ogni e qualsiasi ipotesi sanzionatoria di cui all’art. 167, D.L.vo n. 42/2004, ivi compresa quella riferita ad un ordine di demolizione, non essendovi previste eccezioni di sorta.
La necessaria acquisizione del parere della Commissione, poi, non può considerarsi nemmeno venuto meno, a seguito dell’abrogazione della L.R. n. 22/2009, ad opera della L.R. n. 13/2014, in quanto anche l’art. 11, co. 2, della L.R. n. 13/2014 prevede che, tuttora, le Commissioni Locali per il Paesaggio esprimano pareri obbligatori congruamente motivati in ordine ai procedimenti di competenza comunale individuati dall’art. 9, co. 1, della L.R. n. 13/2014, che comprende, sub lett. d), anche quelli di natura sanzionatoria di cui all’art. 167, D.L.vo n. 42/2004.
Conclusivamente, va accolto il primo motivo d’appello, avente carattere assorbente, e, conseguentemente, in riforma della sentenza impugnata, va accolto il ricorso in primo grado, nei termini esposti, con conseguente annullamento dell’atto impugnato, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.04.2018 n. 2484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il certificato di destinazione urbanistica è un documento volto a far conoscere la destinazione urbanistica dei terreni e, quindi, a certificare in via generale l'edificabilità o l'inedificabilità dei suoli, con una chiara valenza dichiarativa circa l'inserimento di un'area o di un immobile in una zona urbanistica anziché in un'altra del territorio comunale.
Sicché, è inidoneo a fondare un ragionevole affidamento sulla concreta realizzazione di ulteriore edificazione del terreno che dipende non solo dalla diretta applicazione delle norme urbanistiche ed edilizie ma anche dallo stato di fatto del terreno e dall’esistenza di precedente edificazione ed utilizzazione della densità del fondo agricolo.

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Quanto al certificato di destinazione urbanistica è sufficiente rilevare come si tratti di un documento volto a far conoscere la destinazione urbanistica dei terreni e, quindi, a certificare in via generale l'edificabilità o l'inedificabilità dei suoli, con una chiara valenza dichiarativa circa l'inserimento di un'area o di un immobile in una zona urbanistica anziché in un'altra del territorio comunale, inidoneo, pertanto a fondare un ragionevole affidamento sulla concreta realizzazione di ulteriore edificazione del terreno che, come sopra detto, dipende non solo dalla diretta applicazione delle norme urbanistiche ed edilizie ma anche dallo stato di fatto del terreno e dall’esistenza di precedente edificazione ed utilizzazione della densità del fondo agricolo (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 24.04.2018 n. 840 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nelle gare pubbliche non occorre impugnare gli atti di aggiudicazione se sono stati impugnati quelli di indizione del procedimento di gara atteso che l'annullamento del bando di gara travolge il provvedimento di aggiudicazione, sicché la mancata impugnazione di quest'ultima non determina l'improcedibilità del ricorso.
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1. È infondata anzitutto l’eccezione di improcedibilità proposta dal Ministero perché la ricorrente non impugnato l’aggiudicazione, in quanto la giurisprudenza che appare preferibile ha precisato che “nelle gare pubbliche non occorre impugnare gli atti di aggiudicazione se sono stati impugnati quelli di indizione del procedimento di gara atteso che l'annullamento del bando di gara travolge il provvedimento di aggiudicazione, sicché la mancata impugnazione di quest'ultima non determina l'improcedibilità del ricorso” (Cons. St., sez. III, 05.12.2016, n. 5112) (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 23.04.2018 n. 718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Protrazione dell'abuso edilizio mediante il completamento delle opere - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Nuova volumetria - Sopraelevazione - Assenza di titolo edilizio - Artt. 10 e 44 DPR 380/2001 - Art. 181 D. L.vo 42/2004.
La protrazione di un abuso edilizio, mediante il completamento delle opere, costituisce il reato ex art. 44 d.p.r. 380/2001, dovendo tenersi conto delle opere complessivamente realizzate.
Fattispecie: realizzazione, in assenza del titolo edilizio, di una sopraelevazione di 100 mq. collegata all'appartamento sottostante con relativa contravvenzione ex art. 181, comma 1, del D.Lgs. 42/2004 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.04.2018 n. 17745 - link a
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LAVORI PUBBLICI: Project financing - Art. 168 d.lgs. n. 50/2016 – Durata delle concessioni - Criterio del VAN (Valore attuale netto) – Valore positivo.
L’art. 168 del Codice dei Contratti, recependo l’art. 18 della Direttiva 2014/23/UE stabilisce il principio cardine per cui la durata delle concessioni non è predeterminata, ma deve essere calcolata in funzione dell’entità della prestazione che il concessionario è tenuto a rendere e della necessità di rientro degli investimenti.
Centrale per valutare la convenienza economica di un’operazione di project financing è, quindi, il criterio del Valore Attuale Netto (cd. VAN) che consente di calcolare il valore del beneficio netto atteso dall’iniziativa economica e la ricchezza incrementale generata dall’investimento.
Tale indice, affinché un progetto possa essere valutato favorevolmente, deve assumere un valore positivo, perché solo in tal caso l’iniziativa risulta in grado di produrre flussi monetari sufficienti a ripagare l’esborso iniziale ed a remunerare i capitali impiegati nell’operazione (nella specie, l’indice VAN, che risultava positivo solo a partire dal quattordicesimo anno, appariva idoneo a giustificare la durata della concessione di 15 anni) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 19.04.2018 n. 4374 - link a
www.ambientediritto.it).

APPALTI: La Corte di giustizia esclude la revisione periodica dei prezzi per i settori speciali di cui alla direttiva 2004/17/CE.
La Corte di giustizia chiarisce che la direttiva 2004/17/CE non osta a norme di diritto nazionale che non prevedano la revisione periodica dei prezzi dopo l’aggiudicazione di appalti rientranti nei settori considerati da tale direttiva (c.d. settori speciali).
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Appalti pubblici – Settori speciali – Revisione prezzi – Omessa previsione da parte del d.lgs. n. 163/2016 – Direttiva 2004/17/CE e principi del TFUE non ostano.
La direttiva 2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali, come modificata dal regolamento (UE) n. 1251/2011 della Commissione, del 30.11.2011, e i principi generali ad essa sottesi devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a norme di diritto nazionale, come quelle di cui al procedimento principale, che non prevedono la revisione periodica dei prezzi dopo l’aggiudicazione di appalti rientranti nei settori considerati da tale direttiva (1).
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   (1) I. – Con la sentenza in epigrafe la Corte di giustizia dell’Unione europea affronta le due questioni pregiudiziali sottopostele dal Consiglio di Stato, sez. IV, ordinanza 22.03.2017, n. 1297 (oggetto della News US in data 24.03.2017), concernenti, da un lato, la compatibilità, con il diritto europeo, della previgente disciplina nazionale in tema di mancata previsione di meccanismi obbligatori di revisione prezzi nei cc.dd. settori speciali e, dall’altro, la validità della medesima disciplina europea nella parte in cui non prevede obbligatoriamente l’istituto della revisione prezzi all’interno delle direttive di settore.
La vicenda sottesa alla pronuncia in esame può essere così riassunta.
Rete Ferroviaria Italiana S.p.a. (di seguito RFI) aveva aggiudicato ai ricorrenti nel procedimento principale, un appalto relativo ai servizi di pulizia, di mantenimento del decoro dei locali ed altre aree aperte al pubblico e servizi accessori ubicati in stazioni, impianti, uffici ed officine variamente dislocati nell’ambito della Direzione compartimentale di Cagliari.
Il contratto conteneva una clausola specifica che stabiliva le modalità di revisione del prezzo concordato, le quali derogavano all’articolo 1664 c.c..
Nel corso della esecuzione di tale appalto, i ricorrenti richiedevano alla RFI la revisione del prezzo dell’appalto precedentemente concordato, affinché si tenesse conto di un incremento dei costi contrattuali dovuto all’aumento delle spese per il personale.
Con nota in data 22.02.2012, RFI respingeva la domanda, ritenendo ingiustificata ed inaccoglibile la richiesta volta all’adeguamento revisionale del corrispettivo d’appalto in dipendenza del riferito incremento dei costi contrattuali.
A seguito di tale rigetto, i ricorrenti ricorrevano dinanzi al Tar per la Sardegna che, con sentenza in data 11.06.2014, respingeva il ricorso ritenendo:
      a) la inapplicabilità dell’art. 115 d.lgs. n. 163/2006 (e delle analoghe, precedenti disposizioni: art. 6, co. 4, l. n. 537/1993, come novellato dall’art. 44, l. n. 724/1994), “dovendosi ritenere che l’attività oggetto dell’appalto in questione rientri tra i “settori speciali” di cui alla parte III del codice degli appalti, sussistendo sia il presupposto soggettivo che quello oggettivo al fine di ritenere che il contratto di servizio di pulizia delle stazioni ferroviarie rientri all’interno dell’ambito stabilito dall’art. 217 del codice (…)”, in quanto “la pulizia rientra nella normativa dei settori speciali quando è funzionale a detta attività, il che si verifica qualora si tratti di proprietà immobiliare di edifici che costituiscono parte integrante della rete di produzione, distribuzione e trasporto, indicate negli artt. 208 ss. d.lgs. n. 163 del 2006”;
      b) che la revisione dei prezzi non era dovuta nemmeno in forza del disposto di cui all’art. 1664 c.c., posto che “la norma in questione è comunque derogabile dalla volontà delle parti che inseriscano nel contratto una clausola contrattuale limitativa della revisione prezzi, come avvenuto nel caso di specie attraverso le previsioni di cui all’art. 6 del contratto n. 01/2006, stipulato tra le parti in data 23.02.2006”.
A seguito di tale pronuncia, proponevano appello i ricorrenti nel procedimento principale, sostenendo che all’appalto in contestazione si sarebbe dovuto applicare il disposto di cui all’articolo 115 del d.lgs. n. 163/2006 o, in alternativa, l’art. 1664 c.c., a differenza di quanto giudicato dal Tar per la Sardegna; inoltre, gli appellanti contestavano la conformità al diritto dell’Unione degli articoli 115 e 206 del d.lgs. n. 163/2006, sostenendo che tali disposizioni, nella parte in cui portano ad escludere la revisione dei prezzi nel settore dei trasporti e, segnatamente, nei relativi contratti di pulizia, dovevano ritenersi contrarie, in particolare, all’articolo 3, paragrafo 3, TUE, agli articoli 26, 101 TFUE e seguenti, nonché alla direttiva 2004/17.
Sotto tali profili, secondo la prospettazione degli appellanti, la disciplina nazionale risulterebbe ultronea e ingiustificata rispetto alla legislazione dell’Unione e tale da porre l’impresa aggiudicataria di un appalto relativo a servizi di pulizia, in posizione di soggezione e di debolezza nei confronti dell’impresa pubblica, producendosi in tal modo un ingiusto e sproporzionato disequilibrio contrattuale volto ad alterare le regole di funzionamento del mercato.
Infine, sostenevano i ricorrenti la invalidità della direttiva 2004/17CE, nell’ipotesi in cui l’esclusione della revisione dei prezzi in tutti i contratti stipulati e applicati nei settori speciali discendesse direttamente dalla direttiva.
   II. – Il Consiglio di Stato, in sede di appello, così decideva:
      c) riteneva applicabile al caso concreto la disciplina degli appalti in considerazione della aggiudicazione della gara da parte di un’amministrazione aggiudicatrice ai sensi della direttiva (criterio soggettivo) e della sussistenza di un nesso di strumentalità dell’attività di pulizia, all’attività di trasporto ferroviario, rientrante nell’ambito di applicazione della suddetta direttiva (criterio oggettivo);
      d) riteneva inapplicabile, conseguentemente, l’art. 115 del d.lgs. n. 163/2006, non richiamato -per i settori speciali- dall’art. 206 del Codice;
      e) riteneva impossibile, nel caso concreto, alcun adeguamento del corrispettivo contrattualmente pattuito in considerazione della specialità della disciplina degli appalti che, come tale, per un verso si impone (in virtù dei principi generali in tema di interpretazione), alla disciplina generale e, per altro verso, rende inapplicabili le disposizioni del codice civile per effetto di espressa previsione normativa, posto che l’art. 2, co. 4, d.lgs. n. 163/2006, rende applicabili le “disposizioni stabilite dal codice civile” solo “per quanto non espressamente previsto” (Cons. Stato, sez. V, 22.10.2012, n. 5395; Id., 09.06.2008, n. 2786);
     f) riteneva necessaria la verifica della conformità al diritto dell’Unione Europea degli articoli 206 e 217 d.lgs. n. 163/2006, nella parte in cui escludono l’applicazione dell’art. 115 agli appalti dei settori speciali e, come desunto in via interpretativa, anche agli appalti di servizi che, pur non rientrando nei settori speciali (nel caso di specie, appalto del servizio di pulizia), sono a questi legati da un nesso di strumentalità, proponendo le seguenti questioni pregiudiziali:
         f1) se sia conforme al diritto dell’Unione Europea (in particolare con gli articoli 3, co. 3, TUE, artt. 26, 56/58 e 101 TFUE, art. 16 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) ed alla Direttiva n. 17/2004 l’interpretazione del diritto interno che escluda la revisione dei prezzi nei contratti afferenti ai cd. settori speciali, con particolare riguardo a quelli con oggetto diverso da quelli cui si riferisce la stessa Direttiva, ma legati a questi ultimi da un nesso di strumentalità;
         f2) se la Direttiva n. 17/2004 (ove si ritenga che l’esclusione della revisione dei prezzi in tutti i contratti stipulati ed applicati nell’ambito dei cd. settori speciali discenda direttamente da essa), sia conforme ai principi dell’Unione Europea (in particolare, agli articoli 3, co. 1 TUE, 26, 56/58 e 101 TFUE, art. 16 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), “per l’ingiustizia, la sproporzionatezza, l’alterazione dell’equilibrio contrattuale e, pertanto, delle regole di un mercato efficiente”.
   III. – Con la sentenza in esame, la Corte di giustizia dell’Unione europea affronta le due questioni sollevate, rilevando, quanto alla prima:
      g) che dalla giurisprudenza della Corte emerge che la direttiva 2004/17/CE, trovi applicazione non solo agli appalti che sono aggiudicati nel settore di una delle attività espressamente considerate agli articoli da 3 a 7, ma, altresì, agli appalti che, anche se di natura diversa, risultano comunque utili all’esercizio delle attività definite dalla direttiva 2004/17/CE;
      h) che, quindi, nei limiti in cui un appalto aggiudicato da un ente aggiudicatore riveste un nesso con un’attività da questo esercitata nei settori considerati dagli articoli da 3 a 7 di tale direttiva, tale appalto deve essere assoggettato alle procedure previste dalla direttiva in oggetto (in tal senso, Corte di giustizia UE, 10.04.2008, C‑393/06, Aigner, punti da 56 a 59);
      i) che, tuttavia, da nessuna disposizione della direttiva 2004/17/CE, emerge che quest’ultima debba essere interpretata nel senso che essa osta a norme di diritto nazionale, quale il combinato disposto degli articoli 115 e 206 del d.lgs. n. 163/2006, che non prevedono la revisione periodica dei prezzi dopo l’aggiudicazione di appalti rientranti nei settori considerati dalla medesima direttiva, dal momento che quest’ultima non impone agli Stati membri alcun obbligo specifico di prevedere disposizioni che impongano all’ente aggiudicatore di concedere alla propria controparte contrattuale una revisione al rialzo del prezzo dopo l’aggiudicazione di un appalto;
      j) che, parimenti, nemmeno i principi generali sottesi alla direttiva 2004/17/CE e, segnatamente, il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza che ne deriva, sanciti dall’articolo 10 di tale direttiva, ostano a siffatte norme;
      k) che, al contrario, non si potrebbe escludere che una revisione del prezzo dopo l’aggiudicazione dell’appalto possa entrare in conflitto con tale principio e con tale obbligo (v., per analogia, sentenza del 07.09.2016, C‑549/14, Finn Frogne, punto 40);
      l) che, come rilevato dalla Commissione nelle osservazioni scritte, il prezzo dell’appalto costituisce un elemento di grande rilievo nella valutazione delle offerte da parte di un ente aggiudicatore, così come nella decisione di quest’ultimo di attribuire l’appalto a un operatore; tale importanza emerge peraltro dal riferimento al prezzo contenuto in entrambi i criteri relativi all’aggiudicazione degli appalti di cui all’articolo 55, paragrafo 1, della direttiva 2004/17. In tali circostanze, le norme di diritto nazionale che non prevedono la revisione periodica dei prezzi dopo l’aggiudicazione di appalti rientranti nei settori considerati da tale direttiva sono piuttosto idonee a favorire il rispetto dei suddetti principi;
      m) che, in conclusione, la direttiva 2004/17/CE e i principi generali ad essa sottesi devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a norme di diritto nazionale, come quelle di cui al procedimento principale, che non prevedono la revisione periodica dei prezzi dopo l’aggiudicazione di appalti rientranti nei settori considerati da tale direttiva.
Quanto alla seconda:
      n) che dalla giurisprudenza della Corte emerge che, qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione di una norma dell’Unione o il giudizio sulla sua validità, chiesti dal giudice nazionale, non hanno alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto della controversia di cui al procedimento principale o qualora il problema sia di natura ipotetica, la Corte respinge la domanda presentata dal giudice nazionale in quanto irricevibile (v., in tal senso, sentenza del 28.03.2017, C‑72/15, Rosneft, punto 50 e giurisprudenza ivi citata);
      o) che la fattispecie concreta sulla quale il giudice del rinvio ha chiesto lumi in merito alla validità della direttiva 2004/17/CE, si fonda sulla premessa secondo cui le disposizioni di cui al procedimento principale del decreto legislativo n. 163/2006, non prevedendo la revisione periodica dei prezzi degli appalti rientranti nei settori considerati da tale direttiva, costituiscano attuazione di quest’ultima;
      p) che, dal momento che dall’esame della prima questione emerge che né la direttiva 2004/17/CE, né i principi generali ad essa sottesi ostano a norme di diritto nazionale, come quelle di cui al procedimento principale, che non prevedono la revisione periodica dei prezzi dopo l’aggiudicazione di appalti rientranti nei settori considerati da tale direttiva, la questione ha carattere ipotetico e, conseguentemente, deve essere dichiarata irricevibile.
   IV. – Sul nuovo regime della revisione dei prezzi, si veda, in dottrina:
      q) DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1630 ss. e 2343 ss., con ampia ricostruzione storica e sistematica dell’istituto; in particolare, sulla nuova disciplina, si veda p. 1632, ove si sottolinea l’innovazione del nuovo codice degli appalti che prevede espressamente –a differenza del codice del 2006- che la revisione prezzi, contenuta nel disposto di cui all’art. 106 d.lgs. n. 50/2016, trovi applicazione anche con riguardo ai settori speciali. Occorre anche rilevare come “la revisione non è obbligatoria per legge come nella previgente disciplina (artt. 114 e 133, d.lgs. n. 163/2006), ma operante solo se prevista dai documenti di gara. Risulta così superata la previgente giurisprudenza che annetteva alle regole legali sulla revisione prezzi natura di norme imperative che si imponevano comunque alle parti, con la spettanza ex lege della revisione dei prezzi e l’inserimento automatico delle clausole legali nei contratti e sostituzione delle clausole contrattuali difformi”; così DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, cit., 1633;
      r) in generale, per un approfondimento dell’istituto della revisione dei prezzi si vedano: SARACINO, La revisione delle condizioni contrattuali, 2014, in Manuale di diritto amministrativo. IV. I contratti pubblici, a cura di F. CARINGELLA-M. GIUSTINIANI, Roma, Dike Giuridica Editrice, 2014, 1428; CARBONE, La revisione dei prezzi nei contratti di servizi e forniture e l'adeguamento monetario degli appalti di lavori, in Riv. trim. app., 2013, 1, 65; PRESUTTI, Il silenzio serbato dalla stazione appaltante sull'istanza di revisione dei prezzi, (Nota a TAR. Puglia, Lecce, sez. III, 25.10.2012, n. 1746), in Urb e app., 2013, 2, 210; GIAMPAOLINO - GOGGIAMANI, I pagamenti, le penali, le revisioni dei prezzi, in Trattato sui Contratti Pubblici, diretto da M.A. Sandulli, R. De Nictolis e R. Garofoli, Milano, 2011, VIII Il regolamento di attuazione, 4702; DELFINO, Commento all'art. 171, Modalità per il calcolo e il pagamento della compensazione, in Il nuovo regolamento appalti pubblici, a cura di R. GAROFOLI e G. FERRARI, Roma, 2011, 765; SAVASTA, Commento all'art. 133, Termini di adempimento, penali, adeguamenti dei prezzi, in Codice dell'appalto pubblico, a cura di S. Baccarini, G. Chinè, R. Proietti, Milano, 2011, 1528; CONTU e SALIS, Commento all'art. 133 - Termini di adempimento, penali, adeguamenti dei prezzi in Codice dei contratti pubblici, annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di A. Maggio e G. Steri, Napoli, 2009, 833; MARTINOTTI, Revisione dei prezzi: ritorno al passato?, in Urb. e app., 2005, 5, 520.
   V. – Sugli aspetti processuali della revisione dei prezzi, anche in relazione alla differenza fra appalti e concessioni di servizi, si veda:
      s) Cass. civ., sez. un., 20.04.2017, in Foro it., 2017, I, 3430, con nota di D’ANGELO;
      t) DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, cit., 2343, secondo cui “Innovando rispetto al passato, e chiarendo dubbi che sul punto potevano sorgere, l'art. 133, c. 1, lett. e), c.p.a., prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non solo sulle clausole di revisione prezzi relative a contratti aventi per oggetto forniture e servizi (dove era già contemplata la giurisdizione esclusiva sui meccanismi revisionali), ma anche sui provvedimenti applicativi dell'adeguamento dei prezzi nei contratti relativi a lavori pubblici. L'art. 133 c.p.a. rinvia ai meccanismi di revisione del prezzo di cui agli artt. 115 e 133, d.lgs. n. 163/2006.
Il riferimento deve ora intendersi fatto all'art. 106, c. 1, lett. a), codice del 2016 che contiene la disciplina della revisione dei prezzi. La giurisdizione esclusiva riguarda le controversie relative ai «provvedimenti» siano essi di riconoscimento dell'an o di determinazione del quantum sulla scorta di valutazioni discrezionali, e dunque relative all'an e o al quantum della revisione e alle modalità di pagamento, controversie queste ultime, che, secondo la costante elaborazione della giurisprudenza, in passato spettavano al giudice ordinario. Restano però del giudice ordinario le controversie relative al mero pagamento delle somme, una volta quantificate, ovvero in cui la quantificazione debba avvenire in base a clausole contrattuali predeterminate sicché non vi è alcuna discrezionalità della p.a.
Analogamente, rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in tema di adeguamento, modifiche o deroghe al prezzo chiuso nei contratti di appalti pubblici — analogamente a quelle, contigue, sulla revisione del prezzo, dalle quali si distinguono solo per la mancanza di una clausola contrattuale, peraltro il meccanismo del prezzo chiuso non è più previsto dal nuovo codice appalti del 2016. L'art. 133, c. 1, lett. e), c.p.a., non è stato sinora coordinato con il codice appalti n. 50/2016, e fa perciò ancora riferimento ai «provvedimenti applicativi dell'adegua­mento dei prezzi ai sensi dell'art. 133. c. 3 e 4, d.lgs. n. 163/2006».
Si tratta di una disciplina che contempla sia i provvedimenti delle stazioni appaltanti in materia di revisione dei prezzi, sia un d.m. annuale, quest'ultimo non più contemplato dal codice n. 50/2016
” (Corte giust. comm. ue, Sez. IX, sentenza 19.04.2018, C‑152/17 - commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Attività edificatoria abusiva - Reato urbanistico - Natura di reato permanente - Consumazione e cessazione della permanenza - Ultimazione dei lavori per completamento dell'opera - Sospensione dei lavori volontaria o imposta - Artt. 31 e 44, lett. b), d.P.R. 380/2001 - Giurisprudenza.
Il reato urbanistico ha natura di reato permanente, la cui consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria abusiva. La cessazione dell'attività si ha con l'ultimazione dei lavori per completamento dell'opera, con la sospensione dei lavori volontaria o imposta, con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio (Sez. 3, n. 38136, 24/10/2001; Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, Sullo; Sez. 3, n. 49990 del 04/11/2015, Quartieri; Sez. 3, n. 14501 del 07/12/2016, dep. 24/03/2017, Rocchio).
L'ultimazione dei lavori coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 5480 del 12/12/2013, Manzo; Sez. 3, n. 11646 del 16/10/2014, Barbuzzi).
Fattispecie: realizzazione, in assenza del permesso di costruire, di una tettoia con basamento in calcestruzzo e due prefabbricati, di cui uno ad uso abitativo, con struttura portante in ferro, di cui era stata disposta la demolizione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.04.2018 n. 17499 - link a
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COMPETENZE PROGETTUALI: Sulla non equipollenza sostanziale tra il titolo di studio di perito tecnico edile e quello di geometra.
Se è vero che l’art. 16, comma 1, del R.D. n. 275/1929 ha previsto per i periti industriali una specializzazione (specialità di meccanico, elettricista, edile, tessile, chimico, minerario e navale), stabilendo, poi, nello specifico, che spettano loro le funzioni esecutive per i lavori ad essi inerenti tanto che, nell’introdurre il requisito dell’abilitazione professionale per l’iscrizione al relativo Albo, tale suddivisione in settori permane in ragione della specialità dei diplomi conseguiti (l. n. 17/1990), cionondimeno, l’equiparazione con l’attività e le prestazioni del geometra rimane limitata al solo caso della progettazione e direzione di modeste costruzioni edili non rimesse nell’esclusiva competenza degli Ingegneri od Architetti (art. 16, citato, lett. b), essendo, invece, riservata al geometra una competenza più estesa (cfr. art. 16, lett. a-q, del R.D. n. 274/1929).
D’altro canto, come riconosciuto dallo stesso Consiglio Nazionale dei Periti industriali e dei Periti industriali laureati, si è “in assenza di una disposizione legislativa o regolamentare” che sancisca l’equipollenza tra i titoli professionali di diploma di perito industriale in edilizia e di geometra rimanendo, invero, gli Albi per l’abilitazione all’esercizio delle rispettive professioni separati ed essendo, a tali fini, irrilevante la parziale coincidenza delle classi di laurea triennale che consentono, in relazione all’analoga preparazione, l’accesso all’esame di Stato per l’iscrizione ai relativi Albi per le corrispondenti figure laureate, appartenenti ad un diverso e più qualificato profilo.
Ed invero, secondo condiviso orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ravvisa validi motivi per discostarsi:
   a) "l'equipollenza dei titoli di studio richiesti ai fini della ammissione ad un pubblico concorso può essere riconosciuta solo nei casi previsti dalla legge o dallo stesso bando di concorso (nella specie, è stata esclusa l'equipollenza fra il titolo di perito industriale e quello di geometra richiesto dal bando)" (Consiglio di Stato 954/1991);
   b) e, specificatamente, “in relazione alla valutazione di equipollenza va detto che essa è riservata alla legge e non è rimessa alla discrezionalità dell'amministrazione. Non vi è alcuna equipollenza ex lege tra il titolo di geometra e quello di perito industriale edile e non rileva in merito il fatto che esistano affinità e parziali coincidenze fra le attività svolte dai professionisti iscritti in albi diversi”; “se si esaminano le competenze previste dalle leggi sulla creazione dei rispettivi albi professionali si potrà constatare che le competenze dei geometri sono più ampie di quelle dei periti edili e pertanto la discriminazione operata nel bando di concorso che ha riservato la partecipazione ai soli geometri appare immune da vizi di illogicità o di arbitrarietà”;
   c) peraltro, “non può fondatamente contestarsi il potere discrezionale dell'Amministrazione, in relazione ad un certo tipo di incarico, di individuare i titoli professionali in concreto "adeguati", a prescindere dalla circostanza che, in astratto, altri titoli (nel caso quello di perito industriale edile) possano essere ritenuti equipollenti a quelli indicati”;
   d) in definitiva, “allorché il bando di concorso richieda tassativamente il possesso di un determinato titolo di studio per l'ammissione ad un concorso pubblico, senza prevedere il rilievo del titolo equipollente, non è consentita la valutazione di un titolo di studio diverso, salvo che l'equipollenza non sia stabilita da una norma di legge. Il principio poggia sul dovuto riconoscimento in capo all'Amministrazione che indice la procedura selettiva -ferma la definizione del livello del titolo, affidata alla legge o ad altra fonte normativa- di un potere discrezionale nell'individuazione della tipologia del titolo stesso, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire”;
   e) ed invero, “l'istituto dell'equipollenza fra i titoli di studio posseduti, ai fini della partecipazione ai pubblici concorsi, ha carattere eccezionale e non è quindi suscettibile di mera interpretazione analogica”.

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VI. Con il primo motivo di ricorso, la parte lamenta l’illegittimità del bando e del provvedimento di esclusione per omessa valutazione della equipollenza sostanziale tra il titolo di studio posseduto, perito tecnico edile, e quello richiesto dal bando, geometra, ritenuta sussistente in ragione della dedotta sovrapponibilità delle normative di riferimento, contenenti, nella specie, la disciplina regolamentare per la professione di perito industriale (art. 16 del R.D. n. 275/1929) e quella per la figura del geometra (art. 16 del R.D. n. 274/1929).
VI.1. La censura è priva di pregio, non essendo configurabile né una equiparazione sostanziale né una equiparazione legale.
VI.1.1. Se, infatti, è vero che l’art. 16, comma 1, del R.D. n. 275/1929 ha previsto per i periti industriali una specializzazione (specialità di meccanico, elettricista, edile, tessile, chimico, minerario e navale), stabilendo, poi, nello specifico, che spettano loro le funzioni esecutive per i lavori ad essi inerenti tanto che, nell’introdurre il requisito dell’abilitazione professionale per l’iscrizione al relativo Albo, tale suddivisione in settori permane in ragione della specialità dei diplomi conseguiti (l. n. 17/1990), cionondimeno, l’equiparazione con l’attività e le prestazioni del geometra rimane limitata al solo caso della progettazione e direzione di modeste costruzioni edili non rimesse nell’esclusiva competenza degli Ingegneri od Architetti (art. 16, citato, lett. b), essendo, invece, riservata al geometra una competenza più estesa (cfr. art. 16, lett. a-q, del R.D. n. 274/1929).
VI.1.2. D’altro canto, come riconosciuto dallo stesso Consiglio Nazionale dei Periti industriali e dei Periti industriali laureati, si è “in assenza di una disposizione legislativa o regolamentare” che sancisca l’equipollenza tra i titoli professionali di diploma di perito industriale in edilizia e di geometra (nota prot. n. 2418/GE/df dell’08.05.2015), rimanendo, invero, gli Albi per l’abilitazione all’esercizio delle rispettive professioni separati (nota prot. 1236 del 05.05.2015 dell’U.O.C. Affari legali) ed essendo, a tali fini, irrilevante la parziale coincidenza delle classi di laurea triennale che consentono, in relazione all’analoga preparazione, l’accesso all’esame di Stato per l’iscrizione ai relativi Albi per le corrispondenti figure laureate, appartenenti ad un diverso e più qualificato profilo.
VI.1.3. Ed invero, secondo condiviso orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ravvisa validi motivi per discostarsi:
   a) "l'equipollenza dei titoli di studio richiesti ai fini della ammissione ad un pubblico concorso può essere riconosciuta solo nei casi previsti dalla legge o dallo stesso bando di concorso. (Nella specie, è stata esclusa l'equipollenza fra il titolo di perito industriale e quello di geometra richiesto dal bando)" (Consiglio di Stato 954/1991);
   b) e, specificatamente, “in relazione alla valutazione di equipollenza va detto che essa è riservata alla legge e non è rimessa alla discrezionalità dell'amministrazione (Consiglio di Stato 4902/2005). Non vi è alcuna equipollenza ex lege tra il titolo di geometra e quello di perito industriale edile e non rileva in merito il fatto che esistano affinità e parziali coincidenze fra le attività svolte dai professionisti iscritti in albi diversi”; “se si esaminano le competenze previste dalle leggi sulla creazione dei rispettivi albi professionali si potrà constatare che le competenze dei geometri sono più ampie di quelle dei periti edili e pertanto la discriminazione operata nel bando di concorso che ha riservato la partecipazione ai soli geometri appare immune da vizi di illogicità o di arbitrarietà”;
   c) peraltro, “non può fondatamente contestarsi il potere discrezionale dell'Amministrazione, in relazione ad un certo tipo di incarico, di individuare i titoli professionali in concreto "adeguati", a prescindere dalla circostanza che, in astratto, altri titoli (nel caso quello di perito industriale edile) possano essere ritenuti equipollenti a quelli indicati” (TAR Toscana, Firenze, sez. II, 11.04.2012 n. 708 e n. 707);
   d) in definitiva, “allorché il bando di concorso richieda tassativamente il possesso di un determinato titolo di studio per l'ammissione ad un concorso pubblico, senza prevedere il rilievo del titolo equipollente, non è consentita la valutazione di un titolo di studio diverso, salvo che l'equipollenza non sia stabilita da una norma di legge. Il principio poggia sul dovuto riconoscimento in capo all'Amministrazione che indice la procedura selettiva -ferma la definizione del livello del titolo, affidata alla legge o ad altra fonte normativa- di un potere discrezionale nell'individuazione della tipologia del titolo stesso, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire” (TAR Lombardia, Milano, sez. III, 19.07.2016 n. 1440);
   e) ed invero, “l'istituto dell'equipollenza fra i titoli di studio posseduti, ai fini della partecipazione ai pubblici concorsi, ha carattere eccezionale e non è quindi suscettibile di mera interpretazione analogica” (Cons. di St., sez. VI, 08.02.2016 n. 495).
VI.1.4. Conseguentemente risulta infondata anche ogni ulteriore censura avverso il bando di selezione, esente, nella scelta del reperimento della figura professionale del solo geometra e delle connesse competenze ad esso ascrivibili –certificate, oltre che dal titolo di studio, dal superamento dell’esame di abilitazione all’esercizio della relativa professione e dall’iscrizione all’Albo professionale corrispondente-, da ogni profilo di dedotta palese illogicità o irrazionalità.
VI.1.5. Eletta tale via, l’esclusione di coloro non in possesso del titolo richiesto nella lex specialis regolante la selezione diviene atto di natura vincolata (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 18.04.2018 n. 2541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Poligono di tiro e inquinamento acustico.
E' fondata la censura sollevata avverso un’ordinanza contingibile e urgente finalizzata a ridurre le emissioni acustiche provenienti da un poligono di tiro, per un preteso superamento del limite differenziale, nella parte in cui si lamenta l’uso dell’ordinanza in violazione dei requisiti di urgenza, del principio di proporzionalità in relazione al superamento dei limiti e del criterio di preesistenza, il tutto anche in relazione alla dedotta (e non contestata dal Comune o del controinteressato, non costituiti) effettuazione di opere mitigatorie successivamente al sopralluogo di ARPA (commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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... per l'annullamento, previa misura cautelare,
   - dell'ordinanza sindacale prot. 857 datata 19.01.2018, notificata il 24.01.2018;
   - per quanto occorra, della nota di ARPA class. 8.5, fasc. 2017.4.64.216 e relativi verbali di sopralluogo e rapporto d'indagine prat. n. 2017.4.64.216, recanti n. di protocollo comunale 16153 del 13.12.2017, tutti allegati all'ordinanza;
   - di ogni atto presupposto, connesso e consequenziale e, in particolare, del piano di zonizzazione acustica e suo regolamento attuativo del Comune di Appiano Gentile, nella parte in cui non prevede, come invece indicato in relazione agli impianti sportivi, la non applicazione del limite differenziale e laddove non prevede la corretta distanza tra le classi acustiche.
...
Ritenuto, all’esito di una sommaria delibazione propria della fase cautelare, che:
   - il ricorso presenti profili di fondatezza, nella parte in cui lamenta uso dell’ordinanza in violazione dei requisiti di urgenza, violazione del principio di proporzionalità in relazione al superamento dei limiti e violazione del criterio di preesistenza, il tutto anche in relazione alla dedotta (e non contestata dal Comune o del controinteressato, non costituiti) effettuazione di opere mitigatorie successivamente al sopralluogo di ARPA;
   - sussista il danno grave ed irreparabile in relazione alla possibilità di conseguenze di ordine amministrativo e penale;
   - la domanda cautelare vada quindi accolta (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, ordinanza 18.04.2018 n. 561 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione paesaggistica - Termine per l'esecuzione dei progettati lavori - Efficacia, scadenza e rinnovo (cinque anni) - Art. 146, c. 4, d.lgs. n. 42/2004.
La efficacia dell'autorizzazione paesaggistica, non costituisce termine di durata dell'autorizzazione, ma termine ultimo di ultimazione delle opere progettate, sicché, ultimate le opere entro tale termine, non deve ritenersi necessario il rinnovo dell'autorizzazione medesima.
Diverso il profilo di valutazione per il caso di esecuzione di interventi ulteriori o diversi da quelli autorizzati, spetterà, comunque, al giudice del merito l'accertamento della realizzazione di opere ulteriori/diverse, o la realizzazione di opere stabili o, comunque, la mancata rimozione delle opere stagionali (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.04.2018 n. 17135 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'efficacia dell'autorizzazione paesaggistica non costituisce termine di durata dell'autorizzazione, ma termine ultimo di ultimazione delle opere progettate, sicché, ultimate le opere entro tale termine, non deve ritenersi necessario il rinnovo dell'autorizzazione medesima.
Diverso il profilo di valutazione per il caso di esecuzione di interventi ulteriori o diversi da quelli autorizzati, rilevando, il Collegio, che sulla base della limitata cognizione di questa Corte, cui non è consentito l'accesso agli atti, spetterà al giudice del merito l'accertamento della realizzazione di opere ulteriori/diverse, o la realizzazione di opere stabili o, comunque, la mancata rimozione delle opere stagionali.
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Nondimeno, corretto risulta il rilievo del Tribunale, con riferimento all'autorizzazione paesaggistica poiché la previsione di un termine di efficacia riguarda esclusivamente il termine per i lavori da eseguire, come emerge dal tenore letterale del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 146, il quale prevede un termine di cinque anni, scaduto il quale "l'esecuzione dei progettati lavori deve essere sottoposta a nuova autorizzazione".
La efficacia dell'autorizzazione paesaggistica, contrariamente all'assunto del ricorrente, non costituisce termine di durata dell'autorizzazione, ma termine ultimo di ultimazione delle opere progettate, sicché, ultimate le opere entro tale termine, non deve ritenersi necessario il rinnovo dell'autorizzazione medesima.
Diverso il profilo di valutazione per il caso di esecuzione di interventi ulteriori o diversi da quelli autorizzati, rilevando, il Collegio, che sulla base della limitata cognizione di questa Corte, cui non è consentito l'accesso agli atti, spetterà al giudice del merito l'accertamento della realizzazione di opere ulteriori/diverse, o la realizzazione di opere stabili o, comunque, la mancata rimozione delle opere stagionali.
In altri termini, ciò che rileva rispetto al profilo devoluto nel motivo di ricorso, e rispetto al quale deve essere compiuto il sindacato di questa Corte, il provvedimento è sorretto da motivazione corretta sul piano del diritto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.04.2018 n. 17135).

EDILIZIA PRIVATA: Differenza tra opera stagionale e opera precaria - Esecuzione di opere stagionali - Permesso di costruire - Necessità - Configurabilità del reato urbanistico - Art. 44 d.P.R. n.380/2001 - Giurisprudenza.
Il permesso di costruire è senz'altro richiesto per l'esecuzione di opere stagionali, differenziandole da quelle precarie che, per la loro stessa natura e destinazione, non comportano effetti permanenti e definitivi sull'originario assetto del territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo.
L'opera stagionale, diversamente da quella precaria, non è, infatti, destinata a soddisfare esigenze contingenti ma ricorrenti, sia pure soltanto in determinati periodi dell'anno e, per tale motivo, è soggetta a permesso di costruire (ex multis Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni e altro; Sez. 3, n. 34763 del 21/06/2011, Bianchi; Sez. 3, n. 236 del 13/06/2011; Sez. 3, n. 22868 del 13/06/2007, Mulas), da cui la configurazione del reato urbanistico per il caso di mancata rimozione allo scadere del termine stagionale poiché, in tale ipotesi, la responsabilità discende dal combinato disposto dell'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2011 e l'art. 40, comma 2, cod. pen. per la mancata ottemperanza all'obbligo di rimozione insito nel provvedimento autorizzatorio temporaneo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.04.2018 n. 17135 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il permesso di costruire è senz'altro richiesto per l'esecuzione di opere stagionali, differenziandole da quelle precarie che, per la loro stessa natura e destinazione, non comportano effetti permanenti e definitivi sull'originario assetto del territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo.
L'opera stagionale, diversamente da quella precaria, non è, infatti, destinata a soddisfare esigenze contingenti ma ricorrenti, sia pure soltanto in determinati periodi dell'anno e, per tale motivo, è soggetta a permesso di costruire, da cui la configurazione del reato urbanistico per il caso di mancata rimozione allo scadere del termine stagionale poiché, in tale ipotesi, la responsabilità discende dal combinato disposto dell'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2011 e l'art. 40 comma 2 cod. pen. per la mancata ottemperanza all'obbligo di rimozione insito nel provvedimento autorizzatorio temporaneo.

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6. Così ricostruito l'ambito del sindacato del presente giudizio, rileva, il Collegio, la congruità e correttezza della motivazione del provvedimento impugnato che, come evidenziato al par. 1.1. del ritenuto in fatto, ha escluso il fumus commissi delicti con riguardo al reato paesaggistico con motivazione congrua e corretta in diritto e tutt'altro che assente.
Occorre ricordare che il permesso di costruire è senz'altro richiesto per l'esecuzione di opere stagionali, differenziandole da quelle precarie che, per la loro stessa natura e destinazione, non comportano effetti permanenti e definitivi sull'originario assetto del territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo.
L'opera stagionale, diversamente da quella precaria, non è, infatti, destinata a soddisfare esigenze contingenti ma ricorrenti, sia pure soltanto in determinati periodi dell'anno e, per tale motivo, è soggetta a permesso di costruire (ex multis Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni e altro, Rv. 267759; Sez. 3, n. 34763 del 21/06/2011, Bianchi, Rv. 251243; Sez. 3, n. 236 del 13/06/2011; Sez. 3, n. 22868 del 13/06/2007, Mulas, Rv. 233926), da cui la configurazione del reato urbanistico per il caso di mancata rimozione allo scadere del termine stagionale poiché, in tale ipotesi, la responsabilità discende dal combinato disposto dell'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2011 e l'art. 40 comma 2 cod. pen. per la mancata ottemperanza all'obbligo di rimozione insito nel provvedimento autorizzatorio temporaneo, tant'è che il Tribunale ha confermato il provvedimento con riguardo al reato urbanistico (per il quale non ha ritenuto sussistente il periculum in mora) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.04.2018 n. 17135).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzione a confine - Distanze tra costruzioni - Diritto del confinante alla costruzione in aderenza o appoggio - Giurisprudenza - Artt. 32, 44, 65, 72, 93, 94 e 95 d.P.R. 380/2001.
In materia urbanistica, quando il regolamento edilizio nulla stabilisce in merito alla distanza dal confine il preveniente ha diritto a costruire sul confine ed il prevenuto in aderenza o appoggio ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 cod. civ..
RISARCIMENTO DEL DANNO - Violazioni urbanistiche - LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE - Legittimazione a costituirsi parte civile nel procedimento penale - Lesione di un diritto soggettivo - Necessità.
Sono legittimati a costituirsi parte civile nel procedimento penale per violazioni urbanistiche solo i soggetti che abbiano subito la lesione del proprio diritto soggettivo (distanze, volumetria, altezza delle costruzioni, visuale, areazione, etc.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.04.2018 n. 16685 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Le Sezioni unite si pronunciano sul superamento del dissenso espresso in conferenza di servizi dalle amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili.
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Procedimento amministrativo – Conferenza di servizi – Dissenso espresso da un'amministrazione preposta alla tutela di interessi sensibili – Superamento del dissenso da parte dell’amministrazione procedente – Necessaria rimessione della questione al Consiglio dei Ministri.
In caso di dissenso espresso da un’amministrazione preposta alla tutela di un interesse sensibile, nel novero dei quali si colloca quello paesaggistico, il meccanismo previsto dal 3° comma dell’art. 14-quater della l. n. 241/1990 impedisce alla conferenza di servizi di procedere ulteriormente e rende doverosa, ove l’amministrazione procedente intenda perseguire il superamento del dissenso, la rimessione della decisione al Consiglio dei ministri (1).
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   (1) I. – Nella sentenza in epigrafe le Sezioni unite della Corte di cassazione, pronunciando in sede di impugnazione di sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche, si occupano delle previsioni attinenti al funzionamento della conferenza di servizi, con specifico riferimento al ruolo che in tale modulo procedimentale assume il dissenso delle amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili (quali quelli ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico, della tutela della salute e della pubblica incolumità) e alle modalità di possibile superamento di tale dissenso.
La pronuncia in rassegna è riferita alla disciplina dettata dall’art. 14-quater della legge n. 241 del 1990 (rubricato “Effetti del dissenso espresso nella conferenza di servizi”), nel testo risultante dall’art. 49 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, a sua volta fatto oggetto di interventi modificativi dai decreti-legge 13.05.2011, n. 70 e 18.10.2012, n. 179.
L’intera disciplina della conferenza di servizi, come noto, è stata successivamente rivisitata dal d.lgs. 30.06.2016, n. 127; attualmente, la disciplina dei “Rimedi per le amministrazioni dissenzienti” è contenuta nel testo novellato dell’art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990, mentre il vigente art. 14-quater della medesima legge ha ad oggetto la “Decisione della conferenza di servizi”.
La normativa in vigore in tema di superamento del dissenso espresso, in seno alla conferenza di servizi, dalle amministrazioni portatrici di interesse sensibili (di cui al novellato art. 14-quinquies cit.), stabilisce peraltro un meccanismo procedimentale in parte diverso da quello in precedenza previsto dall’art. 14-quater (vecchio testo), del quale ultimo si occupano le Sezioni unite nella sentenza in esame.
Ciò non toglie che, al di là degli specifici meccanismi di tecnica procedimentale, tanto nella disciplina del (vecchio) art. 14-quater quanto in quella del (nuovo) art. 14-quinquies il superamento del dissenso in materia di interessi sensibili passi attraverso una strutturazione del procedimento che vede uno spostamento all’esterno della conferenza della formulazione di una quota della decisione e il conseguente coinvolgimento del Consiglio dei ministri, che è il profilo precipuo di cui si occupa la sentenza delle Sezioni unite qui esaminata.
La fattispecie che ha condotto alla sentenza in esame può essere così sintetizzata:
   • la controversia attiene alla impugnazione da parte di un terzo degli atti (tra cui permesso di costruire e autorizzazione paesaggistica) a mezzo dei quali il Comune di Cortina d’Ampezzo abilitava una società a costruire e poi gestire un parcheggio posto al servizio di un supermercato, realizzato con parziale copertura amovibile di un torrente;
   • ottenuta dal terzo una prima sentenza di annullamento da parte del Tribunale superiore delle acque pubbliche e riattivato il procedimento ad istanza della società interessata, la competente Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici esprimeva parere negativo sul vincolo paesaggistico, cui faceva seguito da parte dell’amministrazione comunale l’indizione di conferenza di servizi a norma dell’art. 14 della legge n. 241 del 1990;
   • nel corso della conferenza dei servizi la Soprintendenza ribadiva il proprio parere negativo, cui faceva seguito la dichiarazione del presidente della conferenza della impossibilità di rilasciare i provvedimenti autorizzatori richiesti, stante il parere vincolate sfavorevole dell’autorità preposta alla cura dell’interesse paesaggistico; il Comune di Cortina d’Ampezzo, a fronte di tale esito della conferenza, con propria nota rimetteva la questione alla Presidenza del Consiglio dei ministri, per il superamento del dissenso qualificato, con la successiva adozione degli atti propri di tale sequenza procedimentale;
   • il terzo confinante impugnava dinanzi al Tribunale superiore delle acque pubbliche la determinazione comunale di rimessione della questione alla Presidenza del Consiglio dei ministri e gli atti consequenziali;
   • il Tribunale superiore delle acque pubbliche, con sentenza n. 228 del 2016, ha accolto l’impugnazione evidenziando quanto segue: la conclusione dei lavori della conferenza dei servizi, con dichiarazione del suo presidente circa la impossibilità di rilasciare i provvedimenti richiesti, stante il parere negativo della Soprintendenza, corrisponde ad un arresto procedimentale definitivo, che non poteva essere rimosso con autonoma iniziativa dell’amministrazione comunale procedente; il Comune, con la decisione di indire la conferenza dei servizi, ha autolimitato le proprie prerogative, rimettendo la decisione alla stessa conferenza; esclusivamente in senso alla conferenza di servizi era quindi possibile rappresentare e manifestare le ragioni d’interesse pubblico idonee a giustificare la rimessione della questione in esame alla Presidenza del Consiglio dei ministri;
   • il Comune di Cortina d’Ampezzo e la società interessata alla realizzazione del parcheggio hanno proposto ricorso per cassazione; in particolare l’amministrazione comunale ha evidenziato come la dichiarazione del presidente della conferenza di servizi, cui si riferisce la sentenza gravata, non abbia affatto inteso chiudere il procedimento, che il verbale conclusivo della conferenza ha mera rilevanza endoprocedimentale, che l’unico modo per risolvere il conflitto innescato dal parere negativo della Soprintendenza fosse la rimessione alla Presidenza del Consiglio dei ministri e che spettasse al Comune procedere a tale rimessione.
   II. – La sentenza in esame imposta due percorsi motivazionali (il primo dei quali non giunge tuttavia ad una valutazione finale, essendo stato ritenuto non rilevante ai fini della decisione) così sintetizzabili:
      a) sulla necessità di impugnare il verbale conclusivo della conferenza di servizi:
         a1) nel richiamare l'autolimitazione dei poteri decisori spettanti al Comune scaturente dall'indizione della conferenza di servizi e la conseguente necessità d'impugnare il verbale conclusivo della conferenza stessa, si riecheggia la tesi (emersa nella giurisprudenza amministrativa dopo le modifiche apportate dall'art. 49 del decreto-legge n. 78 del 2010), che prospetta il superamento della struttura dicotomica in precedenza assegnata alla conferenza di servizi, tesi in base alla quale, prima della modifica normativa richiamata, si riteneva che la conferenza fosse articolata in due fasi, la prima delle quali terminava con la determinazione conclusiva della conferenza, mentre la seconda sfociava nell'adozione del provvedimento finale da parte dell'autorità procedente;
         a2) si sostiene di contro che, in seguito alle citate modifiche apportate dall’art. 49 cit., non sia più necessaria l'emanazione di un provvedimento finale distinto dal verbale conclusivo della conferenza di servizi, così che quest'ultimo avrebbe assunto il duplice ruolo di determinazione conclusiva della conferenza e di provvedimento finale del procedimento nel quale essa si inserisce; quest'interpretazione sarebbe sorretta per un verso dall'abrogazione del nono comma dell'art. 14-ter della legge n. 241/1990, il quale prevedeva che il provvedimento finale dell'amministrazione procedente dovesse essere conforme alla determinazione conclusiva della conferenza e, per altro verso, dalla riformulazione del comma 6-bis del medesimo articolo, ove è previsto che l'amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento che sostituisce a tutti gli effetti ogni altro atto di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a partecipare ma risultate assenti, alla predetta conferenza;
         a3) il superamento della concezione dicotomica della conferenza di servizi comporterebbe, come conseguenza, l'impugnabilità del verbale conclusivo della conferenza di servizi, in quanto atto a valenza esoprocedimentale; si ritiene tuttavia non necessario valutare la fondatezza della tesi ricostruita, ciò perché la regola introdotta dalla riforma del 2010 non vale comunque nei casi in cui la disciplina della conferenza di servizi si distingua per profili di specialità, come accade giustappunto nell'ipotesi di rimessione della decisione al
Consiglio dei ministri per il superamento del dissenso qualificato;
   b) sul dissenso espresso da amministrazione preposta alla tutela di interesse sensibile:
      b1) in caso di dissenso espresso da un'amministrazione preposta alla tutela di un interesse sensibile, nel novero dei quali si colloca quello paesaggistico, il meccanismo previsto dall'art. 14-quater, comma 3°, della legge n. 241/1990 impedisce alla conferenza di servizi di procedere ulteriormente e rende doverosa, ove l'amministrazione procedente intenda perseguire il superamento del dissenso, la rimessione della decisione al Consiglio dei ministri;
      b2) la legge quindi, in attuazione dei principi costituzionali compendiati nell'art. 120 Cost. (che prevede, tra l'altro, l'intervento sostitutivo del Governo "quando lo richiedono la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica" della Repubblica), al cospetto del presupposto rappresentato dal "motivato dissenso" di un'amministrazione preposta alla tutela degli interessi sensibili enumerati, attribuisce il potere provvedimentale alla istanza amministrativa massima della Repubblica nella sua unità, e cioè al Consiglio dei ministri;
      b3) è del tutto ininfluente che, in esito al fallimento della conferenza di servizi, l'amministrazione procedente formuli, o no, la riserva di rimettere la questione al Consiglio dei ministri e che la conferenza valuti, o no, gli interessi coinvolti ai fini di tale rimessione: l'attribuzione della competenza al Consiglio dei ministri non dipende da riserva o da valutazione alcuna, ma scaturisce direttamente dalla legge;
      b4) si prospetta il difetto assoluto di attribuzione dell'amministrazione procedente, ma ai fini dell'esercizio del potere provvedimentale, non già al fine della rimessione della questione al Consiglio dei ministri.
   III. – Si segnala per completezza quanto segue:
      c) sulla conferenza di servizi è rinvenibile una amplissima dottrina: sugli sviluppi dell’istituto antecedenti all’entrata in vigore della legge n. 241/1990 cfr. D. D’ORSOGNA, Conferenza di servizi e amministrazione della complessità, Torino, 2002, 55; per ampli riferimenti dottrinali cfr. G. COCOZZA, La decisione plurale in conferenza di servizi, Napoli, 2012, che contiene ricca appendice bibliografica; per ulteriore rassegna di bibliografica essenziale cfr. E. STICCHI DAMIANI, Conferenza dei servizi, in Enc. Giur. Treccani – Diritto on-line, 2015; ampie indicazioni di dottrina e giurisprudenza anche in N. GAMBINO nota a Tar per il Lazio–Roma, sez. II-quater, 09.02.2015, n. 2338 in Foro it., 2016, III, 233; sulla disciplina conseguente alla c.d. legge Madia cfr.: S. BATTINI; La nuova disciplina della conferenza di servizi, Roma, 2016; M. BOMBARDELLI, La nuova disciplina della conferenza di servizi in Giur. it., 2016, 2793; G. VESPERINI, La nuova conferenza di servizi in Giornale dir. amm., 2016, 578; M. BENEDETTI, L’attuazione della nuova conferenza di servizi in Giornale dir. amm., 2017, 297; M. DE BENEDETTI – A. ZENCA, La riforma della conferenza di servizi alla luce delle recenti disposizioni del d.lgs. n. 127 del 2016 in www.amministrazioneincammino.luiss.it 10.02.2017; per un particolare inquadramento dell’istituto della conferenza di servizi nell’ambito delle categorie civilistiche cfr. A. PLAISANT, Dal diritto civile al diritto amministrativo, Cagliari, 2^ ed., 2017, 277;
      d) sulla riforma della conferenza di servizi di cui alla legge 07.08.2015, n. 124 si vedano i seguenti pareri resi dal Consiglio di Stato:
         d1) Cons. Stato, comm. spec., 07.04.2016, n. 890, sullo schema di decreto legislativo recante norme in materia di riordino della disciplina della conferenza di servizi;
         d2) Cons. Stato, comm. spec., 27.04.2018, n. 1127, relativo alle modalità di applicazione dell’articolo 14-ter, comma 4, della legge n. 241/1990, come sostituito dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. 30.06.2016, n. 127, in merito al rappresentante unico delle amministrazioni statali in seno alla conferenza di servizi simultanea;
      e) sulla disciplina per il superamento del dissenso in materia di interessi sensibili si sono succeduti nel tempo moduli procedimentali diversificati:
         e1) l’art. 17, comma 3, della legge 15.05.1997, n. 127 (che novellava l’art. 14, comma 4, della legge n. 241/1990) ha introdotto una prima disciplina in materia di interessi sensibili, secondo la quale in presenza di motivato dissenso l’amministrazione procedente può chiedere “una determinazione di conclusione del procedimento al Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri”;
         e2) l’art. 12 della legge 24.11.2000, n. 340 (che novellava l’art. 14-quater della legge n. 241/1990) ha rimodulato l’organo decidente, stabilendo che “la decisione è rimessa al Consiglio dei ministri, ove l’amministrazione dissenziente o quella procedente sia un’amministrazione statale, ovvero ai competenti organi collegiali esecutivi degli enti territoriali, nelle altre ipotesi”;
         e3) l’art. 11 della legge 11.02.2005, n. 15 (che ancora novellava l’art. 14-quater della legge n. 241/1990), ha effettuato ulteriore modifica dell’organo decidente, che poteva essere il Consiglio dei ministri, in caso di dissenso tra amministrazioni statali, la Conferenza Stato-regioni, in caso di dissenso tra un'amministrazione statale e una regionale o tra più amministrazioni regionali, la Conferenza unificata, di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, in caso di dissenso tra un'amministrazione statale o regionale e un ente locale o tra più enti locali, con possibilità, in ogni caso, di decisione finale del Consiglio dei ministri;
         e4) l’art. 49, comma 3, della legge 31.05.2010, n. 78 (ancora novellando l’art. 14-quater cit.) ha stabilito che nell’ipotesi in esame la decisione “è rimessa dall'amministrazione procedente alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, che si pronuncia entro sessanta giorni, previa intesa con la Regione o le Regioni e le Province autonome interessate, in caso di dissenso tra un'amministrazione statale e una regionale o tra più amministrazioni regionali, ovvero previa intesa con la Regione e gli enti locali interessati, in caso di dissenso tra un'amministrazione statale o regionale e un ente locale o tra più enti locali. Se l'intesa non è raggiunta nei successivi trenta giorni, la deliberazione del Consiglio dei Ministri può essere comunque adottata”; su questa disciplina è intervenuta la Corte cost. con sentenza 11.07.2012, n. 179 (in Urbanistica e appalti, 2012, 1253, con nota di MANTEGAZZA e Guida al dir., 2012, fasc. 36, 92, con nota di PONTE), imponendo una intesa forte a tutela delle competenze proprie delle regioni; è seguita l’ulteriore riformulazione dell’art 14-quater cit. ad opera dell’art. 33-octies del decreto-legge 17.10.2012, n. 179;
        e5) l’art. 1 del d.lgs. 30.06.2016, n. 127 (che ha rinnovato l’intera disciplina della conferenza di servizi) ha inserito la disciplina dei “rimedi per le amministrazioni dissenzienti” nel novellato art. 14-quinqueis della legge n. 241/1990, sul quale cfr. R. DI PACE, La resistenza degli interessi sensibili nella nuova disciplina della conferenza di servizi in Federalismi.it, 10.08.2016; si tratta di disciplina fortemente innovativa sul piano procedimentale:
a) le amministrazioni preposte alla tutela degli intessi sensibili devono proporre il proprio “motivato dissenso” prima della conclusione della conferenza, il che le legittima, a fronte della determinazione di conclusione delle conferenza, a “proporre opposizione al presidente del Consiglio dei ministri” (comma 1), la quale “sospende l’efficacia della determinazione motivata di conclusione della conferenza” (comma 3);
b) viene quindi indetta una riunione tra i partecipanti alla conferenza “per l’individuazione di una soluzione condivisa, che sostituisca la determinazione motivata di conclusione della conferenza con i medesimi effetti” (comma 4), riunione che viene reiterata in caso siano coinvolti interessi di Regioni o Province autonome (comma 5);
c) in caso di esito negativo la questione è rimessa al Consiglio dei ministri, con possibile partecipazione dei Presidenti delle Regioni o Province autonome interessate; se viene respinta l’opposizione “la determinazione motivata di conclusione della conferenza acquisisce definitivamente efficacia”; l’opposizione può essere accolta anche parzialmente dal Consiglio dei ministri, “modificando di conseguenza il contenuto della determinazione di conclusione della conferenza” (comma 6);
      f) sulla c.d. “struttura dicotomica” della conferenza di servizi e sul suo superamento:
        f1) sin dall’introduzione dell’istituto si è discusso se le determinazioni conclusive della conferenza di servizi avessero portata direttamente lesiva o se dovessero essere seguite dall’adozione di provvedimento formale dell’amministrazione procedente (sul punto F.G. SCOCA, Analisi giuridica della conferenza di servizi, in Dir. amm., 1999, 255);
        f2) la tesi della necessaria successiva adozione di provvedimento ha trovato conferma nella modifica apportata alla legge 241/1990 dalla legge 24.11.2000 n. 340; il novellato art. 14-ter, comma 9, della legge 241 cit. infatti espressamente richiedeva l’emanazione di “un provvedimento finale conforme alla determinazione conclusiva favorevole della conferenza di servizi”, il quale sostituiva, “a tutti gli effetti, ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti”; parte della giurisprudenza ha tuttavia affermato la natura dichiarativa del provvedimento finale, con conseguente necessità di diretta impugnazione della determinazione conclusiva della conferenza (in tal senso Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008, n. 3361), con ciò valorizzando le previsioni normative che dichiaravano la immediata esecutività della determinazione conclusiva della conferenza (art. 14-quater, comma 2), che consentivano alle amministrazioni silenti di impugnare la determinazione conclusiva, entro trenta giorni dalla sua comunicazione (art. 14-ter, settimo comma), che disponevano che il provvedimento finale fosse “conforme alla determinazione conclusiva favorevole della conferenza di servizi” (art. 14-ter, nono comma);
         f3) dopo la riforma di cui alla legge 11.02.2005 n. 15 si è consolidata la tesi opposta e ha acquistato peso la concezione dicotomica della conferenza di servizi, ciò a partire da Cons. Stato, sez. VI, 11.11.2008, n. 5620, ove si afferma che sussiste “uno iato sistematico fra la determinazione conclusiva della conferenza (anche se di tipo decisorio) ed il successivo provvedimento finale” e che solo a quest’ultimo “possa essere riconosciuta una valenza effettivamente determinativa della fattispecie (con conseguente sorgere dell’onere di immediata impugnativa), mentre alla determinazione conclusiva deve essere riconosciuto un carattere meramente endoprocedimentale”, tesi che viene fondata sulla disposta abrogazione della prevista immediata esecutività della determinazione conclusiva nonché della immediata impugnabilità del verbale conclusivo da parte delle amministrazioni dissenzienti (cioè sul superamento di due dei tre indici normativi sopra richiamati);
        f4) l’art. 49 del decreto-legge 31.05.2010 n. 78, convertito in legge 30.07.2010 n. 122, ha poi abrogato anche l’art. 14-ter, comma 9, cit., che disponeva la conformità del provvedimento finale alla determinazione conclusiva della conferenza; tale abrogazione viene letta nel senso di superamento della tesi dicotomica, non essendovi più necessità di provvedimento finale distinto dal verbale conclusivo della conferenza di servizi; in tal senso Tar per il Lazio–Roma, sez. II-quater, 09.02.2015, n. 2338 in Foro it., 2016, III, 233, con nota di GAMBINO;
        f5) nella disciplina vigente, introdotta dal d.lgs. n. 127 del 2016, l’art. 14-ter della legge n. 241/1990 prevede, al comma settimo, che all’esito dell’ultima riunione della conferenza di servizi l’amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione della conferenza la quale, ai sensi dell’art. 14-quater, comma 1, sostituisce ad ogni effetto gli atti di assenso delle amministrazioni partecipanti; non vi è più, quindi, dicotomia tra verbale conclusivo della conferenza e successivo atto finale, bensì la diretta assunzione, da parte dell’amministrazione procedente, della determinazione motivata dotata di efficacia giuridica esterna;
     g) sui limiti alla formazione del silenzio-assenso e sulla necessità di una determinazione conclusiva in materia ambientale, anche in esito a conferenza di servizi, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.01.2018, n. 499;
      h) sulle censure di ordine formale, inerenti violazioni delle garanzie procedimentali a tutela della posizione delle amministrazioni pubbliche, e sul rilievo che esse non possano essere formulate dai privati che impugnano gli esiti della conferenza di servizi, cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.03.2012, n. 1640 in Giurisdiz. amm., 2012, I, 591, Riv. giur. Edilizia, 2012, I, 349, Riv. giur. Ambiente, 2012, 590 (m), con nota di MAESTRONI (Corte di Cassazione, S.U. civili, sentenza 16.04.2018 n. 9338 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La Corte costituzionale afferma l’inapplicabilità del soccorso istruttorio, anche nella versione introdotta nel 2014, in caso di dichiarazione mendace.
La Corte costituzionale dichiara manifestamente inammissibili, per difetto di rilevanza, le q.l.c. sollevate dal TRGA di Trento con riferimento all’ambito temporale di applicazione del soccorso istruttorio, come disciplinato dalla Provincia autonoma di Trento, sul presupposto della inapplicabilità dell’istituto, anche nella versione introdotta nel 2014, in ipotesi di dichiarazione mendace.
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Contratti pubblici – Gara – Soccorso istruttorio – Dichiarazione mendace – Inapplicabilità – Disciplina successiva al d.l. n. 90 del 2014 – Irrilevanza.
Devono essere dichiarate manifestamente inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 17, secondo comma, della legge della Provincia autonoma di Trento 23.10.2014, n. 9 sollevate, in riferimento all’art. 8, primo comma, numeri 1) e 17), del d.P.R. 31.08.1972, n. 670 e all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., nella parte in cui prevede l’applicabilità del soccorso istruttorio, nella versione introdotta dal d.l. n. 90 del 2014, alle gare indette a far data dal 29.10.2014 anziché a quelle indette dal 25.06.2014, in considerazione dell’inapplicabilità dell’istituto in ipotesi di dichiarazione mendace (1).
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   (1) I. - Con l’ordinanza in rassegna la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale della norma introdotta dalla Provincia autonoma di Trento (art. 17, secondo comma, legge della Provincia autonoma di Trento 23.10.2014, n. 9) mediante la quale è stata prevista l’applicabilità della disciplina del soccorso istruttorio introdotta dal d.l. n. 90 del 2014 alle gare indette a far data dal 29.10.2014, anziché a quelle indette a decorrere dal 25.06.2014, come previsto dalla normativa nazionale.
La Corte ha, in particolare, ritenuto che in caso di dichiarazione mendace, come avvenuto nel caso all’attenzione del giudice a quo, l’istituto del soccorso istruttorio, in base al costante indirizzo del giudice amministrativo, non avrebbe comunque potuto trovare applicazione, neanche in base alla formulazione successiva al 2014, pervenendo pertanto ad una declaratoria di irrilevanza delle q.l.c. sollevate.
   II. - L’ordinanza di rimessione.
Con ordinanza del 27.03.2015, n. 129, (in Riv. giur. edilizia, 2015, I, 669, per mero errore materiale indicata come n. 120 nella pronuncia in commento), il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento ha sollevato q.l.c. dell’art. 17, comma 2, della legge della Provincia autonoma di Trento 23.10.2014, n. 9, in relazione all’art. 8, primo comma, n. 1 e n. 17, dello Statuto speciale d’autonomia e all’art. 117, secondo comma, lett. e), della Costituzione. In particolare, il collegio ha osservato che:
      a) nel caso di specie -relativo alla partecipazione a un confronto concorrenziale indetto per l’affidamento della fornitura di conglomerato bituminoso, nonché del servizio di nolo a caldo per la fresatura e il trasporto di materiali e per la sistemazione della pavimentazione stradale delle strade provinciali e delle strade statali della Comunità delle Giudicarie- la società ricorrente -la cui aggiudicazione era stata annullata in autotutela dalla Provincia- aveva reso una dichiarazione completa, ma non rispondente al vero, avendo omesso la menzione di un precedente penale gravante sul legale rappresentante della società stessa;
      b) il potere di soccorso istruttorio, in questo caso, non poteva essere esercitato sulla base della disciplina originaria, mentre poteva trovare applicazione in base alla formulazione più ampia dell’istituto come introdotta dal successivo art. 39 del d.l. n. 90 del 2014;
      c) la legge provinciale aveva tuttavia differito nel tempo la data di entrata in vigore della nuova disciplina del soccorso istruttorio introdotta dal d.l. n. 90 del 2014 in materia di ritenuta competenza statale esclusiva –la concorrenza– e, proprio a motivo di siffatto differimento, la nuova disciplina più favorevole non era ritenuta applicabile alla gara in contestazione, sicché il TRGA di Trento riteneva la questione di legittimità costituzionale rilevante oltre che non manifestamente infondata per invasione della sfera di competenza legislativa statale esclusiva in relazione alla disciplina di diritto intertemporale introdotta dalla legge provinciale in sede di recepimento della novella sul soccorso istruttorio.
   III. - La decisione della Corte costituzionale.
      d) Con la decisione in rassegna la Corte costituzionale dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, per difetto di rilevanza in relazione all’erroneo presupposto interpretativo assunto dal giudice a quo, osservando che:
         d1) la disciplina introdotta con l’art. 39 del d.l. n. 90 del 2014 è ampliativa dell’istituto del soccorso istruttorio in quanto permette di sanare la mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive ed è applicabile, in base alla legge statale, alle procedure indette dopo il 25.06.2014;
         d2) la disciplina del soccorso istruttorio non intacca il principio –ritenuto pacifico in rapporto alla disciplina anteriore– di inapplicabilità dell’istituto in caso di falsa dichiarazione, con la conseguenza che anche in tale versione ampliata l’istituto non comprende l’ipotesi della dichiarazione mendace idonea a fuorviare la stazione appaltante nell’individuazione e nella valutazione dei requisiti di ammissione;
         d3) in caso di falsa dichiarazione è applicabile la previsione dell’art. 75 del d.P.R. 28.12.2000, n. 445, in base al quale la falsità della dichiarazione sostitutiva determina la decadenza dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione stessa (nel caso di specie rappresentato dall’aggiudicazione).
      e) La Corte, in motivazione, dà atto della sostanziale modifica del contesto normativo di riferimento operato dal nuovo codice dei contratti pubblici sia in sede nazionale che provinciale (essendo stata, in particolare, abrogata la norma transitoria impugnata), ma ritiene che:
         e1) lo ius superveniens non possa venire in rilievo con riguardo a questioni sollevate nell’ambito di giudizi di impugnazione di atti amministrativi, in quanto, per il principio tempus regit actum, la valutazione della legittimità del provvedimento impugnato deve essere svolta con riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione;
         e2) non sussistano, pertanto, i presupposti per la restituzione degli atti al giudice a quo ai fini di un nuovo esame della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione, risultando ininfluente lo ius novum nel giudizio principale.
   IV. - Per completezza, con riferimento al soccorso istruttorio, si segnala quanto segue:
      f) Corte di giustizia UE, sez. VIII, sentenza 28.02.2018, nelle cause riunite C-523/16 e C-536/16, MA.T.I. SUD Spa/Centostazioni Spa e Duemme SGR Spa/CNPR (oggetto della News US in data 07.03.2018, cui si rinvia anche per ulteriori approfondimenti giurisprudenziali e dottrinali), secondo cui, tra l’altro, il diritto dell’Unione, i principi relativi all’aggiudicazione degli appalti pubblici e il principio di proporzionalità “devono essere interpretati nel senso che non ostano, in linea di principio, a una normativa nazionale che istituisce un meccanismo di soccorso istruttorio in forza del quale l’amministrazione aggiudicatrice può, nel contesto di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, invitare l’offerente la cui offerta sia viziata da irregolarità essenziali, ai sensi di detta normativa, a regolarizzare la propria offerta previo pagamento di una sanzione pecuniaria, purché l’importo di tale sanzione rimanga conforme al principio di proporzionalità, circostanza questa che spetta al giudice del rinvio verificare”;
       g) Corte di giustizia UE, sez. VIII, sentenza 10.05.2017, C-131/16, Archus (oggetto della News US in data 19.05.2017, cui si rinvia anche per approfondimenti giurisprudenziali e dottrinali, nonché in Foro amm., 2017, 999) che, nel dettare i requisiti del soccorso istruttorio, esclude espressamente, da un lato, che la richiesta di chiarimenti possa condurre alla presentazione di quella che sarebbe in realtà una nuova offerta e, dall’altro, che essa possa ovviare alla mancanza di un documento o di un’informazione la cui comunicazione era richiesta dai documenti dell’appalto;
      h) Corte di giustizia UE, sez. VI, sentenza 02.06.2016, in causa C-27/15, Pippo Pizzo (oggetto della News US in data 05.07.2016, nonché in Foro it., 2017, IV, 206, con nota di CONDORELLI, e in Riv. trim. appalti, 2016, 655), in punto di necessaria chiarezza della disciplina di gara e sulla conseguente necessità di soccorso istruttorio ove l’operatore economico sia caduto in errore per ambiguità della normativa di gara o errore della stazione appaltante;
      i) Corte di giustizia UE, sez. X, sentenza 06.11.2014, C-42/13, Cartiera d’Adda in Urb. e app., 2015, 137, con nota di PATRITO, e in Dir. proc. amm., 2015, 1006, con nota di MAMELI;
      j) sull’evoluzione normativa dell’istituto del soccorso istruttorio e del correlato principio di tassatività delle cause di esclusione si veda R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1054-1088, che analizza dettagliatamente i singoli passaggi disciplinari ed interpretativi, la cui scansione può essere sintetizzata con richiamo alle fonti succedutesi nel tempo:
         j1) art. 46, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006 nella sua originaria versione, sulla quale si è pronunciato Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 9 (in Foro it., 2014, III, 429, con note di TRAVI e SIGISMONDI, e in Dir. proc. amm., 2014, 544, nota di BERTONAZZI), secondo cui il potere di soccorso “non consente la produzione tardiva del documento o della dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa, ove tali adempimenti siano prescritti a pena di esclusione dal codice dei contratti pubblici o dal suo regolamento d’attuazione o dalle leggi dello Stato”;
         j2) disciplina del d.lgs. n. 163 del 2006 novellata dal decreto-legge n. 90 del 2014, che introduce il comma 1-ter all’art. 46 e il comma 2-bis all’art. 38, ampliando significativamente le possibilità di soccorso istruttorio e introducendo il soccorso a pagamento (su tale disciplina A. CASTELLI, Il soccorso istruttorio <a pagamento> tra contrasti giurisprudenziali e riforma codicistica, in Urb. e app., 2016, 1251);
         j3) artt. 56, par. 3, direttiva 2014/24/UE e 76, par. 4, direttiva 2014/25/UE su cui C. LAMBERTI e S. VILLAMENA, Nuove direttive appalti: <sistemi di selezione> e <criteri di aggiudicazione>, in Urb. e app., 2015, 873;
         j4) art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, sulla quale S. USAI, Il soccorso istruttorio integrativo nel nuovo codice degli appalti, in Urb. e app., 2016, 1139 e L. TARANTINO, Il soccorso istruttorio nel vecchio e nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Urb. e app., 2017, 127;
         j5) infine la disciplina del codice del 2016 novellata dal d.lgs. n. 57 del 2017, sul quale F. APERIO BELLA, Le novità in tema di soccorso istruttorio, in M.A. SANDULLI, M. LIPARI, F. CARDARELLI (a cura di), Il correttivo al codice dei contratti pubblici, Milano, 2017, 227 e F. MASTRAGOSTINO, Motivi di esclusione e soccorso istruttorio dopo il correttivo al codice dei contratti pubblici, in Urb. e app., 2017, 745;
      k) sui più recenti orientamenti giurisprudenziali:
         k1) per una panoramica generale: S. CRESTA e L. POLITO, Percorsi di giurisprudenza – Il soccorso istruttorio nella contrattualistica pubblica, in Giur. it., 2017, 2516 e, per gli anni precedenti, A. MANZI, Percorsi di giurisprudenza – il soccorso istruttorio negli appalti e negli altri procedimenti, in Giur. it., 2016, 2520;
         k2) Cons. Stato, sez. V, 14.07.2017, n. 3645, ove si afferma che, rispetto ai requisiti di partecipazione, la stazione appaltante è libera di attivare il soccorso istruttorio in favore dell’impresa concorrente anche in un momento successivo all’aggiudicazione in favore di quest’ultima, configurando quindi una sorta di soccorso istruttorio “postumo”;
         k3) in tema di c.d. <soccorso istruttorio processuale>:
1. Cons. Stato, sez. III, 02.03.2017, n. 976, affronta funditus il tema della ammissibilità anche di un soccorso istruttorio “processuale”, con riferimento all’ipotesi in cui la stazione appaltante abbia illegittimamente ammesso alla gara un’offerta carente, sotto il profilo meramente formale, del prescritto supporto documentale e si evidenzi che la riscontrata carenza documentale e probatoria, se accertata tempestivamente nel corso dello svolgimento della procedura di gara, non avrebbe consentito l’immediata esclusione dell’offerta, ma avrebbe imposto alla stazione appaltante l’attivazione del procedimento del soccorso istruttorio; a fronte della contestazione in sede giudiziaria della altrui ammissione alla procedura, per carenza formale, ad avviso della sentenza in esame, il giudice non ha il potere di rilevare d’ufficio la sanabilità del vizio di forma e la concreta sussistenza del requisito controverso; non è neppure necessario però che l’aggiudicatario illegittimamente ammesso alla gara articoli un ricorso incidentale, teso ad evidenziare l’ulteriore illegittimità commessa dalla stazione appaltante, consistente nella omessa attivazione del procedimento di soccorso istruttorio, potendosi invece limitare ad una deduzione difensiva, in seno alla quale però deve assolvere l’onere della prova (ex art. 2697 c.c.) circa la sanabilità o meno dell’irregolarità commessa;
2. l’ammissibilità del c.d. “soccorso istruttorio processuale” è stata successivamente confermata anche da Cons. Stato, sez. V, 27.12.2017, n. 6078 e da Cons. Stato, sez. V, 11.12.2017, n. 5826.
   V. – Con riferimento al principio per cui nel processo amministrativo impugnatorio la legittimità del provvedimento deve essere valutata alla data di emanazione dell’atto si segnala:
      l) Corte cost., 09.03.2016, n. 49 (in Riv. giur. edilizia, 2016, I, 8, con nota di STRAZZA, e in Giur. it., 2016, 2233, con nota di VIPIANA PERPETUA), secondo cui, analogamente alla ordinanza in commento, lo ius superveniens non può venire in evidenza nel giudizio di costituzionalità sollevato dai giudici amministrativi poiché, secondo il principio tempus regit actum, la valutazione della legittimità del provvedimento impugnato va condotta con riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione. Nel medesimo senso si vedano anche: Corte cost., 17 febbraio 2016, n. 30, in Foro it., 2016, I, 1126 e in Giur. costit., 2016, 176, con nota di DIOTALLEVI, secondo cui “in base al principio tempus regit actum, alla stregua del quale si definiscono le condizioni di validità di un provvedimento amministrativo, la legittimità del diniego di nulla-osta va valutata in base alla norma vigente al momento della sua adozione”; Corte cost., 29.05.2014, n. 151, in Foro it., 2015, I, 1183, in Giur. costit., 2014, 2431, in Rass. dir. farmaceutico, 2014, 763, in Ragiufarm, 2014, 144, 10 e in Ragiusan, 2014, 365, 168; Corte cost., 22.05.2013, n. 90, in Foro it., 2013, I, 2061, in Dir. e giur. agr. e ambiente, 2013, 591, con nota di GORLANI, e in Giur. costit., 2013, 1552; Corte cost., 11.07.2012, n. 177, in Foro it., 2012, I, 2571 e in Giur. costit., 2012, 2623; Corte cost., 11.06.2010, n. 209, in Foro it., 2011, I, 375, in Giur. costit., 2010, 2417, con nota di ESPOSITO, in Quaderni regionali, 2011, 310 e in Riv. giur. edilizia, 2010, I, 1025; Corte cost., 20.11.2000, n. 509, in Foro it., 2001, I, 1475, in Ammin. it., 2001, 287, in Giust. amm., 2001, 92, in Ragiusan, 2000, 199, 149, in Giur. costit., 2000, 4003, in Rass. amm. sanità, 2000, 472, in Quaderni regionali, 1999, 710, in Cons. Stato, 2000, II, 2193 e in Giur. it., 2001, 2372;
      m) Cons. Stato, Ad. plen., 04.05.2012, n. 8 (in Guida al dir., 2012, 23, 82, con nota di PONTE, in Corriere merito, 2012, 745, con nota di RAIOLA, in Urb. e app., 2012, 905, con nota di D’HERIN, in Dir. e pratica amm., 2012, 9, 72, con nota di TOSCHEI, in Riv. neldiritto, 2012, 1601, con nota di BERTOLINI, in Giurisdiz. amm., 2012, 13 e in Foro amm.-Cons. Stato, 2012, 2234, con nota di GOTTI), secondo cui la legittimità di un provvedimento va valutata al momento della sua adozione, essendo irrilevanti i fatti successivi; sicché la revoca dell’intera gara in autotutela, peraltro consequenziale alla circostanza delle numerose esclusioni e dei numerosi contenziosi pendenti, è del tutto irrilevante e non fa venire meno né l’imputabilità al concorrente della causa di esclusione, e dunque l’incameramento della cauzione, né le ragioni legislative sottese all’istituto della cauzione;
      n) nel senso che la legittimità del provvedimento amministrativo vada valutata in applicazione del principio tempus regit actum, si vedano, tra le altre: Cons. Stato, sez. VI, 01.02.2018, n. 663; Cons. Stato, sez. IV, 14.11.2017, n. 5231; Cons. Stato, sez. V, 06.09.2017, n. 4216; Cons. Stato, sez. VI, 05.07.2017, n. 3311; Cons. Stato, sez. III, 27.06.2017, n. 3131; Cons. Stato, 21.06.2017, n. 3001; Cons. Stato, sez. III, 30.05.2017, n. 2576; Cons. Stato, sez. IV, 12.04.2017, n. 1700, in Foro amm., 2017, 830 (Corte Costituzionale, ordinanza 13.04.2018 n. 76 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Collegamento sostanziale tra imprese partecipanti a una gara pubblica.
In una gara di pubblico appalto gli indizi di collegamento sostanziale tra imprese partecipanti devono essere valutati di volta in volta con riguardo alle concrete modalità di svolgimento della gara stessa, tenendo presente che ratio della normativa è evitare che sia non solo lesa, ma anche messa in pericolo la correttezza della serie procedimentale finalizzata alla scelta del contraente con la stazione appaltante, come si ricava, infatti, dalla giurisprudenza penalistica sulla quale quella amministrativa è stata elaborata, secondo la quale il reato di turbata libertà degli incanti sussiste non solo quando con l'uso dei mezzi previsti dall'art. 353 c.p. la gara non può essere effettuata, restando essa deserta, ma anche quando si disturba il suo regolare svolgimento, influenzandone e alterandone il risultato che, senza l'intervento perturbatore, avrebbe potuto essere diverso; il bene protetto dalla norma non è, infatti, soltanto la libertà di partecipare alle gare nei pubblici incanti o nelle licitazioni private, ma anche la libertà di chi vi partecipa ad influenzarne l'esito secondo la libera concorrenza e il gioco della maggiorazione delle offerte.
La sussistenza di una posizione di controllo societario ai sensi dell’articolo 2359 Cod. civ., ovvero la sussistenza di una più generica relazione, anche di fatto, fra due concorrenti è condizione necessaria, ma non anche sufficiente perché si possa inferire il reciproco condizionamento fra le offerte formulate; a tal fine è altresì necessario che venga fornita adeguata prova circa il fatto che la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili a un unico centro decisionale; tale prova, riferita alle concrete circostanze del caso, riguarda l’esistenza di un unico centro decisionale e non anche la concreta idoneità ad alterare il libero gioco concorrenziale, ciò in quanto la riconducibilità di due o più offerte a un unico centro decisionale costituisce ex se elemento idoneo a violare i generali principi in tema di par condicio, segretezza e trasparenza delle offerte
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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Tali elementi concretizzano senza alcun dubbio i plurimi ed univoci gravi indizi idonei a comprovare la sussistenza di un collegamento sostanziale idoneo a turbare l’esplicazione della libera concorrenza nella procedura concorsuale in questione.
Ed invero, come risulta dal costante orientamento della giurisprudenza amministrativa al quale pure questo Tribunale si è graniticamente conformato da più di un decennio (cfr., per tutte, Tar Lombardia, sez. I, 18.05.2007, n. 4508): “In una gara di pubblico appalto gli indizi di collegamento sostanziale tra imprese partecipanti devono essere valutati di volta in volta con riguardo alle concrete modalità di svolgimento della gara stessa, tenendo presente che ratio della normativa è evitare che sia non solo lesa, ma anche messa in pericolo la correttezza della serie procedimentale finalizzata alla scelta del contraente con la stazione appaltante”.
Come si ricava, infatti, dalla giurisprudenza penalistica sulla quale quella amministrativa è stata elaborata: “Il reato di turbata libertà degli incanti sussiste non solo quando con l'uso dei mezzi previsti dall'art. 353 c.p. la gara non può essere effettuata, restando essa deserta, ma anche quando si disturba il suo regolare svolgimento, influenzandone e alterandone il risultato che, senza l'intervento perturbatore, avrebbe potuto essere diverso; il bene protetto dalla norma non è, infatti, soltanto la libertà di partecipare alle gare nei pubblici incanti o nelle licitazioni private, ma anche la libertà di chi vi partecipa ad influenzarne l'esito secondo la libera concorrenza e il gioco della maggiorazione delle offerte”.
Tale elaborazione è stata confermata, peraltro, anche di recente, seppure in relazione alle previsioni del d.lgs. n. 163/2006, dal giudice di appello, per il quale: “L’art. 38, comma 1, lettera m-quater) del precedente Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 2006) è stata introdotta dal legislatore nazionale (articolo 3, comma 1 del d.l. 25.09.2009, n. 135 convertito, con modificazioni, dalla l. 20.11.2009, n. 166) al fine di conformarsi ai rilievi sollevati dalla Corte di giustizia UE con la sentenza 19.05.2009, in causa C-538/07. La Corte aveva stigmatizzato la previsione di cui all’articolo 10, comma 1-bis, della l. 11.02.1004, n. 109, censurando il divieto di sostanziale partecipazione contestuale da parte di imprese per le quali sussistesse un rapporto di controllo o di collegamento ai sensi dell’articolo 2359 Cod. civ., senza lasciare alle imprese coinvolte la possibilità di dimostrare che il rapporto suddetto non aveva in realtà influito sul loro rispettivo comportamento nell’ambito di tale gara".
In base ad un consolidato orientamento, la sussistenza di una posizione di controllo societario ai sensi dell’articolo 2359 Cod. civ., ovvero la sussistenza di una più generica “relazione, anche di fatto” (secondo una formulazione comprensibilmente ampia) fra due concorrenti è condizione necessaria, ma non anche sufficiente perché si possa inferire il reciproco condizionamento fra le offerte formulate. A tal fine (recependo un’indicazione fornita in modo netto dalla Corte di giustizia) è altresì necessario che venga fornita adeguata prova circa il fatto “[che] la situazione di controllo o la relazione comporti che le offerte sono imputabili a un unico centro decisionale”.
Tale prova, riferita alle concrete circostanze del caso, riguarda l’esistenza di un unico centro decisionale e non anche la concreta idoneità ad alterare il libero gioco concorrenziale. Ciò, in quanto la riconducibilità di due o più offerte a un unico centro decisionale costituisce ex se elemento idoneo a violare i generali principi in tema di par condicio, segretezza e trasparenza delle offerte (in tal senso, ex multis, Cons. Stato, V, 18.07.2012, n. 4189).
L’onere della prova del collegamento tra imprese ricade sulla stazione appaltante o, comunque, sulla parte che ne affermi l’esistenza, al fine della loro esclusione dalla gara, dimostrazione che deve necessariamente fondarsi su elementi di fatto univoci –non suscettibili cioè di letture alternative o dubbie– desumibili sia dalla struttura imprenditoriale dei soggetti coinvolti (ossia dal loro assetto interno, personale o societario - cd. aspetto formale), sia dal contenuto delle offerte dalle stesse presentate (cd. aspetto sostanziale).
Inoltre, ai fini della predetta esclusione non è sufficiente una generica ipotesi di collegamento “di fatto”, essendo necessario che per tale via risulti concretamente inciso l’interesse tutelato dalla norma, volta ad impedire un preventivo concerto delle offerte (ex multis, Cons. Stato, V, 16.12.2016 n. 5324) tale da comportare un vulnus al principio di segretezza delle stesse” (Cons. Stato, V, 04.01.2018, n. 58; 11.07.2016, n. 3057) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 12.04.2018 n. 972 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere a scomputo oneri.
Come prevede ora l'art. 45 della l.r. n. 12/2005 (e l'art. 16 del d.p.r. n. 380/2001), lo scomputo del valore delle opere di urbanizzazione non configura un diritto dell'operatore, ma una mera possibilità, per la quale occorre sempre il consenso e l'autorizzazione dell'amministrazione.
L’ammissione allo scomputo costituisce, infatti, l’oggetto di una valutazione ampiamente discrezionale da parte dell'Amministrazione che può optare per un diverso assetto di rapporti da essa reputato maggiormente servente l'interesse pubblico e la collettività di riferimento
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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Parimenti infondata è l’ulteriore eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse e intervenuta acquiescenza incentrata sul fatto che il versamento degli oneri concessori, conseguente alla nuova funzione, sia stato richiesto e accettato dallo stesso operatore.
La circostanza che con l'istanza 22.05.2005 (cfr. doc. 10) l'Impresa stessa si fosse detta pronta a versare la differenza degli oneri conseguenti alla propria richiesta di inserimento della destinazione direzionale, e che con la successiva nota del 02.12.2005 (doc. 12) avesse presentato il computo dei maggiori oneri urbanizzativi che da detta nuova destinazione sarebbero conseguiti, senza richiedere di variare la convenzione o di essere ammessa allo scomputo degli oneri indotti dalla nuova funzione è, infatti, circostanza che può rilevare sul giudizio di merito ma non sulla ammissibilità dell’azione.
Ciò in quanto la domanda di restituzione riguarda somme di denaro e per questa parte il rapporto controverso ha natura paritetica, cosicché il pagamento delle somme in questione non implica alcuna acquiescenza da parte del debitore, e per l’effetto esclude l’inammissibilità del ricorso.
Nel merito tuttavia la domanda di ripetizione delle somme per cui è causa è infondata per le convincente ragioni opposte dall’amministrazione resistente.
Infatti è pacifico che con la delibera consiliare 28.04.2006 n. 31 di autorizzazione al c.d. diverso mix funzionale, vale a dire la destinazione terziaria/direzionale (cfr. doc. 15) l’amministrazione ha accolto la richiesta dell'Impresa, senza dare luogo ad alcuna modifica al rapporto sinallagmatico cristallizzato nella convenzione urbanistica corrente tra le parti.
E, infatti, in termini coerenti con la propria richiesta, l'Impresa non ha contestato né la suddetta delibera consiliare 28.04.2006 n. 31, né le varie richieste comunali che hanno richiesto il contributo (docc. 13, 22), e che sono state puntualmente eseguite dopo aver proceduto a fornire all’amministrazione la precisa quantificazione degli oneri dovuti per la superficie direzionale assentita.
Ebbene è noto, al riguardo, che
il contributo per oneri di urbanizzazione ha natura di prestazione patrimoniale causale, posta a carico del costruttore a titolo di partecipazione al costo delle opere di urbanizzazione connesse alle esigenze della collettività, che conseguono agli interventi di edificazione e al maggior carico urbanistico che si realizza nella zona in ordine all'aumento della necessaria dotazione di servizi.
Ulteriore principio, qui rilevante, è quello che attiene allo scomputo del valore delle opere di urbanizzazione dagli importi dovuti per oneri di urbanizzazione:
come prevede ora l'art. 45 della l. 12/2005 (e l'art. 16 del d.p.r. 380/2001) lo scomputo del valore delle opere di urbanizzazione non configura un diritto dell'operatore, ma una mera possibilità, per la quale occorre sempre il consenso e l'autorizzazione dell'amministrazione.
Ne consegue che,
in difetto di autorizzazione e di accordo espresso della p.a. sullo scomputo delle nuove opere, a destinazione variata, dall'ammontare degli oneri, l'operatore non dispone di alcuna pretesa tutelata diretta a portare in detrazione dal valore delle suddette opere il contributo di urbanizzazione dovuto.
L’ammissione allo scomputo costituisce, infatti, l’oggetto di una valutazione ampiamente discrezionale da parte dell'Amministrazione, che può optare per un diverso assetto di rapporti da essa reputato maggiormente servente l'interesse pubblico e la collettività di riferimento (cfr. TAR Liguria, Sez. I, sentenza n. 955/2016; TAR Trieste, I, 01.12.2016, n. 541; TAR Milano, II, 18.09.2013 n. 2184).
Il ragionamento non muta, e anzi la conclusione si rafforza, come condivisibilmente sostiene l’amministrazione, a fronte di una convenzione urbanistica sottoscritta, nella quale sia già previsto lo scomputo (totale o parziale) dal contributo dovuto del valore delle opere di urbanizzazione.
In quanto disciplinata dalla convenzione, l’eventuale modifica del patto sinallagmatico regolante lo scomputo presuppone pur sempre la convergente -e discrezionale- espressione di volontà dell'Amministrazione e indi la formazione di un accordo circa la diversa entità dello scomputo (e di converso circa la diversa entità di introito di oneri di urbanizzazione).
Ora, come sopra chiarito, nell'ambito delle proprie discrezionali scelte urbanistiche, con l'originario piano approvato in data 05.03.2004 e con la convenzione urbanistica 16.12.2004, il Comune ha espresso la scelta di autorizzare la realizzazione di talune opere di urbanizzazione primaria a scomputo in rapporto all'assetto del Piano così approvato, comprendente destinazioni pressoché totalmente residenziali e una limitata quota commerciale.
Altrettanto discrezionalmente ha ritenuto di lasciare inalterato tale assetto allorquando -peraltro accedendo a richiesta dell'operatore evidentemente più confacente ai propri interessi imprenditoriali- il Comune ha ritenuto di assentire con delibera C.C. 31/06 (doc. 15) un diverso mix funzionale (direzionali/uffici), senza con ciò autorizzare ulteriori scomputi degli oneri indotti dalle nuove destinazioni né apportare modifica alcuna alla convenzione urbanistica regolante i rapporti tra le parti, si può supporre per una logica considerazione di opportunità amministrativa in relazione al diverso -e più impattante- equilibrio delle nuove funzioni.
Né appare corretta l'affermazione che con la delibera consiliare 31/06 il Comune avrebbe "ritenuto che le opere indicate a scomputo dall'Impresa consentissero a quest'ultima di adempiere all'obbligo di contribuzione previsto dall'art. 44 della Legge Regionale n. 12/2005, anche a seguito dell'introduzione della nuova destinazione direzionale nel Piano di Lottizzazione".
In realtà, tale delibera si è limitata a dare atto della compatibilità delle funzioni richieste con il p.r.g. e della possibilità di accedere alla modifica richiesta senza apportare variante al Piano, ma —proprio per tale ragione e comunque per una discrezionale scelta in tal senso- senza intervenire su quanto previsto dalla convenzione per l'attuazione dello strumento.
Emerge dunque in modo chiaro il contenuto dell'accordo inter partes, nel quale è fissato un importo massimo di oneri (euro 66.187,76,) da detrarsi dal valore delle opere primarie (euro 154.670,93); la convenzione non prevede affatto, come sostiene la parte ricorrente, che eventuali oneri urbanizzativi derivanti da future e incerte modifiche funzionali al piano esecutivo approvato avrebbero trovato copertura sino a concorrenza del valore delle realizzande opere urbanizzative.
Gli oneri sono stati, infatti, stimati all'atto della presentazione del Piano esecutivo, rispetto alle caratteristiche insediative e al mix funzionale risultante dagli elaborati allegati alla convenzione 16.12.2004, ed è esclusivamente rispetto a tali previsioni che il Comune ha positivamente valutato la diretta realizzazione di determinate opere di urbanizzazione primaria proposte da Ie..
Attesa, dunque, la natura dell'atto convenzionale, pienamente valida ed efficace, e costituente specifica fonte dell'obbligazione pecuniaria contratta dall'Impresa, è priva di fondamento la pretesa di quest’ultima di assegnare a tale atto un significato diverso e difforme rispetto ai chiari contenuti dell'obbligazione assunta, intesa inequivocabilmente ed esclusivamente a scomputare i soli oneri di urbanizzazione primaria, quantificati in euro 66.187,76, relativi al Piano esecutivo approvato con delibera C.C. 63/2004.
Né appare decisivo il fatto, non contestato, che il valore delle opere realizzate dalla società Ie., siano di importo superiore rispetto agli oneri di urbanizzazione primari derivanti tanto dall'originario titolo edilizio (d.i.a. n. 60/2005) che dal successivo (d.i.a. n. 149/08).
Infatti, è assunto acquisito in giurisprudenza che
il privato proponente un piano attuativo, nell'esercizio della propria autonomia negoziale, ben può volontariamente assumere con la convenzione urbanistica obblighi ulteriori a quelli di legge, proprio in considerazione della natura di accordo integrativo o sostitutivo di provvedimento, che vede il combinarsi di poteri pubblicistici e privatistici di autoregolazione del reciproco assetto di interessi, con l'assunzione di correlati obblighi e diritti di credito (ex multis TAR Trieste n. 541/2016; TAR. Milano n. 2184/2013 e 3717/2009; Cons. Stato, Sez. V, 26.11.2013, n. 5603).
Peraltro,
la giurisprudenza non manca di evidenziare come l'assunzione di obbligo eccedente il minimo legale possa trovare giustificazione nell'ottenimento di benefici che la convenzione urbanistica complessivamente comporta per il privato, senza che possa dirsi perciò alterato l'equilibrio del sinallagma contrattuale cristallizzato in convenzione. Non può, infatti, sottacersi che il privato possa vantare un interesse proprio alla realizzazione di opere di valore superiore agli importi dovuti al Comune, anche allo scopo di migliorare la qualità del contesto urbanizzato e conseguentemente rendere commercialmente più appetibili le edificazioni private (cfr. TAR Milano, Sez. II, 26.07.2016 n. 1507).
E d’altronde, anche se il pagamento degli oneri in questione, come sopra rilevato, non può implicare acquiescenza ai fini della domanda di ripetizione è evidente come fosse implicito per le parti, e soprattutto per l’impresa Ie., che la variazione di mix terziaria-direzionale ottenuta era da porre in relazione sinallagmatica con la prestazione, non scomputata, degli oneri correlati alle diverse destinazioni assentite.
Il ricorso va quindi respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 10.04.2018 n. 954 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Clausola sociale nelle gare pubbliche.
Nelle gare pubbliche la c.d. clausola sociale deve essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente; l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell'appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di impresa prescelta dall'imprenditore subentrante.
I lavoratori che non trovano spazio nell'organigramma dell'appaltatore subentrante e che non vengono ulteriormente impiegati dall'appaltatore uscente in altri settori sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali, ma la clausola non comporta invece alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato e in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria.
Sulla base di detti principi, è illegittima una clausola di un bando che non si limita a garantire il mantenimento in organico dei lavoratori già impiegati presso il gestore uscente, ma impone un obbligo specifico di assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori in forze presso l’esecutore del servizio; la clausola sociale, per come è prevista, non si limita, dunque, ad assicurare i livelli occupazionali, ma si traduce in una vera e propria sostituzione indebita nella struttura organizzativa e nelle scelte imprenditoriali degli operatori economici, imponendo la tipologia di contratto di lavoro da stipulare
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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La censura è fondata.
Ed invero, mentre l’art. 6 del capitolato speciale si limita a prevedere che: “ai sensi dell’art. 31 del CCNL 27.02.2014 per la categoria delle Agenzie di Somministrazione, l’Agenzia aggiudicataria è tenuta a garantire il mantenimento in organico dei lavoratori già utilizzati in precedenza rilevando, per quanto possibile e ai sensi della normativa vigente in materia, il personale utilizzato dal precedente fornitore …” (capitolato, pag. 3), l’art. 14 del medesimo capitolato, rubricato “responsabilità e oneri a carico del fornitore”, stabilisce che: “sono compiti e responsabilità dell’Agenzia fornitrice: assumere a tempo indeterminato tutto il personale inviato in missione presso gli Enti” (pag. 9).
La clausola sociale, per come è prevista, non si limita, dunque, ad assicurare i livelli occupazionali, ma si traduce in una vera e propria sostituzione indebita nella struttura organizzativa e nelle scelte imprenditoriali degli operatori economici, imponendo la tipologia di contratto di lavoro da stipulare.
Circostanza che la rende contraria alla libertà d’impresa e di organizzazione imprenditoriale, alla luce della costante interpretazione delle norme nazionali ed eurounitarie vigenti in materia che la giurisprudenza ha fornito, quale principio fondamentale posto a tutela del mercato e della massima partecipazione alle gare pubbliche.
In proposito, pare opportuno richiamare, innanzitutto, l’approdo cui è pervenuta la Corte di giustizia dell’unione europea, che ha da sempre sostenuto che le clausole sociali vadano formulate in modo da contemperarne l’applicazione ai principi di “libertà di stabilimento”, di “libera prestazione dei servizi”, di “concorrenza” e di “libertà di impresa” (cfr., fra le tante, Corte di giustizia europea, grande sezione, 15.07.2015, causa C-271/2008; sez. IX, 18.09.2014, causa C-549/13).
Anche la Corte costituzionale ha affermato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 l. reg. Puglia 25.02.2010 n. 4, quanto al comma 1 del sostituito art. 25 l.reg. 03.08.2007 n. 25: “limitatamente alle parole "a tempo indeterminato". Premesso che l'art. 25 l.reg. n. 25 del 2007, nella sua formulazione originaria, disponeva che "Fatte salve le previsioni della contrattazione collettiva, ove più favorevoli, la Regione, gli enti, le aziende e le società strumentali della Regione devono prevedere nei bandi di gara, avvisi e, comunque, nelle condizioni di contratto per appalti di servizi l'utilizzo del personale già assunto dalla precedente impresa appaltatrice, nonché le condizioni economiche e contrattuali già in essere", la disposizione censurata introduce uno strumento diverso dalla "clausola sociale", in quanto non si limita a prevedere il mantenimento in servizio di personale già assunto, ma stabilisce in modo automatico e generalizzato l'"assunzione a tempo indeterminato" del personale già "utilizzato" dalla precedente impresa o società affidataria dell'appalto; in tal modo viola l'art. 97 cost., e le norme interposte dettate dall'art. 18 d.l. n. 112 del 2008, come modificato dall'art. 19, comma 1, d.l. n. 78 del 2009, in materia di reclutamento del personale delle società a partecipazione pubblica, sotto il profilo della "imparzialità dell'azione amministrativa e uniformità della stessa sul territorio nazionale", nonché sotto il profilo del buon andamento (sent. n. 267 del 2010)” (cfr. Corte Cost., 03.03.2011, n. 68).
Del resto, la giurisprudenza amministrativa ha costantemente affermato che: “Nelle gare pubbliche la c.d. clausola sociale deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando altrimenti essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d'impresa, riconosciuta e garantita dall'art. 41 Cost., che sta a fondamento dell'autogoverno dei fattori di produzione e dell'autonomia di gestione propria dell'archetipo del contratto di appalto; la suddetta clausola deve quindi essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente; l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell'appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di impresa prescelta dall'imprenditore subentrante; i lavoratori, che non trovano spazio nell'organigramma dell'appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall'appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali, ma la clausola non comporta invece alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria” (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. III, 05.05.2017, n. 2078, nonché, da ultimo, sez. V, 17.01.2018, n. 272).
Peraltro, l’art. 3 della legge della regione Lombardia 24.11.2017, n. 26, citato dalle controparti a sostegno della loro tesi, non prevede alcun obbligo di assunzione a tempo indeterminato, ma prevede solo la facoltà di assorbire, compatibilmente con la gestione efficiente dei lavori e servizi da affidare e con la libera organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante, il personale adibito all’esecuzione del lavoro o allo svolgimento del servizio oggetto dell’affidamento, tutelando, dunque, il mantenimento in organico dei lavoratori.
Né può affermarsi che l’obbligo di assunzione previsto dalla clausola sociale, la cui ratio risponde a tutelare il livello occupazionale dei lavoratori, possa variare in ragione della specifica fonte da cui trae origine (nella specie protocollo d’intesa tra Regione e sindacato e contrattazione collettiva), atteso che, come è stato osservato: “La latitudine applicativa degli obblighi connessi alla c.d. "clausola sociale" come sopra delineata, confermata dalla giurisprudenza eurounitaria (si vedano Corte di Giustizia dell'Unione Europea 09/12/2004 in C-460/2002 e 14/07/2005 in C-386/2003) non varia, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di prime cure, in ragione della fonte da cui la stessa trae origine. … Invero l'obbligo di riassorbimento del personale impiegato dal precedente appaltatore va comunque armonizzato con l'organizzazione d'impresa prescelta dall'imprenditore subentrante, e ciò anche laddove tale obbligo sia previsto dalla contrattazione collettiva. … Infatti la libertà di iniziativa economica implica, di necessità, che a ciascun imprenditore sia consentito, nei limiti segnati dall'ordinamento, di organizzare la propria impresa come meglio ritiene e ciò si oppone ad un'interpretazione tale da compromettere la detta prerogativa e che privilegi una scelta fatta a monte, inevitabilmente generalizzata ed avulsa dal contesto specifico della singola organizzazione aziendale.
In definitiva la c.d. "clausola sociale", qualunque sia la fonte da cui derivi, dev'essere armonizzata con l'organizzazione aziendale dell'imprenditore subentr
ante” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.01.2018, n. 272).
Alla luce delle suesposte considerazioni, assorbendosi l’ulteriore motivo di doglianza, il ricorso va accolto e, per l’effetto, va disposto l’annullamento dei provvedimenti impugnati (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 06.04.2018 n. 936 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Impugnazione avverso il criterio di scelta del contraente.
E' inammissibile l’impugnazione avverso il criterio di scelta del contraente; l'onere di immediata impugnazione delle clausole del bando di gara o di concorso, o della lettera di invito a prendere parte ad una procedura selettiva, deve essere limitato esclusivamente a quelle concernenti i requisiti di partecipazione impeditive dell'ammissione dell'interessato alla medesima procedura selettiva o che impongano, ai fini della partecipazione, oneri assolutamente incomprensibili o manifestamente sproporzionati ai caratteri della gara e che comportino, quindi, l'impossibilità, per l'interessato, di accedere alla procedura (commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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Tanto premesso, il collegio ritiene che il ricorso sia da dichiararsi inammissibile, risultando, sul punto, garantito il pieno contraddittorio in considerazione del contenuto dell’istanza di rinvio depositata dalla società ricorrente l’08.02.2018 -e non accolta in considerazione sia della ratio acceleratoria sottesa alla specialità del rito in materia di appalti pubblici, sia in ragione del prelievo richiesto proprio dall’interessata– nella quale la società ricorrente mostra di essere pienamente consapevole della nota problematica connessa alle possibili determinazioni giurisdizionali in ordine all’impugnazione della lex specialis di gara proposta prima dell’aggiudicazione della stessa.
Ed invero, nonostante il Consiglio di Stato si sia di recente espresso con un’isolata pronuncia in favore dell’ammissibilità del ricorso giurisdizionale proposto avverso gli atti di gara che prevedano illegittimamente quale criterio di scelta del contraente quello del prezzo più basso per effetto delle novità normative di diritto sostanziale e processuale introdotte nel codice dei contratti pubblici e nel codice del processo amministrativo (Cons. Stato, sez. III, 02.05.2017, n. 2014), la stessa sezione terza del Consiglio di Stato ha deciso di rimettere la questione all’adunanza plenaria (Cons. Stato, sez. III, ordinanza 07.11.2017, n. 5138), in considerazione del granitico orientamento esistente, sul punto, sin dalla storica pronuncia della medesima adunanza plenaria 29.01.2003, n. 1, per il quale i bandi di gara e di concorso e le lettere di invito vanno normalmente impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento, ed a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell'interessato.
A fronte, infatti, della clausola illegittima del bando di gara o del concorso, il partecipante alla procedura concorsuale non è ancora titolare di un interesse attuale all'impugnazione, dal momento che egli non sa ancora se l'astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito negativo della sua partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in una effettiva lesione della situazione soggettiva, che solo da tale esito può derivare.
L'onere di immediata impugnazione delle clausole del bando di gara o di concorso, o della lettera di invito a prendere parte ad una procedura selettiva, deve essere limitato esclusivamente a quelle concernenti i requisiti di partecipazione impeditive dell'ammissione dell'interessato alla medesima procedura selettiva o che impongano, ai fini della partecipazione, oneri assolutamente incomprensibili o manifestamente sproporzionati ai caratteri della gara e che comportino, quindi, l'impossibilità, per l'interessato, di accedere alla procedura.
Il collegio ritiene, dunque, di non potersi discostare, allo stato, da tale orientamento, tutt’ora costante eccetto che per l’isolata pronuncia succitata.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 04.04.2018 n. 913 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: E’ noto che l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi deve essere proposta entro il termine di decadenza di sessanta giorni (articolo 29 cod. proc. amm.), e che tale termine –entro il quale il ricorso deve essere notificato alla pubblica amministrazione che ha emesso l'atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati (articolo 41, comma 2, cod. proc. amm.)– decorre “dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge” (così ancora l’articolo 41, comma 2, cod. proc. amm.).
E ciò ferma restando la possibilità di proporre successivamente motivi aggiunti, al fine di “introdurre (...) nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte” (articolo 43, comma 1, cod. proc. amm.).
Al riguardo, costituisce acquisizione pacifica in giurisprudenza, che il concetto di “piena conoscenza” dell'atto lesivo non debba essere inteso quale conoscenza integrale del contenuto dei provvedimenti che si intendono impugnare, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale. Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di “piena conoscenza” –il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale– è la percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne determinano la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad agire contro di esso.
Tale soluzione è fondata sulla considerazione che “mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell'azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all'impugnazione dell'atto (così determinando quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi”.
In questo senso “è rilevante osservare che l'ordinamento prevede l'istituto dei “motivi aggiunti”, per il tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti al momento di proposizione del ricorso ma ignoti) o dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta”.
Proprio tale previsione comprova la fondatezza dell'interpretazione ora esposta della nozione di “piena conoscenza” dell'atto oggetto di impugnazione, poiché se la conoscenza necessaria e sufficiente per far insorgere l’onere di impugnazione dovesse essere intesa come “conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei motivi aggiunti rimarrebbe sostanzialmente privo di un proprio spazio di operatività.
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Con specifico riferimento all’impugnazione del permesso di costruire, la giurisprudenza ha, inoltre, costantemente affermato che “il principio delle certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati, deve far ritenere che non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso edilizio nella perdurante incertezza circa la sorte del proprio titolo, perché, nelle more, il ritardo nell'impugnazione da parte di chi vi abbia interesse (...) si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all'ulteriore avanzamento dei lavori, che ex post potrebbero essere dichiarati illegittimi.”.
Tale principio è infatti “(...) posto a tutela di tutte le parti, direttamente o indirettamente interessate al provvedimento, ivi compreso, naturalmente, anche l’interesse del soggetto titolare del permesso di costruire, eventualmente illegittimo, a non realizzare affatto una costruzione che sia suscettibile di un futuro abbattimento.”.
Da ciò la conseguenza che “qualora sia oggetto di contestazione la stessa astratta possibilità di edificare in un certo terreno (...), la mera conoscenza dell'iniziativa in corso appare elemento sufficiente ed essenziale ai fini dell'identificazione del dies a quo per l'impugnazione”.
Pertanto, chi contesta la possibilità stessa (l’an) dell’edificazione, e non semplicemente le modalità con cui questa viene esercitata (il quomodo), ha l’onere di agire senza indugio per tutelare i propri interessi legittimi, essendo sufficiente, ai fini del decorso del termine per l’impugnazione, che sia nota l'esistenza e la lesività del titolo edilizio, dato che resta sempre salva la possibilità di proporre motivi aggiunti, qualora dalla conoscenza integrale del provvedimento e degli atti presupposti emergano ulteriori profili di illegittimità dell’atto, precedentemente non noti.
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12. Il ricorso introduttivo del giudizio è in parte irricevibile e in parte inammissibile, per le ragioni che si espongono di seguito.
13. Va, anzitutto, accolta l’eccezione di tardività dell’impugnazione del permesso di costruire n. 137 del 2012.
13.1 E’ noto che l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi deve essere proposta entro il termine di decadenza di sessanta giorni (articolo 29 cod. proc. amm.), e che tale termine –entro il quale il ricorso deve essere notificato alla pubblica amministrazione che ha emesso l'atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati (articolo 41, comma 2, cod. proc. amm.)– decorre “dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge” (così ancora l’articolo 41, comma 2, cod. proc. amm.).
E ciò ferma restando la possibilità di proporre successivamente motivi aggiunti, al fine di “introdurre (...) nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte” (articolo 43, comma 1, cod. proc. amm.).
13.2 Al riguardo, costituisce acquisizione pacifica in giurisprudenza, che il concetto di “piena conoscenza” dell'atto lesivo non debba essere inteso quale conoscenza integrale del contenuto dei provvedimenti che si intendono impugnare, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale. Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di “piena conoscenza” –il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale– è la percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne determinano la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad agire contro di esso (Cons. Stato, Sez. IV, 29.10.2015, n. 4945; Id., 28.05.2012, n. 3159).
Tale soluzione –secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato con la richiamata sentenza n. 4945 del 2015– è fondata sulla considerazione che “mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell'azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all'impugnazione dell'atto (così determinando quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi”.
In questo senso –prosegue ancora la sentenza richiamata– “è rilevante osservare che l'ordinamento prevede l'istituto dei “motivi aggiunti”, per il tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti al momento di proposizione del ricorso ma ignoti) o dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta”.
Proprio tale previsione comprova la fondatezza dell'interpretazione ora esposta della nozione di “piena conoscenza” dell'atto oggetto di impugnazione, poiché se la conoscenza necessaria e sufficiente per far insorgere l’onere di impugnazione dovesse essere intesa come “conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei motivi aggiunti rimarrebbe sostanzialmente privo di un proprio spazio di operatività.
13.3 Con specifico riferimento all’impugnazione del permesso di costruire, la giurisprudenza ha, inoltre, costantemente affermato che “il principio delle certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati, deve far ritenere che non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso edilizio nella perdurante incertezza circa la sorte del proprio titolo, perché, nelle more, il ritardo nell'impugnazione da parte di chi vi abbia interesse (...) si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all'ulteriore avanzamento dei lavori, che ex post potrebbero essere dichiarati illegittimi.”.
Tale principio è infatti “(...) posto a tutela di tutte le parti, direttamente o indirettamente interessate al provvedimento, ivi compreso, naturalmente, anche l’interesse del soggetto titolare del permesso di costruire, eventualmente illegittimo, a non realizzare affatto una costruzione che sia suscettibile di un futuro abbattimento.”.
Da ciò la conseguenza che “qualora sia oggetto di contestazione la stessa astratta possibilità di edificare in un certo terreno (...), la mera conoscenza dell'iniziativa in corso appare elemento sufficiente ed essenziale ai fini dell'identificazione del dies a quo per l'impugnazione” (così Cons. Stato, Sez. V, 02.10.2014, n. 4901).
Pertanto, chi contesta la possibilità stessa (l’an) dell’edificazione, e non semplicemente le modalità con cui questa viene esercitata (il quomodo), ha l’onere di agire senza indugio per tutelare i propri interessi legittimi, essendo sufficiente, ai fini del decorso del termine per l’impugnazione, che sia nota l'esistenza e la lesività del titolo edilizio, dato che resta sempre salva la possibilità di proporre motivi aggiunti, qualora dalla conoscenza integrale del provvedimento e degli atti presupposti emergano ulteriori profili di illegittimità dell’atto, precedentemente non noti (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.04.2018 n. 884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La denuncia di inizio attività non è impugnabile in quanto tale poiché “non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge”.
E in questo senso si è, del resto, da sempre orientata la giurisprudenza della Sezione, la quale non ha mai dubitato dell’inammissibilità dell’impugnazione diretta della denuncia.
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14. E’, poi, inammissibile l’impugnazione della successiva denuncia di inizio attività.
14.1 La denuncia di inizio attività non è, infatti, impugnabile in quanto tale, poiché “non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge” (Ad. Plen. n. 15 del 2011).
E in questo senso si è, del resto, da sempre orientata la giurisprudenza della Sezione, la quale non ha mai dubitato dell’inammissibilità dell’impugnazione diretta della denuncia (cfr. ex multis: TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.02.2017, n. 389; Id., 29.11.2016, n. 2251; Id., 14.01.2016, n. 80; v. inoltre, tra le meno recenti: Id., 15.11.2007, n. 6361; Id., 10.05.2007, n. 2894).
14.2 Tale consolidato orientamento va quindi ribadito anche in questa sede (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.04.2018 n. 884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Gli atti del PGT acquistano efficacia “con la pubblicazione dell'avviso della loro approvazione definitiva sul Bollettino Ufficiale della Regione”, ai sensi dell’articolo 13, comma 11, della legge regionale n. 12 del 2005.
E’, dunque, dalla data di pubblicazione dell’avviso che decorre il termine per l’impugnazione del piano, trattandosi di pubblicazione prevista dalla legge, ai sensi dell’articolo 41, comma 2, cod. proc. amm..
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15. E’, poi, tardiva l’impugnazione del PGT del Comune di Seregno, approvato con delibera n. 51 del 28.06.2014.
15.1 Gli atti del PGT acquistano infatti efficacia “con la pubblicazione dell'avviso della loro approvazione definitiva sul Bollettino Ufficiale della Regione”, ai sensi dell’articolo 13, comma 11, della legge regionale n. 12 del 2005.
E’, dunque, dalla data di pubblicazione dell’avviso che decorre il termine per l’impugnazione del piano, trattandosi di pubblicazione prevista dalla legge, ai sensi dell’articolo 41, comma 2, cod. proc. amm.
15.2 Nel caso oggetto del presente giudizio, l’avviso di approvazione del PGT è stato pubblicato sul BURL – Serie avvisi e concorsi n. 5 del 28.01.2015, ma il piano è stato impugnato mediante ricorso straordinario al Presidente della Repubblica portato alla notifica soltanto il 18.02.2016.
15.3 Da ciò l’irricevibilità dell’impugnazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.04.2018 n. 884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Istanza di correzione di errori materiali e di rettifica degli atti di PGT.
La disposizione dell’articolo 13, comma 14-bis, della legge regionale 11.03.2005 n. 12 è chiara nell’attribuire al Consiglio comunale la competenza ad approvare atti di correzione degli errori materiali contenuti nel PGT.
Laddove venga presentata, da un soggetto interessato, un’istanza diretta effettivamente a ottenere la correzione di un mero errore materiale, la questione deve essere perciò rimessa necessariamente all’Organo consiliare, mentre deve reputarsi affetta da incompetenza una determinazione di segno negativo sul merito dell’istanza assunta dal Responsabile dell’ufficio comunale preposto al settore della pianificazione urbanistica.
Ciò non esclude la possibilità per gli uffici comunali di svolgere una funzione di “filtro” nei confronti delle istanze manifestamente inammissibili, ossia non effettivamente dirette alla correzione di errori materiali, ma palesemente volte a ottenere una variante dello strumento urbanistico; laddove, infatti, nonostante la qualificazione formale, la richiesta sia diretta a provocare la modificazione della pianificazione esistente, non gradita al richiedente, essa non può certamente seguire l’iter semplificato previsto dal richiamato articolo 13, comma 14-bis, della legge regionale n. 12 del 2005.
In questi casi è, perciò, coerente con la stessa previsione normativa sopra richiamata che l’inammissibilità dell’istanza venga dichiarata dagli stessi uffici comunali, senza necessità di un pronunciamento dell’Organo consiliare.
Il predetto “filtro” degli uffici deve, tuttavia, arrestarsi alla qualificazione formale dell’istanza dell’interessato, ossia deve accertare unicamente che quanto allegato sia qualificabile propriamente come un errore materiale in cui sia incorso l’Organo consiliare, ovvero come un errore occorso nella trasposizione della volontà dell’Organo negli elaborati di piano; non spetta, invece, agli uffici comunali –a fronte dell’allegazione di dati idonei a far emergere un potenziale profilo di errore materiale– pronunciarsi nel merito della richiesta di correzione, essendo la relativa competenza rimessa al Consiglio comunale
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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16. Può quindi passarsi all’esame del ricorso per motivi aggiunti, con il quale i ricorrenti censurano il riscontro negativo fornito dal Dirigente e dall’Assessore all’istanza di correzione di errore materiale da essi presentata.
17. Al riguardo, vanno respinte le eccezioni sollevate dalle parti resistenti, secondo le quali i motivi aggiunti sarebbero irricevibili o inammissibili, in quanto diretti sostanzialmente a provocare una rimessione in termini rispetto alla tardiva impugnazione del PGT.
17.1 Come, infatti, subito si dirà, nel caso di specie l’istanza avanzata dai ricorrenti presenta effettivamente i caratteri di una richiesta diretta a ottenere la mera rettifica di un supposto errore nella trasposizione in atti della volontà consiliare.
A fronte di una tale istanza, a prescindere dall’esercizio della tutela giurisdizionale da parte degli interessati, deve reputarsi doveroso l’avvio di un’apposita istruttoria procedimentale da parte del Comune, atteso che costituisce anzitutto un interesse dell’Amministrazione emendare gli eventuali errori presenti nella pianificazione.
Deve tenersi presente, del resto, che –a differenza delle ipotesi in cui venga sollecitato l’esercizio del potere di autotutela– la mera correzione di errori materiali non implica, per sua natura, alcuna ponderazione di interessi, non essendo astrattamente configurabile un interesse pubblico alla conservazione di una pianificazione che si riveli meramente errata.
17.2 Né può ritenersi che, nel caso di specie, la determinazione comunale impugnata avesse carattere meramente confermativo della pianificazione vigente, atteso che la nota censurata prende invece posizione sulla concreta portata della pianificazione ed esclude nel merito la sussistenza di un errore materiale nella trasposizione della volontà consiliare.
17.3 In questo senso, la nota costituisce perciò l’esito del procedimento di correzione di errore materiale, per cui sussiste sia la legittimazione che l’interesse dei richiedenti a censurarla.
17.4 Da ciò il rigetto delle eccezioni proposte.
18. Nel merito, il ricorso per motivi aggiunti è fondato, nei sensi e nei termini che si espongono di seguito.
18.1 L’articolo 13, comma 14-bis, primo periodo della legge regionale 11.03.2005, n. 12, nel testo vigente al tempo dell’adozione della determinazione impugnata, stabiliva che “I comuni, con deliberazione del consiglio comunale analiticamente motivata, possono procedere alla correzione di errori materiali e a rettifiche degli atti di PGT, non costituenti variante agli stessi”.
18.2 Come già rilevato dalla Sezione, la disposizione è chiara nell’attribuire al Consiglio comunale la competenza ad approvare atti di correzione degli errori materiali contenuti nel PGT (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 19.05.2016, n. 963).
Coerentemente con quanto affermato nel precedente ora richiamato, laddove venga presentata, da un soggetto interessato, un’istanza diretta effettivamente a ottenere la correzione di un mero errore materiale, la questione deve essere perciò rimessa necessariamente all’Organo consiliare, mentre deve reputarsi affetta da incompetenza una determinazione di segno negativo sul merito dell’istanza assunta dal Responsabile dell’ufficio comunale preposto al settore della pianificazione urbanistica.
18.3 Al riguardo, il Collegio reputa opportuno precisare che ciò non esclude la possibilità per gli uffici comunali di svolgere una funzione di “filtro” nei confronti delle istanze manifestamente inammissibili, ossia non effettivamente dirette alla correzione di errori materiali, ma palesemente volte a ottenere una variante dello strumento urbanistico.
Laddove infatti, nonostante la qualificazione formale, la richiesta sia diretta a provocare la modificazione della pianificazione esistente, non gradita al richiedente, essa non può certamente seguire l’iter semplificato previsto dal richiamato articolo 13, comma 14-bis, della legge regionale n. 12 del 2005. E’, perciò, coerente con la stessa previsione normativa ora richiamata che l’inammissibilità dell’istanza venga dichiarata, in questi casi, dagli stessi uffici comunali, senza necessità di un pronunciamento dell’Organo consiliare, il quale rischierebbe, altrimenti, di trovarsi ingolfato di richieste dirette solo in apparenza a ottenere la correzione di presunti errori, ma in realtà volte a sollecitare l’adozione di varianti.
Questa conclusione è, del resto, in linea con il precedente ora richiamato, nel quale la Sezione ha appurato l’incompetenza, nel caso specifico, del Responsabile preposto al settore della pianificazione urbanistica, proprio sulla base di una valutazione in concreto del contenuto dell’istanza, che era effettivamente diretta alla correzione di un prospettato errore materiale (consistente, nella specie, nell’allegato contrasto tra due elaborati cartografici del PGT).
18.4 Il predetto “filtro” degli uffici deve, tuttavia, arrestarsi alla qualificazione formale dell’istanza dell’interessato, ossia deve accertare unicamente che quanto allegato sia qualificabile propriamente come un errore materiale in cui sia incorso l’Organo consiliare, ovvero come un errore occorso nella trasposizione della volontà dell’Organo negli elaborati di piano. Non spetta, invece, agli uffici comunali –a fronte dell’allegazione di dati idonei a far emergere un potenziale profilo di errore materiale– pronunciarsi nel merito della richiesta di correzione, essendo la relativa competenza rimessa al Consiglio comunale.
18.5 Nel caso oggetto del presente giudizio, i ricorrenti hanno rappresentato circostanze obiettivamente consistenti nell’allegazione di un errore materiale presente negli elaborati di piano. In particolare, essi hanno evidenziato che, a fronte del rigetto dell’osservazione coinvolgente l’area di loro proprietà, le cartografie del PGT approvato recano una diversa destinazione dell’area di loro proprietà.
Il profilo che essi hanno sottoposto all’Amministrazione attiene, perciò, effettivamente all’esatta interpretazione della volontà espressa dall’Organo consiliare nella controdeduzione all’osservazione presentata rispetto al piano adottato. Conseguentemente, la questione non può che essere rimessa allo stesso Consiglio comunale. A quest’Organo spetta infatti di chiarire la portata della propria deliberazione, in quanto, sulla base di un esame obiettivo ab extrinseco, potenzialmente all’origine dell’errore materiale allegato dai ricorrenti, che atterrebbe proprio alla traduzione in atti della volontà consiliare.
18.6 Da ciò l’incompetenza del Dirigente e dell’Assessore a pronunciarsi negativamente sull’istanza, secondo quanto dedotto con il secondo motivo di impugnazione proposto con il ricorso per motivi aggiunti.
19. Il Collegio deve astenersi, a questo punto, dall’esame del primo motivo dedotto con lo stesso ricorso per motivi aggiunti, avendo il vizio di incompetenza carattere necessariamente assorbente (cfr. Ad. plen., 27.04.2015, n. 5).
20. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso introduttivo del giudizio deve essere dichiarato in parte irricevibile e in parte inammissibile, mentre il ricorso per motivi aggiunti deve essere accolto, nei sensi ora esposti (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.04.2018 n. 884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Pianificazione urbanistica e esigenze di tutela ambientale ed ecologica.
All’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi e ciò in quanto l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’articolo 9 della Costituzione.
In tale contesto spetta all’Ente esponenziale effettuare una mediazione tra i predetti valori e gli altri interessi coinvolti, quali quelli della produzione o delle attività antropiche più in generale, che comunque non possono ritenersi equiordinati in via assoluta.
Nel perseguimento degli obiettivi di tutela stabiliti sia dal P.T.R. che dallo stesso P.T.C.P. e a protezione dei valori paesaggistici ivi indicati ben si possono introdurre ulteriori disposizioni, destinate a prevalere immediatamente sugli strumenti comunali e riferite anche ad aree e a beni che non siano stati direttamente e specificamente individuati dal P.T.R.; d’altra parte, il riconoscimento della possibilità per il P.T.C.P. di dettare siffatte previsioni appare del tutto rispondente alle finalità stesse dello strumento di pianificazione provinciale, cui l’art. 15 della l.r. n. 12/2005 attribuisce un ruolo di rilievo in tema di conservazione dei valori ambientali e paesaggistici
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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1. Il ricorso è infondato.
2. Con la prima e la seconda censura, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connesse, si assume che l’area di proprietà della ricorrente, in ragione della sua collocazione (cfr. Tavola 2, Sezione 6 del P.T.C.P.), sarebbe stata resa, anche per l’assenza in loco di nuclei di edifici, sostanzialmente inedificabile, in violazione dei principi di proporzionalità e di tutela paesistica, e pur in mancanza di un vincolo di inedificabilità di cui all’art. 134 del D.Lgs. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali); inoltre, illegittimamente, sarebbe stata riconosciuta efficacia prescrittiva a tutte le disposizioni contenute nell’art. 26 delle N.d.A. del P.T.C.P., altresì connotato da perplessità laddove prevede che i nuovi nuclei non possano avere un’altezza massima superiore a quella già presente nel nucleo di antica formazione, in ipotesi anche esterno al comparto, che limiterebbe notevolmente la possibilità di edificazione che, dovendosi concentrare in uno specifico settore territoriale, non potrebbe che svilupparsi in altezza; ulteriormente, la previa necessità di sottoporre i progetti di intervento all’esame di impatto paesistico determina un inutile aggravio procedimentale, visto che il P.G.T. già subordina lo sviluppo del comparto ad un Piano attuativo e alla stipula di un Accordo di programma con la Provincia e il Parco Sud.
2.1. Le doglianze sono infondate.
L’area di proprietà della ricorrente, collocata dal P.G.T. in Ambito di trasformazione denominato “AT1 Città Nuova”, è stata classificata dal P.T.C.P. in un Ambito di rilevanza paesistica (Tavola 2, sez. 6: all. 8 al ricorso).
Le previsioni riguardanti gli Ambiti di rilevanza paesistica possiedono una efficacia prescrittiva e prevalente in quanto appaiono certamente riconducibili al novero delle “previsioni in materia di tutela dei beni ambientali e paesaggistici in attuazione dell’articolo 77”, di cui alla lett. a dell’art. 18, comma 2, della legge regionale n. 12 del 2005.
Tale ultima disposizione opera ad un livello differente rispetto allo spettro applicativo dell’art. 134 del Codice dei beni culturali, e quindi nessun rilievo assume il riferimento ai vincoli di inedificabilità –peraltro nemmeno previsti con riguardo all’ambito in cui è situata la proprietà della ricorrente– discendenti da tale norma e finalizzati alla tutela del “paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali” (art. 131, comma 2).
Tornando alla disciplina relativa all’attività pianificatoria, l’art. 77 della legge regionale n. 12 del 2005 richiede la conformazione di tutti gli strumenti urbanistici agli “obiettivi” e alle “misure generali” di tutela paesaggistica, con facoltà di introdurre anche in sede di P.T.C.P. “previsioni conformative di maggiore definizione che, alla luce delle caratteristiche specifiche del territorio, risultino utili ad assicurare l’ottimale salvaguardia dei valori paesaggistici individuati dal PTR”.
La disposizione normativa non contiene, invero, alcun riferimento ad aree o a specifici beni di rilevanza paesaggistica, ma solo a “obiettivi”, “misure generali” e “valori paesaggistici” indicati dal P.T.R.; in tal senso appare utile richiamare la controdeduzione provinciale all’osservazione n. 2 formulata dalla ricorrente, laddove si afferma che ‘gli ambiti di rilevanza paesistica non rappresentano esclusivamente uno “stato di fatto” ma intendono esprimere anche la necessità di avviare un processo di costruzione del paesaggio perseguendo obiettivi quali l’integrazione delle istanze ambientali e paesaggistiche nei processi di trasformazione urbana e territoriale, il mantenimento della biodiversità, la creazione di elementi di qualità naturalistica polivalenti, la progettazione accurata degli spazi aperti e delle relazioni tra questi e il costruito, il recupero delle aree degradate quali occasioni per una vasta riqualificazione del contesto paesistico ecc. Tali ambiti non precludono l’edificazione’.
Deve quindi ritenersi che, nel perseguimento degli obiettivi di tutela stabiliti sia dal P.T.R. che dallo stesso P.T.C.P. e a protezione dei valori paesaggistici ivi indicati, ben si possano introdurre ulteriori disposizioni, destinate a prevalere immediatamente sugli strumenti comunali e riferite anche ad aree e a beni che non siano stati direttamente e specificamente individuati dal P.T.R., come evidenziato con chiarezza dalla Giunta regionale in sede di verifica del P.T.C.P. adottato (Deliberazione n. IX/4282 del 25.10.2012, pag. 19: all. 9 della Provincia).
D’altra parte, il riconoscimento della possibilità per il P.T.C.P. di dettare siffatte previsioni appare del tutto rispondente alle finalità stesse dello strumento di pianificazione provinciale, cui l’art. 15 della legge regionale n. 12 del 2005 attribuisce un ruolo di rilievo in tema di conservazione dei valori ambientali e paesaggistici (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1474; 08.10.2014, n. 2423).
A tal fine va richiamata anche la segnalazione, in sede di verifica regionale, relativa all’apparto normativo, secondo cui “gli articoli relativi alle previsioni in materia di tutela dei beni ambientali e paesaggistici (in attuazione dell’art. 77 LR 12/2005), devono avere efficacia prescrittiva e prevalente sugli atti dei PGT ai sensi dell’art. 18 della LR 12/2005. Pertanto si invita l’amministrazione provinciale a valutare e specificare gli aspetti prescrittivi degli articoli 17, 26, 28, 34, 58, 59, 60, e 61” (Deliberazione n. IX/4282 del 25.10.2012, pagg. 28-29: all. 9 della Provincia).
L’individuazione degli ambiti di rilevanza paesistica costituisce oltretutto scelta che involge interessi di carattere sovracomunale, ambientali e paesaggistici, la cui tutela è stata affidata dalla legge regionale n. 12 del 2005 –in ossequio ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all’art. 118, comma primo, della Costituzione– alla Regione e alle Province. Questi interessi sono dunque presi in considerazione dagli strumenti di pianificazione territoriale approvati da tali Enti (P.T.R. e P.T.C.P.) e si sovrappongono agli interessi di carattere urbanistico la cui tutela è principalmente affidata ai Comuni (TAR Lombardia, Milano, II, 05.04.2017, n. 798).
Va poi osservato che, come ogni altra scelta pianificatoria, queste decisioni sono espressione dell’ampia discrezionalità tecnica di cui l’Amministrazione dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità ed evidente travisamento dei fatti (ex plurimis, Consiglio di Stato, IV, 27.12.2007, n. 6686); e che, nel caso di specie, non sono stati evidenziati macroscopici profili di illogicità nelle scelte operate dalla Provincia, non apparendo, al contrario, illogici gli obiettivi “di perseguire la conservazione dei caratteri che definiscono l’identità e la leggibilità dei paesaggi attraverso il controllo dei processi di trasformazione finalizzato alla tutela delle preesistenze significative dei relativi contesti, oltre che il miglioramento della qualità paesaggistica ed architettonica degli interventi di trasformazione del territorio” (Deliberazione n. IX/4282 del 25.10.2012, pag. 19: all. 9 della Provincia; cfr., in giurisprudenza, TAR Lombardia, Milano, II, 05.04.2017, n. 798).
Infine, deve essere segnalato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi (cfr. Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656).
E ciò in quanto l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’articolo 9 della Costituzione; in tale contesto spetta all’Ente esponenziale effettuare una mediazione tra i predetti valori e gli altri interessi coinvolti, quali quelli della produzione o delle attività antropiche più in generale, che comunque non possono ritenersi equiordinati in via assoluta (cfr. Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n. 2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451).
2.2. Quanto alla asserita illegittima cogenza dell’indirizzo contenuto nell’art. 26, comma 3, punto b degli indirizzi, delle N.d.A., ossia il divieto di realizzare costruzioni con un’altezza massima superiore a quella degli edifici presenti all’interno del nucleo di antica formazione, la stessa va ritenuta infondata, giacché rientra nella discrezionalità dell’Amministrazione individuare i parametri costruttivi, purché gli stessi non siano abnormi o del tutto sganciati dal contesto di riferimento. La parte ricorrente ha rilevato che alcuni nuclei risultano posti a distanza rilevante rispetto al comparto di sua proprietà, ma per quanto emerge dall’esame delle tavole cartografiche depositate in giudizio, l’ambito “AT1 Città Nuova” risulta collocato in prossimità del nucleo di antica formazione di Rozzano e ciò impone il rispetto e la coerenza di ogni intervento costruttivo con il predetto punto di riferimento, al fine di garantire l’unitarietà del contesto paesaggistico (cfr. all. 3 e 8 al ricorso).
2.3. Anche la necessità di preventiva sottoposizione dei progetti di intervento all’esame di impatto paesistico di cui all’art. 26, comma 3, punto c delle prescrizioni, delle N.d.A., discende direttamente dalle disposizioni contenute nel Piano paesaggistico regionale, agli artt. 8, comma 3, e 35 e ss., e si riferisce a tutti i progetti che incidono sull’aspetto esteriore dei luoghi (all. 6 della Provincia).
2.4. Ciò determina il rigetto delle suesposte censure (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.04.2018 n. 880 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICARichiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità, va ribadito che in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
Oltretutto, gli specifici rilievi formulati dalla ricorrente, oltre ad impingere nel merito delle scelte dell’Amministrazione e a prospettare soltanto una differente valutazione del contesto fattuale di riferimento, non si fondano su elementi obiettivi in grado di dimostrare l’abnormità o l’evidente irragionevolezza delle determinazioni provinciali in relazione ai dati concreti posti alla base delle stesse, soprattutto avuto riguardo alla decisione di valorizzare il rapporto tra il tessuto urbano esistente e gli spazi aperti, al fine di salvaguardare l’identità dei luoghi e raggiungere un più elevato grado di qualità paesistica.
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In materia urbanistica non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto non tutelabile in sede giurisdizionale, tanto più se riferita a livelli di governo differenti.
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3. Con la terza doglianza si deduce l’illegittima inclusione negli insediamenti rurali di interesse storico di una struttura di recente costruzione denominata “Cascina Nuova” che, conseguentemente, è stata assoggettata ad una rigorosa disciplina vincolistica, ai sensi dell’art. 29 delle N.d.A.
3.1. La doglianza è infondata.
La ricorrente sostiene che tale complesso, denominato “Cascina Nuova”, sia costituito da edifici di moderna costruzione e sia in ogni caso privo di pregio storico, culturale, architettonico, ecc.; inoltre ci si troverebbe al cospetto di strutture fatiscenti e degradate e non più funzionali per l’esercizio dell’attività agricola, come dimostrato anche dalla mancata inclusione delle stesse nell’ambito della Zona A del previgente strumento urbanistico comunale.
In realtà, gli Uffici provinciali, in fase di controdeduzione all’osservazione n. 1 formulata dalla ricorrente, hanno sottolineato che “gli insediamenti rurali costituiscono elementi costitutivi della trama fondamentale del territorio agricolo. Il PTCP, nella sua componente paesistica, intende evidenziare tali elementi di origine storica, segnalati da apposito studio redatto per piano vigente, anche qualora in cattivo stato manutentivo o mutati nell’attuale destinazione d’uso, in quanto testimonianze di una precedente strutturazione del territorio. Tali elementi, se opportunamente valorizzati, possono costituire i potenziali valori cardine per la costruzione di un nuovo rapporto con gli spazi aperti che attribuisca identità ai luoghi e persegua il raggiungimento di un più elevato grado di qualità paesistica complessiva”.
Richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità, va ribadito che in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451).
Oltretutto, gli specifici rilievi formulati dalla ricorrente, oltre ad impingere nel merito delle scelte dell’Amministrazione e a prospettare soltanto una differente valutazione del contesto fattuale di riferimento, non si fondano su elementi obiettivi in grado di dimostrare l’abnormità o l’evidente irragionevolezza delle determinazioni provinciali in relazione ai dati concreti posti alla base delle stesse, soprattutto avuto riguardo alla decisione di valorizzare il rapporto tra il tessuto urbano esistente e gli spazi aperti, al fine di salvaguardare l’identità dei luoghi e raggiungere un più elevato grado di qualità paesistica (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 564).
3.2. Ciò determina il rigetto della predetta censura.
4. Con la quarta doglianza si deduce la carenza di motivazione e la contraddittorietà del comportamento provinciale con riguardo ai rilevanti limiti apposti all’edificabilità del comparto in cui è collocata la proprietà della ricorrente, in quanto soltanto l’anno precedente la stessa Provincia aveva dato parere favorevole all’adozione del P.G.T. di Rozzano, attraverso il quale era stata riconosciuta una adeguata potenzialità edificatoria alla medesima area; non sarebbe, altresì, stata chiarita la ragione della previsione di una fascia di rispetto dal Naviglio più estesa rispetto a quanto stabilito nel P.T.R.A. (Piano Territoriale Regionale d’Area dei Navigli Lombardi), che limita tale fascia a 100 m.
4.1. La doglianza è infondata.
La Provincia nel rendere al Comune di Rozzano il parere di compatibilità aveva già segnalato la presenza nell’ambito de quo di elementi di rilevanza paesistica-ambientale, che avrebbero dovuto condurre, in fase di progettazione e attuazione, alla compattazione e densificazione della forma urbana e all’individuazione di forme di compensazione ambientale (cfr. pag. 8, punto 4.3.1.2, all. 11 al ricorso).
Va poi evidenziato che il parere di compatibilità del P.G.T. ha avuto quale riferimento, a livello provinciale, il P.T.C.P. approvato nel 2003, ossia circa un decennio addietro; da ciò discende che non contrasta con il rilascio del parere di compatibilità del P.G.T. la successiva determinazione provinciale di regolamentare, con una certa dose di innovatività, seppure in sostanziale linea di continuità con il precedente strumento pianificatorio, una specifica area, tenendo conto che lo strumento urbanistico provinciale ha un livello di dettaglio minore rispetto al P.G.T. e comunque, già in sede di rilascio del parere di compatibilità, erano state evidenziate le linee direttrici relative alla valorizzazione e allo sviluppo non solo edilizio del comparto.
Infine, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto non tutelabile in sede giurisdizionale, tanto più se riferita a livelli di governo differenti (cfr. Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393).
4.2. Nemmeno risulta fondata la parte della censura con cui si deduce l’illegittima estensione della fascia di rispetto dalla sponda del Naviglio rispetto alle previsioni del P.T.R.A., in quanto la tutela contenuta nel P.T.C.P., oltre ad essere in continuità con le previsioni del precedente Piano provinciale del 2003, opera ad un livello differente rispetto a quello contenuto nel Piano regionale, trattandosi di strumenti urbanistici non solo espressione di livelli di governo diversi, ma anche destinati a tutelare ambiti non perfettamente omogenei, ovvero i corpi idrici, da una parte, e il paesaggio complessivamente inteso, dall’altra: si tratta di regimi normativi non sovrapponibili, ma coordinati e reciprocamente integrati.
4.3. Pertanto, anche la predetta doglianza va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.04.2018 n. 880 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nullità strutturale dell’atto amministrativo per assenza degli elementi essenziali.
Nel diritto amministrativo la categoria della nullità costituisce un’eccezione rispetto a quella generale dell’annullabilità, che in particolare la nullità strutturale (per assenza, cioè, degli elementi essenziali) si verifica tutte le volte in cui l’atto amministrativo sia privo dei requisiti necessari per poter essere giuridicamente qualificato come tale, sulla scorta di un raffronto meramente estrinseco rispetto al paradigma legale.
In questo quadro non costituisce causa di nullità l’omessa protocollazione dell’atto amministrativo, che anzi assume valore di mera irregolarità non viziante ai sensi dell’articolo 21-octies della legge n. 241/1990, perché non idonea ad incidere sul contenuto concreto dell’atto;
Lo stesso dicasi per la data dell’atto amministrativo, salvo che il decorso del tempo non determini la consumazione del potere in capo all’Amministrazione, e la stessa sottoscrizione dell’atto amministrativo può anche non assurgere a suo elemento essenziale, laddove concorrano altri dati testuali che consentano comunque la sicura attribuzione dell’atto all’Autorità amministrativa che lo ha adottato
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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Innanzitutto, va considerato che nel diritto amministrativo la categoria della nullità costituisce un’eccezione rispetto a quella generale dell’annullabilità, che in particolare –per quanto qui di interesse– la nullità strutturale (per assenza, cioè, degli elementi essenziali) si verifica tutte le volte in cui l’atto amministrativo sia privo dei requisiti necessari per poter essere giuridicamente qualificato come tale, sulla scorta di un raffronto meramente estrinseco rispetto al paradigma legale (cfr., C.d.S., Sez. V, sentenza n. 792/2012).
In questo quadro non costituisce causa di nullità l’omessa protocollazione dell’atto amministrativo, che anzi assume valore di mera irregolarità non viziante ai sensi dell’articolo 21-octies L. n. 241/1990, perché non idonea ad incidere sul contenuto concreto dell’atto (cfr., C.d.S., Sez. VI, sentenza n. 4113/2013). Lo stesso dicasi per la data dell’atto amministrativo, salvo che il decorso del tempo non determini la consumazione del potere in capo all’Amministrazione
E la stesa sottoscrizione dell’atto amministrativo può anche non assurgere a suo elemento essenziale, laddove concorrano altri dati testuali che consentano comunque la sicura attribuzione dell’atto all’Autorità amministrativa che lo ha adottato (cfr., TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, sentenza n. 5245/2017) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.04.2018 n. 876 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo -da esercitarsi in rapporto al principio fondamentale dell’art. 9 Cost.- è sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche.
Sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile.
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Nel caso di specie, peraltro, risulta per tabulas che il decreto di apposizione del vincolo indiretto e la presupposta relazione tecnico-scientifica siano stati rinotificati al ricorrente muniti di timbro, data e sottoscrizione, in tal modo superandosi tutti i vizi che presentavano i medesimi atti già impugnati con il ricorso principale.
Sotto il profilo motivazionale, va, invece, considerato che l’apposizione di un vincolo a tutela di un bene di interesse culturale è scelta tecnico-discrezionale caratterizzata da ampi margini di opinabilità, con la conseguenza che «l’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela -da esercitarsi in rapporto al principio fondamentale dell’art. 9 Cost.- è sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche; sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile» (così, TAR Lazio–Roma, Sez. II-quater, sentenza n. 7310/2017) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.04.2018 n. 876 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Zonizzazione acustica.
L’attività demandata all’Amministrazione per la classificazione acustica si connota in termini ampiamente discrezionali, sia quanto alla delimitazione delle singole zone, sia quanto alla loro classificazione, specialmente in relazione all'individuazione delle classi intermedie; la zonizzazione acustica costituisce, infatti, esercizio di un vero e proprio potere pianificatorio discrezionale, avente lo scopo di migliorare, ove possibile, l’esistente, ma tenendo conto della pianificazione urbanistica, al fine di non sacrificare le consolidate aspettative di coloro che sono legittimamente insediati nel territorio.
Le scelte effettuate dal Comune in subiecta materia, quindi, sono espressione di discrezionalità tecnica, ancorata all’accertamento di specifici presupposti di fatto, il primo dei quali è proprio il preuso del territorio; di guisa che, anche l’eventuale esercizio del potere discrezionale non può che essere esercitato secondo i principi di proporzionalità e ragionevolezza, i quali impongono alla Pubblica Amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato tenendo conto delle posizioni di interesse dei privati coinvolti.
Occorre evitare la suddivisione del territorio a “macchia di leopardo”, trattandosi di esigenza supportata anche da ragioni tecnico-scientifiche, atteso che il rumore, per sua natura, si diffonde da un luogo all’altro, per cui la classificazione acustica deve tener conto degli effetti prodotti dalla rumorosità delle attività antropiche non solo con riguardo alla zona in cui le stesse sono inserite, ma anche delle aree limitrofe, stante il carattere pervasivo e diffusivo del rumore
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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7. Il primo motivo è infondato.
7.1. La legge 26-10-1995 n. 447, recante la “Legge quadro sull'inquinamento acustico”, rappresenta la prima fonte normativa organica in materia di tutela dell’ambiente esterno e abitativo dall’inquinamento acustico (art. 1, comma 1).
Nel ripartire le competenze in detta materia fra Stato, Regioni, Provincie e Comuni, la legge quadro ha previsto (all’art. 3) che: “Sono di competenza dello Stato:
   a) la determinazione, ai sensi della L. 08.07.1986, n. 349, e successive modificazioni, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'ambiente, di concerto con il Ministro della sanità e sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, dei valori di cui all'articolo 2; …
”.
In attuazione di tale previsione è stato adottato il d.P.C.M. 14.11.1997, recante la determinazione dei “valori limite di emissione, i valori limite di immissione, i valori di attenzione ed i valori di qualità…”, i quali, specifica ancora il decreto, “sono riferiti alle classi di destinazione d'uso del territorio riportate nella tabella A allegata al presente decreto e adottate dai comuni ai sensi e per gli effetti dell'art. 4, comma 1, lettera a) e dell'art. 6, comma 1, lettera a), della legge 26.10.1995, n. 447” (cfr. art. 1, co. 2, d.P.C.M. 14.11.1997).
La Tabella A, dal canto proprio, prevede la classificazione del territorio comunale in sei classi, che vanno dalla “I”, che definisce le caratteristiche delle “aree particolarmente protette”, connotate come quelle “nelle quali la quiete rappresenta un elemento di base per la loro utilizzazione”, come ad esempio le aree ospedaliere, scolastiche o di particolare interesse urbanistico; all’ultima, la “VI”, concernente le “aree esclusivamente industriali” e relativa alle aree interessate soltanto da attività industriali e prive di insediamenti abitativi.
Nel mezzo sono, quindi, collocate:
   - in classe “II”: le “aree destinate ad uso prevalentemente residenziale” (quali quelle interessate prevalentemente da traffico veicolare locale, con bassa densità di popolazione e con limitata presenza di attività commerciali e assenza di attività industriali e artigianali);
   - in classe “III”: le “aree tipo misto” (quali quelle interessate da traffico veicolare locale o di attraversamento, con media densità di popolazione, con presenza di attività commerciali e uffici, con limitata presenza di attività artigianali e con assenza di attività industriali);
   - in classe “IV”: le “aree di intensa attività umana” (in cui rientrano quelle interessate da intenso traffico veicolare, con alta densità di popolazione, con elevata presenza di attività commerciali e uffici, con presenza di attività artigianali; le aree in prossimità di strade di grande comunicazione e di linee ferroviarie; le aree portuali, le aree con limitata presenza di piccole industrie).
   - in classe “V”: le “aree prevalentemente industriali” (ove rientrano quelle interessate da insediamenti industriali e con scarsità di abitazioni).
A completamento del quadro normativo è, poi, intervenuto il legislatore regionale della Lombardia che, con la legge n. 13 del 10.08.2001, ha stabilito tempi e modi della classificazione acustica territoriale da parte comunale, siccome preordinata “a suddividere il territorio in zone acustiche omogenee così come individuate dalla tabella A allegata al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 14.11.1997” (cfr. art. 2, co. 1, L.r. cit.).
In via attuativa, infine, la Giunta regionale Lombarda, dando seguito all'art. 2, comma 3, della L.R. n. 13 cit., ha provveduto a definire i criteri tecnici di dettaglio per la redazione della classificazione acustica del territorio comunale. Con deliberazione del 12.07.2002 n. VII/9776, in particolare, la Giunta ha, fra l’altro, stabilito, coerentemente ai criteri dettati dal legislatore regionale, che lo “scopo fondamentale della classificazione deve essere quello di rendere coerenti la destinazione urbanistica e la qualità acustica dell'ambiente”.
Chiarendo, poi, ulteriormente che: “per definire la classe acustica di una determinata area e quindi i livelli del rumore presenti o previsti per quell'area ci si deve in primo luogo basare sulla destinazione urbanistica. La classificazione viene attuata avendo come riferimento la prevalenza delle attività insediate”.
Quanto al procedimento per l'individuazione delle zone acustiche, si legge, nella richiamata d.G.R., che: “Si intende per area una qualsiasi porzione di territorio che possa essere individuata tramite una linea poligonale chiusa. Si intende per classe una delle sei categorie tipologiche di carattere acustico individuate nella tabella A del D.P.C.M. 14.11.1997. Si intende per zona acustica la porzione di territorio comprendente una o più aree, delimitata da una poligonale chiusa e caratterizzata da un identico valore della classe acustica. La zona, dal punto di vista acustico, può comprendere più aree (unità territoriali identificabili) contigue anche a destinazione urbanistica diversa, ma che siano compatibili dal punto di vista acustico e possono essere conglobate nella stessa classe”.
Proseguendo sul punto, la Giunta -pur precisando come non esistano dimensioni definibili a priori per l'estensione delle singole zone– ha puntualizzato come si debba, da un lato, evitare un eccessivo spezzettamento del territorio urbanizzato con zone a differente valore limite, anche al fine di rendere possibile un controllo della rumorosità ambientale e di rendere stabili le destinazioni d'uso, acusticamente compatibili, di parti sempre più vaste del territorio comunale; e, dall’altro, ha esortato ad evitare di introdurre un'eccessiva semplificazione, che porterebbe ad un appiattimento della classificazione sulle classi intermedie III o IV.
7.2 Dal quadro sin qui tratteggiato, si ricava come l’attività demandata all’Amministrazione, per la classificazione acustica in parola, si connoti in termini ampiamente discrezionali, sia quanto alla delimitazione delle singole zone, che quanto alla loro classificazione, specialmente in relazione all'individuazione delle classi intermedie (II, III e IV).
La zonizzazione acustica costituisce, infatti, esercizio di un vero e proprio potere pianificatorio discrezionale, avente lo scopo di migliorare, ove possibile, l’esistente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 07.05.2015, n. 2316, conferma TAR Lombardia, Milano, sez. II, 11.01.2013, n. 87; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 02.04.2015, n. 477; id. Sez. I, 02.04.2015, n. 478) ma tenendo conto della pianificazione urbanistica, al fine di non sacrificare le consolidate aspettative di coloro che sono legittimamente insediati nel territorio (TAR Toscana, sez. II, 04.11.2011, n. 1650, id., sez. II, 11.12.2010 n. 6724).
Le scelte effettuate dal Comune in subiecta materia, quindi, sono espressione di discrezionalità tecnica, ancorata all’accertamento di specifici presupposti di fatto, il primo dei quali è proprio il preuso del territorio (cfr. TAR Veneto, sez. III, 24.01.2007, n. 187; TAR Liguria, sez. I, 21.02.2007 n. 354).
Di guisa che, anche l’eventuale esercizio del potere discrezionale non può che essere esercitato secondo i principi di proporzionalità e ragionevolezza, i quali impongono alla Pubblica Amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato tenendo conto delle posizioni di interesse dei privati coinvolti (TAR Lazio, Latina, sez. I, 16.09.2015, n. 616; TAR Veneto, sez. I, 30.05.2016, n. 568; TAR Toscana, I, 12.12.2016 n. 1771).
7.3. Ebbene, con specifico riguardo al caso di specie, il Collegio ritiene che la scelta dell’Amministrazione, concretizzatasi nella classificazione di tutto il centro storico, inclusa Piazza della Libertà, in classe III, sia esente dai vizi denunciati col ricorso.
Dalla documentazione prodotta in atti, infatti, la Piazza in questione risulta coerentemente classificata in modo omogeneo rispetto al contesto urbano circostante, senza che si appalesino nella Piazza stessa elementi di tale pregnanza da giustificarne una classificazione differenziata rispetto al contesto medesimo.
Al riguardo, non va sottaciuta l’esigenza –chiaramente avvertita in materia di pianificazione acustica– di evitare la suddivisione del territorio a “macchia di leopardo”, trattandosi di esigenza supportata anche da ragioni tecnico-scientifiche, atteso che il rumore, per sua natura, si diffonde da un luogo all’altro ( cfr. TAR Lombardia, Milano, IV sezione, 2015 n. 133, per cui “la classificazione acustica deve tener conto degli effetti prodotti dalla rumorosità delle attività antropiche non solo con riguardo alla zona in cui le stesse sono inserite, ma anche delle aree limitrofe, stante il carattere pervasivo e diffusivo del rumore”- v. anche TAR Lombardia, sez. IV, 11.10.2017, n. 1954).
Detta Piazza rappresenta, infatti, una delle principali di Lissone, secondo Comune della Brianza, con circa 45.000 abitanti. La zona risulta, poi, caratterizzata dalla presenza di funzioni terziarie e commerciali, atteso che, sempre come documentato in atti, direttamente sulla piazza affacciano le filiali di due istituti bancari mentre un terzo si trova nelle immediate vicinanze e alla stessa distanza è collocato l’ufficio postale (cfr. All. 13 di parte resistente).
Sulla Piazza si affacciano ancora un supermercato OVS (cfr. All. 1 di parte resistente), la Farmacia Centrale (cfr. All. 6 di parte resistente) e vari pubblici esercizi (bar, ristoranti, caffetterie, gelaterie, pizzerie – v. All. 3, 4, 5, 6, 7, 8, 11 di parte resistente). A circa 150 mt si trova la biblioteca comunale e a circa 250 mt il Municipio (vd.si All. 14 e 15 di parte resistente). Nel raggio di 180 mt, infine, si trovano studi professionali di diversa natura, artigiani e attività terziarie (cfr. All. 16, 17 e 18 di parte resistente).
La Piazza stessa risulta anche attraversata, sul lato nord, dal traffico veicolare locale (nel punto tra via Sant’Antonio e Via Palazzine) mentre l’intero centro storico risulta caratterizzato da notevole afflusso di veicoli vista anche la rilevanza delle funzioni e delle attività che vi sono ospitate. L’edificazione dell’area poi non è certo a bassa densità come dimostrano le immagini prodotte in giudizio, dove risultano anche edifici da 4 a 6 piani (v. foto All. 16 di parte resistente).
La zona comprensiva della Piazza si presenta, dunque, pienamente in linea con le caratteristiche della classe III, come sopra riportate e come declinate nella Tabella A, annessa al d.P.C.M. 14/11/1997, oltreché nella d.G.R. citata.
Si tratta, in definitiva, di un’area che presenta caratteristiche non dissimili dal restante centro storico e che risulta pertanto riconducibile fra le aree di tipo misto, così come sopra connotate, in modo del tutto coerente con la classificazione urbanistica del centro storico, dove è ammessa una pluralità di funzioni.
7.4. L’esponente richiama l’attenzione sul Palazzo Terragni che, tutelato come bene storico-artistico, consentirebbe di catalogare l’area fra quelle "di particolare interesse storico artistico e architettonico" che, in base alla d.G.R. citata, sarebbero suscettibili di essere inserite in Classe II.
Sennonché, va rammentato come la citata delibera regionale per i centri storici prescriva che: “… salvo quanto sopra detto per le aree di particolare interesse storico-artistico-architettonico, di norma non vanno inseriti in Classe II, vista la densità di popolazione nonché la presenza di attività commerciali e uffici, e ad esse dovrebbe essere attribuita la classe III o IV”.
Ebbene, contrariamente all’assunto dell’esponente, l’area in questione non può dirsi rientrante fra le ipotesi fatte salve dalla disposizione in esame, in quanto, in disparte la sua effettiva riconducibilità fra le aree di particolare interesse storico-artistico-architettonico, la stessa d.G.R. esonera dette aree dal normale assoggettamento alla classe III o IV solo laddove “la quiete costituisca un requisito essenziale per la loro fruizione” (v.si All. 13 parte ricorrente, pag. 2.459).
Ciò che non può certo affermarsi in relazione al caso di specie, dove Palazzo Terragni, opera dell’architettura razionalista italiana presente sul lato Est della Piazza, di proprietà comunale, costituisce tuttora un luogo di spettacolo (cfr. doc. 17 degli allegati di ricorrente, dove il Palazzo risulta sede del Teatro comunale) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 27.03.2018 n. 829 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera; ma deve intendersi fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privata.
In definitiva, in ragione della natura vincolata dell'ordine di demolizione, non è necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento.

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5. - Venendo all’articolato primo motivo di ricorso, col quale vengono lamentati violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 241 del 1990, nonché eccesso di potere, specialmente per carenza di istruttoria, travisamento dei fatti e contraddittorietà, anch’esso si rivela infondato.
5.1 - La doglianza inerente il presunto mancato coinvolgimento nel procedimento di adozione dell’ingiunzione a demolire risulta priva di rilievo, atteso che in materia di illeciti, e segnatamente di illeciti edilizi, l’avvenuta constatazione della fattispecie per come cristallizzata negli atti del sopralluogo assorbe la comunicazione di avvio del procedimento, scaturendo i provvedimenti sospensivi e demolitori ope legis dagli stessi.
Rammenta al riguardo la Sezione che, per costante giurisprudenza, <<l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera; ma deve intendersi fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privata>> (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 08.04.2016, n. 1393, nonché id., Sez. IV, 02.11.2016, n. 4577).
In definitiva, in ragione della natura vincolata dell'ordine di demolizione, non è necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né un'ampia motivazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 29/11/2017, n. 5595).
Non rileva poi nemmeno la lamentata mancata notifica all’interessato della relazione di sopralluogo della Polizia Municipale, essendo i provvedimenti impugnati dotati, come s’è detto, di motivazione per relationem, della quale l’interessato era in grado di acquisire tutti gli elementi a seguito della notifica dell’ordinanza di demolizione con richiesta di accesso agli atti, che non risulta invece esperita (peraltro, nonostante il ricorrente sottolinei ripetutamente che la relazione di sopralluogo fosse da lui non conosciuta, basa poi, contraddicendosi, sulla stessa l’argomento di cui a pag. 7 ric., secondo il quale “i vigili avrebbero rinvenuto nella proprietà … un manufatto ancora in itinere”) (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 27.03.2018 n. 815 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La pertinenza urbanistica, come noto, è configurabile solo quando vi sia un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione del bene accessorio a suddetto uso pertinenziale durevole, sempreché l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico.
Per l’insorgere di tale nesso la volontà del soggetto cui appartengono le cose di creare un vincolo di destinazione pertinenziale, è necessaria, ma non sufficiente, se poi tra di esse non sussiste oggettivamente tale vincolo di strumentalità necessaria.

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5.3 – Quanto alla asserita natura pertinenziale del manufatto realizzato, essa, peraltro, non risulta in alcun modo dimostrata dalla parte.
La pertinenza urbanistica, come noto, è configurabile solo quando vi sia un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione del bene accessorio a suddetto uso pertinenziale durevole, sempreché l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico (cfr. Cons. St., Sez. VI, 29.01.2015, n. 406; id., Sez. VI, 05.01.2015, n. 13).
Per l’insorgere di tale nesso la volontà del soggetto cui appartengono le cose di creare un vincolo di destinazione pertinenziale, è necessaria, ma non sufficiente, se poi tra di esse non sussiste oggettivamente tale vincolo di strumentalità necessaria.
Nel caso di specie, l’esistenza del rapporto pertinenziale non può mutuarsi sic et simpliciter dalla asserita intenzione di destinare la “loggia” -rectius, più propriamente, il manufatto in muratura- a protezione di un serbatoio idrico.
Rileva per completezza la Sezione che di suddetto serbatoio, la conoscenza delle dimensioni e della funzione del quale avrebbe potuto risultare utile ad un più completo inquadramento della fattispecie, non è traccia nella documentazione in atti, ivi comprese le rilevazioni della Polizia municipale.
In sintesi, non può ritenersi comprovata in alcun modo la sussistenza di tutti gli elementi costituivi del presunto rapporto pertinenziale, essendosi la parte limitata a richiamare la funzione ipotetica della “loggia” quale protezione dalle avversità metereologiche del menzionato serbatoio idrico ed avendo per ciò solo inquadrato l’opera tra quelle assentibili con D.I.A. ex art. 22 del d. P.R. n. 380/2001 (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 27.03.2018 n. 815 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abbattimento delle barriere architettoniche e normativa sulle distanze.
Ai sensi del combinato disposto degli articoli 78 e 79 del d.P.R. n. 380/2001, nonché dell’art. 19 della l.r. n. 6/1989, le opere dirette all’abbattimento delle barriere architettoniche possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile.
Non risulta, dunque, applicabile in tali casi l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, atteso che l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 79 del d.p.r. n. 380/2001 porta ad estendere la deroga delle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi (dettate nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di normazione primaria, con il corollario di dover limitare al dato testuale il richiamo all’art. 873 c.c. e quindi dell’inapplicabilità della disciplina delle distanze dai fabbricati alieni prevista dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968.
La normativa suddetta prevede, quindi, per l’abbattimento delle barriere architettoniche, una specifica e automatica deroga alla disciplina delle distanze prevista dagli strumenti urbanistici comunali, senza la necessità di valutazioni discrezionali dell’Amministrazione; né l’applicazione di tale normativa è preclusa per la realizzazione di nuove opere prive di autonomia funzionale, come gli ascensori, che vengono ritenuti dalla giurisprudenza alla stregua di “volumi tecnici o impianti tecnologici”, e come la scala realizzata all’esterno per assicurare l’uscita degli utenti dall’ascensore senza incontrare ostacoli architettonici costituiti dai gradini preesistenti
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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Con il presente ricorso la società istante ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe, con il quale è stata approvata la deroga alle distanze previste dalla disciplina urbanistica comunale in relazione ad una variante di progetto presentata dalle controinteressate per la realizzazione di un ascensore e di un vano scala all’esterno della sagoma dell’immobile di loro proprietà in applicazione della legislazione sull’eliminazione delle barriere architettoniche.
In seguito a tale approvazione, il progetto si trova a un confine di 9 metri invece che di 10 rispetto alla costruzione della ricorrente.
...
Nel merito, il ricorso è infondato, riportandosi, essenzialmente, il collegio alla costante giurisprudenza del giudice amministrativo per la quale: “Si intendono per barriere architettoniche -ai sensi dell'art. 2, lett. A), punti a) e b), d.m. 14.06.1989 n. 236 ("Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione delle barriere architettoniche")- "gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la mobilità di chiunque ed in particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria ridotta o impedita, in forma permanente o temporanea", ovvero "gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature e componenti". Appare pertanto evidente che fra tali ostacoli debbono annoverarsi le scale dei palazzi a più piani, non affrontabili in assoluto da soggetti deambulanti con sussidi ortopedici, o comunque fonte di affaticamento -e, dunque, di "disagio"- per chiunque, a causa dell'età o di patologie di varia natura, abbia ridotte capacità di compiere sforzi fisici. Invero, non può ragionevolmente negarsi che l'installazione di ascensori costituisca anche rimozione di barriere architettoniche” (Cons. Stato, sez. VI , 05.03.2014, n. 1032).
Alla luce della giurisprudenza succitata, gli interventi realizzati rientrano nell’ambito di applicazione della disciplina sul superamento delle barriere architettoniche, non trattandosi, quindi, come affermato da parte ricorrente, di opere idonee a migliorare i servizi e il valore immobiliare dell’edificio.
Ed invero, nella fattispecie in questione l’intervento è stato realizzato per adeguare l’immobile, costituito da più di tre livelli fuori terra, alla normativa sull’eliminazione delle barriere architettoniche. E’ stato, dunque, realizzato un ascensore, sono state demolite le vecchie scale condominiali interne, troppo strette per montare il servoscale, e costruite delle scale esterne.
Ai sensi del combinato disposto degli articoli 78 e 79 del d.P.R. n. 380/2001, nonché dell’art. 19 della legge regionale n. 6/89, le opere dirette all’abbattimento delle barriere architettoniche possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile. Non risulta, dunque, applicabile in tali casi l’art. 9 del d.m. n. 1444/1968.
E’ stato, invero, affermato che l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 79 del d.p.r. n. 380/2001 porta ad estendere la deroga delle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi (dettate nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di normazione primaria, con il corollario di dover limitare al dato testuale il richiamo all’art. 873 c.c. e quindi dell’inapplicabilità della disciplina delle distanze dai fabbricati alieni prevista dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968 (cfr. TAR Lazio, Latina, 22.09.2014, n. 726).
La normativa suddetta prevede, quindi, per l’abbattimento delle barriere architettoniche, una specifica e automatica deroga alla disciplina delle distanze prevista dagli strumenti urbanistici comunali, senza la necessità di valutazioni discrezionali dell’Amministrazione.
Né l’applicazione di tale normativa è preclusa per la realizzazione di nuove opere prive di autonomia funzionale, come gli ascensori, che vengono ritenuti dalla giurisprudenza alla stregua di “volumi tecnici o impianti tecnologici” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 05.12.2012, n. 6253), e come la scala, nel caso di specie, realizzata all’esterno per assicurare l’uscita degli utenti dall’ascensore senza incontrare ostacoli architettonici costituiti dai gradini preesistenti.
La ricorrente assume, inoltre, che sarebbero state possibili alternative all’intervento realizzato, ma senza fornire alcuna prova del proprio assunto, né sono fondate le considerazioni relative alla assunta creazione di una ingiusta servitù a carico della ricorrente, atteso che l’art. 79 del d.P.R. n. 380/2001 non esclude il principio di reciprocità nell’applicazione della normativa in deroga al regime sulle distanze.
In relazione, poi, all’asserita carenza di motivazione e di istruttoria della delibera consiliare impugnata, dall’esame della stessa risulta una, seppur sintetica, motivazione che dà atto dell’autonoma valutazione effettuata dal Consiglio comunale, espressosi in esecuzione della sentenza n. 72/2009 di questo Tribunale, che aveva accolto il ricorso per incompetenza disponendo la “rimessione dell’affare all’organo consiliare competente”.
Ed invero, secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, nel caso di provvedimenti affetti solo da vizi di carattere formale, come quello di incompetenza, non è necessaria una particolare, dettagliata motivazione in ordine all’oggetto del provvedimento da convalidare e degli atti a questo antecedenti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.05.2011, n. 2863).
E tale orientamento risulta tanto più applicabile nel caso di determinazione vincolata, come nella fattispecie all’esame del Collegio.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 27.03.2018 n. 809 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva – Art. 30 d.P.R. n. 380/2001 – Adozione di atti amministrativi sanzionatori – Pregiudiziale penale – Non è richiesta – Principi fissati dalla Corte di Strasburgo in tema di confisca penale – Inapplicabilità.
L’art. 30 del d.P.R. n. 380/2001 prevede l’adozione di atti amministrativi volti a colpire e sanzionare sul piano amministrativo la lottizzazione abusiva di terreni, senza che sia prevista alcuna pregiudiziale penale, cioè di previa verifica della sussistenza della responsabilità penale di cui all’art. 44, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, per cui il provvedimento di acquisizione del terreno, in via amministrativa, non presuppone la previa pronuncia di una sentenza di condanna penale.
Il provvedimento amministrativo de quo non può, quindi, essere equiparato o assimilato alla confisca penale, per cui non valgono nemmeno i principi fissati dalla Corte di Strasburgo riguardo a quest’ultima tipologia di misura (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.03.2018 n. 1878 - link a
www.ambientediritto.it).

URBANISTICA:  Effetti di un nuovo strumento urbanistico sulle pattuizioni di natura privata contenute in una convenzione urbanistica.
La sussistenza di una convenzione urbanistica non può impedire in assoluto al Comune di introdurre, in sede di nuova pianificazione, una disciplina diversa da quella prevista dalla convenzione stessa; ragionare a contrario significherebbe negare il principio di continuità dell’azione amministrativa la quale, al contrario, deve poter sempre essere esercitata –anche con esiti diversi rispetto a quelli precedenti– onde assicurare la perdurante tutela all’interesse pubblico.
Tuttavia, ciò non significa che il sopravvenuto strumento urbanistico possa travolgere le pattuizioni liberamente assunte dai privati con le quali, per la tutela dell’interesse privato, vengono disposte limitazione all’attività costruttiva.
In presenza di queste pattuizioni, il privato che si è vincolato con la stipula del contratto, non può costruire liberamente adducendo la compatibilità dell’intervento al sopravvenuto strumento urbanistico, ma dovrà comunque attenersi ad esse, violando, in caso contrario, i diritti degli altri soggetti (nella fattispecie il TAR Milano ha dato atto che la precedente convenzione urbanistica aveva fatto sorgere, fra i diversi proprietari parti della convenzione stessa, reciproci obblighi di natura civilistica, aventi ad oggetto il divieto di apportare future modifiche volumetriche agli edifici realizzati)
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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30. In proposito il Collegio osserva quanto segue.
31. Come correttamente rileva la ricorrente, la sentenza n. 6186 del 2008 ha chiarito che l’art. 3 della convenzione urbanistica del 1987 ha fatto sorgere, fra i diversi proprietari parti della convenzione stessa, reciproci obblighi di natura civilistica, aventi ad oggetto il divieto di apportare future modifiche volumetriche agli edifici realizzati. In sostanza, quindi, la convenzione urbanistica ha fatto sorgere, con riferimento ad ogni singolo lotto, un diritto di servitù gravante sui lotti vicini.
32. La ragione di questa previsione è presumibilmente dovuta al fatto che l’area interessata dal piano urbanistico si affaccia sul Lago di Como e che, conseguentemente, i proprietari dei diversi lotti hanno voluto assicurarsi il diritto di mantenere inalterata, anche per il futuro, la veduta sul Lago.
33. L’annullamento dei titoli impugnati in quel giudizio è stato quindi disposto in quanto gli stessi sono stati rilasciati a soggetti non legittimati ad eseguire interventi comportanti aumento volumetrico degli edifici esistenti, e ciò in ritenuta violazione dell’art. 11, primo comma, del d.lgs. n. 380 del 2001 il quale, come noto, stabilisce che il permesso di costruire può essere rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
34. Come anticipato, con il ricorso in esame, vengono impugnati l’autorizzazione paesaggistica ed il permesso di costruire che assentono la realizzazione di un intervento pressoché identico a quello oggetto della precedente controversia.
35. Sia il Comune di Tremezzina che i controinteressati sostengono che, nonostante quanto disposto nella precedente sentenza di questo TAR, i suddetti titoli potrebbero oggi essere legittimamente rilasciati stante l’intervenuta approvazione del nuovo PGT il quale avrebbe completamente sostituito la disciplina urbanistica in precedenza dettata per il compendio di interesse, senza peraltro prevedere alcun divieto di ampliamento volumetrico degli edifici esistenti. Le parti rilevano che argomentare a contrario significherebbe negare al Comune la possibilità di esercizio continuativo del proprio potere di pianificazione territoriale, con l’assurdo risultato di cristallizzare permanentemente, per una singola area, la disciplina dettata da un risalente piano attuativo.
36. Ritiene il Collegio che queste argomentazioni non siano del tutto condivisibili.
37. Si deve senz’altro convenire con le parti resistenti quando affermano che la sussistenza di una convenzione urbanistica non può impedire in assoluto al Comune di introdurre, in sede di nuova pianificazione, una disciplina diversa da quella prevista dalla convenzione stessa. Ragionare a contrario significherebbe, come rilevano le parti, negare il principio di continuità dell’azione amministrativa la quale, al contrario, deve poter sempre essere esercitata –anche con esiti diversi rispetto a quelli precedenti– onde assicurare la perdurante tutela all’interesse pubblico.
38. Ciò non significa però che il sopravvenuto strumento urbanistico possa travolgere le pattuizioni liberamente assunte dai privati con le quali, per la tutela dell’interesse privato appunto, vengono disposte limitazione all’attività costruttiva. In presenza di queste pattuizioni, il privato che si è vincolato con la stipula del contratto, non può costruire liberamente adducendo la compatibilità dell’intervento al sopravvenuto strumento urbanistico, ma dovrà comunque attenersi ad esse, violando, in caso contrario, i diritti degli altri soggetti.
39. Ciò è proprio quanto accaduto nel caso in esame atteso che –come ha chiarito la sentenza n. 6186 del 2008– l’art. 3 della convenzione urbanistica del 1987 ha fatto sorgere, in capo ciascun proprietario, il diritto soggettivo a che le costruzioni poste sui lotti vicini mantengano la conformazione volumetrica esistente: la realizzazione di un intervento di innalzamento del sottotetto comportante aumento volumetrico dell’edificio esistente viola quindi tali diritti.
40. I controinteressati sostengono che, nel caso concreto, il sopravvenuto PGT avrebbe determinato l’estinzione dell’obbligazione in quanto factum principis che renderebbe impossibile la prestazione che ne costituisce oggetto.
41. Questa argomentazione non può essere condivisa in quanto –al di là del fatto che i diritti di cui si discute sembrano aver consistenza reale per cui non paiono applicabili la norme sull’estinzione dell’obbligazione per impossibilità sopravvenuta– il PGT (autorizza ma) non obbliga l’effettuazione di interventi che comportino il recupero a fini abitativi del sottotetto degli edifici esistenti. Non vi è dunque alcun impedimento al rispetto del divieto di ampliamento sancito dalla convenzione.
42. A questo punto va precisato che –come parimenti chiarito nella sentenza n. 6186 del 2008– la violazione dei diritti dei vicini non è ininfluente ai fini della valutazione della legittimità dei titoli abilitativi che assentono la realizzazione dell’opera. L’art. 11, comma primo, del d.lgs. n. 380 del 2001 impone, infatti, ai comuni l’obbligo di accertare la legittimazione del richiedente il titolo; legittimazione evidentemente insussistente in capo a chi pretende di costruire violando un diritto di servitù.
43. Né può ritenersi che tale accertamento fosse eccessivamente gravoso per il Comune di Tremezzina atteso che, come ancora rilevato nella sentenza n. 6186 del 2008, i diritti di cui si discute trovano la loro fonte in una convenzione urbanistica di cui è parte lo stesso Comune e di cui quest’ultimo ha, quindi, piena disponibilità.
44. Si deve pertanto ritenere che sia l’autorizzazione paesaggistica che il permesso di costruire impugnati in questa sede riproducono gli stessi vizi dei precedenti atti e si pongono, perciò, in contrasto con le statuizioni contenute nella sentenza n. 6186 del 2008. Questi atti sono quindi affetti da nullità ai sensi dell’art. 21-speties della legge n. 241 del 1990.
45. Per quanto riguarda la domanda risarcitoria, ritiene il Collegio che essa vada respinta in quanto non è provata la sussistenza della colpa in capo all’Amministrazione. Quest’ultima infatti, pur errando per le ragioni illustrate, ha emesso i provvedimenti impugnati confidando nella loro legittimità stante l’intervenuta approvazione del nuovo strumento urbanistico.
46. Né si può ritenere che l’errore fosse facilmente evitabile stante l’insussistenza di consolidati orientamenti giurisprudenziali sulle questioni giuridiche affrontate in questa sede (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.03.2018 n. 784 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Impugnazione di una norma di regolamento.
Ai fini del giudizio di ammissibilità dell'impugnazione di una norma di regolamento, occorre distinguere tra regolamenti contenenti “volizioni preliminari ”, caratterizzati da generalità ed astrattezza, ovvero da previsioni normative astratte e programmatiche, che non si traducono in un’immediata incisione della sfera giuridica del destinatario, e regolamenti contenenti “volizioni azioni”, ossia previsioni destinate alla diretta applicazione, come tali capaci di produrre un immediato effetto lesivo della sfera giuridica del destinatario.
I regolamenti che contengono disposizioni suscettibili di arrecare, in via immediata, una lesione attuale dell'interesse di un soggetto, vanno pertanto autonomamente e immediatamente impugnati, essendo conseguentemente inammissibile il ricorso avverso un atto regolamentare che abbia natura immediatamente precettiva, qualora ciò abbia luogo solo in occasione dell'adozione dell’atto esecutivo, meramente attuativo, essendo invece onere della parte interessata attivarsi nell'ordinario termine di decadenza
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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III) Con il primo motivo, l’istante deduce altresì l’abnormità del citato art. 5 del Regolamento Comunale, che nel consentire l’esercizio di una sola sala giochi ogni 5.000 abitanti, finirebbe per sancire surrettiziamente il criterio della priorità, avendo il Comune di San Martino una popolazione di circa 6.000 residenti, violando così l’art. 3 del D.L. n. 223/2006, la Direttiva Bolkestein, il D.L. 13.08.2011 n. 138, e la normativa regionale in materia.
III.1) Ritiene il Collegio di poter prescindere dallo scrutinio del presente motivo, avendo il provvedimento impugnato una motivazione plurima, ed essendosi accertato, in esito allo scrutinio dei precedenti motivi, la legittimità di uno dei due profili su cui il medesimo si fonda.
Come detto, l’ordinanza impugnata ha disposto la chiusura della sala da giochi della ricorrente per un duplice ordine di motivi, e pertanto, sia poiché la stessa è stata gestita in “assenza dell’autorizzazione comunale”, che a causa della “violazione dei criteri previsti dal Regolamento Comunale”.
Conseguentemente, anche qualora in esito allo scrutinio del presente motivo, il medesimo venisse accolto, ritenendo pertanto che il citato Regolamento sia effettivamente illegittimo, il provvedimento impugnato manterrebbe tuttavia la propria validità, considerato che la ricorrente, per oltre sei anni, ha gestito la propria sala giochi in assenza della prescritta autorizzazione.
III.2) Fermo restando quanto precede, ad abundantiam, il Collegio dubita fortemente della tempestività dell’impugnazione del Regolamento Comunale, come dedotto dalla difesa della resistente.
III.2.1) In linea generale, osserva il Collegio che, ai fini del giudizio di ammissibilità dell'impugnazione di una norma di regolamento, occorre distinguere tra regolamenti contenenti “volizioni preliminari”, caratterizzati da generalità ed astrattezza, ovvero da previsioni normative astratte e programmatiche, che non si traducono in un’immediata incisione della sfera giuridica del destinatario, e regolamenti contenenti “volizioni azioni”, ossia previsioni destinate alla diretta applicazione, come tali capaci di produrre un immediato effetto lesivo della sfera giuridica del destinatario (TAR Toscana, Sez. I, 08.09.2015, n. 1194).
I regolamenti che contengono disposizioni suscettibili di arrecare, in via immediata, una lesione attuale dell'interesse di un soggetto, vanno pertanto autonomamente ed immediatamente impugnati (C.S. Sez. V, 07.10.2016, n. 4130), essendo conseguentemente inammissibile il ricorso avverso un atto regolamentare che abbia natura immediatamente precettiva, qualora ciò abbia luogo solo in occasione dell'adozione dell’atto esecutivo, meramente attuativo, essendo invece onere della parte interessata attivarsi nell'ordinario termine di decadenza (C.S. Sez. V, 19.11.2009, n. 7258).
III.2.2) Nella fattispecie per cui è causa, a fronte dell’approvazione del Regolamento Comunale in data 23.09.2010, il 22.10.2010, e pertanto nei termini per poterlo impugnare, la ricorrente ha presentato un’istanza di autorizzazione, a cui era applicabile il nuovo regime, ciò che ha inevitabilmente fatto sorgere l'interesse alla sua immediata impugnazione (TAR Lazio, Latina, Sez. I, 16.02.2016, n. 103), che non ha tuttavia avuto luogo.
Con il primo motivo del citato ricorso R.G. n. 495/2011, l’istante ha infatti sostenuto che il citato Regolamento non avrebbe potuto essere applicato alla fattispecie, in quanto non ancora entrato in vigore al momento della proposizione dell’istanza. La sentenza n. 1318/2011, ha tuttavia respinto il motivo, osservando che la ricorrente, dopo aver presentato una prima istanza in data 22.10.2010, l’aveva reiterata, espressamente dichiarando che la stessa era proposta “in piena vigenza della nuova disciplina”, riconoscendone pertanto apertamente la diretta applicabilità al caso di specie, come desumibile dalla sua premessa (“che ai sensi della normativa vigente il rilascio della licenza deve essere effettuato per ogni 5.000 abitanti”).
In conclusione, sulla base del giudicato di cui alla sentenza n. 1318/2011, nell’anno 2010, la ricorrente era a conoscenza del contenuto del Regolamento Comunale posto a fondamento del provvedimento in questa sede impugnato, avendo inoltre sostenuto che il medesimo fosse alla stessa direttamente applicabile, e senza averlo tuttavia tempestivamente impugnato, malgrado le sue prescrizioni fossero immediatamente cogenti, a prescindere da qualunque provvedimento applicativo (V. per un caso simile TAR Lazio, Roma, Sez. I, 13.12.2011, n. 9715, che ha ritenuto riconducibile alle c.d. “volizioni azioni” le previsioni di un regolamento che obbligavano le società ivi indicate ad avere la sede legale in un determinato territorio, laddove quello in questa sede impugnato ha sostanzialmente precluso l’esercizio di una determinata attività in un territorio).
Il ricorso va pertanto respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.03.2018 n. 766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Limiti per l’applicabilità del c.d. terzo condono edilizio nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico.
Ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), del decreto legge n. 269 del 30.09.2003, convertito nella legge n. 326 del 24.11.2003 (c.d. terzo condono), le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, sono sanabili solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
   a) si tratti di opere realizzate prima dell'imposizione del vincolo;
   b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
   c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria);
   d) vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Pertanto, ai sensi della legge n. 326 del 2003, un abuso comportante la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in area assoggettata a vincolo paesaggistico, sia esso di natura relativa o assoluta, non può essere condonato
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Il ricorso non è suscettibile di favorevole apprezzamento.
Come correttamente rilevato dalla difesa del Comune, il Consiglio di Stato ha costantemente affermato che, ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d) del decreto legge n. 269 del 30.09.2003, convertito nella legge n. 326 del 24.11.2003 (cd. terzo condono), le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, sono sanabili solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
   a) si tratti di opere realizzate prima della imposizione del vincolo;
   b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche;
   c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria);
   d) vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo.
Pertanto, ai sensi della legge n. 326 del 2003, un abuso comportante la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in area assoggettata a vincolo paesaggistico, sia esso di natura relativa o assoluta, non può essere condonato (Consiglio di Stato, Sezione VI, 02.05.2016, n. 1664 e precedenti ivi richiamati).
Dalla su indicata applicabilità del c.d. terzo condono edilizio, nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico, alle sole opere di restauro o risanamento conservativo o di manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se ed in quanto conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, deriva la non sanabilità degli abusi realizzati dalla ricorrente.
Non vi è dubbio, infatti, che quand’anche volesse qualificarsi l’intervento per cui è causa alla stregua di ristrutturazione edilizia, come dedotto dalla parte ricorrente, lo stesso non sarebbe condonabile, in quanto comportante un aumento della superficie pari a 9,23 metri quadri.
Da tale circostanza deriva la non condivisibilità dell’ulteriore censura con cui la ricorrente sostiene che la sanatoria andrebbe esclusa solo per le opere realizzate su immobili soggetti a vincoli paesistici che comportino una concreta incidenza sui valori ambientali, in tesi esclusa trattandosi di una porzione di edificio interrata.
A tale interpretazione osta il chiaro dettato dell’art. 149 del d.lgs. n. 42/2004 ai sensi del quale “… non è comunque richiesta l'autorizzazione prescritta dall'articolo 146, dall'articolo 147 e dall'articolo 159:
   a) per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici…
”.
Nel caso di specie, è stato realizzato un incremento planovolumetrico che non consente di qualificare l’intervento di che trattasi alla stregua di intervento minore.
Deve, da ultimo, evidenziarsi che la domanda di condono edilizio presentata dalla ricorrente ha ad oggetto un intervento di carattere unitario, senza distinzione tra un locale e l’altro, comportante una aumento di superficie pari a 9,23 mq. e, dunque, superiore a quel limite del 2% della superficie complessiva dell’edificio (pari a 165,00 mq.) per il quale l’art. 32, comma 1, della l. n. 47/1995 esclude la necessità del parere dell’amministrazione preposta alla tutela del vincolo.
Il ricorso, in conclusione, è infondato e va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 19.03.2018 n. 743 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' in re ipsa che l’annullamento della lex specialis travolge tutti gli atti successivi della procedura, con la conseguente necessaria riedizione della gara ab initio.
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III. Per quanto riguarda la domanda di risarcimento danni, parte ricorrente non ha sciolto la riserva apposta alla domanda risarcitoria relativa alla quantificazione del danno derivante da perdita di chance.
D’altra parte, l’annullamento della procedura comporta il risarcimento in forma specifica.
Come ribadito dalla richiamata decisione del Consiglio di Stato, Sez. III, 11/01/2018, n. 127, è in re ipsa che l’annullamento della lex specialis travolge tutti gli atti successivi della procedura, con la conseguente necessaria riedizione della gara ab initio (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 14.03.2018 n. 544 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’attività di repressione degli abusi edilizi non è assistita da particolari garanzie partecipative, tanto che si esclude addirittura la necessità di invio della comunicazione di avvio del procedimento agli interessati.
Ne consegue, una volta esclusa la necessità di comunicazione dell’apertura del procedimento, che deve parimenti escludersi che ai destinatari del provvedimento debbano essere riconosciute le prerogative connesse alla partecipazione procedimentale fra cui quella di presentare osservazioni (con conseguente obbligo per l’amministrazione di prenderle in considerazione prima di assumere la decisione finale).
Né si ritiene che l’Amministrazione debba corredare la decisione sanzionatoria con gravosi supporti motivazionali, essendo sufficiente che il provvedimento descriva con sufficiente chiarezza la consistenza delle opere e le ragioni per le quali le stesse sono ritenute in contrasto con la vigente normativa urbanistico-edilizia.

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Stabilisce il secondo comma dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 che, una volta accertata la realizzazione di interventi in assenta di titolo edilizio, il comune deve ordinarne la rimozione, indirizzando l’ordine sia all’autore dell’abuso che al proprietario. Il terzo comma della stessa norma, dispone poi che <<Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune>>.
Questa diposizione riproduce la previsione contenuta nel secondo comma dell'art. 7 della legge n. 47 del 1985, la quale è stata oggetto di una pronuncia della Corte costituzionale che ne ha escluso l’applicabilità nei confronti del proprietario incolpevole, e cioè nei confronti del proprietario che, estraneo all’abuso, abbia dimostrato in modo inequivocabile, una volta venutone a conoscenza, di essersi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento.
La giurisprudenza, in applicazione di questi principi, ha poi chiarito che, sebbene l’ordine di demolizione debba sempre essere rivolto anche nei confronti del proprietario, questi non può subire la perdita di proprietà dell’area di sedime quando dimostri:
   a) di non essere l’autore dell’abuso e di non aver compartecipato alla sua realizzazione;
   b) di essersi seriamente attivato nei confronti dell’autore che abbia la disponibilità del bene, mediante diffide o altre iniziative di carattere ultimativo, per costringerlo ad eseguire la demolizione.
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18. Con una prima censura, contenuta nel ricorso introduttivo, parte ricorrente lamenta la mancata attivazione delle garanzie partecipative in quanto il Comune di Legnano, dopo averle inviato tardivamente l’avviso di avvio del procedimento, non avrebbe adeguatamente valutato le argomentazioni difensive da essa dedotte in sede procedimentale e non avrebbe adeguatamente motivato la decisione di emettere l’ordine di demolizione.
19. La censura è infondata per le ragioni di seguito esposte.
20. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ha motivo per discostarsi, l’attività di repressione degli abusi edilizi non è assistita da particolari garanzie partecipative, tanto che si esclude addirittura la necessità di invio della comunicazione di avvio del procedimento agli interessati (cfr., fra le tante, TAR Lombardia Milano, sez. I, 12.04.2017, n. 847).
Ne consegue, una volta esclusa la necessità di comunicazione dell’apertura del procedimento, che deve parimenti escludersi che ai destinatari del provvedimento debbano essere riconosciute le prerogative connesse alla partecipazione procedimentale fra cui quella di presentare osservazioni (con conseguente obbligo per l’amministrazione di prenderle in considerazione prima di assumere la decisione finale).
21. Né si ritiene che l’Amministrazione debba corredare la decisione sanzionatoria con gravosi supporti motivazionali, essendo sufficiente che il provvedimento descriva con sufficiente chiarezza la consistenza delle opere e le ragioni per le quali le stesse sono ritenute in contrasto con la vigente normativa urbanistico-edilizia (cfr. fra le tante, TAR Campania Napoli, sez. VIII, 28.08.2017, n. 4122).
22. Ciò premesso deve rilevarsi che il Comune di Legnano, pur non essendovi tenuto, ha comunicato alla ricorrente l’avvio del procedimento sanzionatorio permettendole quindi di partecipare al procedimento.
23. Inoltre, nel corpo motivazionale del provvedimento, vi è una analitica descrizione delle opere sanzionate nonché sono chiarite le ragioni del ritenuto loro contrasto con la vigente normativa: secondo il Comune le opere sono abusive in quanto realizzate senza titolo. Il quadro motivazionale è stato dunque sufficientemente delineato, e ciò sebbene manchi una esplicita confutazione delle argomentazioni dedotte dall’interessata in sede procedimentale.
24. Per tutte queste ragioni va ribadita l’infondatezza della censura in esame.
...
38. Parimenti infondato è il ricorso proposto con motivi aggiunti, diretto contro l’atto di accertamento della mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, giacché con esso vengono riproposte in sostanza le medesime cesure, come visto infondate, dedotte nel ricorso introduttivo.
39. Si può ora passare all’esame del ricorso RG. n. 2925/2016, proposto dalla società Ad. s.a.s. proprietaria degli immobili di cui è causa. Questo ricorso, come anticipato, si rivolge unicamente contro l’atto di accertamento della mancata ottemperanza all’ordine di demolizione.
40. Con un’unica censura, la ricorrente sostiene di essere estranea all’abuso e di aver posto in essere concrete iniziative volte ad indurre l’utilizzatore del bene ad ottemperare all’ordine di demolizione. Per questa ragione, secondo la parte, il Comune non potrebbe penalizzarla acquisendo al proprio patrimonio l’area di sua proprietà.
41. Ritiene il Collegio che questa censura sia infondata per le ragioni di seguito esposte.
42. Stabilisce il secondo comma dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 che, una volta accertata la realizzazione di interventi in assenta di titolo edilizio, il comune deve ordinarne la rimozione, indirizzando l’ordine sia all’autore dell’abuso che al proprietario. Il terzo comma della stessa norma, dispone poi che <<Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune>>.
43. Questa diposizione riproduce la previsione contenuta nel secondo comma dell'art. 7 della legge n. 47 del 1985, la quale è stata oggetto di una pronuncia della Corte costituzionale che ne ha escluso l’applicabilità nei confronti del proprietario incolpevole, e cioè nei confronti del proprietario che, estraneo all’abuso, abbia dimostrato in modo inequivocabile, una volta venutone a conoscenza, di essersi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento (cfr. Corte Costituzionale sent. 15.07.1991, n. 345).
44. La giurisprudenza, in applicazione di questi principi, ha poi chiarito che, sebbene l’ordine di demolizione debba sempre essere rivolto anche nei confronti del proprietario, questi non può subire la perdita di proprietà dell’area di sedime quando dimostri:
   a) di non essere l’autore dell’abuso e di non aver compartecipato alla sua realizzazione;
   b) di essersi seriamente attivato nei confronti dell’autore che abbia la disponibilità del bene, mediante diffide o altre iniziative di carattere ultimativo, per costringerlo ad eseguire la demolizione (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 07.08.2015, n. 3897; id. 04.05.2015, n. 2211).
45. Ritiene il Collegio che questi elementi non ricorrano nel caso di specie.
46. Si deve invero rilevare che Ad. s.a.s. ha diffidato l’autore dell’abuso solo in data 26.10.2016, non solo dopo che il termine per la demolizione era abbondantemente scaduto, ma addirittura dopo che le era stato comunicato il provvedimento di accertamento della mancata esecuzione spontanea.
47. Ritiene il Collegio che la tardività dell’azione intrapresa denoti l’insussistenza di un serio intento dissociativo del proprietario, attivatosi evidentemente al solo fine di costituire un espediente da far valere in questo giudizio per evitare la perdita di proprietà del proprio bene.
48. Va pertanto ribadita l’infondatezza del motivo in esame.
49. Essendo tutte le censure infondate vanno respinte sia la domanda di annullamento che la domanda risarcitoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.03.2018 n. 683 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Chiusura di vani aperti con ampliamento della superficie abitabile.
La chiusura di vani aperti, che determina l'ampliamento della superficie abitabile e un nuovo locale autonomamente utilizzabile, non può essere ascritto né alla categoria della manutenzione straordinaria, né a quella della ristrutturazione, essendo invece qualificabile come intervento di trasformazione urbanistica da ricondursi alla categoria della nuova costruzione, per la realizzazione del quale dev'essere quindi necessariamente ottenuto un titolo edilizio.
Non è, poi, decisivo il fatto che le nuove strutture non sono realizzate in muratura, ma in materiale facilmente amovibile e smontabile, atteso che per stabilire se il nuovo manufatto abbia il carattere della stabilità piuttosto che quello della amovibilità occorre aver riguardo non già alla tipologia dei materiali utilizzati, ma alla funzione che al manufatto stesso viene conferita dall’utilizzatore.
In sostanza, si deve escludere il carattere amovibile qualora le nuove opere siano destinate a soddisfare esigenze non temporanee (nella fattispecie si trattava della realizzazione di una modifica della copertura del fabbricato, con realizzazione di una articolata struttura di metallo posta a sostegno di una tenda retrattile, e dell’installazione di pannelli perimetrali di chiusura posti sui lati della struttura.
Invero, tali opere hanno determinato una completa trasformazione del bene, il quale si caratterizzava prima per essere una spazio semi aperto, seppur coperto da tenda, avente la funzione di andito carraio/pedonale non destinato alla permanenza di persone, e si caratterizza ora invece per essere uno spazio chiuso idoneo alla permanenza di persone, che determina un ampliamento del locale utilizzato dal ricorrente per l’esercizio della propria attività commerciale)
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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25. Con una seconda censura contenuta nel ricorso introduttivo, parte ricorrente contesta il fondamento della decisione avversata sostenendo che le opere sanzionate –contrariamente da quanto ritenuto dal Comune che le ha qualificate come intervento di nuova costruzione– dovrebbero ascriversi alla categoria della manutenzione ordinaria (o, al limite a quella della manutenzione straordinaria); con la conseguenza che, per procedere alla loro realizzazione, non sarebbe necessario il rilascio di un titolo edilizio. Per queste ragioni tali opere non potrebbero considerarsi abusive.
26. In proposito si osserva quanto segue.
27. Secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale formatosi in materia di classificazione degli interventi edilizi, la chiusura di vani aperti che determina l'ampliamento della superficie abitabile e un nuovo locale autonomamente utilizzabile non può essere ascritto né alla categoria della manutenzione straordinaria, né a quella della ristrutturazione, essendo invece qualificabile come intervento di trasformazione urbanistica da ricondursi alla categoria della nuova costruzione, per la realizzazione del quale dev'essere quindi necessariamente ottenuto un titolo edilizio (cfr. TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 16.06.2017, n. 967; TAR Piemonte, Sez. I, 15.05.2014, n. 888; TAR Campania Salerno, sez. II, 26.11.2012, n. 2126; TAR Campania Napoli, sez. II, 07.05.2012, n. 2079; id., sez. IV 03.01.2002 , n. 50; TAR Valle d'Aosta, 17.01.2007, n. 11).
28. Ciò premesso, va rilevato che, nel caso concreto, parte ricorrente ha provveduto alla realizzazione delle seguenti opere: a) modifica della copertura del fabbricato, con realizzazione di una articolata struttura di metallo posta a sostegno di una tenda retrattile; b) installazione di pannelli perimetrali posti sui lati della struttura; c) installazione di pannelli di chiusura paralleli alla Via ....
29. Ritiene il Collegio che tali opere abbiano determinato una completa trasformazione del bene, il quale si caratterizzava prima per essere una spazio semi aperto (seppur coperto da tenda) avente la funzione di andito carraio/pedonale (non destinato quindi alla permanenza di persone), e si caratterizza ora invece per essere uno spazio chiuso idoneo alla permanenza di persone, che determina quindi, in sostanza, un ampliamento del locale utilizzato dalla ricorrente per l’esercizio della propria attività commerciale.
30. A supporto di questa conclusione vi sono le fotografie depositate in giudizio dall’Amministrazione resistente in data 27.09.2016 (doc. 7), dalle quali si evince che lo spazio creato è dotato di strutture che ne consentono la completa chiusura ed è altresì dotato di impianti ed arredi funzionali alla permanenza di persone.
31. Si deve poi osservare che a smentire questa conclusione non è decisivo il fatto che le nuove strutture non sono realizzate in muratura ma in materiale facilmente amovibile e smontabile (come detto anche la nuova copertura è costituita da una tenda e le pareti perimetrali sono costituite da pannelli).
Invero, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, ciò che rileva per stabilire se il nuovo manufatto abbia il carattere della stabilità piuttosto che quello della amovibilità, occorre aver riguardo non già alla tipologia dei materiali utilizzati ma alla funzione che al manufatto stesso viene conferita dall’utilizzatore: in sostanza, si deve escludere il carattere amovibile qualora le nuove opere, come nel caso di specie, siano destinate a soddisfare esigenze non temporanee (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 12.06.2015, n. 2892; TAR Campania Napoli, sez. IV, 22.05.2017, n. 2714).
32. Per tutte queste ragioni si deve ritenere che l’opera in concreto sanzionata non possa essere ascritta alle categorie della manutenzione ordinaria o della manutenzione straordinaria, come vorrebbe invece parte ricorrente. Ne consegue che per la sua realizzazione era necessario il previo ottenimento di un titolo edilizio, la mancanza del quale ne determina l’abusività.
33. Va dunque ribadita l’infondatezza della censura (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.03.2018 n. 683 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Immutabilità soggettiva dei raggruppamenti temporanei.
Dal nuovo quadro normativo delineato dal d.lgs. n. 50 del 2016, emergono valide ragioni a favore di una più rigorosa applicazione del principio della immutabilità soggettiva dei raggruppamenti temporanei rispetto alle aperture manifestatesi nel vigore dell’art. 51 del d.lgs. n. 163 del 2006, avendo il legislatore optato per la piena tutela del principio della “par condicio” nel corso della gara, principio che potrebbe essere vulnerato qualora ad un componente di un R.T.I. fosse consentito di sostituire altri a sé, eludendo i controlli all’uopo prescritti.
Le eccezioni sono, dunque, ammissibili soltanto in quanto riguardino motivi indipendenti dalla volontà del soggetto partecipante alla gara e trovino giustificazione nell'interesse della stazione appaltante alla continuazione della stessa; al di fuori delle ipotesi normativamente previste non può che riprendere vigore il divieto, volto a presidiare anche la complessiva serietà delle imprese che partecipano alla gara, onde garantire la migliore affidabilità del futuro contraente dell’amministrazione
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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15. Il ricorso incidentale è, nei sensi di seguito esposti, fondato.
15.1. L’art. 48 del d.lvo 18.04.2016, n. 50, invocato dalla ricorrente incidentale, al comma 9 vieta “qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella risultante dall’impegno presentato in sede di offerta”, fatto salvo quanto disposto dai successivi commi 18 e 19.
Questi ultimi, dal canto loro, consentono alla S.A., nei casi “di fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione controllata, amministrazione straordinaria, concordato preventivo ovvero procedura di insolvenza concorsuale o di liquidazione del mandatario ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo ovvero in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all'articolo 80, ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia”, di proseguire il rapporto di appalto con un operatore economico subentrante che abbia i requisiti di qualificazione.
15.2. La norma ricalca la previgente disciplina, portata dall’art. 37 del d.lgs. n. 163/2006, in ordine alla quale, sulla questione riguardante le modificazioni soggettive dei raggruppamenti temporanei di impresa, la giurisprudenza non si è pronunciata univocamente.
15.2.1. Secondo un orientamento più restrittivo, l'immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche, preordinata a garantire l'Amministrazione appaltante in ordine alla verifica dei requisiti di idoneità morale, tecnico organizzativa ed economica, non consente altre modifiche se non quelle ammesse (tassativamente) dall'art. 37, commi 18 e 19 del d.lgs. n. 163 del 2006 (Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.12.2012, n. 6446; id., 03.07.2014 n. 3344).
15.2.2. Secondo un altro orientamento, più estensivo, le modifiche soggettive elusive del divieto posto dall’articolo 37, comma 9, del Codice dei contratti, sono quelle riguardanti l'aggiunta o la sostituzione di imprese, rispetto a quelle indicate al momento di partecipazione alla gara e non anche quelle che conducono al recesso di una delle imprese del raggruppamento o consorzio. In tal caso, infatti, l'amministrazione, al momento del mutamento soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità tecnica e di moralità dell'impresa o delle imprese che restano, con la conseguenza che i rischi che il divieto posto dal citato comma 9 dell’art. 37 del codice dei contratti mira ad impedire non potrebbero verificarsi (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 842 del 16.02.2010, Sez. V, n. 6546 del 10.09.2010).
15.2.3. Sulla questione si è espressa, quindi, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 8 del 04.05.2012.
Con essa l’A.P. ha preliminarmente ricordato che
il principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche mira a garantire una conoscenza piena, da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, dei soggetti che intendono contrarre con le amministrazioni stesse, consentendo una verifica preliminare e compiuta dei requisiti di idoneità morale, tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria dei concorrenti.
L’Adunanza Plenaria ha, quindi, ritenuto che
le modifiche soggettive che si pongono in contrasto con il principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche sono quelle che portano all'aggiunta o alla sostituzione delle imprese partecipanti e non anche quelle che conducono al recesso di una delle imprese del raggruppamento: in tal caso, infatti, le esigenze di effettuare una verifica preliminare dei requisiti di idoneità morale, tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria dei concorrenti non risultano frustrate poiché l'Amministrazione, al momento del recesso, ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di moralità dell'impresa o delle imprese che restano, sicché i rischi che il divieto mira ad impedire non possono verificarsi.
L’Adunanza Plenaria ha tuttavia aggiunto che
il recesso dell'impresa componente di un raggruppamento nel corso della procedura di gara non può valere a sanare una situazione di preclusione all'ammissione alla procedura sussistente al momento dell'offerta in ragione della sussistenza di cause di esclusione riguardanti il soggetto recedente, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.
Il divieto di modificazione soggettiva, di cui all’art. 37 del codice dei contratti, secondo quanto affermato dall’Adunanza Plenaria, non ha, quindi, l'obiettivo di precludere sempre e comunque il recesso dal raggruppamento in costanza di procedura di gara ma quello di consentire alla stazione appaltante di verificare il possesso dei requisiti da parte dei soggetti che partecipano alla gara e, correlativamente, di precludere modificazioni soggettive, sopraggiunte ai controlli, e dunque, in grado di impedire le suddette verifiche preliminari (Cons. Stato, III, 21.11.2014, n. 5752; Consiglio di Stato, 13.05.2009, n. 2964) ovvero di vanificarle (Cons. Stato, V, 23.11.2016, n. 4918; id., 23.07.2007, n. 4101).
Con l’ulteriore precisazione che
il divieto di modifica suddetto riguarda l’intero arco della procedura di evidenza pubblica, mentre le eccezioni contemplate ai commi 18 e 19, concernenti il fallimento del mandante e del mandatario, la morte, l’interdizione o inabilitazione dell’imprenditore individuale, nonché le ipotesi previste dalla normativa antimafia, riguardano evenienze relative alla successiva fase dell’esecuzione del contratto.
15.3. Nel passaggio dal Codice del 2006 a quello del 2016, pur mantenendosi fermo il surrichiamato divieto, come sopra interpretato, non è stata riprodotta nel nuovo Codice la norma che, all’art. 51 del d.lgs. n. 163/2006, contemplava espressamente la possibilità di subentro del soggetto risultante da vicende societarie quali la cessione d’azienda o di un suo ramo, trasformazioni, fusioni o scissioni, previo accertamento dei requisiti richiesti.
L’art. 106 del d.lgs. 50/2016, infatti, nel prevedere alcune ipotesi di modifiche soggettive dei contratti di appalto, ammesse purché non implichino altre modifiche sostanziali al contratto e non siano finalizzate a eludere l’applicazione del codice, concerne soltanto la fase contrattuale, esecutiva del rapporto, e non anche la fase amministrativa a monte (Cons. Stato, V, 23.11.2016, n. 4918).
Tale norma non può essere applicata in via analogica o estensiva alla fase di gara, ostandovi il suo carattere eccezionale rispetto alla regola generale stabilita dal già citato art. 48, comma 9, del d.lvo n. 50 del 2016. Quest’ultima, ovvero il relativo divieto imposto dal legislatore, riguarda "qualsiasi modificazione", con ciò impedendosi all'interprete di escludere alcune delle modificazioni dal "totale" di esse, complessivamente vietato dal legislatore, come confermato dal fatto che il medesimo legislatore ha provveduto espressamente ad indicare le eccezioni al regime di divieto (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 22.12.2014 n. 6311; id., 03.07.2014, n. 3344).
Come già affermato dalla giurisprudenza in relazione alle deroghe di cui ai commi 18 e 19 dell’art. 37 d.lgs. 163/2006, sovrapponibili in parte qua ai commi 17 e 18 dell’art. 48 del d.lgs. n. 50/2016, esse presuppongono che sia già in atto l'esecuzione del contratto: la ratio della deroga, infatti, va individuata "nell'esigenza di assicurare l'esecuzione del contratto nei termini stabiliti e di ovviare quindi ad un evento che colpisca uno dei componenti del raggruppamento temporaneo di imprese che si è aggiudicato la commessa con la sua sostituzione con altra impresa, o l'assunzione della quota di esecuzione originariamente spettante al medesimo componente da parte degli altri. La sua operatività presuppone quindi un'esecuzione in corso e, pertanto, che la prodromica procedura di affidamento si sia conclusa" (Cons. Stato, V, 18.07.2017, n. 3539).
15.4.
Da tale quadro emergono, dunque, valide ragioni a favore di una più rigorosa applicazione del principio della immutabilità soggettiva dei raggruppamenti temporanei rispetto alle aperture manifestatesi nel vigore dell’art. 51 del d.lgs. n. 163/2006, avendo il legislatore optato per la piena tutela del principio della “par condicio” nel corso della gara, principio che potrebbe essere vulnerato qualora ad un componente di un R.T.I. fosse consentito di sostituire altri a sé, eludendo i controlli all’uopo prescritti (cfr. da ultimo, Consiglio di Stato, V, 19.02.2018, n. 1031 che, in applicazione dei suesposti principi, ha escluso che la modifica riduttiva dell’R.T.I. derivante dal decesso del mandante potesse determinare l’esclusione automatica dalla gara, essendo stata ritenuta la natura dell’evento che ha determinato la modifica tale da escludere ogni possibile intento elusivo della lex specialis).
15.5.
Le eccezioni sono, dunque, ammissibili soltanto in quanto riguardino motivi indipendenti dalla volontà del soggetto partecipante alla gara e trovino giustificazione nell'interesse della stazione appaltante alla continuazione della stessa. Al di fuori delle ipotesi normativamente previste non può che riprendere vigore il divieto, volto a presidiare anche la complessiva serietà delle imprese che partecipano alla gara, onde garantire la migliore affidabilità del futuro contraente dell’amministrazione (TAR Lombardia, Brescia, II, 06/02/2017, n. 167; TAR Puglia, Lecce, I, ordinanza 07/12/2016, n. 564).
16. Applicando le suesposte coordinate ermeneutiche al caso di specie, il Collegio non può che ritenere fondate le censure che fanno leva sulla violazione del principio di immodificabilità soggettiva, come sopra tratteggiato.
16.1. Trapela da quanto allegato e documentato in atti la modificazione di uno dei due soggetti (la mandataria Do.Ca.) componente dell’R.T.I. concorrente, avvenuta in pieno svolgimento della procedura concorsuale, ovvero subito dopo l’ammissione alla gara (che faceva espressamente “salvo l’esito delle valutazioni dei requisiti soggettivi, economico finanziari e tecnico professionali di partecipazione dichiarati dai concorrenti”, giusto doc. n. 4 già citato, comunicato ai partecipanti a metà dicembre 2016).
La modifica ha avuto luogo de plano, non risultando in atti alcun vaglio della stessa da parte dell’Amministrazione, né alcun atto di ammissione della subentrante e, ancor meno, una comunicazione di ammissione successiva alla modificazione della composizione dell’R.T.I.
16.2. Risulta, pertanto, infondata l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione incidentale da parte della ricorrente principale, avanzata sul presupposto che la ricorrente incidentale avrebbe dovuto impugnare tempestivamente l’ammissione della ricorrente per far valere, nei termini di cui all’art. 120, co. 2-bis c.p.a., le censure avanzate in questa sede.
È agevole replicare, al riguardo, che l’unico provvedimento di ammissione, quello comunicato il 16.12.2016, essendo precedente la modificazione dell’R.T.I., non onerava la ricorrente incidentale di alcuna impugnazione. Ciò, in disparte ulteriori considerazioni in ordine al regime decadenziale applicabile al ricorso incidentale che, anche nel contesto del rito disciplinato dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., resta pur sempre quello previsto dall’art. 42, comma 1 c.p.a., con conseguente ancoraggio del dies a quo del termine di introduzione dell’impugnativa incidentale dalla notifica del ricorso principale anziché dal provvedimento di ammissione (come efficacemente argomentato di recente nella sentenza del Cons. Stato, III, 10.11.2017, n. 5182).
16.3. Risulta, altresì, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, peraltro genericamente prospettata da parte ricorrente, dell’art. 48 del d.lgs. n. 50/2016, ove inteso in senso preclusivo della partecipazione alle gare “di imprese frutto di trasformazioni, scissioni o fusioni o cessioni d’azienda” (cfr. memoria dell’esponente datata 06.06.2017, in atti), in relazione all’art. 41 (libertà d’iniziativa economica) e 3 (principio di ragionevolezza) della Costituzione.
Detta previsione, nell’interpretazione poc’anzi esposta, non risulta né irragionevole né contrastante con l’art. 41 della Costituzione, in quanto la stessa risponde all'esigenza di tutelare la stessa libertà d’iniziativa economica, ove declinata come libera concorrenza e par condicio dei concorrenti, avuto riguardo agli effetti distorsivi sul libero mercato derivanti dall’alterazione delle procedure di gara; essa realizza, dunque, un congruo e non censurabile bilanciamento tra il diritto d’iniziativa economica e il principio di buon andamento, presidiato dall’art. 97 della Costituzione, in disparte ogni ulteriore considerazione ritraibile dalla valorizzazione del richiamo all'“utilità sociale” ovvero ai “fini sociali”, di cui all’art. 41, rispettivamente commi 2 e 3 della Costituzione (su cui cfr. sentenze C. Cost. nn. 247 del 2010, 152 del 2010, 167 del 2009, 190 del 2001, 196 del 1998).
Va pertanto disattesa la richiesta di sollevare q.l.c. in relazione all’art. 48 d.lgs. n. 50/2016.
16.4. Come correttamente affermato dalla controinteressata,
la ricorrente doveva essere esclusa dalla procedura di gara in uno stadio anteriore a quello (della verifica di anomalia) in cui è stata disposta l’esclusione oggetto di contestazione, ovvero, doveva essere esclusa in applicazione della regola generale (art. 48, comma 9, d.lgs. n. 50/2016) che non consente di modificare la composizione dei partecipanti ai raggruppamenti temporanei d’imprese durante l’intero arco della procedura di evidenza pubblica, concernendo le eccezioni contemplate dai commi 17 e 18 del citato articolo evenienze relative unicamente alla successiva fase dell’esecuzione del contratto, non ricorrenti nella fattispecie in esame (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20.01.2015, n. 169).
16.5. Né il rigore del divieto di modificazione soggettiva può essere attenuato nel caso di specie richiamando, come avvenuto nella memoria di parte resistente, la delibera ANAC n. 244 dell’08.03.2017, posto che, in disparte altro, in essa si legge che “appare ammissibile il subentro di altro soggetto nella posizione di mandatario del RTI aggiudicatario in caso di cessione di azienda, sempre che la cessione sia comunicata alla stazione appaltante ed essa non sia finalizzata a eludere l’applicazione del codice. La S.A. dovrà pertanto verificare l’idoneità del cessionario, e quindi i requisiti richiesti per la partecipazione alla gara, che devono permanere per l’intera durata del contratto. Dovrà inoltre verificare i requisiti di carattere generale delle cedenti, al fine di accertare che la cessione non sia diretta ad eludere l’applicazione del codice”.
Risultano evidenti le differenze fra la fattispecie per cui è causa e il caso esaminato dall’ANAC, posto che, nel primo caso a differenza del secondo la modifica è intervenuta nei confronti di un soggetto che non era aggiudicatario, ma mero partecipante alla gara e, dunque, diversamente da quanto stabilito dall’Autorità Anticorruzione, nessun approfondimento sull’“idoneità” e quindi “sul possesso dei requisiti richiesti per la partecipazione alla gara” di cedente e cessionaria risulta effettuato dalla S.A., onde escludere che la cessione fosse “diretta ad eludere l’applicazione del codice” (sulla necessità che la stazione appaltante verifichi i requisiti di capacità e di moralità delle concorrenti cfr. TAR Sicilia, Palermo, I, 12/11/2015, n. 2904).
16.6. Nel caso di specie, come correttamente evidenziato dalla ricorrente incidentale, la Commissione di gara avrebbe dovuto verificare il possesso dei requisiti al di là e al di fuori delle previsioni di cui all’art. 32, co. 7, del d.lgs. n. 50/2016, onde accertare che l’intervenuta cessione di ramo d’azienda e il conseguente subentro della Soc. Tr.Fo. alla Soc. Do.Ca. quale mandataria dell’R.T.I. non avesse finalità elusive e non tendesse a porre rimedio alla mancanza dei requisiti di partecipazione da parte della mandataria originaria.
16.7. In difetto di tale accertamento, va ribadita la fondatezza del ricorso incidentale, poiché l’R.T.I. ricorrente avrebbe dovuto essere escluso dalla gara a seguito della modifica della sua composizione, avvenuta in violazione dell’art. 48, co. 9, del d.lgs. n. 50 del 2016.
17. Conclusivamente il ricorso incidentale deve essere accolto, con conseguente improcedibilità del ricorso principale (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 09.03.2018 n. 663 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Abbandono e deposito incontrollato di rifiuti.
L'imputabilità delle condotte di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo in capo al proprietario, o di chiunque abbia la giuridica disponibilità del bene, presuppone necessariamente l'accertamento in capo a quest'ultimo di un comportamento doloso o colposo, nei limiti dell'esigibilità, non ravvisando la disposizione dell'art. 192 del D.lgs. n. 152 del 2006 un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva o per fatto altrui, con conseguente esclusione della natura di obbligazione propter rem dell'obbligo di ripristino del fondo a carico del titolare di un diritto di godimento sul bene.
Pertanto, in caso di rinvenimento di rifiuti abbandonati da parte di terzi ignoti, il proprietario del fondo non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono (o deposito incontrollato) di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di un'ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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3.4. Venendo al contenuto proprio dell’ordinanza, è necessario dare conto del relativo apparato motivazionale.
Dopo aver dato atto che a seguito delle indagini successive alla rimozione del materiale inerte collocato sui terreni in questione da parte della società proprietaria era emersa la presenza di idrocarburi nello strato sottostante “trasformato evidentemente in epoca diversa”, classificabili come rifiuti non pericolosi, il Sindaco ha ritenuto che tale abbandono di rifiuti fosse “
da imputare direttamente al proprietario dell’area”, in base alle seguenti valutazioni:
   - “l’area oggetto del deposito di rifiuti è immediatamente raggiungibile dalla strada sterrata collegata direttamente alla Via Sessa, in prossimità della prospiciente azienda di proprietà e quindi la signora Bu.An.Ga. [legale rappresentante della società ricorrente] era in grado, senza particolari incombenze, di svolgere la funzione di protezione e custodia che gli è richiesta onde evitare che la stessa potesse essere utilizzata come discarica abusiva di rifiuti e quindi consentire eventuali sversamenti seppure accidentali di idrocarburi;
   - sotto il profilo causale e secondo un ragionamento probabilistico… è del tutto ragionevole ritenere che la società Amcofin s.r.l….fosse a conoscenza della situazione pregressa all’atto di acquisto risalente al 2003;
   - si ritiene di dover dedurre la responsabilità dell’attuale proprietario in quanto a conoscenza all’atto di acquisito dell’area della presenza della trasformazione dell’area boscata con vincolo idrogeologico, senza alcun titolo autorizzativo;
   - in via residuale è ragionevole ritenere la responsabilità del proprietario a titolo di colpa per aver accettato il trasferimento della proprietà senza considerare la trasformazione dell’area quale intervento edilizio non autorizzato
”.
3.5. Ad avviso del Collegio la motivazione a sostegno dell’ordine di rimozione non risulta adeguata, apparendo piuttosto l’esito di un’istruttoria sommaria e superficiale, non supportata da sufficienti elementi di accertamento.
Risulta riconosciuto dall’Amministrazione, nell’ordinanza impugnata, che la presenza di idrocarburi ("correlata" ad un riporto di materiali con modifica assetto luoghi) è collocabile in epoca antecedente all'acquisto dei terreni da parte di Am. (anno 2003), e temporalmente attestabile in epoca presunta tra il 1974 al 1980.
A fronte di tali dati le conseguenti determinazioni dell’Amministrazioni non risultano coerenti, non essendo dimostrato come possa essere imputata una responsabilità all’attuale ricorrente.
3.6. Le conclusioni cui giunge l’Amministrazione in termini di responsabilità della ricorrente postulano un’attualità dei fatti imputabili (l’omessa vigilanza dell’area di proprietà) che non si riscontra affatto negli elementi a disposizione, considerato che la stessa ordinanza colloca temporalmente il riporto dei materiali contenenti idrocarburi in epoca assai risalente.
3.7. Un’ulteriore sovrapposizione dei piani cronologici dei fatti si riscontra laddove l’Amministrazione imputa alla ricorrente, al momento dell’acquisto (ovvero nel 2003), la conoscenza della “situazione pregressa”, quando la presenza di idrocarburi nello strato sottostante del terreno è stata accertata soltanto a seguito delle analisi effettuate in occasione dei lavori di ripristino dello stato dei luoghi, ultimati nel gennaio 2016.
3.8. La colpa richiesta dall’art. 192 del D.lgs. 152/2006 ai fini dell’attribuzione della responsabilità al proprietario dell’area oggetto di abbandono di rifiuti implica un comportamento esigibile dal proprietario, ovvero la possibilità dello stesso di esercitare il controllo sul proprio bene, il che presuppone l’attualità delle circostanze di fatto integranti l’azione illecita. In altri termini non può essere attribuita al proprietario alcuna responsabilità per fatti avvenuti oltre trent’anni prima dell’acquisto.
3.9. Il provvedimento impugnato presenta un supporto argomentativo espresso in termini probabilistici, che mal si concilia con gli accertamenti (rigorosi) che devono essere posti alla base dell’ordine di rimozione, ai sensi dell’art. 192 del D.lgs. 152/2006.
Né possono sopperire alle evidenti mancanze istruttorie le argomentazioni difensive dell’Amministrazione che non trovano riscontro nell’ordinanza impugnata e costituiscono comunque, al di là della loro pertinenza, un’inammissibile integrazione postuma della motivazione del provvedimento.
3.10. Conclusivamente, va ricordato che l'imputabilità delle condotte di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo in capo al proprietario o di chiunque abbia la giuridica disponibilità del bene, presuppone necessariamente l'accertamento in capo a quest'ultimo di un comportamento doloso o colposo, nei limiti dell'esigibilità, non ravvisando la disposizione dell'art. 192, D.lgs. n. 152 del 2006 un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva o per fatto altrui, con conseguente esclusione della natura di obbligazione propter rem dell'obbligo di ripristino del fondo a carico del titolare di un diritto di godimento sul bene (TAR Napoli sez. V, 06.02.2018, n. 752; TAR Lecce, sez. III, 04.10.2017, n. 1569; Cons. Stato, sez. IV, 25.07.2017, n. 3672; TAR Palermo, sez. I, 18.09.2017, n. 2190).
Pertanto, "in caso di rinvenimento di rifiuti abbandonati da parte di terzi ignoti, il proprietario del fondo non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono (o deposito incontrollato) di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di un'ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino" (TAR Napoli, sez. V, 07.06.2017, n. 3081).
4. Per le ragioni che precedono il ricorso va accolto e per l’effetto va annullata l’ordinanza impugnata (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 08.03.2018 n. 651 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 attribuisce all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia, imponendo l’adozione di provvedimenti di demolizione anche in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato.
In particolare, va rilevato che l’aggiunta all’originario testo dell’articolo 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, apportata dal comma 46 dell’articolo 32 del d. l. n 269 del 2003, che contempla il potere soprintendentizio, non vale a privare della competenza il dirigente comunale, in quanto il legislatore ha chiarito, proprio con il comma 45 del medesimo articolo 32 del d. l. n. 269 del 2003, che la competenza dell’ente locale riguarda “tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici”, tra cui, evidentemente, anche quelli relativi ad immobili vincolati.
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7. Il ricorso è infondato.
8. Il primo motivo non merita accoglimento.
Le violazioni poste a base dell’ordinanza di demolizione riguardano esclusivamente la violazione di normativa di carattere urbanistico–edilizio e, in particolare, l’assenza del permesso di costruire. L’articolo 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 obbliga il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, ad ingiungere la rimozione o la demolizione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, n. 4400 del 2016). L’applicazione, invocata dalla ricorrente, dell’articolo 27 del d.P.R. n. 380 del 2001 in luogo dell’articolo 31 del medesimo d.P.R. non vale ad escludere la competenza del Comune ad intervenire in caso di abuso.
Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio “l’art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 attribuisce all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia, imponendo l’adozione di provvedimenti di demolizione anche in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio non autorizzato” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 4736 del 2017).
In particolare, va rilevato che l’aggiunta all’originario testo dell’articolo 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, apportata dal comma 46 dell’articolo 32 del d. l. n 269 del 2003, che contempla il potere soprintendentizio, non vale a privare della competenza il dirigente comunale, in quanto il legislatore ha chiarito, proprio con il comma 45 del medesimo articolo 32 del d. l. n. 269 del 2003, che la competenza dell’ente locale riguarda “tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici”, tra cui, evidentemente, anche quelli relativi ad immobili vincolati (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 05.03.2018 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di “pertinenza urbanistica" ha peculiarità sue proprie che la distinguono da quella civilistica.
L’articolo 6 del d.P.R. 06.06.2000, n. 380, prevede che occorre il permesso di costruire, tra l’altro, per gli interventi di “nuova costruzione”, che consistono nella “costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati ovvero l’ampliamento di quelli esistenti all’esterno dell’esistente” [lettera e)].
Nella fattispecie risulta dal verbale di accertamento la realizzazione di un nuovo manufatto.
Al riguardo giova ricordare che “…più volte questo Consiglio di Stato ha rimarcato come occorra il titolo edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti, quand'anche sotto il profilo civilistico essi si possano qualificare come pertinenze.
La nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a fini urbanistico-edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
Invero, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume".
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio": salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come ad es. una tettoia, che ne alteri la sagoma.
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio": salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come ad es. una tettoia, che ne alteri la sagoma.”
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9. Quanto al secondo motivo, la nozione di “pertinenza urbanistica" ha peculiarità sue proprie che la distinguono da quella civilistica.
L’articolo 6 del d.P.R. 06.06.2000, n. 380, prevede che occorre il permesso di costruire, tra l’altro, per gli interventi di “nuova costruzione”, che consistono nella “costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati ovvero l’ampliamento di quelli esistenti all’esterno dell’esistente” [lettera e)].
Nella fattispecie risulta dal verbale di accertamento la realizzazione di un nuovo manufatto.
Al riguardo giova ricordare che “…più volte questo Consiglio di Stato ha rimarcato come occorra il titolo edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti, quand'anche sotto il profilo civilistico essi si possano qualificare come pertinenze.
La nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a fini urbanistico-edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica (cfr. Cons. St., Sez. Sez. VI, 02.02.2017, n. 694; Sez. VI, 04.01.2016, n. 19; Sez. VI, 11.03.2014, n. 3952; Sez. V, n. 817 del 2013; Sez. IV, n. 615 del 2012).
La giurisprudenza di questo Giudice di appello è costante nel ritenere che, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume" (Cons. Stato, Sez. IV, 02.02.2012, n. 615, cit.).
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio" (cfr. Sez. VI, 24.07.2014, n. 3952): salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come ad es. una tettoia, che ne alteri la sagoma.
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un "manufatto edilizio" (cfr. Sez. VI, 24.07.2014, n. 3952): salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come ad es. una tettoia, che ne alteri la sagoma
” (Cons. Stato n. 24 del 2018).
Nella specie è stata realizzata un’opera che, secondo quanto riferisce l’amministrazione comunale, non ha carattere precario, vista la struttura in cemento armato, né presenta gli elementi della strumentalità funzionale rispetto all’immobile in quanto attiene a necessità voluttuarie della ricorrente.
Pertanto il motivo non merita accoglimento (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 05.03.2018 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'individuazione dell'area da acquisirsi non deve essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all'acquisizione del bene.
L’omessa indicazione, nell’ordinanza di demolizione, dell’area che viene acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi del comma 3 dell’art. 31 per il caso di inottemperanza all’ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità dell’ordinanza stessa giacché la posizione del destinatario dell’ingiunzione è tutelata dalla previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell’area, rispetto al quale, tra l’altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di accertamento dell'inottemperanza nel quale va indicata con precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale.

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10. Con riferimento al terzo motivo, la giurisprudenza di questo Consiglio afferma che “l'individuazione dell'area da acquisirsi non deve essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all'acquisizione del bene. L’omessa indicazione, nell’ordinanza di demolizione, dell’area che viene acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi del comma 3 dell’art. 31 per il caso di inottemperanza all’ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità dell’ordinanza stessa giacché la posizione del destinatario dell’ingiunzione è tutelata dalla previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell’area, rispetto al quale, tra l’altro, assume un ruolo imprescindibile l'atto di accertamento dell'inottemperanza nel quale va indicata con precisione l'area da acquisire al patrimonio comunale” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 13 del 2015).
Pertanto, anche tale motivo va disatteso (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 05.03.2018 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il verbale di accertamento della inottemperanza costituisce un atto endoprocedimentale, avente contenuto di accertamento ed esplicante una funzione meramente preparatoria e strumentale, occorrendo che la competente autorità amministrativa ne faccia proprio l'esito attraverso un formale atto produttivo degli effetti previsti dall' art. 31, comma 4, d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Il titolo per l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei registri immobiliari è costituito dall'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire, ma per tale atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale e dichiarativo delle operazioni effettuate durante l'accesso ai luoghi, ma solo il formale accertamento, che faccia proprio l'esito del verbale e che costituisca, quindi, il titolo ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita dell'immobile al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate.
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12. Il ricorso è, invece, inammissibile nella parte volta all’annullamento del verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione.
La giurisprudenza è, infatti, costante nel ritenere che il verbale di accertamento della inottemperanza costituisca un atto endoprocedimentale, avente contenuto di accertamento ed esplicante una funzione meramente preparatoria e strumentale, occorrendo che la competente autorità amministrativa ne faccia proprio l'esito attraverso un formale atto produttivo degli effetti previsti dall' art. 31, comma 4, d.P.R. 06.06.2001, n. 380; il titolo per l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei registri immobiliari è costituito dall'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire, ma per tale atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale e dichiarativo delle operazioni effettuate durante l'accesso ai luoghi, ma solo il formale accertamento, che faccia proprio l'esito del verbale e che costituisca, quindi, il titolo ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita dell'immobile al patrimonio comunale delle opere edilizie abusivamente realizzate (Cons. St., sez. V, 17.06.2014, n. 3097).” (Cons. Stato, Sez. I, n. 2448 del 2017) (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 05.03.2018 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI - LAVORI PUBBLICI: Circa la possibilità da parte della Stazione appaltante di prevedere l’esecuzione di un sopralluogo, la questione è già stata affrontata e risolta in giurisprudenza affermando che “non può pervenirsi alla conclusione a cui perviene la ricorrente secondo cui, nella vigenza del nuovo Codice degli Appalti, sia stata necessariamente espunta in assoluto dall'ordinamento di settore ogni possibilità per le stazioni appaltanti di prescrivere a pena di esclusione il sopralluogo da parte dell'impresa del sito interessato (dai lavori o dai servizi da eseguire), tanto con riguardo ai lavori, quanto con riguardo ai servizi”.
La previsione di un tale adempimento veniva nell’occasione ritenuta non essere in contrasto con il principio di tassatività delle cause di esclusione poiché non attinente “alle condizioni e ai requisiti di partecipazione ma piuttosto all'offerta da formulare, ponendosi quale presidio della sua serietà e attendibilità, sia a livello tecnico che economico. A conferma della persistente ammissibilità di clausole di gara impositive di obblighi di sopralluogo (nonostante l'abrogazione formale dell'art. 106 d.P.R. n. 207/2010 e l'assenza di disposizioni specifiche al riguardo nel nuovo Codice degli Appalti) si può comunque osservare che l'art. 79, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, nel disciplinare i termini per la presentazione delle offerte di gara, prevede espressamente la seguente ipotesi normativa "2. Quando le offerte possono essere formulate soltanto a seguito di una visita dei luoghi....", così confermando la generale possibilità di prescrivere il sopralluogo negli atti di gara …”.
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Quanto alla dedotta violazione dell’art. 83, comma 8, del Codice (divieto di introduzione di cause di esclusione non tipizzate) si rinvia alla già richiamata giurisprudenza laddove si precisa che “non può pervenirsi alla conclusione a cui perviene la ricorrente secondo cui, nella vigenza del nuovo Codice degli Appalti, sia stata necessariamente espunta in assoluto dall'ordinamento di settore ogni possibilità per le stazioni appaltanti di prescrivere a pena di esclusione il sopralluogo da parte dell'impresa del sito interessato (dai lavori o dai servizi da eseguire)…”.
La mancata produzione dell’attestazione richiesta (relativa, come anticipato, ad un adempimento essenziale ai fini della formulazione di una offerta seria e attendibile), non è, peraltro, sanabile mediante “soccorso istruttorio”.
L’istituto in questione, infatti, viene previsto dalla norma invocata solo per "le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda" e non può trovare applicazione in ipotesi di omessa presentazione di un documentano previsto a pena di esclusione.
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Il Collegio non può che prendere atto che la ricorrente dichiarava “ai sensi degli articoli 46 e 47 del DPR 445/2000, consapevole delle sanzioni penali previste dall’art. 76 per le ipotesi di falsità in atti e dichiarazioni mendaci” di “aver preso visione dei luoghi ove devono eseguirsi i lavori, di aver preso visione del progetto e di avere preso conoscenza delle condizioni dei locali …”.
La dichiarazione è smentita dall’Amministrazione che, come già esposto, ne afferma a più riprese l’inaccessibilità, nonché, dalla stessa ricorrente che, come più volte evidenziato, riconosce di non aver effettuato alcun accesso all’interno dell’edificio scolastico e di essersi limitata a visionarlo dall’esterno.
Preso atto di tale contrasto, deve disporsi la trasmissione della presente sentenza alla Procura della Repubblica di Reggio Emilia per le eventuali valutazioni di competenza.
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Il motivo è infondato.
Preliminarmente il Collegio precisa che:
   - la preventiva esecuzione del sopralluogo, come già esposto, veniva prevista in sede di approvazione dell’avvio della procedura concorsuale (determinazione n. 273/2017);
   - tale previsione, inizialmente non recepita nella Lettera di invito, veniva successivamente inserita prevedendo una comminatoria espressa di esclusione (il testo della clausola introdotta, contrariamente a quanto dedotto, è chiaro ed inequivoco nel prevedere la necessità di procedere a un sopralluogo alla presenza di tecnici comunali);
   - la ricorrente, nonostante la ricezione dell’integrazione in questione, ometteva di procedere al richiesto sopralluogo contattando i funzionari a tale scopo indicati affermando in ricorso di aver ritenuto sufficiente l’autocertificazione resa in sede di domanda di partecipazione (che come anticipato e accertato in sede di discussione, avveniva solo mediate visione dell’edificio dall’esterno).
Ciò premesso, si rileva che, circa la possibilità da parte della Stazione appaltante di prevedere l’esecuzione di un sopralluogo, la questione è già stata affrontata e risolta in giurisprudenza affermando che “non può pervenirsi alla conclusione a cui perviene la ricorrente secondo cui, nella vigenza del nuovo Codice degli Appalti, sia stata necessariamente espunta in assoluto dall'ordinamento di settore ogni possibilità per le stazioni appaltanti di prescrivere a pena di esclusione il sopralluogo da parte dell'impresa del sito interessato (dai lavori o dai servizi da eseguire), tanto con riguardo ai lavori, quanto con riguardo ai servizi”.
La previsione di un tale adempimento veniva nell’occasione ritenuta non essere in contrasto con il principio di tassatività delle cause di esclusione poiché non attinente “alle condizioni e ai requisiti di partecipazione ma piuttosto all'offerta da formulare, ponendosi quale presidio della sua serietà e attendibilità, sia a livello tecnico che economico. A conferma della persistente ammissibilità di clausole di gara impositive di obblighi di sopralluogo (nonostante l'abrogazione formale dell'art. 106 d.P.R. n. 207/2010 e l'assenza di disposizioni specifiche al riguardo nel nuovo Codice degli Appalti) si può comunque osservare che l'art. 79, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, nel disciplinare i termini per la presentazione delle offerte di gara, prevede espressamente la seguente ipotesi normativa "2. Quando le offerte possono essere formulate soltanto a seguito di una visita dei luoghi....", così confermando la generale possibilità di prescrivere il sopralluogo negli atti di gara …” (TAR Lazio, Roma, Sez III, 12.04.2017, n. 4480).
Che la “visita dei luoghi” fosse assolutamente necessaria ai fini della formulazione dell’offerta derivava dalla stessa natura dei lavori appaltati, specificati nella delibera n. 273/2017 (e già descritti), che comportavano interventi all’interno dell’edificio, inaccessibile ai non autorizzati (inaccessibilità affermata a pag. 14 e pag. 18 della memoria di costituzione e a pag. 8 della memoria conclusionale dell’Unione, in assenza di contestazioni sul punto in giudizio).
Avuto riguardo alla descritta natura dei lavori da eseguirsi, non può che rilevarsi che l’adempimento in questione, peraltro imposto dalla delibera n. 273/2017, si presentava come imprescindibile e coerente con la natura dell’intervento appaltato, risolvendosi in una prescrizione posta a presidio della serietà e attendibilità delle offerte formulate.
La disposta integrazione, contrariamene a quanto affermato in ricorso, non richiedeva necessariamente una proroga dei termini di gara atteso che la norma invocata dalla ricorrente (art. 73, comma 3. lett. b) del Codice) prevede che “le stazioni appaltanti prorogano i termini per la ricezione delle offerte in modo che gli operatori economici interessati possano prendere conoscenza di tutte le informazioni necessarie alla preparazione delle offerte nei casi seguenti: … se sono effettuate modifiche significative ai documenti di gara”.
La natura dell’adempimento integrativo in disamina, a parere del Collegio, non costituisce alcuna significativa modifica della legge di gara risolvendosi nella previsione di un accesso ai locali interessarti ai lavori appaltati in assenza del quale, per le ragioni già esposte, non poteva formularsi una offerta ponderata.
Né, come afferma la ricorrente, può ritenersi che la contestata integrazione abbia ridotto irragionevolmente i tempi di approntamento della domanda rendendo impossibile o eccessivamente difficoltoso elaborare l’offerta.
Sul punto basti osservare che il termine di presentazione delle domanda veniva previsto in 20 giorni con scadenza il 10.07.2017 e la contestata integrazione interveniva il 27.06.2017 consentendo ai concorrenti di fruire di 13 giorni per definire i termini delle rispettive offerte sulla base degli esiti dell’accesso ai luoghi: spazio temporale da ritenersi sufficiente ove si consideri che agli stessi erano già noti, perché allegati alla Lettera di invito, il capitolato speciale d’appalto, il computo metrico estimativo, l’elenco prezzi unitari, la relazione tecnica, la relazione materiali e le Tavole: documentazione che la stessa ricorrente riconosce essere dettagliata, minuziosa, chiara e completa (pag. 16 del ricorso).
Priva di pregio è la dedotta nullità delle attestazioni rilasciati agli altri concorrenti per violazione dell’art. 40 del d.P.R. n. 445/2000.
I documenti in questione, come emerge dall’esame degli stessi, consistono in dichiarazioni rese e sottoscritte digitalmente dal RUP rilasciate ai legali rappresentanti delle imprese, nelle quali si dà atto dell’avvenuta “visita presso i luoghi in cui si svolgeranno le lavorazioni e presa visione degli elaborati progettuali con/senza estrazione di copia”, con indicazione della data in cui veniva effettuato l’accesso.
Nessun profilo incertezza può, quindi, sussistere circa la loto natura (non si è in presenza di un “atto notorio”) né in merito alla loro completezza e conformità a quanto richiesto dall’integrazione della Lettera di invito.
La doglianza, peraltro, è smentita dalla stessa ricorrente nel successivo capo d’impugnazione ove, con riferimento al documento rilasciato dal Comune a seguito del sopralluogo, afferma che non consisterebbero in un verbale “in cui un tecnico del Committente ha dato informazioni tecniche specifiche ma solo di un attestato” (pag. 18 del ricorso): esattamente ciò che era richiesto.
L’adempimento questione, in quanto necessario, non determina alcun illegittimo aggravio del procedimento.
Quanto alla dedotta violazione dell’art. 83, comma 8, del Codice (divieto di introduzione di cause di esclusione non tipizzate) si rinvia alla già richiamata giurisprudenza laddove si precisa che “non può pervenirsi alla conclusione a cui perviene la ricorrente secondo cui, nella vigenza del nuovo Codice degli Appalti, sia stata necessariamente espunta in assoluto dall'ordinamento di settore ogni possibilità per le stazioni appaltanti di prescrivere a pena di esclusione il sopralluogo da parte dell'impresa del sito interessato (dai lavori o dai servizi da eseguire)…” (TAR Lazio, n. 2280/1917, cit.).
La mancata produzione dell’attestazione richiesta (relativa, come anticipato, ad un adempimento essenziale ai fini della formulazione di una offerta seria e attendibile), non è, peraltro, sanabile mediante “soccorso istruttorio”.
L’istituto in questione, infatti, viene previsto dalla norma invocata solo per "le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda" e non può trovare applicazione in ipotesi di omessa presentazione di un documentano previsto a pena di esclusione (ex multis, TAR Lazio, Roma, Sez. I, 18.012017, n. 878)
Quanto alla pretesa violazione del “principio di buona fede precontrattuale” e di “imparzialità e buon andamento” (dedotta al punti I.15 del ricorso) non può che rilevarsi l’inammissibilità della censura poiché allegata e non sviluppata.
...
Con il terzo motivo di ricorso viene dedotta in subordine l’illegittimità dell’intera gara poiché la necessita di un sopralluogo attestato dal Committente avrebbe dovuto essere previsto nella disciplina di gara originariamente e non introdotto in un secondo tempo.
La ricorrente riafferma l’illegittimità della mancata proroga dei termini di presentazione della domanda ex art. 79 del Codice deducendo che l’originario termine di 20 giorni, fissato dalla Stazione appaltante, doveva essere ricalcolato dalla integrazione disposta.
Circa tali ulteriori doglianze, non può che ravvisarsene l’identità con quelle già formulate con il primo motivo di ricorso con conseguente richiamo di quanto già considerato in detta sede.
Nessun rilievo assumono, infine, le criticità evidenziate dalla ricorrente con la memoria da ultimo depositata poiché, a tacere della circostanza che si opera una irrituale introduzione di nuove censure in giudizio, sono riferite a segmenti procedimentali successivi all’esclusione della stessa in relazione ai quali, non vanta alcun interesse.
A conclusione dell’illustrato scrutinio delle censure oggetto di ricorso, il Collegio non può che prendere atto che la ricorrente in data 27.06.2017 dichiarava “ai sensi degli articoli 46 e 47 del DPR 445/2000, consapevole delle sanzioni penali previste dall’art. 76 per le ipotesi di falsità in atti e dichiarazioni mendaci” di “aver preso visione dei luoghi ove devono eseguirsi i lavori, di aver preso visione del progetto e di avere preso conoscenza delle condizioni dei locali …” (doc. 5 di parte ricorrente).
La dichiarazione è smentita dall’Amministrazione che, come già esposto, ne afferma a più riprese l’inaccessibilità, nonché, dalla stessa ricorrente che, come più volte evidenziato, riconosce di non aver effettuato alcun accesso all’interno dell’edificio scolastico e di essersi limitata a visionarlo dall’esterno.
Preso atto di tale contrasto, deve disporsi la trasmissione della presente sentenza alla Procura della Repubblica di Reggio Emilia per le eventuali valutazioni di competenza.
Per quanto precede il ricorso deve essere respinto con condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio nella misura liquidata in dispositivo (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 05.03.2018 n. 69 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: È illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la "ratio" della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica.
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5. I ricorsi risultano inammissibili per manifesta infondatezza dei motivi e per genericità.
La sentenza impugnata (e la decisione di primo grado, in doppia conforme) con motivazione adeguata, immune da contraddizioni e da manifeste illogicità, e con corretta applicazione della giurisprudenza di questa Corte di cassazione, rileva come la struttura realizzata dagli imputati sia "completamente chiusa su tutti i lati munita di vere e proprie finestre, destinata a servizio dell'adiacente servizio commerciale gestito dal Co. ... la documentazione fotografica inoltre dimostra in modo inequivocabile che la struttura realizzata non solo non poteva essere edificata con il rilascio della semplice D.I.A. ... ma non è per nulla un'opera precaria. Non può infatti, definirsi, né amovibile né precaria una struttura di grandi dimensioni realizzata nel cortile davanti all'esercizio commerciale gestito dal Co. funzionalmente destinato ad ospitare i clienti ...".
6. La sanatoria è stata correttamente ritenuta dalla sentenza impugnata ininfluente per l'estinzione del reato, poiché condizionata all'adempimento di prescrizioni, peraltro non effettuate: "È illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la "ratio" della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica" (Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015 - dep. 29/12/2015, Carratù e altro, Rv. 26603401; vedi anche Sez. 3, n. 22256 del 28/04/2016 - dep. 27/05/2016, Rongo, Rv. 26729001).
7. La lettera A dell'art. 44 d.P.R. 380/2001 prevede l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive del titolo abilitativo -permesso di costruire-, nel caso in giudizio mancava proprio il titolo abilitativo del permesso di costruire, e quindi la norma applicabile è quella della lettera B, dell'art. 44 cit..
8. Alla data della decisione della Corte di appello (06.07.2015, reato accertato il 07.09.2010) il reato non era prescritto, non rileva infatti l'attività successiva alla pronuncia: "Ai fini del computo della prescrizione rileva il momento della lettura del dispositivo della sentenza di condanna e non quello successivo del deposito della stessa (in applicazione del principio, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso che deduceva l'intervenuta estinzione del reato per decorso del termine della prescrizione, essendo il medesimo maturato dopo la pronuncia della sentenza, anche se prima della data di notificazione dell'estratto della decisione all'imputato contumace)" (Sez. 1, n. 20432 del 27/01/2015 - dep. 18/05/2015, Lione, Rv. 26336501).
L'inammissibilità, del resto, esclude la valutazione della prescrizione eventualmente maturata dopo la sentenza impugnata: "L'inammissibilità del ricorso per Cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen. (nella specie la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso)" (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000 - dep. 21/12/2000, D. L, Rv. 217266) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.02.2018 n. 9058).

EDILIZIA PRIVATA: Il progettista e direttore dei lavori risponde del reato edilizio, quando la sua opera non si è limitata alla progettazione ma è andata oltre.
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In tema di reati edilizi, è configurabile la responsabilità del progettista in caso di realizzazione di interventi edilizi necessitanti il permesso di costruire, ma eseguiti in base ad una denuncia di inizio attività accompagnata da dettagliata relazione a firma del predetto professionista, in quanto l'attestazione del progettista di "conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti" comporta l'esistenza in capo al medesimo di un obbligo di vigilanza anche nel corso dell'esecuzione dei lavori".
"
In tema di violazioni urbanistico-edilizie, la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa dall'avvenuto rilascio del titolo abilitativo in violazione di legge o degli strumenti urbanistici, ovvero nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima".
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Può quindi affermarsi il seguente principio di diritto: «
Per il reato di cui all'art. 44, comma 1, lettera B, d.P.R. 380/2001, è configurabile la responsabilità del progettista e direttore dei lavori, e del costruttore in caso di realizzazione di interventi edilizi necessitanti il permesso di costruire, ma eseguiti in base ad una denuncia di inizio attività accompagnata da dettagliata relazione a firma del predetto professionista, in quanto l'attestazione del progettista di "conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti" comporta l'esistenza in capo al medesimo di un effettivo e concreto obbligo di vigilanza anche nel corso dell'esecuzione dei lavori, con la logica conseguenza che -se i lavori eseguiti risultano difformi e diversi da quelli autorizzati con D.I.A., e per essi necessitava il permesso di costruire-, responsabile dell'abuso è anche il progettista e direttore dei lavori, in concorso con gli altri autori».
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9. Manifestamente infondati risultano anche i ricorsi di Cu, progettista e direttore dei lavori, e di Pa., esecutore materiale dei lavori.
Infatti Cu. non è stato condannato per reato diverso da quello contestatogli (art. 110 cod. pen. e 44, comma 1, lettera B, d.P.R. 380/2001), ma la motivazione della sentenza della Corte di appello (e in parte di quella del Tribunale) se richiama l'attività di documentazione attestazione (dichiarazione di conformità) del tecnico lo fa incidentalmente ai fini dell'elemento soggettivo del reato.
Del resto il progettista e direttore dei lavori risponde del reato edilizio, quando la sua opera non si è limitata alla progettazione ma è andata oltre: "In tema di reati edilizi, è configurabile la responsabilità del progettista in caso di realizzazione di interventi edilizi necessitanti il permesso di costruire, ma eseguiti in base ad una denuncia di inizio attività accompagnata da dettagliata relazione a firma del predetto professionista, in quanto l'attestazione del progettista di "conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti" comporta l'esistenza in capo al medesimo di un obbligo di vigilanza anche nel corso dell'esecuzione dei lavori" (Sez. 3, n. 28267 del 09/05/2008 - dep. 10/07/2008, Pacecca e altri, Rv. 24082101); "In tema di violazioni urbanistico-edilizie, la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa dall'avvenuto rilascio del titolo abilitativo in violazione di legge o degli strumenti urbanistici, ovvero nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima" (Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016 - dep. 11/03/2016, Torzini, Rv. 26629101).
Può quindi affermarsi il seguente principio di diritto: «Per il reato di cui all'art. 44, comma 1, lettera B, d.P.R. 380/2001, è configurabile la responsabilità del progettista e direttore dei lavori, e del costruttore in caso di realizzazione di interventi edilizi necessitanti il permesso di costruire, ma eseguiti in base ad una denuncia di inizio attività accompagnata da dettagliata relazione a firma del predetto professionista, in quanto l'attestazione del progettista di "conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti" comporta l'esistenza in capo al medesimo di un effettivo e concreto obbligo di vigilanza anche nel corso dell'esecuzione dei lavori, con la logica conseguenza che -se i lavori eseguiti risultano difformi e diversi da quelli autorizzati con D.I.A., e per essi necessitava il permesso di costruire-, responsabile dell'abuso è anche il progettista e direttore dei lavori, in concorso con gli altri autori».
9. 1. Relativamente al ricorso di Pa., oltre a quanto visto sopra sotto il profilo della sua responsabilità, si deve evidenziare che la sua intenzione di ottemperare alle prescrizioni della sanatoria (impedito a suo dire dal proprietario) non è rilevante ai fini dell'esclusione della responsabilità, ma in tesi, potrebbe rilevare sul trattamento sanzionatorio, che non risulta sia motivo di ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.02.2018 n. 9058).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIValutazione di impatto ambientale e principio di precauzione.
Il Consiglio di Stato delinea i contenuti della valutazione di impatto ambientale e osserva che:
   - alla stregua dei principi comunitari e nazionali, la valutazione di impatto ambientale non concerne una mera e generica verifica di natura tecnica circa l'astratta compatibilità ambientale dell'opera, ma deve implicare la complessiva e approfondita analisi comparativa di tutti gli elementi incidenti sull'ambiente del progetto unitariamente considerato, al fine di valutare in concreto -alla luce delle alternative possibili e dei riflessi della stessa c.d. "opzione zero"- il sacrificio imposto all'ambiente rispetto all'utilità socioeconomica perseguita;
   - le scelte effettuate in sede di VIA, istituto finalizzato alla tutela preventiva dell’ambiente inteso in senso ampio, hanno natura ampiamente discrezionale in quanto giustificate alla luce dei valori primari e assoluti coinvolti;
   - nel rendere il giudizio di valutazione di impatto ambientale, l’amministrazione esercita una amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti; di conseguenza, le posizioni soggettive delle persone e degli enti coinvolti nella procedura sono pacificamente qualificabili in termini di interesse legittimo ed è altrettanto assodato che le relative controversie non rientrano nel novero delle tassative ed eccezionali ipotesi di giurisdizione di merito sancite dall’art. 134 c.p.a.;
   - la relativa valutazione di legittimità giudiziale, escludendo in maniera assoluta il carattere sostitutivo della stessa, deve essere limitata ad evidenziare la sussistenza di vizi rilevabili ictu oculi, a causa della loro abnormità, irragionevolezza, contraddittorietà e superficialità, con la conseguenza che le scelte effettuate dall'Amministrazione si sottraggono al sindacato del giudice amministrativo ogniqualvolta le medesime non si appalesino come manifestamente illogiche o incongrue.
Il Consiglio di Stato aggiunge che tale approccio necessita di ulteriore conferma laddove le critiche avverso l’esercizio del potere tecnico discrezionale si concentrano sul rispetto del principio di precauzione, di cui all’art. 191 TFUE e agli artt. 3-ter e 301 d.lgs. n. 152 del 2006, la cui invocazione, peraltro, impone l’introduzione di elementi di valutazione particolarmente dettagliati, per evitare di estenderne eccessivamente la portata; al riguardo il Consiglio di Stato ritiene che il principio di precauzione:
i cui tratti giuridici si individuano lungo un percorso esegetico fondato sul binomio analisi dei rischi-carattere necessario delle misure adottate, presuppone l'esistenza di un rischio specifico all'esito di una valutazione quanto più possibile completa, condotta alla luce dei dati disponibili che risultino maggiormente affidabili e che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura;
non può legittimare un'interpretazione delle disposizioni normative, tecniche ed amministrative vigenti in un dato settore che ne dilati il senso fino a ricomprendervi vicende non significativamente pregiudizievoli;
non conduce automaticamente a vietare ogni attività che, in via di mera ipotesi, si assuma foriera di eventuali rischi per la salute delle persone e per l'ambiente, privi di ogni riscontro oggettivo e verificabile, richiedendo esso stesso una seria e prudenziale valutazione, alla stregua dell'attuale stato delle conoscenze scientifiche disponibili, dell'attività che potrebbe ipoteticamente presentare dei rischi, valutazione consistente nella formulazione di un giudizio scientificamente attendibile
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
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12. Relativamente alla censura dell’esercizio della discrezionalità tecnica, il Collegio ritiene opportuno premettere alcune considerazioni di ordine generale.
12.1. Invero, si osserva che, alla stregua dei principi comunitari e nazionali, la valutazione di impatto ambientale non concerne una mera e generica verifica di natura tecnica circa l'astratta compatibilità ambientale dell'opera, ma deve implicare la complessiva e approfondita analisi comparativa di tutti gli elementi incidenti sull'ambiente del progetto unitariamente considerato, al fine di valutare in concreto -alla luce delle alternative possibili e dei riflessi della stessa c.d. "opzione zero"- il sacrificio imposto all'ambiente rispetto all'utilità socioeconomica perseguita (cfr. Cons. Stato, sez. V, 06.07.2016, n. 3000; id., 31.05.2012 n. 3254).
Ebbene, circa l’esatta individuazione della natura del potere e l’ampia latitudine della discrezionalità esercitata dall’amministrazione in sede di VIA, in quanto istituto finalizzato alla tutela preventiva dell’ambiente inteso in senso ampio, il Collegio non intende deflettere dagli approdi esegetici cui è pervenuta la recente giurisprudenza (internazionale e nazionale), da cui emerge la natura ampiamente discrezionale delle scelte effettuate, giustificate alla luce dei valori primari ed assoluti coinvolti (cfr., Cons. St., sez. II, 02.10.2014, n. 3938; sez. IV , 09.01.2014, n. 36; sez. IV, 17.09.2013, n. 4611 sez. VI, 13.06.2011, n. 3561; Corte giust., 25.07.2008, c-142/07; Corte cost., 07.11.2007, n. 367, cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74, co. 1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.).
E’ stato chiarito che nel rendere il giudizio di valutazione di impatto ambientale, l’amministrazione esercita una amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti; la natura schiettamente discrezionale della decisione finale risente dunque dei suoi presupposti sia sul versante tecnico che amministrativo.
Di conseguenza, le posizioni soggettive delle persone e degli enti coinvolti nella procedura sono pacificamente qualificabili in termini di interesse legittimo ed è altrettanto assodato che le relative controversie non rientrano nel novero delle tassative ed eccezionali ipotesi di giurisdizione di merito sancite dall’art. 134 c.p.a. (cfr., sotto l’egida della precedente normativa, identica in parte qua, Cons. St., ad. plen., 09.01.2002, n. 1).
12.2. È proprio in ragione di tali particolari profili che caratterizzano il giudizio di valutazione di impatto ambientale che il Collegio, prescindendo da specifiche aggettivazioni (debole o forte), ritiene che la relativa valutazione di legittimità giudiziale, escludendo in maniera assoluta il carattere sostitutivo della stessa, debba essere limitata ad evidenziare la sussistenza di vizi rilevabili ictu oculi, a causa della loro abnormità, irragionevolezza, contraddittorietà e superficialità.
Invero, il giudizio di compatibilità ambientale quand'anche reso sulla base di criteri oggettivi di misurazione, pienamente esposti al sindacato del giudice amministrativo, è attraversato, come visto, da profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa sul piano dell'apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro ponderazione rispetto all'interesse all'esecuzione dell'opera, con la conseguenza che le scelte effettuate dall'Amministrazione si sottraggono al sindacato del giudice amministrativo ogniqualvolta le medesime non si appalesino come manifestamente illogiche o incongrue (in termini, di recente, Cons. Stato, sez. IV, 27.03.2017, n. 1392).
12.3. Sulla scorta di ricevuti principi (cfr., Cass. civ., sez. un., 17.02.2012, nn. 2312 e 2313; Corte cost., 03.03.2011, n. 175; Cons. St., sez. VI, 09.02.2011, n. 871), cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74, co. 1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.:
   a) la sostituzione, da parte del giudice amministrativo, della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce ipotesi di sconfinamento vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla p.a., quand’anche l’eccesso in questione sia compiuto da una pronuncia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento dell’atto;
   b) in base al principio di separazione dei poteri sotteso al nostro ordinamento costituzionale, solo l’amministrazione è in grado di apprezzare, in via immediata e diretta, l’interesse pubblico affidato dalla legge alle sue cure;
   c) conseguentemente, il sindacato sulla motivazione delle valutazioni discrezionali:
      I) deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto acquisiti;
      II) non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa;
      III) può disporre c.t.u. o verificazione al fine di esercitare più penetranti controlli, con particolare riguardo ai profili accertativi.
13. Tale approccio necessita di ulteriore conferma laddove, come nel caso di specie, le critiche avverso l’esercizio del potere tecnico discrezionale si concentrano sul rispetto del principio di precauzione di cui all’art. 191 TFUE e agli artt. 3-ter e 301 d.lgs. n. 152 del 2006, la cui invocazione, peraltro, impone l’introduzione di elementi di valutazione particolarmente dettagliati, per evitare di estenderne eccessivamente la portata.
Invero, condividendo sul punto quanto espresso dalla costante giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 27/12/2013, n. 6250; Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 03/09/2015, n. 581), il Collegio ritiene che il principio di precauzione:
   a) i cui tratti giuridici si individuano lungo un percorso esegetico fondato sul binomio analisi dei rischi-carattere necessario delle misure adottate, presuppone l'esistenza di un rischio specifico all'esito di una valutazione quanto più possibile completa, condotta alla luce dei dati disponibili che risultino maggiormente affidabili e che deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura;
   b) non può legittimare un'interpretazione delle disposizioni normative, tecniche ed amministrative vigenti in un dato settore che ne dilati il senso fino a ricomprendervi vicende non significativamente pregiudizievoli;
   c) non conduce automaticamente a vietare ogni attività che, in via di mera ipotesi, si assuma foriera di eventuali rischi per la salute delle persone e per l'ambiente, privi di ogni riscontro oggettivo e verificabile, richiedendo esso stesso una seria e prudenziale valutazione, alla stregua dell'attuale stato delle conoscenze scientifiche disponibili, dell'attività che potrebbe ipoteticamente presentare dei rischi, valutazione consistente nella formulazione di un giudizio scientificamente attendibile.
14. Facendo applicazione dei suesposti principi alla vicenda per cui è causa, sulla scorta delle risultanze documentali in atti, il collegio osserva quanto segue:
   a) molte delle censure appaiono generiche, pertanto inammissibili;
   b) ad ogni modo, tutte le censure che contrastano il contenuto del compendio delle valutazioni discrezionali poste a base del positivo provvedimento definitivo di VIA sono inammissibili per le ragioni esposte al precedente § 12 (in particolare 12.3); il Comune ricorrente, in buona sostanza, attacca l’opportunità delle scelte, tecniche e amministrative, rimesse all’autorità preposta alla cura di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti, sostituendo alle contestate valutazioni, che non superano mai la soglia dell’abnormità o della manifesta illogicità, le proprie soluzioni (valoristiche, progettuali, istituzionali, economiche);
   c) inoltre, tutte le censure dirette a contestare l’omessa valutazione degli impatti cumulativi delle attività autorizzate sono anche infondate, in considerazione della sufficienza ed idoneità delle prescrizioni imposte dalla Commissione, secondo il principio di massima precauzione, come già condivisibilmente ravvisato dal Giudice di primo grado:
      c.1) divieto di svolgere contemporaneamente ulteriori indagini sismiche in ambiti geografici dove la distanza fra le imbarcazioni sismiche sia inferiore, nel punto più vicino atteso, a 55 miglia nautiche (100 km), in modo da garantire un’adeguata via di fuga ai mammiferi marini (così come già ribadito anche nel rapporto ISPRA 2012);
      c.2) divieto di contemporanea esecuzione di indagini sismiche 2D e 3D se non siano trascorsi almeno 12 mesi dalla prima campagna;
      c.3) limitatamente ai permessi di ricerca 2D, se in futuro dovesse risultare necessario effettuare una ulteriore campagna di approfondimento geofisico del tipo 3D dovrà essere attivata una nuova procedura di valutazione ambientale;
      c.4) per minimizzare qualsiasi interferenza o impatto cumulativo dovuto alla simultaneità delle operazioni all’interno di due aree adiacenti assegnate allo stesso proponente, l’esecuzione del rilevamento deve essere effettuata impiegando un'unica nave di acquisizione e quindi un'unica sorgente acustica, eliminando in tal modo ogni possibilità di sovrapposizione di effetti legati alla generazione di più segnali acustici contemporaneamente presenti in una medesima area;
      c.5) nel caso in cui uno o più titoli minerari vengano rilasciati con una tempistica tale che renda possibile effettuare i lavori nello stesso periodo in cui si svolgerà l’attività di prospezione geofisica proposta, il proponente è tenuto a prendere contatti con il possibile altro operatore per redigere un cronoprogramma delle operazioni che ne escluda la simultaneità e ad effettuare la verifica dei titoli minerari rilasciati nei dintorni al fine di redigere un cronoprogramma delle attività che ne escluda la simultaneità, con la conseguente esclusione della possibilità di effettuazione simultanea di indagini sismiche in aree adiacenti;
      c.6) obbligo di esecuzione del biomonitoraggio e di un piano di monitoraggio bioacustico preventivo e successivo alla crociera sismica, con la previsione che il piano preventivo debba consentire di definire le strategie di mitigazione da adottare nel corso delle operazioni di air gun;
      c.7) definizione di una zona di esclusione/area di sicurezza, attorno alla sorgente di rumore per l'individuazione del rischio potenziale per i mammiferi marini suddivisa in due aree di cui una per il danno fisico e una più esterna per il disturbo potenziale;
      c.8) indicazione di precisi parametri di misurazione acustica per suddividere l'area di sicurezza.
15. In conclusione, alla luce di quanto considerato, il Collegio, ravvisando che i motivi di appello impingono nel merito delle valutazioni riservate all’amministrazione, ravvisa l’inammissibilità degli stessi.
16. Stante, da un lato, l’infondatezza di alcune censure e, dall’altro, l’inammissibilità di altre, l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2018 n. 1240 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
In tale ottica, l’atto che ordina l’eliminazione delle opere realizzate, oltre a sanzionare l’abuso contestato, può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa oggettiva rilevazione e descrizione dell’abuso accertato (accertamento della sua “consistenza fisica” univocamente correlata all’enucleazione materiale del precetto violato), presupposto giustificativo, necessario e sufficiente a fondare l'emanazione della misura sanzionatoria della demolizione, atteso che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
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L’appello appare prima facie infondato, come già evidenziato in sede cautelare.
In ordine al primo motivo di appello, dall’analisi della documentazione versata in atti emerge all’evidenza una chiara ricostruzione degli abusi realizzati e della relativa consistenza, così come compiutamente descritti nel provvedimento sanzionatorio impugnato.
In linea di diritto, va ricordato il principio, ancora di recente ribadito dall’Adunanza plenaria (cfr. dec. n. 9 del 2017) a mente del quale i provvedimenti con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
In tale ottica, l’atto che ordina l’eliminazione delle opere realizzate, oltre a sanzionare l’abuso contestato, può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa oggettiva rilevazione e descrizione dell’abuso accertato (accertamento della sua “consistenza fisica” univocamente correlata all’enucleazione materiale del precetto violato), presupposto giustificativo, necessario e sufficiente a fondare l'emanazione della misura sanzionatoria della demolizione, atteso che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione.
In linea di fatto, nel caso in esame l’iter confluito nel provvedimento sanzionatorio ha consentito di verificare la consistenza delle opere abusive, che gli stessi appellanti hanno ammesso di aver realizzato al fine di coordinare la parte preesistente con quella condonata.
In coerenza con l’accertata consistenza delle opere, nel caso di specie l’ordinanza appare estremamente dettagliata, sia in relazione alla ricostruzione ed individuazione degli abusi, nonché in merito alla relativa qualificazione.
Tali emergenze evidenziano altresì l’infondatezza del secondo ordine di rilievi, in quanto l’ordine contenuto nella parte dispositiva trova piena esplicazione, in relazione all’individuazione delle opere abusive da demolire, nella parte motiva e ricostruttiva della consistenza degli interventi contestati.
Se per un verso nessun elemento concreto viene indicato da parte appellante al fine di evidenziare l’eventuale rischio per le parti non abusive, per un altro verso l’estremo dettaglio dell’ordinanza sanzionatoria esclude ogni incertezza al riguardo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.02.2018 n. 1087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il privato, sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva, non può invocare tout court l'applicazione a suo favore dell'art. 34 del t.u. n. 380 del 2001, potendo addurre che sia onere dell'amministrazione verificare i requisiti indicati dalla norma solo qualora abbia già fornito seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo.
A tal fine non è certo sufficiente l'allegazione che la demolizione implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità interna del locale preesistente, specie laddove, come nel caso de quo, nessun concreto elemento al riguardo sia stato fornito.
Oltre al mancato assolvimento dell’onere probatorio facente capo alla parte che invoca l’applicazione della norma che eccezionalmente consente una sanzione alternativa alla demolizione, secondo la giurisprudenza fatta propria anche dalla sezione, la stessa non è applicabile alle opere realizzate senza titolo per ampliare un manufatto preesistente.

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In materia va ribadito che il privato, sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva, non può invocare tout court l'applicazione a suo favore dell'art. 34 del t.u. n. 380 del 2001, potendo addurre che sia onere dell'amministrazione verificare i requisiti indicati dalla norma solo qualora abbia già fornito seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo; a tal fine non è certo sufficiente l'allegazione che la demolizione implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità interna del locale preesistente, specie laddove, come nel caso de quo, nessun concreto elemento al riguardo sia stato fornito.
Oltre al mancato assolvimento dell’onere probatorio facente capo alla parte che invoca l’applicazione della norma che eccezionalmente consente una sanzione alternativa alla demolizione, secondo la giurisprudenza fatta propria anche dalla sezione (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 01.06.2016 n. 2325), la stessa non è applicabile alle opere realizzate senza titolo per ampliare un manufatto preesistente (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.02.2018 n. 1087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il permesso in sanatoria ex art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 è ottenibile solo su istanza di parte ed a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda.
Viceversa, con la invocata “sanatoria giurisprudenziale” viene in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca, in linea di massima, al di fuori di qualsiasi indicazione normativa “positiva”.

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A conferma dell’infondatezza della prospettazione di parte appellante, da ultimo, la stessa invoca un principio (quella della c.d. sanatoria giurisprudenziale) invero normativamente superato nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente ed ai principi connessi al perseguimento dell’abusiva trasformazione del territorio; tali principi sono, d’altra parte, posti a fondamento del preminente e condiviso orientamento giurisprudenziale, a tenore del quale (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. VI 18.07.2016 n. 3194) il permesso in sanatoria ex art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 è ottenibile solo su istanza di parte ed a condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda; viceversa, con la invocata “sanatoria giurisprudenziale” viene in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca, in linea di massima, al di fuori di qualsiasi indicazione normativa “positiva” (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.02.2018 n. 1087 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La verifica dell’effetto pregiudizievole dell’intervento demolitorio sulla struttura preesistente ha impulso su istanza dell’interessato e deve precedere unicamente l'irrogazione della demolizione successivamente all'inottemperanza del destinatario al primo ordine di ripristino e condiziona quindi la sola demolizione d'ufficio o in danno.
L'Amministrazione, dunque, solo in ipotesi di mancata demolizione spontanea da parte dell'interessato e prima di avviare la demolizione d'ufficio, è tenuta a valutare l'istanza dell'interessato di sostituzione della misura demolitoria con quella sanzionatoria in ragione dell'asserito pregiudizio alla parte di immobile legittimamente costruita.

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5.4. Non è infine fondata la censura con la quale il ricorrente sostiene che il Comune avrebbe dovuto irrogare la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, stante il pericolo di pregiudizio alla parte legittimamente costruita derivante dall'esecuzione della demolizione delle opere abusive. La verifica dell’effetto pregiudizievole dell’intervento demolitorio sulla struttura preesistente ha impulso su istanza dell’interessato e deve precedere unicamente l'irrogazione della demolizione successivamente all'inottemperanza del destinatario al primo ordine di ripristino e condiziona quindi la sola demolizione d'ufficio o in danno (cfr. TAR Campania, 04.04.2013, n. 1769).
5.4.1. L'Amministrazione, dunque, solo in ipotesi di mancata demolizione spontanea da parte dell'interessato e prima di avviare la demolizione d'ufficio, è tenuta a valutare l'istanza dell'interessato di sostituzione della misura demolitoria con quella sanzionatoria in ragione dell'asserito pregiudizio alla parte di immobile legittimamente costruita (TAR Palermo sez. III, 23.01.2015, n. 211) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 25.01.2018 n. 127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che, in presenza di una situazione di obiettiva incertezza sui confini, l’eventuale assunzione per mero errore, da parte di un Comune, di provvedimenti relativi al territorio di altri Comuni non dà luogo a nullità degli atti.
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16. Resiste alle censure della ricorrente anche l’atto inibitorio della segnalazione certificata di inizio attività emesso dal Comune di Casatenovo.
Il provvedimento evidenzia, infatti, anzitutto il mancato rilascio dell’autorizzazione paesaggistica. Circostanza, questa, che di per sé sola è idonea a sorreggere la determinazione con la quale è stato reso noto alla ricorrente “che non sarà possibile le realizzazione degli interventi (...)”. E ciò in quanto la realizzazione, sulla base di una segnalazione certificata di inizio attività, di opere concernenti immobili vincolati è in ogni caso “subordinata al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative” (v. articolo 22, comma 6, del d.P.R. n. 380 del 2001).
17. Non può, poi, trovare accoglimento la censura –articolata con il quarto motivo di ricorso– specificamente diretta contro l’ordinanza del Comune di Missaglia, nella parte in cui ordina la rimozione della stanga di ferro e delle ramaglie che, secondo quanto dedotto dalla signora Vismara nell’atto introduttivo del giudizio, si troverebbero invece nel territorio del Comune di Casatenovo.
Al riguardo, deve rilevarsi che è la stessa ricorrente ad aver allegato che, a seguito di più approfondite indagini, è emerso che lo sbarramento si trova proprio nel territorio del Comune di Missaglia, per cui la censura deve intendersi oggetto di implicita rinuncia.
Non può invece darsi seguito alla richiesta della ricorrente (formulata nella memoria del 27.03.2017, p. 20) di intendere la doglianza come proposta –per le medesime ragioni– contro l’ordinanza emessa dal Comune di Casatenovo. E ciò sia in quanto si tratterebbe di una non consentita mutatio libelli, sia perché il vizio dedotto contro l’ordinanza del Comune di Casatenovo non potrebbe comportare comunque la nullità del provvedimento e non sarebbe quindi in nessun caso rilevabile d’ufficio.
La giurisprudenza ha infatti già avuto modo di affermare che, in presenza di una situazione di obiettiva incertezza sui confini, l’eventuale assunzione per mero errore, da parte di un Comune, di provvedimenti relativi al territorio di altri Comuni non dà luogo a nullità degli atti (Cons. Stato, Sez. V, 27.05.2014, n. 2713) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.07.2017 n. 1707 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Laddove un atto sia fondato su una pluralità di motivazioni, ciascuna sufficiente a sorreggerlo, la mancata impugnazione o il rigetto delle censure articolate contro una di queste comporta il venir meno dell’interesse allo scrutinio delle rimanenti doglianze dirette contro le ulteriori ragioni poste a sostegno della determinazione assunta dall’amministrazione.
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19. Alla luce di quanto precede, il Collegio ritiene di potersi esimere dallo scrutinare le ulteriori censure articolate contro i provvedimenti impugnati nel presente giudizio.
Tali doglianze ruotano, infatti, tutte intorno al tema dell’esistenza di sentieri di interesse pubblico sul terreno della signora Vi.; circostanza affermata dai Comuni resistenti e contestata dalla ricorrente. Al riguardo, la difesa del Comune di Casatenovo, in prossimità dell’udienza, ha chiesto anzi espressamente lo svolgimento di una consulenza tecnica o di una verificazione, allo scopo di dirimere tale aspetto controverso.
Il Collegio ritiene che la richiesta non possa essere accolta, poiché la soluzione della questione non è rilevante ai fini della decisione della causa, in quanto:
   - non influisce sulla legittimità della condizione apposta all’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di Missaglia, secondo quanto sopra detto;
   - non influisce neppure sulla legittimità del provvedimento inibitorio della segnalazione certificata di inizio attività assunto dal Comune di Casatenovo e delle ordinanze di demolizione emesse dai due Comuni interessati, posto che –come diffusamente illustrato– tutti questi atti sono basati anzitutto sulla realizzazione delle opere in assenza dell’autorizzazione paesaggistica.
Deve perciò tenersi fede al consolidato indirizzo giurisprudenziale per il quale laddove un atto sia fondato su una pluralità di motivazioni, ciascuna sufficiente a sorreggerlo, la mancata impugnazione o il rigetto delle censure articolate contro una di queste comporta il venir meno dell’interesse allo scrutinio delle rimanenti doglianze dirette contro le ulteriori ragioni poste a sostegno della determinazione assunta dall’amministrazione (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 12.05.2016, n. 1921; Id., Sez. VI, 20.03.2015, n. 1532) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.07.2017 n. 1707 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'avvenuta realizzazione in zona sismica di volumetrie non previste dal titolo abilitativo configura altresì la contravvenzione di cui all'art. 93 del d.p.r. n. 380 del 2001 ove la stessa non sia stata preceduta dalla denuncia di inizio di attività e dalla presentazione, al competente Sportello unico, dei relativi progetti.
Ciò in quanto il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica, previsto dall'art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico, atteso che l'art. 83, comma 2, del medesimo decreto, non pone alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone medesime.
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L'art. 94 del D.P.R. n. 380/2001 richiede la preventiva autorizzazione scritta dei competenti uffici tecnici regionali con esclusione dei lavori che debbano essere eseguiti nelle zone "a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83"; zone tra le quali, secondo quanto esposto dalla ricorrente, rientrerebbe anche la zona di Corato, classificata come "zona 3".
E tuttavia, il Tribunale, con motivazione apparente, assume l'avvenuta integrazione del reato contestato all'art. 94 essendo state le opere realizzate in zona sismica, senza avere accertato se il territorio del comune di Corato fosse stato inserito o meno nelle zone a bassa sismicità.

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In tema di legislazione antisismica, i reati di omessa denuncia dei lavori e presentazione dei progetti e di inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione hanno natura di reati permanenti, la cui consumazione si protrae sino a che il responsabile, rispettivamente, non presenta la relativa denuncia con l'allegato progetto, non termina l'intervento oppure non ottiene la relativa autorizzazione.
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4. Parzialmente fondato è, invece, il terzo motivo di ricorso proposto da Ma.Cl.Ru..
Secondo la ricorrente, il Tribunale pugliese, andando, ancora una volta, oltre i vincolanti confini della contestazione, avrebbe ritenuto di ravvisare la violazione dell'obbligo di preventiva denuncia di esecuzione dell'opera al Genio civile con riferimento all'aumento di volumetria e non, come invece riportato nell'imputazione, per avere realizzato l'orditura del solaio in legno differente da quella descritta in progetto.
Tanto più che, non trattandosi, in quest'ultimo caso, di modifica di ordine strutturale, non sarebbe stata obbligatoria la denuncia ex art. 93. Fermo restando che, ricadendo il comune di Corato in zona classificata a bassa sismicità, non sarebbe stato comunque applicabile il regime autorizzativo di cui all'art. 94 del D.P.R. 380/2001, che prevede l'esame preventivo dei contenuti tecnici delle progettazioni strutturali, al fine di verificare che gli stessi siano conformi alle N.T.C. vigenti.
4.1. Orbene, quanto al primo ordine di censure è appena il caso di ribadire, secondo quanto già osservato al § 3.1. del presente "considerato in diritto", che l'avvenuta realizzazione in zona sismica di volumetrie non previste dal titolo abilitativo, vero oggetto della contestazione, configura altresì la contravvenzione di cui all'art. 93 del d.p.r. n. 380 del 2001 ove la stessa non sia stata preceduta dalla denuncia di inizio di attività e dalla presentazione, al competente Sportello unico, dei relativi progetti. Ciò in quanto il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica, previsto dall'art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico, atteso che l'art. 83, comma 2, del medesimo decreto, non pone alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone medesime (Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, dep. 06/06/2011, Morini, Rv. 250369).
4.2. Fondate sono, invece, le censure che riguardano la configurabilità, nel caso di specie, della contravvenzione di cui all'art. 94 del D.P.R. n. 380/2001.
Tale disposizione, infatti, richiede la preventiva autorizzazione scritta dei competenti uffici tecnici regionali con esclusione dei lavori che debbano essere eseguiti nelle zone "a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83"; zone tra le quali, secondo quanto esposto dalla ricorrente, rientrerebbe anche la zona di Corato, classificata come "zona 3".
E tuttavia, il Tribunale, con motivazione apparente, assume l'avvenuta integrazione del reato contestato all'art. 94 essendo state le opere realizzate in zona sismica, senza avere accertato se il territorio del comune di Corato fosse stato inserito o meno nelle zone a bassa sismicità.
5. Fondato è, altresì, il quarto motivo di ricorso proposto da Ma.Cl.Ru. in relazione all'avvenuta maturazione del termine di prescrizione.
In tema di legislazione antisismica, i reati di omessa denuncia dei lavori e presentazione dei progetti e di inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione hanno natura di reati permanenti, la cui consumazione si protrae sino a che il responsabile, rispettivamente, non presenta la relativa denuncia con l'allegato progetto, non termina l'intervento oppure non ottiene la relativa autorizzazione (Sez. 3, n. 1145 in data 08/10/2015, dep. 14/01/2016, Stabile, Rv. 266015).
Nel caso di specie, peraltro, la sentenza impugnata non ha specificamente indicato i motivi per i quali i lavori dovessero ritenersi ultimati soltanto il 03/05/2011, data della dichiarazione di fine lavori presentata presso l'Ufficio Tecnico del Comune di Corato, e non il 30/07/2009, data della dichiarazione di  ultimazione dei lavori di carattere strutturale, depositata presso l'Assessorato alle Opere Pubbliche - Settore L.L.P.P., limitandosi ad affermare, nonostante i rilievi difensivi sul punto, che in presenza di un contrasto tra le due dichiarazioni dovesse ritenersi "maggiormente attendibile la comunicazione effettuata per ultima".
Osserva, tuttavia, il Collegio che la motivazione offerta dal Tribunale ha natura meramente apparente, non essendo state specificate le ragioni che sottendono alla ricostruzione offerta in sentenza.
6. Consegue alle esposte considerazioni che la sentenza impugnata dovrebbe essere annullata, con rinvio, al fine di consentire al tribunale pugliese di sottoporre a nuovo esame le questioni poste.
Tuttavia, considerato che, nelle more, entrambe le fattispecie contestate ai capi a) e b) sono ormai estinte per intervenuta prescrizione, deve essere pronunciata sentenza di annullamento senza rinvio.
6.1. Per completezza va, da ultimo, rilevato che pur essendo fondati i motivi di censura proposti da entrambi gli imputati con riferimento alla mancata motivazione in ordine alla concedibilità della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., pur ritualmente richiesta dalla difesa, la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sulla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, in quanto essa, estinguendo il reato, rappresenta un esito più favorevole per l'imputato, mentre la seconda lascia inalterato l'illecito penale nella sua materialità storica e giuridica (Sez. 6, n. 11040 del 27/01/2016, dep. 16/03/2016, Calabrese, Rv. 266505).
Ne consegue che la relativa questione deve ritenersi assorbita dalla ritenuta prescrizione dei reati de quibus.
7. Alla luce di quanto in precedenza argomentato, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, poiché i reati sono estinti per prescrizione.
Per tale motivo, deve, altresì, disporsi la revoca dell'ordine di demolizione dell'opera abusiva (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.06.2017 n. 30651).

EDILIZIA PRIVATA: L’autorizzazione all’installazione degli impianti pubblicitari rilasciata dai Comuni in base alla disciplina speciale (segnatamente in base all’art. 23 del Codice della Strada), nel rispetto dei criteri e dei vincoli fissati nell’apposito regolamento comunale e nel piano generale degli impianti pubblicitari (a loro volta previsti dall’art. 3 d.lgs. n. 507/1993) ha anche una valenza edilizia-urbanistica ed assolve, pertanto, alle esigenze di tutela sottesa al rilascio di un ulteriore titolo abilitativo rappresentato dal rilascio del titolo edilizio secondo la disciplina di cui al d.lgs. n. 380 del 2001.
Il Collegio è consapevole che una parte della giurisprudenza amministrativa in passato ha accolto una tesi contraria, che non esclude in assoluto la necessità del titolo edilizio per l’installazione degli impianti pubblicitari, ma richiede anche il permesso di costruire allorché vi sia un sostanziale mutamento del territorio nel suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico che sotto quello edilizio (in tal senso anche la prevalente giurisprudenza penale).
Tale tesi non appare, tuttavia, condivisibile alla luce delle seguenti considerazioni.
In primo luogo, essa non sembra tenere conto della “specialità” della disciplina di settore (codice della strada e decreto legislativo n. 507 del 1993) la quale, come riconosciuto anche dalla Corte costituzionale, prescrive regole e obblighi pianificatori specifici volti a tutelare, anche, le esigenze “dell’assetto del territorio e delle sue caratteristiche abitative, estetiche, ambientali e di viabilità”.
Di conseguenza, prescrivere in aggiunta all’autorizzazione di settore, anche il rilascio del permesso di costruire si tradurrebbe in una duplicazione del sistema autorizzatorio e sanzionatorio che risulterebbe sproporzionata, perché non giustificata dall’esigenza, già salvaguardata in base alla disciplina speciale (cfr. art. 3 d.lgs. n. 507 del 1993), di tutelare l’interesse al corretto assetto del territorio.
L’inutile complicazione cui darebbe luogo la tesi della duplicazione dei titoli autorizzatori risulta, peraltro, in netta controtendenza rispetto all’esigenza, fortemente perseguita dal legislatore anche nei più recenti interventi legislativi (cfr., ad esempio, d.lgs. 30.06.2016, n. 126), di semplificare i procedimenti amministrativi, convogliando i titoli abilitativi necessari allo svolgimento di un’attività privata all’interno di un procedimento unitario.
Gli interessi legati all’assetto urbanistico, pertanto, devono essere perseguiti dal Comune non attraverso la duplicazione dei titoli autorizzatori, ma vanno, al contrario, valutati, nel rispetto del principio di semplificazione e unicità del procedimento amministrativo, all’interno del procedimento di rilascio dell’autorizzazione prevista dall’art. 23, comma 4, codice della strada, con la conseguenza che quest’ultima autorizzazione dovrà essere negata nel caso in cui l’installazione risulti incompatibile con le esigenze urbanistico-edilizie.
Ulteriori elementi interpretativi a sostegno di questa tesi si desumono poi dall’art. 168 d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), che testualmente dispone “Chiunque colloca cartelli o altri mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni di cui all’art. 153 è punito con le sanzioni previste dal decreto legislativo 30.04.1992, n. 285 e successive modificazioni”. In tal modo, come evidenziato da parte appellante, la norma ha sottratto i cartelli pubblicitari alla disciplina generale prevista per le costruzioni e le opere in genere, assoggettandoli, ove sprovvisti del nulla osta paesaggistico, alle sanzioni amministrative previste dal codice della strada e non già alle sanzioni penali previste per le costruzioni abusive.
Ancora, in tale direzione depone l’orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione le quali, pronunciando in tema di riparto della giurisdizione in materia di determinazioni di rimozione di impianti pubblicitari (in questo processo sulla giurisdizione si è formato il giudicato implicito), hanno in più occasioni escluso o che il provvedimento con il quale un Comune intima la rimozione coattiva di un impianto pubblicitario rientri nella categoria degli «atti e provvedimenti» in materia di urbanistica ed edilizia - la cui cognizione, com’è noto, è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, affermando espressamente che non si verte “in tema di uso del territorio, ma di godimento abusivo di beni demaniali, con riferimento al quale il legislatore detta una disciplina specifica”.
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... per la riforma della sentenza 31.12.2011 n. 1688 del TAR CALABRIA-CATANZARO: SEZ. I, resa tra le parti, concernente demolizione impianto pubblicitario e ripristino dello stato dei luoghi
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6. L’appello merita accoglimento.
7. Occorre, preliminarmente, ricostruire nei suoi tratti essenziali la specifica disciplina vigente in materia di impianti pubblicitari.
Il riferimento va, in primo luogo, alle norme del Codice della strada (d.lgs. 30.04.1992 n. 285), alle quali si sono presto affiancate quelle di cui al d.lgs. 15.11.1993 n. 507 («Revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province»).
L’attività pubblicitaria è regolamentata dall’art. 23, comma 4, del Codice della strada, il quale prevede che la collocazione di cartelli e di altri mezzi pubblicitari lungo le strade o in vista di esse sia «soggetta in ogni caso ad autorizzazione da parte dell’ente proprietario della strada».
All'interno del perimetro dei centri abitati, la competenza al rilascio dell’autorizzazione è, in tutti i casi, dei Comuni, fatto salvo il preventivo nulla osta dell'ente proprietario nei casi in cui la strada appartenga al demanio statale, regionale o provinciale. Nella sostanza, chi intende esporre un mezzo pubblicitario «deve presentare la relativa domanda» all’Ente proprietario della strada, il quale rilascia apposita autorizzazione al posizionamento dello stesso (art. 53, comma 3, regolamento di attuazione del Codice della strada, approvato con d.P.R. 16.12.1992 n. 495).
Lo stesso regolamento di attuazione del Codice della strada fissa, poi, i requisiti tipologici degli impianti pubblicitari da allocare lungo le strade e le fasce di pertinenza (art. 48, comma 1), demandando alla potestà regolamentare dei Comuni la possibilità di prevedere ulteriori «limitazioni dimensionali» (art. 48, comma 2).
Va ancora evidenziato che l’attività pubblicitaria, infatti, si esercita nel rispetto delle indicazioni e dei vincoli contenuti in due importanti strumenti di pianificazione e programmazione generale: il regolamento comunale ed il piano generale degli impianti pubblicitari.
Infatti, in questa materia, l’art. 3 del decreto legislativo n. 507 del 1993 ha previsto in capo ai Comuni l’obbligo di adottare un «apposito regolamento» per l’applicazione dell'imposta sulla pubblicità e per l’effettuazione del servizio delle pubbliche affissioni. Attraverso tale strumento, i Comuni sono tenuti a disciplinare le modalità di effettuazione della pubblicità e possono stabilire limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie in relazione ad esigenze di pubblico interesse.
I contenuti essenziali del regolamento, indicati dalla legge, sono i seguenti: 1) determinare la tipologia e la quantità degli impianti pubblicitari; 2) stabilire le modalità per ottenere l'autorizzazione all'installazione; 3) indicare i criteri per la realizzazione del piano generale degli impianti pubblicitari; 4) fissare la ripartizione della superficie degli impianti pubblici da destinare alle affissioni di natura istituzionale, sociale o comunque prive di rilevanza economica e quella da destinare alle affissioni di natura commerciale, nonché la superficie degli impianti da attribuire a soggetti privati, per l’effettuazione di affissioni dirette.
Con l’adozione del piano generale degli impianti pubblicitari, il Comune provvede alla razionale distribuzione sul territorio degli impianti pubblicitari, indicando i siti ove è possibile collocare gli stessi.
Come ha precisato Corte cost., 17.07.2002 n. 455: «La tutela interessi pubblici presenti nella attività pubblicitaria effettuata mediante l’installazione di cartelloni si articola dunque, nel decreto legislativo n. 507 del 1993, in un duplice livello di intervento: l’uno, di carattere generale e pianificatorio, mirante ad escludere che le autorizzazioni possano essere rilasciate dalle amministrazioni comunali in maniera causale, arbitraria e comunque senza una chiara visione dell’assetto del territorio e delle sue caratteristiche abitative, estetiche, ambientali e di viabilità; l'altro, a contenuto particolare e concreto, in sede di provvedimento autorizzatorio, con il quale le diverse istanze dei privati vengono ponderate alla luce delle previsioni di piano e solo se sono conformi a tali previsioni possono essere soddisfatte».
8. Questa ricostruzione del panorama legislativo vigente consente di ritenere che l’autorizzazione all’installazione degli impianti pubblicitari rilasciata dai Comuni in base alla disciplina speciale (segnatamente in base all’art. 23 del Codice della Strada), nel rispetto dei criteri e dei vincoli fissati nell’apposito regolamento comunale e nel piano generale degli impianti pubblicitari (a loro volta previsti dall’art. 3 d.lgs. n. 507/1993) abbia anche una valenza edilizia-urbanistica ed assolva, pertanto, alle esigenze di tutela sottesa al rilascio di un ulteriore titolo abilitativo rappresentato, secondo la tesi del Comune (fatta propria dal Tar) dal rilascio del titolo edilizio secondo la disciplina di cui al d.lgs. n. 380 del 2001.
9. Il Collegio è consapevole che una parte della giurisprudenza amministrativa in passato (cfr. Cons. St., sez. V, 17.05.2007 n. 2497) ha accolto una tesi contraria, che non esclude in assoluto la necessità del titolo edilizio per l’installazione degli impianti pubblicitari, ma richiede anche il permesso di costruire allorché vi sia un sostanziale mutamento del territorio nel suo contesto preesistente sia sotto il profilo urbanistico che sotto quello edilizio (in tal senso anche la prevalente giurisprudenza penale: cfr., da ultimo Cass. Pen. Sez. III, 08.05.2015, n. 19185).
10. Tale tesi non appare, tuttavia, condivisibile alla luce delle seguenti considerazioni.
10.1. In primo luogo, essa non sembra tenere conto della “specialità” della disciplina di settore (codice della strada e decreto legislativo n. 507 del 1993) la quale, come riconosciuto anche dalla Corte costituzionale, prescrive regole e obblighi pianificatori specifici volti a tutelare, anche, le esigenze “dell’assetto del territorio e delle sue caratteristiche abitative, estetiche, ambientali e di viabilità”.
Di conseguenza, prescrivere in aggiunta all’autorizzazione di settore, anche il rilascio del permesso di costruire si tradurrebbe in una duplicazione del sistema autorizzatorio e sanzionatorio che risulterebbe sproporzionata, perché non giustificata dall’esigenza, già salvaguardata in base alla disciplina speciale (cfr. art. 3 d.lgs. n. 507 del 1993), di tutelare l’interesse al corretto assetto del territorio.
10.2. L’inutile complicazione cui darebbe luogo la tesi della duplicazione dei titoli autorizzatori risulta, peraltro, in netta controtendenza rispetto all’esigenza, fortemente perseguita dal legislatore anche nei più recenti interventi legislativi (cfr., ad esempio, d.lgs. 30.06.2016, n. 126), di semplificare i procedimenti amministrativi, convogliando i titoli abilitativi necessari allo svolgimento di un’attività privata all’interno di un procedimento unitario.
Gli interessi legati all’assetto urbanistico, pertanto, devono essere perseguiti dal Comune non attraverso la duplicazione dei titoli autorizzatori, ma vanno, al contrario, valutati, nel rispetto del principio di semplificazione e unicità del procedimento amministrativo, all’interno del procedimento di rilascio dell’autorizzazione prevista dall’art. 23, comma 4, codice della strada, con la conseguenza che quest’ultima autorizzazione dovrà essere negata nel caso in cui l’installazione risulti incompatibile con le esigenze urbanistico-edilizie.
10.3. Ulteriori elementi interpretativi a sostegno di questa tesi si desumono poi dall’art. 168 d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), che testualmente dispone “Chiunque colloca cartelli o altri mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni di cui all’art. 153 è punito con le sanzioni previste dal decreto legislativo 30.04.1992, n. 285 e successive modificazioni”. In tal modo, come evidenziato da parte appellante, la norma ha sottratto i cartelli pubblicitari alla disciplina generale prevista per le costruzioni e le opere in genere, assoggettandoli, ove sprovvisti del nulla osta paesaggistico, alle sanzioni amministrative previste dal codice della strada e non già alle sanzioni penali previste per le costruzioni abusive.
10.4. Ancora, in tale direzione depone l’orientamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione le quali, pronunciando in tema di riparto della giurisdizione in materia di determinazioni di rimozione di impianti pubblicitari (in questo processo sulla giurisdizione si è formato il giudicato implicito), hanno in più occasioni escluso o che il provvedimento con il quale un Comune intima la rimozione coattiva di un impianto pubblicitario rientri nella categoria degli «atti e provvedimenti» in materia di urbanistica ed edilizia - la cui cognizione, com’è noto, è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, affermando espressamente che non si verte “in tema di uso del territorio, ma di godimento abusivo di beni demaniali, con riferimento al quale il legislatore detta una disciplina specifica” (cfr. Cass. Sez. Un. 14.01.2009, n. 563; 18.11.2008 n. 27334, 06.06.2007 n. 13230, 17.07.2006 n. 16129 e 19.11.1998 n. 11721).
11. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, deve essere accolto il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.01.2017 n. 236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
In materia di impugnazione del permesso di costruire, è sufficiente la cd. "vicinitas", quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a ché il provvedimento dell'Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia.
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La conoscenza effettiva e completa della concessione edilizia rilasciata a terzi -che deve essere provata da chi eccepisce la tardività dell'impugnazione- si verifica di regola, in mancanza di diversi mezzi di inoppugnabile prova, con l'ultimazione dei lavori di costruzione dell'immobile e non con solo il loro inizio occorre pertanto che le parti evidenzino elementi di prova di una conoscenza anteriore dell'opera assentita e della sua consistenza o una ultimazione dei lavori in epoca anteriore oltre sessanta giorni rispetto alla proposizione del ricorso.
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2.4. Rimarca in proposito il Collegio che consolidata e condivisibile giurisprudenza ha con continuità affermato il principio per cui “la decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli cui l'atto è rilasciato (ovvero che in esso sono comunque indicati) dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto, la qual cosa si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica. In materia di impugnazione del permesso di costruire, è sufficiente la cd. "vicinitas", quale elemento che distingue la posizione giuridica del ricorrente da quella della generalità dei consociati, di talché è corretto riconoscere a chi si trovi in tale situazione un interesse tutelato a ché il provvedimento dell'Amministrazione sia procedimentalmente e sostanzialmente ossequioso delle norme vigenti in materia” (Consiglio Stato , sez. IV, 05.01.2011, n. 18).
Nel caso in esame –proprio tenuto conto della tipologia di censure che vennero avanzate in primo grado- considerato che il ricorso di primo grado venne notificato il 02.10.2009, non può evincersi che lo stesso fosse stato proposto tardivamente (si rammenta in proposito che, mentre il permesso di costruire n. 432 adottato il 31.10.2008 era stato rilasciato il 27.01.2009 e pubblicato in pari data sull’albo pretorio comunale l’intervento edilizio aveva avuto inizio nel febbraio 2009 con l’apposizione del cartello e la parte strutturale dell’edificio era stata realizzata nel giugno 2009).
In particolare non risulta affatto provato dalle odierne parti appellanti (si rammenta in proposito il consolidato orientamento per cui “la conoscenza effettiva e completa della concessione edilizia rilasciata a terzi -che deve essere provata da chi eccepisce la tardività dell'impugnazione- si verifica di regola, in mancanza di diversi mezzi di inoppugnabile prova, con l'ultimazione dei lavori di costruzione dell'immobile e non con solo il loro inizio occorre pertanto che le parti evidenzino elementi di prova di una conoscenza anteriore dell'opera assentita e della sua consistenza o una ultimazione dei lavori in epoca anteriore oltre sessanta giorni rispetto alla proposizione del ricorso” -TAR Liguria Genova, sez. I, 19.12.2006, n. 1711-) che alla data del 02.08.2009 la parte originariamente ricorrente in primo grado fosse stata in grado di percepire con certezza la lesività dell’opera ed i profili di illegittimità asseritamente attingenti i titoli abilitativi rilasciati, di guisa che la censura va certamente disattesa e può procedersi all’esame del merito della controversia.
2.4.1. Si sottolinea in proposito che parte appellata si doleva non già della demolizione e successiva riedificazione dell’edificio (il che avrebbe consentito di percepire la lesività dell’azione amministrativa autorizzata) ma che ciò fosse avvenuto senza che l’immobile ricostruito rispettasse l’altezza, la sagoma e l’area di ingombro di quello demolito.
E’ agevole riscontare che in simile ipotesi la percezione della lesività non potesse avvenire in epoca antecedente alla definizione dei lavori.
Né, avuto riguardo all’esito della verificazione, è stato provato dalle parti odierne appellanti che almeno 60 giorni prima della notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado fosse possibile avvedersi da parte degli originari ricorrenti dell’avvenuta modifica della sagoma.
La censura di tardività del mezzo introduttivo del giudizio di primo grado deve essere pertanto disattesa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.06.2013 n. 3456 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza amministrativa maggioritaria si è a lungo interrogata per cercare di ricondurre ad unità la molteplicità di concetti in astratto sussumibili nel termine “ristrutturazione edilizia”.
Essa è sostanzialmente pervenuta ad una distinzione fondata su una tripartizione.
E’ stata riconosciuta la possibilità di una ristrutturazione c.d. “pesante” ex art. 10, comma 1, lett. c), dpr 380/2001 che comporti modifiche di volume: la giurisprudenza più recente cerca tuttavia di “contenere” sotto il profilo quantitativo detti incrementi [ex multis si veda TAR Toscana Firenze Sez. III, 27.08.2012, n. 1470 “nonostante l'art. 10, comma 1, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001 -T.U. Edilizia- preveda la possibilità di ristrutturazioni che comportino modifiche di volume -cosiddetta ristrutturazione pesante-, ciò non significa che qualsiasi ampliamento di edifici preesistenti debba essere automaticamente ascritto alla fattispecie della ristrutturazione: qualora si ammettesse la possibilità di un apprezzabile aumento volumetrico dell'edificio ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001 verrebbe meno la linea di distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione. Pertanto costituiscono ristrutturazione edilizia unicamente gli ampliamenti di modesta entità.]".
Accanto a questa -e per differenza- è stata individuata la categoria della ristrutturazionelieve”: essa ricorre quindi allorché non siano in programma ampliamenti volumetrici.
Si è peraltro chiarito che “il mutamento di destinazione d'uso di una porzione dell'immobile, portando ad un organismo in parte diverso dal precedente e contribuendo ad aumentare il carico urbanistico, deve ritenersi rientrante nell'ambito della categoria della "ristrutturazione edilizia", come si evince dall'esplicito riferimento a tale tipologia di intervento presente nell'art. 10, comma 1, lett. c), d.p.r. n. 380/2001".
Inoltre, e per quel che più interessa nell’ambito del presente procedimento, è stata considerata riconducibile al concetto di “ristrutturazione” ex art. 3, lett. d), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 anche la demolizione e ricostruzione di un edificio preesistente.
Ciò integra una deviazione “concettuale”, peraltro espressamente voluta dal Legislatore: se di regola la ristrutturazione postula il ripristino dell’esistente, in tale ultimo caso l’esistente viene meno.
In ordine al concetto di “ciò che è esistente e si può quindi ristrutturare” la giurisprudenza è peraltro concorde nell’affermare che “il concetto di ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, con la conseguenza che la ricostruzione su ruderi o su un edificio che risulta da tempo demolito anche se soltanto in parte, costituisce a tutti gli effetti una nuova opera, che, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesaggistiche vigenti al momento della riedificazione.”.
Ciò premesso, e soffermandosi sulla terza fattispecie di ristrutturazione edilizia sinora menzionata (id est: demolizione e ricostruzione di un edificio preesistente) la giurisprudenza si è interrogata in ordine alla possibilità, sulla base della legislazione nazionale, di un ampliamento concettuale di quest’ultima, sino ad ammettere che essa possa implicare modifiche a volume, sagoma, ed area di sedime.
La giurisprudenza maggioritaria ha fornito tassativa risposta negativa al quesito in ultimo formulato: si è condivisibilmente affermato infatti, ancora di recente, che “costituiscono ristrutturazione urbanistica sia la trasformazione degli organismi edilizi con un insieme sistematico di opere che possono portare anche ad un organismo in tutto od in parte diverso dal precedente, sempre che detti interventi riguardino solo alcuni elementi dell'edificio (ripristino o sostituzione di alcuni elementi costituitivi dell'edificio; eliminazione, modifica e inserimento di nuovi elementi o nuovi impianti), sia la demolizione e ricostruzione, sempre che ciò avvenga con la stessa volumetria e sagoma. Laddove invece vi sia un mutamento della sagoma, debbono ravvisarsi gli estremi della nuova costruzione”.
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3. Passando adesso all’esame del merito delle riunite cause, l’ordine logico da seguire, al fine di dare partita risposta alle censure prospettate dalle parti appellanti, dovrebbe muovere in primo luogo dalla indicazione –ed interpretazione- del quadro normativo vigente al momento dell’adozione dei provvedimenti gravati; successivamente ci si dovrebbe interrogare in ordine alla eventuale refluenza delle modifiche normative medio tempore intervenute (punti 10, 11, 12 dell’appello del Comune di Terni, pagg. 15 e 16 e segg.).
3.1. Tuttavia, per mera comodità espositiva, ed al fine di sgombrare immediatamente il campo da censure inaccoglibili, ritiene il Collegio in primo luogo di esplicitare quale sia il concetto di “opere eseguibili attraverso la ristrutturazione”, anche tenuto conto degli approdi raggiunti dal Giudice delle Leggi in materia e di soffermarsi, immediatamente dopo, sulla problematica relativa alla incidenza sul gravato permesso di costruire (e sulla contestata variante) del disposto di cui all’art. 12, comma 2, del regolamento regionale 03.11.2008, n. 9 e della previsione normativa di cui all’art. 52 della l.r. Umbria 16.09.2011, n. 8 (che ha così sostituito, ampliandone l’ambito applicativo, il testo originario della lett. d) dell’art. 3 della l.r. dell’Umbria n. 1/2004: “d) «interventi di ristrutturazione edilizia», gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare a un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono la sostituzione degli elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti, la modifica o realizzazione di aperture anche esterne, nonché l’aumento del numero delle unità immobiliari e delle superfici utili interne. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione anche con modifiche della superficie utile coperta, sagoma e area di sedime preesistenti, senza incremento della superficie utile coperta medesima, fatte salve le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per gli interventi di prevenzione sismica e per l’installazione di impianti tecnologici”).
3.2. Quanto al primo profilo, come è noto, l’art. 10 (Interventi subordinati a permesso di costruire) del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 prevede che “Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire:
   a) gli interventi di nuova costruzione;
   b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica;
   c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso. (19)
Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.
Le regioni possono altresì individuare con legge ulteriori interventi che, in relazione all'incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire. La violazione delle disposizioni regionali emanate ai sensi del presente comma non comporta l'applicazione delle sanzioni di cui all'articolo 44
.".
L’art. 3, lett. d), del predetto D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (del quale appare utile riportare anche la successiva lett. e) prevede che:
   d) "interventi di ristrutturazione edilizia", gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica;
   e) "interventi di nuova costruzione", quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti.
Inoltre, la successiva lett. f) dell’articolo in ultimo citato, prevede che “f) gli "interventi di ristrutturazione urbanistica", quelli rivolti a sostituire l'esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale.”.
La giurisprudenza amministrativa maggioritaria –che questo Collegio condivide- si è a lungo interrogata per cercare di ricondurre ad unità la molteplicità di concetti in astratto sussumibili nel termine “ristrutturazione edilizia”.
Essa è sostanzialmente pervenuta ad una distinzione fondata su una tripartizione.
E’ stata riconosciuta la possibilità di una ristrutturazione c.d. “pesante” ex art. 10, comma 1, lett. c), suindicato che comporti modifiche di volume: la giurisprudenza più recente cerca tuttavia di “contenere” sotto il profilo quantitativo detti incrementi [ex multis si veda TAR Toscana Firenze Sez. III, 27.08.2012, n. 1470 “nonostante l'art. 10, comma 1, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001 -T.U. Edilizia- preveda la possibilità di ristrutturazioni che comportino modifiche di volume -cosiddetta ristrutturazione pesante-, ciò non significa che qualsiasi ampliamento di edifici preesistenti debba essere automaticamente ascritto alla fattispecie della ristrutturazione: qualora si ammettesse la possibilità di un apprezzabile aumento volumetrico dell'edificio ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001 verrebbe meno la linea di distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione. Pertanto costituiscono ristrutturazione edilizia unicamente gli ampliamenti di modesta entità.]".
Accanto a questa -e per differenza- è stata individuata la categoria della ristrutturazionelieve”: essa ricorre quindi allorché non siano in programma ampliamenti volumetrici.
Si è peraltro chiarito che (TAR Campania-Salerno, Sez. I, 24.09.2012, n. 1683) “il mutamento di destinazione d'uso di una porzione dell'immobile, portando ad un organismo in parte diverso dal precedente e contribuendo ad aumentare il carico urbanistico, deve ritenersi rientrante nell'ambito della categoria della "ristrutturazione edilizia", come si evince dall'esplicito riferimento a tale tipologia di intervento presente nell'art. 10, comma 1, lett. c), d.p.r. n. 380/2001".
Inoltre, e per quel che più interessa nell’ambito del presente procedimento, è stata considerata riconducibile al concetto di “ristrutturazione” ex art. 3, lett. d), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 anche la demolizione e ricostruzione di un edificio preesistente.
Ciò –è bene sottolinearlo- integra una deviazione “concettuale, peraltro espressamente voluta dal Legislatore: se di regola la ristrutturazione postula il ripristino dell’esistente, in tale ultimo caso l’esistente viene meno.
In ordine al concetto di “ciò che è esistente e si può quindi ristrutturare” la giurisprudenza è peraltro concorde nell’affermare che (TAR Calabria Catanzaro Sez. I, 13.06.2012, n. 581) “il concetto di ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, con la conseguenza che la ricostruzione su ruderi o su un edificio che risulta da tempo demolito anche se soltanto in parte, costituisce a tutti gli effetti una nuova opera, che, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesaggistiche vigenti al momento della riedificazione.”.
Ciò premesso, e soffermandosi sulla terza fattispecie di ristrutturazione edilizia sinora menzionata (id est: demolizione e ricostruzione di un edificio preesistente) la giurisprudenza si è interrogata in ordine alla possibilità, sulla base della legislazione nazionale, di un ampliamento concettuale di quest’ultima, sino ad ammettere che essa possa implicare modifiche a volume, sagoma, ed area di sedime.
La giurisprudenza maggioritaria ha fornito tassativa risposta negativa al quesito in ultimo formulato: si è condivisibilmente affermato infatti, ancora di recente, che “costituiscono ristrutturazione urbanistica sia la trasformazione degli organismi edilizi con un insieme sistematico di opere che possono portare anche ad un organismo in tutto od in parte diverso dal precedente, sempre che detti interventi riguardino solo alcuni elementi dell'edificio (ripristino o sostituzione di alcuni elementi costituitivi dell'edificio; eliminazione, modifica e inserimento di nuovi elementi o nuovi impianti), sia la demolizione e ricostruzione, sempre che ciò avvenga con la stessa volumetria e sagoma. Laddove invece vi sia un mutamento della sagoma, debbono ravvisarsi gli estremi della nuova costruzione” (Cons. Stato Sez. IV, 12.02.2013, n. 844).
3.2.1. E quid iuris, quanto a tale ultimo profilo, laddove ci si trovasse al cospetto di legislazioni regionali che estendono –nei termini sinora menzionati- il concetto di ristrutturazione sino a ricomprendervi la demolizione e ricostruzione con modifiche al volume, alla sagoma od all’area di sedime?
Con la importante decisione n. 309/2011, i cui principi devono essere integralmente richiamati in questa sede, la Corte Costituzionale ha richiamato la propria precedente decisione (sentenza n. 303 del 2003, punto 11.2 del Considerato in diritto), con la quale essa aveva ricondotto nell'ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi ed ha affermato che “a fortiori sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali. L'intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall'altro. La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato.”
Da tale affermazione la Consulta ha fatto conseguire il principio per cui “tali categorie sono individuate dall'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, collocato nel titolo I della parte I del testo unico, intitolato «Disposizioni generali». In particolare, la lettera d) del comma 1 di detto articolo include, nella definizione di «ristrutturazione edilizia», gli interventi di demolizione e ricostruzione con identità di volumetria e di sagoma rispetto all'edificio preesistente; la successiva lettera e) classifica come interventi di «nuova costruzione» quelli di «trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti». In base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell'edificio preesistente -intesa quest'ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
A conferma di ciò non sta solo il dato letterale dell'art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001 -che fa riferimento alla «stessa volumetria e sagoma» dell'edificio preesistente e ammette «le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica»- ma vi è anche la successiva legislazione statale in materia edilizia. L'art. 5, commi 9 e ss., del decreto-legge 13.05.2011, n. 70 (Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12.07.2011, n. 106, infatti, nel regolare interventi di demolizione e ricostruzione con ampliamenti di volumetria e adeguamenti di sagoma, non ha qualificato tali interventi come ristrutturazione edilizia, né ha modificato la disciplina dettata al riguardo dall'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi, d'altronde, non può non essere dettata in modo uniforme sull'intero territorio nazionale, la cui «morfologia» identifica il paesaggio, considerato questo come «la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli».
Da tali presupposti (esplicitati dalla Corte Costituzionale nel breve stralcio motivazionale che si è pedissequamente riportato sopra) è stata fatta discendere la statuizione per cui, l'art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, come interpretato dall'art. 22 della legge della Regione Lombardia n. 7 del 2010, nel definire come ristrutturazione edilizia interventi di demolizione e ricostruzione senza il vincolo della sagoma, fosse in contrasto con il principio fondamentale stabilito dall'art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost., in materia di governo del territorio.
Parimenti lesivo dell'art. 117, terzo comma, Cost., è l'art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui, qualificando come «disciplina di dettaglio» numerose disposizioni legislative statali, prevedeva la disapplicazione della legislazione di principio in materia di governo del territorio dettata dall'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 con riguardo alla definizione delle categorie di interventi edilizi.
” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.06.2013 n. 3456 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La legittimità di un provvedimento amministrativo si deve accertare con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del "tempus regit actum", con conseguente irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post precedenti atti amministrativi.
La giurisprudenza civile di legittimità, a propria volta, ritiene il detto canone valutativo principio di imprescindibile applicazione.
La materia urbanistica, e quella edilizia, non fanno certo eccezione a detta regola generale: (ex multis: “per il principio tempus regit actum, la legittimità del rigetto del permesso di costruire deve essere rapportata alla situazione di diritto riscontrabile alla data della relativa emanazione).

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4. Così sommariamente illustrati i principi ai quali ci si atterrà nell’esame della controversia, ritiene il Collegio immediatamente di rilevare che la tesi di parte appellante che postula l’applicabilità alla presente controversia del disposto di cui all’art. 12, comma 2, del regolamento regionale 03.11.2008, n. 9 e della previsione normativa di cui all’art. 52 della l.r. Umbria 16.09.2011, n. 8 non coglie nel segno.
La tesi delle parti appellanti è quella per cui le dette disposizioni –la seconda delle quali avrebbe avuto, in particolare, portata interpretativa e, quindi, retroattiva- dovevano trovare applicazione con riguardo al permesso di costruire contestato in primo grado e rilasciato il 17.01.2009 ed avrebbe errato quindi il primo giudice ad escluderne la refluenza sulla causa.
4.1. Nessuna delle doglianze prospettate convince il Collegio.
4.2 Costituisce principio generale costantemente predicato dalla pacifica giurisprudenza amministrativa quello per cui “la legittimità di un provvedimento amministrativo si deve accertare con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del "tempus regit actum", con conseguente irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post precedenti atti amministrativi” (Cons. Stato Sez. IV, 21.08.2012, n. 4583).
La giurisprudenza civile di legittimità, a propria volta, ritiene il detto canone valutativo principio di imprescindibile applicazione (ex multis: Cass. civ. Sez. VI, 22.02.2012, n. 2672).
La materia urbanistica, e quella edilizia, non fanno certo eccezione a detta regola generale: (ex multis: “per il principio tempus regit actum, la legittimità del rigetto del permesso di costruire deve essere rapportata alla situazione di diritto riscontrabile alla data della relativa emanazione”. -Cons. Stato Sez. IV, 09.02.2012, n. 693-).
Ratione temporis, quindi, esattamente il primo giudice ha escluso in radice l’applicabilità di dette disposizioni al processo in corso, ovvero la loro valutabilità ex post ed incidenza sul permesso di costruire antecedentemente rilasciato.
4.3. La tesi secondo cui l’art. 52 della l.r. Umbria 16.09.2011, n. 8 avesse natura interpretativa (e quindi portata retroattiva) collide con l’espresso dettato del comma 6 dell’art. 143 della legge predetta (“La definizione degli interventi edilizi di cui all'articolo 3 della L.R. n. 1/2004 come modificato e integrato dall'articolo 52 della presente legge, si applica anche alle istanze di titoli abilitativi presentate in applicazione della normativa previgente.”) che, all’evidenza, limita la “retroattività” della portata della medesima (ammesso che di retroattività possa discorrersi in simile ipotesi) alle “istanze” già presentate (e non ancora esitate, ovviamente) al momento della entrata in vigore della disposizione predetta non estendendola ai titoli abilitativi già rilasciati.
Ciò assume rilievo troncante nell’escludere la fondatezza della critica appellatoria, potendosi soltanto per completezza aggiungere che ogni contraria opzione ermeneutica che ne “estendesse” la portata sino a ricomprendervi titoli abilitativi già rilasciati, o addirittura, che abbiano avuto esecuzione, come nel caso di specie, (ingiustificabile comunque sulla scorta della interpretazione letterale) indurrebbe a dubitare fondatamente della legittimità costituzionale della stessa.
Il titolo abilitativo rilasciato all’appellante società, quindi, deve essere valutato alla stregua della prescrizione contenuta nel testo originario della lett. d) dell’art. 3 della legge regionale dell’Umbria n. 1/2004 (“«interventi di ristrutturazione edilizia», gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare a un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono la sostituzione degli elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi e impianti, la modifica o realizzazione di aperture anche esterne, nonché la modifica del numero delle unità immobiliari e delle superfici utili interne. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria, sagoma e area di sedime preesistenti, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, per gli interventi di prevenzione sismica e per l'installazione di impianti tecnologici;».”).
4.4. Analoghe obiezioni possono muoversi alla tesi che postula la sopravvenuta applicabilità dell’art. 12, comma 2, del regolamento regionale 03.11.2008, n. 9 che, in quanto disposizione di natura regolamentare non potrebbe ex post integrare –modificandola in via retroattiva- la portata di una norma di legge, a nulla rilevando che esso sia stato introdotto precedentemente alla contestata variante (essendo incontestabilmente successivo al permesso di costruire n. 432 del 31.10.2008 cui la variante accede) e stante la portata limitata della variante medesima (come esattamente colto dal primo giudice e non contestato dalle parti appellanti).
A tale disposizione, infatti, non può attribuirsi la portata di mera “specificazione” del precetto contenuto nel’art. 3 della legge regionale umbra n. 1/2004: in ogni caso, lo si ribadisce è certamente esatto l’ iter motivo contenuto nella citata decisione, laddove si evidenzia che la portata “sanante” della variante in sanatoria è da intendersi limitata alle opere ivi contemplate, di guisa che essa non potrebbe incidere sulle contestate modifiche di sagoma.
Lo jus superveniens mentovato dalle appellanti, conclusivamente, non può trovare applicazione nella odierna vicenda processuale.
4.5. Per tale ragione il Collegio ritiene che neppure possa ipotizzarsi la possibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale dei precetti normativi estensivi di cui alla suindicata disposizione di cui all’art. 52 della l.r. Umbria 16.09.2011, n. 8: quest’ultima infatti non rileva nella presente causa.
Il precetto espresso dalla sopracitata decisione della Corte Costituzionale n. 309/2011, verrà invece tenuto presente allorché, immediatamente di seguito, ci si interrogherà in ordine alla interpretazione delle disposizioni normative ratione temporis applicabili alla odierna fattispecie, in adesione al consolidato orientamento secondo il quale tra due interpretazioni “possibili” di una disposizione di legge l’interprete debba privilegiare quella che appaia costituzionalmente compatibile (Cass. civ. Sez. V, 25.09.2006, n. 20757) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.06.2013 n. 3456 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: a) Le scelte effettuate dall’Amministrazione in sede di formazione ed approvazione dello strumento urbanistico generale sono accompagnate da un'amplissima valutazione discrezionale: dette scelte, quindi, appaiono insindacabili nel merito e sono per ciò stesso attaccabili solo per errori di fatto, per abnormità e irrazionalità delle stesse. L'Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate in sede di pianificazione del territorio comunale, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l'impostazione del piano.
Le scelte urbanistiche adottate per ciò che attiene la destinazione delle singole aree non necessitano di una specifica motivazione se non nel caso che la scelta medesima vada ad incidere negativamente su posizioni giuridicamente differenziate, ravvisabili unicamente nell'esistenza di piani e/o progetti di lottizzazione convenzionati già approvati o situazioni di diverso regime urbanistico accertate da sentenze passate in giudicato. Un soggetto privato non può invocare una sorta di diritto alla immutabilità della classificazione urbanistica dell'area di sua proprietà sulla scorta di una semplice richiesta di edificazione, che è del tutto inidonea a configurare una posizione qualificata rispetto ai nuovi intendimenti dell'Amministrazione.
La preesistente destinazione urbanistica non impedisce l'introduzione di previsioni di segno diverso in virtù dell'esercizio di uno ius variandi pacificamente riconosciuto all'Amministrazione. La posizione del soggetto che avanza una richiesta di edificazione assume un contenuto di semplice aspettativa, senza che perciò possa configurarsi a carico dell'ente locale un onere di specifica motivazione in ordine alla disposta variazione urbanistica dell'area, ben potendo soccorrere al riguardo l'esposizione delle ragioni di carattere generale sottese alle scelte di gestione del territorio comunale.
   b) In capo ai privati coinvolti nelle previsioni di piano non è comunque configurabile un’aspettativa qualificata ad una destinazione edificatoria in relazione ad una precedente determinazione dell’amministrazione, ma soltanto un’aspettativa generica al mantenimento della destinazione urbanistica "gradita" ovvero ad una reformatio in melius, analoga a quella di ogni altro proprietario di aree, che aspiri ad una utilizzazione comunque proficua dell’immobile; onde non può essere invocata la cd. polverizzazione della motivazione, la quale si porrebbe in contrasto con la natura generale dell’atto, che -come tale- non richiede altra motivazione rispetto a quella automaticamente esplicitata dai criteri di ordine tecnico osservati per la redazione dello stesso.
   c) Più precisamente, le uniche evenienze, che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali, sono date dal superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree.
Dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
In sostanza, una motivazione specifica è necessaria nei casi in cui si incida su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative dei privati proprietari, in conseguenza di statuizioni giurisdizionali passate in giudicato, nonché di accordi con l'ente locale e di convenzioni di lottizzazione, posto che in tali evenienze la compattezza della motivazione costituisce lo strumento dal quale deve emergere l'avvenuta comparazione tra il pubblico interesse cui si finalizza la nuova scelta e quello del privato, assistito, appunto, da una aspettativa tutelata.
Negli altri casi (di reformatio in pejus o di non reformatio in melius, rispetto alle aspettative del privato proprietario) non sussiste la necessità di una motivazione specifica delle nuove destinazioni urbanistiche rispetto a quelle che possono agevolmente evincersi dai criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti per la redazione dello strumento stesso.
   d) Le osservazioni dei privati ai progetti di strumenti urbanistici (nel caso di specie un piano urbanistico comunale) sono un mero apporto collaborativo alla formazione di detti strumenti e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
Tuttavia, l'obbligo di motivazione esistente, nell'ipotesi che una variante urbanistica incida su un'area determinata, trova la sua sede anche nella fase dell'esame delle osservazioni dal privato proposte, che, pur qualificate come meri apporti collaborativi alle scelte urbanistiche dell'Amministrazione ad una analitica confutazione dei quali l'Amministrazione non può dirsi obbligata, comportano comunque che il loro rigetto, perché possa ritenersi legittimo, sia assistito da una congrua motivazione, anche non dettagliata, quanto alla loro incompatibilità con le linee generali dello strumento urbanistico o della sua variante.
   e) Le scelte di pianificazione urbanistica appartengono alla sfera degli apprezzamenti di merito dell'Amministrazione per cui, in ordine ad esse, non sono ipotizzabili censure di disparità di trattamento basate sulla comparazione con la destinazione impressa ad immobili adiacenti, dovendo tali scelte obbedire solo al superiore criterio di razionalità nella definizione delle linee dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico alla sicurezza delle persone e dell'ambiente, e non anche ai criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei vincoli.

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8. - Con successiva ordinanza 05.09.2011, n. 292, questo Tribunale Amministrativo ha precisato, con riferimento ad alcune delle censure prospettate, come la giurisprudenza sia consolidata nel senso che:
   a) Le scelte effettuate dall’Amministrazione in sede di formazione ed approvazione dello strumento urbanistico generale sono accompagnate da un'amplissima valutazione discrezionale: dette scelte, quindi, appaiono insindacabili nel merito e sono per ciò stesso attaccabili solo per errori di fatto, per abnormità e irrazionalità delle stesse. L'Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate in sede di pianificazione del territorio comunale, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l'impostazione del piano.
Le scelte urbanistiche adottate per ciò che attiene la destinazione delle singole aree non necessitano di una specifica motivazione se non nel caso che la scelta medesima vada ad incidere negativamente su posizioni giuridicamente differenziate, ravvisabili unicamente nell'esistenza di piani e/o progetti di lottizzazione convenzionati già approvati o situazioni di diverso regime urbanistico accertate da sentenze passate in giudicato. Un soggetto privato non può invocare una sorta di diritto alla immutabilità della classificazione urbanistica dell'area di sua proprietà sulla scorta di una semplice richiesta di edificazione, che è del tutto inidonea a configurare una posizione qualificata rispetto ai nuovi intendimenti dell'Amministrazione.
La preesistente destinazione urbanistica non impedisce l'introduzione di previsioni di segno diverso in virtù dell'esercizio di uno ius variandi pacificamente riconosciuto all'Amministrazione. La posizione del soggetto che avanza una richiesta di edificazione assume un contenuto di semplice aspettativa, senza che perciò possa configurarsi a carico dell'ente locale un onere di specifica motivazione in ordine alla disposta variazione urbanistica dell'area, ben potendo soccorrere al riguardo l'esposizione delle ragioni di carattere generale sottese alle scelte di gestione del territorio comunale (Cons. Stato, Sez. IV, 16.02.2011, n. 1015; 24.02.2011, n. 1222).
   b) In capo ai privati coinvolti nelle previsioni di piano non è comunque configurabile un’aspettativa qualificata ad una destinazione edificatoria in relazione ad una precedente determinazione dell’amministrazione, ma soltanto un’aspettativa generica al mantenimento della destinazione urbanistica "gradita" ovvero ad una reformatio in melius, analoga a quella di ogni altro proprietario di aree, che aspiri ad una utilizzazione comunque proficua dell’immobile; onde non può essere invocata la cd. polverizzazione della motivazione, la quale si porrebbe in contrasto con la natura generale dell’atto, che -come tale- non richiede altra motivazione rispetto a quella automaticamente esplicitata dai criteri di ordine tecnico osservati per la redazione dello stesso (Cons. Stato, Sez. IV, 12 maggio, n. 2843, Sez. III, 06.10.2009, n. 1610).
   c) Più precisamente, le uniche evenienze, che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali, sono date dal superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree; dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (Cons. Stato, Sez. IV, 12.01.2011, n. 133; 09.12.2010, n. 8682; 13.10.2010, n. 7492); in sostanza, una motivazione specifica è necessaria nei casi in cui si incida su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative dei privati proprietari, in conseguenza di statuizioni giurisdizionali passate in giudicato, nonché di accordi con l'ente locale e di convenzioni di lottizzazione (Cons. Stato, Sez. IV, 21.12.2009, n. 8514), posto che in tali evenienze la compattezza della motivazione costituisce lo strumento dal quale deve emergere l'avvenuta comparazione tra il pubblico interesse cui si finalizza la nuova scelta e quello del privato, assistito, appunto, da una aspettativa tutelata (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2010, n. 6886).
Negli altri casi (di reformatio in pejus o di non reformatio in melius, rispetto alle aspettative del privato proprietario) non sussiste la necessità di una motivazione specifica delle nuove destinazioni urbanistiche rispetto a quelle che possono agevolmente evincersi dai criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti per la redazione dello strumento stesso (Cons. Stato, Sez. IV, 15.07.2008, n. 3552).
   d) Le osservazioni dei privati ai progetti di strumenti urbanistici (nel caso di specie un piano urbanistico comunale) sono un mero apporto collaborativo alla formazione di detti strumenti e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2010, n. 6911; 01.03.2010, n. 1182).
Tuttavia, l'obbligo di motivazione esistente, nell'ipotesi che una variante urbanistica incida su un'area determinata, trova la sua sede anche nella fase dell'esame delle osservazioni dal privato proposte, che, pur qualificate come meri apporti collaborativi alle scelte urbanistiche dell'Amministrazione ad una analitica confutazione dei quali l'Amministrazione non può dirsi obbligata, comportano comunque che il loro rigetto, perché possa ritenersi legittimo, sia assistito da una congrua motivazione, anche non dettagliata, quanto alla loro incompatibilità con le linee generali dello strumento urbanistico o della sua variante (Cons. Stato, Sez. IV, 09.12.2010, n. 8650).
   e) Le scelte di pianificazione urbanistica appartengono alla sfera degli apprezzamenti di merito dell'Amministrazione per cui, in ordine ad esse, non sono ipotizzabili censure di disparità di trattamento basate sulla comparazione con la destinazione impressa ad immobili adiacenti, dovendo tali scelte obbedire solo al superiore criterio di razionalità nella definizione delle linee dell'assetto territoriale, nell'interesse pubblico alla sicurezza delle persone e dell'ambiente, e non anche ai criteri di proporzionalità distributiva degli oneri e dei vincoli (Cons. Stato, Sez. III, 17.09.2010, n. 2536; Sez. IV, 21.04.2010, n. 2264; 18.06.2009, n. 4024; 07.07.2008, n. 3358)
(TAR Umbria, sentenza 14.12.2012 n. 521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Ai sensi dell'art. 13 della legge n. 64 del 1974, requisito di legittimità degli strumenti urbanistici generali e delle loro varianti è che siano preceduti, nelle zone sismiche, dal parere del competente ufficio del genio civile, attribuzione poi traslata alla Regione.
Occorre aggiungere, alla luce dell’evoluzione avutasi nella vicenda procedimentale in esame, che l’art. 13 della legge n. 64 del 1974, nel prevedere l’obbligo del Comune, ricadente in zona dichiarata sismica, di richiedere il parere all’ufficio del genio civile (o Regione) sui piani regolatori anteriormente all’adozione della relativa deliberazione, non può che essere interpretato nel senso che tale parere deve anche intervenire anteriormente all’adozione medesima.
La norma si conforma infatti all’esigenza per cui, in sede di programmazione di primo (ed anche di secondo livello), deve essere valutata la compatibilità della destinazione impressa alla zona ed alle aree nella stessa ricomprese, con la struttura, la morfologia e l’andamento del territorio.

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12. - Dall’esperita istruttoria, prima ancora che gli aspetti di logicità/illogicità e conformità allo stato dei luoghi del P.R.G. e delle destinazioni di zona contestate, è emerso che lo strumento urbanistico è stato adottato, con delibera consiliare n. 107 del 25.06.2003, senza previa acquisizione del parere di compatibilità sismica, in violazione di quanto prescritto dall’allora vigente art. 13 della legge 02.02.1974, n. 64.
Ed invero dalla relazione di verificazione del 17.12.2010 si inferisce che detto parere sismico non è stato richiesto dal Comune di Spoleto, sebbene nella parte strutturale del piano sia contenuto un, chiaramente non equivalente, studio sullo sviluppo del territorio in funzione dell’eventuale rischio sismico.
Giova precisare che solamente con l’art. 13 della l.r. 22.02.2005, n. 11, al comma 9, è stato previsto che il parere sismico è espresso dal Comune stesso in sede di adozione, tenendo conto degli elaborati del P.R.G. relativi alle indagini geologiche, idrogeologiche e idrauliche, nonché agli studi di microzonazione sismica. Ma tale disciplina, ratione temporis, non era applicabile al momento dell’adozione del P.R.G., oggetto della presente impugnativa.
Corollario di ciò è che la norma di riferimento era il già ricordato art. 13 della legge n. 64 del 1974.
Ai sensi di tale disposizione, requisito di legittimità degli strumenti urbanistici generali e delle loro varianti è che siano preceduti, nelle zone sismiche, dal parere del competente ufficio del genio civile, attribuzione poi traslata alla Regione (in termini Cons. Stato, Sez. IV, 04.03.2003, n. 1196; 08.05.2000, n. 2643; 19.02.1999, n. 176; C.G.A., 13.10.1998, n. 607).
Occorre aggiungere, alla luce dell’evoluzione avutasi nella vicenda procedimentale in esame, che l’art. 13 della legge n. 64 del 1974, nel prevedere l’obbligo del Comune, ricadente in zona dichiarata sismica, di richiedere il parere all’ufficio del genio civile (o Regione) sui piani regolatori anteriormente all’adozione della relativa deliberazione, non può che essere interpretato nel senso che tale parere deve anche intervenire anteriormente all’adozione medesima (così Cons. Stato, Sez. IV, 08.05.2000, n. 2643; Sez. IV, 13.04.2005, n. 1743).
La norma si conforma infatti all’esigenza per cui, in sede di programmazione di primo (ed anche di secondo livello), deve essere valutata la compatibilità della destinazione impressa alla zona ed alle aree nella stessa ricomprese, con la struttura, la morfologia e l’andamento del territorio.
Lo studio geologico in prospettiva della prevenzione del rischio sismico ed idrogeologico, che risulta successivamente intervenuto, oltre a costituire un’evidente inversione procedimentale, non può avere efficacia sanante, in quanto non proviene da un organo terzo rispetto all’Amministrazione titolare del potere di pianificazione urbanistica, e perché si è tradotto, per quanto è dato evincere dal verbale della conferenza istituzionale, essenzialmente, nella redazione delle carte dello zoning del rischio geologico, sì che non può ritenersi che la finalità prevista dalla norma sia stata comunque adeguatamente raggiunta
(TAR Umbria, sentenza 14.12.2012 n. 521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’apposizione di una o più condizioni al rilascio di un titolo edilizio può ritenersi generalmente ammessa soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi”.
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti.
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2.1. La doglianza è fondata.
L’apposizione di una o più condizioni al rilascio di un titolo edilizio può ritenersi generalmente ammessa soltanto quando si vada ad incidere su aspetti legati alla realizzazione dell’intervento costruttivo, sia da un punto di vista tecnico che strutturale, e ciò trovi un fondamento diretto o indiretto in una norma di legge o regolamento.
Diversamente, non è possibile apporre condizioni al titolo edilizio che siano estranee alla fase di realizzazione dell’intervento edilizio.
Difatti, il Comune non può assentire una concessione edilizia subordinatamente all’impegno del privato a rinunciare all’indennizzo dovuto, nel caso di futura espropriazione dell’opera, “in quanto tale condizione non è volta a perseguire alcun interesse pubblico riconducibile alla materia urbanistico-edilizia e si pone in contrasto con il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi” (TAR Abruzzo, Pescara, 08.02.2007, n. 153).
In tal modo, infatti, si tende al perseguimento di finalità estranee a quelle sottese al potere esercitato, legato allo svolgimento dell’attività edificatoria, funzionalizzando l’attività amministrativa ad interessi avulsi rispetto a quelli tipizzati dal legislatore: del resto, in sede di rilascio di concessioni edilizie, non si può, in via generale, apporre condizioni, sia sospensive che risolutive, ai predetti titoli abilitativi, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale di detti provvedimenti (cfr. Consiglio di Stato, V, 24.03.2001, n. 1702).
2.2. A ciò consegue certamente l’invalidità della condizione apposta, senza tuttavia che ciò ridondi sulla validità complessiva della concessione assentita, “dal momento che l’invalidità di una condizione apposta all’atto amministrativo comporta la invalidità totale dell’atto stesso solo qualora il contenuto della condizione abbia costituito il motivo essenziale della dichiarazione di volontà, la quale presumibilmente non vi sarebbe stata senza di quella (“vitiatur et vitiat”); ma la nullità e l’invalidità totale dell’atto amministrativo, a cagione dell’invalidità della condizione, non può certamente prodursi quando si tratti –come nel caso di specie– di atti dovuti (nei quali cioè non vi sia discrezionalità nell’an) e quando l’autorità amministrativa, che si determina per il provvedimento, dovrà dare ad esso il contenuto predeterminato dalle fonti normative, in assenza di discrezionalità nel quid” (TAR Abruzzo, Pescara, 08.02.2007, n. 153) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.09.2010 n. 5655 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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