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AGGIORNAMENTO AL 27.04.2018 (ore 23,59) |
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Incentivo funzioni tecniche:
non
è (più) soggetto al vincolo posto al complessivo
trattamento economico accessorio dall’art. 23, comma
2, del d.lgs. n. 75/2017
(ma con decorrenza dal 1° gennaio 2018, non prima!). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del
d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1,
comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse
finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi
capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori,
servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al
complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti
degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75
del 2017.
---------------
Sul piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur
mancando delle caratteristiche proprie delle norme di
interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non
può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere
definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti
relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo
di incentivi tecnici proprio in quanto vengono prescritte
allocazioni contabili che possono apparire non compatibili
con la natura delle spese da sostenere.
La ratio legis è quella di stabilire
una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività
compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche,
nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e
amministrative analiticamente indicate e rivolte alla
realizzazione di specifiche procedure.
L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse
ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di
gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la
contabilizzazione di tali risorse ad un modello
predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al
di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale.
Sulla questione è anche rilevante considerare che
la norma contiene un sistema di vincoli compiuto per
l’erogazione degli incentivi che, infatti, sono soggetti a
due limiti finanziari che ne impediscono
l’incontrollata espansione: uno di carattere generale
(il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e
l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al
50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi
spettante al singolo dipendente).
---------------
Per l’erogazione degli incentivi l’ente deve munirsi di un
apposito regolamento, essendo questa la condizione
essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi
diritto delle risorse accantonate sul fondo
e la sede idonea per circoscrivere
dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi
possono essere erogate.
Il comma 3 dell’art. 113 citato, infatti, fa obbligo
all'amministrazione aggiudicatrice, di stabilire “i criteri
e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie
connesse alla singola opera o lavoro” nel caso di “eventuali
incrementi dei tempi o dei costi”. Una condizione, dunque,
che collega necessariamente l’erogazione dell’incentivo al
completamento dell’opera o all’esecuzione della fornitura o
del servizio oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed
ai tempi prestabiliti.
---------------
L’allocazione in bilancio degli incentivi
tecnici stabilita dal legislatore ha l’effetto di conformare
in modo sostanziale la natura giuridica di tale posta, in
quanto finalizzata a considerare globalmente la spesa
complessiva per lavori, servizi o forniture,
ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche le risorse
finanziarie relative agli incentivi tecnici.
Questi ultimi risultano previsti da una disposizione di
legge speciale (l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016),
valevole per i dipendenti di tutte le amministrazioni
pubbliche, a differenza degli emolumenti accessori aventi
fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto.
In altre parole, con un intervento
volto a tipizzare espressamente l’allocazione in bilancio
degli incentivi per le funzioni tecniche, si deve ritenere
che il legislatore (che, in tal modo, ha reso
“ordinamentale” il disposto di cui all’art. 113 citato)
abbia voluto dare maggiore risalto alla finalizzazione
economica degli interventi cui accedono tali risorse,
nonostante i possibili dubbi che ne potrebbero conseguire
sul piano della gestione contabile.
Pur permanendo l’esigenza di chiarire le specifiche modalità
operative di contabilizzazione, la novella
impone che l'impegno di spesa, ove si tratti di opere,
vada assunto nel titolo II della spesa, mentre, nel
caso di servizi e forniture, deve essere
iscritto nel titolo I, ma con qualificazione coerente
con quella del tipo di appalti di riferimento.
---------------
PREMESSO
1. Il Sindaco del Comune di San Giovanni Rotondo (FG), dopo
aver richiamato integralmente il tenore letterale dell’art.
113 del d.lgs. n. 50/2016 in tema di incentivi per funzioni
tecniche, ha evidenziato che l’art. 1, comma 526, della
legge 27.12.2017, n. 205 (“Bilancio di previsione dello
Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per
il triennio 2018-2020”) ha integrato la predetta norma
con l’art. 5-bis, disponendo che tali incentivi “fanno
capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli
lavori, servizi e forniture”.
Pertanto, ha richiesto un parere alla Sezione regionale di
controllo per la Puglia al fine di pervenire alla corretta
interpretazione della novella normativa, ritenendo che i
predetti incentivi non possano ritenersi inclusi tra le
risorse destinate al trattamento accessorio e quindi debbano
essere esclusi dalla voce di spesa del personale per essere
allocati al titolo II nell’ambito delle spese di
investimento.
La Sezione pugliese interpellata, nel rilevare che, con la
disposizione introdotta dall’art. 1, comma 526, della
richiamata legge n. 205/2017, il legislatore ha
espressamente previsto l’allocazione delle risorse per
incentivare le funzioni tecniche nei capitoli di spesa
previsti per le opere pubbliche determinandone, di fatto,
l’allocazione nell’ambito della spesa per investimenti, ha
sollevato, con
deliberazione 09.02.2018 n. 9, una questione di
massima ai fini dell’accertamento della natura giuridica
della spesa per incentivi per funzioni tecniche e
dell’inclusione, o meno, della stessa nell’ambito della
spesa per il personale, con le relative conseguenze in
ordine al rispetto dei vincoli normativi in tema di
trattamento accessorio.
Ritiene, infatti, che tale questione assuma notevole
rilevanza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 17, comma
31, del d.l. n. 78/2009 e dell’art. 6, comma 4, del d.l. n.
174/2012, al fine di garantire l’eventuale superamento di
contrasti da parte delle Sezioni regionali di controllo ed
un’interpretazione uniforme della disposizione recentemente
introdotta dalla legge di bilancio 2018, che si inserisce in
un contesto normativo per il quale risultano già intervenute
la
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni
Riunite in sede di controllo e da ultimo, la
deliberazione 13.05.2016 n. 18,
deliberazione 06.04.2017 n. 7 e
deliberazione 10.10.2017 n. 24
della Sezione delle autonomie.
2. Il Sindaco del Comune di Cisano Bergamasco (BG) ha posto
alla Sezione di controllo per la Lombardia una richiesta di
parere inerente la sottoposizione ai generali limiti posti
al trattamento accessorio del personale dipendente anche
degli emolumenti economici erogati a titolo di incentivi
dall’art. 113 del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n.
50 del 2016.
La Sezione lombarda, con
deliberazione 16.02.2018 n. 40,
ha sollevato una questione di massima principale e due
questioni subordinate all’ipotesi in cui la prima venga
definita nel senso dell’irrilevanza dei nuovi argomenti
interpretativi prospettati nella deliberazione medesima. La
questione principale è stata così formulata: “se debbano
essere considerati nel vincolo generale di finanza pubblica,
posto al complessivo trattamento economico accessorio,
dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, gli
incentivi disciplinati dall’art. 113, commi 2 e 3, del
d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di
legge speciale, che individua le autonome risorse
finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli
specifici tetti, complessivi ed individuali, che devono
essere osservati nell’erogazione”.
In via subordinata si è richiesto se debbano essere
considerati nel vincolo generale di finanza pubblica, posto
al complessivo trattamento economico accessorio, dall’art.
23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, gli incentivi
disciplinati dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50
del 2016, aventi fonte in una disposizione di legge
speciale, che individua le autonome risorse finanziarie a
cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti,
complessivi ed individuali, che devono essere osservati
nell’erogazione, in quanto sussistono i presupposti della
destinazione a predeterminate categorie di dipendenti per
prestazioni professionali che potrebbero essere affidate a
personale esterno, con conseguente incremento di costi per
le amministrazioni; e, in ulteriore subordine, quali siano
le concrete modalità contabili che le amministrazioni
aggiudicatrici devono adottare per osservare la regola
dell’eventuale sottoposizione degli incentivi previsti
dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, al
limite complessivo posto al trattamento economico accessorio
dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
In considerazione del fatto che le questioni sollevate dalle
Sezioni remittenti risultano attinenti all’interpretazione
del medesimo dettato normativo, si ravvisa l’opportunità
della trattazione congiunta ai fini della pronuncia del
principio di diritto al quale tutte le Sezioni regionali di
controllo dovranno conformarsi.
CONSIDERATO
1. La Sezione ritiene preliminarmente, per ragioni di
connessione oggettiva, di riunire la trattazione delle
questioni sollevate dalle Sezioni remittenti. Prima di
affrontare l’esame nel merito è necessario premettere
l’esposizione del quadro normativo di riferimento,
caratterizzato dalle ripetute integrazioni di norme
succedutesi nel tempo in modo non sempre organico.
L’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti
pubblici), rubricato “incentivi per funzioni tecniche”,
riproducendo analoghe disposizioni previgenti (art. 18 della
legge n. 109 del 1994, e successive modifiche ed
integrazioni, e art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 163 del
2006, confluito in seguito nell’art. 93, commi 7-bis e
seguenti, del medesimo decreto legislativo), consente,
previa adozione di un regolamento interno e della stipula di
un accordo di contrattazione decentrata, di erogare
emolumenti economici accessori a favore del personale
interno alle Pubbliche amministrazioni per attività,
tecniche e amministrative, nelle procedure di
programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o
verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o
forniture.
Ad integrazione della predetta norma è intervenuto l’art. 76
del d.lgs. n. 56 del 2017, il quale ha riferito
l’imputazione degli oneri per le attività tecniche ai
pertinenti stanziamenti degli stati di previsione della
spesa, non solo con riguardo agli appalti di lavori (come da
formulazione originaria della norma), ma anche a quelli di
fornitura di beni e di servizi.
In particolare, il comma 2 dell’art. 113 in esame consente
alle amministrazioni aggiudicatrici di destinare, a valere
sugli stanziamenti di cui al precedente comma 1, “ad un
apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore
al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e
forniture, posti a base di gara”. Tale fondo può essere
finalizzato a premiare esclusivamente le funzioni,
amministrative e tecniche, svolte dai dipendenti interni: “attività
di programmazione della spesa per investimenti, di
valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di
controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei
contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero
direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico
amministrativo ovvero di verifica di conformità, di
collaudatore statico”.
Il successivo comma 3 della medesima disposizione estende la
possibilità di erogare gli incentivi anche ai rispettivi “collaboratori”.
Inoltre lo stesso comma 3 prevede che l’80% delle risorse
finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 possa
essere ripartito, per ciascun lavoro, servizio, fornitura, “con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito
regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i
rispettivi ordinamenti”, ai destinatari indicati al
comma 2. Il restante 20%, invece, va destinato secondo
quanto prescritto dal successivo comma 4 (acquisto di
strumentazioni e tecnologie funzionali all’uso di metodi
elettronici di modellazione per l'edilizia e le
infrastrutture; attivazione di tirocini formativi;
svolgimento di dottorati di ricerca; etc.).
Con riguardo ai provvedimenti che pongono limiti alle
risorse indirizzate al trattamento accessorio del personale,
va ricordato che l’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78 del
2010, convertito dalla legge n. 122 del 2010 disponeva che
l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente
al trattamento accessorio del personale, anche di livello
dirigenziale, non può superare il corrispondente importo
dell'anno 2010 e che a decorrere dal 01.01.2015, le risorse
destinate annualmente al trattamento economico accessorio
sono decurtate di un importo pari alle riduzioni operate.
In seguito l'art. 23, comma 2, d.lgs. n. 75 del 2017, ha
disposto, a decorrere dal 01.07.2017, che “l'ammontare
complessivo delle risorse destinate annualmente al
trattamento accessorio del personale, anche di livello
dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente
importo determinato per l'anno 2016”.
Orbene, le questioni sollevate dalle Sezioni regionali
remittenti richiedono di chiarire se i compensi erogati a
carico del predetto fondo per gli incentivi tecnici debbano
essere computati ai fini del rispetto dei limiti al
trattamento accessorio disposti dal soprarichiamato articolo
23, comma 2, d.lgs. n. 75/2017.
2. Come è noto, l’argomento dei limiti di spesa per la
erogazione degli incentivi per la progettazione e per
funzioni tecniche in diverse occasioni è stato oggetto di
pronunce da parte di questa Sezione.
Nella
deliberazione 13.11.2009 n. 16
di questa Sezione, che ha riconosciuto l’esclusione del
vincolo per gli incentivi alla progettazione, è stata
considerata rilevante la provenienza dei fondi, riconoscendo
la natura di “spese di investimento, attinenti alla
gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della
spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la
realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di
funzionamento”. Il medesimo percorso ermeneutico è stato
condiviso dalle Sezioni Riunite con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51,
che ha escluso dal rispetto del limite di spesa posto
dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, tutti quei
compensi per prestazioni professionali specialistiche
offerte da soggetti qualificati, tra i quali l’incentivo per
la progettazione interna.
Sulla specifica questione degli incentivi per funzioni
tecniche, nella
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
è stato affermato che gli incentivi di cui all’articolo 113,
comma 2, d.lgs. n. 50/2016 “sono da includere nel tetto
dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236,
l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”. Il principio
di diritto si impernia sulla distinzione tra gli incentivi
c.d. “alla progettazione”, che erano previsti dal non
più vigente articolo 93, comma 7-ter, del d.lgs. n.
163/2006, e gli incentivi per le funzioni tecniche, di cui
al soprarichiamato art. 113.
Il medesimo orientamento è stato ribadito da questa Sezione
nella
deliberazione 10.10.2017 n. 24, con la quale si è
ritenuta inammissibile la questione sottoposta dalla Sezione
di controllo della Liguria con
deliberazione 29.06.2017 n. 58, in quanto
l’assenza di decisioni contrastanti nel frattempo assunte
dalle Sezioni regionali e la mancanza di argomentazioni
giuridiche e/o fattuali nuove e diverse da quelle già
esaminate con la richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
facevano sì che la rimessione si configurasse, nella
sostanza, “come una mera richiesta di riesame della
decisione già assunta, sulla base dei medesimi elementi di
fatto e di diritto già considerati”.
In sostanza nelle pronunce della Sezione delle autonomie non
è stata rinvenuta una specificità nei compensi previsti per
le funzioni tecniche, tale da far ritenere non applicabile
il limite stabilito per i trattamenti accessori. Ciò anche
in funzione della rilevata difformità della fattispecie
introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016,
rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla
progettazione, nonché per il fatto che tali emolumenti
essendo erogabili anche per gli appalti di servizi e
forniture, si configuravano, ai sensi delle disposizioni
normative all’epoca vigenti, come spesa di funzionamento e,
dunque, come spese correnti (e di personale).
È da notare che la stessa legge delega per il riordino della
disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi
a lavori, servizi e forniture (art. 1, comma 1, lett. rr, l.
n. 11/2016) ha precisato che gli incentivi per le funzioni
tecniche vanno a remunerare specifiche e determinate
attività di natura tecnica svolte dai dipendenti pubblici,
tra cui quelle della programmazione, predisposizione e
controllo delle procedure di gara e dell’esecuzione del
contratto “escludendo l’applicazione degli incentivi alla
progettazione”.
Si tratta nel complesso di compensi volti a remunerare
prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili,
direttamente correlati all’adempimento dello specifico
compito affidato ai potenziali beneficiari dell’incentivo.
3. Successivamente ai menzionati approdi giurisprudenziali,
è intervenuto l’art.
1, comma 526, della legge n. 205 del 2017 (legge
di bilancio 2018) per specificare che il finanziamento del
fondo per gli incentivi tecnici grava sul medesimo capitolo
di spesa previsto per i singoli lavori, servizi o forniture.
Il nuovo comma 5-bis dell’art. 113 in esame precisa,
infatti, che “gli incentivi di cui al presente articolo
fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i
singoli lavori, servizi e forniture”.
La citata novella legislativa richiede un ulteriore
intervento nomofilattico di questa Sezione, sia per la
rilevanza dei dubbi interpretativi palesati dalle due
Sezioni regionali remittenti, sia, soprattutto, in ossequio
al principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza
contabile (ex multis:
deliberazione 10.10.2017 n. 24), secondo il quale
la proposizione di questioni di massima già precedentemente
esaminate e risolte non è, in linea di principio, preclusa,
pur soggiacendo a precise condizioni di ammissibilità, tra
cui -ed è questo il caso di specie- la ricorrenza di
mutamenti legislativi.
Va premesso che la norma de qua si
può prestare a interpretazioni divergenti, come si evince
anche dalle deliberazioni delle Sezioni regionali
remittenti. Infatti, potrebbe essere ritenuta di non chiara
lettura, in quanto si limita a prescrivere che gli incentivi
in esame vanno finanziati dai capitoli di spesa su cui
gravano i costi dell'opera, ma non esplicita la loro
esclusione dai tetti posti al salario accessorio.
Diversamente l’intervento del legislatore potrebbe
intendersi diretto ad affermare che gli incentivi per le
funzioni tecniche espletate nelle procedure di
aggiudicazione ed esecuzione dei contratti pubblici, non
essendo finanziati dal fondo relativo alla contrattazione
decentrata, non rientrino più nella spesa di personale
soggetta ai limiti.
Anche se l’allocazione contabile degli incentivi di natura
tecnica nell’ambito del “medesimo capitolo di spesa”
previsto per i singoli lavori, servizi o forniture potrebbe
non mutarne la natura di spesa corrente -trattandosi, in
senso oggettivo, di emolumenti di tipo accessorio spettanti
al personale- la contabilizzazione
prescritta ora dal legislatore sembra consentire di desumere
l’esclusione di tali risorse dalla spesa del personale e
dalla spesa per il trattamento accessorio.
Al riguardo è da considerare, come rilevato dalla Sezione
remittente lombarda, che gli incentivi per le funzioni
tecniche sono, per loro natura, estremamente variabili nel
corso del tempo e, come tali, difficilmente assoggettabili a
limiti di finanza pubblica a carattere generale, che hanno
come parametro di riferimento un predeterminato anno base
(qual è anche l’art.
23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017). Il riferimento,
infatti, ad un esercizio precedente diviene, in modo del
tutto casuale, favorevole o penalizzante per i dipendenti
dei vari enti pubblici.
In senso conforme si sono pronunciate di recente sia la
Sezione regionale di controllo per il Friuli Venezia Giulia
(parere
02.02.2018 n. 6), la quale ha ritenuto che dalla
novella “si evince che gli incentivi non
fanno carico ai capitoli della spesa del personale ma devono
essere ricompresi nel costo complessivo dell’opera”,
sia la Sezione regionale di controllo per l’Umbria (parere
05.02.2018 n. 14),
la quale afferma che “il legislatore è
intervenuto sulla questione della rilevanza degli incentivi
tecnici ai fini del rispetto del tetto di spesa per il
trattamento accessorio, escludendoli dal computo rilevante
ai fini dall'articolo 23, comma 2, d.l.gs n. 75 del 2017. Il
legislatore ha voluto, pertanto, chiarire come gli incentivi
non confluiscono nel capitolo di spesa relativo al
trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa
previsti dalla normativa vigente), ma fanno capo al capitolo
di spesa dell’appalto”.
Se è vero che sia il comma 1 che il comma 2
dell’art. 113 citato, già disponevano che tutte le spese
afferenti gli appalti di lavori, servizi o forniture,
debbano trovare imputazione sugli stanziamenti previsti per
i predetti appalti, “il comma 5-bis rafforza tale
intendimento e individua come determinante, ai fini
dell’esclusione degli incentivi tecnici dai tetti di spesa
sopra citati, l’imputazione della relativa spesa sul
capitolo di spesa previsto per l’appalto”.
Su questa linea interpretativa, sostenuta da un’ampia e
articolata motivazione, si colloca anche la Sezione
remittente lombarda, secondo la quale “analizzando la
lettera delle norme succedutesi nel tempo, traspare che
l’incentivo previsto dal d.lgs. n. 163 del 2006 era già
finalizzato a compensare, non la sola attività di
progettazione, ma anche quella di RUP, direttore lavori,
collaudatore e rispettivi collaboratori, anche
amministrativi”. La medesima Sezione prosegue affermando
che “anche nella vigenza della disposizione che ha dato
luogo alla
deliberazione 04.10.2011 n. 51
delle Sezioni Riunite gli emolumenti in discorso non erano
qualificabili, nella maggior parte dei casi, come spesa di
investimento, ma di funzionamento per il personale”.
4. Proprio alla luce dei suesposti orientamenti,
va considerato che, sul piano logico, l’ultimo
intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche
proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la
retroattività), non può che trovare la propria ratio
nell’intento di dirimere definitivamente la questione della
sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale
delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici proprio in
quanto vengono prescritte allocazioni contabili che possono
apparire non compatibili con la natura delle spese da
sostenere.
La ratio legis è quella di stabilire
una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività
compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche,
nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e
amministrative analiticamente indicate e rivolte alla
realizzazione di specifiche procedure.
L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse
ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di
gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la
contabilizzazione di tali risorse ad un modello
predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al
di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale.
Sulla questione è anche rilevante considerare che
la norma contiene un sistema di vincoli compiuto per
l’erogazione degli incentivi che, infatti, sono soggetti a
due limiti finanziari che ne impediscono
l’incontrollata espansione: uno di carattere generale
(il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e
l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al
50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi
spettante al singolo dipendente).
Oltre alla esplicita afferenza della spesa per gli incentivi
tecnici al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli
lavori, servizi e forniture è da
rilevare che tali compensi non sono rivolti
indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a
coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”)
nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro
collaboratori (in senso conforme: SRC Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333).
Si tratta, quindi di una platea ben circoscritta di
possibili destinatari, accomunati dall’essere incaricati
dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito di
attività espressamente e tassativamente previste dalla legge
(in senso conforme: SRC Puglia
parere 24.01.2017 n. 5 e
parere 21.09.2017 n. 108).
Va rilevato, inoltre, che per l’erogazione
degli incentivi l’ente deve munirsi di un apposito
regolamento, essendo questa la condizione essenziale ai fini
del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse
accantonate sul fondo
(in termini: SRC Veneto
parere 07.09.2016 n. 353) e la
sede idonea per circoscrivere dettagliatamene le condizioni
alle quali gli incentivi possono essere erogate. Il comma 3
dell’art. 113 citato, infatti, fa obbligo
all'amministrazione aggiudicatrice, di stabilire “i
criteri e le modalità per la riduzione delle risorse
finanziarie connesse alla singola opera o lavoro” nel
caso di “eventuali incrementi dei tempi o dei costi”.
Una condizione, dunque, che collega necessariamente
l’erogazione dell’incentivo al completamento dell’opera o
all’esecuzione della fornitura o del servizio oggetto
dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi
prestabiliti.
Se tale risulta, dunque, il quadro della materia, come
configurato a seguito delle ultime modifiche normative
intervenute, occorre prendere atto che
l’allocazione in bilancio degli incentivi tecnici stabilita
dal legislatore ha l’effetto di conformare in modo
sostanziale la natura giuridica di tale posta, in quanto
finalizzata a considerare globalmente la spesa complessiva
per lavori, servizi o forniture, ricomprendendo nel costo
finale dell’opera anche le risorse finanziarie relative agli
incentivi tecnici. Questi ultimi risultano previsti da una
disposizione di legge speciale (l’art. 113 del d.lgs. n. 50
del 2016), valevole per i dipendenti di tutte le
amministrazioni pubbliche, a differenza degli emolumenti
accessori aventi fonte nei contratti collettivi nazionali di
comparto.
In altre parole, con un intervento volto a
tipizzare espressamente l’allocazione in bilancio degli
incentivi per le funzioni tecniche, si deve ritenere che il
legislatore (che, in tal modo, ha reso “ordinamentale”
il disposto di cui all’art. 113 citato) abbia voluto dare
maggiore risalto alla finalizzazione economica degli
interventi cui accedono tali risorse, nonostante i possibili
dubbi che ne potrebbero conseguire sul piano della gestione
contabile.
Pur permanendo l’esigenza di chiarire le specifiche modalità
operative di contabilizzazione, la novella
impone che l'impegno di spesa, ove si tratti di opere,
vada assunto nel titolo II della spesa, mentre, nel
caso di servizi e forniture, deve essere
iscritto nel titolo I, ma con qualificazione coerente
con quella del tipo di appalti di riferimento.
Pertanto, il legislatore, con norma
innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha
stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse
autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal
comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse
dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di
compensi accessori al personale. Gli incentivi per le
funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non soggetti al
vincolo posto al complessivo trattamento economico
accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23,
comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
La predetta conclusione assorbe le ulteriori questioni poste
in via subordinata dalla Sezione remittente lombarda.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti,
pronunciandosi sulle questioni di massima poste dalla
Sezione regionale di controllo per la Puglia con la
deliberazione 09.02.2018 n. 9
e dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia con
la
deliberazione 16.02.2018 n. 40,
enuncia il seguente principio di diritto:
“Gli incentivi disciplinati dall’art.
113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art.
1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su
risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli
stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli
lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo
posto al complessivo trattamento economico accessorio dei
dipendenti degli enti pubblici dall’art.
23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Le Sezioni regionali di controllo per la Puglia e per la
Lombardia si atterranno al principio di diritto enunciato
nel presente atto di orientamento, al quale si conformeranno
tutte le Sezioni regionali di controllo ai sensi dell’art.
6, comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito dalla
legge 07.12.2012, n. 213 (Corte dei Conti, Sez. autonomie,
deliberazione 26.04.2018 n. 6). |
|
|
REGIONE LOMBARDIA:
l'ennesima possibile censura della Consulta -sulla l.r.
n. 12/2005- si profila all'orizzonte. |
Per la cronaca, la Legge Urbanistica lombarda (L.R.
11.03.2005 n. 12) è passata al vaglio della
Corte Costituzionale -ad oggi- ben 7 volte ed è
stata bocciata qua e là (nei suoi 104 articoli) ben
4 volte e, segnatamente:
1-
sentenza 23.03.2006 n. 129: LA CORTE
COSTITUZIONALE
- (omissis)
- dichiara l'illegittimità costituzionale del combinato disposto
dell'art. 9, comma 12, e dell'art. 11, comma 3,
della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge
per il governo del territorio), nella parte in
cui non prevede l'obbligo di procedure ad evidenza
pubblica per tutti i lavori, da chiunque effettuati,
di importo pari o superiore alla soglia comunitaria;
- dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 27, comma 1,
lettera e), numero 4, della legge della Regione
Lombardia n. 12 del 2005;
- dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 19, comma 2, lettera b), numero 2, e
dell'art. 10, comma 1, lettera d), entrambi in
relazione all'art. 55, comma 1, lettera b), e
all'art. 57, comma 1, lettere a) e b), della legge
della Regione Lombardia n. 12 del 2005, promossa dal
Governo in riferimento all'art. 117, terzo comma,
della Costituzione;
- dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 33 della legge della Regione Lombardia n.
12 del 2005, promossa dal Governo in riferimento
all'art. 117, terzo comma, della Costituzione;
- dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 9, comma 13, della legge della Regione
Lombardia n. 12 del 2005, promossa dal Governo in
riferimento all'art. 117, primo e terzo comma, della
Costituzione.
2-
sentenza 30.11.2007 n. 402: LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 36, comma 4, ultimo periodo, della legge
della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per
il governo del territorio), come sostituito
dall'art. 1, comma 1, lettera h), della legge della
Regione Lombardia 14.07.2006, n. 12 (Modifiche e
integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12
«Legge per il governo del territorio»),
promossa, in riferimento agli artt. 3 e 97 della
Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;
3-
sentenza 22.10.2008 n. 350: LA CORTE
COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
a) dichiara la illegittimità costituzionale degli artt. 1, 4, 9,
comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, della legge
della Regione Lombardia 03.03.2006, n. 6 (Norme
per l'insediamento e la gestione di centri di
telefonia in sede fissa);
b) dichiara, ai sensi dell'articolo 27 della legge 11.03.1953,
n. 87, l'illegittimità costituzionale delle restanti
disposizioni della legge della Regione Lombardia n.
6 del 2006;
c) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale sollevate, in riferimento
agli articoli 3, 15, 41 e 117 della Costituzione,
con le ordinanze r.o. nn. 67 e 100 del 2008 dal
Tribunale amministrativo regionale della Lombardia
nei confronti dell'art. 8, comma 1, lettere e), f),
h) ed i), e comma 2, della legge della Regione
Lombardia n. 6 del 2006;
d) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale
amministrativo regionale della Lombardia con le
ordinanze r.o. nn. 2, 15, 65, 66, 101, 102, 103 e
127 del 2008.
4-
ordinanza 19.05.2011 n. 173: LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 64, comma 2,
della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n.
12 (Legge per il governo del territorio), come
modificata dalla legge della Regione Lombardia
27.12.2005, n. 20 (Modifiche alla legge regionale
11.03.2005, n. 12 “Legge per il governo del
territorio”, in materia di recupero abitativo
dei sottotetti esistenti), sollevata in riferimento
agli artt. 2, 3, 42 e 117, commi secondo, lettera
l), e terzo, della Costituzione, dal Tribunale
ordinario di Brescia, sezione terza civile, con
l’ordinanza indicata in epigrafe.
5-
sentenza n. 23.11.2011 n. 309: LA CORTE
COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 27, comma
1, lettera d), ultimo periodo, della legge della
Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per
il governo del territorio), nella parte in cui
esclude l’applicabilità del limite della sagoma alle
ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e
ricostruzione;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 103 della
legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella
parte in cui disapplica l’art. 3 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia) (testo A);
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 22 della
legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7
(Interventi normativi per l’attuazione della
programmazione regionale e di modifica ed
integrazione di disposizioni legislative – Collegato
ordinamentale 2010).
6-
sentenza 24.03.2016 n. 63: LA CORTE
COSTITUZIONALE
1) (omissis);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, commi
2-bis, limitatamente alle parole «che presentano i
seguenti requisiti:» e alle lettere a) e b), e
2-quater, della legge della Regione Lombardia
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio), introdotti dall’art. 1, comma 1,
lettera b), della legge della Regione Lombardia
03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge
regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il
governo del territorio) – Principi per la
pianificazione delle attrezzature per servizi
religiosi»;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, commi
4, primo periodo, e 7, lettera e), della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005, introdotti dall’art. 1,
comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2
del 2015;
4) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
70, comma 2-ter, ultimo periodo, della legge reg.
Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1,
comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 2
del 2015, promossa, in riferimento all’art. 19 della
Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei
ministri con il ricorso in epigrafe;
5) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis, 2-ter e
2-quater, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera b), della
legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa –in
riferimento all’art. 117, commi primo e secondo,
lettera a), Cost., in relazione agli artt. 10, 17 e
19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea, agli artt. 10, 21 e 22 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea (proclamata
a Nizza il 07.12.2000 e adattata a Strasburgo il
12.12.2007) ed all’art. 18 del Patto internazionale
sui diritti civili e politici (adottato a New York
il 16.12.1966, ratificato e reso esecutivo in Italia
con legge 25.10.1977, n. 881)– dal Presidente del
Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;
6) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 72, comma 4, ultimo
periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c), della
legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in
riferimento all’art. 19 Cost., dal Presidente del
Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;
7) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
72, comma 7, lettera g), della legge reg. Lombardia
n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1,
lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del
2015, promossa, in riferimento agli artt. 3, 8 e 19
Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con
il ricorso in epigrafe;
8) dichiara manifestamente inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5,
della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005,
introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c), della
legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in
riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l),
Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con
il ricorso in epigrafe.
7-
ordinanza 16.06.2016 n. 150: LA CORTE
COSTITUZIONALE
dispone che nella sentenza n. 63 del 2016, nel numero 3) del
dispositivo, le parole «commi 4 e 7» siano
sostituite dalle parole «commi 4, primo periodo,
e 7». |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
E' rilevante e non manifestamente infondata la
questione, che si rimette alla Corte costituzionale, di
legittimità costituzionale dell’articolo 103, comma 1-bis,
della l.r. della Lombardia n. 12/2005 che recita:
"1-bis.
Ai fini dell’adeguamento, ai
sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti
urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del
decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
ai sensi dell’art.
17 della legge 06.08.1967, n. 765), fatto salvo,
limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il
rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci
metri, derogabile all’interno di piani attuativi.".
---------------
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
proposto dal signor Ni.Ca., nato a Treviso il ... e
residente a Sondrio, per l’annullamento della deliberazione
del Consiglio comunale di Sondrio 28.11.2014 n. 81,
d’approvazione di variante del piano di governo del
territorio.
...
Premesso:
Il Comune di Sondrio, già dotato del piano di governo del
territorio approvato con deliberazione del Consiglio
comunale 06.06.2011 n. 40, con deliberazione della giunta
comunale del 29.09.2013 ha attivato un procedimento di
variante del medesimo piano, comunicandolo alla
cittadinanza. In merito sono state avanzate proposte da
parte di alcuni cittadini.
L’ente territoriale ha introdotto, inoltre, modifiche alle
norme tecniche d’attuazione, alcune delle quali su
suggerimento dell’ufficio tecnico comunale.
Fra le modifiche della normativa, in particolare, una
riguarda la disciplina delle distanze tra fabbricati “Distanza
minima tra edifici”, come dettata dall’art. 3 – “Definizioni
urbanistiche ed edilizie”, dell’elaborato “Definizioni
e disposizioni generali del Piano di Governo del Territorio".
Nella formulazione originaria, essa stabiliva che “Nelle
aree comprese in ambiti di trasformazione e nelle aree
comprese in ambiti del territorio consolidate {Piano delle
Regole) la distanza minima tra edifici deve essere pari
all’altezza dell'edificio più alto e comunque non inferiore
a m 10, fatta eccezione per gli edifici nelle aree comprese
in ambiti del territorio urbanizzato di antica formazione
per i quali la distanza minima tra edifici non può essere
inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati
preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni
aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico,
artistico o ambientale”.
A seguito della variante approvata, il testo della
disposizione è stato così riformulato: “Nelle
aree comprese in ambiti di trasformazione e in ambiti del
territorio consolidate {Piano delle Regole) la distanza
minima tra edifici deve essere non inferiore a m 10, fatta
eccezione per gli edifici compresi nei tessuti edificati di
antica formazione (Taf) per i quali la distanza minima tra
edifici non può essere inferiore a quella intercorrente tra
i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto
di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore
storico, artistico o ambientale. Limitatamente alle aree
comprese in ambiti di trasformazione, la distanza minima
deve inoltre essere pari o superiore all’altezza
dell’edificio più alto”.
Per effetto della variazione è stata
sottratta all’applicazione della disciplina più restrittiva
(quella che impone una distanza minima pari all’altezza
dell’edificio più alto), le aree di nuova edificazione
comprese all’interno di un ambito territoriale che, secondo
la disciplina dettata dalla legge regionale della Lombardia
11.05.2005 n. 12 viene definito “il tessuto urbano
consolidato”.
In particolare, la riformulata disposizione è riferita agli
ambiti territoriali previsti e disciplinati dagli articoli
18 e 19 delle norme di attuazione del piano delle regole.
Con l’art. 18 vengono definiti alcuni ambiti di espansione
edificatoria che, pur compresi nel perimetro territoriale
disegnato al fine d’individuare il cosiddetto “tessuto
urbano consolidato”, e definiti “tessuti di
completamento”, costituiscono vere e proprie aree di
espansione edificatoria, dato che ai sensi del comma 1 del
predetto art. 18 “Gli ambiti cosi classificati sono
rappresentati da parti prevalentemente non edificate,
intercluse all’interno del tessuto consolidate di fondovalle
o di versante o ai suoi margini.. La loro individuazione sul
territorio consente di affermare che si tratta di ambiti
privi di edificazione, da assoggettare per la prima volta a
processo urbanizzativo ed edificatorio.
Tale risulta la condizione dell’ambito n. 15, adiacente alla
proprietà del ricorrente, individuato dall'art. l9, quale
ambito assoggettato a piano attuativo obbligatorio. Tale
ambito conferma una previsione già presente nel previgente
piano regolatore generale approvato negli anni ‘90, laddove
era individuata come zona “RT n. 17”, assoggettata a
piano attuativo obbligatorio, coinvolgente il medesimo
ambito territoriale, assolutamente privo di edificazione e
destinato a nuovi insediamenti residenziali, ubicato ai
margini estremi dell'aggregato urbano edificato, lungo la
strada che introduce alla Valmalenco, caratterizzata da una
elevata acclività.
Il citato ambito, individuato nel piano generale del
territorio come ambito n. 15 nell’art. 19, conferma la
delimitazione dello stesso ambito territoriale individuato
nel precedente piano regolatore generale come “RT n. 17”,
mai coinvolto in precedenza in processi di urbanizzazione di
edificazione, atteso che è stata assoggettata in entrambi
gli strumenti urbanistici a piano attuativo, com’è
prescritto per tutte le zone che, secondo il decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444, devono essere qualificate
come zone di espansione.
L’Amministrazione, nella scelta di denominazioni e sigle
delle zone territoriali omogenee differenti da quelle
dettate nel D.M. n. 1444/1968 (prima RT ora ambito TAC), ad
avviso del ricorrente sarebbero state sottratte alla
disciplina che detto decreto ha fissato, specialmente per
quanto riguarda il regime delle distanze tra fabbricati, che
assumono valenza integrativa del codice civile,
asseritamente non derogabili dalle norme locali con
conseguente richiesta di disapplicazione delle disposizioni
di strumenti urbanistici che fissino una distanza tra
fabbricati inferiore a quella prevista nel citato DM.
Tutti gli ambiti “Tc” individuati dall’art. 19 del piano
generale del territorio sono assoggettati o a piano
urbanistico attuativo o a permesso di costruire
convenzionato obbligatorio, in considerazione proprio della
circostanza che si tratta di ambiti non edificati, da
assoggettare per la prima volta ad un processo di
urbanizzazione che richiede la preventiva pianificazione di
dettaglio, o almeno, ove si tratti di un ambito di più
limitata estensione, ad un permesso di costruire corredato
da una convenzione obbligatoria, mediante la quale garantire
gli stessi effetti del piano attuativo.
A conferma, il ricorrente richiama la circostanza che su 20
ambiti “Tc” individuati e disciplinati dall'art. 19 del
piano generale del territorio ben 11 sono soggetti al piano
attuativo obbligatorio. Fra essi vi è il n. 15, confinante
con la sua proprietà, sulla quale insiste un edificio a
destinazione residenziale (individuato in catasto al foglio
31, mappale 319, del Comune di Sondrio), a fronte del quale
è in corso di realizzazione un complesso residenziale avente
altezza largamente superiore a m 10, che non rispetterebbe
la distanza pari all’altezza dell’edificio più alto, come
prescritto per le zone omogenee C (parti del territorio
destinate a nuovi complessi insediativi che risultino
inedificate o nelle quali l’edificazione preesistente non
raggiunga i limiti di superficie e densità delle zone,
totalmente edificate) dall’art. 9, 1° comma, del DM n.
1444/1968.
Il ricorrente evidenzia, poi, che nelle stesse “Norme di
Attuazione del Piano delle Regole a1 Capo 2 (articoli 14,
15, 16, 17)” vengono disciplinate le altre porzioni del
tessuto urbano consolidato che presentano già una condizione
di parziale o compiuta edificazione, per i quali vengono
ammessi interventi diretti o perfino piani attuativi
all’interno dei quali viene consentita una distanza tra gli
edifici minore di quella minima di legge, evidentemente in
applicazione di quanto disposto dall’ultimo comma dell'art.
9 del DM 1444/1968.
Tale circostanza fa emergere la presenza, all’interno del
tessuto urbano consolidato, di ambiti territoriali molto
diversificati fra loro, alcuni dei quali aventi le
caratteristiche delle zone di completamento, altri quelle
delle zone di espansione.
2. Il ricorrente lamenta che la profonda diversità di
condizione oggettiva renda ingiustificata e illegittima la
sottrazione al più incisivo regime delle distanze tra
fabbricati fissato dall’art. 9 del DM n. 1444/1968 proprio
per le zone di nuova edificazione ed urbanizzazione.
Di conseguenza egli impugna la variante del piano generale
del territorio di Sondrio, segnatamente la parte mediante la
quale ha modificato la disposizione dell’art. 3 relativa
alla distanza tra fabbricati riducendo la misura della
distanza tra immobili fronteggianti alla sola misura di ml.
10,00 ed escludendo dall’applicazione della maggiore
distanza pari all’altezza dell’edificio più alto i nuovi
insediamenti previsti nelle cosiddette “zone TAC”, e
confermando tale disposizione solo per i nuovi insediamenti
in ambiti di trasformazione, senza tener conto del fatto
che, invece, per situazioni del genere doveva essere
mantenuta la formulazione originaria conforme a1 dispositivo
dell'art. 9 del DM n. 1444/1968, data l’identità di
condizioni oggettive di ambiti non edificati da
assoggettare, per la prima volta, ad un processo di nuova
urbanizzazione soggetto a preventiva approvazione di piano
attuativo.
A fondamento del ricorso il ricorrente deduce i seguenti
motivi di violazione di legge ed eccesso di potere.
1. Violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, in quanto è
stato espunto dall’ordinamento urbanistico locale l’obbligo
del rispetto della distanza minima pari all’edificio più
alto, in relazione ad interventi di nuova edificazione, in
asserite “Zone di espansione edificatoria aventi le
condizioni oggettive delle Zone C”.
2. Difetto di motivazione e contraddittorietà, perché
l’originaria formulazione del PGT in materia di distanze
dettava una disposizione univoca, in conformità alla
disciplina prevista dal richiamato art. 9 del D.M. n.
1444/1968, avente valenza vincolante in sede di
pianificazione. La decisione di modificare la norma generale
sarebbe quindi arbitraria, oltre che carente di adeguata
motivazione.
3. Difetto di motivazione, contraddittorietà, deviazione
dalla funzione. Il ricorrente sostiene che il 29.09.2013,
pur in presenza di un PGT approvato (deliberazione del
Consiglio comunale n. 40/2011), la giunta comunale ha
assunto la determinazione di avviare il procedimento di
revisione del PGT con l’esplicita affermazione di aggiornare
il piano senza alterarne l’impostazione complessiva
originaria e al solo fine di correggere errori materiali
riscontrati in fase applicativa. Quindi, la rilevante
modifica sul regime delle distanze contestata avrebbe il
carattere di norma elusiva di tassativi limiti di legge e
foriera di ulteriori situazioni di contrasto con il vigente
quadro giuridico di riferimento.
Considerato:
3. L’art. 2-bis del decreto del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001 n. 380 stabilisce che “…le regioni
e le province autonome di Trento e di Bolzano possono
prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni
derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici
02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli
spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli
produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al
verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o
revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un
assetto complessivo e unitario o di specifiche aree
territoriali”.
La Regione Lombardia, con le modifiche introdotte alla legge
urbanistica regionale 11.05.2005 n. 12 con la legge
regionale 14.03.2008 n. 4, ha recepito tali indicazioni
stabilendo, ai fini dell’adeguamento degli strumenti
urbanistici, l’inapplicabilità del citato D.M. n. 1444/1968
fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova
costruzione, il rispetto della distanza minima di dieci
metri, derogabile all’interno dei piani attuativi.
L’art. 9 del D.M. 02.04.n. 1444/1968 dispone che “Le
distanze minime tra fabbricati per le diverse zone
territoriali omogenee sono stabilite come segue:
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di
edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del
fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una
sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si
fronteggino per uno sviluppo superiore a m 12.
Le distanze minime tra fabbricati -tra i quali siano
interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con
esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di
singoli edifici o di insediamenti)- debbono corrispondere
alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
- m 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
- m 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra m 7 e m 15;
- ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15”.
L’art. 1-bis della legge regione Lombardia 11.03.2005, n.
12, aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera xxx), L.R.
14.03.2008, n. 4, prevede che “Ai fini dell'adeguamento,
ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti
urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del
decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444 (Limiti inderogabili
di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i
fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765, fatto
salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione,
il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a
dieci metri, derogabile all'interno di piani attuativi”.
Il successivo comma 1-ter dispone che “Ferme restando le
distanze minime di cui agli articoli 873 e 907 del codice
civile, fuori dai centri storici e dai nuclei di antica
formazione la distanza minima tra pareti finestrate, di cui
al comma 1-bis, è derogabile per lo stretto necessario alla
realizzazione di sistemi elevatori a pertinenza di
fabbricati esistenti che non assolvano al requisito di
accessibilità ai vari livelli di piano”.
4. In materia di distanza tra fabbricati,
per costante giurisprudenza
(da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV, 23.06.2017 n. 3093;
08.05.2017 n. 2086; 29.02.2016 n. 856; Corte Cass. civ.,
sez. II, 14.11.2016 n. 23136), la
disposizione contenuta nell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve
sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile
poiché si tratta di norma imperativa la quale predetermina,
in via generale ed astratta, le distanze tra le costruzioni,
in considerazione delle esigenze collettive connesse ai
bisogni di igiene e di sicurezza.
Tali distanze sono coerenti con il
perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile.
Occorre osservare, poi, che
la disposizione dell’art. 9, n.
2 del D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”,
intendendosi per tali gli edifici (o parti o sopraelevazioni
di essi: Consiglio di Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522)
“costruiti per la prima volta” e non già edifici
preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non
avrebbe senso prescrivere distanze diverse. Tale
affermazione trova riscontro in una pluralità di
considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che,
ai sensi dell’art.
41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, avente per oggetto “Disciplina
dell’attività urbanistica e suoi scopi” nella
formulazione in vigore dal 30.06.2003, i limiti inderogabili
di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i
fabbricati nonché i rapporti massimi tra spazi destinati
agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici
o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggi”, sono imposti ai fini della formazione di nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti.
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria
per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già
per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato
da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non
sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione
urbanistica).
Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato, lo stesso
art. 9 del D.M. n. 1444/1968 per le zone “A”, nel
contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede
che le distanze “non possono essere inferiori a quelle
intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti, il discrimine in tema di distanze (con
l’introduzione del limite inderogabile di 10 m), nella ‘ratio’
dell’indicato art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A
ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova
(ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione
di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della
disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza,
sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B
totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte,
a voler applicare il limite inderogabile di
distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un
altro preesistente si otterrebbe che, da un lato, l’immobile
considerato non potrebbe essere demolito e ricostruito, se
non “arretrando” rispetto all’allineamento
preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e
realizzandosi, quindi, un improprio “effetto
espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro lato,
esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di
cui all’ultimo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968,
allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un
solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno
strumento urbanistico attuativo con dettaglio piano
volumetrico.
Anzi,
la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9,
u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici
attuativi conferma quanto innanzi affermato e cioè che le
norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444/1968 si
riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non
già ad interventi specifici sull’esistente.
In conclusione, in tema di distanze fra
costruzioni, l’art. 9, comma 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, “poiché
emanato su specifica delega contenuta nell'art. 41-quinquies
della legge urbanistica fondamentale 17.08.1942, n. 1150, ha
efficacia di legge dello Stato sicché le sue disposizioni in
tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza
tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni
dei regolamenti edilizi, ai quali si sostituiscono per
inserzione automatica”
(Cass. civ. sez. II, 12.02.2016, n. 2848).
5. Le disposizioni legislative riguardanti
i titoli abilitativi per gli interventi edilizi sono state,
da tempo, ricondotte dalla Corte costituzionale nell’ambito
della normativa di principio in materia di governo del
territorio (Corte
costituzionale, sent. 23.11.2011, n. 309; 01.10.2003, n.
303).
In merito è stato chiarito che “sono
principi fondamentali della materia le disposizioni che
definiscono le categorie di interventi, perché è in
conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei
titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli
oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche
penali.
L’intero corpus normativo statale in ambito edilizio è
costruito sulla definizione degli interventi, con
particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di
ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di
ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e
le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e
degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo,
manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria),
dall'altro.
La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi
spetta, dunque, allo Stato”.
Con specifico riferimento al riparto di competenze in tema
di distanze legali, la medesima Corte ha affermato che “la
disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra
nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene
alla competenza legislativa statale; alle Regioni è
consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime
stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la
deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio.
Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una
competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra
gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento
civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il
governo del territorio− che ne detta anche le modalità di
esercizio"
(Corte costituzionale, sentenze 03.11.2016 n. 231;
23.01.2013 n. 6; 21.05.2014 n. 134; ordinanza 19.05.2011 n.
173).
Si è affermato di conseguenza che “nella
delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza −statale
in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia
di “governo del territorio”−, il punto di equilibrio è stato
rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del
1968, ritenuto più volte dotato di “efficacia precettiva e
inderogabile”
(Corte costituzionale, sent. 10.05.2012, n. 114; ordinanza
19.05.2011, n. 173).
Con rifermento ad eventuali deroghe, la
Corte ha ritenuto che tale disposto ammette distanze
inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale “nel
caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”.
In definitiva, le deroghe all’ordinamento
civile delle distanze tra edifici sono consentite se
inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio.
Le richiamate conclusioni sono state ribadite anche a
seguito dell’emanazione dell’art. 30, comma 1, 0a), del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il
rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98 − e
dell’art. 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica
n. 380 del 2001.
Ad avviso del giudice costituzionale,
invero, la disposizione ha recepito l’orientamento della
Corte “inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi
fondamentali della vincolatività, anche per le regioni e le
province autonome, delle distanze legali stabilite dal D.M.
n. 1444/1968 e dell'ammissibilità di deroghe solo a
condizione che esse siano inserite in strumenti urbanistici,
funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio”
(sentenze 20.07.2016 n. 175 e 21.09.2016 n. 178).
6. L’art. 103, comma 1-bis, della legge
della Regione Lombardia n. 12/2005, non affidando
l’operatività dei suoi precetti a “strumenti urbanistici”
e non essendo funzionale ad un “assetto complessivo ed
unitario di determinate zone del territorio”, riferisce
la possibilità di deroga a qualsiasi ipotesi di intervento,
quindi anche su singoli edifici, con la conseguenza che essa
risulta assunta al di fuori dell’ambito della competenza
regionale concorrente in materia di “governo del
territorio”, in violazione del limite “dell’ordinamento
civile” assegnato alla competenza legislativa esclusiva
dello Stato.
Sotto i delineati profili la Sezione è
dell’avviso che la questione di legittimità costituzionale
di cui al comma 1-bis dell’articolo 103 della legge
regionale della Lombardia 2005 n. 12, (comma aggiunto
dall'art. 1, comma 1, lettera xxx), della legge regionale
Lombardia 14.03.2008, n. 4), non sia manifestamente
infondata.
Non può dubitarsi, poi, della sua rilevanza atteso che, come
emerge dall’esposizione fin qui svolta, la sua applicazione
è decisiva ai fini della decisione della controversia in
esame.
Dev’essere disposta, conseguentemente, la rimessione degli
atti alla Corte costituzionale per la decisione della
predetta questione di legittimità costituzionale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede consultiva (Sezione prima),
visti gli articoli 134 della Costituzione, 1 della legge
costituzionale 09.02.1948 n. 1, 23 della legge 11.03.1953,
n. 87 e l’art. 1, delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale 07.10.2008:
a) dichiara rilevante e non manifestamente
infondata la questione, che rimette alla Corte
costituzionale, di legittimità costituzionale dell’articolo
103, comma 1-bis, della legge regionale della Lombardia n.
12/2005, nei sensi indicati in motivazione;
b) dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale e sospende il presente procedimento (Consiglio
di Stato, Sez. I,
parere 22.01.2018 n. 199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
|
|
Ancora in materia di denuncia
(preventiva) dei cementi armati e zona sismica... |
EDILIZIA PRIVATA:
Edilizia in zone sismiche - Pericolo la pubblica
incolumità e normativa antisismica - Variazione delle
dimensioni dei pilastri di sostegno di un manufatto - Reati
di pericolo - Rilascio postumo del parere favorevole da
parte dell'Ufficio del Genio Civile - Ininfluenza.
L'art. 93, comma 1, d.P.R. 380/2001, prevede che nelle zone
sismiche «chiunque intenda procedere a costruzioni,
riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne preavviso
scritto allo sportello unico», non potendo iniziare i
lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del
competente ufficio tecnico regionale a norma del successivo
art. 94, comma 1, d.P.R. 380/2001.
La disciplina penale in parola è applicabile a qualsiasi
opera in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità
(Sez. 3, n. 19185 del 14/01/2015, Garofano; Sez. 3, n. 24086
del 11/04/2012, Di Nicola e a.) e non v'è dubbio che ciò
ricorra nella variazione delle dimensioni dei pilastri di
sostegno di un manufatto di rilevanti dimensioni come quello
di specie, nella costruzione di una rampa in cemento armato
adibita al transito veicolare, addirittura nella
sopraelevazione di un intero piano del fabbricato (tipologia
di opera, quest'ultima, espressamente contemplata nell'art.
93, comma 1, d.P.R. 380/2001).
Essendo le ultime menzionate due opere nuove, non
contemplate nell'originario progetto, non v'è dubbio che non
possa riconoscersi alcuna rilevanza alla precedente denuncia
dei lavori ed alla relativa autorizzazione, essendo fuori di
luogo parlare di "varianti non sostanziali" ovvero
-come pure fa la Corte d'appello- richiamare il concetto di
variazione non essenziale ricavabile dall'art. 32 d.P.R.
380/2001, disposizione che riguarda esclusivamente la
legittimità urbanistica dell'opera rispetto al contenuto del
permesso di costruire.
Trattandosi di reati di pericolo, poi, nessun rilievo può
riconoscersi alla verifica postuma della compatibilità
dell'opera con le norme tecniche costruttive, essendo del
pari pacifico il principio secondo cui, in tema di reati
concernenti l'attività edificatoria in zone sismiche,
l'eventuale rilascio postumo del parere favorevole da parte
dell'Ufficio del Genio Civile competente, che attesta la
rispondenza alla normativa antisismica delle opere
realizzate, non elide l'antigiuridicità penale della
condotta consistita nell'aver iniziato i relativi lavori
senza preventiva autorizzazione scritta dal competente
ufficio tecnico regionale (Sez. 3, n. 27876 del 16/06/2015,
Pro, Rv. 264201) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.02.2018 n. 6738 - link a
www.ambientediritto.it).
---------------
MASSIMA
5. Del pari fondate sono le doglianze dei ricorrenti -e
della parte civile
specialmente- relative all'assoluzione dalle
contravvenzioni in materia di
vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche, quale
pacificamente è il comune di
Sant'Agata di Puglia, previste dagli artt. 93-95 e 94-95 d.P.R. 380/2001
rispettivamente contestati ai capi i) e l) della rubrica.
La
Corte territoriale,
invero, ha riconosciuto che gli elaborati progettuali per la
realizzazione della
rampa esterna di cui alla d.i.a. del 29.07.2008 e del
piano sottotetto di cui al
permesso di costruire in variante del 30.07.2009, nonché
la variazione della
dimensione di alcuni pilastri, non erano presenti tra gli
atti a suo tempo
depositati al Genio Civile e furono tardivamente presentati,
dopo l'esecuzione
delle opere, soltanto il 25.09.2009 ed approvati il
31.03.2010.
Il
giudice d'appello, tuttavia, ha assolto l'imputato sul
rilievo che l'Ufficio del Genio
Civile aveva approvato i progetti osservando che i trattava
di varianti "non
sostanziali", sicché le stesse, non comportando un mutamento
dell'impatto
statico del manufatto, non sarebbero state soggette al
deposito preventivo del
progetto, potendo invece essere presentate successivamente
prima della fine dei
lavori.
Detto rilievo
-in alcun modo motivato in diritto-
è
indubbiamente errato
e contrario al chiaro principio espresso nell'art. 93, comma
1, d.P.R. 380/2001,
secondo cui nelle zone sismiche «chiunque intenda procedere
a costruzioni,
riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne preavviso
scritto allo sportello
unico», non potendo iniziare i lavori senza la preventiva
autorizzazione scritta del
competente ufficio tecnico regionale a norma del successivo
art. 94, comma 1,
d.P.R. 380/2001.
La disciplina penale in parola, invero, è
applicabile a qualsiasi
opera in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità
(Sez. 3, n. 19185 del
14/01/2015, Garofano, Rv. 263376; Sez. 3, n. 24086 del
11/04/2012, Di Nicola
e a., Rv. 253056)
e non v'è dubbio che ciò ricorra nella
variazione delle
dimensioni dei pilastri di sostegno di un manufatto di
rilevanti dimensioni come
quello di specie, nella costruzione di una rampa in cemento
armato adibita al
transito veicolare, addirittura nella sopraelevazione di un
intero piano del
fabbricato (tipologia di opera, quest'ultima, espressamente
contemplata nell'art.
93, comma 1, d.P.R. 380/2001).
Essendo le ultime menzionate
due opere nuove,
non contemplate nell'originario progetto, non v'è dubbio che
non possa
riconoscersi alcuna rilevanza alla precedente denuncia dei
lavori ed alla relativa autorizzazione, essendo fuori di
luogo parlare di "varianti non sostanziali" ovvero
-come pure fa la Corte d'appello- richiamare il concetto
di variazione non
essenziale ricavabile dall'art. 32 d.P.R. 380/2001,
disposizione che riguarda
esclusivamente la legittimità urbanistica dell'opera
rispetto al contenuto del
permesso di costruire.
Trattandosi di reati di pericolo,
poi, nessun rilievo può
riconoscersi alla verifica postuma della compatibilità
dell'opera con le norme
tecniche costruttive, essendo del pari pacifico il principio
secondo cui,
in tema di
reati concernenti l'attività edificatoria in zone sismiche,
l'eventuale rilascio
postumo del parere favorevole da parte dell'Ufficio del
Genio Civile competente,
che attesta la rispondenza alla normativa antisismica delle
opere realizzate, non
elide l'antigiuridicità penale della condotta consistita
nell'aver iniziato i relativi
lavori senza preventiva autorizzazione scritta dal
competente ufficio tecnico
regionale
(Sez. 3, n. 27876 del 16/06/2015, Pro, Rv. 264201)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.02.2018 n. 6738). |
EDILIZIA PRIVATA:
Attività edilizia in zona sismica - Opere
edilizie con strutture in legno - Opere precarie -
Applicabilità della disciplina per le costruzioni in zona
sismica - Giurisprudenza - Artt. 44, 93, 94 e 95, d.P.R. n.
380/2001.
Anche le opere edilizie con strutture in legno, allorché
realizzate in una zona dichiarata sismica, sono sottoposte
alla disciplina di cui alla L. 02.02.1974 n. 64, in quanto
l'utilizzo di elementi strutturali di minore solidità rende
ancora più necessari i controlli e le cautele prescritte
dalla citata legge in materia di costruzioni in zona sismica
(Sez. 3, n. 10205 del 18/01/2006, Solis).
Ciò sul rilievo che ai fini della configurabilità dei reati
previsti dalla disciplina in tema di costruzioni in zone
sismiche, le norme dettate dagli artt. 93, 94 e 95, d.P.R.
n. 380 del 2001 si riferiscono a tutte le costruzioni,
sopraelevazioni e riparazioni edili, a prescindere dal
materiale con cui vengono realizzate (Sez. 3, n. 9126 del
16/11/2016, Aliberti; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015, Baio;
Sez. 3, n. 34604 del 17/06/2010, Todaro; Sez. 3, n. 28514
del 29/05/2007, Libonati).
Per tale ragione, non sono escluse dall'orbita applicativa
della fattispecie in questione nemmeno le opere precarie
(Sez. 3, n. 37322 del 03/07/2007, Borgia; Sez. 3, n. 24086
del 11/04/2012, Di Nicola, che ritenuto soggetta a regime
autorizzatorio antisismico l'installazione di pannelli
autostradali a messaggi variabili) (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 31.01.2018 n. 4567 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche le opere edilizie con strutture in legno,
allorché realizzate in una zona dichiarata sismica, sono
sottoposte alla disciplina di cui alla L. 02.02.1974 n. 64,
in quanto l'utilizzo di elementi strutturali di minore
solidità rende ancora più necessari i controlli e le cautele
prescritte dalla citata legge in materia di costruzioni in
zona sismica.
Ciò sul rilievo che ai fini della configurabilità dei reati
previsti dalla disciplina in tema di costruzioni in zone
sismiche, le norme dettate dagli artt. 93, 94 e 95, d.P.R.
n. 380 del 2001 si riferiscono a tutte le costruzioni,
sopraelevazioni e riparazioni edili, a prescindere dal
materiale con cui vengono realizzate.
Per tale ragione, non sono escluse dall'orbita applicativa
della fattispecie in questione nemmeno le opere precarie.
---------------
4. Il secondo motivo è manifestamente infondato,
considerato che anche le opere edilizie con strutture in
legno, allorché realizzate in una zona dichiarata sismica,
sono sottoposte alla disciplina di cui alla L. 02.02.1974 n.
64, in quanto l'utilizzo di elementi strutturali di minore
solidità rende ancora più necessari i controlli e le cautele
prescritte dalla citata legge in materia di costruzioni in
zona sismica (Sez. 3, n. 10205 del 18/01/2006, Solis, Rv.
233671).
Ciò sul rilievo che ai fini della configurabilità dei reati
previsti dalla disciplina in tema di costruzioni in zone
sismiche, le norme dettate dagli artt. 93, 94 e 95, d.P.R.
n. 380 del 2001 si riferiscono a tutte le costruzioni,
sopraelevazioni e riparazioni edili, a prescindere dal
materiale con cui vengono realizzate (Sez. 3, n. 9126 del
16/11/2016, Aliberti, Rv. 269303; Sez. 3, n. 48950 del
04/11/2015, Baio, Rv. 266033; Sez. 3, n. 34604 del
17/06/2010, Todaro, Rv. 248330; Sez. 3, n. 28514 del
29/05/2007, Libonati, Rv. 237656).
Per tale ragione, non sono escluse dall'orbita applicativa
della fattispecie in questione nemmeno le opere precarie
(Sez. 3, n. 37322 del 03/07/2007, Borgia, Rv. 237842; Sez.
3, n. 24086 del 11/04/2012, Di Nicola, Rv. 253056, che
ritenuto soggetta a regime autorizzatorio antisismico
l'installazione di pannelli autostradali a messaggi
variabili) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.01.2018 n. 4567). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di reati antisismici, l'eventuale
rilascio postumo del parere favorevole da parte
dell'ufficio del Genio Civile competente che attesti
la rispondenza alla normativa antisismica delle
opere realizzate, non elide l'antigiuridicità penale
della condotta consistente nell'aver iniziato i
relativi lavori senza preventiva autorizzazione
scritta del competente ufficio tecnico della
regione.
---------------
1. I ricorsi sono manifestamente infondati.
2. Preliminarmente, giova soffermarsi sulla
richiesta di declaratoria di estinzione del reato
per avvenuto rilascio del permesso di costruire in
sanatoria, formulata da Mo. e Sa. con il loro primo
motivo di ricorso.
Secondo la previsione dell'art. 36 del d.P.R. n. 380
del 2001, l'estinzione del reato edilizio a seguito
del perfezionamento della procedura amministrativa
di accertamento di conformità presuppone "che
l'intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda", nonché il "pagamento,
a titolo di oblazione, del contributo di costruzione
in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a
norma di legge, in misura pari a quella prevista
dall'articolo 16"; oblazione "calcolata con
riferimento alla parte di opera difforme dal
permesso".
Peraltro, secondo la consolidata giurisprudenza di
questa Corte, il rilascio del titolo amministrativo
non produce, ipso iure, il suddetto effetto
estintivo, residuando, comunque, in capo al giudice
penale, il potere-dovere di verificarne in concreto
la legittimità, con particolare riguardo alla sua
conformità agli strumenti urbanistici vigenti al
momento del fatto ed a quello della richiesta (tra
le tante, Sez. 3, n. 36366 del 16/06/2015, dep.
09/09/2015, Faiola, Rv. 265034).
Orbene, anche a prescindere dal fatto che
l'accertamento di conformità ai sensi del
citato art. 36 comporta l'estinzione delle sole
ipotesi contravvenzionali previste dalle norme
urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra
la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle
zone sismiche, che ha una oggettività giuridica
diversa da quella riguardante il corretto assetto
del territorio
(Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014, dep. 22/10/2014,
Conforti, Rv. 261099), deve osservarsi che, al fine
di verificare l'integrazione della fattispecie
estintiva, è necessario operare una valutazione che
involge, inevitabilmente, elementi fattuali della
situazione concreta, il cui scrutinio è, tuttavia,
assolutamente precluso al giudice di legittimità,
tanto più che gli atti istruttori richiamati nel
permesso di costruire in sanatoria non sono stati in
alcun modo allegati, sicché non è possibile nemmeno
effettuare un semplice riscontro cartolare circa
l'effettivo adempimento delle condizioni poste con
il provvedimento in data 22/09/2011 del comune di
Vasto.
Ciò assume rilevanza, in particolare, ove si
consideri che l'elemento qualificante del fatto
contestato consisteva proprio nella totale
difformità tra quanto assentito e l'opera
effettivamente realizzata, atteso l'evidente
mutamento di destinazione d'uso, dalla rimessa di
attrezzi agricoli originariamente prevista al
fabbricato destinato a civile abitazione, realmente
costruito.
Ne consegue, pertanto, la manifesta infondatezza
della relativa deduzione (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 21.09.2017 n.
43151).
|
EDILIZIA PRIVATA:
Le contravvenzioni previste
dalla normativa antisismica puniscono inosservanze
formali, volte a presidiare il controllo preventivo
della P.A. Ne deriva che l'effettiva pericolosità
della costruzione realizzata senza i prescritti
adempimenti è del tutto irrilevante ai fini della
sussistenza del reato e la verifica postuma
dell'assenza del pericolo ed il rilascio dei
provvedimenti abilitativi non incide sulla illiceità
della condotta, poiché gli illeciti sussistono in
relazione al momento di inizio della attività.
Le disposizioni della normativa antisismica si
applicano, invero, a tutte le costruzioni la cui
sicurezza possa interessare la pubblica incolumità,
a nulla rilevando la natura dei materiali usati e
delle strutture realizzate- a differenza della
disciplina relativa alle opere in conglomerato
cementizio armato- in quanto l'esigenza di maggior
rigore nelle zone dichiarate sismiche rende ancor
più necessari i controlli e le cautele prescritte,
quando si impiegano elementi strutturali meno solidi
e duraturi del cemento armato.
---------------
4. Altrettanto ineccepibilmente i Giudici di merito
hanno ritenuto che le contravvenzioni previste dalla
normativa antisismica puniscono inosservanze
formali, volte a presidiare il controllo preventivo
della P.A. Ne deriva che l'effettiva pericolosità
della costruzione realizzata senza i prescritti
adempimenti è del tutto irrilevante ai fini della
sussistenza del reato e la verifica postuma
dell'assenza del pericolo ed il rilascio dei
provvedimenti abilitativi non incide sulla illiceità
della condotta, poiché gli illeciti sussistono in
relazione al momento di inizio della attività (cfr.
Cass. pen. sez. 3, 17/06/1997 n. 5738).
Le disposizioni della normativa antisismica si
applicano, invero, a tutte le costruzioni la cui
sicurezza possa interessare la pubblica incolumità,
a nulla rilevando la natura dei materiali usati e
delle strutture realizzate- a differenza della
disciplina relativa alle opere in conglomerato
cementizio armato- in quanto l'esigenza di maggior
rigore nelle zone dichiarate sismiche rende ancor
più necessari i controlli e le cautele prescritte,
quando si impiegano elementi strutturali meno solidi
e duraturi del cemento armato (Cass. pen. sez. 3,
24/1012001 n. 38142).
Ugualmente irrilevante, infine, è che la costruzione
si trovasse all'interno di una proprietà privata,
tutelando la norma la pubblica incolumità (in tale
concetto rientra anche il possibile danno al singolo
individuo e quindi allo stesso proprietario del
manufatto) dagli effetti delle azioni sismiche.
In ordine al reato di cui agli artt. 94 e 95 DPR
380/2001, ascritto all'originario capo c), il
Tribunale aveva già mandato assolti gli imputati "perché
il fatto non sussiste" proprio in considerazione
del fatto che la zona in cui era stata realizzato il
muro di recinzione era "a bassa sismicità"
(livello 4) per cui non era necessaria la preventiva
autorizzazione.
5. Non era poi certamente maturata la prescrizione,
non essendo decorso il termine massimo di anni
cinque: la realizzazione del muro di recinzione fu
accertata, infatti, in data 31.05.2012 ed i
ricorrenti non hanno addotto alcun elemento da cui
desumere, in contrasto con tale accertamento, che la
permanenza sia invece cessata in epoca anteriore.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, invero,
"...sempre restando a carico dell'accusa l'onere
della prova della data di inizio della decorrenza
del termine prescrittivo, non basta una mera e
diversa affermazione da parte dell'imputato a far
ritenere che il reato si sia realmente estinto per
prescrizione e neppure a determinare l'incertezza
sulla data di inizio della decorrenza del relativo
termine con la conseguente applicazione del
principio in dubio pro reo, atteso che, In base al
principio generale per cui ciascuno deve dare
dimostrazione di quanto afferma, grava sull'imputato
che voglia giovarsi della causa estintiva, in
contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in
proposito dagli atti di causa, l'onere di allegare
gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a
potere concretamente disporre, per determinare la
data di inizio del decorso del termine di
prescrizione, data che in tali ipotesi coincide con
quella di esecuzione dell'opera incriminata"
Cass. pen. n. 10562 dell'11/10/2000).
Anche la giurisprudenza successiva ha ribadito che "In
tema di prescrizione, grava sull'imputato, che
voglia giovarsi di tale causa estintiva del reato,
l'onere di allegare gli elementi in suo possesso dai
quali desumere la data di inizio del decorso del
termine, diversa da quella risultante dagli atti"
(Cass. pen. sez. 3 n. 19082 del 24/03/2009) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.05.2017 n. 22336). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il conseguimento del permesso di costruire
in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli
reati contravvenzionali previsti dalle norme
urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra
la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle
zone sismiche, che ha una oggettività giuridica
diversa da quella riguardante il corretto assetto
del territorio.
---------------
4. Il terzo motivo è manifestamente
infondato, considerata l'autonomia delle fattispecie
contestate ai capi B), C), e D) dell'imputazione
rispetto al reato di cui al capo A) e la assoluta
irrilevanza, rispetto alle predette fattispecie
contravvenzionali, del rilascio del permesso a
costruire in sanatoria.
Costituisce principio consolidato, infatti, che il conseguimento del permesso di costruire
in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli
reati contravvenzionali previsti dalle norme
urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra
la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle
zone sismiche, che ha una oggettività giuridica
diversa da quella riguardante il corretto assetto
del territorio
(Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014, dep. 22/10/2014,
Conforti, Rv. 261099; nonché Sez. 3, n. 7764 del
04/05/1999, dep. 16/06/1999, P.M. in proc. Cosentino
A ed altro, Rv. 214165 e Sez. 3, n. 2114 del
26/11/2002, dep. 17/01/2003, PG in proc. Frascani e
altro, Rv. 223145, pronunciate con riferimento alla
omologa disposizione, ratione temporis
vigente, di cui all'art. 22 della legge 28.02.1985
n. 47) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.06.2017 n. 30654).
|
EDILIZIA PRIVATA:
L'articolo 93 d.p.r. 380 del 2001, con il quale si
intende assicurare la vigilanza sulle costruzioni in
zone sismiche, garantisce, prevedendo la denuncia
allo sportello unico, la sinergia fra gli
interessati e le amministrazioni coinvolte nel
procedimento, imponendo a chi intende procedere agli
interventi di costruzione nella zone sismiche di
presentare un preavviso scritto (cd. denuncia allo
sportello unico) e tale adempimento assume la
funzione di informativa dell'attività intrapresa,
mirando a rendere effettivo il controllo preventivo
della P.A., a presidio del territorio.
L'articolo 83 d.p.r. 380 del 2001, cui l'articolo 93
rinvia, indica le opere disciplinate e i gradi di
sismicità, mentre l'articolo 84 definisce il
contenuto delle norme tecniche, che devono essere
osservate.
L'articolo 94 d.p.r. 380 del 2001, infine, prevede
la necessità di una preventiva autorizzazione del
competente ufficio tecnico regionale, fermo restando
l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento
edilizio, ed impone che la direzione dei lavori sia
assunta da un soggetto abilitato.
Si tratta dunque di una diversità di
precetti la cui violazione implica il compimento di
condotte plurime, tant'è che, mentre le violazioni
della normativa tecnica hanno natura di reato
permanente, i reati relativi all'omissione della
presentazione della denuncia dei lavori e
dell'avviso di inizio lavori hanno natura di reati
istantanei, che si consumano nel luogo e nel momento
in cui il soggetto intraprende l'attività di
edificazione, avendo omesso gli adempimenti
richiesti prima dell'esecuzione delle opere.
---------------
1. Il ricorso è infondato.
2. Quanto al primo motivo, i reati contestati
integrano l'ipotesi del concorso materiale e non del
concorso formale di reati, come invece sostiene la
ricorrente.
Per rendersene conto, è sufficiente considerare la
struttura delle fattispecie incriminatrici.
L'articolo 93 d.p.r. 380 del 2001, con il quale si
intende assicurare la vigilanza sulle costruzioni in
zone sismiche, garantisce, prevedendo la denuncia
allo sportello unico, la sinergia fra gli
interessati e le amministrazioni coinvolte nel
procedimento, imponendo a chi intende procedere agli
interventi di costruzione nella zone sismiche di
presentare un preavviso scritto (cd. denuncia allo
sportello unico) e tale adempimento assume la
funzione di informativa dell'attività intrapresa,
mirando a rendere effettivo il controllo preventivo
della P.A., a presidio del territorio.
L'articolo 83 d.p.r. 380 del 2001, cui l'articolo 93
rinvia, indica le opere disciplinate e i gradi di
sismicità, mentre l'articolo 84 definisce il
contenuto delle norme tecniche, che devono essere
osservate.
L'articolo 94 d.p.r. 380 del 2001, infine, prevede
la necessità di una preventiva autorizzazione del
competente ufficio tecnico regionale, fermo restando
l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento
edilizio, ed impone che la direzione dei lavori sia
assunta da un soggetto abilitato.
Si tratta dunque di una diversità di
precetti la cui violazione implica il compimento di
condotte plurime, tant'è che, mentre le violazioni
della normativa tecnica hanno natura di reato
permanente, i reati relativi all'omissione della
presentazione della denuncia dei lavori e
dell'avviso di inizio lavori hanno natura di reati
istantanei, che si consumano nel luogo e nel momento
in cui il soggetto intraprende l'attività di
edificazione, avendo omesso gli adempimenti
richiesti prima dell'esecuzione delle opere.
Ne consegue che la pluralità delle condotte osta
all'applicazione della causa di non punibilità
reclamata, avendo questa Corte affermato che la
causa di esclusione della punibilità per particolare
tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen.
non può essere dichiarata in presenza di più reati
legati dal vincolo della continuazione, in quanto
anche il reato continuato configura un'ipotesi di "comportamento
abituale", ostativa al riconoscimento del
beneficio (Sez. 3, n. 43816 del 01/07/2015, Amodeo,
Rv. 265084) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.04.2017 n. 17908). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il reato di
omessa denuncia lavori in zona sismica (art. 93,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è configurabile anche in
caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra
quelle a basso indice sismico (in motivazione la
Corte ha precisato che l'art. 83, comma secondo, del
citato decreto, non pone alcuna distinzione in
merito alle categorie delle zone medesime).
---------------
In tema di reati edilizi, il conseguimento
del permesso di costruire in sanatoria ai sensi
dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta
l'estinzione dei soli reati contravvenzionali
previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui
nozione non rientra la disciplina per le costruzioni
da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una
oggettività giuridica diversa da quella riguardante
il corretto assetto del territorio.
---------------
3. Il ricorso è infondato e deve rigettarsi.
In tema di contestazione dell'accusa, si deve avere
riguardo alla specificazione del fatto più che
all'indicazione delle norme di legge violate, per
cui ove il fatto sia precisato in modo puntuale, la
mancata individuazione degli articoli di legge
violati è irrilevante e non determina nullità, salvo
che non si traduca in una compressione
dell'esercizio del diritto di difesa (Sez. 3, n.
5469 del 05/12/2013 - dep. 04/02/2014, Russo, Rv.
258920; Sez. 6, n. 45289 del 08/11/2011 - dep.
05/12/2011, Floridia, Rv. 250991; Sez. 5, n. 44707
del 09/11/2005 - dep. 07/12/2005, Bombagi, Rv.
233069).
L'imputazione, quindi, deve leggersi nella sua
esatta descrizione del fatto, ovvero le norme che
vengono in considerazione sono l'art. 93 e l'art. 65
del d.P.R. n. 380 del 2001. Infatti nella
descrizione della condotta si individua l'assenza
dell'attestato di avvenuto deposito di cui all'art.
65, comma 5, del d.P.R. citato, e l'omessa denuncia
dei lavori in zona sismica, ex art 93 del d.P.R.
citato. Non è contestata pertanto la condotta
prevista dall'art. 94 del d. P.R. n. 380 del 2001,
inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione.
Per queste fattispecie dì reato, quindi, non opera
la previsione dell'art. 94 del d.P.R. n. 380 del
2001, espressamente riferita alla sola preventiva
autorizzazione. Prevede infatti la norma: "Fermo
restando l'obbligo del titolo abilitativo
all'intervento edilizio, nelle località sismiche, ad
eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo
indicate nei decreti di cui all'art. 83, non si
possono iniziare i lavori senza preventiva
autorizzazione scritta del competente ufficio
tecnico della regione".
Per la fattispecie dell'art. 93 infatti la Corte di
Cassazione ha sempre ritenuto irrilevante il grado
di sismicità: "Il reato di
omessa denuncia lavori in zona sismica (art. 93,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è configurabile anche in
caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra
quelle a basso indice sismico (in motivazione la
Corte ha precisato che l'art. 83, comma secondo, del
citato decreto, non pone alcuna distinzione in
merito alle categorie delle zone medesime)"
(Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011 - dep. 06/06/2011,
Morini, Rv. 250369; nello stesso senso vedi anche
Cassazione, sez. 3, n. 37385 del 2013, Cosmo).
Irrilevante, quindi, risulta il grado dì sismicità
del Comune di Roseto degli Abruzzi.
Infondato è anche il motivo relativo alla sanatoria
della Provincia di Teramo (attestato in sanatoria n.
225811 del 19.11.2011).
In tema di reati edilizi, il conseguimento
del permesso di costruire in sanatoria ai sensi
dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta
l'estinzione dei soli reati contravvenzionali
previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui
nozione non rientra la disciplina per le costruzioni
da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una
oggettività giuridica diversa da quella riguardante
il corretto assetto del territorio
(Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014 - dep. 22/10/2014,
Conforti, Rv. 261099) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 29.02.2016 n.
8175). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di reati antisismici, l'eventuale
rilascio postumo del parere favorevole da parte
dell'ufficio del Genio Civile competente che attesti
la rispondenza alla normativa antisismica delle
opere realizzate, non elide l'antigiuridicità penale
della condotta consistente nell'aver iniziato i
relativi lavori senza preventiva autorizzazione
scritta del competente ufficio tecnico della
regione.
---------------
4. Non miglior sorte merita il motivo di
impugnazione nella parte in cui contesta l'asserito
errore giuridico commesso dal giudice.
Ed invero, non merita censura la soluzione cui è
pervenuto il giudice di merito laddove ha escluso
l'effetto estintivo della sanatoria edilizia anche
al reato antisismico.
E' infatti pacifico nella giurisprudenza di
questa Corte che in tema di reati edilizi, il
conseguimento del permesso di costruire in sanatoria
ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
comporta l'estinzione dei soli reati
contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche
vigenti, nella cui nozione non rientra la disciplina
per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche,
che ha una oggettività giuridica diversa da quella
riguardante il corretto assetto del territorio
(giurisprudenza costante; da ultimo, v.: Sez. F, n.
44015 del 04/09/2014 - dep. 22/10/2014, Conforti, Rv.
261099)-
5. Quanto, poi, alla tesi sostenuta dalla difesa
dell'impugnante, secondo cui dal parere dell'Ufficio
del Genio Civile di Frosinone attestante la
rispondenza alla normativa antisismica delle opere
realizzate ne sarebbe derivata l'insussistenza del
reato, la questione -oltre a comportare un
apprezzamento di fatto sottratto all'ambito
cognitivo di questa Corte- è comunque giuridicamente
irrilevante, una volta accertata dal giudice la
mancanza del preventivo rilascio del n.o. da parte
del Genio Civile. Ed infatti,
la circostanza del rilascio del parere
favorevole al mantenimento delle opere realizzate da
parte del Genio Civile vale solo ad attestare la
regolarità sotto il profilo antisismico di quanto
eseguito, ma non elide l'antigiuridicità del fatto,
consistito nell'aver omesso di chiedere (ed
ottenere) dall'Ufficio del Genio Civile
territorialmente competente il preventivo nulla osta
alla loro esecuzione.
Non deve, infatti, essere dimenticato che la
legislazione in materia antisismica, obbligando i
costruttori
(nonché il direttore dei lavori: Sez. 3, n. 33469
del 15/06/2006 - dep. 05/10/2006, Osso ed altri, Rv.
235122)
a sottoporre al controllo ed
all'autorizzazione del genio civile la realizzazione
delle opere edilizie in zona soggetta a fenomeni
sismici, ha riguardo ad una particolare situazione
determinante un pericolo di pregiudizio per la
pubblica incolumità. Tuttavia il concetto di
pericolo nella materia in questione non è inteso in
via assoluta ed astratta, come si evince dal fatto
che, sia pure attraverso il particolare procedimento
di cui si occupano gli artt. 83 e segg. del D.P.R.
06.06.2001, n. 380, l'omissione degli anzidetti
adempimenti formali non esclude una successiva
sanatoria delle opere conformi alle prescrizioni
tecniche e tipi di struttura specificatamente
elencate dal legislatore. Pertanto, la violazione
delle prescrizioni della citata legge costituisce un
reato omissivo di natura formale per ciò che attiene
all'omessa autorizzazione del genio civile per
l'inizio dei lavori, ma non rappresenta ipso
facto un pericolo presunto "juris et de jure"
di pregiudizio alla pubblica incolumità, che escluda
ogni indagine diretta ad accertare la possibilità
del pericolo in concreto
(v., sul punto: Sez. 3, n. 34 del 02/10/1981 - dep.
05/01/1982, Campisi, Rv. 151464).
Ciò, quindi, giustifica, come emerge
dall'impugnata sentenza, la mancata irrogazione
dell'ordine di demolizione, attesa proprio la
presenza in atti del parere favorevole dell'Ufficio
del Genio Civile competente, ma certamente non
legittima l'accoglimento della tesi difensiva basata
sull'erroneo assunto per il quale il rilascio del
parere favorevole dell'ufficio del Genio Civile
rende superfluo il preventivo rilascio del n.o..
Deve, conclusivamente, essere affermato il seguente
principio di diritto: «In tema
di reati antisismici, l'eventuale rilascio postumo
del parere favorevole da parte dell'ufficio del
Genio Civile competente che attesti la rispondenza
alla normativa antisismica delle opere realizzate,
non elide l'antigiuridicità penale della condotta
consistente nell'aver iniziato i relativi lavori
senza preventiva autorizzazione scritta del
competente ufficio tecnico della regione"
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.07.2015 n. 27876). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non sussistono, nella fattispecie, elementi
idonei ad affermare che l’abuso edilizio posto in essere dal
ricorrente possa essere sanato con denunzia di inizio
attività in sanatoria.
In primo luogo osta alla praticabilità di tale
procedura la circostanza che l’abuso risulta essere stato
consumato in zona sismica.
Al proposito si ricorda che gli artt. 17 e 18 L.
64/1974, il cui contenuto è oggi trasfuso negli artt. 93 e
94 del D.P.R. 380/2001, impongono a chiunque intenda procedere
a costruzioni in zona sismica –eccettuate le zone a bassa
sismicità – di darne avviso, tramite lo sportello unico, al
competente ufficio regionale, al quale l’avviso deve essere
trasmesso unitamente alla relativa progettazione: i lavori
non possono iniziare senza la preventiva autorizzazione
scritta dell’ufficio tecnico regionale, il quale deve
provvedere entro sessanta giorni (art. 94, comma 1 e 2).
Qualora entro il suddetto termine il responsabile
dell’ufficio tecnico regionale non abbia provveduto o abbia
provveduto in senso negativo, è data all’interessato la
possibilità di ricorrere al presidente della giunta
regionale, il quale entro i successivi sessanta giorni
“decide con provvedimento definitivo” (art. 94, comma 3).
L’esame delle norme dianzi richiamate consente di affermare
che la “denunzia di inizio lavori” di cui all’art. 93 D.P.R.
380/2001 altro non costituisce se non una richiesta di parere,
o nulla-osta, relativo alla compatibilità dei lavori con la
normativa antisismica. E’ altresì evidente che in base agli
artt. 93 e 94 D.P.R. 380/2001 l’autorizzazione di competenza
dell’ufficio tecnico regionale costituisce un parere
vincolante, reso all’esito di un sub-procedimento che si
inserisce nel procedimento principale volto al rilascio del
titolo abilitativo edilizio, un parere dal quale non si può
prescindere e che non è suscettibile di formarsi per
silenzio-assenso, come denuncia la chiara inibitoria dei
lavori in mancanza della preventiva autorizzazione scritta.
La sussistenza dell’obbligo di munirsi del parere preventivo
di cui sopra, non competendo alla autorità comunale,
determina la necessità, qualora esso non sia già allegato
alla istanza di permesso di costruire o alla d.i.a., di
attivare una conferenza di servizi ai sensi dell’art. 20,
comma 6, o dell’art. 23, comma 4, D.P.R. 380/2001, questo ultimo
applicabile anche alle zone sismiche, la cui individuazione
dà luogo ad un vincolo equiparabile –per la funzione di
protezione che esso è chiamato svolgere– ai vincoli di
natura ambientale, paesaggistica o idrogeologica.
In difetto della autorizzazione dell’ufficio tecnico
regionale, il silenzio della Amministrazione Comunale darà
luogo a silenzio-rifiuto, se abbia ad oggetto una istanza di
permesso di costruire; mentre ove segua ad una denunzia di
inizio attività, questa sarà semplicemente inidonea a
produrre effetti giuridici, così come chiaramente previsto
dall’art. 23, comma 6, D.P.R. 380/2001.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
dell’Ordinanza Dirigenziale n. 561 del 16.10.2008,
notificata a Ma.Ma. il 20 successivo, a firma del Dirigente
il Settore Pianificazione del Territorio-Servizio Atti
Amministrativi del Comune di Andria, con cui gli si ingiunge
di demolire delle travi in legno “poggiate tra il muro
dei vani esistenti ed il muro di confine” ed una
pensillina in legno poste in assenza del permesso di
costruzione;
...
Con ricorso passato alla notifica il 18/12/2008 il
ricorrente, premettendo di aver realizzato, senza preventiva
autorizzazione, una tettoia in legno sul proprio lastrico
solare, facilmente rimovibile; di aver ricevuto la
comunicazione relativa all’avvio del procedimento
sanzionatorio, e di aver infine presentato, il 01/12/2008,
richiesta di accertamento di conformità, impugnava il
provvedimento indicato in epigrafe con il quale la
Amministrazione Comunale ha invitato il ricorrente a
procedere alla demolizione del manufatto abusivo.
...
1. I ricorsi sono infondati: non sussistono, ad avviso del
Collegio, elementi idonei ad affermare che l’abuso edilizio
posto in essere dal ricorrente possa essere sanato con
denunzia di inizio attività in sanatoria.
1.1. In primo luogo osta alla praticabilità di tale
procedura la circostanza che l’abuso risulta essere stato
consumato in zona sismica, come risulta chiaramente dalla
ordinanza di demolizione gravata con il ricorso principale.
1.1.1. Al proposito si ricorda che gli artt. 17 e 18 L.
64/1974, il cui contenuto è oggi trasfuso negli artt. 93 e
94 del D.P.R. 380/2001, impongono a chiunque intenda procedere
a costruzioni in zona sismica –eccettuate le zone a bassa
sismicità – di darne avviso, tramite lo sportello unico, al
competente ufficio regionale, al quale l’avviso deve essere
trasmesso unitamente alla relativa progettazione: i lavori
non possono iniziare senza la preventiva autorizzazione
scritta dell’ufficio tecnico regionale, il quale deve
provvedere entro sessanta giorni (art. 94, comma 1 e 2).
Qualora entro il suddetto termine il responsabile
dell’ufficio tecnico regionale non abbia provveduto o abbia
provveduto in senso negativo, è data all’interessato la
possibilità di ricorrere al presidente della giunta
regionale, il quale entro i successivi sessanta giorni
“decide con provvedimento definitivo” (art. 94, comma 3).
L’esame delle norme dianzi richiamate consente di affermare
che la “denunzia di inizio lavori” di cui all’art. 93 D.P.R.
380/2001 altro non costituisce se non una richiesta di parere,
o nulla-osta, relativo alla compatibilità dei lavori con la
normativa antisismica. E’ altresì evidente che in base agli
artt. 93 e 94 D.P.R. 380/2001 l’autorizzazione di competenza
dell’ufficio tecnico regionale costituisce un parere
vincolante, reso all’esito di un sub-procedimento che si
inserisce nel procedimento principale volto al rilascio del
titolo abilitativo edilizio, un parere dal quale non si può
prescindere e che non è suscettibile di formarsi per
silenzio-assenso, come denuncia la chiara inibitoria dei
lavori in mancanza della preventiva autorizzazione scritta.
La sussistenza dell’obbligo di munirsi del parere preventivo
di cui sopra, non competendo alla autorità comunale,
determina la necessità, qualora esso non sia già allegato
alla istanza di permesso di costruire o alla d.i.a., di
attivare una conferenza di servizi ai sensi dell’art. 20,
comma 6, o dell’art. 23, comma 4, D.P.R. 380/2001, questo ultimo
applicabile anche alle zone sismiche, la cui individuazione
dà luogo ad un vincolo equiparabile –per la funzione di
protezione che esso è chiamato svolgere– ai vincoli di
natura ambientale, paesaggistica o idrogeologica.
In difetto della autorizzazione dell’ufficio tecnico
regionale, il silenzio della Amministrazione Comunale darà
luogo a silenzio-rifiuto, se abbia ad oggetto una istanza di
permesso di costruire; mentre ove segua ad una denunzia di
inizio attività, questa sarà semplicemente inidonea a
produrre effetti giuridici, così come chiaramente previsto
dall’art. 23, comma 6, D.P.R. 380/2001 (TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 03.04.2009 n. 801 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le opere edili integranti un abuso commesso in
zona sismica –nella fattispecie non “a bassa sismicità”–
non possono essere assentite in sanatoria, né con permesso
di costruire né con d.i.a. in sanatoria.
Al riguardo, invero, si deve osservare che né l’art. 36 né l’art. 37
del D.P.R. 380/2001 disciplinano l’ipotesi in cui
l’accertamento di conformità sia richiesto relativamente ad
immobile soggetto a vincolo: ciò non può evidentemente
portare a ritenere che in sede di accertamento di conformità
la presenza di un vincolo non possa mai essere ostativa al
rilascio del titolo, ma, all’esatto opposto, deve condurre
ad escludere l’ammissibilità dell’accertamento di conformità
in presenza di vincolo, salvo che l’ordinamento non preveda
che anche il parere della autorità preposta al vincolo possa
essere rilasciato in sanatoria.
Così, ad esempio, nel caso
di abuso in zona soggetta a vincolo paesaggistico, potendo
il parere della Autorità preposta essere rilasciato in
sanatoria ogni qual volta l’abuso edilizio non si sia
tradotto in nuovi volumi, l’accertamento di conformità non è
inammissibile quando non vengano in considerazione nuovi
volumi.
Nel caso di specie, ci troviamo di fronte ad una
normativa la quale espressamente fa divieto di iniziare i
lavori senza la preventiva autorizzazione scritta
dell’ufficio tecnico regionale: essa deve quindi essere
intesa nel senso che tale autorizzazione non può essere
rilasciata ex post, cioè “in sanatoria”.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
dell’Ordinanza Dirigenziale n. 561 del 16.10.2008,
notificata a Ma.Ma. il 20 successivo, a firma del Dirigente
il Settore Pianificazione del Territorio-Servizio Atti
Amministrativi del Comune di Andria, con cui gli si ingiunge
di demolire delle travi in legno “poggiate tra il muro
dei vani esistenti ed il muro di confine” ed una
pensillina in legno poste in assenza del permesso di
costruzione;
...
Con ricorso passato alla notifica il 18/12/2008 il
ricorrente, premettendo di aver realizzato, senza preventiva
autorizzazione, una tettoia in legno sul proprio lastrico
solare, facilmente rimovibile; di aver ricevuto la
comunicazione relativa all’avvio del procedimento
sanzionatorio, e di aver infine presentato, il 01/12/2008,
richiesta di accertamento di conformità, impugnava il
provvedimento indicato in epigrafe con il quale la
Amministrazione Comunale ha invitato il ricorrente a
procedere alla demolizione del manufatto abusivo.
...
1.1.2. Tanto sopra premesso occorre ora verificare come si
atteggia la situazione nel caso in cui opere edili siano
state realizzate in zona sismica non solo in assenza di
titolo edilizio, ma anche della autorizzazione regionale
prevista dagli artt. 93 e 94 D.P.R. 380/2001: si deve cioè
verificare la possibilità o meno che le stesse possano
essere assentite in via di sanatoria.
Al riguardo si deve osservare che né l’art. 36 né l’art. 37
del D.P.R. 380/2001 disciplinano l’ipotesi in cui
l’accertamento di conformità sia richiesto relativamente ad
immobile soggetto a vincolo: ciò non può evidentemente
portare a ritenere che in sede di accertamento di conformità
la presenza di un vincolo non possa mai essere ostativa al
rilascio del titolo, ma, all’esatto opposto, deve condurre
ad escludere l’ammissibilità dell’accertamento di conformità
in presenza di vincolo, salvo che l’ordinamento non preveda
che anche il parere della autorità preposta al vincolo possa
essere rilasciato in sanatoria.
Così, ad esempio, nel caso
di abuso in zona soggetta a vincolo paesaggistico, potendo
il parere della Autorità preposta essere rilasciato in
sanatoria ogni qual volta l’abuso edilizio non si sia
tradotto in nuovi volumi, l’accertamento di conformità non è
inammissibile quando non vengano in considerazione nuovi
volumi.
1.1.3. Nel caso di specie, ci troviamo di fronte ad una
normativa la quale espressamente fa divieto di iniziare i
lavori senza la preventiva autorizzazione scritta
dell’ufficio tecnico regionale: essa deve quindi essere
intesa nel senso che tale autorizzazione non può essere
rilasciata ex post, cioè “in sanatoria”. In senso conforme,
del resto, si veda anche TAR Campania-Napoli, VI,
sentenza 09.10.2006 n. 8518.
1.1.4. Per le dianze esposte ragioni si deve ritenere che le
opere edili sottoposte alla attenzione del Collegio,
integrando un abuso commesso in zona sismica –la quale, si
ribadisce, non consta essere una zona “a bassa sismicità”–
non possono essere assentite in sanatoria, né con permesso
di costruire né con d.i.a. in sanatoria: pertanto il Comune
non avrebbe potuto assumere una diversa determinazione, da
cui l’impossibilità -ex art. 21-octies- di annullare il
silenzio-rigetto impugnato con il ricorso per motivi
aggiunti (TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 03.04.2009 n. 801 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il Comune, nel rilasciare il permesso di
costruire, non è tenuto a verificare la conformità del
titolo alla normativa antisismica dato che quest’ultima,
quale normativa di carattere tecnico e non propriamente
urbanistico-edilizio, non costituisce parametro di
legittimità del titolo rilasciato.
Secondo la normativa vigente di cui al d.p.r. n. 380/2001,
nella materia de qua, al Comune compete esclusivamente un
compito di vigilanza preventiva e documentale nel senso che,
ai sensi dell’art. 93 del d.p.r. n. 380/2001, lo sportello
unico comunale è tenuto ad iscrivere la comunicazione dei
lavori nell’apposito registro delle denunzie dei lavori
nelle zone sismiche, ed a trasmettere tale comunicazione
unitamente al progetto della costruzione al competente
Ufficio della Regione. A quest’ultimo ufficio compete il
rilascio del nulla osta antisismico. In particolare, per le
zone che non siano classificate “a bassa sismicità” l’art.
94 d.p.r. stabilisce che, fermo restando l’obbligo del
titolo abilitativo, “non si possono iniziare i lavori senza
preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio
tecnico della Regione”. Tale autorizzazione è quindi
condizionante in senso assoluto nel senso che, in mancanza
di essa, in alcun caso i lavori possono essere intrapresi,
anche qualora il titolo edilizio sia stato già rilasciato.
La giurisprudenza amministrativa ha al riguardo
puntualizzato la diversità esistente tra il controllo di
conformità del progetto eseguito dal Comune e quello di
spettanza del genio Civile in materia sismica, escludendo
che la concessione edilizia possa configurarsi quale “atto
complesso” in cui confluisce l’osservanza di entrambe le
normative. Ciò in quanto, come noto, la normativa
antisismica costituisce un apparato posto a presidio di
interessi diversi da quelli tutelati dalla normativa
urbanistico edilizia, posto che quest’ultima è rivolta
essenzialmente a garantire l’ordinato assetto e sviluppo del
territorio, mentre la normativa antisismica è un impianto di
natura tecnica volto essenzialmente a salvaguardare la
pubblica e privata sicurezza ed incolumità.
Sotto tale profilo il nulla osta del Genio Civile si
configura quale atto del tutto separato rispetto al permesso
di costruire, e non essendo un atto endoprocedimentale
rispetto al rilascio del permesso di costruire, ha una
valenza autonoma ed esterna, non condizionante
l’approvazione del progetto, ma la concreta realizzabilità
di un intervento edilizio. Nel chiarire la separazione
esistente tra il permesso di costruire ed il nulla osta
antisismico la giurisprudenza ha altresì affermato che deve
ritenersi legittimo il rilascio di una concessione edilizia
per una costruzione da realizzare in zona sismica anche ove,
prima del rilascio della medesima, non sia stato ancora
acquisto il nulla osta antisismico Ciò in quanto per le
opere da realizzare in zone sismiche, il detto nulla osta
non è presupposto di legittimità del permesso di costruire,
ma costituisce “condizione d’efficacia” del titolo,
trattandosi di un presupposto in assenza del quale è
precluso lo stesso inizio dei lavori.
---------------
Quanto alla necessità dell’autorizzazione “scritta”, va
rimarcato che l’art. 20 della legge n. 741/1981 ha
attribuito la facoltà alle Regioni di sostituire
l’autorizzazione in origine contemplata dall’art. 18 della
legge n. 64/1974 con una semplice “denuncia di inizio
attività” purché corredata dal progetto e dall’asseverazione
del progettista circa la conformità delle opere alla
normativa antisismica.
Sicché, nella Regione Campania, l’articolo 2 della legge
regionale 07.01.1983 n. 9 recante: “Norme per l'esercizio
delle funzioni regionali in materia di difesa del territorio
dal rischio sismico”, ha previsto, al comma 1 che: “Il
committente o il costruttore che esegue in proprio devono
depositare il progetto esecutivo delle opere di cui all'art.
1 presso l'Ufficio “Provinciale” del Genio civile o Sezione
autonoma competente per territorio, prima dell'inizio dei
lavori”, ed al comma 2 che: “Tale deposito, ricevuto ai fini
di certificazione e, in deroga all'art. 17, L. 02.02.1974,
n. 64, esonera dalle autorizzazioni di cui agli artt. 2 e 18
della medesima legge, fermo restando l'obbligo della
concessione edilizia prevista dalle vigenti norme
urbanistiche”.
Al medesimo ente competono i compiti di controllo e di
repressione delle violazioni della disciplina antisismica
come desumibile dagli artt. 96 e 97 del d.p.r. 380/2001,
riproduttivi degli artt. 21 e 22 della legge n. 64/1974.
Quanto alle competenze comunali, l’art. 5, comma 3, della
stessa legge regionale n. 9/1983 stabilisce che il Sindaco
del Comune nel cui territorio si eseguono le opere è tenuto
ad accertare, a mezzo degli agenti e dei tecnici comunali,
che: “chiunque inizi l'esecuzione delle opere di cui
all'art. 1 sia in possesso dell'attestazione dell'Ufficio
Provinciale del Genio civile dell'avvenuto deposito degli
atti prescritti” ed aggiunge altresì che: “Tale accertamento
sostituisce a tutti gli effetti il disposto del primo comma
dell'art. 29 della L. n. 64 del 1974” che richiama
l’autorizzazione scritta in origine richiesta ai sensi degli
artt. 2 e 18.
---------------
Analogamente, nella Regione Campania, le attribuzione in
materia di repressione della normativa antisismica sono di
competenza dell’Ufficio provinciale del genio Civile dal
momento che, ai sensi dell’art. 6, comma 4, della predetta
legge regionale Campania n. 9/1983, per la violazione
dell'obbligo del deposito degli atti di cui all'art. 2 della
presente legge e dell'art. 11 del D.L. n. 57 del 1982
convertito in L. 29.04.1982, n. 187, nonché, per la omessa
denuncia dell'art. 17 della L. n. 64 del 1974, il Sindaco è
tenuto a trasmettere il processo verbale compilato dagli
agenti competenti per l’accertamento della violazione
all'Ufficio provinciale del Genio civile o Sezione autonoma,
che ordina la sospensione dei lavori, fissando nel relativo
provvedimento un termine per il deposito degli atti nelle
forme di cui all'art. 2 della stessa legge.
---------------
Da tale quadro normativo di riferimento si ricava
evidentemente che al Comune non è demandato, nel momento del
rilascio del permesso di costruire, alcun compito di
controllo sostanziale in ordine alla conformità del progetto
presentato alla normativa antisismica.
Di qui consegue che l’osservanza della normativa
antisismica, quale normativa di natura tecnica, non può
costituire parametro di legittimità del permesso di
costruire dato che il Comune, nel rilasciare il titolo
abilitativo, è tenuto esclusivamente a verificare la
conformità del progetto al rispetto della normativa
urbanistico-edilizia.
Ogni sindacato in merito alla conformità del progetto
rispetto alla normativa antisimica rientra nelle
attribuzioni del competente Ufficio tecnico del Genio Civile
in sede di rilascio del nulla osta antisismico che, per la
regione Campania, è stato sostituito dalla legge regionale
n. 9/1983 dal deposito di una denuncia di inizio lavori
presso l’Ufficio Provinciale del genio Civile che
sostituisce ad ogni effetto l’autorizzazione scritta
prescritta dalla legge n. 64/1974.
---------------
4.1. Sotto altro
profilo i ricorrenti deducono la violazione dell’altezza
massima del fabbricato per violazione della normativa
antisismica, secondo quanto prescritto dal punto 4.1 dell’O.P.C.M.
20.03.2003 n. 3274, come integrata dall’O.P.C.M.
n. 3431/2005, secondo cui, per i Comuni classificati a medio
rischio simico S.9 come il Comune di casa giove (cfr.
Delibera Giunta Regionale Campania n. 816/2004) l’altezza
del fabbricato che prospetta sulla strada pubblica non può
essere superiore alla minima distanza tra la proiezione del
fronte dell’edificio ed il ciglio opposto della strada.
Nella specie, sulla base dei rilievi eseguiti dal tecnico di
parte ricorrente, tale criterio non sarebbe stato rispettato
poiché la strada presenta una larghezza massima di metri
9,50, per cui l’altezza dell’erigendo fabbricato supererebbe
in ogni caso il limite massimo consentito dalla normativa
antisimica.
Il motivo si rivela inammissibile posto che il presente
ricorso non è stato altresì notificato al competente Ufficio
del Genio Civile nella cui cognizione esclusiva rientra la
verifica della rispondenza del progetto alla normativa
antisismica. Ed infatti, come correttamente osservato
dall’amministrazione intimata, il Comune, nel rilasciare il
permesso di costruire, non è tenuto a verificare la
conformità del titolo alla normativa antisismica dato che
quest’ultima, quale normativa di carattere tecnico e non
propriamente urbanistico-edilizio, non costituisce parametro
di legittimità del titolo rilasciato.
4.2 Secondo la normativa vigente di cui al d.p.r. n.
380/2001, nella materia de qua, al Comune compete
esclusivamente un compito di vigilanza preventiva e
documentale nel senso che, ai sensi dell’art. 93 del d.p.r.
n. 380/2001, lo sportello unico comunale è tenuto ad
iscrivere la comunicazione dei lavori nell’apposito registro
delle denunzie dei lavori nelle zone sismiche, ed a
trasmettere tale comunicazione unitamente al progetto della
costruzione al competente Ufficio della Regione. A
quest’ultimo ufficio compete il rilascio del nulla osta
antisismico. In particolare, per le zone che non siano
classificate “a bassa sismicità” l’art. 94 d.p.r.
stabilisce che, fermo restando l’obbligo del titolo
abilitativo, “non si possono iniziare i lavori senza
preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio
tecnico della Regione”. Tale autorizzazione è quindi
condizionante in senso assoluto nel senso che, in mancanza
di essa, in alcun caso i lavori possono essere intrapresi,
anche qualora il titolo edilizio sia stato già rilasciato.
4.3 La giurisprudenza amministrativa ha al riguardo
puntualizzato la diversità esistente tra il controllo di
conformità del progetto eseguito dal Comune e quello di
spettanza del genio Civile in materia sismica, escludendo
che la concessione edilizia possa configurarsi quale “atto
complesso” in cui confluisce l’osservanza di entrambe le
normative. Ciò in quanto, come noto, la normativa
antisismica costituisce un apparato posto a presidio di
interessi diversi da quelli tutelati dalla normativa
urbanistico edilizia, posto che quest’ultima è rivolta
essenzialmente a garantire l’ordinato assetto e sviluppo del
territorio, mentre la normativa antisismica è un impianto di
natura tecnica volto essenzialmente a salvaguardare la
pubblica e privata sicurezza ed incolumità.
Sotto tale
profilo il nulla osta del Genio Civile si configura quale
atto del tutto separato rispetto al permesso di costruire, e
non essendo un atto endoprocedimentale rispetto al rilascio
del permesso di costruire, ha una valenza autonoma ed
esterna, non condizionante l’approvazione del progetto, ma
la concreta realizzabilità di un intervento edilizio. Nel
chiarire la separazione esistente tra il permesso di
costruire ed il nulla osta antisismico la giurisprudenza ha
altresì affermato che deve ritenersi legittimo il rilascio
di una concessione edilizia per una costruzione da
realizzare in zona sismica anche ove, prima del rilascio
della medesima, non sia stato ancora acquisto il nulla osta
antisismico Ciò in quanto per le opere da realizzare in zone
sismiche, il detto nulla osta non è presupposto di
legittimità del permesso di costruire, ma costituisce
“condizione d’efficacia” del titolo, trattandosi di un
presupposto in assenza del quale è precluso lo stesso inizio
dei lavori (cfr. C.d.S. sez. V, 06.08.1997 n. 875; C.d.S. sez. V,
02.02.1996, n. 117).
4.4 Quanto alla necessità dell’autorizzazione “scritta”, va
rimarcato che l’art. 20 della legge n. 741/1981 ha
attribuito la facoltà alle Regioni di sostituire
l’autorizzazione in origine contemplata dall’art. 18 della
legge n. 64/1974 con una semplice “denuncia di inizio
attività” purché corredata dal progetto e dall’asseverazione
del progettista circa la conformità delle opere alla
normativa antisismica.
Sicché, nella Regione Campania,
l’articolo 2 della legge regionale 07.01.1983 n. 9 recante:
“Norme per l'esercizio delle funzioni regionali in materia
di difesa del territorio dal rischio sismico”, ha previsto,
al comma 1 che: “Il committente o il costruttore che esegue
in proprio devono depositare il progetto esecutivo delle
opere di cui all'art. 1 presso l'Ufficio “Provinciale” del
Genio civile o Sezione autonoma competente per territorio,
prima dell'inizio dei lavori”, ed al comma 2 che: “Tale
deposito, ricevuto ai fini di certificazione e, in deroga
all'art. 17, L. 02.02.1974, n. 64, esonera dalle
autorizzazioni di cui agli artt. 2 e 18 della medesima
legge, fermo restando l'obbligo della concessione edilizia
prevista dalle vigenti norme urbanistiche”.
Al medesimo ente
competono i compiti di controllo e di repressione delle
violazioni della disciplina antisismica come desumibile
dagli artt. 96 e 97 del d.p.r. 380/2001, riproduttivi degli
artt. 21 e 22 della legge n. 64/1974. Quanto alle competenze
comunali, l’art. 5, comma 3, della stessa legge regionale n.
9/1983 stabilisce che il Sindaco del Comune nel cui
territorio si eseguono le opere è tenuto ad accertare, a
mezzo degli agenti e dei tecnici comunali, che: “chiunque
inizi l'esecuzione delle opere di cui all'art. 1 sia in
possesso dell'attestazione dell'Ufficio Provinciale del
Genio civile dell'avvenuto deposito degli atti prescritti”
ed aggiunge altresì che: “Tale accertamento sostituisce a
tutti gli effetti il disposto del primo comma dell'art. 29
della L. n. 64 del 1974” che richiama l’autorizzazione
scritta in origine richiesta ai sensi degli artt. 2 e 18.
Analogamente, nella Regione Campania, le attribuzione in
materia di repressione della normativa antisismica sono di
competenza dell’Ufficio provinciale del genio Civile dal
momento che, ai sensi dell’art. 6, comma 4, della predetta
legge regionale Campania n. 9/1983, per la violazione
dell'obbligo del deposito degli atti di cui all'art. 2 della
presente legge e dell'art. 11 del D.L. n. 57 del 1982
convertito in L. 29.04.1982, n. 187, nonché, per la omessa
denuncia dell'art. 17 della L. n. 64 del 1974, il Sindaco è
tenuto a trasmettere il processo verbale compilato dagli
agenti competenti per l’accertamento della violazione
all'Ufficio provinciale del Genio civile o Sezione autonoma,
che ordina la sospensione dei lavori, fissando nel relativo
provvedimento un termine per il deposito degli atti nelle
forme di cui all'art. 2 della stessa legge.
Da tale quadro normativo di riferimento si ricava
evidentemente che al Comune non è demandato, nel momento del
rilascio del permesso di costruire, alcun compito di
controllo sostanziale in ordine alla conformità del progetto
presentato alla normativa antisismica.
Di qui consegue che l’osservanza della normativa
antisismica, quale normativa di natura tecnica, non può
costituire parametro di legittimità del permesso di
costruire dato che il Comune, nel rilasciare il titolo
abilitativo, è tenuto esclusivamente a verificare la
conformità del progetto al rispetto della normativa
urbanistico-edilizia.
Ogni sindacato in merito alla conformità del progetto
rispetto alla normativa antisimica rientra nelle
attribuzioni del competente Ufficio tecnico del Genio Civile
in sede di rilascio del nulla osta antisismico che, per la
regione Campania, è stato sostituito dalla legge regionale
n. 9/1983 dal deposito di una denuncia di inizio lavori
presso l’Ufficio Provinciale del genio Civile che
sostituisce ad ogni effetto l’autorizzazione scritta
prescritta dalla legge n. 64/1974
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 08.07.2009 n. 3821 - link a
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Il fabbricato accatastato come unità
collabente F/2, ai fini ICI/IMU non può essere
tassato quale fabbricato e neppure come area
edificabile. |
TRIBUTI:
Se il fabbricato è accatastato come unità collabente F/2, ai
fini ICI/IMU non può essere tassato quale fabbricato e
neppure come area edificabile.
Il fabbricato accatastato come unità
collabente (categoria F/2), oltre a non essere tassabile
come fabbricato, in quanto privo di rendita, non è tassabile
neppure come area edificabile, sino a quando l'eventuale
demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che
da allora è soggetta a imposizione come tale, fino al
subentro della imposta sul fabbricato ricostruito.
---------------
Considerato:
- che il motivo di ricorso è fondato;
- che infatti un fabbricato "collabente"
(cioè in rovina, dall'etimo latino collabi,
collapsus, ossia in collasso) come quello di specie è
privo di ogni potenzialità funzionale e reddituale;
- che infatti mentre un'area libera da cascami
edilizi versa in condizione di pronta edificabilità, un'area
impegnata da rovine come quella di specie esige interventi
di demolizione e bonifica necessari a reintegrare in
concreto le potenzialità edificatorie del suolo, non
potendosi accostare le due fattispecie, divergenti anche
sotto il profilo della capacità contributiva del
proprietario;
- che quindi il fabbricato accatastato come unità
collabente (categoria F/2), oltre a non essere tassabile
come fabbricato, in quanto privo di rendita, non è tassabile
neppure come area edificabile, sino a quando l'eventuale
demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che
da allora è soggetta a imposizione come tale, fino al
subentro della imposta sul fabbricato ricostruito
(art. 5, comma 6, d.lgs. n. 504 del 1992: Cass. 19.07.2017,
n. 23801);
- che inoltre la sottrazione ad imposizione del
fabbricato collabente, iscritto nella conforme categoria
catastale F/2, in ragione dell'azzeramento della base
imponibile, non può essere recuperata prendendo a
riferimento la diversa base imponibile prevista per le aree
edificabili, costituita dal valore venale del terreno sul
quale il fabbricato insiste, atteso che la legge prevede
l'imposizione ICI per le aree edificabili, e non per quelle
già edificate
(Cass. 19.07.2017, n. 17815);
- che infine l'art. 5, comma 4, del d.lgs. 30.12.1992, n. 504
consente al contribuente, in presenza di variazioni
permanenti intervenute sull'unità immobiliare ed aventi
rilevanza sull'ammontare della rendita catastale, di
determinare l'imponibile sulla base di una rendita presunta,
costituita da quella dei fabbricati similari, fino a quando,
su richiesta del contribuente medesimo, non sia intervenuto
un nuovo accatastamento (Cass. 23.02.2010, n. 4308);
- che pertanto, nel caso di un fabbricato divenuto
inagibile, l'imponibile, fino al nuovo accatastamento, non
può essere determinato sulla base del valore dell'area
edificabile, risultante dalla demolizione del rudere
medesimo, essendo "area" e "fabbricato"
distinte categorie
(Cass. 23.02.2010, n. 4308);
- che pertanto, assorbiti gli altri motivi di ricorso, il ricorso
va accolto, entrambe le sentenze impugnate vanno cassate e,
non essendo necessarie indagini di fatto, la causa deve
essere decisa nel merito, con l'annullamento sia dell'avviso
di accertamento relativo all'ICI per il 2005 (r.g.n.
3551/2014) che quello relativo all'ICI per il 2006 (r.g.n.
3548/2014);
- che solo in "tempi recenti si è consolidata
una specifica giurisprudenza di legittimità sulle unità
collabenti, per le quali si è appunto esclusa la tassazione
sia del fabbricato perché improduttivo di reddito, sia
dell'area d'insistenza perché già edificata"
(Cass. 30.10.2017, n. 25774; Cass. 19.07.2017, n. 23801;
Cass. 19.07.2017, n. 17815) e che pertanto ciò impone di
compensare le spese processuali di ogni fase e grado (Corte
di Cassazione, Sez. V civile,
ordinanza 28.03.2018 n. 7653). |
TRIBUTI:
Niente prelievo sul collabente privo di rendita.
I fabbricati collabenti, iscritti in catasto con la
categoria F2, senza attribuzione di rendita, non sono
soggetti a Ici né come fabbricati né come area fabbricabile.
Tanto, finché non si procede alla competa demolizione
dell’unità in esame.
La precisazione è contenuta nella
sentenza 11.10.2017 n. 23801
della Corte di Cassazione, Sez. V civile, che conferma il
precedente in materia della sentenza 17815/2017.
Il comune aveva emesso un accertamento Ici nei riguardi di
un immobile risultante in catasto nella categoria F2, privo
di rendita. L’accertamento aveva ad oggetto, in realtà, non
già il fabbricato bensì l’area di sedime dello stesso,
qualificata come area fabbricabile alla luce delle
previsioni dello strumento urbanistico.
La Suprema corte ha tuttavia annullato l’avviso di
accertamento procedendo a una sintetica ricostruzione degli
elementi strutturali dell’Ici, valevole anche per l’Imu,
stante la sostanziale identità di disciplina.
Viene in primo luogo evidenziata la diversità concettuale
tra fabbricato inagibile e fabbricato collabente. Nel primo
caso, si è di fronte ad una unità che ha perso parte delle
sue potenzialità funzionali per effetto di eventi
sopravvenuti. Ad essa compete pertanto la riduzione a metà
della base imponibile. Nella fattispecie di fabbricati
collabenti, invece, si è a cospetto di immobili che sono
privi di qualunque forma di potenziale utilizzabilità per il
possessore, tant’è che gli stessi sono iscritti in catasto
senza attribuzione di rendita.
In entrambe le situazioni, tuttavia, è configurabile una
unità immobiliare riconducibile alla nozione di fabbricato,
circostanza questa che esclude la possibilità di ravvisare
sia l’area edificabile che quella di terreno agricolo.
D’altra parte la tripartizione nell’applicazione
dell’imposta (fabbricati, aree fabbricabili e terreni
agricoli) è tassativamente tipizzata nella disciplina di
riferimento, di tal che non appare ipotizzabile un
quartum genus, nella forma dell’«area edificata».
La conclusione della Suprema corte è dunque nel senso che,
sino a quando il fabbricato collabente risulterà così
identificato in catasto, lo stesso non potrà in alcun modo
essere assoggettato a imposizione, né come fabbricato, per
totale mancanza di base imponibile, né come area
edificabile. Tale situazione tuttavia cessa di esistere
quando si provvede alla totale demolizione dei “resti”
del fabbricato, poiché in questa eventualità l’area di
risulta, ove potenzialmente edificabile, va considerata come
suolo fabbricabile.
In proposito, si ricorda peraltro che l’area ove in concreto
si svolgono lavori di edificazione è comunque qualificata
come fabbricabile, anche in deroga a eventuali difformi
previsioni urbanistiche (articolo 5, comma 6, del Dlgs
504/1992, richiamata anche nell’Imu).
Nella precedente sentenza 17815/2017 è stato, inoltre,
segnalato che i Comuni possono reagire a eventuali
comportamenti elusivi dei contribuenti, contestando
l’accatastamento in F2. Ciò accade ad esempio quando l’unità
non è individuale o perimetrabile (articolo Il Sole 24
Ore del 12.10.2017).
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MASSIMA
1. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione
degli artt. 2 e 5 d.lgs. 504/1992, per aver il giudice
d'appello ritenuto tassabile come area edificabile l'area
d'insistenza di un fabbricato di categoria F/2 (c.d. unità
collabenti).
2. Il motivo è fondato.
La Corte ha avuto modo di precisare che non
è tassabile come area edificabile l'area d'insistenza di un
fabbricato diroccato e tuttavia non demolito, mentre è
tassabile l'area di risulta della demolizione
(Cass. 23.02.2010, n. 4308).
Ciò deve essere ribadito, poiché
l'insistenza di un fabbricato riconoscibile per tale esclude
che venga in autonomo rilievo l'area di sedime, come si
evince dall'art. 2, comma 1, lett. a, d.lgs. 504/1992 («...
considerandosi parte integrante del fabbricato l'area
occupata dalla costruzione ...»).
Il regime tributario del fabbricato inagibile si diversifica
poi in rapporto all'incidenza del deterioramento sulle
potenzialità funzionali e reddituali del bene, le quali
costituiscono indice di capacità contributiva:
a) il fabbricato semplicemente inagibile ha una potenzialità
marginale e pertanto sconta l'imposta con riduzione del 50%
(art. 8, comma 1, d.lgs. 504/1992);
b) il fabbricato collabente (cioè in rovina, dall'etimo latino
collabi, collapsus) è privo di ogni potenzialità
e va pertanto esente da imposta, sin quando l'eventuale
demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che
da allora va tassata come tale, fino al subentro della
tassazione del fabbricato ricostruito (art. 5, comma 6,
d.lgs. 504/1992).
3. Vale il seguente principio di diritto: «in
tema di imposta comunale sugli immobili, il fabbricato
accatastato come unità collabente (categoria F/2), oltre a
non essere tassabile come fabbricato in quanto privo di
rendita, non è tassabile neppure come area edificabile, sino
a quando l'eventuale demolizione restituisca autonomia
all'area fabbricabile, che da allora è tassabile come tale,
fino al subentro della tassazione del fabbricato ricostruito».
Discostatasi da questo principio attraverso il richiamo di
un precedente non conferente (Cass. 01.03.2013, n. 5166,
relativa alla c.d. edificabilità di fatto), la sentenza deve
essere cassata in accoglimento del primo motivo di
ricorso.
4. Non essendo necessarie indagini di fatto, la causa deve
essere decisa nel merito, con l'annullamento dell'avviso di
accertamento; restano assorbiti il secondo e terzo motivo di
ricorso, entrambi concernenti il profilo accessorio delle
sanzioni.
5. Solo in tempi recenti si è formata una
specifica giurisprudenza di legittimità sulle unità
collabenti, per le quali si è appunto esclusa la tassazione
sia del fabbricato perché improduttivo di reddito, sia
dell'area d'insistenza perché già edificata
(Cass. 19.07.2017, n. 17815): ciò impone di compensare le
spese processuali di ogni fase e grado.
6. Nella discussione d'udienza, il Pubblico Ministero ha
manifestato dissenso rispetto a questo orientamento di
legittimità, assumendo che:
i) l'unità collabente sia catastalmente irrilevante, perciò
incapace di negare l'autonoma considerazione fiscale
dell'area d'insistenza;
ii) detta esegesi implichi il paradosso dell'integrale esonero
impositivo dell'area edificata con fabbricato collabente,
area invece tassata come edificabile se libera da tale
fabbricato.
7. Ritiene il Collegio di poter assicurare continuità alla
recente giurisprudenza della Corte, osservando che:
i) l'unità collabente ha una sua propria rilevanza
catastale, seppur a fini meramente identificativi, cioè
senza attribuzione di rendita (art. 3, comma 2, lett. b,
d.m. 28/1998);
ii) l'area libera da cascami edilizi versa in condizione di pronta
edificabilità, mentre l'area impegnata da rovine esige
interventi di demolizione e bonifica necessari a reintegrare
in concreto le potenzialità edificatorie del suolo, non
potendosi accostare le due fattispecie, divergenti anche
sotto il profilo della capacità contributiva del
proprietario
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 11.10.2017 n. 23801). |
TRIBUTI:
a. il fabbricato collabente iscritto in conforme
categoria catastale F/2 si sottrae ad imposizione Ici; e ciò
non per assenza del presupposto dell'imposta (art. 1 d.lgs.
504/1992), ma per azzeramento della base imponibile (art. 5
d.lgs. cit.), stante la mancata attribuzione di rendita e
l'incapacità di produrre ordinariamente un reddito proprio;
b. la mancata imposizione Ici del fabbricato collabente non può
essere recuperata dall'amministrazione comunale prendendo a
riferimento la base imponibile costituita dal valore venale
dell'area sulla quale esso insiste, posto che la legge
prevede l'imposizione Ici (oltre che dei fabbricati e dei
terreni agricoli) dell'area edificabile, non anche di quella
già edificata;
c. anche ai fini Ici, come in materia di plusvalenze reddituali da
cessione di area edificabile, non può essere considerata
tale l'area inserita dallo strumento urbanistico in zona di
risanamento conservativo per la quale la normativa comunale
preveda solo interventi edilizi di recupero e risanamento
delle costruzioni già esistenti, senza possibilità di
incrementi volumetrici.
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§ 5. Si ravvisa invece la fondatezza delle doglianze
concernenti la violazione o falsa applicazione, ex art. 360,
1° co., n. 3, cod. proc. civ., della normativa Ici di
riferimento (quarto e quinto motivo di
ricorso).
La tesi della società contribuente -secondo cui (ric. pag.7)
"nulla risulta quindi dovuto ai fini Ici: i fabbricati
sono collabenti e privi di rendita e quindi non soggetti
all'imposta, e le aree sulle quali essi insistono non sono
né agricole (stante la presenza su di esse degli ex
opifici), né edificabili (stante il dettato dello strumento
urbanistico)"- deve trovare accoglimento nei termini che
seguono.
In forza dell'articolo 5 d.lgs. 504/1992, nel caso di area
edificata la base imponibile Ici è determinata dal valore
del fabbricato (1° co.); per í fabbricati iscritti in
catasto, tale valore è stabilito applicando un determinato
moltiplicatore alla rendita catastale vigente al 1° gennaio
dell'anno di imposizione (2° co.); la base imponibile è
invece costituita dal valore dell'area, considerata
fabbricabile, allorquando nell'anno di imposizione vi sia
utilizzazione edificatoria in corso dell'area stessa,
demolizione di fabbricato ovvero realizzazione di interventi
di recupero ai sensi dell'articolo 31, 1° co., legge
457/1978 lett. c), d) ed e) (6° co.).
L'applicazione di queste prescrizioni al caso di specie
induce ad escludere la fondatezza dell'avviso di
accertamento e liquidazione opposto; relativo a fabbricati
in stato di rovina e, come tali, iscritti fin dal 1999 in
categoria catastale F/2. L'attribuzione di questa categoria
(prevista dal D.M. Finanze 28/1998) presuppone infatti che
il fabbricato si trovi in uno stato di degrado tale da
comportarne l'oggettiva incapacità di produrre
ordinariamente un reddito proprio; per tale ragione
l'iscrizione in catasto avviene senza attribuzione di
rendita, ed al fine "della sola descrizione dei caratteri
specifici e della destinazione d'uso" (art. 3, 2° co.,
D.M. cit.).
In assenza di rendita, viene meno -secondo la su richiamata
disciplina istitutiva- la stessa materia determinativa della
base imponibile.
Non varrebbe obiettare, con il Comune, che l'iscrizione in
categoria catastale F/2 si presterebbe, secondo tale
interpretazione, a facile elusione dell'imposta mediante
qualificazione catastale come 'collabenti' di
fabbricati invece ancora suscettibili di apprezzabile
rilievo economico ed appetibilità commerciale.
In tale situazione, certamente possibile, sussisterebbero
infatti i presupposti per impugnare tale classificazione,
facendone emergere la sua difformità rispetto allo stato di
fatto; e ciò tenendo anche presente quanto stabilito dalla
nota 29439/2013 della Direzione Centrale Catasto e
Cartografia dell'Agenzia delle Entrate, secondo la quale
l'attribuzione della categoria in oggetto (tanto alle
abitazioni quanto ai fabbricati produttivi) "non è
ammissibile quando l'unità immobiliare è censibile in
un'altra categoria, o quando l'unità non è individuabile o
perimetrabile".
Ora, nel caso di specie non di questo si discute; dal
momento che l'effettiva spettanza, agli immobili della
ex-acciaieria, della classificazione catastale F/2 di
collabenza da essi conseguita (con quanto ne deriva in
ordine alla inesistenza di rendita ed alla inidoneità alla
produzione di reddito imponibile) non è stata posta in
discussione nemmeno dall'amministrazione comunale, così da
costituire -quantomeno per l'annualità Ici di riferimento-
un dato obiettivo e certo di causa.
Altro è a dire che, esclusa sul fabbricato, l'imposizione
Ici dovrebbe colpire l'area di insistenza del fabbricato
medesimo.
Si tratta di tesi che la commissione tributaria regionale ha
ritenuto di accogliere osservando come, nella specie, vi
fossero gli estremi per reputare "edificabile l'area già
edificata"; e ciò in forza di un programma di
fabbricazione e di un decreto assessoriale "che
consentono per gli opifici industriali già esistenti
interventi di manutenzione".
Questa soluzione non è giuridicamente corretta.
Va infatti considerato che gli elementi della fattispecie
impositiva sono prestabiliti dalla legge secondo criteri di
certezza e tassatività, e che -nel caso dell'Ici- la legge
sottopone ad imposta (art.1 d.lgs. 504/1992) unicamente (il
possesso di) queste tre ben definite tipologie di beni
immobili: fabbricati, aree fabbricabili, terreni agricoli.
Come sì è detto, il fabbricato iscritto in
categoria catastale F/2 non cessa di essere tale sol perché
collabente e privo di rendita; lo stato di collabenza ed
improduttività di reddito, in altri termini, non fa venir
meno in capo all'immobile -fino all'eventuale sua completa
demolizione- la tipologia normativa dì 'fabbricato'.
Tanto è vero che la mancata imposizione si giustifica, nella
specie, non già per assenza di 'presupposto' ex arti
cit., ma per assenza di 'base imponibile' (valore
economico pari a zero) ex art. 5 cit..
Sennonché, esclusa la rilevanza tassabile
del fabbricato collabente, l'imposizione Ici non potrebbe
essere 'recuperata' dall'amministrazione comunale
facendo ricorso ad una base imponibile tutt'affatto diversa:
quella attribuibile all'area di insistenza del fabbricato.
Ciò perché quest'ultima non rientra in nessuno dei
presupposti Ici, trattandosi all'evidenza di area già
edificata, e dunque non di area edificabile.
L'inconciliabilità fra queste due ultime
nozioni non è solo concettuale, ma anche giuridica; dal
momento che, diversamente ragionando, si verrebbe
inammissibilmente ad introdurre nell'ordinamento -in via
interpretativa- un nuovo ed ulteriore presupposto d'imposta,
costituito appunto dall'"area edificata".
In tal senso si è già pronunciata questa corte di cassazione
(sent. n. 4308/2010) la quale -investita di una fattispecie
analoga alla presente- ha ritenuto che la decisione del
giudice di secondo grado, volta a consentire il ricalcolo
dell'Ici sulla base del valore attribuito all'area
edificabile sulla quale sussisteva un fabbricato fatiscente,
non potesse ritenersi corretta; dal momento che "non
sono parificabili, per scelta del legislatore, l'ipotesi
dell'area risultante dalla demolizione di un rudere e quella
dell'immobile dichiarato inagibile ma non demolito; con la
conseguenza che, in tale ultima ipotesi, il giudice di
merito non può stabilire una categoria nuova ed ulteriore
rispetto a quelle previste dal legislatore".
Osserva il Comune che, come rilevato dal giudice di appello,
l'area già sede della ex-acciaieria può essere fatta oggetto
di interventi edilizi di recupero e manutenzione
straordinaria, sebbene limitati alla conformazione
originaria ed alla volumetria esistente; e che, in ragione
di ciò, essa mantiene una apprezzabile appetibilità
commerciale, tanto da poter essere destinata ad impieghi
edilizi speculativi mediante, appunto, ricostituzione dei
fabbricati fatiscenti.
Nel caso di specie è in effetti pacifico che i terreni
dov'era situato l'opificio dismesso, ancorché ricadenti in
un più ampio ambito destinato a verde agricolo ('Zona E'),
mantenevano, in base al PRG, la pregressa destinazione
urbanistica di impiego produttivo- industriale, sebbene per
la sola realizzazione di interventi di manutenzione; e
tuttavia l'argomento dedotto dal Comune non può dirsi
dirimente.
Va intanto considerato che la presente controversia ha ad
oggetto, non già il valore commerciale ipoteticamente
attribuibile all'area in questione nella prospettiva
dinamica della sua futura valorizzazione edilizia ed
urbanistica, ma soltanto i presupposti dell'imposizione Ici
relativi ad una determinata annualità (2002).
Sicché non sembra che possa qui prescindersi dal dato
oggettivo e pacifico in uso, secondo cui in tale annualità
(ferma restando la riconsiderazione della fondatezza della
pretesa impositiva del Comune con riguardo ad annualità
successive, nel corso delle quali quella valorizzazione
abbia, in ipotesi, trovato sbocco concreto), si verteva
appunto e soltanto di un fabbricato collabente fatto oggetto
di conforme ed incontestata iscrizione catastale; non
dedotto in alcun intervento in corso, né in alcuna
convenzione o pratica amministrativa pendente di recupero e
valorizzazione edilizia (con conseguente esclusione altresì
dell'ipotesi di cui al 6° co. dell'art. 5 d.lgs. 504/1992).
Oltre a ciò, deve comunque considerarsi errato lo stesso
richiamo alla edificabilità dell'area di insistenza del
fabbricato fatiscente.
Soccorre, in proposito, quanto già osservato -con riguardo
ad immobili della Acciaieria di Sicilia spa e siti in
Campofelíce di Roccella- da Cass. ord. nn. 20160-3/14 (Ici
2003-2006); secondo cui "non può essere
considerata edificabile l'area inserita dallo strumento
urbanistico nella zona omogenea A 'residenziale storica di
risanamento conservativo' ancorché per tale area la
normativa comunale preveda solo interventi edilizi di
recupero e risanamento delle costruzioni esistenti, senza
possibilità di incrementi volumetrici".
Si tratta di conclusione armonica rispetto all'indirizzo di
legittimità formatosi in materia di plusvalenze reddituali
realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni
suscettibili di utilizzazione edificatoria, secondo gli
strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione
stessa [art. 81, comma 1, lett. B), T.U.I.R., ora art. 67]:
Cass. nn. 15631/2014; 4150/2014; 15321/2013.
I motivi di ricorso in esame vanno pertanto accolti,
mediante affermazione del principio secondo cui:
a. il fabbricato collabente iscritto in conforme
categoria catastale F/2 si sottrae ad imposizione Ici; e ciò
non per assenza del presupposto dell'imposta (art. 1 d.lgs.
504/1992), ma per azzeramento della base imponibile (art. 5
d.lgs. cit.), stante la mancata attribuzione di rendita e
l'incapacità di produrre ordinariamente un reddito proprio;
b. la mancata imposizione Ici del fabbricato collabente non può
essere recuperata dall'amministrazione comunale prendendo a
riferimento la base imponibile costituita dal valore venale
dell'area sulla quale esso insiste, posto che la legge
prevede l'imposizione Ici (oltre che dei fabbricati e dei
terreni agricoli) dell'area edificabile, non anche di quella
già edificata;
c. anche ai fini Ici, come in materia di plusvalenze reddituali da
cessione di area edificabile, non può essere considerata
tale l'area inserita dallo strumento urbanistico in zona di
risanamento conservativo per la quale la normativa comunale
preveda solo interventi edilizi di recupero e risanamento
delle costruzioni già esistenti, senza possibilità di
incrementi volumetrici
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 19.07.2017 n. 17815). |
IN EVIDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI
COMUNALI: Per
l’omissione di atti d’ufficio bastano 30 giorni di ritardo.
Perché possa dirsi consumato il delitto di omissione di atti d'ufficio
disciplinato dall’articolo 328, comma 2, del codice penale, è sufficiente
che siano trascorsi 30 giorni dalla diffida rivolta dal privato alla Pa
affinché adotti l'atto richiesto, senza che il pubblico ufficiale competente
gli abbia almeno esplicitato le ragioni del ritardo.
Non rileva, invece, che siano già scaduti i termini per la conclusione del
procedimento amministrativo dal momento che l'illecito penale prescinde
dalla consumazione di un illecito amministrativo.
È questo il principio di diritto enunciato dalla sesta sezione penale della
Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza
18.04.2018 n. 17536.
La vicenda
Il caso riguardava un cittadino di un Comune della provincia di Roma che
aveva formalmente «messo in mora» la municipalità intimandola entro
30 giorni dalla propria richiesta a porre in essere quanto necessario per
realizzare le opere di urbanizzazione (una strada).
L'ente locale non forniva nel termine indicato alcun riscontro, e il
cittadino inviava al Comune un atto «di significazione e diffida».
Veniva pertanto aperto un procedimento penale a carico del sindaco e del
responsabile dell'ufficio tecnico.
Il Gup del Tribunale di Tivoli faceva però cadere l'accusa con la
motivazione che non vi fossero gli estremi per ritenere integrato il delitto
di omissione di atti d'ufficio in quanto all'attivazione del privato non
poteva riconoscersi la natura di «diffida ad adempiere» ma quella di
«originaria richiesta» inviata a un ente pubblico, sulla quale l'ente
avrebbe dovuto provvedere nel termine previsto dall'articolo 2 della legge
241/1990 per la definizione dei procedimenti amministrativi, pari a 30
giorni salvo diverse disposizioni. Sempre ad avviso del Tribunale, decorso
inutilmente il termine amministrativo, perché si perfezionasse il reato
occorrevano poi l'ulteriore messa in mora della Pa e il suo persistente
silenzio all'esito del decorso del termine supplementare di altri trenta
giorni stabilito dalla legge penale.
La decisione
Tesi tuttavia sconfessata dai Giudici di Piazza Cavour secondo i quali i due
termini (amministrativo e penale) sono pienamente sovrapponibili, sicché la
mancata adozione del provvedimento da parte del funzionario pubblico entro
il lasso temporale ordinario di 30 giorni sancito dalla legge 241/1990
implica sia il prodursi del silenzio-inadempimento della Pa, denunciabile al
Tar, sia la consumazione della condotta omissiva penalmente rilevante
secondo l’articolo 328, comma 2, del codice penale, laddove la Pa oltre a
non adottare l'atto richiesto, neppure formuli una risposta negativa per
spiegare le ragioni del ritardo.
Va detto che la ricostruzione della Cassazione può determinare effetti
paradossali ove si consideri che la Pa, nella stragrande maggioranza dei
casi, ha facoltà di concludere il procedimento in un termine superiore a
trenta giorni, che a norma dell'articolo 2 della legge 241/1990 trova
applicazione solo nei casi in cui l'Amministrazione interessata non abbia
provveduto con regolamento a determinarne uno diverso, che normalmente è più
lungo (di regola, in base alla stesso articolo 2, può raggiungere i 180
giorni).
Aderendo alla tesi della Corte di legittimità, potrebbe allora capitare che
il funzionario responsabile rimasto silente a fronte di una richiesta del
privato, trascorsi 30 giorni, possa essere chiamato a rispondere del reato
di omissione di atti d'ufficio pur versando in una situazione assolutamente
lecita sul piano amministrativo, disponendo di altro tempo per provvedere
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2018).
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RITENUTO IN FATTO
1. Lu.Ch., persona offesa costituita parte civile, ricorre avverso la
sentenza di cui in epigrafe emessa dal G.u.p. di Tivoli con cui, all'esito
dell'udienza preliminare, ha dichiarato non doversi procedere perché il
fatto non sussiste nei confronti degli imputati Ri.Ma. e Ca.Lu.,
rispettivamente sindaco e responsabile dell'ufficio tecnico del comune di
Riano, per non aver dato seguito, nel termine di trenta giorni, all'atto di
«significazione e diffida» per la realizzazione di opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, nonché per l'adozione di misure ex
art. 53 d.lgs. n. 267/2000, nella zona della via della Valle del Fiume di
Ponte Sodo, in Riano nel novembre del 2013.
2. Il ricorrente, per il tramite del difensore, deduce vizi di motivazione e
violazione dell'art. 328, secondo comma, cod. pen. a mente dell'art. 606,
comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in ordine alla ritenuta
insussistenza del reato di omissione di atti d'ufficio, in presenza di un
obbligo di provvedere in capo all'amministrazione su cui si sia formato il
silenzio-inadempimento, nonché in relazione alla portata del requisito
strutturale della diffida ad adempiere. Si cesura quanto rilevato dalla
motivazione della sentenza secondo cui, dopo la richiesta di adempiere,
formatosi il silenzio-inadempimento al decorso dei 30 giorni, sarebbe dovuta
seguire, ai fini dell'integrazione della fattispecie contestata, una
ulteriore diffida, consumandosi il reato al decorrere di ulteriori 30 giorni
senza che l'amministrazione avesse provveduto o fornito al privato i motivi
del ritardo.
La decisione connessa alla formazione del silenzio-inadempimento conseguente
all'omessa evasione della diffida, si osserva, è situazione affatto simile
all'integrazione del reato che prescinde dalla tutela amministrativa, che
nel caso di specie ha condotto alla declaratoria di annullamento del
silenzio-inadempimento.
Sussistendo l'obbligo da parte dell'amministrazione di provvedere in quanto
direttamente derivante dalla legge, obbligo anche enunciato in diffida con
pedissequa riproduzione dei profili normativi di riferimento, non era
neppure necessaria la previa apertura del procedimento, con conseguente
immediata consumazione del reato al decorso dei 30 giorni, senza che
l'amministrazione avesse provveduto sull'stanza o comunicato le ragioni del
ritardo.
Né poteva porsi un problema connesso alla qualificazione dell'atto inviato
che indicava la esplicita dizione di «atto di significazione e diffida
alla realizzazione di opere di urbanizzazione», atto a cui
l'amministrazione non ha fornito alcun riscontro.
La sentenza è anche illogica poiché tende a differenziare la richiesta di
adozione di un atto indirizzata alla P.A. dalla diffida necessaria ai fini
della integrazione, facendo espresso richiamo ad un precedente di questa
Corte (Sez. 6, n. 40008 del 27/10/2010) che in realtà aveva escluso che
l'atto potesse essere valutato come diffida, situazione non conforme a
quella decisa.
...
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato e la sentenza deve essere
annullata.
2. Preliminarmente deve evidenziarsi, in ordine a quanto argomentato nella
memoria dai due imputati, che l'art. 428, comma 2, cod. proc. pen., nella
formulazione antecedente alla riforma intervenuta con la legge 23.06.2017,
n. 103, che ha espunto la possibilità di ricorrere per cassazione avverso la
sentenza di non luogo a procedere del giudice delle udienza preliminare,
prevede che la persona offesa possa ricorrere (a condizione che sia anche
costituita parte civile), sussistendo il suo interesse ad impugnare,
trattandosi di impugnazione riguardante gli effetti penali (Sez. 5, n. 41350
del 10/07/2013, P.O. in proc. Cappellato e altro, Rv. 257934).
2.1. Da tanto discende che, per il tenore dell'art. 428, comma 2, cod. proc.
pen., non pertinente è il riferimento all'art. 572 cod. proc. pen. che
riguarda la richiesta rivolta al P.M. affinché impugni la sentenza, mentre
l'art. 577 cod. proc. pen. concerne i capi della sentenza che riguardano i
soli aspetti civili.
2.2. Quanto alla dedotta carenza di interesse anche prospettata nella
memoria, si osserva come irrilevante sia in questa sede stabilire se,
all'esito dei vari giudizi amministrativi ed alle azioni legali intraprese
dal ricorrente, sia stato soddisfatto o meno quanto oggetto dell'atto
inviato all'amministrazione comunale di Riano, dovendosi unicamente valutare
il motivo di ricorso che contesta l'erronea applicazione e omessa
motivazione in ordine all'elemento oggettivo dell'art. 328, secondo comma,
cod. pen.
2.3. Così come non rileva se il ricorrente avesse o meno diritto a
conseguire «il bene della vita» che ha formato oggetto dell'istanza,
poiché, incontestata la riferibilità al medesimo di una posizione soggettiva
qualificata al cospetto della pubblica amministrazione, deve unicamente
provvedersi ad accertare se, all'esito dell'istanza, inviata agli uffici
competenti dell'amministrazione comunale, sussistesse quantomeno un suo
diritto a ricevere una risposta in merito alle ragioni del ritardo.
In tal senso è erroneo ritenere che l'"obbligo di
informazione" dovuto all'interessato sia ipotizzabile solo in caso di
accertata sussistenza dell'obbligo principale di compiere l'atto, poiché ciò
che viene in rilievo non è tanto l'omissione dell'atto, ma l'inerzia del
soggetto attivo sia nel compiere l'atto richiesto sia nello esporre le
ragioni del ritardo (Sez. 6, n.
7761 del 07/07/1997, Sabatino, Rv. 209749).
3. Deve rinviarsi al principio costantemente seguito da questa Corte, che il
Collegio condivide, secondo cui l'azione tipica del delitto
di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., è integrata dal mancato
compimento di un atto dell'ufficio da parte del pubblico ufficiale o
dell'incaricato di pubblico servizio, ovvero dalla mancata esposizione delle
ragioni del ritardo, entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi ha
interesse; ne consegue che il reato, omissivo proprio e a consumazione
istantanea, deve intendersi perfezionato con la scadenza del predetto
termine (Sez. 6, n. 27044 del
19/02/2008, Mascia, Rv. 240979).
Ai fini dell'integrazione del delitto di omissione di atti
d'ufficio, è infatti irrilevante il formarsi del silenzio-inadempimento
entro la scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta del privato
che, in quanto inadempimento, integra la condotta omissiva richiesta per la
configurazione della fattispecie incriminatrice
(Sez. 6, n. 45629 del 17/10/2013, P.G. in proc. Giuffrida, Rv. 257706; Cass.
Sez. 6, n. 7348 del 24/11/2009, dep. 2010, Di Venere, Rv. 246025; Sez. 6, n.
5691 del 06/04/2000, Scorsone, Rv. 217339).
3.1. Il contrario precedente cui ha fatto riferimento il giudice di merito,
in realtà non esprime un difforme principio in quanto, come rilevato dal
ricorrente, avendo avuto ad oggetto un atto non qualificato quale diffida,
sulla base di tanto ha potuto ritenere non sufficiente lo stesso che, mera
richiesta di sollecito, avrebbe necessitato di una autonoma diffida o messa
in mora, in quel caso inesistente.
3.2. Per rinvenire un precedente di segno opposto al pacifico orientamento
cui sopra si è fatto cenno, occorre risalire alla decisione di questa
sezione del 06/10/1998 Rv. 212311, secondo cui, attraverso la disciplina
della legge sul procedimento amministrativo, sia pure per una presunzione
legale, l'atto è da considerare compiuto, in tal modo realizzandosi una
situazione "concettualmente incompatibile con la inerzia della pubblica
amministrazione".
3.3. In realtà è ormai costante l'orientamento opposto
secondo cui l'integrazione della fattispecie penale non interferisce con i
rimedi che l'ordinamento appresta avverso l'inerzia o l'inadempimento della
pubblica amministrazione che seguono canoni ed intenti di tutela distinti,
certamente non esaustivi degli strumenti a disposizione del privato che
potrebbe, in ipotesi, non conseguire un'adeguata tutela sol che si pensi ai
limiti posti all'impugnazione degli atti, alla deducibilità dei soli vizi di
legittimità (escludendosi il merito), osservandosi inoltre che, nonostante
gli sforzi in tal senso operati dalla giurisdizione amministrativa, la
declaratoria di annullamento non sempre soddisfa il raggiungimento degli
obbiettivi che il privato intende perseguire.
3.4. La ratio della norma che prevede l'integrazione
della fattispecie nell'ipotesi di inadempimento o omessa risposta decorsi i
trenta giorni dalla richiesta di chi vi ha interesse, non può fondatamente
essere ulteriormente compressa attraverso una duplicazione defaticante degli
adempimenti necessari per conseguire (quantomeno) una risposta formulata per
iscritto sulle ragioni del ritardo; circostanza che, qualora avallata,
subirebbe poi le ulteriori implicazioni direttamente connesse alla
disciplina amministrativa del procedimento, tanto da determinare
interferenze tra le vicende penali e quelle amministrative; situazione che,
attraverso la previsione del termine di trenta giorni contemporaneamente
previsto dall'art. 2 L. 241/1990 e dal secondo comma dell'art. 328 cod. pen.,
il legislatore ha inteso chiaramente evitare.
4. Si rileva, quindi, che la richiesta scritta di cui
all'art. 328, comma secondo, cod. pen., rilevante ai fini dell'integrazione
della fattispecie, deve assumere la natura e la funzione tipica della
diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il
compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono
(Sez. 6, n. 40008 del 27/10/2010, brio, Rv. 248531; Sez. 6, n. 10002 del
08/06/2000, Spanò B, Rv. 218339; Sez. 6, n. 8263 del 17/05/2000, Visco, Rv.
216717).
4.1. Ciò implica che la richiesta rivolta nei confronti
della pubblica amministrazione deve atteggiarsi, seppure senza l'osservanza
di particolari formalità, come una diffida o intimazione tale da costituire
una messa in mora nei confronti della P.A. e del soggetto preposto al
relativo procedimento in quanto responsabile.
4.2. Ne deriva che il reato non è configurabile quando la
richiesta non è qualificabile quale diffida ad adempiere, diretta alla messa
in mora del destinatario e da quest'ultimo in tali termini valutabile, per
il suo tenore letterale e per il suo contenuto.
Seppure, quindi, non siano necessarie frasi che riproducano
pedissequamente la formulazione della legge in termini di «diffida» e
«messa in mora», il contenuto della richiesta deve essere tesa a
rappresentare quantomeno la cogenza delle richiesta e la sua necessità di un
adempimento direttamente ricondotto alla disciplina del procedimento
amministrativo, circa le conseguenze in ipotesi di non evasione o mancata
risposta nei termini.
4.3. Solo a tali condizioni può ritenersi immediatamente e
chiaramente percepibile, quale diffida; atto che già a livello lessicale
implica la necessità di rappresentare le conseguenze cui si incorre in caso
di inadempimento, secondo la conformazione del reato, introdotto dall'art.
16 L. 26.04.1990, n. 86, che ha inteso rafforzare la tutela del cittadino
nei confronti della pubblica amministrazione, con la previsione di un
paradigma legale che, attraverso la attivazione del diritto potestativo
della istanza, conseguisse una più significativa tutela delle posizioni
soggettive, la cui salvaguardia era in precedenza demandata ai soli
strumenti procedimentali o giurisdizionali dinanzi al giudice
amministrativo.
5. Nella sentenza impugnata si afferma che la richiesta del Ch. del
29.10.2013, non costituiva una diffida ad adempiere, ma fosse l'originaria
richiesta inviata da un privato ad un ente pubblico, sulla quale l'ente
avrebbe dovuto provvedere nel termine di cui all'art. 2 L. 241/1990 avverso
la cui inerzia, in caso di decorso infruttuoso del termine di 30 giorni, è
ammesso il ricorso al TAR, non integrando tale inadempimento gli estremi
dell'art. 328, secondo comma, cod. pen., per la cui esistenza il privato
avrebbe dovuto inviare una vera diffida ad adempiere con il decorso di 30
giorni senza che intervenisse l'atto richiesto o fosse stato esposto le
ragioni del ritardo.
In tal modo si contesta la qualifica di diffida dell'atto ricevuto non
perché non ne contenga i requisiti, quanto, piuttosto, poiché si reputa il
primo atto quale meramente amministrativo utile ai soli fini della
proposizione del ricorso in sede giurisdizionale per mezzo dell'impugnazione
del silenzio-inadempimento, demandando al secondo atto, in tal caso
qualificabile diffida, il successivo compito, al decorso degli infruttuosi
30 giorni, di integrare la fattispecie di cui all'art. 328, secondo comma,
cod. pen. in caso di omessa risposta.
Da quanto sopra accennato circa i principi di diritto a cui
questa Corte si riporta, in uno a
quanto emerge dal provvedimento impugnato, se ne deduce la
erronea applicazione della fattispecie dell'art. 328, secondo comma, cod.
pen..
5.1. Il ricorrente aveva presentato in data 29.10.2013 la
diffida ad adempire con cui aveva richiesto all'amministrazione comunale di
Riano di porre in essere quanto necessario al fine di realizzare le opere di
urbanizzazione utili all'immobile dell'istante.
5.2. Tale atto deve qualificarsi quale diffida in quanto
contenente tutti gli elementi per ritenere cogente la richiesta sia perché
si indicano le norme di legge che imponevano all'amministrazione di
provvedere, sia poiché si fa riferimento al termine di trenta giorni entro
il quale si sarebbe dovuta attivare la procedura, con specifica enunciazione
delle conseguenze cui l'amministrazione ed i funzionari preposti sarebbero
andati incontro in caso di inadempimento.
Allo scadere del termine di trenta giorni assegnato,
l'amministrazione avrebbe dovuto quantomeno rispondere specificando le
ragione del ritardo, risposta mai fornita neppure a seguito di impugnazione
del silenzio-inadempimento in tal modo formatosi, con conseguente astratta
integrazione della fattispecie prevista dall'art. 328, secondo comma, cod.
pen., sotto il profilo meramente oggettivo.
6. Da quanto sopra consegue l'annullamento della sentenza
con rinvio al Tribunale di Tivoli, ufficio G.u.p. che, attenendosi ai
principi di diritto sopra enunciati quanto a valenza di diffida dell'atto
del 29.10.2013 e non necessità di ulteriori atti ai fini dell'integrazione
del reato, valuterà se, nei limiti propri del giudizio in sede di udienza
preliminare, sussistano elementi che consentano di imputare l'omissione,
specie sotto il profilo del necessario elemento soggettivo, agli imputati. |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Vergine,
EFFETTI DELLA DOMANDA IN SANATORIA EX ART. 36 DEL DPR
380/2001 IN CASO DI PREGRESSA ADOZIONE DELL’ORDINANZA DI
DEMOLIZIONE. Breve nota alla sentenza
22.03.2018 n. 468
del TAR Puglia–Lecce.
...
La
sentenza 22.03.2018 n. 468 del TAR Puglia –Sez.
I di Lecce–
esamina il caso del ricorso proposto avverso l’ordinanza di
demolizione con l’unico motivo della presentazione della
domanda di sanatoria ex art. 36 del DPR 380/2001.
Tale disposizione espressamente prevede che decorsi 60
giorni dall’istanza senza che l’amministrazione si pronunci
si formi il silenzio-rigetto (III comma), che, se non
impugnato, rende definitivo il provvedimento implicito di
diniego.
La novità dell’arresto giurisprudenziale del Tar è
rappresentato dal principio secondo cui anche nel caso in
cui la P.A. adotti, ai sensi dell’art. 10-bis della L. n.
241/1990, il preavviso di rigetto, rappresentando le ragioni
ostative all’accoglimento dell’istanza in sanatoria, alla
quale il privato non ha dato seguito, il termine per il
perfezionamento del silenzio-rigetto continua decorrere fino
alla formazione del silenzio-rigetto.
In questo caso, il provvedimento implicito di rigetto non ha
l’effetto di riavviare il procedimento sanzionatorio
(ordinanza di demolizione) in quanto –precisa il TAR– la
mancata impugnazione conduce a ”…consolidare l’ordine
demolitorio inizialmente impartito, senza la necessità che
l’Ente emetta una nuova ordinanza di demolizione”.
Questo indirizzo è conforme alla più recente giurisprudenza
del Consiglio di Stato secondo cui “La presentazione di
una nuova istanza ex art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non
rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e,
quindi, non determina l'improcedibilità, per sopravvenuta
carenza d'interesse, dell'impugnazione proposta avverso
l'ordinanza di demolizione, ma comporta, tutt'al più, un
arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva
che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della
domanda di sanatoria. Sostenere che, nell'ipotesi di
rigetto, esplicito o implicito, dell'istanza di accertamento
di conformità, l'Amministrazione debba riadottare
l'ordinanza di demolizione, equivarrebbe a riconoscere in
capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento
sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un
sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento”
(Cons. di Stato, sez. VI, 04.04.2017 n. 1565) (22.03.2018 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche nel caso in cui la P.A. adotti, ai sensi
dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990, il preavviso di
rigetto, rappresentando le ragioni ostative all’accoglimento
dell’istanza in sanatoria, alla quale il privato non ha dato
seguito, il termine per il perfezionamento del
silenzio-rigetto continua decorrere fino alla formazione del
silenzio-rigetto.
In questo caso, il provvedimento implicito di rigetto non ha
l’effetto di riavviare il procedimento sanzionatorio
(ordinanza di demolizione) in quanto la mancata impugnazione
conduce a ”…consolidare l’ordine demolitorio inizialmente
impartito, senza la necessità che l’Ente emetta una nuova
ordinanza di demolizione”.
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La ricorrente ha impugnato l'ordinanza n. 25 del 25.11.2016
con la quale il Comune di Seclì le ha intimato la
demolizione di un fabbricato in muratura della superficie di
mq. 83,67, realizzato in assenza del previo rilascio del
necessario titolo edilizio.
Nell’atto introduttivo la ricorrente ha allegato di avere
presentato, in data 24.02.2017, istanza di accertamento di
conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 ed ha
eccepito, come unico motivo di ricorso, la conseguente
illegittimità sopravvenuta dell’atto impugnato.
Il Comune di Seclì si è costituito in giudizio e con memoria
depositata in data 19.01.2018 ha evidenziato il formarsi del
silenzio-rifiuto ex art. 36, comma 3°, D.P.R. n. 380 del
2001 sull’istanza presentata dalla ricorrente, essendo
decorsi sessanta giorni dal deposito senza che l’Ente si sia
espresso favorevolmente e non avendo, peraltro, la signora
Mo. articolato alcuna osservazione dopo l’invio da parte del
Comune del preavviso di diniego ex art. 10-bis della Legge
n. 241 del 1990, né prodotto l’ulteriore documentazione
preannunciata con mail del 18.05.2017.
Il Collegio all’esito del giudizio, sulla base delle difese
assunte dalle parti, degli atti prodotti e dei principi
applicabili alla materia, ritiene il ricorso infondato.
Invero, la ricorrente ha articolato quale unica doglianza
l’illegittimità sopravvenuta del provvedimento impugnato,
per effetto della presentazione della domanda ex art. 36
D.P.R. n. 380 del 2001in relazione al fabbricato abusivo, ma
su tale domanda, come dimostrato dall’Ente convenuto, si è
formato il silenzio-rifiuto ex art. 36, comma 3°, D.P.R. n.
380 del 2001, provvedimento implicito che la signora Mo. non
ha impugnato nei termini di legge, con conseguente
consolidamento dell’ordine demolitorio inizialmente
impartito, senza necessità che l’Ente emetta una nuova
ordinanza di demolizione (Consiglio di Stato, sentenza n.
1565 del 2017) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 22.03.2018 n. 468 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di una nuova istanza ex art. 36,
d.p.r. 06.06.2001, n. 380, recante il «Testo Unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia», non rende inefficace il provvedimento
sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina
l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse,
dell’impugnazione proposta avverso l’ordinanza di
demolizione, ma comporta, tuttalpiù, un arresto temporaneo
dell’efficacia della misura repressiva che riacquista la sua
efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria.
---------------
I principi affermati in tema di condono edilizio non possono
trovare applicazione al caso di specie, in cui il ricorrente
ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che,
prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia
conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di
una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che,
nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza
di accertamento di conformità, l’amministrazione debba
riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al
riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario
di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo
provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini
suddetti non può essere effettuata in via meramente
interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni
concezione sull’esercizio del potere, e richiede
un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in
ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti
del rapporto.
---------------
5. Questo Collegio, sebbene la questione non sia
strettamente rilevante per la decisione del ricorso in
appello, non può non rilevare che l’affermazione contenuta
nella sentenza appellata (secondo la quale l’istanza di
permesso di costruire in sanatoria, presentata
successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di
demolizione, produce l’effetto di rendere improcedibile
l’impugnazione stessa per sopravvenuto difetto di interesse)
non può essere condivisa.
Questo Consiglio ha, al contrario, affermato: “La
presentazione di una nuova istanza ex art. 36, d.p.r.
06.06.2001, n. 380, recante il « Testo Unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia », non rende inefficace il provvedimento
sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina
l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse,
dell’impugnazione proposta avverso l’ordinanza di
demolizione, ma comporta, tutt'al più, un arresto temporaneo
dell’efficacia della misura repressiva che riacquista la sua
efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria”
(Consiglio di Stato, sez. VI, 08.04.2016, n. 1393).
“I principi affermati in tema di condono edilizio non
possono trovare applicazione al caso di specie, in cui il
ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che,
prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia
conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di
una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che,
nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza
di accertamento di conformità, l’amministrazione debba
riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al
riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario
di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo
provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini
suddetti non può essere effettuata in via meramente
interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni
concezione sull’esercizio del potere, e richiede
un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in
ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti
del rapporto” (Consiglio di Stato, VI, 06.05.2014, n.
2307).
6. La censura dedotta è fondata e, consequenzialmente, va
accolto il ricorso in appello e annullati i provvedimenti
impugnati in primo grado in quanto viziati da eccesso di
potere per difetto di istruttoria (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 04.04.2017 n. 1565 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il permesso di costruire non può essere sottoposto a
condizione, salvo che non sia previsto dalla legge.
---------------
Edilizia – Permesso di costruire – Sottoposto a
condizione sospensiva o risolutiva – Esclusione.
Il permesso di costruire non può
essere sottoposto a condizione, sia essa sospensiva o
risolutiva, stante la natura di accertamento costitutivo a
carattere non negoziale del provvedimento, con la
conseguenza che tale titolo, una volta riscontratane la
conformità alla vigente disciplina urbanistica, deve essere
rilasciata dal Comune senza condizioni che non siano
espressamente previste da una norma di legge (1).
---------------
(1)
Ha ricordato la Sezione che solo con specifico e limitato
riferimento all’ipotesi del permesso condizionato
all’acquisizione di un atto da altra Pubblica
amministrazione la modalità procedurale di rilasciare
permessi di costruire condizionati deve considerarsi
legittima, avuto riguardo alle esigenze generali di
complessiva speditezza ed efficienza dell'azione
amministrativa, nonché per l'effetto non neutro del
passaggio del tempo per i destinatari dell'atto.
Infatti, in applicazione del generale principio di
proporzionalità, implicante minimo possibile sacrificio
degli interessi coinvolti, l'amministrazione pubblica deve
responsabilmente scegliere, nell'esercizio delle proprie
funzioni, il percorso -ove necessario coordinato con quello
di altre amministrazioni- teso a non aggravare inutilmente
la situazione dei destinatari dell'azione amministrativa,
come prescritto anche dall'art. 1, comma 2, l. 07.08.1990,
n. 241; mentre, costituisce inutile aggravio procedurale
(perché non bilanciato da una sufficiente ragione di
interesse pubblico) l'arresto di un procedimento, che può
invece proseguire sotto la condizione sospensiva del
perfezionamento di altra procedura presupposta (Cons.
Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5615; id.,
sez. IV, 25.06.2013, n. 3447)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.04.2018 n. 2366
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
11. Nel merito, si osserva che con i restanti motivi di
appello -che il Collegio ritiene di dover esaminare
congiuntamente in quanto intimamente connessi- il Comune di
Genova censura la sentenza impugnata per non avere
correttamente interpretato, sotto vari profili, la
prescrizione inserita nel permesso di costruire, oggetto di
specifica impugnazione.
In particolare, l’appellante sostiene:
a) che la prescrizione non è qualificabile in termini di “condizione”
del permesso, in quanto attiene alle modalità esecutive
dell’opera;
b) che la prescrizione, piuttosto che riguardare il progetto
architettonico, in realtà riguarda il progetto strutturale,
quindi le modalità esecutive a tutela dell’interesse
pubblico alla corretta realizzazione dell’opera;
c) che la prescrizione non concreta una subordinazione
dell’esecuzione delle opere al “consenso dei proprietari
confinanti”, ma un’ulteriore verifica progettuale
relativa, in particolare, all’aspetto strutturale;
d) con la detta prescrizione non è stato concretizzato alcun
aggravio del procedimento, essendo emersa nel corso di
questo la necessità della stessa;
e) che la prescrizione non è indeterminata, dovendosi ritenere, al
contrario, sufficientemente individuati nel permesso
impugnato gli intervenienti.
Tutti i motivi sono infondati.
11.1. In relazione alla questione oggetto del giudizio, si
richiamano i principi elaborati da questo Consiglio in forza
dei quali:
a) “in via di principio, e fatti salvi i casi
espressamente stabiliti dalla legge, una condizione, sia
essa sospensiva o risolutiva, non può essere apposta ad una
concessione edilizia, stante la natura di accertamento
costitutivo a carattere non negoziale del provvedimento; ne
consegue che, a parte tali limitazioni, la concessione
edilizia, una volta riscontratane la conformità alla vigente
disciplina urbanistica, deve essere rilasciata dal comune
senza condizioni che non siano espressamente previste da una
norma di legge”
(Cons. Stato, sez. V, 24.03.2001, n. 1702; conforme Cons.
Stato, sez. IV, 16.04.2014, n. 1891; sez. IV, 06.06.2011, n.
3382);
b) con specifico e limitato riferimento all’ipotesi del permesso
condizionato all’acquisizione di un atto da altra pubblica
amministrazione, “la modalità
procedurale di rilasciare permessi di costruire condizionati
deve considerarsi legittima, avuto riguardo alle esigenze
generali di complessiva speditezza ed efficienza dell'azione
amministrativa, nonché per l'effetto non neutro del
passaggio del tempo per i destinatari dell'atto. Infatti, in
applicazione del generale principio di proporzionalità,
implicante minimo possibile sacrificio degli interessi
coinvolti, l'amministrazione pubblica deve responsabilmente
scegliere, nell'esercizio delle proprie funzioni, il
percorso —ove necessario coordinato con quello di altre
amministrazioni— teso a non aggravare inutilmente la
situazione dei destinatari dell'azione amministrativa, come
prescritto anche dall'art. 1, comma 2, l. 07.08.1990 n. 241;
mentre, costituisce inutile aggravio procedurale (perché non
bilanciato da una sufficiente ragione di interesse pubblico)
l'arresto di un procedimento, che può invece proseguire
sotto la condizione sospensiva del perfezionamento di altra
procedura presupposta”
(Cons. Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5615; conforme Cons.
Stato, sez. IV, 25.06.2013, n. 3447).
11.2. Con riferimento al caso di specie, occorre premettere
che il titolo edilizio in esame prevede la prescrizione,
secondo cui, prima dell’avvio dei lavori di costruzione
dell’autorimessa interrata, sia predisposta "una
relazione congiunta, a firma dello strutturista della
società titolare del permesso di costruire e dello
strutturista degli esponenti oppure del solo strutturista
della società titolare del permesso di costruire con "visto"
di quello degli esponenti o altra forma dalla quale risulti
comunque l'accordo delle parti stesse che, dopo aver
espletato le eventuali ulteriori verifiche del caso,
riconosca la fattibilità dell'intervento sotto il profilo
strutturale; tale accordo dovrà anche riguardare
l'esecuzione dei lavori e consentire che venga svolta
un'attività di controllo da parte del professionista
incaricato dagli amministratori dei palazzi soprastanti. Nel
caso di mancato accordo tra le parti, dovrà essere onere
delle stesse affidare la soluzione dei punti controversi ad
un terzo "arbitro" ed i lavori potranno iniziare solo nel
caso di valutazione favorevole di questo ultimo".
11.3. Alla luce della previsione di dettaglio, e tenendo in
debita considerazione le richiamate coordinate
giurisprudenziali, risulta che:
a) non sussistono i presupposti per ritenere
integrata una delle ipotesi eccezionali per le quali viene
ammesso il rilascio condizionato del titolo (seppur
subordinatamente alla permanenza del monitoraggio da parte
del Comune, che, ad ogni modo, deve restare il titolare del
procedimento autorizzatorio). Invero:
a.1) non si ravvisa nessuna
finalità di risparmio procedimentale, non essendo
necessario, ai fini del completamento dell’istruttoria
procedimentale, acquisire atti da altra amministrazione, con
conseguente attivazione di altra fase procedimentale o di
subprocedimento;
a.2) non vi è neanche specifica
necessità di conseguire effetti di economia procedimentale,
essendo in realtà già stati acquisiti nel corso del
procedimento, tenuto dal Comune, gli atti utili per ritenere
satisfattivo l’approfondimento istruttorio (si vedano, al
riguardo, i pareri favorevoli resi dai vari uffici, tra i
quali, in particolare, quello dell’Ufficio geologico del
Comune, nei quali non vengono indicate esigenze
straordinarie che in ipotesi richiedono ulteriori
adempimenti istruttori);
a.3) l’aver condizionato la
produzione degli effetti del permesso di costruire alla
conclusione di un futuro accordo si risolve, per converso,
in un ingiustificato aggravamento del procedimento, in
antitesi ai principi di efficienza ed economicità ex art. 97
Cost. e art. 1 legge n. 241/1990;
b) la prescrizione, nel caso di specie, subordina
il permesso all’esecuzione di lavori da effettuarsi secondo
modalità non determinate preventivamente
(ipotesi al limite ammissibile, secondo quanto previsto da
Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2013, n. 3447),
ma, al contrario, determinabili solo in un momento
successivo.
Tale decisione, peraltro non risulta essere
stata rimessa all’Amministrazione titolare del procedimento,
in quanto viene attribuita allo stesso istante unitamente ad
altri soggetti controinteressati, mediante la conclusione di
un accordo tra essi, tuttavia ancora non esistente al
momento dell’adozione del provvedimento concessorio.
Pertanto:
b.1) l’Amministrazione sostanzialmente assegna il
potere decisorio sulla concreta operatività del permesso a
soggetti diversi da essa, finendo sostanzialmente per
abdicare all’esercizio della funzione pubblica e,
conseguentemente, per dismettere la titolarità del
procedimento di cui è investita ex lege;
b.2) l’efficacia del permesso risulta in tal modo
permeata da incertezza, essendo subordinata alla conclusione
di un accordo futuro (ed eventuale) avente ad oggetto le
modalità esecutive dell’intervento;
b.3) l’efficacia del permesso di costruire viene
rimessa alla decisione, se non all’arbitrio, di soggetti
terzi controinteressati, in quanto la conclusione
dell’accordo dipende dal consenso dei proprietari confinanti
in ordine alla fattibilità dell’intervento.
11.4. Conclusivamente, il Collegio riscontra che la
produzione degli effetti del permesso impugnato risulta
subordinata al verificarsi di una condizione, di carattere
sospensivo, futura ed incerta, in quanto tale inammissibile
nonché dimostrativa di una carente istruttoria
procedimentale.
12. Le spese del grado seguono la soccombenza e sono
liquidate come in dispositivo, tenuto conto dei parametri di
cui al regolamento n. 55 del 2014 e di cui all’art. 26,
comma 1, c.p.a. ricorrendone nella specie i presupposti
applicativi (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV,
24.05.2016, n. 2200; Cass. civ., Sez. VI, 02.11.2016, n.
22150). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Non è possibile
applicare la previsione di cui all’art. 16 della legge n.
689/1981 alle sanzioni pecuniarie irrogate ai sensi
dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001.
L’oggetto del contendere riguarda la
possibilità di applicare la previsione di cui all’art. 16
della legge n. 689/1981 alle sanzioni pecuniarie irrogate ai
sensi dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001.
La questione va definita sulla base
della natura (punitiva o ripristinatoria) riconosciuta alla sanzione di cui si
controverte.
Se si aderisce alla tesi dei ricorrenti circa
la natura punitiva della sanzione, si deve affermare che
trova anche in questo caso applicazione l’art. 16 della
legge n. 689/1981. Al contrario, se si ritiene che la
sanzione presenta natura ripristinatoria, non si può operare
alcuna riduzione dell’importo, perché ciò vanificherebbe la
finalità prevista dal legislatore.
Ad avviso del Collegio questa seconda soluzione è
preferibile.
Si condivide infatti quanto recentemente
affermato in proposito dal TAR Napoli, sez. III, nella
sentenza 28.08.2017 n. 4146, in cui si legge:
- “la sanzione in questione è stata introdotta in sede di
conversione del Decreto "Sblocca Italia" (D.L. 133/2014,
convertito con modificazioni dalla L. 164/2014), allo scopo
di tenere economicamente indenne l'Amministrazione comunale
dalle spese di ripristino conseguenti alle ordinanze di
demolizione non eseguite. La richiamata sanzione ha quindi
lo scopo di fornire all'Amministrazione la provvista per
procedere al ripristino, senza necessità di anticipare le
relative somme, per poi rivalersi sul responsabile
dell'abuso, semmai inutilmente nel caso di insolvenza dello
stesso”;
- “la sanzione pecuniaria ha lo scopo di tenere indenne
l'amministrazione comunale dall'impegno economico derivante
dall'abbattimento delle opere abusive. Non a caso, infatti,
il comma 4-ter del menzionato art. 31 introduce un chiaro
vincolo di destinazione stabilendo che: "I proventi delle
sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al comune e sono
destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in
pristino delle opere abusive e all'acquisizione e
attrezzatura di aree destinate a verde pubblico."”.
La natura ripristinatoria della sanzione di cui si
controverte esclude che la stessa possa essere assoggettata
a riduzione, in applicazione dell’art. 16 della legge n.
689/1981.
---------------
4) L’oggetto del contendere riguarda la possibilità di
applicare la previsione di cui all’art. 16 della legge n.
689/1981 alle sanzioni pecuniarie irrogate ai sensi
dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001,
possibilità negata dal Comune di Aramengo nel caso in esame,
nonostante la richiesta in tal senso presentata dai
ricorrenti.
4.1) Il citato art. 31 (“Interventi eseguiti in assenza
di permesso di costruire, in totale difformità o con
variazioni essenziali”) così dispone al comma 4-bis, in
caso di inottemperanza all’ordine di demolizione: “L'autorità
competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione
amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro
e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e
sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di
abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma
2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio
idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata
nella misura massima…”.
Nel caso in esame la sanzione è stata irrogata nella misura
massima in quanto gli abusi sono stati realizzati dai
ricorrenti in area in cui “gli elementi di pericolosità
geomorfologica sono tali da impedirne l’utilizzo”.
A sua volta l’art. 16 della legge n. 689/1981 così dispone
al primo comma: “E' ammesso il pagamento di una somma in
misura ridotta pari alla terza parte del massimo della
sanzione prevista per la violazione commessa, o, se più
favorevole e qualora sia stabilito il minimo della sanzione
edittale, pari al doppio del relativo importo oltre alle
spese del procedimento, entro il termine di sessanta giorni
dalla contestazione immediata o, se questa non vi è stata,
dalla notificazione degli estremi della violazione”.
4.2) I ricorrenti sostengono:
a) che l’istituto della riduzione della sanzione ha portata
generale, come risulta dall’art. 12 della stessa legge n.
689/1981, secondo cui: “Le disposizioni di questo Capo si
osservano, in quanto applicabili e salvo che non sia
diversamente stabilito, per tutte le violazioni per le quali
è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una
somma di denaro, anche quando questa sanzione non è prevista
in sostituzione di una sanzione penale…”; tale istituto
è applicabile anche alle sanzioni pecuniarie in materia
edilizia, non essendovi disposizioni in senso contrario, né
incompatibilità, posto che tali sanzioni presentano natura
punitiva (e non ripristinatoria) avendo finalità repressive
e preventive; e ciò vale anche per la sanzione di cui
all’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001;
b) che il diniego opposto dall’Amministrazione alla richiesta di
riduzione della sanzione è comunque illegittimo perché
totalmente privo di motivazione.
4.3) Come emerge dalle stesse censure formulate nel ricorso,
la questione va definita sulla base della natura (punitiva o
ripristinatoria) riconosciuta alla sanzione di cui si
controverte.
Se si aderisce alla tesi dei ricorrenti circa
la natura punitiva della sanzione, si deve affermare che
trova anche in questo caso applicazione l’art. 16 della
legge n. 689/1981. Al contrario, se si ritiene che la
sanzione presenta natura ripristinatoria, non si può operare
alcuna riduzione dell’importo, perché ciò vanificherebbe la
finalità prevista dal legislatore.
4.4) Ad avviso del Collegio questa seconda soluzione è
preferibile.
Si condivide infatti quanto recentemente
affermato in proposito dal TAR Napoli, sez. III, nella
sentenza 28.08.2017 n. 4146, in cui si legge:
- “la sanzione in questione è stata introdotta in sede di
conversione del Decreto "Sblocca Italia" (D.L. 133/2014,
convertito con modificazioni dalla L. 164/2014), allo scopo
di tenere economicamente indenne l'Amministrazione comunale
dalle spese di ripristino conseguenti alle ordinanze di
demolizione non eseguite. La richiamata sanzione ha quindi
lo scopo di fornire all'Amministrazione la provvista per
procedere al ripristino, senza necessità di anticipare le
relative somme, per poi rivalersi sul responsabile
dell'abuso, semmai inutilmente nel caso di insolvenza dello
stesso”;
- “la sanzione pecuniaria ha lo scopo di tenere indenne
l'amministrazione comunale dall'impegno economico derivante
dall'abbattimento delle opere abusive. Non a caso, infatti,
il comma 4-ter del menzionato art. 31 introduce un chiaro
vincolo di destinazione stabilendo che: "I proventi delle
sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al comune e sono
destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in
pristino delle opere abusive e all'acquisizione e
attrezzatura di aree destinate a verde pubblico."”.
4.5) La natura ripristinatoria della sanzione di cui si
controverte esclude che la stessa possa essere assoggettata
a riduzione, in applicazione dell’art. 16 della legge n.
689/1981. Perciò il Comune di Aramengo ha legittimamente
opposto un diniego alla richiesta in tal senso formulata dai
ricorrenti, senza che fosse necessaria una particolare, più
dettagliata motivazione.
5) In conclusione, le censure formulate nel ricorso
risultano infondate e il ricorso stesso va respinto. Lo
stesso vale per i motivi aggiunti, in cui sono formulate
censure di illegittimità derivata (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 20.03.2018 n 336 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
INCARICHI PROFESSIONALI:
G.U. 26.04.2018 n. 96 "Regolamento recante modifiche al
decreto 10.03.2014, n. 55, concernente la determinazione dei
parametri per la liquidazione dei compensi per la
professione forense, ai sensi dell’articolo 13, comma 6,
della legge 31.12.2012, n. 247" (Ministero della
Giustizia,
decreto 08.03.2018 n. 37). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
20.04.2018 n. 92 "Testo unico in materia di foreste e
filiere forestali" (D.Lgs.
03.04.2018 n. 34). |
APPALTI: G.U.
16.04.2018 n. 88 "Determinazione della tariffa di
iscrizione all’albo dei componenti delle commissioni
giudicatrici e relativi compensi" (Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 12.02.2018). |
APPALTI: G.U.
16.04.2018 n. 88 "Determinazione dei limiti dei compensi
del Collegio arbitrale" (Ministero delle Infrastrutture
e dei Trasporti,
decreto 31.01.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 15 del 12.04.2018 "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 31.03.2018, in attuazione
della legge 26.10.1995, n. 447 e del decreto legislativo
17.02.2017, n. 42" (comunicato
regionale 06.04.2018 n. 45). |
APPALTI: G.U.
10.04.2018 n. 83 "Decreto 18.01.2008, n. 40, concernente:
«Modalità di attuazione dell’articolo 48-bis del decreto del
Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602, recante
disposizioni in materia di pagamenti da parte delle
Pubbliche Amministrazioni» - Chiarimenti aggiuntivi"
(Ministero dell'Economia e delle Finanza, Ragioneria
Generale dello Stato,
circolare 21.03.2018 n. 13/RGS). |
APPALTI: G.U.
10.04.2018 n. 83 "Regolamento con cui si adottano gli
schemi di contratti tipo per le garanzie fideiussorie
previste dagli articoli 103, comma 9 e 104, comma 9, del
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50" (Ministero dello
Sviluppo Economico,
decreto 19.01.2018 n. 31). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto : Disposizioni in materia di opere o di
costruzioni. Procedure per la gestione informatica delle
pratiche sismiche ai sensi della L.R. 33/2015, artt. 2 e 3,
c. 2 (Regione Lombardia,
nota 20.04.2018 n. 3717 di prot.). |
APPALTI:
Oggetto: Documento di gara unico europeo - DGUE - solo in
formato elettronico (ANCE di Bergamo,
circolare 20.04.2018 n. 114). |
APPALTI:
Oggetto: Pubblicato il decreto ministeriale riguardante
gli schemi delle garanzie fideiussorie per gli appalti
pubblici (ANCE di Bergamo,
circolare 20.04.2018 n. 112). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Interoperabilità fra Sportello Unico per le
Attività Produttive e Registro delle Imprese – nuove
modalità di raccordo e scambio informativo per la
trasmissione degli atti e dei documenti alla Camera di
Commercio (CCIAA di Bergamo,
nota
19.04.2018 n. 20537 di prot.). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Attestazione di conformità della copia informatica di
documenti analogici. Nota congiunta relativa
all’interpretazione dell’art. 22, co. 2, d.lgs. 07.03.2005,
n. 82 (Codice dell’Amministrazione Digitale) a seguito delle
modifiche apportate con il d.lgs. 13.12.2017 n. 217
(Segretariato Generale della Giustizia Amministrativa,
nota 10.04.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Prime indicazioni per il coordinamento dei
procedimenti sismico ed edilizio. Chiarimenti sull'entrata
in vigore nelle nuove norme tecniche per le costruzioni
(Regione Emilia Romagna,
nota
30.03.2018 n. 226483 di prot.). |
APPALTI:
Oggetto: sentenza Corte Costituzionale n. 254 del
06.12.2017 – giudizio di legittimità costituzionale in via
incidentale – art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276/2013
(Ispettorato Nazionale del Lavoro,
circolare 29.03.2018
n. 6/2018). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: La
liquidabilità degli incentivi tecnici di cui all’art. 113
del d.lgs. 50/2016:
●
è subordinata all’adozione da parte dell’Ente del previsto
regolamento,
●
che può disporre anche la ripartizione degli incentivi per
funzioni tecniche espletate dopo l’entrata in vigore del
nuovo codice dei contratti pubblici e prima dell’adozione
del regolamento stesso, utilizzando le somme già accantonate
allo scopo nel quadro economico riguardante la singola
opera,
●
nonché criteri di quantificazione dei predetti incentivi
-quale quella che tenga conto del ribasso d’asta conseguente
all’aggiudicazione– che ne determinino un importo inferiore
rispetto al tetto massimo legislativamente previsto.
---------------
Il Sindaco del Comune di Nerviano (MI) chiede a
questa Sezione di esprimere un parere in merito alla
liquidabilità degli incentivi tecnici di cui all’art. 113
del d.lgs. 50/2016. In particolare, si chiede di sapere:
1) se sia legittima la corresponsione degli incentivi di
progettazione ai dipendenti dell’ufficio tecnico pur in
assenza di regolamentazione aggiornata al nuovo codice degli
appalti;
2) se sia corretto attribuire efficacia retroattiva fin dal 2016
al regolamento che è in corso di predisposizione da parte
del predetto responsabile;
3) se sia possibile liquidare gli incentivi calcolati non
sull’importo a base d’asta, ma con il ribasso d’asta
conseguente all’aggiudicazione, determinati nel modo
esplicitato in premesse nel periodo da aprile 2016 ad oggi.
...
2.1. Venendo al merito della richiesta di parere formulata,
analoghe questioni interpretative sono state già affrontate
di recente da questa Sezione, con valutazioni che non
possono che confermarsi anche in questa sede.
2.2. In merito al quesito di cui al numero 1), nel
parere 07.11.2017 n. 305, dopo aver ricordato che
«la disciplina sugli incentivi tecnici prevista dal
citato art. 113, comma 2, del nuovo codice dei contratti
pubblici si applica alle procedure bandite successivamente
all’entrata in vigore dello stesso, come fatto palese
dall’art. 216, comma 1», ha affermato che «l’adozione
del regolamento di cui al successivo comma 3 rimane “una
condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli
aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo. Ciò,
evidentemente, perché esso è destinato ad individuare le
modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla
percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo
fissato dalla legge” (Sezione regionale di controllo per il
Veneto,
parere 07.09.2016 n. 353)».
2.3. In riferimento al quesito sub 2), nella medesima
deliberazione si è già ricordato che «non può aversi
ripartizione del fondo tra gli aventi diritto se non dopo
l’adozione del prescritto regolamento. Il che tuttavia non
impedisce che quest’ultimo possa disporre anche la
ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche espletate
dopo l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti
pubblici e prima dell’adozione del regolamento stesso,
utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel quadro
economico riguardante la singola opera (Sezione regionale di
controllo per la Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 185; Sezione regionale di
controllo per il Veneto,
parere 07.09.2016 n. 353)».
2.4. Infine, per quanto riguarda l’ultimo quesito,
basti ricordare che il più volte richiamato art. 113, comma
2, del nuovo codice dei contratti pubblici pone, per gli
incentivi in analisi, un tetto massimo pari al 2 per cento
dell'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base
di gara.
Fatto salvo il rispetto di tale limite quantitativo, ben può
l’Ente individuare, nell’esercizio del proprio autonomo
potere regolamentare, una base di quantificazione –quale
quella che tenga conto del ribasso d’asta conseguente
all’aggiudicazione– che determini un importo inferiore dei
predetti incentivi. Ciò in quanto, come chiarito già da
questa Sezione (parere
09.06.2017 n. 185),
«solo il regolamento, nella sistematica della legge è
destinato ad individuare le modalità ed i criteri della
ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può
superare il tetto massimo fissato dalla legge».
P.Q.M.
la Corte dei conti –Sezione regionale di controllo per la
Regione Lombardia– ritiene che la
liquidabilità degli incentivi tecnici di cui all’art. 113
del d.lgs. 50/2016 è subordinata all’adozione da parte
dell’Ente del previsto regolamento, che può disporre anche
la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche
espletate dopo l’entrata in vigore del nuovo codice dei
contratti pubblici e prima dell’adozione del regolamento
stesso, utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel
quadro economico riguardante la singola opera, nonché
criteri di quantificazione dei predetti incentivi -quale
quella che tenga conto del ribasso d’asta conseguente
all’aggiudicazione– che ne determinino un importo inferiore
rispetto al tetto massimo legislativamente previsto
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 21.03.2018 n. 93). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
P. Malanetto,
La disciplina speciale
dei contratti pubblici: procedure di affidamento, contratto
ed esecuzione del rapporto tra diritto civile e diritto
amministrativo. Problematiche attuali (18.04.2018
- tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. Inquadramento generale. Il diritto
processuale dell’evidenza pubblica nella cornice del diritto
eurounitario; problemi di armonizzazione. 2. La
responsabilità precontrattuale dell’amministrazione
nell’ambito dell’evidenza pubblica. 2.1 La responsabilità
precontrattuale nei contratti attivi dell’amministrazione.
2.2 La responsabilità dell’amministrazione nei confronti dei
soggetti che vantavano interesse al mantenimento di una
aggiudicazione illegittima. 2.3 La responsabilità
dell’amministrazione in ipotesi di affidamenti diretti
intervenuti in radicale violazione dell’evidenza pubblica.
2.4 La responsabilità precontrattuale del privato nei
confronti della pubblica amministrazione. 3. La tutela del
privato avverso il silenzio serbato dall’amministrazione tra
l’aggiudicazione e la stipulazione del contratto. 4.
L’inefficacia del contratto. 5. Epifanie dell’evidenza
pubblica nella fase di esecuzione del contratto. |
APPALTI:
H. Simonetti,
Il nuovo quadro
normativo dei contratti pubblici. La dialettica tra diritto
euro-unitario e nazionale, linee generali e singole
tipologie (17.04.2018 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. Introduzione: una vicenda unitaria
con al centro il contratto. 2. Il quadro normativo: il
sistema della contabilità di stato. 3. segue. Le fonti del
diritto europeo: le prime direttive. 4. Le ultime direttive
del 2014 e il nuovo codice dei contratti e delle
concessioni. 5. Ancora sul quadro normativo: tra modelli
meccanici e negoziazioni. 6. Natura e tipologie degli
appalti pubblici. 7. Tra regole e principi. 8. Le linee
guida dell’ANAC. |
APPALTI:
R. Caponigro,
Le prime criticità
nell’applicazione del nuovo codice dei contratti pubblici da
parte della giurisprudenza amministrativa (17.04.2018
- tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. Il “bene della vita” nell’appalto
pubblico – 2. La ratio dell’evidenza pubblica – 3. L’onere
di immediata impugnazione delle ammissioni – 4. La tutela
della concorrenza e delle piccole e medie imprese – 5. La
partecipazione alla gara di imprese controllate o collegate
- 6. Note conclusive. |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
D. Perrotta,
Il danno all’immagine
della pubblica amministrazione, tra tendenze
giurisprudenziali (espansive), scelte del legislatore
(restrittive) e il nuovo codice di giustizia contabile
(11.04.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa; 2. Tra l’essere e l’avere:
la configurazione del problema teorico dell’individuazione
della categoria dei diritti della personalità e dei relativi
mezzi di tutela; 3. Il danno all’immagine della p.a. e
l’evoluzione del la fattispecie di danno: dalla
polverizzazione in species al recupero dell’unitarietà del
genus del danno non patrimoniale; 4. Gli elementi
strutturali del la fattispecie lesiva del danno all’immagine
della p.a.: l’ambito soggettivo, le con dotte imputabili, il
criterio di imputazione, il nesso di causalità e il clamor
fori; 5. Il progressivo affermarsi della giurisdizione
contabile e l’intervento “restrittivo” del legislatore nel
2009; 6. Le reazioni del giudice dei conti alla decisione
della Consulta del 2010, tra interpretazione restrittiva ed
estensiva; 7. L’intervento nomofilattico del giudice dei
conti del 2015: genesi e contenuti; 8. Il nuovo codice di
giustizia contabile del 2016 e la “riespansione” della
competenza della Corte dei conti; 9. La determinazione del
quantum del danno all’immagine: parametri utilizzati in sede
pretoria, esercizio del potere riduttivo e l’intervento del
legislatore nel 2012; 10. Osservazioni conclusive. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
M. Allena,
La facoltatività
dell’instaurazione del procedimento di annullamento
d’ufficio: un “fossile vivente” nell’evoluzione
dell’ordinamento amministrativo (11.04.2018 -
tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa e delimitazione del campo di
indagine. – 2. La doverosità del procedere nei procedimenti
d’ufficio: la non necessità, ma non anche irrilevanza, della
denuncia di parte. – 3. L’evoluzione della giurisprudenza
nei procedimenti d’ufficio: la ricerca di una posizione
differenziata meritevole di tutela in capo al denunciante. –
4. I limiti tradizionalmente opposti alla ammissibilità
dell’azione contro il silenzio inadempimento in materia di
annullamento d’ufficio: considerazioni critiche. – 5.
Conclusioni: l’annullamento d’ufficio da misura di
autotutela a strumento di “tutela”. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
S. Bucello,
Riflessioni a margine
della sentenza del Consiglio di Stato n. 5044/2016 per un
corretto inquadramento della conferenza di servizi
semplificata
(11.04.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. La rinnovata centralità della
sentenza n. 5044/2016 del Consiglio di Stato ai fini
dell’indagine sulla natura della conferenza di servizi. 2.
La conferenza di servizi quale modulo procedimentale. 3. Il
valore della contestualità: l’inammissibilità del dissenso
imperfetto. 4. Conclusioni: l’inquadramento della conferenza
semplificata. |
APPALTI: M.
Lipari,
La regolazione flessibile dei
contratti pubblici e le linee guida dell’ANAC nei settori
speciali
(11.04.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario. - 1. Il sistema delle fonti nel mercato
dei contratti pubblici e la regolazione flessibile.
L’estensione dei poteri dell’ANAC ai settori speciali. - 2.
L’autonomia normativa e organizzativa delle stazioni
appaltanti operanti nei settori speciali. La compatibilità
con il potere di regolazione dell’ANAC. - 3. La puntuale
indicazione delle disposizioni applicabili ai settori
speciali e il ruolo della regolazione flessibile. - 4.
L’esercizio concreto dei poteri di regolazione flessibile.
La scarsa incidenza quantitativa e qualitativa delle linee
guida nei settori speciali. - 5. L’esperienza concreta dei
bandi tipo. L’inapplicabilità diretta ai settori speciali e
l’esortazione non vincolante dell’ANAC alla loro osservanza
spontanea. - 6. L’oggettiva assenza di rilievo della
regolazione flessibile nei settori speciali e le sue
possibili ragioni. Le criticità degli strumenti innovativi
previsti dal codice. - 7. La flessibilità nelle direttive
del 2014: la duttilità degli istituti, la discrezionalità
delle singole stazioni appaltanti e la chiarezza delle norme
primarie. - 8. I principi della regolazione flessibile
affermati dalla legge n. 16/2016. - 9. Dalla
regolamentazione alla regolazione flessibile: le previsioni
del codice n. 50/2016. - 10. Le regole generali riguardanti
il procedimento di formazione della regolazione flessibile.
La pubblicazione. - 11. L’ipotesi tipica dei bandi-tipo: la
vincolatività condizionata delle prescrizioni stabilite
dall’ANAC. - 12. Le linee guida nel sistema della
regolazione flessibile: La riscontrata assenza di un modello
unitario. Le principali ipotesi di classificazione e di
qualificazione giuridica. - 13. Le LG approvate con decreto
ministeriale. La loro natura regolamentare e le criticità
aperte. La nozione sostanziale di “linee guida”. - 14. La
tecnica linguistica di espressione delle linee guida: la
Flessibilità e il carattere “aperto” della prescrizione. La
struttura “discorsiva” della statuizione: la sua
persuasività e la maggiore chiarezza analitica. - 15. La
natura regolamentare delle linee guida vincolanti.
L’efficacia delle linee guida non vincolanti. - 16. La
natura giuridica delle linee guida in materia di affidamenti
sottosoglia. - 17. Il ruolo effettivo della nozione di
regolazione flessibile nel sistema delle fonti. - 18. La
flessibilità delle regolazione in senso “diacronico” e
l’adattabilità sincronica alle mutevoli circostanze. - 19.
La flessibilità dei poteri dell’ANAC e il rispetto
dell’autonomia normativa delle regioni, delle
amministrazioni e delle stazioni appaltanti. I limiti
costituzionali dell’art. 117. Il rapporto dell’ANAC con il
Governo. - 20. Flessibilità e intensità del sindacato
giurisdizionale. Il problema specifico delle linee guida non
vincolanti. - 21. Un possibile ripensamento della espansione
della regolamentazione flessibile: il ritorno alla tecnica
normativa tradizionale? |
APPALTI:
M. Terrei,
L’indagine di mercato nelle
Linee Guida ANAC n. 4. Tra aggiornamenti, semplificazione e
nuovi obblighi.
---------------
SOMMARIO: 1 Premessa; 2) L’indagine di mercato nel
“vecchio” Codice dei Contratti d.lgs. 163/2006; 3) Il nuovo
Codice dei Contratti d.lgs. 50/2016; 4) Principi generali e
comuni; 4.1) La Direttiva 2014/24/UE; 4.2) Linee Guida non
vincolanti; 4.3) La motivazione; 4.4) Il ricorso alle
procedure ordinarie; 5); La Procedura; 5.1) La determina a
contrarre; 5.2) L’avviso e la pubblicità; 5.3) Modalità di
selezione dei concorrenti da invitare; 5.3.1) L’invito
dell’operatore uscente; 6) Indagine di mercato vs
consultazione preliminare; 7) Osservazioni conclusive (09.04.2018 -
tratto da
www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
V. Ferrara,
Informativa antimafia,
analisi delle svolte giurisprudenziali alla luce delle
modifiche normative (De Iustitia n. 1/2018 -
tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Analisi normativa della informativa
antimafia: fonti, ratio e disciplina. 2. Modifiche
dell’istituto. 3. La delimitazione dell’ambito discrezionale
della P.A.: i poteri della Prefettura. 3.1. Segue. I doveri
della Stazione Appaltante. 4. Profili processuali:
giurisdizione, competenza e rischio di contrasto tra
giudicati. 4.1. Recesso dal contratto a seguito di
informativa antimafia ed applicabilità o meno della
riduzione a metà dei termini. 5. Conclusioni. |
ENTI LOCALI:
A. Palma,
La questione della benedizione pasquale nelle scuole
pubbliche dopo la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI,
27.03.2017 n. 1388 (De Iustitia n. 1/2018
- tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive sul diritto di
libertà religiosa e sulla recente questione
dell’ammissibilità delle benedizioni pasquali negli istituti
scolastici pubblici. 2. L’ammissibilità delle attività e
delle iniziative di carattere religioso nella giurisprudenza
del TAR dell’Umbria del 2005. 3. La diversa ricostruzione
del Tar dell’Emilia Romagna del 2016 attraverso
l’interpretazione del principio di laicità come limite
assoluto e invalicabile alla libertà religiosa e alla stessa
autonomia scolastica. 4. Attività di culto, libertà
religiosa e scuola laica nella recente giurisprudenza del
Consiglio di Stato. 5. Considerazioni conclusive. |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI:
Le app per i cittadini.
DOMANDA:
Il nostro Ente ha acquistato una applicazione per smartphone
e tablet (APP) per favorire canali informativi nei confronti
della cittadinanza.
Questa APP permette anche l’invio di segnalazioni da parte
dei cittadini che possono riguardare diversi ambiti tra cui
la mancanza di illuminazioni, presenza di buche, mancata
raccolta di rifiuti, ecc.. Tali segnalazioni si generano
tramite invio di mail agli uffici comunali.
Ci chiediamo quale sia il valore legale di tali
comunicazioni ed in particolare se le stesse debbano essere
acquisite al protocollo generale oppure se è possibile
configurarle come mere “segnalazioni informali”.
RISPOSTA:
La principale questione sottesa al quesito posto concerne la
corretta qualificazione di alcune comunicazioni che
pervengono al Comune da parte dei cittadini. In particolare,
si tratta di valutare quale sia la natura e il valore di
tali comunicazioni e se le stesse debbano essere acquisite
al protocollo generale oppure se sia possibile configurarle
come mere “segnalazioni informali”.
Il Comune, infatti, ha acquistato un’applicazione per
smartphone e tablet, al fine di favorire canali informativi
nei confronti della cittadinanza che permette l’invio di
segnalazioni tramite mail agli uffici comunali da parte dei
cittadini. Sulla base delle informazioni fornite, sembra che
tali segnalazioni possano riguardare diversi ambiti (gli
esempi proposti sono di segnalazioni relative alla mancanza
di illuminazione, alla presenza di buche, alla mancata
raccolta di rifiuti, ecc.).
Ebbene, in via generale, si ritiene che non sussista una
soluzione univoca rispetto al quesito posto poiché il valore
legale delle comunicazioni e l’eventuale necessità di
protocollazione risultano legate, non tanto alla forma
mediante la quale pervengono all'amministrazione, quanto al
contenuto delle stesse e alla modalità con cui il Comune
decide di darvi seguito.
In proposito, l’art. 53, comma 5, DPR n. 445/2000 prevede
che "Sono oggetto di registrazione obbligatoria i
documenti ricevuti e spediti dall'amministrazione e tutti i
documenti informatici. Ne sono esclusi le gazzette
ufficiali, i bollettini ufficiali e i notiziari della
pubblica amministrazione, le note di ricezione delle
circolari e altre disposizioni, i materiali statistici, gli
atti preparatori interni, i giornali, le riviste, i libri, i
materiali pubblicitari, gli inviti a manifestazioni e tutti
i documenti già soggetti a registrazione particolare
dell'amministrazione".
Di conseguenza, le comunicazioni potranno essere trattate
come mere segnalazioni informali o come formali
istanze/comunicazioni a seconda del contenuto, delle
richieste rivolte all'amministrazione, della sussistenza o
meno di un conseguente obbligo di attivarsi della stessa. In
altre parole, alla luce di come verranno di volta in volta
qualificate le comunicazioni, il Comune valuterà
l’opportunità o meno della loro protocollazione. Com’è noto,
d’altra parte, il protocollo è un servizio obbligatorio
negli Enti pubblici che ha la funzione di gestire, sia in
entrata che in uscita dall'organizzazione, tutte le
scritture e documenti.
È uno strumento dal duplice valore, giuridico-probatorio e
gestionale. Sotto il primo profilo, sul registro di
protocollo vengono trascritti progressivamente i documenti e
gli atti in entrata e in uscita di un ufficio pubblico,
attribuendo certezza ai momenti di arrivo/spedizione degli
stessi; il valore gestionale, invece, è determinato
dall’attività di classificazione del documento che consente
il suo inserimento nel contesto del procedimento. Alla luce
di quanto appena esposto, non si ritiene necessario
protocollare delle mere segnalazioni informali mentre la
protocollazione risulta fondamentale in altri casi.
Fermo restando quanto appena esposto, è noto, comunque, che
le istanze e le dichiarazioni presentate alle pubbliche
amministrazioni e ai gestori di pubblici servizi per via
telematica sono valide se rispettano le modalità e i crismi
previsti dall’art. 65 D.Lgs. n. 82/2005 (CAD). Si consiglia,
pertanto, i verificare anche il rispetto del sistema da voi
utilizzato della disciplina di cui al comma 1, art. 65, CAD
(link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Ferie
non godute.
Domanda
Mi potete dare delucidazioni in merito al possibile
pagamento delle ferie non godute? Quando è ancora possibile?
Se il dipendente fa ricorso e vince, di chi è la
responsabilità?
Risposta
Il d.l. 95/2012, nell’ottica di contenere la spesa pubblica,
ha introdotto il divieto di monetizzazione delle ferie.
Il legislatore lo descrive in maniera più appropriata
declinandolo, in primis, attraverso l’obbligo di fruizione
delle ferie nel rispetto delle indicazioni contrattuali di
ciascun ordinamento e la conseguente impossibilità di dare
luogo alla corresponsione di un trattamento economico
sostitutivo, trattandosi di diritto inderogabile,
finalizzato a reintegrare le energie psico-fisiche.
Nell’àmbito del lavoro pubblico, le ferie e i riposi vanno
obbligatoriamente goduti secondo le previsioni dei
rispettivi ordinamenti, e l’affermazione del legislatore per
la quale si possano corrispondere «in nessun caso»
trattamenti economici sostitutivi va correttamente
interpretata secondo il principio dell’irrilevanza
dell’imputabilità della causa al lavoratore.
La nuova disciplina contrattuale contenuta all’art. 28
ribadisce l’irrinunciabilità alle ferie e ne viete
espressamente la monetizzazione.
È il dirigente a dover rispondere della corretta
applicazioni delle disposizioni contrattuali, di tal ciò,
ove il dipendente non le chieda, l’ente le pianifica, fino
ad ordinarle, al fine di garantirne la fruizione nei termini
previsti dalle disposizioni contrattuali.
Le ferie non fruite sono monetizzabili all’atto della
cessazione solo nei casi in cui l’impossibilità di fruire
delle stesse non è imputabile o riconducibile al dipendente
come nelle ipotesi di decesso, malattia, infortunio,
risoluzione del rapporto di lavoro per inidoneità fisica
permanente e assoluta, congedo obbligatorio per maternità o
paternità.
La violazione del divieto, oltre a comportare il recupero
delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità
disciplinare e amministrativa per il dirigente responsabile.
I ricorsi dei lavoratori che non si sono visti monetizzare
le ferie non godute hanno condotto i giudici di legittimità
ad affermare che dal mancato godimento delle ferie deriva il
diritto del lavoratore al pagamento dell’indennità
sostitutiva, che ha natura retributiva, salvo che il datore
di lavoro dimostri di avere offerto un adeguato tempo per il
godimento delle ferie, di cui il lavoratore non abbia
usufruito
(26.04.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Pubblicazione dati sezione Bandi di Concorso.
Domanda
Che cosa si pubblica esattamente nella sotto sezione BANDI
DI CONCORSO di Amministrazione Trasparente? Il nostro ente
pubblica già tutto all’albo pretorio online. Non si può
eliminare la duplicazione?
Risposta
Il decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, che ha
notevolmente modificato il Decreto Trasparenza (d.lgs.
14.03.2013, n. 33), ha avuto ripercussioni anche
sull’articolo che dispone gli obblighi di pubblicazione
relativi ai bandi di concorso (articolo 19).
Da un lato, è stata introdotta una semplificazione: è
stato rimosso l’obbligo di pubblicazione dell’elenco dei
bandi di concorso espletati nel corso dell’ultimo triennio,
con l’indicazione –per ciascuno di essi– del numero degli
assunti e delle spese sostenute dall’ente per il concorso
bandito (compenso commissari esterni; eventuale affitto
locali; materiali e attrezzature). Tutto ciò, oggi, non è
più soggetto ad obbligo di pubblicazione. E in questo caso,
le informazioni e i dati, inseriti fino al 23.12.2016 –data
di applicazione del d.lgs. 97/2016– vanno comunque
mantenuti.
Dall’altro lato, è stato, invece, introdotto
l’obbligo di pubblicare i criteri di valutazione della
commissione (contenuti, in genere, nel regolamento dei
concorsi e nei verbali della commissione) e le tracce delle
prove scritte, ovviamente dal momento della conclusione
della procedura di concorso, in aggiunta alla pubblicazione
dell’elenco dei bandi in corso, da mantenere costantemente e
tempestivamente aggiornato.
Va ricordato che l’obbligo non riguarda solo i bandi di
concorso pubblico, ma anche le procedure di mobilità in
entrata, ex articolo 30, comma 1 e comma 2-bis, del d.lgs.
165/2001, nonché le procedure selettive per le assunzioni a
tempo determinato.
Pertanto, da tutto ciò discende che le pubblicazioni
effettuate all’albo pretorio online (deliberazione,
determinazioni dirigenziali, bandi, avvisi e comunicazioni
inerenti la procedura concorsuale) non sono le medesime
richieste dal decreto trasparenza. Si aggiunge, infine, che
le pubblicazioni dei bandi su albo pretorio online e quelle
su Amministrazione trasparente > Bandi di concorso, devono
essere effettuate nel medesimo giorno, senza dare adito a
possibili contenziosi circa il rispetto dei termini per la
presentazione delle relative domande (24.04.2018 -
tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Gestione ribassi d’asta.
Domanda
L’ufficio tecnico comunale ha indetto una gara al termine
dell’anno scorso, dalla quale abbiamo ottenuto un forte
ribasso d’asta che ora vorremmo destinare ad un’opera
complementare.
Dopo aver riportato con il riaccertamento ordinario la spesa
sull’anno in corso finanziandola con l’FPV, ora come devo
gestire contabilmente la partita?
Risposta
Il Principio Contabile Applicato concernente la Contabilità
Finanziaria (allegato 4/2 al d.lgs. 118/2011), al punto 5.4,
chiarisce come procedere alla contabilizzazione delle opere
pubbliche a seguito dell’indizione di una gara.
In particolare, quanto alla previsione relativa ai ribassi
d’asta, si evidenzia che lo stesso è stato modificato
dall’art. 6-ter del d.l. 91/2017.
Nella formulazione attuale è previsto: “A seguito
dell’aggiudicazione definitiva della gara, le spese
contenute nel quadro economico dell’opera prenotate,
ancorché’ non impegnate, continuano ad essere finanziate dal
fondo pluriennale vincolato, mentre gli eventuali ribassi di
asta costituiscono economie di bilancio e confluiscono nella
quota vincolata del risultato di amministrazione se entro il
secondo esercizio successivo all’aggiudicazione non sia
intervenuta formale rideterminazione del quadro economico
progettuale da parte dell’organo competente che incrementa
le spese del quadro economico dell’opera stessa
finanziandole con le economie registrate in sede di
aggiudicazione e l’ente interessato rispetti i vincoli di
bilancio definiti dalla legge 24.12.2012, n. 243. Quando
l’opera è completata, o prima, in caso di svincolo da parte
del Responsabile Unico del Progetto, le spese previste nel
quadro economico dell’opera e non impegnate costituiscono
economie di bilancio e confluiscono nel risultato di
amministrazione coerente con la natura dei finanziamenti”.
Pertanto –ipotizzando che il Comune abbia rispettato i
vincoli di finanza pubblica previsti dalla normativa sul
Pareggio di Bilancio per l’anno 2017 (diversamente
all’aggiudicazione l’importo dell’economia deve confluire in
avanzo)– se l’Ente ha spostato con il riaccertamento
ordinario la spesa sull’anno 2018 finanziandola con l’FPV,
potrà ora mantenere prenotato l’FPV in entrata (ricordiamo
infatti che l’FPV non si accerta/impegna ma si prenota) col
quale continuare a finanziare una prenotazione di impegno
pari all’importo dei ribassi d’asta fino all’anno 2020 (“secondo
esercizio successivo all’aggiudicazione”).
Fino a tale anno potrà quindi:
1. procedere alla formale rideterminazione del quadro economico
progettuale inserendo l’opera complementare
2. una volta aggiudicata anche di quest’ultima, trasformare la
prenotazione di impegno in impegno (continuando, a quel
punto, a finanziarla con l’FPV in entrata fino al suo
completamento).
Ovviamente se ciò dovesse avvenire nel 2019 o nel 2020, con
variazione di esigibilità o nei riaccertamenti ordinari che
si renderanno necessari si dovrà provvedere a reimputare
tale spesa all’anno in cui si prevede di realizzarla (23.04.2018
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Permessi 104 a ore.
Domanda
I permessi ex art. 33, l.104/1992, per assistere un
familiare disabile, possono essere fruiti sia a giorni che
ad ore, nell’arco dello stesso mese?
Risposta
I tre giorni retribuiti al mese, finalizzati a dare tutela
alla grave disabilità, trovano disciplina sia nella legge
che nel contratto. La legge 104/1992 detta la precisa
disciplina dell’istituto e ne indica i presupposti
giustificativi, quantificando il permesso in tre giorni, su
base mensile.
È il contratto collettivo, poi, che introduce la
frazionabilità degli stessi. Lo fa all’art. 19, comma 6, del
CCNL del 06.07.1995. Questa norma verrà disapplicata dal
nuovo contratto e verrà sostituita dal nuovo articolo 33. La
nuova disciplina, in verità, non porta con sé alcuna novità
di rilievo, rimanendo invariata la formulazione letterale
della stessa.
Il contratto prevedeva e così sarà anche per il futuro, che
i permessi a giorni della Legge 104/1992, possano essere
utilizzati anche ad ore, nel limite massimo delle 18 ore
mensili.
Si tratta di capire come gestire due contatori che agiscono
con due unità di misura diversa: l’uno con i giorni, l’altro
con le ore.
Vale la pena osservare che non c’è una norma che legittima
la pretesa di un datore di lavoro di chiedere al dipendente
una modalità univoca di fruizione del permesso su base
mensile: a giorni, oppure ad ore.
Le difficoltà del corretto computo dei giorni e delle ore,
non legittimano una limitazione all’esercizio del diritto,
di questa natura.
L’Aran, in molte occasioni, ha fornito gli strumenti per
operare una corretta quantificazione del permesso, ove
fruito in modo misto su base mensile.
Innumerevoli pareri dell’Agenzia ci confermano che il
dipendente può fruire nello stesso mese sia dei permessi
orari che dei permessi giornalieri.
Nel caso di fruizione mista su base mensile, per ogni
periodo di 6 ore di permesso, va computata la corrispondente
riduzione di una giornata di permesso e, coerentemente, solo
un residuo non inferiore alle 6 ore (dal monte ore
complessivo delle 18) può comportare la fruizione di un
intero giorno di permesso, questo, anche nel caso in cui la
richiesta sia fatta per una giornata in cui il debito orario
è di 9 ore (19.04.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
APPALTI:
Codice
CPV.
Domanda
È necessario individuare il codice CPV anche per le gare di
importo inferiore ad € 40.000? Dove sono pubblicati i codici
CPV da utilizzare nelle procedure di gara?
Risposta
Come si legge nella Giuda al Vocabolario Comune degli
Appalti elaborata dalla Commissione Europa, il CPV (Common
Procurement Vocabulary), è un codice numerico che mira a
standardizzare, mediante un unico sistema di
classificazione, gli appalti pubblici, offrendo così uno
strumento adeguato ai potenziali utenti, (amministrazioni
aggiudicatrici ed operatori), in ordine alla corretta
individuazione dell’oggetto dell’affidamento.
Il Vocabolario comune per gli appalti in vigore è quello
adottato dal regolamento CE n. 213/2008, scaricabile in
formato pdf. accedendo al link
https://simap.ted.europa.eu/it/web/simap/cpv.
La Stazione appaltante dovrà individuare il codice, o i
codici nel caso di prestazioni principali e secondarie, più
aderenti possibili alle prestazioni che si intendono
acquisire.
La corretta individuazione del codice CPV è dunque
fondamentale per consentire, in particolare, l’attuazione
dell’accesso alle informazioni, nonché l’attività di
controllo e monitoraggio in forma semplificata.
Si ritiene opportuno individuare il codice anche per le gare
di importo inferiore ad € 40.000, in particolare quando
vengono utilizzate delle procedure telematiche di acquisto.
Lo stesso sistema Mepa, ad esempio, individua le prestazioni
che possono essere oggetto di procedura di acquisto
nell’ambito della categoria di abilitazione di cui al
corrispondente capitolato tecnico, mediante l’elencazione
dei codici CPV (cfr. Allegati al capitolato d’oneri).
Nel caso specifico del Mercato Elettronico della Pubblica
Amministrazione il CPV consente di verificare effettivamente
se il bene o il servizio di cui ho la necessità è
acquistabile sulla piattaforma telematica, e quindi di
rispettare la normativa sulla spending, la cui violazione
comporta procedimento disciplinare, responsabilità erariale,
nullità del contratto (18.04.2018 - tratto da e link
a www.publika.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Nuovo GDPR (General Data Protection Regulation) e
informative privacy.
Domanda
È vero che con l’entrata in vigore del GDPR 679/2016,
dovremo cambiare tutte le informative privacy, ex art. 13
d.lgs. 196/2003, che si trovano sui nostri stampati e
modulistica varia?
Risposta
Come previsto dall’art. 99 del Regolamento Europeo il
materia di privacy n. 679/2016, lo stesso è in vigore dal
25.05.2016 e si applica –dispiegando tutti i suoi effetti–
dal 25.05.2018, cioè esattamente due anni dopo.
Chiarito ciò, alla domanda può essere data risposta
affermativa, nel senso che le informative privacy, con il
nuovo regolamento, sono previste nell’art. 13 e riguardano
le “Informazioni da fornire qualora i dati personali
siano raccolti presso l’interessato”, che è la casistica
più praticata negli enti locali. Per ulteriore
approfondimento è consigliabile studiarsi tutto il Capo III
del regolamento (artt. da 12 a 23), rubricato “Diritti
dell’interessato”.
Nelle nuove informative, oltre che i riferimenti normativi
del regolamento, andranno inseriti:
a) l’identità e i dati di contatto del titolare del trattamento e,
ove applicabile, del suo rappresentante (responsabile del
trattamento);
b) i dati di contatto del responsabile della protezione dei dati
(figura nuova non prevista dalla legislazione nazionale
precedente – d.lgs. 196/2003);
c) le finalità del trattamento cui sono destinati i dati personali
nonché la base giuridica del trattamento;
d) gli eventuali destinatari o le eventuali categorie di
destinatari dei dati personali.
Le altre informazioni che dovranno essere inserite nelle
informative sono:
a) il periodo di conservazione dei dati personali oppure, se non è
possibile, i criteri utilizzati per determinare tale
periodo;
b) l’esistenza del diritto dell’interessato di chiedere al titolare
del trattamento l’accesso ai dati personali e la rettifica o
la cancellazione degli stessi o la limitazione del
trattamento che lo riguardano o di opporsi al loro
trattamento, oltre al diritto alla portabilità dei dati.
Sull’argomento –quanto mai importante, per tutte le P.A. in
vista della imminente scadenza del 25.05.2018– sarebbe
fortemente auspicabile l’emanazione di apposite Linee Guida
da parte del Garante per la protezione dei dati personali
italiano (Garante Privacy). Tale facoltà è espressamente
prevista dall’art. 13, comma 3, lettera d), della legge
25.10.2017, n. 163. Disposizione normativa con la quale il
Governo è stato delegato ad emanare uno o più decreti
legislativi di attuazione.
Il Governo attualmente in carica, ha approvato, in esame
preliminare, nella
seduta del Consiglio dei Ministri del 21.03.2018,
le “Disposizioni per l’adeguamento della normativa
nazionale alle disposizioni del Regolamento (UE) 2016/679
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.04.2016,
relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo
al trattamento dei dati personali, nonché alla libera
circolazione di tali dati, e che abroga la direttiva
95/46/CE (Regolamento generale sulla protezione dei dati)”.
Il testo del provvedimento, ad oggi, non è ancora
disponibile (17.04.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Trasformazione tempo pieno e inquadramento.
Domanda
Il nostro comune ha trasformato il rapporto di lavoro di un
dipendente inquadrato in cat. C1-C5 da tempo parziale in
tempo pieno utilizzando capacità assunzionale che aveva a
disposizione.
L’inquadramento economico del lavoratore deve rimanere nella
posizione C5, oppure il nuovo contratto deve ripartire dalla
posizione C1?
Risposta
Il dubbio dell’ente, probabilmente, dipende dal fatto che
generalmente viene affermato che la trasformazione del
rapporto a tempo parziale a tempo pieno equivale ad una
nuova assunzione.
Tale indicazione è contenuta all’art. 3, comma 101, della l.
244/2007 che indica: “Per il personale assunto con
contratto di lavoro a tempo parziale la trasformazione del
rapporto a tempo pieno può avvenire nel rispetto delle
modalità e dei limiti previsti dalle disposizioni vigenti in
materia di assunzioni”.
Come si può vedere, la disposizione si limita a precisare
che la trasformazione va svolta nel rispetto delle regole
assunzionali, nello specifico a quelle del turn-over le cui
percentuali sono di volta in volta individuate dal
legislatore.
Si ritiene, pertanto, che la trasformazione pur essendo
equiparata a “nuova assunzione” dal punto di vista
delle facoltà assunzionali, non comporti un diverso
inquadramento del dipendente rispetto alle posizioni
economiche raggiunte durante la sua vita lavorativa a tempo
parziale (12.04.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
APPALTI:
Regolamento interno per acquisizioni sotto soglia.
Domanda
Le nuove linee guida ANAC n. 4 adeguate al decreto
legislativo 56/2017, come anche la versione precedente del
2016, fanno riferimento alla esigenza che la stazione
appaltante si doti di un proprio regolamento interno per
disciplinare anche l’applicazione del principio di
rotazione.
E’ possibile fornire un chiarimento pratico anche sulla
competenza sull’adozione del regolamento (se di giunta
comunale o di consiglio) e se lo stesso possa essere
sostituito da indirizzi di carattere generale ai
responsabili di servizio?
Risposta
Secondo l’ANAC, la stazione appaltante potrebbe dotarsi
–sarebbe opportuno– di uno specifico regolamento interno (o
utilizzare all’uopo il regolamento di contabilità) per
disciplinare alcuni aspetti del procedimento semplificato
nel sottosoglia comunitario. In questo senso anche le
recenti linee guida n. 4 che, non si ritenga superfluo
rilevarlo, sono indicazioni comunque non vincolanti per la
stazione appaltante. In generale, soprattutto nel caso di
indicazioni specifiche, ogni scostamento deve risultare
adeguatamente motivato da parte del RUP.
In relazione al regolamento, effettivamente, come anche già
per le abrogate acquisizioni in economia (oggi sostituite
dal nuovo modello normativo declinato nell’articolo 36 del
codice dei contratti), la stazione appaltante potrebbe
adottare uno specifico regolamento interno la cui funzione,
più che altro considerato che le linee guida appaiono invero
esaustive, di indirizzare i vari responsabili di servizio ed
i RUP verso comportamenti omogenei.
In particolare andrebbero disciplinati con il regolamento
l’atteggiarsi pratico del principio di rotazione (che
potrebbe essere escluso in caso di successione di appalti
anche per lo stesso oggetto o oggetto riconducibile alla
stessa categoria merceologica ma per diversa fascia di
importo) e quindi per la definizione delle fasce di importo.
E’ infatti impensabile che questo aspetto venga rimesso a
ciascun responsabile di procedimento.
Nello stesso regolamento, la stazione appaltante può
disciplinar l’aspetto delle verifiche sulle dichiarazioni
sui requisiti indicando “una quota significativa minima
di controlli a campione da effettuarsi in ciascun anno
solare […] nonché le modalità di assoggettamento al
controllo e di effettuazione dello stesso”.
Nello stesso documento una disciplina ad hoc potrebbe
essere dedicata ai micro acquisti, soprattutto rispetto
all’atteggiarsi dell’affidamento diretto, che può essere
sinteticamente motivato nell’ambito di acquisti entro i
mille euro proprio con richiamo al regolamento.
Sempre nel regolamento interno, e, si ripete, per evitare
l’adozione di una moltitudine di atti, le stazioni
appaltanti possono disciplinare anche le dinamiche da
adottare nell’avvio e svolgimento delle indagini di mercato
“eventualmente distinte per fasce di importo, anche in
considerazione della necessità di applicare il principio di
rotazione”, le modalità di costituzione e le procedure
di revisione dell’elenco degli operatori economici, distinti
per categoria e fascia di importo ed i criteri di scelta dei
soggetti da invitare “a presentare offerta a seguito di
indagine di mercato o attingendo dall’elenco degli operatori
economici propri o da quelli presenti nel Mercato”.
Il regolamento dovrà disciplinare anche le dinamiche di
redazione dell’albo dei fornitori/prestatori.
Per quanto concerne la questione delle competenze. In primo
luogo, coinvolgendo il regolamento tanto i lavori quanto i
servizi e forniture, appare ovvio che ogni stazione
appaltante assegni l’obiettivo della predisposizione del
regolamento ai vari responsabili di servizio –ciascuno
coinvolto pro quota– che avranno l’indirizzo/obiettivo di
predisporre la proposta di regolamento.
L’organo competente –per l’approvazione del regolamento-,
nel caso di un comune, non potrà che essere il consiglio
comunale avendo l’atto chiara valenza esterna.
A sommesso parere, il regolamento potrà essere sostituito
con un indirizzo di carattere generale, magari predisposto
dal funzionario anticorruzione o attraverso una disposizione
concertata in conferenza di responsabili di servizi
approvati dalla giunta comunale. In questo caso,
naturalmente, non si tratterebbe di un vero e proprio
regolamento (11.04.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI:
Articolo 22, comma 3-bis, del decreto legge 24.04.2017, n.
50, convertito in legge 21.06.2017, n. 96. Quesito in merito
la possibilità di impiego della vigilanza privata addetta al
servizio di sicurezza durante le sagre paesane.
La finalità della norma è quella di
porre a carico dei privati oneri già previsti che altrimenti
sarebbero ricaduti in capo alle amministrazioni locali, e
non quella di introdurre nuove incombenze finalizzate alla
sicurezza: ne deriva pertanto che non trova spazio, in
questo contesto, l’ipotesi dell’affidamento di tali compiti
ad un corpo di vigilanza privata.
Il Sindaco chiede un parere in merito alla possibilità
d’impiego della vigilanza privata nell’espletamento del
servizio di sicurezza, in luogo degli operatori della
polizia locale, durante lo svolgimento di manifestazioni
quali le sagre paesane, con riferimento alla disciplina
introdotta dal comma 3-bis dell’articolo 22 del decreto
legge 24.04.2017, n. 50, convertito in legge 21.06.2017, n.
96.
Chiede inoltre se il servizio di vigilanza privata debba
essere previsto per ogni tipologia di manifestazione e, in
mancanza di tale servizio, se l’Amministrazione debba
emettere un provvedimento di diniego allo svolgimento della
manifestazione stessa.
Sull’applicazione della norma in questione si è espressa
l’ANCI, con nota del 23.11.2017 (prot. n. 273/SIPRICS/AR/mcc-17),
allegata alla presente, ove si evidenzia che tale
disposizione ha introdotto l’obbligo, per i privati
organizzatori o promotori dell’evento, di “farsi
interamente carico delle spese del personale della polizia
locale [1]”.
Tale obbligo presuppone che si tratti di eventi che “comportino
servizi di sicurezza e polizia stradale necessari” a
garantirne lo svolgimento, in quanto vanno ad incidere “sulla
sicurezza e la fluidità della circolazione nel territorio
dell’Ente”.
La finalità della norma in questione è quella di porre a
carico dei privati oneri già previsti che altrimenti
sarebbero ricaduti in capo alle amministrazioni locali, e
non quella di introdurre nuove incombenze finalizzate alla
sicurezza: ne deriva pertanto che non trova spazio, in
questo contesto, l’ipotesi dell’affidamento di tali compiti
ad un corpo di vigilanza privata, cui può essere affidata la
vigilanza di beni mobili o immobili, nonché altre attività
di sicurezza sussidiaria “per il cui espletamento non sia
richiesto l’esercizio di pubbliche potestà o l’impiego di
operatori appartenenti alle Forze di polizia”
[2].
Con riferimento alla gestione delle manifestazioni pubbliche
sotto il profilo della sicurezza si rammentano, infine, le
recenti circolari del Ministero dell’Interno sul tema:
- Dipartimento della pubblica sicurezza nr. 555/OP/0001991/2017/1
del 07.06.2017 [3];
- Dipartimento dei Vigili del Fuoco 0011464 del 19.06.2017. “Manifestazioni
pubbliche. Indicazioni di carattere tecnico in merito a
misure di safety [4]”;
- Gabinetto del Ministro n. 11001/110(10) del 28.07.2017. Modelli
organizzativi per garantire alti livelli di sicurezza in
occasione di manifestazioni pubbliche. Direttiva.
Alla direttiva dello scorso luglio sono allegate le linee
guida per i provvedimenti di safety da adottare nei
processi di governo e gestione delle pubbliche
manifestazioni [5],
in cui si sottolinea l’importanza che la valutazione del
livello di rischio venga effettuata in fase di ideazione, al
fine di ridurlo ad un “livello residuo considerato
accettabile [6]”.
---------------
[1] Sono escluse, tra le altre, le prestazioni che
rientrano nei servizi pubblici essenziali di cui all’art. 2
del CCNL 19.09.2002. Per il dettaglio si rinvia alla nota
ANCI allegata.
[2] Per la disciplina di riferimento delle Guardie Giurate
si rinvia agli articoli 133-141 del R.D. 18.06.1931, n. 733
(Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza – T.U.L.P.S.)
e ai D.M. n. 154 del 15.09.2009 e n. 85 del 29.01.1999. In
particolare, l’art. 139 T.U.L.P.S. prevede che “Gli uffici
di vigilanza privata sono tenuti a prestare la loro opera a
richiesta dell’autorità di pubblica sicurezza […]”. Con
riferimento ai servizi di controllo delle attività di
intrattenimento e di spettacolo in luoghi aperti al pubblico
o in pubblici esercizi, si rinvia al D.M. 06.10.2009.
[3] In questo contesto il Ministero sottolinea l’importanza
di prevedere un “adeguato numero di operatori, appositamente
formati, con compiti di accoglienza, instradamento,
regolamentazione dei flussi anche in caso di evacuazione,
osservazione ed assistenza del pubblico”.
[4] Il Ministero dell’Interno evidenzia la possibilità di
prevedere varchi di accesso presidiati con il ricorso al
servizio di stewarding, qualora non siano disponibili
apparecchiature conta persone.
[5] All’interno delle linee guida viene precisato che gli
operatori di sicurezza debbano aver conseguito una
formazione per rischio d’incendio elevato.
[6] Per gli aspetti procedurali si richiamano inoltre gli
articoli 18 e 68 del T.U.L.P.S. (11.04.2018 -
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Sindaco dipendente a tempo parziale. Collocamento in
aspettativa ed esercizio attività professionale.
La Sezione di controllo della Corte dei
conti della regione Friuli Venezia Giulia (cfr.
deliberazione n. 21 del 2016) ha evidenziato che il
legislatore regionale ha inteso prevedere in generale una
applicazione della maggiorazione dell'indennità di funzione
a tutti gli amministratori locali, ad eccezione dei casi in
cui i beneficiari dell'indennità dispongano anche di redditi
da lavoro dipendente o siano titolari di trattamento di
quiescenza.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità,
per un sindaco dipendente a tempo parziale al 50% di una
pubblica amministrazione e libero professionista, di
richiedere il collocamento in aspettativa presso l’ente di
appartenenza, continuando in seguito a svolgere attività
libero professionale (quesito sub 1.).
In caso di risposta affermativa, si è chiesto inoltre di
conoscere se il sindaco libero professionista, che sia stato
collocato in aspettativa come lavoratore dipendente a tempo
parziale, ha diritto alla maggiorazione dell’indennità di
funzione (quesito sub 2.).
Infine, si è posta la questione relativa al diritto alla
predetta maggiorazione nel caso in cui l’interessato non
opti per il collocamento in aspettativa e continui quindi a
lavorare sia come dipendente pubblico a tempo parziale, che
come libero professionista (quesito sub 3.).
In via preliminare, in relazione al collocamento in
aspettativa, è doveroso sottolineare che la questione
attiene a normativa statale, sulla cui applicazione ha
esclusiva competenza ad esprimersi il Ministero
dell’Interno, al quale si suggerisce eventualmente di
rivolgersi, al fine di acquisire l’orientamento dello
stesso. Pertanto, lo scrivente Ufficio ritiene di formulare
le seguenti considerazioni in via meramente collaborativa.
Com’è noto, l’art. 81, comma 1, del d.lgs. 267/2000 dispone
che i sindaci, i presidenti delle province, i presidenti dei
consigli comunali e provinciali, i presidenti dei consigli
circoscrizionali, i presidenti delle comunità montane e
delle unioni di comuni, nonché i membri delle giunte di
comuni e province, che siano lavoratori dipendenti, possono
essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita
per tutto il periodo di espletamento del mandato.
La ratio della citata norma consiste nella tutela
espressamente riconosciuta dal legislatore
all’amministratore locale, finalizzata a rendere concreto il
precetto di cui all’art. 51, terzo comma della Costituzione,
che fa salvo il diritto di chi è chiamato a svolgere
funzioni pubbliche elettive di disporre del tempo necessario
al loro ottimale adempimento, conservando al contempo il
posto di lavoro.
La giurisprudenza civilistica ha affermato che l’aspettativa
in argomento ha lo scopo di rendere compatibile, per i
lavoratori chiamati a funzioni pubbliche, l’espletamento di
tali funzioni con la condizione di prestatore di lavoro
subordinato [1].
A tal proposito si rappresenta che l’art. 86, comma 1, del
d.lgs. 267/2000 dispone che l’amministrazione locale assuma
a proprio carico il versamento degli oneri assistenziali,
previdenziali e assicurativi per i sindaci lavoratori
dipendenti che siano collocati in aspettativa.
Premesso un tanto, si osserva che il vigente ordinamento
consente al lavoratore dipendente a tempo parziale al 50% di
esercitare attività professionale.
Parimenti la disciplina attualmente in vigore riconosce al
lavoratore dipendente/amministratore locale il diritto di
richiedere il collocamento in aspettativa per tutta la
durata del mandato elettivo.
Non si rinviene invece alcuna norma che vieti, in tal caso,
lo svolgimento di attività professionale, né sono stati
reperiti orientamenti giurisprudenziali che abbiano
interpretato in maniera restrittiva la vigente disciplina.
Si segnala al riguardo un parere, pur risalente nel tempo
[2], nel
quale il Ministero dell’Interno ha esaminato la situazione
di un amministratore locale che, oltre ad essere pubblico
dipendente in aspettativa, svolgeva anche attività autonoma,
senza rilevare alcun profilo di criticità in relazione al
contestuale collocamento in aspettativa e al permanere
dell’esercizio dell’attività professionale.
Per quanto concerne infine i quesiti prospettati sub) 2. e
3., relativi alla spettanza della maggiorazione
dell’indennità di funzione nelle diverse fattispecie,
sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale, si espone quanto segue.
Al riguardo si ricorda che il punto 15 della deliberazione
della Giunta regionale 24.06.2011 n. 1193, la quale
determina la misura delle indennità degli amministratori
locali ai sensi –per quanto qui rileva- dell’art. 3, comma
13, della legge regionale 13/2002, stabilisce che “per
gli amministratori, ad eccezione dei lavoratori dipendenti
non collocati in aspettativa, le indennità di funzione
previste ai punti 1, 2, 3, 4, 5, 6, 11 - 1° alinea, 12, 13 e
14 sono aumentate in base” a determinate percentuali
[3].
Si rappresenta, a tal proposito, che la Sezione di controllo
della Corte dei conti della regione Friuli Venezia Giulia,
con deliberazione n. 21 del 2016, ha espressamente
esaminato, alla luce della disciplina vigente, la
problematica riguardante la compatibilità della
maggiorazione dell’indennità di funzione per gli
amministratori locali che dispongano anche di reddito da
lavoro autonomo congiunto a reddito da lavoro dipendente.
I giudici contabili hanno evidenziato che la normativa
vigente in Friuli Venezia Giulia delinea in maniera puntuale
e completa l’ambito di operatività delle maggiorazioni
previste per le indennità di funzione degli amministratori
locali.
In tale contesto si sono richiamate nello specifico le
disposizioni contenute nella deliberazione di Giunta
regionale n. 1193/2011 e nella legge regionale n. 15/2014,
[4] che
definiscono importi e maggiorazioni delle indennità
spettanti agli amministratori degli enti locali della
Regione Friuli Venezia Giulia.
In particolare –osservano i giudici contabili– l’intenzione
del legislatore regionale è stata quella di prevedere in
generale una applicazione della maggiorazione dell’indennità
di funzione a tutti gli amministratori, ad eccezione dei
casi in cui i beneficiari dell’indennità dispongano anche di
redditi da lavoro dipendente [5]
o che siano titolari di trattamento di quiescenza.
In conclusione si è affermata un’interpretazione volta a
limitare la maggiorazione dell’indennità di funzione a tutti
gli amministratori che risultino privi di altre entrate
mensili fisse, consentendo la percezione della sola
indennità base agli amministratori che dispongano anche di
redditi da lavoro dipendente (o da pensione)
[6].
Alla luce delle considerazioni suesposte, si ritiene
pertanto che la maggiorazione dell’indennità in argomento
competa soltanto nella fattispecie prospettata sub 2. di
collocamento in aspettativa senza assegni.
---------------
[1] Cfr. Cass. Civile, sentenza n. 21396 del 05.10.2006.
[2] 25.05.2005.
[3] Tale disciplina continua a trovare applicazione in via
transitoria fino all’adozione della deliberazione di cui
all’art. 41, comma 2, della l.r. 18/2015, come previsto
dall’art. 53, comma 1, della richiamata legge regionale.
[4] L’art. 14, comma 9, della l.r. 15/2014 dispone che “non
si applica agli amministratori locali, dalla data di entrata
in vigore della presente legge, la maggiorazione prevista al
punto 15 della deliberazione della Giunta regionale
1193/2011, qualora risultino titolari di trattamento di
quiescenza”.
[5] Condizione che viene meno nel caso in cui il lavoratore
dipendente abbia esercitato l’opzione per il collocamento in
aspettativa senza assegni.
[6] Per completezza, si osserva che precedentemente alla
pronuncia della Corte dei conti, sez. reg. di controllo per
il FVG, si era delineato un orientamento interpretativo che,
ai fini del diritto o meno alla maggiorazione dell’indennità
per l’amministratore contemporaneamente libero
professionista e lavoratore dipendente, si basava sul
concetto della prevalenza, in termini di redditività e di
impegno, delle due attività svolte (cfr. pareri ANCI del
24.11.2008 e dell’08.01.2009) (10.04.2018 - link
a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Gestionale sezione Amministrazione Trasparente.
Domanda
Dobbiamo cambiare il nostro sistema di gestione della
sezione web di Amministrazione Trasparente: quali sono le
caratteristiche che deve avere un gestionale efficiente e
rispettoso della normativa in materia?
Risposta
I sistemi gestionali attualmente in circolazione sono i più
disparati. A meno che non si sia vincolati dall’esistenza di
piattaforme che comprendono anche l’organizzazione della
sezione Amministrazione Trasparente, scegliere un gestionale
in questo ginepraio vuol dire identificare quello meglio che
si adegua alle specifiche esigenze degli operatori, nel
rispetto delle disposizioni normative in materia di
Trasparenza.
La struttura di Amministrazione Trasparente è stata
precisamente definita –e aggiornata– da ANAC con
deliberazione n. 1310 del 28.12.2016. In particolare,
l’allegato 1 riporta tutte le sotto sezioni da popolare con
dati e informazioni, strutturate in sotto sezioni (n. 26) di
primo e di secondo livello (n. 67).
Ciascun gestionale, prima di tutto, dovrebbe riprendere
pedissequamente l’alberatura rappresentata nella citata
deliberazione. Inoltre, un sistema gestionale ottimale,
dovrebbe anche offrire la possibilità di:
• inserire documenti organizzati in cartelle ed in sotto cartelle,
per ogni sotto sezione. Tutto ciò permette di dettagliare
con maggiore chiarezza –per il cittadino– le informazioni
che necessariamente sono rintracciabili in diversi atti
(es.: sotto sezione CONSULENTI E COLLABORATORI: per ogni
professionista, oltre all’atto di incarico, occorre
pubblicare il curriculum, la dichiarazione relativa ad altre
cariche o incarichi assunti, assieme all’attestazione
riguardante la verifica dell’insussistenza di conflitti di
interesse);
• inserire collegamenti ipertestuali (link), che permettano di
evitare la duplicazione dei contenuti (es.: sotto sezione
CONTROLLI E RILIEVI SULL’AMMINISTRAZIONE > sotto sezione
ORGANISMI INDIPENDENTI DI VALUTAZIONE > per i contenuti
riconducibili al documento dell’OIV di validazione della
Relazione sulla Performance, è opportuno inserire un
collegamento ipertestuale alla sotto sezione PERFORMANCE);
• inserire apposite descrizioni / diciture che diano conto di
situazioni particolari in cui non vi sono dati da
pubblicare, in relazione alla situazione dell’ente (es:
sotto sezione CONTROLLI E RILIEVI SULL’AMMINISTRAZIONE >
sotto sezione CORTE DEI CONTI: è consigliabile inserire una
dicitura che evidenzi –se caso– che l’ente non ha ricevuto
rilievi riguardanti l’organizzazione e le attività
dell’amministrazione).
Tutto ciò sta alla base di un sistema flessibile ed
efficiente che, in mancanza di una piattaforma gestionale
condivisa, può efficacemente incontrare le esigenze degli
operatori del settore, nell’assolvimento degli obblighi
previsti dalla normativa sulla Trasparenza (10.04.2018
- tratto da e link a www.publika.it). |
NEWS |
PUBBLICO
IMPIEGO: Vincolo
del 15% al risultato per le posizioni organizzative. Incarichi. Alla
premialità un tetto minimo dei compensi.
Finanziamento delle somme fuori del fondo delle risorse decentrate e
revisione del sistema della retribuzione di risultato sono le due principali
novità del contratto in fatto di posizioni organizzative.
La sempre più difficile fase della contrattazione integrativa ha imposto una
nuova definizione economica dei compensi per i dipendenti incaricati di
posizione organizzativa. Il meccanismo che inseriva le somme all’interno del
fondo era ormai naufragato, sempre in bilico tra scelte organizzative e
obbligo di trovare un accordo con i sindacati.
Ecco quindi l’idea: spostare
le somme della retribuzione di posizione e di risultato fuori dal fondo, con
imputazione diretta a bilancio, creando quindi l’esatta coincidenza
operativa tra enti con o senza la dirigenza. La procedura, semplice,
prevede, negli enti con la dotazione organica dirigenziale, di costituire il
nuovo fondo del 2018 al netto di quanto destinato nel 2107 alle posizioni
organizzative. Lo spostamento sul bilancio avrebbe dovuto semplificare le
relazioni con i sindacati.
Purtroppo, le cose non sono così perché viene
affermato che l’operazione va comunque effettuata nel rispetto dell’articolo
23, comma 2 del Dlgs 75/2017. Si tratta del vincolo che impedisce di
superare il valore del trattamento accessorio complessivo del 2016, di cui
entrambi gli aggregati –fondo e budget delle posizioni organizzative–
fanno parte.
Un’unica torta, quindi, ma divisa in due fette. Se gli importi di partenza
nel tempo non cambiano, non ci sarà alcun problema. Se però, ad esempio,
l’ente volesse aumentare il valore o il numero delle posizioni organizzative
con relativa riduzione della fetta del fondo delle risorse decentrate, si
dovrà passare della contrattazione integrativa decentrata. Viceversa, in
caso di diminuzione delle posizioni organizzative ci sarebbero i margini per
aumentare il fondo, ma anche in questo caso sarà necessario il confronto con
i sindacati.
L’altra spinta innovativa, che costringerà alla modifica dei sistemi di
premialità, riguarda la retribuzione di risultato. I vecchi contratti
nazionali prevedevano un range dal 10 al 25% della retribuzione di posizione
attribuita a ciascun responsabile. Ogni incaricato, quindi, contava su un “tesoretto”
calcolato sulla base dell’importo della posizione per la specifica area.
Non sarà più così, perché l’ipotesi di contratto prevede ora un unico budget
per la retribuzione di risultato del complesso delle posizioni
organizzative, dato da almeno il 15% delle somme prima destinate a
retribuzione di posizione e di risultato. Il tesoretto quindi non è più per
il singolo dipendente, ma per l’insieme degli incaricati, per cui occorre
un’immediata ridefinizione dei criteri per i premi. Anche per questo, si
dovrà passare dalla contrattazione integrativa decentrata
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.04.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Comuni,
aumenti liberi ai funzionari.
Gli aumenti delle indennità per i funzionari degli enti locali si liberano
dai tetti di spesa, e potranno quindi essere assicurati in tutte le
amministrazioni senza inciampare in contestazioni.
E fra le materie oggetto
del «confronto» con i sindacati (da oggi a giovedì si vota per le Rsu in
tutto il pubblico impiego), cioè l’etichetta che nei contratti del pubblico
impiego rimette in campo la vecchia concertazione, entrano anche i criteri
generali per la mobilità fra le sedi di lavoro dell’amministrazione, tema
che riguarda i Comuni più grandi oltre a Città metropolitane, Province e
Regioni, e le linee di pianificazione delle attività formative.
Ma è ovviamente quella economica la novità più importante fra quelle
spuntate nella versione riveduta e corretta dell’ipotesi di contratto per il
personale degli enti territoriali, che deve ora andare alla Corte dei conti
per l’ultimo esame prima della firma finale.
L’esclusione dai tetti di spesa per gli aumenti delle indennità arriva con
la forma della «dichiarazione congiunta». La conseguenza pratica è che gli
incrementi da 83,2 euro per l’indennità destinata ai titolari di «posizione
organizzativa», cioè per chi pur non essendo dirigente ha incarichi di
gestione e responsabilità, potrà essere assicurata in tutti gli enti a
prescindere dalle condizioni in cui versa il bilancio. Si supera in questo
modo uno degli scogli su cui rischiava di inciampare l’applicazione dei
nuovi contratti.
Il problema, come spesso accade, nasce da un incrocio sfortunato fra le
tante regole che provano a disciplinare la finanza pubblica. Le indennità di
posizione organizzativa, e soprattutto le loro cifre in crescita dal
prossimo anno, sono regolate dal contratto nazionale, ma finanziate dai
fondi integrativi, quelli con cui ogni ente alimenta le voci aggiuntive
della busta paga.
Ma questi fondi, come spiega il decreto attuativo della
riforma Madia sul pubblico impiego (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017)
non possono superare il livello raggiunto nel 2016 fino a quando non sarà
completata la futuribile «armonizzazione» delle buste paga di tutti i
dipendenti pubblici.
Senza il via libera interpretativo «congiunto» di
datori di lavoro e sindacati, sul modello di quanto accade per gli statali,
l’aumento delle indennità avrebbe finito per sottrarre risorse alle altre
voci finanziate dai fondi integrativi (produttività, turni, disagio e così
via) con il rischio di essere bloccati dalla mancanza di risorse nei casi
più problematici.
Sempre con l’obiettivo di evitare regole troppo rigide che rischiano di
mettere in difficoltà la gestione, con le correzioni al testo cambia il
rapporto minimo obbligatorio fra le risorse da dedicare alla retribuzione di
posizione e a quella di risultato dei funzionari: a quest’ultima voce,
misurata in base alle «performance» dei diretti interessati, dovrà andare
almeno il 15% delle somme, mentre nella versione originaria del testo il
limite era al 20 per cento.
Resta invece da sciogliere il problema della retroattività «lunga»
degli incarichi prevista dal contratto, e contestata da ministero
dell’Economia e Funzione pubblica (si veda Il Sole 24 Ore di ieri). Ma sarà
la relazione tecnica che accompagna il contratto definitivo a dire l’ultima
parola sul punto
(articolo Il Sole 24Ore del 17.04.2018). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Il
contratto inciampa sulla retroattività delle promozioni. Il governo chiede
di rivedere la decorrenza. Regioni ed enti locali. Su progressioni e premi
le obiezioni del Mef.
Sono ancora le promozioni a far inciampare l’ipotesi di contratto di Regioni
ed enti locali.
Nelle «osservazioni» di ministero dell’Economia e Funzione pubblica
che martedì hanno accompagnato il via libera del consiglio dei ministri (si
veda Il Sole 24 Ore dell’11 aprile) è finita nel mirino la retroattività
lunga prevista dal nuovo contratto per le progressioni economiche. Nessuna
obiezione, invece, sugli aumenti tabellari, che «risultano contenuti
entro i limiti delle risorse determinate nell’atto di indirizzo».
La decorrenza delle promozioni è al centro di un lungo dibattito fra l’Aran
e la Ragioneria generale. L’ipotesi di contratto firmata a febbraio prova a
risolverla (articoli 16 e 68) prevedendo che i benefici economici prodotti
dalle progressioni economiche orizzontali (quelle che aumentano la busta
paga ma non cambiano l’inquadramento) decorrano dal momento della
sottoscrizione del contratto. I ministeri premono invece per una
retroattività più breve, che si fermi al 1° gennaio dell’anno in cui arriva
al traguardo il procedimento della progressione. Tradotto, significa per
esempio che per una promozione che viene completata a febbraio del 2019
l’aumento dovrebbe decorrere dal mese prima, e non dal 2018, cioè dalla
firma dei nuovi contratti integrativi.
Con la retroattività lunga, ragionano però Economia e Funzione pubblica,
rischiano di essere cancellati ufficialmente gli obiettivi di «meritocrazia
e selettività» che da anni le norme imporrebbero alle progressioni
economiche, che dovrebbero «valorizzare le capacità reali dei dipendenti,
selezionati in base alle loro effettive conoscenze evitando di considerare
la mera anzianità di servizio e altri riconoscimenti puramente formali».
Obiettivi impossibili da raggiungere se gli aumenti possono tornare indietro
fino al momento della sottoscrizione degli integrativi, quando «non sono
noti i vincitori della procedura».
L’inghippo secondo i ministeri potrebbe produrre poi «effetti onerosi
derivanti anche dall’eventuale contenzioso» che si accenderebbe
nell’incertezza delle regole. E per evitare il rischio, il governo indica
due alternative: una clausola di salvaguardia che limiti la novità alle
progressioni regolate dagli integrativi che arriveranno in seguito al nuovo
contratto nazionale, oppure che la riservi ai casi in cui le risorse
collegate alle progressioni non siano già state utilizzate per finanziare
altri istituti contrattuali. Il governo, insomma, non sembrerebbe chiudere
del tutto la porta alla retroattività lunga, anche se il richiamo al «consolidato
orientamento» contrario e la sottolineatura che il meccanismo «non sembra
pienamente in linea con le norme» non fanno presagire una strada
semplice. Servono però almeno le clausole di salvaguardia, e la palla sul
tema ripassa ad Aran e comitato di settore.
Sempre in fatto di promozioni, resta aperto il problema il problema degli
aumenti delle indennità previsti dal nuovo contratto, che si incrociano male
con il divieto di far crescere il fondo integrativo oltre ai livelli del
2016 fissato dall’articolo 23, comma 2, del Testo unico del pubblico
impiego. Nel caso degli statali la questione è stata affrontata con una
dichiarazione congiunta che esclude gli aumenti nazionali dalla base di
calcolo per rispettare il tetto al 2016, ma nel contratto degli enti locali
la dichiarazione non c’è.
C’è invece quella sull’esclusione dal vincolo per gli incentivi alle
funzioni tecniche. Ma sul punto, rimarca il governo, bisogna aspettare le
decisioni della Corte dei conti a sezioni Riunite
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.04.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti,
cade il divieto ai sindaci nella delegazione trattante.
Non è più esplicitamente vietato che gli amministratori locali facciano
parte della delegazione trattante di parte pubblica per i contratti
integrativi.
È uno degli effetti di maggiore rilievo contenuti nell’ipotesi di contratto
collettivo nazionale del personale delle funzioni locali, che disciplina in
modo stringente le procedure della contrattazione e, in modo altrettanto
netto, individua i rappresentanti della parte pubblica e di quella
sindacale.
Che cosa cambia
Il contratto impegna le amministrazioni a nominare la delegazione trattante
di parte pubblica entro i 30 giorni successivi all’entrata in vigore del
nuovo contratto. La competenza spetta alla giunta, che deve anche indicare
il presidente, cui sono attribuiti compiti particolarmente rilevanti nella
rappresentanza dell'ente. Il contratto del 01.04.1999, all'articolo 10,
stabiliva esplicitamente che la delegazione trattante di parte pubblica
fosse composta da dirigenti o, negli enti che ne sono sprovvisti, da
funzionari individuati dall'ente.
Formulazione che ha spinto la giurisprudenza del lavoro in modo
maggioritario a ritenere illegittima la presenza degli amministratori tra i
componenti, con l'unica eccezione che l'Aran ha individuato negli
amministratori dei Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti cui
sono stati conferiti compiti di responsabili di uffici o servizi.
L’incognita che resta
Il nuovo contratto si limita a dire che l'ente nomina la delegazione
trattante di parte pubblica, senza dettare regole per la sua composizione. E
disapplica in modo formale tutte le disposizioni contenute nei precedenti
contratti su questa materia. In realtà, la conclusione che gli
amministratori possano fare parte della delegazione trattante di parte
pubblica non è automatica, perché si deve chiarire se e quanto pesi la
distinzione di carattere generale per cui ai componenti gli organi di
governo spettano unicamente compiti di indirizzo e controllo, mentre ai
dirigenti spettano i compiti di gestione.
La parte sindacale
Anche se non è più esplicitamente previsto dal contratto, si deve ritenere
che i soggetti sindacali continuino a essere la Rsu e le organizzazioni
firmatarie del contratto nazionale. A questa conclusione conducono le
disposizioni del Dlgs 165/2001. Tra le organizzazioni sindacali si registra
una diminuzione rispetto a quelle firmatarie dell'ultimo contratto di parte
normativa, il contratto nazionale dell’11.04.2008.
Scompare infatti la Dicapp (Snalcc, Fenal, Sulpm), per cui rimangono solo
Cgil Fp, Cisl Fp, Uil Fpl e Csa regioni ed autonomie locali. Tutte queste
organizzazioni, anche se non presenti nell'ente, hanno diritto ad essere
informate, e ad essere convocate per le riunioni. Senza la presenza della
Rsu non può essere validamente stipulata alcuna intesa.
Le procedure per l’avvio
L’ipotesi di contratto conferma che l'avvio delle trattative debba
concretizzarsi entro i 30 giorni successivi alla presentazione della
piattaforma da parte dei soggetti sindacali, ma a differenza dei precedenti
testi, stabilisce che comunque il loro concreto inizio è subordinato alla
costituzione della delegazione trattante di parte pubblica.
Non viene infine chiarito, ma la materia sembra appartenere più alla
competenza del legislatore, quali sono le regole da applicare nel caso di
conflitto tra i soggetti sindacali, e cioè quali sono i presupposti per
definire se l'intesa sottoscritta solo da alcuni possa essere considerata
validamente firmata.
L'intesa si limita a riproporre il vincolo a utilizzare i canoni della buona
fede, trasparenza, correttezza e responsabilità e a ricordare che lo scopo
delle relazioni sindacali è la prevenzione dei conflitti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.03.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Un'unica area per le posizioni organizzative.
Dopo ben nove anni dall'ultimo contratto collettivo e ben quasi diciotto
dalla sottoscrizione dell'ordinamento professionale, le organizzazioni
sindacali e l'Aran hanno sottoscritto l'accordo preliminare per il rinnovo
del contratto nazionale per il comparto delle funzioni locali. Uno degli
aspetti sui quali s'incide in maniera importante è quello delle posizioni
organizzative.
Nel contratto del 1999
All'epoca le posizioni organizzative hanno rappresentato una vera e propria
novità nel comparto Regioni-Autonomie Locali, in ragione dello svolgimento
di compiti specifici di particolare rilievo, a esse connessi, e delle
relative modalità di definizione, rimesse al dirigente e non solo a
disposizioni normative.
L'ordinamento professionale, introdotto dall'articolo 8 del contratto del
personale non dirigente del Comparto Regioni – Autonomie Locali del
31.03.1999, infatti, istituendo l'area delle posizioni organizzative quale
insieme delle “postazioni” di lavoro, con assunzione diretta di elevata
responsabilità di prodotto e di risultato, ipotizzava le seguenti tre
tipologie di attività:
a) direzione di unità organizzative di particolare complessità,
caratterizzate da elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa;
b) attività con contenuti di alta professionalità e
specializzazione correlate a diplomi di laurea e/o scuole universitarie e/o
alla iscrizione ad albi professionali;
c) attività di staff e/o studio, ricerca, ispettive, di vigilanza e
controllo caratterizzate da elevate autonomia ed esperienza.
Successivamente, l'articolo 10 del contratto del 22.01.2004, allo scopo di
valorizzare le «alte professionalità» del personale di categoria D
mediante il conferimento di incarichi a termine nell'ambito della disciplina
stabilita d all'articolo 8, comma 1, lettere b) e c), del contratto
31.03.1999, con valori economici più ampi rispetto a quelli delle altre
posizioni organizzative.
La nuova intesa
Con la nuova ipotesi di contratto molto cambia: in termini di
semplificazione e imputazione dei costi, non più sul fondo delle risorse
decentrate ma sul bilancio, pur nell'ambito di un'invarianza di spesa
rispetto alla quale probabilmente molto si discuterà.
L'articolo 13, comma 1, prevede che: «Gli enti istituiscono posizioni di
lavoro che richiedono, con assunzione diretta di elevata responsabilità di
prodotto e di risultato: a) lo svolgimento di funzioni di direzione di unità
organizzative di particolare complessità, caratterizzate da elevato grado di
autonomia gestionale e organizzativa; b) lo svolgimento di attività con
contenuti di alta professionalità, comprese quelle comportanti anche
l'iscrizione ad albi professionali, richiedenti elevata competenza
specialistica acquisita attraverso titoli formali di livello universitario
del sistema educativo e di istruzione oppure attraverso consolidate e
rilevanti esperienze lavorative in posizioni ad elevata qualificazione
professionale o di responsabilità, risultanti dal curriculum».
Seppure la fattispecie disciplinata dalla lettera b) continua a
caratterizzarsi per una “limitata” presenza di funzioni
organizzative, di direzione di strutture e di gestione e per la prevalenza
data ai contenuti di carattere professionale, la novità sostanziale del
nuovo assetto consiste nella previsione di un'unica area delle posizioni
organizzative, con un importo della retribuzione di posizione variabile da
un minimo di 5.000 euro a un massimo di 16.000 annui lordi per tredici
mensilità (articolo 15, comma 2), sulla base della graduazione di ciascuna
posizione organizzativa e senza distinzione tra le fattispecie di cui alle
lettere a) e b) dell’articolo 13, comma 1.
La retribuzione di risultato
Altra novità, ancor più rilevante, espressione dei recenti principi
contenuti nel nuovo assetto delle disposizioni generali sul tema della
valorizzazione dei risultati, è quella per la quale, gli enti dovranno
definire i criteri per la determinazione e per l'erogazione annuale della
retribuzione di risultato delle posizioni organizzative, destinando a questa
particolare voce retributiva una quota non inferiore al 20% delle risorse
complessivamente finalizzate alla erogazione della retribuzione di posizione
e di risultato di tutte le posizioni organizzative previste dal proprio
ordinamento.
Viene meno, pertanto, la stretta correlazione tra retribuzione di posizione
e retribuzione di risultato, in quanto la retribuzione di risultato non è
più stabilita secondo una misura percentuale (variabile tra un minimo e un
massimo) del valore della retribuzione di posizione presente nel precedente
contratto. Con la nuova ipotesi di contratto, quindi, la retribuzione di
risultato dovrà rappresentare una quota che ciascun ente avrà cura di
stabilire. Ciò che rileva, inoltre, è che per detta quota non è stabilito un
valore massimo, bensì un valore minimo (pari al 20%), a dimostrazione del
fatto che gli enti, ora, potranno dare maggiore risalto alla componente
retributiva legata al risultato.
E non solo. Nell'ipotesi di conferimento a un lavoratore, già titolare di
posizione organizzativa, di un incarico ad interim relativo ad altra
posizione organizzativa, per la durata dello stesso, al lavoratore,
nell'ambito della retribuzione di risultato, sarà possibile attribuire un
ulteriore importo con una misura variabile dal 15 al 25% del valore
economico della retribuzione di posizione prevista per la posizione
organizzativa oggetto dell'incarico ad interim. In definitiva, viene a
delinearsi un diverso quadro delle posizioni organizzative, con un assetto
simile alla dirigenza, quasi a voler sopperire contrattualmente a quella
carenza legislativa in tema di vice dirigenza che pare oramai
definitivamente abbandonata (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
06.03.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Via
ai lavori senza code e attese. Niente permessi del comune per costruire o
rinnovare. Pronto il glossario dell'edilizia libera.
In lista (in aggiornamento) almeno 58 interventi.
Sono 58 (almeno) i casi di edilizia libera. Sono censiti, in una dettagliata
tabella, dallo schema di decreto del ministro delle infrastrutture (si veda
ItaliaOggi del 23.02.2018), che contiene il «glossario unico dell'edilizia»,
un elenco delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività
edilizia libera, ossia senza alcun titolo abilitativo.
Il glossario si propone di far parlare la stessa lingua tutti gli uffici
tecnici comunali e a tutti i professionisti, alle prese con specificità
locali, quanto a prescrizioni dei piani regolatori.
Si tratta, comunque, di un cantiere aperto, in quanto, come ha segnalato un
comunicato del ministero delle infrastrutture, il completamento del
glossario unico, in relazione alle opere edilizie realizzabili mediante Cila
(Comunicazione inizio lavori asseverata), Scia (Segnalazione inizio lavori
asseverata), permesso di costruire e Scia in alternativa al permesso di
costruire, è demandato a successivi decreti da adottare con le stesse
modalità.
Dedichiamoci, quindi, all'esame delle principali voci del glossario, alla
scoperta di quello che si può fare senza dover aspettare un «sì» da parte
del comune.
I primi 25 casi di attività edilizia libera riguardano le manutenzioni
straordinarie.
Stanno alla libertà del proprietario la pavimentazione interna ed esterna,
la messa a norma dell'impianto elettrico e degli altri impianti (gas,
igienico e idro-sanitario), l'installazione di un impianto di
climatizzazione).
Altrettanto per la realizzazione di intercapedini, locali tombati, vasche di
raccolta acque.
Per l'importanza che hanno per il risparmio energetico, stanno nella casella
della edilizia libera le opere relative a pannelli solari, fotovoltaici e
generatori microeolici.
Arredo da giardino (dai barbecue alle fontane), gazebo non infissi al suolo,
giochi per i bambini, pergolati, ripostigli per attrezzi, sbarre, manufatti
per lo stallo di biciclette, tende ed elementi divisori riempiono la
categoria delle aree ludiche.
Anche roulotte, camper, case mobili e imbarcazioni rientrano nell'attività
edilizia libera, in quanto manufatti leggeri in strutture ricreative.
Stesso risultato, ma sotto etichetta diversa (opere contingenti temporanee)
si evidenzia per gazebo, stand fieristici, servizi igienici mobili,
tensostrutture e assimilabili, elementi espositivi e aree di parcheggio
provvisorio (per tutti questi casi, il glossario in commento sottolinea la
necessità della comunicazione di inizio lavori per le opere di
installazione).
Un'altra categoria di attività edilizia libera è dedicata alla eliminazione
delle barriere architettoniche: dalla installazione di ascensori e
montacarichi, rampe, apparecchi sanitari e impianti igienici e idro-sanitari
e dispositivi sensoriali.
La stessa appartenenza alle attività edilizia libera è registrata per i
movimenti terra, come la manutenzione e gestione di terreni agricoli,
vegetazione spontanea, e impianti di irrigazione e drenaggio finalizzati
alla regimazione e uso dell'acqua in agricoltura.
Attività contigua (sempre libera) è quella della installazione di serre.
Seguono le attività relative a pompe di calore, i depositi di gas di
petrolio liquefatti.
Carotaggi, perforazioni e simili riempiono la categoria delle attività di
ricerca nel sottosuolo, accomunati alle altre ipotesi di edilizia libera.
Per tutti questi interventi la tabella riporta il regime giuridico (e cioè
la qualifica di attività edilizia libera ai sensi dell'articolo 6, comma 1,
lettere da a) a e-quinquies), del Testo unico per l'edilizia, dpr n.
380/2001); le categorie di intervento, alla luce delle specifiche previste
dalla tabella A del dlgs n. 222/2016; le principali opere che possono essere
realizzate per ciascun elemento edilizio come richiesto dall'articolo 1,
comma 2 del dlgs n. 222/2016; i principali elementi oggetto di intervento,
individuati per facilitare la lettura della tabella da cittadini, imprese e
p.a. (articolo
ItaliaOggi Sette del 05.03.2018). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Principio della c.d. invarianza della soglia.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte
anomale – Principio della c.d. invarianza della soglia –
Art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016 – Impugnazione
delle ammissioni ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a. –
Applicabilità - Esclusione.
Lo sbarramento dell’art. 95, comma
15, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (principio della c.d.
invarianza della soglia) non si può applicare nel caso in
cui il concorrente abbia tempestivamente impugnato l’atto di
ammissione, nelle forme e nei termini di cui all’art. 120,
comma 2-bis, c.p.a., in assenza, al momento, di qualsivoglia
“cristallizzazione” della soglia per effetto di una
graduatoria formata sulla base di ammissioni o esclusioni
divenute inoppugnabili e immodificabili –per il rapidissimo
susseguirsi degli atti di gara– e, anzi, in pendenza di un
subprocedimento per la verifica dell’anomalia dell’offerta
risultata prima graduata ancora aperto (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che il coordinamento dell’art. 95,
comma 15, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (che ha recepito
l’analoga previsione dell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n.
163 del 2006 introdotta nel 2014) – secondo cui “Ogni
variazione che intervenga, anche in conseguenza di una
pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di
ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non
rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per
l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte”
– con la disposizione dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.
esige anzitutto che il concorrente, il quale intenda
contestare l’ammissione (o l’esclusione) di un altro
concorrente –laddove ovviamente, come nel caso di specie,
tale interesse sia attuale, immediato e concreto, per essere
stata la determinazione della soglia immediatamente
successiva all’ammissione dei concorrenti– debba farlo
immediatamente, a nulla rilevando la finalità per la quale
intenda farlo, come, appunto, per l’ipotesi in cui egli
persegua, così facendo, l’interesse –in sé del tutto
legittimo– di potere incidere sul calcolo delle medie e
della soglia di anomalia, erroneamente determinato sulla
base di una ammissione –o di una esclusione– illegittima.
Anzi, proprio in questa ipotesi, l’immediata impugnativa
dell’ammissione appare necessaria, perché l’art. 95, comma
15, d.lgs. n. 50 del 2016 ha inteso evitare che, a soglia
già cristallizzatasi (c.d. blocco della graduatoria), un
concorrente possa insorgere contro l’ammissione di un altro
non già principaliter per contestarne la legittima
ammissione alla gara, in assenza di un valido requisito, ma
solo per rimettere in discussione il calcolo delle medie e
la soglia di anomalia effettuato sulla platea dei
concorrenti, spesso molto ampia, ponendo i risultati della
gara in una situazione di perenne incertezza e determinando,
così, la caducazione, a distanza di molto tempo trascorso e
in presenza di molte risorse impiegate, dell’aggiudicazione
già intervenuta.
Proprio per questo l’art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del
2016, infatti, ha previsto l’immutabilità o invarianza della
soglia, una volta cristallizzatasi, e cioè –al pari del suo
diretto antecedente storico, l’art. 38, comma 2-bis, d.lgs.
n. 163 del 2006, di cui ricalca la formulazione– al fine di
“scoraggiare impugnazioni sui provvedimenti di ammissione
o esclusione che avessero come obiettivo soltanto quello di
modificare la media delle offerte” (C.g.a.
26.06.2017, n. 316).
Ha aggiunto la Sezione che la fase di ammissione e di
esclusione delle offerte non possa sicuramente dirsi
conclusa, anche nel vigore del nuovo codice dei contratti
pubblici, almeno finché non sia spirato il termine per
impugnare le ammissioni e le esclusioni, in modo da
consentire alle imprese partecipanti di potere contestare
immediatamente dette ammissioni ed esclusioni, laddove esse
immediatamente incidano sulla determinazione della soglia e
siano, quindi, immediatamente lesive per il concorrente
interessato (come è nel caso di specie per il brevissimo
tempo intercorso tra la fase dell’ammissione e quella di
determinazione della soglia), e comunque, laddove le
ammissioni e le esclusioni di altri partecipanti non
assumano immediata efficacia lesiva, ai fini della
determinazione della soglia, con la conseguente
impossibilità di impugnare un atto non immediatamente lesivo
per il concorrente interessato (essendosi la soglia venuta a
determinare, nel corso della gara, in un momento successivo
a quello in cui è spirato il termine per impugnare le
ammissioni e le esclusioni), finché la stessa stazione
appaltante non possa esercitare il proprio potere di
intervento di autotutela ed escludere “un operatore
economico in qualunque momento della procedura” (art.
80, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016) e, quindi, sino
all’aggiudicazione (esclusa, quindi, l’ipotesi di
risoluzione “pubblicistica” di cui all’art. 108,
comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016, successiva alla stipula del
contratto).
Un diverso orientamento, che non considerasse tale potere di
intervento in autotutela a procedura ancora aperta, da parte
dell’amministrazione, e di esclusione dei concorrenti in
qualunque momento della gara (art. 80, comma 6, d.lgs. n. 50
del 2016), creerebbe un irrigidimento non conforme ai
principî costituzionali ed europei, prima ancora che alle
disposizioni del codice, determinando una cristallizzazione
della soglia insensibile a qualsivoglia illegittimità
riscontrata in corso di gara persino dalla stessa stazione
appaltante, e, come ogni automatismo che non consenta alla
stessa di valutare in concreto le offerte presentate,
sarebbe “contrario all’interesse stesso delle
amministrazioni aggiudicatrici, in quanto queste ultime non
sono in grado di valutare le offerte loro presentate in
condizioni di concorrenza effettiva e quindi di assegnare
l’appalto in applicazione dei criteri, anch’essi stabiliti
nell’interesse pubblico, del prezzo più basso o dell’offerta
economicamente più vantaggiosa” (Corte giust. comm. ue
15.05.2008, in C. 147/06, § 29)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 27.04.2018 n. 2579
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
4. L’appello deve essere respinto.
5. La tesi dell’appellante, sostenuta anche dalla Residenza
“Riviera del Brenta”, riposa sull’assunto secondo cui Ca.Di.
non avrebbe potuto più impugnare l’ammissione di Po. alla
gara, e tanto per il principio di cui all’art. 95, comma 15,
del d.lgs. n. 50 del 2016, il quale stabilisce che «ogni
variazione che intervenga, anche in conseguenza di una
pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di
ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non
rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per
l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte».
5.1.
Come è noto, ampio è stato il
dibattito giurisprudenziale, anche nel vigore del d.lgs. n.
163 del 2016 (che,
come si dirà, conteneva analoga disposizione),
sul momento in cui debba considerarsi conclusa la
fase di ammissione, regolarizzazione od esclusione delle
offerte.
5.2. Tale regola, secondo l’appellante, si sarebbe dovuta
applicare anche al caso di specie, una volta “cristallizzatasi”
la graduatoria nel corso della seduta del 21.07.2017, come
sopra si è accennato in punto di fatto.
5.3. Il primo giudice ha ritenuto invece che, aderendo alla
tesi sostenuta in primo grado dall’Amministrazione e da Eu.
& Pr., secondo cui la disposizione dell’art. 95, comma 15,
del d.lgs. n. 50 del 2016 cristallizzerebbe sempre e
comunque i punteggi già attribuiti e la graduatoria redatta
sulla base di questi punteggi, si dovrebbe concludere che la
disposizione dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., introdotta
per effetto delle nuove disposizioni sui contratti pubblici,
«è stata partorita morta, si dovrebbe assumere che la
predetta norma ha una esclusivamente virtuale e nessun
effetto reale» (p. 9 della sentenza impugnata).
5.4. Se si vuole dare un senso al comma 2-bis dell’art. 120
c.p.a. ed eliminare l’apparente antinomia esistente tra la
predetta disposizione e quella dell’art. 95, comma 15, del
d.lgs. n. 50 del 2016, ritiene il Tribunale amministrativo
regionale per il Veneto nella sentenza qui avversata, si
deve interpretare quest’ultima nel senso che l’irrilevanza,
ai fini del calcolo delle medie e della soglia di anomalia,
di ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di
una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di
ammissione, regolarizzazione ed esclusione delle offerte,
valga non già per la tempestiva impugnazione, ai sensi
dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., dell’ammissione dei
concorrenti privi dei requisiti di partecipazione, ma
esclusivamente per l’impugnazione dell’ammissione dei
concorrenti privi dei requisiti effettuata –per l’omessa
impugnazione dell’ammissione nei termini di cui al
richiamato comma 2-bis– contestualmente con l’impugnazione
del provvedimento di aggiudicazione della gara, quale
provvedimento conclusivo della procedura concorsuale e,
comunque, per qualsiasi ulteriore esclusione di un
concorrente disposta –dalla stazione appaltante o a seguito
di apposito giudizio– successivamente alla sua espressa
ammissione.
6. La sentenza, seppure per le ragioni che
seguono, merita conferma, condividendosi nella sostanza la
conclusione, alla quale è pervenuto il primo giudice,
secondo cui lo sbarramento dell’art. 95, comma 15, del d.lgs.
n. 50 del 2016 (principio della c.d. invarianza della
soglia) non si può applicare alla presente controversia.
6.1. Il coordinamento dell’art. 95, comma
15, del d.lgs. n. 50 del 2016 –che ha recepito l’analoga
previsione dell’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del
2006 introdotta nel 2014– con la disposizione dell’art. 120,
comma 2-bis, c.p.a. esige anzitutto che il concorrente, il
quale intenda contestare l’ammissione (o l’esclusione) di un
altro concorrente –laddove ovviamente, come nel caso di
specie, tale interesse sia attuale, immediato e concreto,
per essere stata la determinazione della soglia
immediatamente successiva all’ammissione dei concorrenti–
debba farlo immediatamente, a nulla rilevando la finalità
per la quale intenda farlo, come, appunto, per l’ipotesi in
cui egli persegua, così facendo, l’interesse –in sé del
tutto legittimo– di potere incidere sul calcolo delle medie
e della soglia di anomalia, erroneamente determinato sulla
base di una ammissione –o di una esclusione– illegittima.
6.2. Anzi, proprio in questa ipotesi,
l’immediata impugnativa dell’ammissione appare necessaria,
perché l’art. 95, comma 15, del d.lgs. n. 50 del 2016 ha
inteso evitare che, a soglia già cristallizzatasi (c.d.
blocco della graduatoria), un concorrente possa insorgere
contro l’ammissione di un altro non già principaliter
per contestarne la legittima ammissione alla gara, in
assenza di un valido requisito, ma solo per rimettere in
discussione il calcolo delle medie e la soglia di anomalia
effettuato sulla platea dei concorrenti, spesso molto ampia,
ponendo i risultati della gara in una situazione di perenne
incertezza e determinando, così, la caducazione, a distanza
di molto tempo trascorso e in presenza di molte risorse
impiegate, dell’aggiudicazione già intervenuta.
6.3.
Proprio per questo l’art. 95, comma 15, del d.lgs.
n. 50 del 2016, infatti, ha previsto l’immutabilità o
invarianza della soglia, una volta cristallizzatasi, e cioè
–al pari del suo diretto antecedente storico, l’art. 38,
comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, di cui ricalca la
formulazione– al fine di «scoraggiare impugnazioni sui
provvedimenti di ammissione o esclusione che avessero come
obiettivo soltanto quello di modificare la media delle
offerte»
(Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. giurisd., 26.06.2017, n.
316, ma. v. anche Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. giurisd.,
22.12.2015, n. 740 e Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez.
giurisd., 10.07.2015, n. 456).
6.4. La consapevole scelta effettuata dal
legislatore nel 2014, allorché ha introdotto l’art. 38,
comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, previsione poi
recepita anche nel vigente codice dei contrati pubblici, è
stata infatti quella di assicurare preminente interesse alla
conservazione degli atti di gara, nonostante la successiva
esclusione di taluno dei concorrenti e nonostante l’evidente
rischio che, nelle more della partecipazione comunque
avvenuta in punto di fatto, la permanenza in gara del
concorrente in seguito escluso abbia sortito taluni effetti
in punto di determinazione delle medie e delle soglie di
anomalia (Cons.
St., sez. V, 23.02.2017, n. 847).
7. Questa ratio legis deve tenere
conto, ora, dell’art. 29, comma 1, del vigente codice dei
contratti pubblici e dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., con
la conseguenza che l’immediata impugnativa dell’atto di
ammissione, in una fase della gara nella quale l’ammissione
non si è ancora stabilizzata per essere ancora sub iudice,
non può non retroagire, una volta accolta, al momento della
illegittima ammissione, tempestivamente impugnata, in
quanto, diversamente ritenendo, la stabilizzazione della
soglia sarebbe “sterilizzata” da ogni eventuale
illegittimità di una ammissione o esclusione tempestivamente
contestata.
7.1. Il concorrente deve poter dunque
impugnare immediatamente l’ammissione dell’altro, ove sia a
conoscenza di una causa di illegittima ammissione alla
stessa, senza attendere l’esito della gara e, in
particolare, l’aggiudicazione
(v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 05.10.2016, n.
4107, Cons. Giust. Amm. Sic., sez. giurisd., 19.02.2018, n.
96), essendo il suo ricorso, in tale caso,
inammissibile non solo per difetto di interesse secondo una
valutazione già effettuata ope legis dal codice dei
contratti pubblici, che vieta nell’art. 95, comma 15, la
proposizione di azioni volte solo ad ottenere in modo
strumentale, ed ex post, la modifica della soglia, ma
anche per l’espressa previsione dell’art. 120, comma 2-bis,
c.p.a., nella parte in cui stabilisce che «l’omessa
impugnazione preclude la facoltà di far valere
l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure
di affidamento, anche con ricorso incidentale».
7.2. Il principio della c.d. invarianza
della soglia e la scelta del c.d. blocco della graduatoria,
come si è accennato, sono stati recepiti consapevolmente
anche nel nuovo codice dei contratti pubblici e, in
particolare, nell’art. 95, comma 15, del d.lgs. n. 50 del
2016, che si
applica al caso di specie.
8. Nella vicenda in esame, tuttavia, Ca.Di. si è attivata
immediatamente per contestare l’illegittima ammissione della
concorrente, nelle forme del rito superspeciale di cui
all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., avendo impugnato con un
primo ricorso tale ammissione il 14.09.2017, entro i trenta
giorni decorrenti, considerata la sospensione feriale,
dall’adozione dell’atto di ammissione di Po., risalente al
decreto dirigenziale n. 114 del 13.07.2017.
8.1. Né può sostenersi, come vorrebbe l’appellante, che la
graduatoria si fosse “cristallizzata”, al momento in
cui il ricorso fu proposto, non solo perché nessuna
graduatoria era stata ancora “ufficializzata” dalla
stazione appaltante, ma perché la fase di ammissione non
poteva dirsi conclusa, in quel momento, anche per la rapida
successione degli atti di gara, che avevano visto il 13
luglio l’ammissione delle concorrenti e, solo dopo 8 giorni,
l’apertura delle offerte e la loro graduazione, nel verbale
della seduta del 21.07.2017, atto endo-procedimentale,
quest’ultimo, privo di immediata lesività, ai sensi
dell’art. 120, comma 2-bis, ult. periodo, c.p.a. e non
impugnabile autonomamente nelle forme del rito
superspeciale.
8.2. La stessa Po., prima graduata, era stata dalla stazione
appaltante, con detto verbale del 21.07.2017, assoggettata
alla verifica dell’anomalia, conclusasi di lì a poco con
l’esclusione del 19.09.2017 e lo scorrimento della
graduatoria, di cui al decreto dirigenziale n. 149 del
19.09.2017, ritualmente impugnato da Ca.Di. con successivo
ricorso, connesso al primo e riunito a questo dalla sentenza
impugnata.
8.3. Per parte sua, va qui notato, Ca.Di., con l’istanza del
02.08.2017, ancora in pendenza del termine per impugnare
l’ammissione di Po. aveva richiesto alla stazione appaltante
di rideterminarsi in via di autotutela circa l’illegittima
ammissione di Po., proprio rappresentando la sua situazione
di irregolarità contributiva che avrebbe dovuto
determinarne, in radice e ab origine, l’esclusione
dalla gara, come ha statuito correttamente sul punto il
primo giudice, con motivazione, peraltro, che non è stata
oggetto di specifica impugnazione e sulla quale,
conseguentemente, si è formato il giudicato.
8.4. Ma il sub-procedimento di verifica dell’anomalia,
avviato dalla stazione appaltante il precedente 21.07.2017,
era proseguito senza che di tale istanza essa avesse tenuto
o dato alcun conto, concludendosi, appunto, con il
menzionato decreto n. 149 del 19.09.2017, impugnato con
successivo autonomo ricorso da Ca.Di..
8.5. È evidente, dunque, che lo
sbarramento, di cui all’art. 95, comma 15, del d. lgs. n. 50
del 2016, non può trovare applicazione ad un caso,
come il presente, nel quale la concorrente
ha tempestivamente impugnato l’atto di ammissione, nelle
forme e nei termini di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.,
in assenza, al momento, di qualsivoglia “cristallizzazione”
della soglia per effetto di una graduatoria formata sulla
base di ammissioni o esclusioni divenute inoppugnabili e
immodificabili – per il rapidissimo susseguirsi degli atti
di gara – e, anzi, in pendenza di un subprocedimento per la
verifica dell’anomalia dell’offerta risultata prima graduata
ancora aperto, subprocedimento nel corso del quale la
concorrente Carpe
Diem, terza graduata, pendendo comunque
ancora il termine per impugnare l’ammissione di Polima, ha
sollecitato la stazione appaltante ad escludere in via di
autotutela, evidentemente ai sensi dell’art. 80, comma 6,
del d. lgs. n. 50 del 2016, la prima graduata proprio per un
vizio originario – l’irregolarità contributiva – di tale
offerta.
8.6. Coerente con questa impostazione è,
del resto, l’orientamento di Cons. St.,
sez. V, 13.02.2017, n. 590 (e della consolidata
giurisprudenza da essa richiamata: v., in particolare, Cons.
St., sez. V, 16.03.2016, n. 1052),
riguardante la determinazione della soglia direttamente
conseguente all’illegittima ammissione disposta in danno
dell’impresa partecipante che, prima dell’aggiudicazione,
solleciti –come è anche avvenuto nel caso di specie– la
stazione appaltante all’esercizio del potere di autotutela,
al fine di assicurare e garantire, oltre la correttezza del
procedura concorrenziale, il buon andamento dell’azione
amministrativa disposto dall’art. 97 Cost.
8.7. Una diversa interpretazione,
quale quella propugnata dall’appellante (e dalla Residenza
“Riviera del Brenta”), si porrebbe in
contrasto non solo con gli artt. 24 e 113 Cost., ma anche
con l’appena richiamato art. 97 Cost., consentendo
l’aggiudicazione di una gara sulla base di una
determinazione della soglia ottenuta per l’effetto di una
ammissione illegittima, tempestivamente impugnata dal
concorrente interessato nelle forme e nei tempi dell’art.
120, comma 2-bis, c.p.a. e altrettanto tempestivamente
annullata dal primo giudice.
8.8. Inoltre tale diversa interpretazione,
nel creare una riserva di amministrazione sottratta a
qualsivoglia controllo di legalità, anche estrinseco, e nel
precludere al giudice amministrativo la possibilità di “accedere”
al fatto e di conoscere successive variazioni della soglia
ancorché legittimamente contestate, in base al nuovo art.
120, comma 2-bis, c.p.a., con una rituale impugnazione
dell’ammissione, si porrebbe in contrasto con il principio
di full jurisdiction, costantemente affermato dalla
Corte europea dei diritti dell’uomo
(v., in tal senso, la sentenza del 07.06.2012, Segame SA c.
France), ma anche con la costante
giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, che ritiene in
via generale non incompatibili con il diritto europeo
criterî automatici di determinazione della soglia basati
sulla media dell’insieme delle offerte ricevute, purché
consentano di valutare in concreto l’anomalia dell’offerta
(v., ex plurimis, Corte Giustizia delle Comunità
europee, 15.05.2008, in C-147/06), ma al
contempo precisa che debba trattarsi di offerte ricevute «valide».
8.9. Anche per questa ragione il Collegio,
nel condividere l’orientamento seguito dalla citata
giurisprudenza nel vigore del precedente codice dei
contratti pubblici
(v., ex plurimis, Cons. Giust. Amm. Reg. Sic.,
22.12.2015, n. 740), ritiene che la fase di
ammissione e di esclusione delle offerte non possa
sicuramente dirsi conclusa, anche nel vigore del nuovo
codice dei contratti pubblici, almeno finché non sia spirato
il termine per impugnare le ammissioni e le esclusioni, in
modo da consentire alle imprese partecipanti di potere
contestare immediatamente dette ammissioni ed esclusioni,
laddove esse immediatamente incidano sulla determinazione
della soglia e siano, quindi, immediatamente lesive per il
concorrente interessato
(come è nel caso di specie per il brevissimo tempo
intercorso tra la fase dell’ammissione e quella di
determinazione della soglia), e comunque,
laddove le ammissioni e le esclusioni di altri partecipanti
non assumano immediata efficacia lesiva, ai fini della
determinazione della soglia, con la conseguente
impossibilità di impugnare un atto non immediatamente lesivo
per il concorrente interessato (essendosi la soglia venuta a
determinare, nel corso della gara, in un momento successivo
a quello in cui è spirato il termine per impugnare le
ammissioni e le esclusioni), finché la stessa stazione
appaltante non possa esercitare il proprio potere di
intervento di autotutela ed escludere «un operatore
economico in qualunque momento della procedura» (art.
80, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016) e, quindi, sino
all’aggiudicazione (esclusa, quindi, l’ipotesi di
risoluzione “pubblicistica” di cui all’art. 108,
comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016, successiva alla stipula
del contratto).
8.10. Un diverso orientamento, che non
considerasse tale potere di intervento in autotutela a
procedura ancora aperta, da parte dell’amministrazione, e di
esclusione dei concorrenti in qualunque momento della gara
(art. 80, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016), creerebbe un
irrigidimento non conforme ai principî costituzionali ed
europei, prima ancora che alle disposizioni del codice,
determinando una cristallizzazione della soglia insensibile
a qualsivoglia illegittimità riscontrata in corso di gara
persino dalla stessa stazione appaltante, e, come ogni
automatismo che non consenta alla stessa di valutare in
concreto le offerte presentate, sarebbe «contrario
all’interesse stesso delle amministrazioni aggiudicatrici,
in quanto queste ultime non sono in grado di valutare le
offerte loro presentate in condizioni di concorrenza
effettiva e quindi di assegnare l’appalto in applicazione
dei criteri, anch’essi stabiliti nell’interesse pubblico,
del prezzo più basso o dell’offerta economicamente più
vantaggiosa»
(Corte di Giustizia delle Comunità europee, 15.05.2008, in
C. 147/06, § 29).
9. La ratio dell’art. 95, comma 15,
del d.lgs. n. 50 del 2016 mira, invece, ad evitare
impugnative strumentali, tendenti a sovvertire il calcolo
delle medie o la determinazione della soglia dell’anomalia,
ad aggiudicazione ormai avvenuta, sulla base di una platea
di concorrenti ormai cristallizzatasi per effetto di
ammissioni o esclusioni definitive, non fosse altro perché
non impugnate nei termini di cui all’art. 120, comma 2-bis,
c.p.a. o, comunque, perché ormai esauritasi la fase
amministrativa di riesame dei precedenti atti di ammissione,
all’interno della procedura (v. il già citato art. 80, comma
6, del d.lgs. n. 50 del 2016), con l’aggiudicazione, dopo un
lungo iter e il dispendio di risorse ingenti da parte
dell’amministrazione pubblica nel corso della gara.
9.1. Ma nel caso di specie, per le ragioni sin qui vedute,
Ca.Di.ha impugnato tempestivamente in primo grado sia
l’ammissione di Po., per la stessa Ca.Di. immediatamente
lesiva, sia la successiva esclusione di Po. per (la sola)
anomalia dell’offerta. |
APPALTI:
Omessa indicazione degli oneri di sicurezza nel nuovo Codice
dei contratti.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Oneri di sicurezza – Omessa indicazione separata –
Conseguenza – Art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 - Non
comporta l’esclusione.
L’obbligo di considerare
espressamente gli oneri per la sicurezza aziendale (cc.dd.
oneri interni) nell’offerta economica, ora codificato
dall’art. 95, comma 10, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, non
comporta l’automatica esclusione dell’impresa concorrente
che, pur senza evidenziarli separatamente nell’offerta, li
abbia comunque considerati nel prezzo complessivo
dell’offerta (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che la lettera dell’art. 95, comma
10, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 non autorizza in sé la
conseguenza dell’esclusione dalla gara del concorrente che
non ha indicato separatamente nell’offerta economica gli
oneri di sicurezza, non essendo prevista alcuna sanzione di
espressa esclusione nel cit. comma 10, che peraltro non
prescrive più, a differenza degli abrogati artt. 86, comma
3-bis, e 87, comma 4, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, che i
suddetti costi siano indicati “specificamente”.
Ad avviso della Sezione l’assenza di una “specifica”
indicazione degli oneri per la sicurezza interna nel testo
della nuova legge non è del resto causale, perché il
legislatore nazionale, nell’attuare la Direttiva 2014/24/UE,
non si è realmente discostato dall’orientamento
sostanzialistico del diritto eurounitario che, da ultimo ed
espressamente nell’art. 57 di tale Direttiva, non ha mai
inteso comprendere l’inadempimento di questo mero obbligo
formale –la mancata indicazione degli oneri per la sicurezza
interna separatamente dalle altre voci dell’offerta– tra le
cause di esclusione.
La soluzione automaticamente escludente si porrebbe, dunque,
in contrasto con l’indirizzo del diritto UE quale consacrato
del giudice eurounitario (v., per tutte, Corte giust. comm.
ue, sez. VI, 10.11.2016, in C-162/16), secondo cui dal
quadro della normativa eurounitaria –quello precedente della
direttiva 2004/18/CE che, però, sul punto è stata “replicata”
senza alcuna sostanziale modifica dalla direttiva
2014/14/UE– «non emerge che la mancanza di indicazioni,
da parte degli offerenti, del rispetto di tali obblighi
determini automaticamente l’esclusione dalla procedura di
aggiudicazione», ma ora, e maggior ragione, anche con il
divieto di goldplating, di cui all’art. 32, comma 1,
lett. c), l. n. 234 del 2012 e di cui all’art. 14, commi
24-bis e 24-ter, l. n. 246 del 2005.
Ha infine aggiunto la Sezione che tale conclusione non si
pone in violazione del principio del soccorso istruttorio ex
art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, il quale esclude
dal soccorso istruttorio le incompletezze afferenti
all’offerta tecnica ed economica, quando la stazione
appaltante consenta all’impresa di specificare la
consistenza degli oneri per la sicurezza già inclusi (ma non
distinti) nel prezzo complessivo dell’offerta, senza
ovviamente manipolare o modificare in corso di gara
l’offerta stessa in violazione della trasparenza e della
parità di trattamento tra i concorrenti
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 27.04.2018 n. 2554
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
5. Tale motivazione non pare al Collegio condivisibile.
5.1.
L’obbligo di considerare espressamente
gli oneri per la sicurezza aziendale (cc.dd. oneri interni)
nell’offerta economica, ora codificato dall’art. 95, comma
10, del d.lgs. n. 50 del 2016, non comporta l’automatica
esclusione dell’impresa concorrente che, pur senza
evidenziarli separatamente nell’offerta, li abbia comunque
considerati nel prezzo complessivo dell’offerta.
5.2. La lettera della legge non autorizza
in sé questa drastica conclusione, non essendo prevista
alcuna sanzione di espressa esclusione conseguente alla
violazione dell’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del
2016, che peraltro non prescrive più, a differenza degli
abrogati artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del d.lgs. n.
163 del 2006, che i suddetti costi siano indicati «specificamente».
5.3. L’assenza di una “specifica”
indicazione degli oneri per la sicurezza interna nel testo
della nuova legge, occorre qui notare, non è del resto
causale, perché il legislatore nazionale, nell’attuare la
Direttiva 2014/24/UE, non si è realmente discostato
dall’orientamento sostanzialistico del diritto eurounitario
che, da ultimo ed espressamente nell’art. 57 di tale
Direttiva, non ha mai inteso comprendere l’inadempimento di
questo mero obbligo formale –la mancata indicazione degli
oneri per la sicurezza interna separatamente dalle altre
voci dell’offerta– tra le cause di esclusione.
5.4. Non solo dunque la formalistica
soluzione escludente contrasta con la lettera dell’art. 95,
comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, che non commina
espressamente l’effetto espulsivo della concorrente per
l’inadempimento di tale obbligo, ma anche con la sua
finalità, che è quella di consentire la verifica della
congruità dell’offerta economica anche sotto il profilo
degli oneri aziendali «concernenti l’adempimento delle
disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di
lavoro», ritenuto dal codice di particolare importanza
per la sicurezza dei lavoratori, in sede di verifica
dell’anomalia, in coerenza con le previsioni del legislatore
europeo nell’art. 18, par. 2, e nell’art. 69, par. 2, lett.
d), della Direttiva 2014/24/UE e nel Considerando n. 37
della stessa Direttiva, il quale rimette agli Stati membri
l’adozione di misure non predeterminate al fine di garantire
il rispetto degli obblighi in materia di lavoro.
5.5. La soluzione automaticamente
escludente si pone, dunque, in contrasto con l’indirizzo del
diritto UE quale consacrato del giudice eurounitario
(v., per tutte, Corte di Giustizia UE, sez. VI, 10.11.2016,
in C-162/16), secondo cui dal quadro della
normativa eurounitaria –quello precedente della direttiva
2004/18/CE che, però, sul punto è stata “replicata”
senza alcuna sostanziale modifica dalla direttiva
2014/14/UE– «non emerge che la mancanza di indicazioni,
da parte degli offerenti, del rispetto di tali obblighi
determini automaticamente l’esclusione dalla procedura di
aggiudicazione», ma ora, e maggior ragione, anche con il
divieto di goldplating, di cui all’art. 32, comma 1,
lett. c), della l. n. 234 del 2012 e di cui all’art. 14,
commi 24-bis e 24-ter, della l. n. 246 del 2005.
5.6. L’isolato esame dell’art. 95, comma 10, del d.lgs. n.
50 del 2016 non è, dunque, in sé decisivo, nemmeno sulla
base dei principî contenuti nella sentenza n. 9 del
25.02.2014 dell’Adunanza plenaria, per affermare il suo
carattere imperativo, a pena di esclusione, e l’effetto
ipso iure espulsivo della mancata formale evidenziazione
degli oneri per la sicurezza nel contesto dell’offerta
economica, poiché esso deve essere letto insieme con l’art.
97, comma 5, lett. c), dello stesso codice, il quale prevede
al contrario –e in coerenza con l’art. 69, par. 2, lett. d),
della Direttiva 2014/24/UE e con tutto l’impianto della
nuova normazione europea– che la stazione appaltante escluda
il concorrente solo laddove, in sede di spiegazioni
richieste dalla stazione appaltante, detti oneri risultino
incongrui.
5.7. Il Collegio, pur nella ovvia
consapevolezza che sul punto sussistono nella giurisprudenza
nazionale orientamenti non univoci
(v. ad esempio, nella diversità dei singoli casi, nel senso
dell’automatismo escludente questo stesso Cons. St., sez. V,
07.02.2018, n. 518, TAR per la Campania, sede di Napoli,
27.03.2018, n. 1952 e, in senso contrario, TAR per il Lazio,
sede di Roma, 20.07.2017, n. 8819) e che la
stessa Corte di Giustizia, investita della questione
interpretativa delle nuove norme della Direttiva 2014/24/UE,
ha dichiarato irricevibile la questione sollevata dal
Tribunale amministrativo regionale della Basilicata per
l’assenza di interessi transfrontalieri rilevanti in quel
giudizio (Corte di
Giustizia UE, sez. VI, 23.11.2017, in C-486/17),
ritiene che l’esclusione automatica di una impresa
concorrente, nel quadro della nuova legislazione
eurounitaria e nazionale, sia illegittima, se l’impresa
dimostri, almeno in sede di giustificazioni, che
sostanzialmente la sua offerta comprenda gli oneri per la
sicurezza e che tali oneri siano congrui, come è avvenuto
nel caso in esame ove l’Azienda stessa, al di là della
questione formale, mai ha contestato, anche ai sensi e per
gli effetti dell’art. 64, comma 2, c.p.a., che detti oneri
nella sostanza non fossero congrui.
5.9. E ciò anche a prescindere, nel caso in esame, dalla
dibattuta questione della legittimità del soccorso
istruttorio, dovendosi comunque osservare che, in ogni caso,
non è violato il disposto dell’art. 83, comma 9, del d.lgs.
n. 50 del 2016, il quale esclude dal soccorso istruttorio le
incompletezze afferenti all’offerta tecnica ed economica,
quando la stazione appaltante consenta all’impresa di
specificare la consistenza degli oneri per la sicurezza già
inclusi (ma non distinti) nel prezzo complessivo
dell’offerta, senza ovviamente manipolare o modificare in
corso di gara l’offerta stessa in violazione della
trasparenza e della parità di trattamento tra i concorrenti.
6. L’art. 56, par. 3, della Direttiva 2014/24/UE consente
alle stazioni appaltanti, infatti e comunque, di chiedere
chiarimenti sulle informazioni già presenti nella
documentazione presentata dai concorrenti, informazioni che
a pieno titolo rientrerebbero tra le giustificazioni di cui
all’art. 69, par. 2, lett. d), della stessa Direttiva,
sicché il divieto di ricorrere al soccorso istruttorio per
gli elementi dell’offerta tecnica ed economica di cui
all’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016, laddove si
intendesse riferito anche ai chiarimenti sul rispetto degli
obblighi in materia di sicurezza sul lavoro, non potrebbe
mai costituire quell’eccezione consentita al legislatore
interno dall’art. 56, par. 3, della Direttiva in virtù di
una «contraria disposizione del diritto nazionale che
attua la presente direttiva», poiché il divieto di
ammettere qualsivoglia chiarimento sul punto costituirebbe
evidentemente una disposizione nazionale violativa e non
applicativa di tale Direttiva e, in parte qua, da
disapplicarsi.
6.1. Una diversa interpretazione della nuova normativa sui
contratti pubblici, quale quella seguita dal primo giudice,
si porrebbe insomma in contrasto con il quadro del diritto
eurounitario, siccome interpretato costantemente dalla Corte
di Giustizia UE, laddove, come detto, la Corte ha ribadito,
proprio con riferimento agli oneri per la sicurezza, che non
è legittimo escludere il concorrente solo per un vizio
formale dell’offerta, laddove essa abbia sostanzialmente
ricompreso nel prezzo dell’offerta detti oneri, pur senza
inizialmente specificarli separatamente in essa, ciò che del
resto non è espressamente richiesto a pena di esclusione,
come si è detto, nemmeno dal vigente art. 95, comma 10, del
d.lgs. n. 50 del 2016.
6.2. Tale era del resto, anche nel vigore del d.lgs. n. 163
del 2006, il quadro interpretativo consolidatosi dopo la
sentenza n. 19 del 27.07.2016 dell’Adunanza plenaria, poiché
la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato era ormai
costante nell’affermare che la mancata indicazione degli
oneri per la sicurezza interna presenta i caratteri di un
errore scusabile che non giustifica la sua immediata
esclusione dalla gara o l’annullamento dell’aggiudicazione,
quando non è contestato, sotto il profilo sostanziale, il
rispetto dei costi minimi imposti dagli obblighi per la
sicurezza sul lavoro (v., ex plurimis, Cons. St.,
sez. V, 06.02.2017, n. 500, Cons. St., sez. III, 09.01.2017,
n. 30, Cons. St., sez. V, 28.12.2016, n. 5475), come non è
contestato nel caso di specie ove, come si è detto, mai tale
profilo è stato contestato dall’Azienda.
6.3. Il nuovo quadro normativo, per le
ragioni vedute, non presenta dunque, ad un maggior
approfondimento, reali e decisivi elementi di “rottura”
rispetto al precedente né concretizza una soluzione di
continuità rispetto all’assestamento giurisprudenziale, che
si era convincentemente realizzato nel vigore dell’ora
abrogato d.lgs. n. 163 del 2006. |
APPALTI:
L’Adunanza plenaria si pronuncia sulla possibilità di
impugnare il bando da parte di chi non ha presentato domanda
di partecipazione e sulla immediata impugnazione delle
clausole del bando di gara che non rivestano portata
escludente.
----------------
●
Processo amministrativo – Appello – Eccezioni - Sussistenza
dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del
ricorso di primo grado – Rilevabilità d’ufficio –
Possibilità.
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Bando di gara –
Impugnazione – Operatore che non ha presentato domanda di
gara – Esclusione.
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Bando di gara –
Impugnazione immediata clausole del bando - Solo quelle
escludenti.
●
Sussiste il potere del Giudice di appello di rilevare ex
officio la esistenza dei presupposti e delle condizioni per
la proposizione del ricorso di primo grado (con particolare
riguardo alla condizione rappresentata dalla tempestività
del ricorso medesimo), non potendo ritenersi che sul punto
si possa formare un giudicato implicito, preclusivo alla
deduzione officiosa della questione (1).
●
L’operatore del settore che non ha presentato domanda di
partecipazione alla gara non è legittimato a contestare le
clausole di un bando di gara che non rivestano nei suoi
confronti portata escludente, precludendogli con certezza la
possibilità di partecipazione (2).
●
Le clausole del bando di gara che non rivestano
portata escludente devono essere impugnate unitamente al
provvedimento lesivo e possono essere impugnate unicamente
dall’operatore economico che abbia partecipato alla gara o
manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura
(3).
----------------
(1)
Cons. St., sez. V, 06.09.2017, n. 4215; id.,
sez. VI, 21.07.2016, n. 3303.
Ha chiarito l’Alto Consesso che anche dopo l’entrata in
vigore del Codice del processo amministrativo non può essere
precluso al giudice di appello di rilevare ex officio
la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la
proposizione del ricorso di primo grado né può ritenersi
che, sul punto, si possa formare un giudicato implicito,
preclusivo alla deduzione officiosa della questione; in
sostanza il giudice amministrativo, in qualsiasi stato e
grado, ha il potere e il dovere di verificare se ricorrono
le condizioni cui la legge subordina la possibilità che egli
emetta una decisione nel merito, né l'eventuale inerzia di
una delle parti in causa, nel rilevare una questione
rilevabile d'ufficio, lo priva dei relativi poteri-doveri
officiosi, atteso che la legge non prevede che la mancata
presentazione di parte di un'eccezione processuale degradi
la sua rilevabilità d'ufficio in irrilevabilità, che
equivarrebbe a privarlo dell'autonomo dovere di verifica dei
presupposti processuali e delle condizioni dell'azione.
(2) La questione era stata rimessa da
Cons. St., sez. III, ord., 07.11.2017, n. 5138.
L’Alto Consesso ha ricordato le due pronunce della stessa
Adunanza plenaria che erano intervenute sulla questione
della immediata impugnabilità del bando di gara. Ci si
riferisce all’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato 29.01.2003, n. 1
e all’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato 07.04.2011, n. 4
secondo cui:
a) la regola generale è quella per cui soltanto colui che ha
partecipato alla gara è legittimato ad impugnare l'esito
della medesima, in quanto soltanto a quest’ultimo è
riconoscibile una posizione differenziata; né quanto si
afferma sulle regole di gara in via generale potrebbe essere
in contrasto con l’assetto fondamentale della giustizia
amministrativa;
b) i bandi di gara e di concorso e le lettere di invito vanno
normalmente impugnati unitamente agli atti che di essi fanno
applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad
identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento
ed a rendere attuale e concreta la lesione della situazione
soggettiva dell'interessato;
c) possono essere tuttavia enucleate alcune eccezioni a tale
principio generale, individuandosi taluni casi in cui deve
essere impugnato immediatamente il bando di gara, nonché
particolari fattispecie in cui a tale impugnazione immediata
deve ritenersi legittimato anche colui che non ha proposto
la domanda di partecipazione.
La sentenza dell’Adunanza
plenaria 25.02.2014, n. 9, dopo avere richiamato
i propri precedenti, ha rilevato che, in materia di
controversie aventi ad oggetto gare di appalto, il tema
della legittimazione al ricorso (o titolo) è declinato nel
senso che tale legittimazione "deve essere correlata ad
una situazione differenziata e dunque meritevole di tutela,
in modo certo, per effetto della partecipazione alla stessa
procedura oggetto di contestazione" e che "chi
volontariamente e liberamente si è astenuto dal partecipare
ad una selezione non è dunque legittimato a chiederne
l'annullamento ancorché vanti un interesse di fatto a che la
competizione -per lui res inter alios acta- venga nuovamente
bandita".
E’ stato poi ivi precisato che a tale regola generale può
derogarsi, per esigenze di ampliamento della tutela della
concorrenza, solamente in tre tassative ipotesi e, cioè,
quando:
a) si contesti in radice l'indizione della gara;
b) all'inverso, si contesti che una gara sia mancata, avendo
l'amministrazione disposto l'affidamento in via diretta del
contratto;
c) si impugnino direttamente le clausole del bando assumendo che le
stesse siano immediatamente escludenti.
La giurisprudenza ha quindi a più riprese puntualizzato che
vanno fatte rientrare nel genus delle “clausole
immediatamente escludenti” le fattispecie di:
a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri
manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati
per eccesso rispetto ai contenuti della procedura
concorsuale (Cons. St., sez. IV, 07.11.2012, n. 5671);
b) regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa
o addirittura impossibile (Cons.
St., A.P., n. 3 del 2001);
c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il
calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della
partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni
irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta
(Cons.
St., sez. V, 24.02.2003, n. 980);
d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale
eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente (Cons.
St., sez. V, 21.11.2011, n. 6135; id.,
sez. III, 23.01.2015, n. 293);
e) clausole impositive di obblighi contra ius (es. cauzione
definitiva pari all'intero importo dell'appalto: Cons. St.,
sez. II, 19.02.2003, n. 2222);
f) bandi contenenti gravi carenze nell'indicazione di dati
essenziali per la formulazione dell'offerta (come ad esempio
quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli
retributivi e anzianità del personale destinato ad essere
assorbiti dall'aggiudicatario), ovvero che presentino
formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui
tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di "0"
pt.); g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta
indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza "non
soggetti a ribasso" (Cons.
St., sez. III, 03.10.2011, n. 5421).
Le rimanenti clausole, in quanto non immediatamente lesive,
devono essere impugnate insieme con l'atto di approvazione
della graduatoria definitiva, che definisce la procedura
concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal
provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della
situazione soggettiva (Cons.
St., sez. V, 27.10.2014, n. 5282) e postulano la
preventiva partecipazione alla gara.
Passando ai quesiti sottoposti, l’Adunanza plenaria ritiene
che non sussistano ragioni per ritenere che il soggetto che
non abbia presentato la domanda di partecipazione alla gara
sia legittimato ad impugnare clausole del bando che non
siano “escludenti”. L’operatore del settore che non
ha partecipato alla gara al più potrebbe essere portatore di
un interesse di mero fatto alla caducazione dell'intera
selezione (ciò, in tesi, al fine di poter presentare la
propria offerta in ipotesi di riedizione della nuova gara),
ma tale preteso interesse “strumentale” avrebbe
consistenza meramente affermata, ed ipotetica: il predetto,
infatti, non avrebbe provato e neppure dimostrato quell’“interesse”
differenziato che ne avrebbe radicato la legittimazione,
essendosi astenuto dal presentare la domanda, pur non
trovandosi al cospetto di alcuna clausola “escludente”
(nel senso ampliativo fatto proprio dalla giurisprudenza e
prima illustrato); ed anzi, tale preteso interesse avrebbe
già trovato smentita nella condotta omissiva tenuta
dall’operatore del settore, in quanto questi, pur potendo
presentare l’offerta si è astenuto dal farlo.
(3) Quanto al dies a quo a partire dal quale l’offerente
debba proporre l’impugnazione avverso le clausole del bando
prive di immediata lesività in quanto non “escludenti”,
e purtuttavia, in tesi, illegittime.
L’Adunanza ha premesso che l’esigenza di una trattazione
unitaria e concentrata nelle controversie in materia di
appalti trova conforto nell’art. 120, comma 7, c.p.a. che
eccezionalmente, per le sole controversie disciplinate dal
c.d. rito appalti, impone il ricorso ai motivi aggiunti c.d.
impropri allorquando si debbano impugnare nuovi
provvedimenti attinenti alla medesima procedura di gara
(mentre sul piano generale l’art. 104, comma 3, circoscrive
rigorosamente la proposizione dei motivi aggiunti in appello
esclusivamente nei confronti del medesimo atto -o dei
medesimi atti- che hanno costituito l'oggetto delle domande
proposte in primo grado: si veda sul punto Cons. St., A.P.,
n. 5 del 17.04.2015, capo 6.1.2.).
Ha aggiunto che né il vecchio Codice dei contratti né il
nuovo Codice consentono di rinvenire elementi per pervenire
all’affermazione che debba imporsi all’offerente di
impugnare immediatamente la clausola del bando che prevede
il criterio di aggiudicazione, ove la ritenga errata:
versandosi nello stato iniziale ed embrionale della
procedura, non vi sarebbe infatti né prova né indizio della
circostanza che l’impugnante certamente non sarebbe
prescelto quale aggiudicatario; per tal via, si imporrebbe
all’offerente di denunciare la clausola del bando sulla
scorta della preconizzazione di una futura ed ipotetica
lesione, al fine di tutelare un interesse (quello
strumentale alla riedizione della gara), certamente
subordinato rispetto all’interesse primario (quello a
rendersi aggiudicatario), del quale non sarebbe certa la non
realizzabilità.
Imporre l’immediata impugnazione di qualsiasi clausola del
bando, in questo contesto, rischierebbe di produrre le
seguenti conseguenze:
a) tutte le offerenti che ritengano di potere prospettare critiche
avverso prescrizioni del bando pur non rivestenti portata
escludente sarebbero incentivate a proporre immediatamente
l’impugnazione (nella certezza che non potrebbero proporla
successivamente);
b) al contempo, in vista del perseguimento del loro obiettivo
primario (quello dell’aggiudicazione) esse sarebbero tentate
di dilatare in ogni modo la tempistica processuale, (in
primis omettendo di proporre la domanda cautelare), così
consentendo alla stazione appaltante di proseguire
nell’espletamento della gara, in quanto, laddove si
rendessero aggiudicatarie prima che il ricorso proposto
avverso il bando pervenga alla definitiva decisione, esse
potrebbero rinunciare al detto ricorso proposto avverso il
bando, avendo conseguito l’obiettivo primario
dell’aggiudicazione;
c) soltanto laddove non si rendessero aggiudicatarie, a quel punto,
coltiverebbero l’interesse strumentale alla riedizione della
procedura di gara incentrato sul ricorso già proposto
avverso il bando.
Di converso, le stazioni appaltanti potrebbero
ragionevolmente rallentare l’espletamento delle procedure di
gara contestate, in attesa della decisione del ricorso
proposto avverso il bando.
In ultima analisi, l’effetto pressoché certo dell’abbandono
del criterio tradizionale è quello dell’(ulteriore)
incremento del contenzioso: quantomeno a legislazione
vigente, i possibili vantaggi sembrano del tutto ipotetici.
L’Adunanza plenaria ha quindi concluso nel senso che:
a) non è possibile affermare che si possa trarre dalla disposizione
di cui ai commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120 c.p.a. una
tensione espressiva di un principio generale secondo cui
tutti i vizi del bando dovrebbero essere immediatamente
denunciati, ancorché non strutturantisi in prescrizioni
immediatamente lesive in quanto escludenti;
b) sembra invece che il legislatore abbia voluto perimetrare
l’interesse procedimentale (cristallizzazione della platea
dei concorrenti, ammissioni ed esclusioni) a di cui favorire
l’immediata emersione, attraverso una puntuale e restrittiva
indicazione dell’oggetto del giudizio da celebrarsi con il
rito superaccelerato;
c) e tanto ciò è vero che inizialmente, nello schema originario del
codice dei contratti pubblici, sottoposto al parere del
Consiglio di Stato, si prevedeva un’estensione del detto
rito, ma limitata unicamente alla composizione della
commissione (come è noto, il testo definitivo ha espunto
tale indicazione, recependo i suggerimenti dell’organo
consultivo, incentrate sul vincolo imposto dalla legge di
delega, che non contemplava tali ipotesi);
d) come già colto da questo Consiglio di Stato l’intento del
legislatore è stato infatti quello di definire prontamente
la platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento
antecedente all’esame delle offerte (Cons. St., comm. spec.,
parere n. 885 dell’01.04.2016), creando un «nuovo modello
complessivo di contenzioso a duplice sequenza, disgiunto per
fasi successive del procedimento di gara, dove la raggiunta
certezza preventiva circa la res controversa della prima è
immaginata come presupposto di sicurezza della seconda»
(Cons. St., sez. V, ord., n. 1059 del 15.03.2017);
e) e ciò è avvenuto attraverso l’emersione anticipata di un
distinto interesse di natura strumentale (sia pure di nuovo
conio, come definito in dottrina) che, comunque, rimane
proprio e personale del concorrente, e quindi distinto
dall’interesse generale alla correttezza e trasparenza delle
procedure di gara;
f) né potrebbe sostenersi che la scelta “limitativa” del
legislatore possa essere tacciata di illogicità, essendo
sufficiente in proposito porre in luce che l’anticipata
emersione di tale interesse procedimentale si giustifica in
quanto la maggiore o minore estensione della platea dei
concorrenti incide oggettivamente sulla chance di
aggiudicazione (il che non avviene in riferimento a censure
attingenti clausole non escludenti del bando che perseguono
semmai la diversa -e subordinata- ottica della ripetizione
della procedura).
In conclusione, ad avviso dell’Alto Consesso anche con
riferimento al vigente quadro legislativo trova persistente
applicazione l’orientamento secondo il quale le clausole non
escludenti del bando vadano impugnate unitamente al
provvedimento che rende attuale la lesione (id est:
aggiudicazione a terzi), considerato altresì che la
postergazione della tutela avverso le clausole non
escludenti del bando, al momento successivo ed eventuale
della denegata aggiudicazione, secondo quanto già stabilito
dalla decisione dell’Adunanza plenaria n. 1 del 2003, non si
pone certamente in contrasto con il principio di concorrenza
di matrice europea, perché non lo oblitera, ma lo adatta
alla realtà dell’incedere del procedimento nella sua
connessione con i tempi del processo (Consiglio
di Stato, A.P.,
sentenza 26.04.2018 n. 4
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Revoca per ragioni di pubblica sicurezza di autorizzazioni.
---------------
●
Autorizzazione amministrativa - Revoca – Per ragioni di
pubblica sicurezza – Competenza – E’ del dirigente.
●
Autorizzazione amministrativa - Revoca – Per ragioni di
pubblica sicurezza – Discrezionalità – Limiti.
●
Se è vero che il rilascio delle autorizzazioni espressione
dell’esercizio delle funzioni di “polizia amministrativa”
rientra, ai sensi dell’art. 19, d.P.R. 24.07.1977, n. 616
nella sfera di attribuzioni della Dirigenza, il ritiro delle
stesse (sotto forma di annullamento o revoca) ovvero la
sospensione della relativa efficacia - conseguenti alle
vincolanti valutazioni espresse dalla Prefettura per ragioni
di “pubblica sicurezza”- non può che essere di pertinenza
della medesima Dirigenza, in base al noto principio del cd.
contrarius actus (1).
●
Il potere che il comma 4 dell’art. 19, d.P.R.
24.07.1977, n. 616 attribuisce al Prefetto di richiedere,
con efficacia vincolante, all’Amministrazione comunale
l’annullamento, la revoca, la sospensione dell’efficacia di
provvedimenti abilitativi relativi all’esercizio di attività
che possano pregiudicare, ovvero anche soltanto esporre a
pericolo, l’ordine pubblico o la sicurezza, è ampiamente
discrezionale, funzionale a garantire, in un corretto
bilanciamento degli interessi in gioco, una tutela avanzata
dei preminenti valori da ultimo indicati, il cui esercizio,
tuttavia, non sfugge al vaglio del giudice amministrativo
sotto il profilo della logicità, ragionevolezza, congruità e
proporzionalità (2).
---------------
(1)
Cons. St., sez. V, 23.10.2014, n. 5251; Tar Catanzaro, sez.
I, 20.12.2017, n. 2092.
Ha ricordato il Tar che il comma 4 dell’art. 19, d.P.R.
24.07.1977, n. 616 che taluni dei provvedimenti abilitativi
elencati al precedente comma 1 -tra cui quello oggetto del
ritiro oggetto del ricorso- “sono adottati previa
comunicazione al prefetto e devono essere sospesi, annullati
o revocati per motivata richiesta dello stesso”.
(2) Ha chiarito il Tar che la Prefettura è gravata da uno
stringente onere motivazionale, pacificamente assolvibile
anche mediante il mero richiamo per ralationem alle
relazioni informative delle forze dell’ordine, allorquando
le risultanze della stessa appaiano autoevidenti.
La richiesta in questione deve, infatti, essere supportata
dall’esistenza di elementi di fatto precisi, circostanziati
ed attuali, dai quali poter inferire, secondo il consueto
canone del “più probabile che non” -elaborato
nell’ambito della sia pur differente misura di polizia di
cui agli artt. 84 e ss., d.lgs. n. 159 del 2011- che
l’esercizio dell’attività oggetto dell’autorizzazione di cui
si chiede il ritiro ovvero la sospensione possa pregiudicare
ovvero esporre a pericolo l’ordine pubblico o la sicurezza.
Sul punto la giurisprudenza amministrativa, richiamando
anche l’analogo potere attribuito al Questore dall’art. 100
del Testo unico di pubblica sicurezza (r.d. n. 773 del
1931), ha più volte statuito che il Prefetto può validamente
esercitare il potere di cui all’art. 19, comma 4, d.P.R.
24.07.1977, n. 616 cit. non soltanto ove l’attività
autorizzata sia stata teatro di “tumulti o gravi
disordini” ovvero costituisca “abituale ritrovo di
persone pregiudicate o pericolose” ma anche tutte le volte
in cui la stessa, sulla base di un quadro indiziario
qualificato, circostanziato ed attuale, possa
ragionevolmente e logicamente costituire un pericolo per
l'ordine pubblico ovvero per la sicurezza dei cittadini
(TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 21.03.2018 n. 686
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Decadenza dell’impiego instaurato producendo fasi
certificati e giurisdizione giudice amministrativo.
---------------
Giurisdizione – Pubblico impiego privatizzato – Decadenza
ex art. 127, comma 1, lett. d), n. 3 del 1957 – Per
produzione falsa certificazione ai fini dell’assunzione –
Impugnazione - Giurisdizione giudice amministrativo
Rientra nella giurisdizione del
giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto la
decadenza dal servizio disposta dal Ministero delle
politiche agricole nei confronti di un proprio dirigente ai
sensi dell’art. 127, comma 1, lett. d), t.u. 10.01.1957, n.
3, con la contestuale risoluzione del rapporto individuale
di lavoro di assunzione a tempo indeterminato, essendo stati
accertato che il concorso era stato superato affermando il
possesso di un titolo di studio in realtà non posseduto (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che la decadenza dall’impiego
comminata dal Ministero ai sensi dell’art. 127, comma primo,
lett. d), del d.P.R. n. 3 del 1957, “quando sia accertato
che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di
documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile”, è
tipica ed eccezionale espressione di una potestà
pubblicistica, riconosciuta dalla legge alla pubblica
amministrazione a fronte di condotte fraudolente o decettive
aventi ad oggetto la documentazione, in apparenza attestante
l’esistenza di tutti requisiti di partecipazione al
concorso, grazie alle quali il pubblico dipendente ha
conseguito il proprio impiego.
Ha chiarito la Corte costituzionale (27.07.2009, n. 327) che
si tratta di una ipotesi che attiene ai “procedimenti di
selezione per l’accesso al lavoro e di avviamento al lavoro”,
di cui all’art. 2, comma 1, lett. c), n. 4), l. n. 421 del
1992 e, in quanto tali, espressamente escluse dal processo
di privatizzazione del pubblico impiego avviato da tale
legge, avendo il citato articolo escluso dalla giurisdizione
del giudice ordinario “le materie di cui ai numeri da 1)
a 7) della presente lettera”.
Tali procedimenti sono non a caso richiamati dal successivo
art. 69, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001 tra le materie di
cui all’art. 2, comma 1, lett. c), l. n. 421 del 1992, come
pure la Corte costituzionale ha ricordato nella citata
sentenza, e cioè tra quelle che non costituiscono oggetto
della contrattazione collettiva perché afferenti, appunto,
alle procedure concorsuali per l’assunzione e alla verifica
dei requisiti per l’accesso ai pubblici impieghi, la cui
cognizione spetta al giudice amministrativo ai sensi
dell’art. 63, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001.
Il potere di decadenza in esame è sul piano generale
giustificato, per un verso, dal divieto di instaurare o
proseguire rapporti di pubblico impiego con soggetti che
abbiano agito in violazione del principio di lealtà, che
costituisce uno dei cardini dello stesso rapporto (art. 98
Cost.), e per altro dall’esigenza di tutelare l’eguaglianza
dei concorrenti, pregiudicati dalla sleale competizione con
chi abbia partecipato alla selezione con documenti falsi e/o
viziati (art. 97 Cost.).
Se tale è la ratio di questo potere, quale delineata
dalla sentenza n. 327 del 2009 della Corte costituzionale,
non vi è dubbio che a fronte del suo esercizio, inteso a
sanzionare ex post, una volta che sia emersa, la
slealtà e la scorrettezza delle gravi condotte che hanno
falsato la selezione, vi sia una situazione di interesse
legittimo del pubblico dipendente al corretto esercizio di
un simile potere connesso, in modo più o meno diretto, al
procedimento di selezione, potere che radica la
giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art.
63, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001 e, comunque, ai sensi
dell’art. 7, comma 1, c.p.a.
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 20.04.2018 n. 2399
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
3. L’appello è fondato e va accolto.
3.1.
La decadenza dall’impiego comminata dal Ministero nei
confronti dell’odierna appellante ai sensi dell’art. 127,
comma primo, lett. d), del d.P.R. n. 3 del 1957, «quando
sia accertato che l’impiego fu conseguito mediante la
produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non
sanabile», è tipica ed eccezionale espressione di una
potestà pubblicistica, riconosciuta dalla legge alla
pubblica amministrazione a fronte di condotte fraudolente o
decettive aventi ad oggetto la documentazione, in apparenza
attestante l’esistenza di tutti requisiti di partecipazione
al concorso, grazie alle quali il pubblico dipendente ha
conseguito il proprio impiego.
3.2. Si tratta di una ipotesi che, come ha a chiare lettere
riconosciuto la Corte costituzionale nella sentenza n. 327
del 27.07.2009, attiene ai «procedimenti di selezione per
l’accesso al lavoro e di avviamento al lavoro», di cui
all’art. 2, comma 1, lett. c), n. 4), della l. n. 421 del
1992 e, in quanto tali, espressamente escluse dal processo
di privatizzazione del pubblico impiego avviato da tale
legge, avendo il citato articolo escluso dalla giurisdizione
del giudice ordinario «le materie di cui ai numeri da 1) a
7) della presente lettera».
3.3. Tali procedimenti sono non a caso richiamati dal
successivo art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 tra
le materie di cui all’art. 2, comma 1, lett. c), della l. n.
421 del 1992, come pure la Corte costituzionale ha ricordato
nella citata sentenza, e cioè tra quelle che non
costituiscono oggetto della contrattazione collettiva perché
afferenti, appunto, alle procedure concorsuali per
l’assunzione e alla verifica dei requisiti per l’accesso ai
pubblici impieghi, la cui cognizione spetta al giudice
amministrativo ai sensi dell’art. 63, comma 4, del d.lgs. n.
165 del 2001.
3.4. Il potere di decadenza in esame è sul piano generale
giustificato, per un verso, dal divieto di instaurare o
proseguire rapporti di pubblico impiego con soggetti che
abbiano agito in violazione del principio di lealtà, che
costituisce uno dei cardini dello stesso rapporto (art. 98
Cost.), e per altro dall’esigenza di tutelare l’eguaglianza
dei concorrenti, pregiudicati dalla sleale competizione con
chi abbia partecipato alla selezione con documenti falsi e/o
viziati (art. 97 Cost.).
3.5. Se tale è la ratio di questo potere, quale
delineata dalla sentenza n. 327 del 2009 della Corte
costituzionale (e non solo, come erroneamente assume il TAR,
con riferimento alla fattispecie dell’art. 128, comma
secondo, del d.P.R. n. 3 del 1957, che disciplina gli
effetti della decadenza, ma anche e anzitutto
all’inscindibile presupposto dell’art. 127, comma primo,
lett. d), dello stesso d.P.R., che regola la decadenza
stessa), non vi è dubbio che a fronte del suo esercizio,
inteso a sanzionare ex post, una volta che sia
emersa, la slealtà e la scorrettezza delle gravi condotte
che hanno falsato la selezione, vi sia una situazione di
interesse legittimo del pubblico dipendente al corretto
esercizio di un simile potere connesso, in modo più o meno
diretto, al procedimento di selezione, potere che radica la
giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art.
63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 e, comunque, ai
sensi dell’art. 7, comma 1, c.p.a.
3.6. Né rileva, in senso ostativo all’affermazione della
giurisdizione del giudice amministrativo, il mero dato
cronologico e, cioè, il momento in cui tale provvedimento di
decadenza è intervenuto, potendo esso sopraggiungere, come
spesso accade, anche quando il rapporto di impiego sia da
tempo avviato, perché, a differenza dell’annullamento in
autotutela che, ordinariamente, soggiace a inevitabili
limiti temporali (art. 21-nonies, comma 1,della l. n. 241
del 1990, siccome modificato dalla l. n. 124 del 2015),
la
decadenza ex nunc non implica quella rivalutazione
dell’interesse pubblico, tipica dell’autotutela, sulla quale
di necessità influisce il decorso di un tempo non
irragionevole (v., sul punto, Cons. St., sez. III,
10.07.2013, n. 3707), ma costituisce una sanzione
discendente dall’accertamento, anche a distanza di tanti
anni, di condotte gravemente scorrette o addirittura
fraudolente, che hanno consentito o favorito l’attestazione
documentale di requisiti inesistenti e, con ciò,
l’instaurazione, ab origine insanabilmente viziata,
del rapporto di pubblico impiego.
3.7. La circostanza che, in tal modo, il provvedimento di
decadenza incida inevitabilmente sul rapporto di impiego,
risolvendolo, costituisce l’effetto necessitato di tale
provvedimento e non già la sua causa, sicché non può
affermarsi, come invece ha ritenuto il primo giudice, che
qui si controverta di una risoluzione del rapporto di lavoro
anche solo, in ipotesi, “mascherata” dalla formale adozione
del provvedimento di decadenza.
3.8. Ne segue che a fronte di tale potere autoritativo, ai
sensi dell’art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 e,
comunque, ai sensi dell’art. 7, comma 1, c.p.a., debba
affermarsi la giurisdizione del giudice amministrativo, con
la conseguente rimessione della causa, prevista dall’art.
105, comma 1, c.p.a., al Tribunale amministrativo regionale
per il Lazio, sede di Roma. |
APPALTI:
Il tardivo pagamento del contributo all’Anac non comporta la
revoca dell’aggiudicazione.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Contributo
Anac – Revoca aggiudicazione – Illegittimità.
E’ illegittima la revoca
dell’aggiudicazione disposta a causa del tardivo pagamento
–in data successiva a quella di scadenza delle offerte- del
contributo ex art. 1, comma 67, l. 23.12.2005, n. 266 a
favore dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (1).
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(1)
Ha ricordato la Sezione che la Corte di giustizia UE
(02.06.2016, C 27/15) ha affermato che i principi di tutela
del legittimo affidamento, certezza del diritto e
proporzionalità ostano ad una regola dell’ordinamento di uno
Stato membro che consenta di escludere da una procedura di
affidamento di un contratto pubblico l’operatore economico
non avvedutosi di una simile conseguenza, perché non
espressamente indicata dagli atti di gara. Il giudice
europeo ha in particolare ritenuto contrario ai principi
dallo stesso posti a base della propria pronuncia
l’operazione attraverso cui la causa di esclusione dalla
gara è ricavata sulla base di un’interpretazione estensiva
di talune previsioni dell’ordinamento positivo dello stesso
Stato membro e, poi, di una etero-integrazione sotto questo
profilo degli atti di gara.
Ad avviso della Sezione il caso esaminato dalla Corte di
giustizia appare dunque in termini con quello oggetto del
presente giudizio, dal momento che, in primo luogo, esso
verte appunto sul medesimo contributo di cui all’art. 1,
comma 67, l. 23.12.2005, n. 266, e in secondo luogo che la
lettera di invito con cui la procedura di affidamento è
stata indetta non prevedeva in modo espresso l’esclusione
per il caso di mancato versamento di tale somma.
Quanto al ricorso al c.d. soccorso istruttorio la Sezione ha
ricordato che il giudice europeo (28.02.2018, C 523/16 e C
536/16) ha ritenuto conforme ai principi di parità di
trattamento e di trasparenza nella materia dei contratti
pubblici un meccanismo di soccorso istruttorio (allora
previsto dall’art. 38, comma 2 bis, del previgente Codice
dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 12.04.2006, n. 163)
inteso a salvaguardare la partecipazione alla procedura di
affidamento in caso di irregolarità essenziali, purché ciò
non avvenga in caso di carenze documentali sanzionate in
modo espresso con l’esclusione o sia così consentito
all’operatore economico di formulare nella sostanza una
nuova offerta.
Ebbene, simili evenienze non sono configurabili nel caso di
mancato versamento del contributo ai favore dell’Anac,
laddove non richiesto a pena di esclusione dalla normativa
di gara, dal momento che tale adempimento non inerisce “all’offerta
economica e all’offerta tecnica”, per il quale la
regolarizzazione della domanda di partecipazione alla gara
ai sensi dell’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50
è preclusa (nella versione risultante dalle modifiche
introdotte con il correttivo al Codice dei contratti
pubblici, di cui al d.lgs. 19.04.2017, n. 56, con funzione
di chiarificazione rispetto alla versione originaria)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.04.2018 n. 2386
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
5. Deve innanzitutto sottolinearsi che
proprio con
riguardo al caso dell’omesso versamento del contributo per
il funzionamento dell’Autorità nazionale anticorruzione
odierna appellante la Corte di giustizia ha affermato che i
principi di tutela del legittimo affidamento, certezza del
diritto e proporzionalità ostano ad una regola
dell’ordinamento di uno Stato membro che consenta di
escludere da una procedura di affidamento di un contratto
pubblico l’operatore economico non avvedutosi di una simile
conseguenza, perché non espressamente indicata dagli atti di
gara (sentenza della Corte di giustizia UE,
02.06.2016, C
27/15, sopra citata, e posta dall’originaria ricorrente a
fondamento delle proprie censure).
Il giudice europeo ha in
particolare ritenuto contrario ai principi dallo stesso
posti a base della propria pronuncia l’operazione attraverso
cui la causa di esclusione dalla gara è ricavata sulla base
di un’interpretazione estensiva di talune previsioni
dell’ordinamento positivo dello stesso Stato membro e, poi,
di una etero-integrazione sotto questo profilo degli atti di
gara.
6. Il caso esaminato dalla Corte di giustizia appare dunque
in termini con quello oggetto del presente giudizio, dal
momento che, in primo luogo, esso verte appunto sul medesimo
contributo di cui all’art. 1, comma 67, l. n. 266 del 2005,
e in secondo luogo che la lettera di invito con cui la
procedura di affidamento è stata indetta non prevedeva in
modo espresso l’esclusione per il caso di mancato versamento
di tale somma.
Inoltre, come evidenziato dal Tribunale amministrativo,
conduce a rafforzare questo convincimento la circostanza,
non contestata nel presente appello, che l’Istituto
Nazionale di Fisica Nucleare non aveva richiesto alla
società originaria ricorrente di provvedere al pagamento del
contributo allorché la stessa stazione appaltante si era
avveduta del mancato versamento ad iniziativa di
quest’ultima.
7. Non giova poi alle appellanti richiamare i limiti
all’esercizio del potere di soccorso istruttorio previsti
dall’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016.
Infatti, sul punto va ancora una volta richiamata in senso
contrario la giurisprudenza della Corte di giustizia
dell’Unione europea. Con una recente pronuncia
il giudice
europeo ha infatti ritenuto conforme ai principi di parità
di trattamento e di trasparenza nella materia dei contratti
pubblici un meccanismo di soccorso istruttorio (allora
previsto dall’art. 38, comma 2-bis, del previgente codice
dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163) inteso a salvaguardare la
partecipazione alla procedura di affidamento in caso di
irregolarità essenziali, purché ciò non avvenga in caso di
carenze documentali sanzionate in modo espresso con
l’esclusione o sia così consentito all’operatore economico
di formulare nella sostanza una nuova offerta (cfr. Corte di
giustizia UE, sentenza 28.02.2018, C 523/16 e C 536/16
- MA.T.I. SUD s.p.a.).
Ebbene, simili evenienze non sono configurabili nel caso di
mancato versamento del contributo ai favore dell’ANAC,
laddove non richiesto a pena di esclusione dalla normativa
di gara, dal momento che tale adempimento non inerisce
«all’offerta economica e all’offerta tecnica», per il quale
la regolarizzazione della domanda di partecipazione alla
gara ai sensi dell’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 è
preclusa (nella versione risultante dalle modifiche
introdotte con il correttivo al codice dei contratti
pubblici, di cui al decreto legislativo 19.04.2017, n.
56, con funzione di chiarificazione rispetto alla versione
originaria).
9. Per le ragioni finora esposte l’appello deve pertanto
respinto, ma la peculiarità delle questioni controverse
giustifica la compensazione integrale delle spese del grado
di giudizio. |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo l’orientamento “granitico” della giurisprudenza amministrativa “Va
chiarito che in materia di contributi derivanti dal rilascio
di concessione edilizia sussiste la giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo e tale giurisdizione sussiste
anche quando attiene alla richiesta di pagamento del
contributo per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti
sanzioni.
Sebbene, infatti, l’art. 16 della l. 28.01.1977 n. 10 sia
stato abrogato dall’art. 136, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n.
380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell’art. 3, d.l.
20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l.
01.08.2002, n. 185, le controversie in materia di oneri di
urbanizzazione devono ritenersi tuttora attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in
materia di urbanistica e di edilizia… non avendo tra l’altro
detti oneri natura tributaria, bensì natura di corrispettivo
di diritto pubblico avente la funzione di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione.
Invero, atteso che le
controversie che hanno ad oggetto la legittimità o meno del
contributo relativo a concessione edilizia vertono
sull’esistenza o sulla misura di una obbligazione
direttamente stabilita dalla legge, l’atto con cui
l’Amministrazione comunale provvede in merito alla
determinazione del contributo concessorio non ha natura
autoritativa e la posizione del soggetto nei cui confronti è
richiesto il pagamento, è di diritto soggettivo e non di
interesse legittimo.
Conseguentemente la giurisdizione del
giudice amministrativo in materia ha per oggetto tutte le
controversie inerenti all’an e al quantum della pretesa
contributiva del comune, (mentre la competenza dell’a.g.o. è
limitata alle sole questioni inerenti il recupero in
executivis del credito contributivo)”.
---------------
Il Comune ricorrente adiva l’intestata Sezione chiedendo che
venisse ingiunta sia al resistente Co.An., sia al
fiudeiussore di quest’ultimo UNIPOLSAI Assicurazioni s.p.a.,
il pagamento della somma di euro 41.405,09, oltre interessi,
a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di costruzione
nonché sanzioni, dovuti a seguito del rilascio della
concessione edilizia n. 39/2012 prot. 3840, non corrisposti
alle scadenze formalizzate.
Con decreto ingiuntivo n. 3898/2016 del 20.07.2016 veniva
accolta la domanda proposta nei confronti di entrambi (id
est, resistente e fideiussore).
Quindi, con ricorso in opposizione, parte resistente
impugnava il citato decreto ingiuntivo deducendo, ex adverso,
il difetto di giurisdizione del giudice adito sia perché in
via generale la materia in discussione non rientrava
nell’ambito della giurisdizione esclusiva ex art. 118 c.p.a.
in tema di urbanistica ed edilizia; sia perché in ogni caso
la cognizione della domanda rivolta al fideiussore
apparteneva alla cognizione del giudice ordinario.
Con successiva memoria il Comune ricorrente evidenziava che
il fideiussore aveva medio tempore provveduto ad effettuare
il pagamento di quanto dovuto con conseguente cessazione
della materia del contendere.
...
Il ricorso deve essere in parte rigettato e in parte
dichiararsi estinto per intervenuta cessazione della materia
del contendere.
Quanto al debitore principale deve rilevarsi quanto segue:
- in primo luogo, sul piano processuale, che secondo l’orientamento
“granitico” della giurisprudenza amministrativa (ex
multis TAR Milano sentenza n. 389/2014) “Va chiarito
che in materia di contributi derivanti dal rilascio di
concessione edilizia sussiste la giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo e tale giurisdizione sussiste anche
quando attiene alla richiesta di pagamento del contributo
per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni;
sebbene, infatti, l’art. 16 della l. 28.01.1977 n. 10 sia
stato abrogato dall’art. 136, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n.
380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell’art. 3, d.l.
20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l.
01.08.2002, n. 185, le controversie in materia di oneri di
urbanizzazione devono ritenersi tuttora attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in
materia di urbanistica e di edilizia… non avendo tra l’altro
detti oneri natura tributaria, bensì natura di corrispettivo
di diritto pubblico avente la funzione di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione; invero, atteso che le
controversie che hanno ad oggetto la legittimità o meno del
contributo relativo a concessione edilizia vertono
sull’esistenza o sulla misura di una obbligazione
direttamente stabilita dalla legge, l’atto con cui
l’Amministrazione comunale provvede in merito alla
determinazione del contributo concessorio non ha natura
autoritativa e la posizione del soggetto nei cui confronti è
richiesto il pagamento, è di diritto soggettivo e non di
interesse legittimo; conseguentemente la giurisdizione del
giudice amministrativo in materia ha per oggetto tutte le
controversie inerenti all’an e al quantum della pretesa
contributiva del comune, (mentre la competenza dell’a.g.o. è
limitata alle sole questioni inerenti il recupero in
executivis del credito contributivo)” (in terminis,
Cass. SS.UU. 12114/2009 e 22904/2005);
- in secondo luogo, quanto al merito della pretesa, che -stante
l’onere della prova della pretesa creditoria in capo
all’opposto, quale “attore sostanziale”- dagli atti
del giudizio è emersa la sussistenza del titolo giuridico da
cui trae origine quest’ultima, ossia il rilascio della
concessione edilizia n. 39/2012 (elemento peraltro non in
contestazione), con conseguente debenza dei relativi oneri
concessori in discussione.
Ne consegue, quindi, che l’opposizione al decreto ingiuntivo
proposta deve essere in parte qua rigettata.
Per quanto concerne, viceversa, la posizione del
fideiussore, deve rilevarsi che la materia del contendere è
effettivamente cessata a seguito dell’intervenuto pagamento
della pretesa da parte di quest’ultimo, il che -stante anche
la mancata costituzione in giudizio dello stesso– prevale su
qualsiasi altra questione giurisdizionale pregiudiziale.
In definitiva, in ragione di quanto esposto, il decreto
ingiuntivo deve essere confermato rispetto al debitore
principale mentre per il resto la materia del contendere
deve dichiararsi cessata (TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 19.04.2018 n. 794 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rientra nella
giurisdizione del g.o. e non in quella esclusiva del g.a. in
materia di urbanistica ed edilizia la controversia avente ad
oggetto l'escussione, da parte del Comune, di una polizza
fideiussoria concessa a garanzia di somme dovute per oneri
di urbanizzazione e a titolo di penali, pattuite in una
convenzione di lottizzazione, attesa l'autonomia tra i
rapporti in questione, nonché la circostanza che, nella
specie, la p.a. agisce nell'ambito di un rapporto
privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente,
pubblici poteri.
---------------
Va chiarito che in materia di contributi derivanti dal
rilascio di concessione edilizia sussiste la giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo e tale giurisdizione
sussiste anche quando attiene alla richiesta di pagamento
del contributo per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti
sanzioni.
Sebbene, infatti, l’art. 16 della l. 28.01.1977 n. 10 sia
stato abrogato dall’art. 136, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n.
380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell’art. 3, d.l.
20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l.
01.08.2002, n. 185, le controversie in materia di oneri di
urbanizzazione devono ritenersi tuttora attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in
materia di urbanistica e di edilizia… non avendo tra l’altro
detti oneri natura tributaria, bensì natura di corrispettivo
di diritto pubblico avente la funzione di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione.
Invero, atteso che le controversie che hanno ad oggetto la
legittimità o meno del contributo relativo a concessione
edilizia vertono sull’esistenza o sulla misura di una
obbligazione direttamente stabilita dalla legge, l’atto con
cui l’Amministrazione comunale provvede in merito alla
determinazione del contributo concessorio non ha natura
autoritativa e la posizione del soggetto nei cui confronti è
richiesto il pagamento, è di diritto soggettivo e non di
interesse legittimo.
Conseguentemente la giurisdizione del giudice amministrativo
in materia ha per oggetto tutte le controversie inerenti
all’an e al quantum della pretesa contributiva del comune,
(mentre la competenza dell’a.g.o. è limitata alle sole
questioni inerenti il recupero in executivis del credito
contributivo).
---------------
Quanto al merito e all’an degli oneri in discussione, ivi
compresi i costi di costruzione, questi sono dovuti dal
momento del rilascio della concessione edilizia, come
statuito da Consiglio di Stato, secondo cui “Fatto
costitutivo di detta obbligazione è il rilascio del permesso
di costruire ed è a tale momento che occorre aver riguardo
per la determinazione dell'entità del contributo”.
Tant’è che il citato art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 prevede
che la quota di contributo è corrisposta in corso d'opera
mentre i sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione
costituiscono solo termine finale dell’adempimento.
---------------
L'ingiunzione della sanzione per ritardato versamento
contributo di costruzione (in forma rateizzata) è
illegittima laddove risulta decorso il termine
(prescrizionale) di 5 anni previsto dall’art. 28 della legge
n. 689/1981.
---------------
Il Comune ricorrente adiva l’intestata Sezione chiedendo che
venisse ingiunta alla società resistente il pagamento della
somma di euro 216.419,20, oltre interessi, a titolo di oneri
di urbanizzazione e costo di costruzione nonché sanzioni,
entrambi garantiti medianti polizza fideiussoria rilasciata
da UNIONCREDIT Finanziaria s.p.a., dovuti a seguito del
rilascio della concessione edilizia n. 19/1998 prot. 4098,
non corrisposti alle scadenze formalizzate.
Con decreto ingiuntivo n. 3899/2016 del 20.07.2016 veniva
accolta la domanda proposta.
Quindi, con ricorso in opposizione, la società resistente
impugnava il citato decreto ingiuntivo deducendo, ex
adverso, quanto segue:
- in via preliminare, che andava chiamato in causa, ex art. 28,
comma terzo c.p.a., anche il terzo fideiussore;
- il difetto di giurisdizione del giudice adito non rientrando la
materia in discussione nell’ambito della giurisdizione
esclusiva ex art. 118 c.p.a. in tema di urbanistica ed
edilizia;
- nel merito, la non debenza di quanto ingiunto a titolo di costi
di costruzione (per complessivi euro 49.846,10) atteso che
questi erano viceversa dovuti, ex art. 16 del D.P.R. n.
380/2001 (secondo cui “La quota di contributo relativa al
costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio, è
corrisposta in corso d'opera, con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla
ultimazione della costruzione”) solo dal momento del
completamento dell’opera essendo componente economica
compensativa della compartecipazione comunale all’incremento
di valore della proprietà immobiliare;
- nel merito, la non debenza di quanto ingiunto a titolo di
sanzioni ex L.R. n. 71/1978 (per complessivi euro 54.102,55)
per intervenuta prescrizione della relativa pretesa
creditoria attesa, da un lato, la decorrenza del termine di
prescrizione quinquennale di cui all’art. 28 della legge n.
689/1981 -decorrente dalla scadenza di ciascun singolo rateo
(nello specifico, le sanzioni afferenti: quanto agli oneri
di urbanizzazione, la seconda rata con data di scadenza
20.12.2008, la terza rata con data di scadenza 20.08.2009 e,
infine, la quarta rata con scadenza 20.04.2010; quanto al
costo di costruzione, la prima rata con scadenza
30.10.2008)– e, dall’altro, che il primo atto interruttivo
risaliva alla data del 04.05.2015.
Con successiva memoria il Comune ricorrente evidenziava, per
un verso, che il pagamento dei costi di costruzione non
poteva essere postergato oltre la scadenza della efficacia
della concessione edilizia; per altro verso, che il termine
di prescrizione delle sanzioni era decennale e non già
quinquennale e che ogni caso alcune rate non si erano ancora
prescritte alla citata data del 04.05.2015 pur assumendo
quest’ultimo come termine prescrizionale.
...
Il ricorso deve parzialmente accolto nei limiti che seguono.
A tal fine, seguendo l’ordine delle deduzioni offerte dalla
parte opponente, deve rilevarsi quanto segue:
- che non può essere accolta la domanda di chiamata in causa del
terzo fideiussore tenuto conto che la giurisdizione riguardo
ai rapporti tra quest’ultimo e il creditore appartiene,
essendo distinto da quello garantito, al giudice ordinario
avendo natura esclusivamente privata (cfr. ex multis,
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 15666/2016,
secondo cui “rientra nella giurisdizione del g.o. e non
in quella esclusiva del g.a. in materia di urbanistica ed
edilizia la controversia avente ad oggetto l'escussione, da
parte del Comune, di una polizza fideiussoria concessa a
garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a
titolo di penali, pattuite in una convenzione di
lottizzazione, attesa l'autonomia tra i rapporti in
questione, nonché la circostanza che, nella specie, la p.a.
agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza
esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri”);
- che infondata risulta altresì l’eccezione di difetto di
giurisdizione quanto al rapporto principale tra debitore e
creditore, tenuto conto del “granitico” orientamento
giurisprudenziale secondo cui (ex multis TAR
Lombardia, Milano, sentenza n. 389/2014) “Va chiarito che
in materia di contributi derivanti dal rilascio di
concessione edilizia sussiste la giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo e tale giurisdizione sussiste anche
quando attiene alla richiesta di pagamento del contributo
per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni;
sebbene, infatti, l’art. 16 della l. 28.01.1977 n. 10 sia
stato abrogato dall’art. 136, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n.
380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell’art. 3, d.l.
20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l.
01.08.2002, n. 185, le controversie in materia di oneri di
urbanizzazione devono ritenersi tuttora attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in
materia di urbanistica e di edilizia… non avendo tra l’altro
detti oneri natura tributaria, bensì natura di corrispettivo
di diritto pubblico avente la funzione di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione; invero, atteso che le
controversie che hanno ad oggetto la legittimità o meno del
contributo relativo a concessione edilizia vertono
sull’esistenza o sulla misura di una obbligazione
direttamente stabilita dalla legge, l’atto con cui
l’Amministrazione comunale provvede in merito alla
determinazione del contributo concessorio non ha natura
autoritativa e la posizione del soggetto nei cui confronti è
richiesto il pagamento, è di diritto soggettivo e non di
interesse legittimo; conseguentemente la giurisdizione del
giudice amministrativo in materia ha per oggetto tutte le
controversie inerenti all’an e al quantum della pretesa
contributiva del comune, (mentre la competenza dell’a.g.o. è
limitata alle sole questioni inerenti il recupero in
executivis del credito contributivo)” (in terminis,
Cass. SS.UU. 12114/2009 e 22904/2005);
- quanto al merito e all’an degli oneri in discussione, ivi
compresi i costi di costruzione, che questi sono dovuti dal
momento del rilascio della concessione edilizia, come
statuito da Consiglio di Stato, sez. IV, 13/06/2017, (ud.
23/02/2017, dep. 13/06/2017), n. 2881, secondo cui “Fatto
costitutivo di detta obbligazione è il rilascio del permesso
di costruire ed è a tale momento che occorre aver riguardo
per la determinazione dell'entità del contributo”.
Tant’è che il citato art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 prevede
che la quota di contributo è corrisposta in corso d'opera
mentre i sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione
costituiscono solo termine finale dell’adempimento;
- che fondato in parte risulta invece l’ultimo profilo di gravame
sollevato, avente ad oggetto la prescrizione di parte del
credito ingiunto, tenuto conto che risulta decorso il
termine di 5 anni previsto dall’art. 28 della legge n.
689/1981 con riferimento alle seguenti voci sanzionatorie:
euro 10.649,58 a titolo di sanzioni per prima rata oneri di
urbanizzazione; euro 10.649,58 a titolo di sanzioni per
seconda rata oneri di urbanizzazione; e infine euro 5.538,46
a titolo di sanzioni prima rata per costi di costruzione
(totale euro 26.837,62).
Ne consegue, in definitiva, che il decreto ingiuntivo
opposto deve essere riformato unicamente sotto il profilo
del quantum debeatur essendo dovuti unicamente (euro
216.419,20 – euro 26.837,62 =) euro 189.581,58, oltre
interessi (TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 19.04.2018 n. 793 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In linea di principio, la giurisprudenza ritiene
che l’edificazione in una zona totalmente urbanizzata non
richieda obbligatoriamente uno strumento urbanistico di
attuazione.
Il consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa, peraltro, rimette all’amministrazione la
valutazione circa la congruità del progetto di costruzione
con il grado di urbanizzazione dell’area, alla stregua della
normativa sugli standard urbanistici.
In sostanza, sebbene sarebbe possibile derogare alle
prescrizioni urbanistiche che subordinano l’edificazione
all’esistenza di uno strumento attuativo, nei casi nei quali
la situazione di fatto, in presenza di una pressoché
completa edificazione della zona, sia addirittura
incompatibile con un piano attuativo, trattandosi di lotto
residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata,
affinché sia rilasciato legittimamente il permesso di
costruire sul lotto intercluso è necessario che
l’amministrazione valuti l’adeguatezza degli standard
urbanistici con riferimento all’ambito territoriale entro il
quale dovrebbe essere realizzata la costruzione progettata.
È necessario, quindi, un giudizio tecnico-discrezionale
dell’amministrazione sul carico urbanistico derivante dalla
costruzione richiesta in rapporto agli standard urbanistici
prescritti, provvedendo ad assentire oppure a negare il
permesso di costruire coerentemente con tale valutazione.
---------------
In linea di principio, la giurisprudenza ritiene che
l’edificazione in una zona totalmente urbanizzata non
richieda obbligatoriamente uno strumento urbanistico di
attuazione.
Tra le numerose pronunce si richiamano, a titolo
esemplificativo, le seguenti: Consiglio di Stato numero 7735
del 2009; Consiglio di Stato numero 5756 del 2000; Consiglio
di Stato numero 2449 del 2003; da ultimo Consiglio di Stato,
Sez. IV, 08.02.2018, n. 825.
Il consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa, peraltro, rimette all’amministrazione la
valutazione circa la congruità del progetto di costruzione
con il grado di urbanizzazione dell’area, alla stregua della
normativa sugli standard urbanistici.
In sostanza, sebbene sarebbe possibile derogare alle
prescrizioni urbanistiche che subordinano l’edificazione
all’esistenza di uno strumento attuativo, nei casi nei quali
la situazione di fatto, in presenza di una pressoché
completa edificazione della zona, sia addirittura
incompatibile con un piano attuativo, trattandosi di lotto
residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata,
affinché sia rilasciato legittimamente il permesso di
costruire sul lotto intercluso è necessario che
l’amministrazione valuti l’adeguatezza degli standard
urbanistici con riferimento all’ambito territoriale entro il
quale dovrebbe essere realizzata la costruzione progettata.
È necessario, quindi, un giudizio tecnico-discrezionale
dell’amministrazione sul carico urbanistico derivante dalla
costruzione richiesta in rapporto agli standard urbanistici
prescritti, provvedendo ad assentire oppure a negare il
permesso di costruire coerentemente con tale valutazione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 18.04.2018 n. 4319 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Risarcimento danni per illegittima interruzione dal
servizio.
---------------
Risarcimento danni - Pubblico impiego privatizzato -
Illegittima interruzione del servizio – Quantificazione -
Criterio.
Va riconosciuto al lavoratore il
diritto al risarcimento del danno patrimoniale subito per
effetto della mancata percezione della retribuzione per
l’intero periodo di interruzione del servizio, commisurato
all'effettivo importo mensile della retribuzione, ad
eccezione di quei compensi solo eventuali e dei quali non
sia certa la percezione, nonché di quelli legati a
particolari modalità di svolgimento della prestazione stessa
(1).
---------------
(1)
Cass. civ., s.l., 17.07.2015, n. 15066; id. 20.06.2015, n.
11691.
Ha affermato il Tar che solo in questo modo si consegue il
risultato di neutralizzare gli effetti del licenziamento
illegittimo, mentre, ove fosse ipotizzabile per il
lavoratore un trattamento economico minore di quello che
avrebbe ottenuto se avesse continuato a svolgere le sue
consuete prestazioni, si finirebbe per addossargli le
conseguenze economiche negative di un illecito altrui (Cass.
civ., s.l., 16.09.2009, n. 19956; id. 24.08.2006, n. 18441)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 18.04.2018 n. 901
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso merita accoglimento, nei limiti appresso
specificati, rinvenendosi, nel caso di specie, tutti i
presupposti fondanti la responsabilità extracontrattuale
della P.A. per danno da illegittima attività provvedimentale,
secondo il paradigma normativo di cui agli artt. 2043 c.c. e
30 c.p.a.
2.
L'accertata illegittimità del provvedimento gravato
integra l'elemento oggettivo dell'illecito aquiliano (al cui
paradigma, secondo il prevalente orientamento
giurisprudenziale cui questo Tribunale aderisce, si ascrive
la responsabilità dell’amministrazione per atto illegittimo)
e non sussistono dubbi, nel caso in esame, sulla ricorrenza
del nesso eziologico tra condotta illecita e lesione
arrecata alla posizione giuridica soggettiva tutelata né,
sul versante soggettivo, sulla configurabilità della colpa
in capo all’amministrazione agente, tutti elementi
costitutivi della responsabilità extracontrattuale della
P.A. (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V,
06.09.2017, n. 4226; Consiglio di Stato, sez. V, 25.05.2017,
n. 2446; TAR Umbria, Perugia, sez. I, 17.01.2017, n. 94; TAR
Puglia, Lecce, sez. III, 14.01.2017, n. 53).
3. Con riguardo al nesso eziologico è pacifico ed emerge
ex actis, in particolare, che per effetto del decreto
del Prefetto che ha respinto l’approvazione del rinnovo
della nomina a guardia giurata particolare, il ricorrente è
stato dapprima sospeso dalle proprie mansioni e
successivamente licenziato dall’istituto “Co.Vi.no. s.r.l.” presso il quale era impiegato da circa
un anno. Indubbia, pertanto, l’incidenza causale, materiale
e giuridica, in termini di lesività, dell’illegittima azione
dell’amministrazione rispetto all’interesse al bene della
vita del ricorrente, il mantenimento, vale a dire,
dell’impiego di vigilante notturno.
4. Analogamente sussiste il danno risarcibile, senz’altro
ravvisabile nella mancata percezione di varie annualità di
retribuzione (pregiudizio patrimoniale) a seguito del
licenziamento determinato dal venir meno di quella
condizione soggettiva indefettibile per lo svolgimento delle
mansioni di “guardia particolare giurata” costituita,
ai sensi dell’art. 138, comma 3, T.U.L.P.S., dal rilascio
dell’approvazione prefettizia della relativa nomina.
5. Quanto al profilo dell’imputabilità soggettiva, l’acclarata
illegittimità del provvedimento prefettizio integra il fatto
costitutivo di una presunzione semplice ai sensi degli artt.
2727 e 2729 c.c. in ordine alla sussistenza della colpa in
capo all’amministrazione (cfr., ex multis, Consiglio
di Stato, sez. VI, 05.03.2015, n. 1099; Consiglio di Stato,
sez. IV, 06.12.2013, n. 5832; Consiglio di Stato, sez. IV,
13.06.2013, n. 3266) da valutarsi congiuntamente ad altri
fattori e cioè alla luce dei vizi che hanno inficiato il
provvedimento e della gravità delle violazioni imputabili
all’ente pubblico, tenuto conto, peraltro, dell’ampiezza
delle valutazioni discrezionali rimesse all’organo
amministrativo (cfr., ex multis, Consiglio di Stato,
sez. IV, 10.01.2014, n. 45; Tar Lazio, Roma, sez. I,
26.05.2014, n. 5570).
5.1. A tale fine assume rilievo la circostanza che
l’adozione (e l’esecuzione) dell'atto amministrativo
illegittimo che si assume lesivo sia avvenuta in violazione
delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona
fede, alle quali l’esercizio della funzione deve
costantemente ispirarsi, cosicché la responsabilità della
P.A. può essere affermata solamente quando la violazione
risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di
fatto e in un quadro di riferimento normativo e
giurisprudenziale tali da palesare negligenza e imperizia
nell’assunzione del provvedimento viziato; al contrario,
essa va esclusa laddove sia ravvisabile un errore scusabile
per via di un contrasto giurisprudenziale, oppure della
complessità della vicenda fattuale, o ancora per
l'incertezza o la novità della normativa da applicarsi
(cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. III,
11.03.2015, n. 1272).
5.2. Venendo al caso di specie appare evidente come lo
scrutinio compiuto dalla Prefettura di Crotone in occasione
dell’esame dell’istanza del sig. Sp. sia frutto di
un’attività istruttoria sbrigativa e affatto superficiale,
quindi insufficiente, e risulti inoltre connotato da
irragionevole severità valutativa, come evincibile dalla
decisione del Consiglio di Stato sopra cit., nella quale è
sostanzialmente “ribaltata” la valutazione prefettizia, in
chiave ostativa all’accoglimento dell’istanza, degli episodi
concreti, di cui all’informativa del Comando dei
Carabinieri, posti a fondamento del provvedimento di diniego
perché (erroneamente) ritenuti idonei a elidere il “requisito
dell’affidabilità di non abusare di autorizzazioni di
polizia”.
5.3. La ricostruzione fattuale della vicenda lascia invero
trasparire un certo livello di approssimazione nella
condotta serbata dalla Prefettura, che ha adottato un
provvedimento gravemente pregiudizievole per il
destinatario, incidente sull’attività lavorativa del
medesimo e, quindi, sulla sua fonte di sostentamento, senza
svolgere una attività istruttoria congrua e adeguata al
caso, eventualmente disponendo gli approfondimenti e gli
accertamenti ritenuti necessari.
5.4. In conclusione, anche il requisito della colpa della
P.A., al pari degli altri elementi costitutivi dell'illecito aquiliano, risulta integrato nel caso di specie.
6. Circa la quantificazione del danno, sono agli atti le
risultanze della C.T.U. disposta dal Tribunale civile per la
“ricostruzione” degli emolumenti spettanti “nel
periodo oggetto di vertenza”, dalle quali emerge che al
ricorrente spetterebbe la somma complessiva di € 70.040,47,
ottenuta prendendo a riferimento l’arco temporale “ottobre
2005-luglio 2009” e la retribuzione prevista dal CCNL
all’epoca applicabile, con esclusione dell’indennità di
rischio e di lavoro notturno, in quanto collegate
all’effettiva presenza in servizio.
6.1. Il Collegio non ha motivo di discostarsi dalla
metodologia e dalle risultanze peritali, che appaiono in
linea con le acquisizioni della giurisprudenza formatasi sul
licenziamento dichiarato illegittimo (e sulla consistenza
della correlativa indennità risarcitoria ex art. 18 L.
300/1970), orientata a riconoscere una piena reintegrazione
giuridica ed economica del dipendente nell’ipotesi di
illegittima interruzione di un rapporto di impiego in atto e
a differenziare tale fattispecie, ai fini del quantum
debeatur, da quella della illegittima, mancata (o
ritardata) costituzione ex novo del rapporto di
impiego (cfr., sul principio, Cassazione civile, SS.UU.,
14.12.2007, n. 6282; id. 21.12.2000, n. 1324), che non dà
diritto alla retribuzione in quanto la fictio iuris
della retrodatazione non può far considerare come avvenuta
la prestazione del servizio cui l’ordinamento ricollega il
diritto alla retribuzione.
6.2. Al ricorrente va pertanto riconosciuto il diritto al
risarcimento del danno patrimoniale subito per effetto della
mancata percezione della retribuzione per l’intero periodo
di interruzione del servizio, commisurato sotto tale profilo
all'effettivo importo mensile della retribuzione, ad
eccezione di quei compensi solo eventuali e dei quali non
sia certa la percezione, nonché di quelli legati a
particolari modalità di svolgimento della prestazione stessa
(cfr. Cassazione civile, sez. lavoro, 17.07.2015, n. 15066;
Cassazione civile, sez. lavoro, 20.06.2015, n. 11691).
Solo in questo modo si consegue il risultato di
neutralizzare gli effetti del licenziamento illegittimo,
mentre, ove fosse ipotizzabile per il lavoratore un
trattamento economico minore di quello che avrebbe ottenuto
se avesse continuato a svolgere le sue consuete prestazioni,
si finirebbe per addossargli le conseguenze economiche
negative di un illecito altrui (Cassazione civile, sez.
lavoro, 16.09.2009, n. 19956; Cassazione civile, sez.
lavoro, 24.08.2006, n. 18441).
6.3. Nella quantificazione del danno patrimoniale, per altro
verso, deve pure tenersi conto del fatto che il ricorrente,
durante il periodo interruzione dell’impiego alle dipendenze
dell’istituto di vigilanza, non ha subito alcuna usura
lavorativa e non ha provato che la condizione d’inattività
sia stata, a sua volta, causa di danno. Egli non ha dovuto
impegnare le proprie energie lavorative nell'esclusivo
interesse dell’ente datoriale, ma ha potuto rivolgerle alla
cura d’ogni altro interesse, sia sul piano lavorativo, che
del perfezionamento culturale e professionale (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 29.10.2008, n. 5413; Consiglio
di Stato, sez. V, 25.07.2006, n. 4645; C.G.A., 20.04.2007,
n. 361).
6.4. Va poi considerato, sempre sotto il profilo del
quantum debeatur, che è agli atti la nota dell’ente
datoriale, datata 17.11.2008, con cui quest’ultimo ha
informato la Prefettura, nel frattempo appositamente
attivatasi, della piena adeguatezza delle dotazioni
organiche dell’epoca, conseguentemente dichiarando
l’insussistenza dei presupposti per la riassunzione in
servizio del sig. Sp..
La certificazione, da parte del datore di lavoro del
ricorrente, dell’indisponibilità in organico di “spazi”
idonei a consentirne la riassunzione non pare possa essere
considerata ininfluente, non sembrando corretto, da tale
momento e sino alla riassunzione in servizio, ascrivere alla
condotta della Prefettura –quanto meno in via esclusiva– la
persistenza dello stato di disoccupazione del ricorrente e
quindi, in definitiva, il protrarsi delle conseguenze
pregiudizievoli dell’illecito.
6.5. Da ultimo va pure osservato che i il ricorrente non era
alle dipendenze del Ministero dell’Interno, bensì di un
soggetto privato e che non appare verosimile che il medesimo
ricorrente in un arco temporale che va dal 02.11.2005 (data
della nota con cui è comunicato il licenziamento) al
29.07.2009 (data di riassunzione in servizio) non abbia
svolto alcuna attività lavorativa (Consiglio di Stato, sez.
V, 25.07.2006, n. 4639; sez. V, 02.10.2002, n. 5174).
6.6. Le considerazioni che precedono inducono il Collegio a
ritenere che il danno patrimoniale debba essere determinato,
in via equitativa, applicando alla somma indicata in perizia
una riduzione pari a un terzo e, quindi, previo
arrotondamento, che debba quantificarsi nella cifra tonda di
€ 47.000,00 oltre interessi e rivalutazione, trattandosi di
debito di valore.
La somma rivalutata all’attualità, calcolata con decorrenza
29.07.2008 e in applicazione dell'indice operante al momento
della presente decisione, ammonta a € 51.794,00. Gli
interessi legali vanno calcolati dalla data deposito della
sentenza fino all’effettivo pagamento. |
EDILIZIA PRIVATA:
Agli effetti della valutazione del reato, se
contravvenzione o delitto di cui all'art. 181-bis, d.lgs.
42/2004, come risultante dall'intervento della Corte
Costituzionale 23.03.2016 n. 56, l'analisi della volumetria
deve essere individuata prescindendo dai criteri applicabili
per la disciplina urbanistica e considerando l'impatto
dell'intervento sull'originario assetto paesaggistico del
territorio.
Ovvero, se sul terreno era preesistente una costruzione
(anche se demolita del tutto, come nel caso di specie) deve
considerarsi se la superficie abbia comportato un aumento
dei manufatti superiori al 30 per cento della volumetria
della costruzione originaria o, in alternativa, un
ampliamento della medesima superiore ai settecentocinquanta
metri cubi, mentre per le nuove costruzioni (nuove da zero,
ovvero su terreni in precedenza senza nessuna costruzione)
deve considerarsi se abbiano comportato una nuova
costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi.
---------------
4. Deve rilevarsi che la Corte di appello, in sede di
procedimento di esecuzione, ha adeguatamente motivato, senza
contraddizioni e senza manifeste illogicità, con la corretta
applicazione dei principi in materia espressi da questa
corte di Cassazione come il reato configurabile sia il
delitto di cui all'art. 181, comma 1-bis, d.lgs., 42/2004,
come originariamente contestato, anche dopo l'intervento
della Corte Costituzionale, 11 gennaio-23.03.2016 n. 56, che
ha dichiarato incostituzionale parte dell'art. 181, comma
1-bis, del d.lgs. 42 del 2004 - (jus superveniens,
vedi Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014 - dep. 14/10/2014, P.M.
in proc. Gatto, Rv. 260695); l'art. 181,
comma 1-bis, dopo l'intervento della Corte Costituzionale
risulta applicabile ora solo per i lavori "che abbiano
comportato un aumento dei manufatti superiori al 30 per
cento della volumetria della costruzione originaria o, in
alternativa, un ampliamento della medesima superiore ai
settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano
comportato una nuova costruzione con una volumetria
superiore ai mille metri cubi".
4. 1. L'ordinanza impugnata con motivazione completa e
logica evidenziava come, nel caso in esame, il volume
realizzato oltre al consentito, era superiore del 30%, come
richiede il nuovo assetto normativo, dopo la decisione della
Corte Costituzionale. Il ricorrente contesta la definizione
del volume rilevante ai fini paesaggistici, contenuto nel
provvedimento impugnato, ma del tutto genericamente.
Inoltre il volume, e la stessa nozione di
superficie, ai
fini paesaggistici, come esattamente ritenuto nell'ordinanza
della corte di appello impugnata, prescinde
dai criteri applicabili per la disciplina urbanistica e si
deve considerare l'impatto dell'intervento edilizio
sull'assetto paesaggistico originario del territorio, e
quindi qualsiasi volume, o superficie, viene certamente in
rilievo: "Agli effetti della valutazione di compatibilità
paesaggistica, il cui esito positivo determina la non
applicabilità delle sanzioni penali previste per i reati
paesaggistici dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, la
nozione di superficie utile di cui al comma primo-ter, lett.
a), della richiamata disposizione, dev'essere individuata
prescindendo dai criteri applicabili per la disciplina
urbanistica e considerando l'impatto dell'intervento
sull'originario assetto paesaggistico del territorio. (In
motivazione la Corte, in una fattispecie relativa
all'abusiva realizzazione in zona vincolata di una veranda,
di due locali seminterrati e delle scale necessarie per
raggiungerli, ha precisato che la "sanatoria" paesaggistica
va esclusa in tutti i casi in cui la creazione di superfici
utili o di volumi, ovvero l'aumento di quelli legittimamente
realizzati, sia idonea a determinare una compromissione
ambientale)"
(Sez. 3, n. 889 del 29/11/2011 - dep. 13/01/2012, Falconi e
altri, Rv. 25164101).
Per il ricorrente la demolizione del fabbricato e la
ricostruzione del nuovo corpo di fabbrica con sagome diverse
e materiali diversi dovrebbe ritenersi nuova costruzione e
non ampliamento, con l'applicazione del criterio valido per
le nuove costruzioni (una volumetria superiore ai mille
metri cubi).
L'impatto sul territorio precedente (con la demolizione del
fabbricato) e quello successivo (con la costruzione di un
organismo edilizio in luogo del vecchio fabbricato) sono
diversi e deve valutarsi ai fini della considerazione del
reato (delitto o contravvenzione) se i lavori abbiano
comportato un aumento dei manufatti superiori al 30 per
cento della volumetria della costruzione originaria o, in
alternativa, un ampliamento della medesima superiore ai
settecentocinquanta metri cubi, e non già di mille metri
cubi.
I mille metri cubi sono esclusivamente per i nuovi (nuovi da
zero) fabbricati, ovvero per le costruzioni non esistenti
sul terreno in precedenza.
Può conseguentemente affermarsi il seguente principio di
diritto: «Agli effetti della valutazione
del reato, se contravvenzione o delitto di cui all'art.
181-bis, d.lgs. 42/2004, come risultante dall'intervento
della Corte Costituzionale, 11 gennaio-23.03.2016 n. 56,
l'analisi della volumetria deve essere individuata
prescindendo dai criteri applicabili per la disciplina
urbanistica e considerando l'impatto dell'intervento
sull'originario assetto paesaggistico del territorio; ovvero
se sul terreno era preesistente una costruzione (anche se
demolita del tutto, come nel caso di specie) deve
considerarsi se la superficie abbia comportato un aumento
dei manufatti superiori al 30 per cento della volumetria
della costruzione originaria o, in alternativa, un
ampliamento della medesima superiore ai settecentocinquanta
metri cubi, mentre per le nuove costruzioni (nuove da zero,
ovvero su terreni in precedenza senza nessuna costruzione)
deve considerarsi se abbiano comportato una nuova
costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi»
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.04.2018 n. 16697). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo delle
occupazioni o del riposo delle persone - Configurabilità del
reato di cui all'art. 659 cod. pen. - Giurisprudenza - Rumori
con attitudine a propagarsi per una potenziale pluralità
indeterminata di persone - Fattispecie: omissione di
custodia adeguata su tre cani.
Il reato di cui all'art. 659, comma primo, cod. pen. è reato
solo eventualmente permanente, che si può consumare anche
con un'unica condotta rumorosa o di schiamazzo, ove la
stessa sia oggettivamente tale da recare, in determinate
circostanze, un effettivo disturbo alle occupazioni o al
riposo delle persone (Corte di cassazione, Sezione III
penale, 25/02/2015, n. 8351).
Inoltre, ai fini della
configurabilità della contravvenzione prevista nell'art. 659
cod. pen. è necessario che i lamentati rumori abbiano la
attitudine a propagarsi ed a costituire fonte di disturbo -
per la loro intensità e per la ubicazione spaziale della
loro fonte - per una potenziale pluralità indeterminata di
persone, sebbene non sia poi necessaria la dimostrazione che
poi tutte costoro siano state effettivamente disturbate
(Corte di cassazione, Sezione I penale, 4/02/2000, n. 1394).
Fattispecie: omissione di custodia adeguata su tre cani
lasciati da soli nel terrazzo dell'appartamento ubicato
all'interno di un edificio condominiale, gli stessi
abbaiando per buona parte della notte impedivano, coi loro
latrati, il riposo e la quiete di due abitanti del limitrofo
appartamento (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.04.2018 n. 16677 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Installazione di infrastruttura per rete mobile di
telecomunicazione e limiti di distanze dal confine.
---------------
Edilizia – Impianti rete mobile di telecomunicazione –
Installazione - limite della distanza dai confini – Deroga –
Condizione.
La speciale disciplina che regola
l’installazione di infrastruttura per rete mobile di
telecomunicazione ne consenta il posizionamento anche in
deroga al limite della distanza dai confini, ma non in
contrasto con la previsione del Piano regolatore generale
relativa alla nuova viabilità (1).
---------------
(1)
Ha ricordato il Trga Trento che gli impianti di
telecomunicazione rivestono carattere di pubblica utilità e
sono assimilati alle opere di urbanizzazione primaria,
potendo trovare collocazione su proprietà pubbliche e
private secondo la legislazione nazionale (artt. 86 e 90,
d.lgs. 01.08.2003, n. 259) di matrice comunitaria, e
costituiscono in ogni caso, secondo la disciplina
urbanistica provinciale di Trento, opere di
infrastrutturazione del territorio (art. 11 del regolamento
approvato con d.P.P. 19.05.2017, n. 8-61/Leg.; in precedenza
art. 36 del regolamento approvato con d.P.P. 13.07.2010, n.
18-50/leg.).
A fronte di tale quadro normativo il Trga Trento ha ritenuto
illegittime le disposizioni regolamentari che, senza
giustificazione, pretendono fissare per detti impianti
limiti di distanze dal confine tali da poter rappresentare
un indebito impedimento alla realizzazione della completa
rete di telecomunicazioni (Cons. St., sez. VI, 06.09.2010,
n. 6473) (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 16.04.2018 n. 87
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Interdittiva antimafia e vicinanza ad ambienti mafiosi.
---------------
Informativa antimafia – Presupposti – Vicinanza di
soggetto immune a pregiudizi penali con ambienti mafiosi –
Sufficienza.
E’ legittima l’interdittiva
antimafia adottata sul rilievo che il titolare di impresa
individuale immune da pregiudizi penali, ha significativi
legami con una famiglia vicina alla cosca mafiosa, operante
in zona in cui è particolarmente presente il fenomeno
mafioso (1).
---------------
(1) La Sezione ha richiamato il recente arresto dell’Adunanza
plenaria del
Consiglio di Stato 06.04.2018, n. 3, secondo il
quale all’interdittiva antimafia deve essere riconosciuta
natura cautelare e preventiva, in un’ottica di bilanciamento
tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la
libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41
Cost.; costituisce una misura volta –ad un tempo– alla
salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera
concorrenza tra le imprese e del buon andamento della
Pubblica amministrazione.
Tale provvedimento, infatti, mira a prevenire tentativi di
infiltrazione mafiosa nelle imprese, volti a condizionare le
scelte e gli indirizzi della Pubblica amministrazione e si
pone in funzione di tutela sia dei principi di legalità,
imparzialità e buon andamento, riconosciuti dall’art. 97
Cost., sia dello svolgimento leale e corretto della
concorrenza tra le stesse imprese nel mercato, sia, infine,
del corretto utilizzo delle risorse pubbliche.
La Sezione ha poi ricordato che –pur essendo necessario che
siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi
di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di
concrete connessioni o possibili collegamenti con le
organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione
di un rapporto dell’impresa con la Pubblica amministrazione-
non è necessario un grado di dimostrazione probatoria
analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di
un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso,
potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un
valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini
che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza
di tempo.
Ha aggiunto la Sezione, richiamando i numerosi precedenti in
termini della stessa Sezione, che nei contesti sociali, in
cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della
famiglia si può verificare una “influenza reciproca”
di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza,
di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o
di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non
dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in
contrasto con i principi costituzionali) che il parente di
un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa
considerazione, per converso, che la complessa
organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si
fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo
fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’
mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da
pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’
e dell’associazione.
Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo
meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la
cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei
medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in
sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben
potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata
accertata l’esistenza –su un’area più o meno estesa– del
controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale
coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non
risultino avere proprie fonti legittime di reddito).
La Sezione ha, infine, concluso ricordando che l'ampia
discrezionalità di apprezzamento del Prefetto in tema di
tentativo di infiltrazione mafiosa comporta che la sua
valutazione sia sindacabile in sede giurisdizionale in caso
di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei
fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla
legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo
l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a
base del provvedimento
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 13.04.2018 n. 2231 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
3. Al fine del decidere il Collegio ritiene necessario
richiamare i principi, ormai consolidati, individuati dalla
Sezione nella materia delle interdittive antimafia, perché
utili a smentire, in fatto e in diritto, i motivi dedotti in
appello.
La Sezione (30.03.2018, n. 2031; 07.02.2018, n. 820;
20.12.2017, n. 5978; 12.09.2017, n. 4295) ha chiarito che l’interdittiva
antimafia costituisce una misura preventiva, volta a colpire
l’azione della criminalità organizzata impedendole di avere
rapporti con la Pubblica amministrazione, che prescinde
dall’accertamento di singole responsabilità penali nei
confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività
imprenditoriali, hanno rapporti con l’Amministrazione e si
fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di
polizia valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto
territorialmente competente.
Come chiarito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
06.04.2018, n. 3, si tratta di provvedimento amministrativo
al quale deve essere riconosciuta natura cautelare e
preventiva, in un’ottica di bilanciamento tra la tutela
dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di
iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost.;
costituisce una misura volta –ad un tempo– alla salvaguardia
dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra
le imprese e del buon andamento della Pubblica
amministrazione.
Tale provvedimento, infatti, mira a prevenire tentativi di
infiltrazione mafiosa nelle imprese, volti a condizionare le
scelte e gli indirizzi della Pubblica amministrazione e si
pone in funzione di tutela sia dei principi di legalità,
imparzialità e buon andamento, riconosciuti dall’art. 97
Cost., sia dello svolgimento leale e corretto della
concorrenza tra le stesse imprese nel mercato, sia, infine,
del corretto utilizzo delle risorse pubbliche.
L’interdittiva esclude, dunque, che un imprenditore, persona
fisica o giuridica, pur dotato di adeguati mezzi economici e
di una altrettanto adeguata organizzazione, meriti la
fiducia delle istituzioni (sia cioè da queste da
considerarsi come “affidabile”) e possa essere, di
conseguenza, titolare di rapporti contrattuali con le
predette amministrazioni, ovvero destinatario di titoli
abilitativi da queste rilasciati, come individuati dalla
legge, ovvero ancora (come ricorre nel caso di specie)
essere destinatario di “contributi, finanziamenti o mutui
agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque
denominate”.
Ciò preliminarmente chiarito, va aggiunto che la misura
interdittiva, essendo il potere esercitato espressione della
logica di anticipazione della soglia di difesa sociale,
finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del
contrasto alle attività della criminalità organizzata, non
deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede
penale di carattere definitivo e certi sull’esistenza della
contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose, e
quindi del condizionamento in atto dell’attività di impresa,
ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari
da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa
verificare il tentativo di ingerenza nell’attività
imprenditoriale della criminalità organizzata.
Ha aggiunto la Sezione terza che –pur essendo necessario che
siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi
di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di
concrete connessioni o possibili collegamenti con le
organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione
di un rapporto dell’impresa con la Pubblica amministrazione-
non è necessario un grado di dimostrazione probatoria
analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di
un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso,
potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un
valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini
che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza
di tempo.
Il rischio di inquinamento mafioso deve essere valutato in
base al criterio del più “probabile che non”, alla
luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere
integrata da dati di comune esperienza, evincibili
dall’osservazione dei fenomeni sociali, quale è, anzitutto,
anche quello mafioso (13.11.2017, n. 5214; 09.05.2016, n.
1743). Pertanto, gli elementi posti a base dell’informativa
possono essere anche non penalmente rilevanti o non
costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o,
addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto
del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di
assoluzione.
Gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente,
dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro
indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi
attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della
criminalità organizzata.
La Sezione (07.02.2018, n. 820) ha ancora chiarito che
-quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci,
amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari
che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle
associazioni mafiose- l’Amministrazione può dare loro
rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità
o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la
logica del “più probabile che non”, che l’impresa
abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di
diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti
soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano
essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia
attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia
mediante il contatto col proprio congiunto.
Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno
mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza
reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di
cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno
di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere
desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e
in contrasto con i principi costituzionali) che il parente
di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa
considerazione, per converso, che la complessa
organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si
fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo
fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’
mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da
pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’
e dell’associazione.
Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo
meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la
cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei
medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in
sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben
potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata
accertata l’esistenza –su un’area più o meno estesa– del
controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale
coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se
questi non risultino avere proprie fonti legittime di
reddito).
...
5. Tutti gli elementi sopra indicati sono dunque tali da
giustificare l’impugnata informativa (senza che sia
necessario disporre l’istruttoria richiesta
dall’appellante), alla luce del principio, ampiamente
argomentato, secondo cui
i fatti che
l’autorità prefettizia deve valorizzare prescindono
dall’atteggiamento antigiuridico della volontà mostrato dai
singoli e finanche da condotte penalmente rilevanti, non
necessarie per la sua emissione, ma sono rilevanti nel loro
valore oggettivo, storico, sintomatico, perché rivelatori
del condizionamento che l’organizzazione mafiosa può
esercitare sull’impresa, anche al di là e persino contro la
volontà del singolo
(Cons. St., sez. III, 10.01.2018, n. 97).
Giova aggiungere che la valutazione del
pericolo di infiltrazioni mafiose, di competenza del
Prefetto, è connotata, per la specifica natura del giudizio
formulato, dall'utilizzo di peculiari cognizioni di tecnica
investigativa e poliziesca, che esclude la possibilità per
il giudice amministrativo di sostituirvi la propria, ma non
impedisce ad esso di rilevare se i fatti riferiti dal
Prefetto configurino o meno la fattispecie prevista dalla
legge e di formulare un giudizio di logicità e congruità con
riguardo sia alle informazioni acquisite, sia alle
valutazioni che il Prefetto ne abbia tratto
(Cons. St., sez. III, n. 820 del 2018; n. 5130 del 2011; n.
2783 del 2004 e n. 4135 del 2006).
L'ampia discrezionalità di apprezzamento
del Prefetto in tema di tentativo di infiltrazione mafiosa
comporta che la sua valutazione sia sindacabile in sede
giurisdizionale in caso di manifesta illogicità,
irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al
sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità
dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento
dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del
provvedimento
(Cons. St. n. 4724 del 2001).
Tale valutazione costituisce espressione di
ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può
essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo
solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla
rilevanza dei fatti accertati
(Cons. St. n. 7260 del 2010). |
APPALTI:
Non è possibile ricorrere al soccorso istruttorio per la
durata del Piano economico finanziario diversa da quella
prevista dalla lex specialis di gara.
---------------
Contatti della pubblica amministrazione – Soccorso
istruttorio - Piano economico finanziario – Durata diversa
da quella richiesta dalla lex specialis di gara –
Impossibilità di ricorrere al soccorso istruttorio.
Il Piano economico finanziario (PEF),
che ha un riferimento temporale diverso da quello stabilito
dalla lex specialis di gara, non configura una mera
irregolarità formale o un errore materiale e non è, dunque,
sanabile mediante il soccorso istruttorio, che finirebbe per
colmare sostanziali carenze dell’offerta (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che il Piano economico finanziario (PEF)
è volto a dimostrare la concreta capacità del concorrente di
correttamente eseguire la prestazione per l’intero arco
temporale prescelto attraverso la responsabile
prospettazione di un equilibrio economico–finanziario di
investimenti e connessa gestione, nonché il rendimento per
l’intero periodo: il che consente all’amministrazione
concedente di valutare l’adeguatezza dell’offerta e
l’effettiva realizzabilità dell’oggetto della concessione
stessa (Cons.
Stato, V, 26.09.2013, n. 4760;
id.,
III, 22.11.2011, n. 6144).
È un documento che giustifica la sostenibilità dell’offerta
e non si sostituisce a questa ma ne rappresenta un supporto
per la valutazione di congruità, per provare che l’impresa
va a trarre utili tali da consentire la gestione proficua
dell’attività (Cons.
Stato, V, 10.02.2010, n. 653).
Dalla funzione del PEF consegue che esso non può essere
tenuto separato dall’offerta in senso stretto. Esso
rappresenta un elemento significativo della proposta
contrattuale perché dà modo all’amministrazione, che ha
invitato ad offrire, di apprezzare la congruenza e dunque
l’affidabilità della sintesi finanziaria contenuta
nell’offerta in senso stretto: sicché un vizio intrinseco
del PEF –come quello di un riferimento temporale diverso
dallo stabilito- si riflette fatalmente sulla qualità
dell’offerta medesima e la inficia (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 13.04.2018 n. 2214
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
3. Per vagliare la prima questione, accanto alle comunque
opinabili argomentazioni fondate sul tenore testuale della
lex specialis (il tenore letterale del n. 8.3 della
lettera di invito parrebbe deporre a favore della integrale
pertinenza del PEF all’offerta) e della formulazione
dell’offerta, occorre considerare la
funzione del PEF, quale scolpita dalla chiara giurisprudenza
di questo Consiglio di Stato, secondo la quale esso è volto
a dimostrare la concreta capacità del concorrente di
correttamente eseguire la prestazione per l’intero arco
temporale prescelto attraverso la responsabile
prospettazione di un equilibrio economico–finanziario di
investimenti e connessa gestione, nonché il rendimento per
l’intero periodo: il che consente all’amministrazione
concedente di valutare l’adeguatezza dell’offerta e
l’effettiva realizzabilità dell’oggetto della concessione
stessa (cfr.
Cons. Stato, V, 26.09.2013, n. 4760;
III, 22.11.2011, n. 6144).
È un documento che giustifica la
sostenibilità dell’offerta e non si sostituisce a questa ma
ne rappresenta un supporto per la valutazione di congruità,
per provare che l’impresa va a trarre utili tali da
consentire la gestione proficua dell’attività
(Cons.
Stato, V, 10.02.2010, n. 653).
Sicché il PEF non può essere tenuto
separato dall’offerta in senso stretto come vorrebbe
l’appellante, il quale lo vorrebbe un mero supporto
dimostrativo della semplice fondatezza dell’offerta stessa
(sì che un’eventuale sua imprecisione non inficerebbe quella
e sarebbe sanabile con il soccorso istruttorio).
In realtà, invece, il PEF rappresenta un
elemento significativo della proposta contrattuale perché dà
modo all’amministrazione, che ha invitato ad offrire, di
apprezzare la congruenza e dunque l’affidabilità della
sintesi finanziaria contenuta nell’offerta in senso stretto:
sicché un vizio intrinseco del PEF –come quello di un
riferimento temporale diverso dallo stabilito- si riflette
fatalmente sulla qualità dell’offerta medesima e la inficia.
Questa conclusione può essere confermata
dalla considerazione che -come ricorda la resistente- nel
corso dell’esercizio della concessione, l’eventuale
alterazione degli indicatori del PEF derivante da
circostanze sopravvenute può determinare la modifica di
elementi essenziali della concessione, quali l’entità del
canone o la durata del rapporto; del resto, ciò è richiamato
anche dallo schema di contratto attuativo allegato agli atti
di gara.
4. Tanto premesso, va condiviso l’assunto della sentenza
appellata, che il ricordato vizio del PEF non configuri una
mera irregolarità formale o un errore materiale e che dunque
non sia sanabile mediante il soccorso istruttorio, come ha
dapprima auspicato e poi erroneamente messo in pratica la
Provincia.
Muovendo dall’assunto sopra riportato al n. 3, vale il fatto
che l’appellante ha elaborato e sottoposto un nuovo PEF, su
base quindici anni, nel quale vari significativi parametri
sono stati ricalcolati, derivandone una naturale minore
remuneratività per Bosch della propria offerta.
Se si considera che invece il soccorso istruttorio può solo,
per consolidata giurisprudenza, consentire la sanatoria di
difformità e carenze formali e facilmente riconoscibili, ma
non supplire a sostanziali carenze dell’offerta (come era
quella dell’aver indicato quel diverso arco temporale),
diviene evidente che l’Amministrazione ha fatto illegittimo
uso di tale strumento; e si conclude che l’ammissione di Bo.
al soccorso istruttorio –nel senso di consentirle di
sostituire il PEF originariamente presentato con altro-
resta comunque un’indebita violazione del fondamentale
principio di parità di trattamento dei concorrenti: anche se
in ipotesi il nuovo PEF riuscisse, con il ricalcolo di
taluni elementi, a sostenere la perdurante convenienza
dell’offerta. |
EDILIZIA PRIVATA:
L’intervento di cui è causa consiste nella
ristrutturazione edilizia di un fabbricato ad uso familiare
e nel suo ampliamento contenuto entro il limite del 20 per
cento, così come prescrive l’art. 17, terzo comma, lett. b),
del d.P.R. n. 380 del 2001.
Va poi rilevato che –contrariamente da quanto sostenuto dal
Comune– l’edificio interessato dai lavori deve essere
considerato alla stregua di edificio unifamiliare.
Invero, per stabilire se un edificio possa essere
considerato unifamiliare occorre aver riguardo alle sue
caratteristiche strutturali e funzionali verificando se esso
sia nel concreto destinato ad ospitare uno o più nuclei
familiari.
---------------
... per l'annullamento dell'ordine di non effettuare
l'intervento, emesso dal Comune di Appiano Gentile in data
15.09.2014 - prot. 11973 VI/3/14, relativo alla DIA del
10.07.2014 - prot. 9322 e integrata in data 10.09.2014 -
prot. 11745 e per l’accertamento della non debenza del
contributo di concessione.
...
Con il ricorso in esame, viene impugnato il provvedimento in
data 15.09.2014 - prot. 11973 VI/3/14 emesso dal Comune di
Appiano Gentile con il quale è stato ordinato ai ricorrenti
di non effettuare l’intervento relativo alla DIA del
10.07.2014 - prot. 9322 (integrata in data 10.09.2014 - prot.
11745). L’ordine è stato disposto in ragione del mancato
versamento del contributo di costruzione.
Oltre alla domanda di annullamento, gli interessati
propongono domanda di accertamento della non debenza del
contributo di costruzione nonché domanda di condanna del
Comune alla restituzione della somma da loro comunque
versata (euro 7.875,00) oltre interessi e rivalutazione.
...
Con l’unico motivo di ricorso viene dedotta la violazione
dell’art. 17, terzo comma, lett. b), del d.P.R. n. 380 del
2001.
Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato.
Stabilisce l’art. 17, terzo comma, lett. b), del d.P.R. n.
380 del 2001 che il contributo di costruzione non è dovuto
<<per gli interventi di ristrutturazione e di
ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici
unifamiliari>>.
Per dare soluzione alla presente controversia occorre quindi
stabilire se nella fattispecie concreta tale norma sia
applicabile.
La risposta al quesito deve essere positiva.
Va invero osservato, innanzitutto, che l’intervento di cui è
causa consiste nella ristrutturazione edilizia di un
fabbricato ad uso familiare e nel suo ampliamento contenuto
entro il limite del 20 per cento, così come prescrive la
citata norma.
Va poi rilevato che –contrariamente da quanto sostenuto dal
Comune nella relazione depositata a seguito dell’ordinanza
istruttoria– l’edificio interessato dai lavori deve essere
considerato alla stregua di edificio unifamiliare.
Il Comune nega tale conclusione applicando alla fattispecie
le norme (contenute nell’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968,
nella legge regionale, oggi abrogata, n. 51 del 1975, nella
legge regionale n. 12 del 2005 e nell’art. 11 delle n.t.a.
del PGT) che, ai fini della quantificazione degli standard
urbanistici, indicano il rapporto teorico fra metri cubi
delle abitazioni (s.l.p.) e popolazione insediata e/o
insediabile.
L’Amministrazione rileva in particolare che, nella
fattispecie concreta, il rapporto mc/abitante (calcolato
dividendo i mc totali dell’edificio interessato dai lavori
con il numero delle persone ivi insediate) è superiore a
quello fissato dall’art. 11 delle n.t.a. del PGT (150 mc/ab);
per questo motivo l’abitazione oggetto dell’intervento non
potrebbe considerarsi alla stregua di “edificio
unifamiliare”.
Ritiene il Collegio, discostandosi da una precedente
pronuncia della Sezione (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II,
sent. n. 1062 del 2006), che questa argomentazione non possa
essere condivisa, e ciò in quanto le norme invocate dal
Comune sono, come detto, funzionali alla determinazione
teorica della popolazione complessivamente insediata od
insediabile nell’ambito del territorio comunale;
determinazione a sua volta finalizzata alla quantificazione,
in sede di elaborazione dei piani urbanistici, della
superficie complessiva da destinare a servizi pubblici. Tali
norme non danno quindi la definizione di “edificio
unifamiliare”.
Inoltre, l’accoglimento dell’argomentazione del Comune
porterebbe a conseguenze poco accettabili giacché lo stesso
edificio potrebbe essere considerato unifamiliare o meno a
seconda del numero delle persone che vi abitano ovvero,
posto che la determinazione del rapporto di cui si discute
non è più rimessa alla normativa statale, a seconda del
luogo in cui esso insiste.
Si deve pertanto ritenere che, per stabilire se un edificio
possa essere considerato unifamiliare, occorra aver riguardo
alle sue caratteristiche strutturali e funzionali
verificando se esso sia nel concreto destinato ad ospitare
uno o più nuclei familiari.
Per queste ragioni il ricorso deve essere accolto; pertanto
deve essere annullato il provvedimento impugnato e il Comune
di Appiano Gentile deve essere condannato a restituire ai
ricorrenti la somma di euro 7.875,00 oltre interessi sino al
soddisfo (trattandosi di debito di valuta la rivalutazione
non è invece dovuta).
La non univocità della giurisprudenza giustifica la
compensazione delle spese di giudizio (TAR Lombardia-Milano
Sez. II,
sentenza 13.04.2018 n. 1000 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA:
Rinvio pregiudiziale – Ambiente – Direttiva 92/43/CEE –
Conservazione degli habitat naturali – Zone speciali di
conservazione – Articolo 6, paragrafo 3 – Preesame volto a
determinare la necessità di procedere o meno a una
valutazione dell’incidenza di un piano o progetto su una
zona speciale di conservazione – Misure che possono essere
prese in considerazione a tal fine.
Per questi motivi, la Corte (Settima Sezione) dichiara:
L’articolo 6, paragrafo 3, della
direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21.05.1992, relativa
alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e
della flora e della fauna selvatiche, dev’essere
interpretato nel senso che, al fine di determinare se sia
necessario procedere successivamente a un’opportuna
valutazione delle incidenze di un piano o di un progetto su
un sito interessato, non occorre, nella fase di preesame,
prendere in considerazione le misure intese a evitare o a
ridurre gli effetti negativi di tale piano o progetto su
questo sito
(Corte di Giustizia UE, Sez. VII,
sentenza 12.04.2018 - causa C-323/17). |
APPALTI SERVIZI:
Abrogazione tacita, ad opera del nuovo Codice dei contratti
pubblici, delle disposizioni incompatibili in materia di
concessioni di servizi.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Concessione -
Concessione servizi – Disposizioni incompatibili extra
Codice dei contratti – Sono state tacitamente abrogate dal
Codice dei contratti.
Le disposizioni del nuovo Codice dei
contratti pubblici, approvato con d.lgs. 18.04.2018, n. 50,
in materia di concessioni di servizi abrogano tacitamente
tutte le altre disposizioni con esse incompatibili che
disciplinano la materia (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il C.g.a. che il Codice dei contratti pubblici
non ha riordinato le discipline settoriali in materia di
concessioni di servizi (non attuando il principio di delega
che imponeva il riordino e la semplificazione) ma questo non
significa che non si imponga una verifica se esse
sopravvivano in tutto o in parte al codice e che non si
debba verificare se vi siano state tacite abrogazioni delle
disposizioni previgenti: segnatamente, per quel che qui
rileva, quanto a requisiti soggettivi, relativi a condanne
penali, più severi di quelli previsti dal nuovo Codice.
Tanto più quando i requisiti sono posti da fonte
regolamentare anteriore al codice, sicché le disposizioni
del codice sembrano determinare abrogazione tacita in base
al triplice canone della legge generale, cronologicamente
successiva, e di rango superiore nella gerarchia delle
fonti.
Sicché, ove così fosse, il bando sarebbe nullo perché
prevede cause di esclusione non previste dal Codice dei
contratti pubblici (donde la non necessità di impugnare il
bando in via immediata e la rilevabilità d’ufficio della
nullità del bando), e sarebbe non applicabile, pertanto,
in parte qua (CGARS,
sentenza 12.04.2018 n. 217
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esclusione per inadempimento contrattuale e risoluzione
disposta da altra amministrazione sub judice.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Inadempimenti contrattuali – Art. 80, comma 5,
lett. c, d.lgs. n. 50 del 2018 – Risoluzione disposta da
altra Amministrazione – Impugnazione pendente – Legittimità
dell’esclusione
E’ legittima l’esclusione dalla gara
ex art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50,
disposta perché la concorrente è iscritta al casellario
informatico dell’ANAC per essersi resa colpevole di
violazioni in tema in inadempimento contrattuale, a nulla
rilevando che la risoluzione, disposta da altra stazione
appaltante per fatto ritenuto grave, sia stata
giudizialmente contestata innanzi al Tribunale con giudizio
ancora pendente (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che ad essere dirimente della questione,
attualmente oggetto di discussione in giurisprudenza (Cons.
St., sez. V, 02.03.2018, n. 1299; id.
27.04.2017, n. 1955) è la portata meramente
esemplificativa delle ipotesi di grave illecito
professionale, contemplate nel secondo periodo della
disposizione citata; ne consegue la piena autonomia della
fattispecie contemplata nel periodo precedente, che,
nell’assumere una portata generale, si affranca dai
requisiti specifici richiamati nei predicati casi
esemplificativi.
In particolare, il legame esistente tra ipotesi generale e
fattispecie tipizzate è rintracciabile nella «dimostrazione
con mezzi adeguati» che la norma impone alla stazione
appaltante, onere che, nell’ipotesi generale, non risente di
alcuna conformazione particolare, restando, di conseguenza,
verificabile, pro caso, alla stregua dei consueti parametri
di imparzialità dal punto di vista della non manifesta
irragionevolezza e proporzionalità della valutazione
compiuta; invece, nel secondo caso, per effetto della
naturale differenziazione, propria della tecnica redazionale
di esemplificazione, l’esistenza di presunzioni sulla
formazione della prova del grave illecito professionale
restringe l’ambito di valutazione della stazione appaltante.
Tale maggiore intensità descrittiva della fattispecie trova
un punto di equilibrio tra l’alleggerimento dell’onere
probatorio che grava sulla stazione appaltante –compito che
si risolve nella sola acquisizione di una sentenza che abbia
qualificato grave l’illecito professionale, magari con
statuizione di condanna dell’impresa– e la possibilità per
il contraente di neutralizzare tale effetto vincolante,
avvalendosi di una giudiziale contestazione con cui gli
venga consentito di opporsi ad un contestato inadempimento
contrattuale.
Tuttavia, l’esistenza di una contestazione giudiziale della
risoluzione non implica che la fattispecie concreta ricada
esclusivamente nell’ipotesi esemplificativa, con
applicazione del relativo regime operativo; difatti, il “fatto”
in sé di inadempimento resta pur sempre un presupposto
rilevante ai fini dell’individuazione di un grave illecito
professionale, secondo l’ipotesi generale (Cons.
St., sez. V, 02.03.2018, n. 1299); invero, come
visto tra le due fattispecie esiste un rapporto di parziale
sovrapponibilità, sussistendo una relazione di genus ad
speciem; a differenza della seconda ipotesi, nel caso
generale, la stazione appaltante non può avvalersi
dell’effetto presuntivo assoluto di gravità derivante dalla
sentenza pronunciata in giudizio, né, per converso,
l’impresa può opporne la pendenza per porre nell’irrilevante
giuridico il comportamento contrattuale indiziato.
In altri termini, scomponendo la fattispecie concreta, ben
può la stazione appaltante qualificare il fatto, inteso come
comportamento contrattuale del concorrente, quale grave
illecito professionale, dovendo tuttavia dimostrarne
l’incidenza in punto di inaffidabilità, e quindi
prescindendo dalla pendenza di un giudizio che viene a
collocarsi all’esterno della fattispecie normativa
utilizzata (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 11.04.2018 n. 2390
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Nodo centrale della controversia è costituto dalla portata
applicativa dell’art. 80, comma 5, lettera c), del d.lgs.
18.04.2016 n. 50 che qualifica come causa di esclusione
l’ipotesi in cui «c) la stazione appaltante dimostri con
mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole
di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la
sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le
significative carenze nell'esecuzione di un precedente
contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato
la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio,
ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno
dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad
altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il
processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere
informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il
fornire, anche per negligenza, informazioni false o
fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni
sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero
l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto
svolgimento della procedura di selezione».
Rileva il Collegio che ad essere dirimente della questione,
attualmente oggetto di discussione in giurisprudenza
(Consiglio di Stato V Sezione 02.03.2018 n. 1299; Consiglio
di Stato 27.04.2017 n. 1955), è la portata meramente
esemplificativa delle ipotesi di grave illecito
professionale, contemplate nel secondo periodo della
disposizione citata; ne consegue la piena autonomia della
fattispecie contemplata nel periodo precedente, che,
nell’assumere una portata generale, si affranca dai
requisiti specifici richiamati nei predicati casi
esemplificativi.
In particolare, il legame esistente tra ipotesi generale e
fattispecie tipizzate è rintracciabile nella «dimostrazione
con mezzi adeguati» che la norma impone alla stazione
appaltante, onere che, nell’ipotesi generale, non risente di
alcuna conformazione particolare, restando, di conseguenza,
verificabile, pro caso, alla stregua dei consueti parametri
di imparzialità dal punto di vista della non manifesta
irragionevolezza e proporzionalità della valutazione
compiuta; invece, nel secondo caso, per effetto della
naturale differenziazione, propria della tecnica redazionale
di esemplificazione, l’esistenza di presunzioni sulla
formazione della prova del grave illecito professionale
restringe l’ambito di valutazione della stazione appaltante.
Tale maggiore intensità descrittiva della fattispecie trova
un punto di equilibrio tra l’alleggerimento dell’onere
probatorio che grava sulla stazione appaltante –compito che
si risolve nella sola acquisizione di una sentenza che abbia
qualificato grave l’illecito professionale, magari con
statuizione di condanna dell’impresa– e la possibilità per
il contraente di neutralizzare tale effetto vincolante,
avvalendosi di una giudiziale contestazione con cui gli
venga consentito di opporsi ad un contestato inadempimento
contrattuale.
Tuttavia, l’esistenza di una contestazione giudiziale della
risoluzione non implica che la fattispecie concreta ricada
esclusivamente nell’ipotesi esemplificativa, con
applicazione del relativo regime operativo; difatti, il “fatto”
in sé di inadempimento resta pur sempre un presupposto
rilevante ai fini dell’individuazione di un grave illecito
professionale, secondo l’ipotesi generale (Consiglio di
Stato V Sezione 02.03.2018 n. 1299); invero, come visto tra
le due fattispecie esiste un rapporto di parziale
sovrapponibilità, sussistendo una relazione di genus ad
speciem; a differenza della seconda ipotesi, nel caso
generale, la stazione appaltante non può avvalersi
dell’effetto presuntivo assoluto di gravità derivante dalla
sentenza pronunciata in giudizio, né, per converso,
l’impresa può opporne la pendenza per porre nell’irrilevante
giuridico il comportamento contrattuale indiziato.
In altri termini, scomponendo la fattispecie concreta,
ben
può la stazione appaltante qualificare il fatto, inteso come
comportamento contrattuale del concorrente, quale grave
illecito professionale, dovendo tuttavia dimostrarne
l’incidenza in punto di inaffidabilità, e quindi
prescindendo dalla pendenza di un giudizio che viene a
collocarsi all’esterno della fattispecie normativa
utilizzata.
Tale soluzione trova conforto, a giudizio del Collegio,
oltre che nella formulazione letterale della norma, anche
nella ratio legis; in proposito, accettare la tesi
propugnata dalla società ricorrente implicherebbe che,
rispetto a fatti ugualmente costituenti grave illecito
professionale, di certuni sarebbe sufficiente neutralizzare
gli effetti ostativi della partecipazione mediante la
semplice proposizione di una domanda giudiziale ed avvalersi
della mera pendenza del relativo giudizio; tale idea
renderebbe la norma, di fatto, di difficile applicazione
concreta, poiché la stessa resterebbe soggetta ad una sorta
di condizione potestativa in favore di chi dovrebbe invece
subirla, vanificando, nel contempo, la funzione di tutela
dell’interesse pubblico di estromettere concorrenti che la
disposizione codicistica in scrutinio consente alla stazione
appaltante, come ipotesi generale, di qualificare non
affidabili, a prescindere da una presupposta verifica
giudiziale.
Va aggiunto che nel caso in esame, quanto opinato dalla
stazione appaltante, che non richiama in alcun modo
possibili effetti vincolanti riconducibili ad una sentenza
che abbia statuito sui fatti di risoluzione, non desta
perplessità in punto di fatto, né connotazioni di
irragionevolezza o di assenza di proporzionalità, aspetti
che, tra l’altro, non risultano aver costituito oggetto di
specifica contestazione nel presente giudizio.
L’adesione del Collegio alla superiore opzione
interpretativa consente di ritenere non rilevante e
vincolante l’orientamento espresso dalla Sezione quarta di
questo Tribunale con l’ordinanza n. 5893/2017, richiamata da
parte ricorrente.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto, con
integrale compensazione tra le parti delle spese
processuali, in ragione della novità della questione
esaminata. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Gestione illecita di rifiuti - Attività
raccolta, trasporto, recupero e smaltimento dei rifiuti -
Operazioni collegate o di controllo - Fattispecie:
Partecipazione come commerciante o intermediario.
L'attività di gestione illecita di rifiuti, include, secondo
la descrizione che ne è data dall'art. 183, comma 1, lett.
n), d.lgs. 152/2006, la raccolta, il trasporto, il recupero
e lo smaltimento dei rifiuti, compresi il controllo di tali
operazioni e gli interventi successivi alla chiusura dei
siti di smaltimento, nonché le operazioni effettuate in
qualità di commerciante o intermediario, in quanto lo
smaltimento (cioè qualsiasi operazione diversa dal recupero)
è una delle condotte che concorrono a configurare la
gestione illecita di rifiuti, anche qualora vi si partecipi
come commerciante o intermediario, come avvenuto nel caso di
specie, nel quale l'imputato, dopo aver raccolto,
trasportato e accumulato i rifiuti (tra l'altro rinvenuti in
cumuli insistenti su tre diverse aree all'interno del fondo
di cui l'imputato è usufruttuario, della superficie,
rispettivamente, di 50, 30 e 20 metri quadrati), li
trasportava in discarica.
RIFIUTI - Nozione di deposito temporaneo
di rifiuti - Presupposti e requisiti per la qualifica di:
deposito preliminare, messa in riserva, discarica abusiva e
abbandono - Art. 183, c. 1, lett. m), d.lgs. n.152/2006.
Per deposito controllato o temporaneo si intende ogni
raggruppamento di rifiuti, effettuato prima della raccolta,
nel luogo in cui sono stati prodotti, nel rispetto delle
condizioni dettate dall'art. 183, comma 1, lett. bb), d.lgs.
n. 152 del 2006, cosicché, in difetto anche di uno dei
requisiti normativi, il deposito non può ritenersi
temporaneo, ma deve essere qualificato, a seconda dei casi,
come "deposito preliminare" (se il collocamento di
rifiuti è prodromico ad un'operazione di smaltimento), come
"messa in riserva" (se il materiale è in attesa di
un'operazione di recupero), come "abbandono" (quando
non sono destinati ad operazioni di smaltimento o recupero)
o come "discarica abusiva" (nell'ipotesi di abbandono
d rifiuti reiterato nel tempo e rilevante in termini
spaziali e quantitativi).
RIFIUTI - Attività di raccolta,
trasporto, recupero, smaltimento, commercio e
intermediazione di rifiuti - Assenza dell'autorizzazione o
iscrizione o comunicazione prescritte dalla normativa
vigente - Concorso integrato e non alternato - Art. 6, c. 1,
lett. d), d.l. n.172/2008.
In tema di rifiuti, le condotte descritte dall'art. 6, comma
1, lett. d), d.l. n. 172 del 2008, e cioè le attività di
raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio e
intermediazione di rifiuti in mancanza dell'autorizzazione,
iscrizione comunicazione prescritte dalla normativa vigente,
non sono tra loro alternative, non essendo descritte nel
senso che la commissione di una escluda la verificazione o
la ipotizzabilità dell'altra, cosicché è ben possibile che
alcune o tutte di esse, in concreto, concorrano, posto che
esse non sono tra loro ontologicamente incompatibili,
essendo, anzi, tra loro logicamente concatenate, cosicché la
contestazione che le contempli tutte non risulta né illogica
né indeterminata (Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.04.2018 n. 15771 - link a
www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, in materia di
efficacia del piano di attuazione dopo la scadenza del
termine previsto per la sua esecuzione, si è soffermata sul
significato del principio generale contenuto nell'art. 17,
primo comma, della legge n. 1150 del 1942, per il quale,
«decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano
particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in
cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a
tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella
costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli
esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso».
È stato affermato che da
tale comma, debbono trarsi i seguenti principi (di per sé
applicabili anche al piano di lottizzazione, equiparato al
piano particolareggiato di iniziativa pubblica):
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la
concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata
(con specificazione delle regole di conformazione disposte
dal piano regolatore generale, ai sensi dell’art. 869 del
codice civile);
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono
efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono
le regole determinative del contenuto della proprietà delle
aree incluse nel piano attuativo);
c) col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di
lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto
concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la
sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori
costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano
regolatore generale e con quelle del piano attuativo (anche
sugli allineamenti), che per questa parte ha efficacia
ultrattiva.
In altri termini, l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si
ispira al principio secondo cui, mentre le previsioni del
piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della
utilizzazione dei suoli (e determinano ciò che è consentito
e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo
urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano
attuativo delle determinazioni sulle specifiche
conformazioni delle proprietà), le previsioni dello
strumento attuativo hanno carattere di tendenziale
stabilità, perché specificano in dettaglio le consentite
modifiche del territorio, in una prospettiva in cui
l’attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della
pianificazione, determina l'assetto definitivo della parte
del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in
un contesto compiutamente definito.
In considerazione della stabilità delle previsioni del piano
attuativo, va affermato dunque il principio per il quale le
previsioni urbanistiche di un piano attuativo rilevano a
tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza.
---------------
1.‒ Con il primo motivo di gravame, l’appellante lamenta la
violazione degli artt. 16 e 17 della legge. n. 1150 del 1942
e dell’art. 20 della legge regionale n. 11 del 2004, in
quanto il limite alla trasformabilità degli edifici
monumentali previsto dall’art. 9 delle NTA del Piano
Particolareggiato era già decaduto al momento dell’adozione
dell’atto.
La società sostiene che la natura di vincolo apposto su
singole proprietà escluderebbe all’evidenza la possibilità
di qualificare la previsione dell’art. 9 di cui si discute
come una ‘prescrizione di zona’, che di per sé mantiene la
sua efficacia pure una volta scaduto il piano
particolareggiato.
1.1.‒ Il motivo non può essere accolto.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, in materia di
efficacia del piano di attuazione dopo la scadenza del
termine previsto per la sua esecuzione, si è soffermata sul
significato del principio generale contenuto nell'art. 17,
primo comma, della legge n. 1150 del 1942, per il quale,
«decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano
particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in
cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a
tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella
costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli
esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso».
È stato affermato (Sez. IV, 04.12.2007, n. 6170) che da
tale comma, debbono trarsi i seguenti principi (di per sé
applicabili anche al piano di lottizzazione, equiparato al
piano particolareggiato di iniziativa pubblica):
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la
concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata
(con specificazione delle regole di conformazione disposte
dal piano regolatore generale, ai sensi dell’art. 869 del
codice civile);
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono
efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono
le regole determinative del contenuto della proprietà delle
aree incluse nel piano attuativo);
c) col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di
lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto
concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la
sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori
costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano
regolatore generale e con quelle del piano attuativo (anche
sugli allineamenti), che per questa parte ha efficacia
ultrattiva.
In altri termini, l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si
ispira al principio secondo cui, mentre le previsioni del
piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della
utilizzazione dei suoli (e determinano ciò che è consentito
e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo
urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano
attuativo delle determinazioni sulle specifiche
conformazioni delle proprietà), le previsioni dello
strumento attuativo hanno carattere di tendenziale
stabilità, perché specificano in dettaglio le consentite
modifiche del territorio, in una prospettiva in cui
l’attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della
pianificazione, determina l'assetto definitivo della parte
del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in
un contesto compiutamente definito.
In considerazione della stabilità delle previsioni del piano
attuativo, va affermato dunque il principio per il quale le
previsioni urbanistiche di un piano attuativo rilevano a
tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza (Consiglio
di Stato, sez. V, 30.04.2009, n. 2768).
In continuità con il citato orientamento giurisprudenziale,
ritiene il Collegio che la citata previsione dell’art. 9 del
piano particolareggiato sia “ultrattiva”, trattandosi di una
misura conformativa della proprietà, che disciplina i limiti
alla trasformabilità di una peculiare tipologia di edifici
del centro storico (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.04.2018 n. 2154 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il parere reso dalla
commissione edilizia sulla domanda di condono è un atto endoprocedimentale inidoneo, in quanto tale, ad essere
oggetto di una autonoma impugnazione.
Laddove non acquisito, la sua mancanza non è idonea a
viziare l’adozione di atti repressivi di abusi edilizi, né
ai fini del rigetto di istanze di condono o sanatoria, non
essendone atto presupposto ai fini dell’adozione.
---------------
3.‒ Va respinto anche il terzo motivo, con il quale
l’appellante lamenta la mancata acquisizione del parere
della commissione edilizia.
3.1.‒ Va richiamata la costante giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato, secondo cui il parere reso dalla
commissione edilizia sulla domanda di condono è un atto
endoprocedimentale inidoneo, in quanto tale, ad essere
oggetto di una autonoma impugnazione (Consiglio di Stato,
sez. IV, 12.10.2016, n. 4208). Laddove non acquisito,
la sua mancanza non è idonea a viziare l’adozione di atti
repressivi di abusi edilizi, né ai fini del rigetto di
istanze di condono o sanatoria, non essendone atto
presupposto ai fini dell’adozione (Consiglio di Stato, sez. IV, 11.10.2017, n. 4703; Consiglio di Stato, sez. IV,
25.11.2016, n. 4962) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.04.2018 n. 2154 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Condanna alle spese di lite dell’Amministrazione formalmente
vittoriosa per comportamento scorretto.
---------------
Processo amministrativo – Spese di giudizio – A carico
della parte vittoriosa – Art. 88 c.p.c. – Condizione.
L’Amministrazione, pur formalmente
vittoriosa nel doppio grado, è stata condannata a pagare le
spese di lite ex art. 88 c.p.c. perché ha taciuto una
circostanza che se rilevata subito non solo non avrebbe
fatto iniziare la causa ma non la avrebbe fatta durare per
molti anni (1).
---------------
(1) La Sezione ha condannato l’ente locale che ha violato il canone
di lealtà processuale sancito dall’art. 88, comma 1, c.p.c.
–sub specie di inosservanza del divieto di non ostacolare la
sollecita definizione del giudizio (Cass. civ., sez. III,
ord. 18.12.2009, n. 26773; arg. anche dall’art. 2, comma 2,
c.p.a.)– consentendo che la causa si dilungasse su due gradi
di giudizio e per ben dieci anni.
Da ciò discende l’applicazione della norma sancita dall’art.
92, comma 1, c.p.c., secondo cui il giudice “….può
indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al
rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per
trasgressione al dovere di cui all’art. 88, essa ha causato
all’altra parte” (sul carattere indeterminato del
precetto di cui all’art. 88 cit., sulla possibilità che esso
venga individuato ex post dal giudice e sulla
applicabilità di tale disposizione al processo
amministrativo, cfr.
Cons. St., sez. V, 25.02.2015, n. 930)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.04.2018 n. 2142
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
12. Le spese del doppio grado di giudizio gravano sul
Comune e possono liquidarsi come in dispositivo, tenuto
conto dei parametri di cui al regolamento n. 55 del 2014 e
di cui agli artt. 26, comma 1, c.p.a. e 96, comma 3, c.p.c.
ricorrendone i presupposti applicativi (cfr., da ultimo,
Cons. Stato, Sez. IV, 27.02.2018, n. 1186; 22.02.2018, n.
1117; 24.05.2016, n. 2200; v. anche Cass. civ., Sez. VI,
02.11.2016, n. 22150).
12.1. E’, infatti, evidente che, nella specie, l’ente locale
ha violato il canone di lealtà processuale sancito dall’art.
88, comma 1, c.p.c. –sub specie di inosservanza del divieto
di non ostacolare la sollecita definizione del giudizio
(cfr., sul punto, Cass. civ., sez. III, ord. 18.12.2009, n.
26773; arg. anche dall’art. 2, comma 2, c.p.a.)– consentendo
che la causa si dilungasse su due gradi di giudizio e per
ben dieci anni.
12.2. Da ciò discende l’applicazione della norma sancita
dall’art. 92, comma 1, c.p.c., secondo cui il giudice <<….può
indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al
rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per
trasgressione al dovere di cui all’art. 88, essa ha causato
all’altra parte>> (sul carattere indeterminato del
precetto di cui all’art. 88 cit., sulla possibilità che esso
venga individuato ex post dal giudice e sulla applicabilità
di tale disposizione al processo amministrativo, cfr. Cons.
Stato, sez. V, 25.02.2015, n. 930, cui si rinvia a mente
dell’art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Bar rumoroso: il Comune può intervenire, ma con i piedi di
piombo.
Se un locale disturba il vicinato con
rumori molesti notturni il sindaco può intervenire ma con
cautela. L'ordinanza di limitazione dell'orario di apertura
dell'esercizio rumoroso deve infatti essere adeguatamente
documentata e giustificata. Diversamente diventa un
boomerang per l'ente locale
(massima tratta da www.dirittoegiustizia.it).
---------------
Ciò chiarito, il ricorso, volto ad ottenere l’annullamento
del provvedimento con cui il Sindaco ha ordinato la
riduzione dell’orario di apertura del locale condotto
dall’odierno ricorrente, per una durata di sessanta giorni,
merita positivo apprezzamento per le ragioni che seguono.
Deve preliminarmente essere precisato che il provvedimento
impugnato risulta riconducibile, per riferimenti ivi
presenti e per il suo stesso contenuto, alla previsione di
cui al comma 7-bis dell’art. 50 del TUEL, così come
modificato dall’art. 8 del D.L. 14/2017, convertito con la
legge 48/2017, non essendo stata rappresentata, dal Comune,
alcuna particolare condizione di urgenza e necessità tra
quelle descritte nei commi precedenti, la quale avrebbe
determinato l’applicazione delle diverse disposizioni ivi
contenute.
L’art. 50 (dedicato alle competenze del Sindaco “quale
autorità locale nelle materie previste da specifiche
disposizioni di legge”) prevede, infatti, per quanto qui
rileva, che:
- comma 5: “In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di
igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le
ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco,
quale rappresentante della comunità locale. Le medesime
ordinanze sono adottate dal sindaco, quale rappresentante
della comunità locale, in relazione all’urgente necessità di
interventi volti a superare situazioni di grave incuria o
degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio
culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità
urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela
della tranquillità e del riposo dei residenti, anche
intervenendo in materia di orari di vendita, anche per
asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e
superalcoliche. Negli altri casi l’adozione dei
provvedimenti d'urgenza ivi compresa la costituzione di
centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo
Stato o alle regioni in ragione della dimensione
dell’emergenza e dell'eventuale interessamento di più ambiti
territoriali regionali”;
- comma 7: “Il sindaco, altresì, coordina e riorganizza, sulla
base degli indirizzi espressi dal consiglio comunale e
nell'ambito dei criteri eventualmente indicati dalla
regione, gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici
esercizi e dei servizi pubblici, nonché, d'intesa con i
responsabili territorialmente competenti delle
amministrazioni interessate, gli orari di apertura al
pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio,
al fine di armonizzare l'espletamento dei servizi con le
esigenze complessive e generali degli utenti”.
- comma 7-bis. “Il Sindaco, al fine di assicurare il
soddisfacimento delle esigenze di tutela della tranquillità
e del riposo dei residenti nonché dell’ambiente e del
patrimonio culturale in determinate aree delle città
interessate da afflusso particolarmente rilevante di
persone, anche in relazione allo svolgimento di specifici
eventi, nel rispetto dell’articolo 7 della legge 07.08.1990,
n. 241, può disporre, per un periodo comunque non superiore
a trenta giorni, con ordinanza non contingibile e urgente,
limitazioni in materia di orari di vendita, anche per
asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e
superalcoliche”.
I fatti richiamati nel provvedimento come eventi che hanno
determinato l’intervento del Sindaco risalgono a giugno e
luglio, mentre l’ordinanza in questione è stata adottata
solo in ottobre 2017. Inoltre, non è stata rappresentata
alcuna situazione di urgenza che avrebbe giustificato non
solo l’adozione di un’ordinanza contingibile e urgente, ma
anche l’omissione della comunicazione di avvio del
procedimento.
Deve, dunque, ritenersi che il provvedimento sia
riconducibile all’ipotesi descritta dal comma 7-bis e,
conseguentemente, il Comune avrebbe dovuto garantire
all’odierno ricorrente un’adeguata partecipazione al
procedimento preordinato alla nuova regolazione dell’orario
d’apertura, che invece, è stata omessa.
Inoltre, poiché la norma di riferimento sopra ricordata
ammette una riduzione dell’orario di apertura per un periodo
massimo di trenta giorni, mentre, nel caso di specie, è
stata ordinata la chiusura anticipata per sessanta giorni,
non può che constatarsi un eccesso di potere. Il
provvedimento in esame, infatti, ha inciso sulla situazione
giuridica soggettiva del ricorrente oltre i limiti
consentiti dalla legge e, dunque, adottando una disposizione
priva di copertura normativa che la legittimasse.
Per tali ragioni, deve essere disposto l’annullamento del
provvedimento impugnato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 09.04.2018 n. 407 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Ai fini della
configurazione del reato di
falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cod. pen.)
costituisce atto pubblico non solo quello
destinato ad assolvere alla funzione attestativa o
probatoria esterna, con riflessi diretti e
immediati nei rapporti tra privati e pubbliche
amministrazioni, ma anche gli atti interni,
ovvero quelli che sono destinati ad inserirsi nel
procedimento amministrativo, offrendo un
contributo di conoscenza o di valutazione, o quelli che si
collocano nel contesto di una
complessa sequenza procedimentale, anche non conforme allo
schema tipico, ponendosi
come necessario presupposto di momenti procedurali
successivi.
In altri termini, il reato di
falso ideologico in atto pubblico è configurabile in
relazione a qualsiasi documento che,
benché non imposto dalla legge, è compilato da un pubblico
ufficiale nell'esercizio delle sue
funzioni per documentare, sia pure nell'ambito interno
dell'amministrazione di
appartenenza, la regolarità degli adempimenti ai quali è
obbligato ovvero circostanze di
fatto cadute sotto la sua percezione diretta o, comunque,
ricollegabili a tali adempimenti e
si inserisce nell' iter procedimentale prodromico
all'adozione di un atto finale.
---------------
4.3. - La doglianza sub 2.7. -con cui si contesta l'omessa
riqualificazione del reato
di falso ai sensi dell'art. 481 cod. pen.- è manifestamente
infondata.
Come ben evidenziato dalla Corte d'appello, ai fini della
configurazione del reato di
falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cod. pen.)
costituisce atto pubblico non solo quello
destinato ad assolvere alla funzione attestativa o
probatoria esterna, con riflessi diretti e
immediati nei rapporti tra privati e pubbliche
amministrazioni, ma anche gli atti interni,
ovvero quelli che sono destinati ad inserirsi nel
procedimento amministrativo, offrendo un
contributo di conoscenza o di valutazione, o quelli che si
collocano nel contesto di una
complessa sequenza procedimentale, anche non conforme allo
schema tipico, ponendosi
come necessario presupposto di momenti procedurali
successivi.
In altri termini, il reato di
falso ideologico in atto pubblico è configurabile in
relazione a qualsiasi documento che,
benché non imposto dalla legge, è compilato da un pubblico
ufficiale nell'esercizio delle sue
funzioni per documentare, sia pure nell'ambito interno
dell'amministrazione di
appartenenza, la regolarità degli adempimenti ai quali è
obbligato ovvero circostanze di
fatto cadute sotto la sua percezione diretta o, comunque,
ricollegabili a tali adempimenti e
si inserisce nell' iter procedimentale prodromico
all'adozione di un atto finale (ex multis,
Sez. 5, n. 9368 del 19/11/2013, dep. 26/02/2014, Rv. 258952;
Sez. 6, n. 11425 del
20/11/2012, dep. 11/03/2013, Rv. 254866).
Del tutto
correttamente, dunque, la Corte
distrettuale ha ritenuto sussistente il reato di cui
all'art. 479 e non quello di cui all'art. 481
cod. pen. E non meritano considerazione le generiche
affermazioni difensive secondo cui la
mancanza di una perizia circa la situazione del fabbricato
preesistente rende incerta la falsità
degli atti oggetto dell'imputazione, in presenza -come
visto- di ampia e univoca documentazione dalla quale tale
situazione emerge con chiarezza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2018 n. 15416). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come emerge dall'art. 338 del
regio decreto n. 1265 del 1934 il vincolo cimiteriale
produce una inedificabilità assoluta.
---------------
4.4. - La censura sub 2.8., con cui si contesta la ritenuta
sussistenza del vincolo
cimiteriale, è manifestamente infondata, perché si basa sul
presupposto, smentito dagli atti, che l'intervento in
oggetto non sia l'edificazione di una nuova costruzione in
zona di vincolo
cimiteriale, ma un intervento di demolizione e ricostruzione
di un immobile già esistente.
Le
considerazioni svolte della difesa circa l'effettiva
distanza dell'immobile e circa l'ampiezza
del vincolo cimiteriale risultano, dunque, irrilevanti,
perché, come emerge dall'art. 338 del
regio decreto n. 1265 del 1934 il vincolo cimiteriale
produce una inedificabilità assoluta.
E
risulta pacifico che l'edificio si trovasse a una distanza
dal cimitero di molto inferiore ai 100
metri e fosse, dunque, sottoposto a tale vincolo (pagg. 23 e
24 della sentenza impugnata)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2018 n. 15416). |
EDILIZIA PRIVATA:
Risulta manifestamente infondata, in punto di diritto,
l'affermazione difensiva secondo cui la
realizzazione di piani interrati non costituirebbe nuova
costruzione.
È sufficiente richiamare,
sul punto, la costante giurisprudenza della Corte di
cassazione e del Consiglio di Stato la
quale qualifica come nuova costruzione tali interventi e
richiede per gli stessi, in via
generale, il permesso di costruire.
---------------
4.5. - I motivi sub 2.9., 2.10., 2.11. -che possono essere
trattati congiuntamente
perché attengono a supposti problemi idrogeologici che
avrebbero giustificato lo
spostamento dell'area di sedime e la realizzazione di piani
interrati- sono formulati in modo
non specifico e, comunque, manifestamenti infondati.
Si tratta, ancora una volta, di una mera prospettazione
difensiva diretta ad attribuire
veridicità ad accertamenti tecnici sostanzialmente
provenienti dagli imputati e di portata del
tutto generica. Infatti i ricorrenti non spiegano in modo
sufficientemente chiaro quale
sarebbe il rapporto di causalità fra tali problemi
idrogeologici, lo spostamento dell'area di
sedime e la realizzazione di piani interrati. In ogni caso,
la presenza di tali problemi, anche
se accertata, non autorizza a ritenere quale
ristrutturazione una costruzione del tutto nuova
e del tutto priva di corrispondenza rispetto a quanto già
esistente.
Né risulta plausibile, sul
piano logico ancor prima che sul piano giuridico, che la
situazione idrogeologica richieda un
ampliamento anziché una riduzione della superficie e del
volume edificato. Più in generale,
risulta manifestamente infondata, in punto di diritto,
l'affermazione difensiva secondo cui la
realizzazione di piani interrati non costituirebbe nuova
costruzione.
È sufficiente richiamare,
sul punto, la costante giurisprudenza della Corte di
cassazione e del Consiglio di Stato la
quale qualifica come nuova costruzione tali interventi e
richiede per gli stessi, in via
generale, il permesso di costruire (ex multis, Cass., Sez.
3, n. 28840 del 09/07/2008, Rv.
240836; Sez. 3, n. 24464 del 10/05/2007, Rv. 236885;
Consiglio di Stato, Sez. 4, del 21/07/2010, n. 4801)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2018 n. 15416). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se è vero che l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013
(conv. dalla legge n. 98 del 2013),
consente di qualificare come "ristrutturazione edilizia",
l'intervento di ripristino o di
ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, anche in caso di
modifica della sagoma degli stessi, e del pari vero che è
necessario che sia accertata la
preesistente consistenza dell'immobile, intesa come il
complesso di tutte le caratteristiche
essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura
complessiva, etc.), in base a riscontri
documentali o altri elementi certi e verificabili.
Con la conseguenza che la mancanza anche di uno
solo di tali elementi, necessari
per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere
sussistente il requisito che la citata
disposizione richiede per escludere, in ragione della
anzidetta qualificazione, la necessità di
preventivo permesso di costruire.
---------------
4.9. - Priva
di specificità e, comunque, ripetitiva di una doglianza già
motivatamente
rigettata dalla Corte d'appello è la censura sub 2.15.
Essa si riferisce al verbale redatto in contraddittorio l'08.11.2005, in cui il
precedente fabbricato viene descritto soltanto in larghezza
e lunghezza, senza volumi,
altezza e vani interrati. La difesa si limita, però, ad
affermare che tale verbale non è stato
redatto in contraddittorio con la ditta S.P.M.I., perché
questa ha acquistato l'immobile in un
momento successivo e a formulare generiche considerazioni
circa l'erroneità dei dati di
larghezza e lunghezza presi in considerazione dal giudice.
Valgono sul punto, dunque, le considerazioni già svolte sub
4.1., trovando
applicazione il principio, costantemente affermato dalla
giurisprudenza di legittimità,
secondo cui, se è vero che l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013
(conv. dalla legge n. 98 del 2013),
consente di qualificare come "ristrutturazione edilizia",
l'intervento di ripristino o di
ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, anche in caso di
modifica della sagoma degli stessi, e del pari vero che è
necessario che sia accertata la
preesistente consistenza dell'immobile, intesa come il
complesso di tutte le caratteristiche
essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura
complessiva, etc.), in base a riscontri
documentali o altri elementi certi e verificabili (Sez. 3,
n. 5912 del 22/01/2014, Rv.
258597); con la conseguenza che la mancanza anche di uno
solo di tali elementi, necessari
per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere
sussistente il requisito che la citata
disposizione richiede per escludere, in ragione della
anzidetta qualificazione, la necessità di
preventivo permesso di costruire (Sez. 3, n. 45147 del
08/10/2015, Rv. 265444)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2018 n. 15416). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La fattispecie di abuso d'ufficio può essere integrata anche
in riferimento ad
un atto interno al procedimento amministrativo, non
rilevando la circostanza che il
provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico
ufficiale.
E, in tema, di
abuso di ufficio, può integrare
la condotta del reato anche la formulazione di un parere
consultivo, se espresso contra
legem, nel caso in cui il giudice abbia accertato che il
provvedimento finale sia stato frutto
di accordo tra gli operanti, con la conseguenza che il
predetto parere si inserisce nell'iter
criminis come elemento diretto ad agevolare la formazione di
un atto illegittimo ed in grado
di far conseguire un ingiusto vantaggio.
---------------
Inammissibile è il motivo con cui la difesa
contesta la motivazione della sentenza impugnata circa il
mancato riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche.
Come ben evidenziato dalla
Corte d'appello, la condotta
dell'imputato presenta una rilevante gravità, perché
l'assoluta evidenza degli abusi commessi denota una
particolare pervicacia oltre a un totale dispregio della
funzione
pubblica esercitata.
---------------
4.13. - I
motivi sub 2.30., 2.33., 3.2. -che possono essere trattati
congiuntamente,
perché attengono alla sussistenza dei presupposti oggettivi
e soggettivi del reato di abuso
d'ufficio- sono inammissibili, perché meramente ripetitivi
di doglianze già motivatamente
disattese dalla Corte d'appello.
Sul piano giuridico, deve permettersi che -contrariamente a
quanto ritenuto dalle
difese- il rilascio, da parte dell'imputato Ce., del
parere favorevole è pienamente
idoneo a integrare il reato di abuso d'ufficio.
Infatti, la fattispecie di abuso d'ufficio può essere
integrata anche in riferimento ad
un atto interno al procedimento amministrativo, non
rilevando la circostanza che il
provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico
ufficiale (ex plurimis, Sez. 3, n. 16449
del 13/12/2016, dep. 31/03/2017, Rv. 269820).
E, in tema, di
abuso di ufficio, può integrare
la condotta del reato anche la formulazione di un parere
consultivo, se espresso contra
legem, nel caso in cui il giudice abbia accertato che il
provvedimento finale sia stato frutto
di accordo tra gli operanti, con la conseguenza che il
predetto parere si inserisce nell'iter
criminis come elemento diretto ad agevolare la formazione di
un atto illegittimo ed in grado
di far conseguire un ingiusto vantaggio (Sez. 2, n. 5546 del
11/12/2013, dep. 04/02/2014,
Rv. 258206).
Quanto, poi, al concorso dei privati nel caso concreto, lo
stesso è stato ben delineato
nella sentenza impugnata (pagg. 51-52), laddove si fa
riferimento all'accordo tra gli imputati
che emerge dall'assoluta macroscopicità dell'abuso edilizio,
evidenziata dalla stessa linea
difensiva degli imputati, che si basa, da un lato,
sull'affermata incertezza della effettiva
consistenza dell'immobile preesistente e, dall'altro, sulla
sostanziale ammissione della non
corrispondenza dell'immobile oggetto dell'imputazione anche
rispetto alla consistenza
dell'immobile preesistente quale prospettata dalla stessa
difesa.
Si è trattato, in sintesi, di
un'operazione che ha visto la piena partecipazione di tutti
i soggetti interessati allo scopo di
realizzare un rilevante intervento di nuova costruzione. E
tali considerazioni risultano
pienamente idonee anche i fini della ritenuta sussistenza
del dolo in capo agli imputati.
4.14. - La doglianza sub 3.1. -riferita alla ritenuta
sussistenza del dolo del reato di
falso in capo a Ce.- è anche essa inammissibile. La
difesa nega l'evidenza laddove
afferma che il pubblico ufficiale imputato avrebbe
sottoscritto la documentazione di cui al
capo di imputazione sul presupposto della veridicità della
produzione del richiedente, senza
considerare l'assoluta insufficienza di tale produzione al
fine di accertare l'esistenza dei
presupposti per qualificare l'intervento edilizio come di
ristrutturazione anziché di nuova
costruzione.
E anzi -come già ampiamente evidenziato- la
totale difformità tra l'immobile
preesistente e quello da realizzare emergeva in modo
sufficientemente chiaro dalla
documentazione di parte.
4.15. - Analoghe considerazioni valgono in relazione alla
sussistenza dell'elemento
soggettivo della contravvenzione edilizia, oggetto della
doglianza sub 3.3., in presenza dei
macroscopici elementi già delineati, che inducono a ritenere
l'esistenza di un accordo fra gli
imputati per la realizzazione dell'operazione edilizia
abusiva.
4.16. - Inammissibile è anche il motivo sub 3.4., con cui la
difesa di Ce.
contesta la motivazione della sentenza impugnata circa il
mancato riconoscimento delle
circostanze attenuanti generiche.
Come ben evidenziato dalla
Corte d'appello, la condotta
dell'imputato presenta una rilevante gravità, perché
l'assoluta evidenza degli abusi commessi denota una
particolare pervicacia oltre a un totale dispregio della
funzione
pubblica esercitata; elementi a fronte dei quali l'incensuratezza
non può assumere alcun
rilievo, visto anche il disposto dell'art. 62-bis, terzo
comma, cod. pen.
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2018 n. 15416). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia - Criteri per
l'individuazione - Intervento edilizio qualificato come di
ristrutturazione anziché di nuova costruzione - Necessità di
preventivo permesso di costruire - Art. 30 d.l. n. 69 del
2013 (conv. in legge n. 98/2013).
In materia urbanistica, se è vero che l'art. 30 del d.l. n.
69 del 2013 (conv. dalla legge n. 98 del 2013), consente di
qualificare come "ristrutturazione edilizia",
l'intervento di ripristino o di ricostruzione di edifici o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, anche in
caso di modifica della sagoma degli stessi, e del pari vero
che è necessario che sia accertata la preesistente
consistenza dell'immobile, intesa come il complesso di tutte
le caratteristiche essenziali dell'edificio (volumetria,
altezza, struttura complessiva, etc.), in base a riscontri
documentali o altri elementi certi e verificabili (Sez. 3,
n. 5912 del 22/01/2014); con la conseguenza che la mancanza
anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta
attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il
requisito che la citata disposizione richiede per escludere,
in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di
preventivo permesso di costruire (Sez. 3, n. 45147 del
08/10/2015) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2018 n. 15416 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di piani interrati -
Permesso di costruire - Necessità - Art. 44, c. 1, lett. e),
d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In via generale, la realizzazione di piani interrati
costituisce nuova costruzione e richiede il permesso di
costruire. Pertanto, è sufficiente richiamare, sul punto, la
costante giurisprudenza della Corte di cassazione e del
Consiglio di Stato la quale qualifica come nuova costruzione
tali interventi e richiede per gli stessi, in via generale,
il permesso di costruire (ex multis, Cass., Sez. 3,
n. 28840 del 09/07/2008; Sez. 3, n. 24464 del 10/05/2007;
Consiglio di Stato, Sez. 4, del 21/07/2010, n. 4801) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2018 n. 15416 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso d'ufficio in riferimento ad un
atto interno al procedimento amministrativo - Formulazione
di un parere consultivo espresso contra legem - Fattispecie:
Concorso dei privati nell'iter criminis.
La fattispecie di abuso d'ufficio può essere integrata anche
in riferimento ad un atto interno al procedimento
amministrativo, non rilevando la circostanza che il
provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico
ufficiale (ex plurimis, Sez. 3, n. 16449 del 13/12/2016,
dep. 31/03/2017).
Sicché, in tema, di abuso di ufficio, può
integrare la condotta del reato anche la formulazione di un
parere consultivo, se espresso contra legem, nel caso in cui
il giudice abbia accertato che il provvedimento finale sia
stato frutto di accordo tra gli operanti, con la conseguenza
che il predetto parere si inserisce nell'iter criminis come
elemento diretto ad agevolare la formazione di un atto
illegittimo ed in grado di far conseguire un ingiusto
vantaggio (Cass. Sez. 2, n. 5546 del 11/12/2013, dep.
04/02/2014).
Fattispecie: concorso dei privati, laddove si
fa riferimento all'accordo tra gli imputati che emerge
dall'assoluta macroscopicità dell'abuso edilizio,
evidenziata dalla stessa linea difensiva degli imputati, che
si basa, da un lato, sull'affermata incertezza della
effettiva consistenza dell'immobile preesistente e,
dall'altro, sulla sostanziale ammissione della non
corrispondenza dell'immobile oggetto dell'imputazione anche
rispetto alla consistenza dell'immobile preesistente quale
prospettata dalla stessa difesa.
Si è trattato, in sintesi, di un'operazione che ha visto la
piena partecipazione di tutti i soggetti interessati allo
scopo di realizzare un rilevante intervento di nuova
costruzione (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2018 n. 15416 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di
falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cod. pen.) -
Rapporti tra privati e pubbliche amministrazioni -
Configurabilità in relazione a qualsiasi documento -
Funzione attestativa o probatoria esterna o interna -
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO - Atti interni destinati ad
inserirsi nel procedimento amministrativo - Complessa
sequenza procedimentale - Prodromico all'adozione di un atto
finale - Giurisprudenza.
Ai fini della
configurazione del reato di falso ideologico in atto
pubblico (art. 479 cod. pen.) costituisce atto pubblico non
solo quello destinato ad assolvere alla funzione attestativa
o probatoria esterna, con riflessi diretti e immediati nei
rapporti tra privati e pubbliche amministrazioni, ma anche
gli atti interni, ovvero quelli che sono destinati ad
inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un
contributo di conoscenza o di valutazione, o quelli che si
collocano nel contesto di una complessa sequenza
procedimentale, anche non conforme allo schema tipico,
ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali
successivi.
In altri termini, il reato di falso ideologico
in atto pubblico è configurabile in relazione a qualsiasi
documento che, benché non imposto dalla legge, è compilato
da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni
per documentare, sia pure nell'ambito interno
dell'amministrazione di appartenenza, la regolarità degli
adempimenti ai quali è obbligato ovvero circostanze di fatto
cadute sotto la sua percezione diretta o, comunque,
ricollegabili a tali adempimenti e si inserisce nell'iter
procedimentale prodromico all'adozione di un atto finale
(Cass., Sez. 5, n. 9368 del 19/11/2013, dep. 26/02/2014;
Sez. 6, n. 11425 del 20/11/2012, dep. 11/03/2013) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2018 n. 15416 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Domande di
sanatoria a fini edilizi (realizzazione di tettoie e
sopraelevazione di un muro) - Disciplina antisismica e
sicurezza statica degli edifici - Deroga della legislazione
regionale alla disciplina nazionale - Esclusione -
Competenza esclusiva dello Stato - Giurisprudenza in materia
antisismica - Procedimenti autorizzativi - Necessità - Artt.
81, 2° c., 93, 94, 95 del d.P.R. n. 380/2001 - Legge Regione
Siciliana, art. 7 n. 26/1986 e art. 35 n. 37/1985 - Art. 117,
c. 2°, Cost..
Le condizioni di proponibilità delle domande di sanatoria a
fini edilizi, non possono essere interpretate nel senso che
operino deroghe alla disciplina antisismica generale e agli
obblighi e ai procedimenti autorizzativi da questa previsti.
Tali deroghe non emergono, infatti, dal richiamato art. 35
della legge statale n. 47 del 1985 e ss.mm., né possono
essere desunte in via interpretativa dalla legislazione
regionale, perché questa non può recare previsioni
innovative in materia antisismica. In conclusione, la deroga
della legislazione regionale alla disciplina nazionale in
materia urbanistica non può essere estesa alle previsioni
che dispongono precauzioni antisismiche, attenendo tale
materia alla sicurezza statica degli edifici, come tale
rientrante nella competenza esclusiva dello Stato anche dopo
la modifica dell'art. 117, comma secondo, Cost. (Sez. 3, n.
37375 del 20/06/2013; Sez. 3, n. 16182 del 28/02/2013).
Fattispecie: realizzazione di tettoie e sopraelevazione di
un muro in zona a rischio sismico senza preventivo avviso
alle autorità competenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2018 n. 15414 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deroga alla legislazione nazionale in materia antisismica.
La deroga della legislazione regionale
alla disciplina nazionale in materia urbanistica non può
essere estesa alle previsioni che dispongono precauzioni
antisismiche, attenendo tale materia alla sicurezza statica
degli edifici, come tale rientrante nella competenza
esclusiva dello Stato anche dopo la modifica dell'art. 117,
comma secondo, Cost..
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MASSIMA
Il ricorso è inammissibile.
La difesa non nega la circostanza che la dichiarazione di
mancanza di pregiudizio statico sia stata redatta dal
consulente tecnico dell'imputato il 14.03.2013, ovvero in
epoca ampiamente successiva all'esecuzione delle opere
abusive. Quanto alla natura delle opere stesse, si limita,
poi, a richiamare genericamente la deposizione testimoniale
del suo consulente di parte, secondo cui queste
rientrerebbero nell'ambito di applicazione dell'art. 7 della
legge reg. n. 26 del 1986. E del pari generiche, perché
prive di puntuali riferimenti al compendio istruttorio,
risultano le affermazioni difensive cerca la modesta entità
delle opere e i materiali utilizzati.
Quanto all'allegazione della dichiarazione di mancanza di
pregiudizio statico, deve rilevarsi che la stessa può al più
assumere rilievo ai fini della sanatoria edilizia ai sensi
della legislazione regionale in materia (leggi della Regione
Siciliana n. 26 del 1986, art. 7 e n. 37 del 1985, art. 35).
In particolare, la prima di tali disposizioni prevede la
possibilità di allegare alla domanda di condono la
certificazione redatta da un tecnico abilitato all'esercizio
della professione, attestante l'idoneità statica delle opere
eseguite. Prevede altresì, per le opere che costituiscono
corpi aggiunti in edifici preesistenti, che tale
attestazione sia sostituita dalla dichiarazione di mancanza
di pregiudizio determinato dalla nuova costruzione alla
struttura preesistente e che essa sostituisca qualsiasi
controllo, parere, o approvazione tecnica di uffici statali
o regionali, a condizione che l'ampliamento riguardi locali
non abitabili di volume inferiore al 10% del volume
preesistente o locali abitabili di volume inferiore a 30 m3
e comunque inferiore al 5% del volume preesistente. La
seconda delle disposizioni richiamate disciplina anch'essa
il procedimento per la presentazione della domanda di
sanatoria, richiedendo la presentazione di una
certificazione redatta da un tecnico abilitato attestante
l'idoneità statica delle opere eseguite.
La legislazione statale (legge n. 47 del
1985, art. 35),
cui quella regionale si richiama, prevede,
a sua volta, che la certificazione di
idoneità sismica da parte di un professionista abilitato
sostituisca tutti gli effetti il certificato prescritto
dalle disposizioni vigenti in materia sismica. Prevede
altresì che tale certificazione debba essere presentata al
Comune entro 30 giorni dalla data di ultimazione
dell'intervento. La sanatoria è espressamente subordinata,
per quanto riguarda il vincolo sismico, al deposito presso
l'amministrazione competente sia dell'eventuale progetto di
adeguamento prima dell'inizio dei lavori sia della predetta
certificazione di idoneità sismica entro 30 giorni dalla
data di ultimazione dei lavori stessi.
E, come già evidenziato, la difesa non afferma -neanche in
via di mera prospettazione- che il termine di 30 giorni
previsto dalla legislazione statale, richiamata dalla
legislazione regionale di settore, sia stato rispettato nel
caso di specie; con la conseguenza che non emergono elementi
sufficienti a far ritenere applicabili nel caso di specie le
disposizioni di cui sopra.
Anche a prescindere da tali assorbenti considerazioni,
deve comunque ribadirsi che tali disposizioni
riguardano le condizioni di proponibilità delle domande di
sanatoria a fini edilizi, con la conseguenza che esse non
possono essere interpretate nel senso che operino deroghe
alla disciplina antisismica generale e agli obblighi e ai
procedimenti autorizzativi da questa previsti.
Tali deroghe non emergono, infatti, dal richiamato art. 35
della legge statale n. 47 del 1985, né possono essere
desunte in via interpretativa dalla legislazione regionale,
perché questa non può recare previsioni innovative in
materia antisismica,
come chiarito dalla costante giurisprudenza di questa Corte.
Si è affermato, sul punto, che la deroga
della legislazione regionale alla disciplina nazionale in
materia urbanistica non può essere estesa alle previsioni
che dispongono precauzioni antisismiche, attenendo tale
materia alla sicurezza statica degli edifici, come tale
rientrante nella competenza esclusiva dello Stato anche dopo
la modifica dell'art. 117, comma secondo, Cost.
(Sez. 3, n. 37375 del 20/06/2013, Rv. 257594; Sez. 3, n.
16182 del 28/02/2013, Rv. 255254)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2018 n. 15414). |
APPALTI: Fuori
gara tutte le partecipate dell’ente che lancia l’appalto. Tar Campania.
Lettura estensiva sui conflitti d’interesse.
Le partecipate dirette e indirette degli enti locali non possono partecipare
a gare indette dalle amministrazioni socie perché si trovano in conflitto di
interesse.
Il Tar Campania–Salerno, ha affermato questo innovativo principio nella
sentenza 06.04.2018 n. 524, analizzando il caso di un appalto
indetto da un Comune per l’installazione di luci in cui è risultata
affidataria (in Rti con altri operatori) una partecipata indiretta dallo
stesso ente.
I giudici rilevano la sussistenza delle condizioni delineate dall’articolo
42 del Codice appalti, che al comma 2 stabilisce che si ha conflitto
d’interesse quando il personale di una stazione appaltante o di un
prestatore di servizi che interviene nell’aggiudicazione degli appalti e
delle concessioni o può influenzarne il risultato, ha, direttamente o
indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse
personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità.
In questo quadro normativo assumono rilevanza tutte le ipotesi di
contaminazione della posizione dei dipendenti, o di coloro che in base a un
qualunque titolo giuridico siano in grado di impegnare l’amministrazione nei
confronti dei terzi, o di coloro che comunque rivestano (di fatto o di
diritto) un ruolo tale da poter influenzare l’attività esterna della
stazione appaltante (o degli organi di amministrazione e controllo).
È quindi necessario che le cautele previste dalla norma e sintetizzate
nell’obbligo di astensione siano poste in atto ogni qualvolta un conflitto
di interessi tale da mettere in pericolo la concorrenzialità della procedura
e l’imparzialità dell’azione amministrativa sia rilevabile immediatamente in
capo alla stazione appaltante.
I giudici rilevano che questa situazione ricorre quando la stazione
appaltante abbia collegamenti societari con un concorrente. Questi elementi
sono rilevabili nella partecipazione (diretta o indiretta) alla società che
partecipa alla gara, e nella capacità dell’ente di influenzare le decisioni
strategiche dell’azienda con direttive agli amministratori.
Quando sono rilevabili questi elementi c’è una cointeressenza di fatto, che
deve essere dichiarata dalla partecipata concorrente e che comunque attiva
la causa di esclusione prevista dall’articolo 80, comma 5, lettera d), del
Codice.
In tal caso, tra il Comune appaltante e la partecipata concorrente c’è una
relazione che determina l’esclusione dalla gara, perché non si può escludere
il rischio di distorsioni nell’azione amministrativa e nei poteri
esercitati.
Il Tar precisa che sotto questo profilo non rileva l’articolo 2325 del
Codice civile, in quanto questa norma attiene al dato formale dell’autonomia
patrimoniale delle società, ma non ha nulla a che vedere con il profilo
sostanziale del possibile difetto di imparzialità dell’amministrazione nella
duplice veste di socio (anche di minoranza) della concorrente e di stazione
appaltante.
In termini operativi, la sentenza ha riflessi sulle gare per servizi
pubblici (nelle quali la stazione appaltante dovrà avere ruolo terzo, come
gli enti di governo degli Ato nei servizi a rete) e sui numerosi affidamenti
di attività strumentali, effettuati dagli enti locali al di fuori del
modello in house e in base alle regole del Codice dei contratti pubblici
(articolo Il Sole 24 Ore 16.04.2018).
---------------
MASSIMA
Ciò premesso, con motivo assorbente, la ricorrente si duole della
violazione dell’art. 42, d.lgs. n. 50/2016, il quale prevede che: «1. Le
stazioni appaltanti prevedono misure adeguate per contrastare le frodi e la
corruzione nonché per individuare, prevenire e risolvere in modo efficace
ogni ipotesi di conflitto di interesse nello svolgimento delle procedure di
aggiudicazione degli appalti e delle concessioni, in modo da evitare
qualsiasi distorsione della concorrenza e garantire la parità di trattamento
di tutti gli operatori economici.
2. Si ha conflitto d’interesse quando il personale di una stazione
appaltante o di un prestatore di servizi che, anche per conto della stazione
appaltante, interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione
degli appalti e delle concessioni o può influenzarne, in qualsiasi modo, il
risultato, ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario,
economico o altro interesse personale che può essere percepito come una
minaccia alla sua imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura
di appalto o di concessione. In particolare, costituiscono situazione di
conflitto di interesse quelle che determinano l’obbligo di astensione
previste dall’articolo 7 del decreto del Presidente della Repubblica
16.04.2013, n. 62 …».
Quanto alle conseguenze della sussistenza del conflitto di interessi così
declinato, il successivo art. 80, co. 5, stabilisce che: «Le stazioni
appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un
operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un
suo subappaltatore nei casi di cui all’articolo 105, comma 6, qualora: … d)
la partecipazione dell’operatore economico determini una situazione di
conflitto di interesse ai sensi dell’articolo 42, comma 2, non diversamente
risolvibile; …».
Le richiamate disposizioni del codice attuano l’art. 24, direttiva
2014/24/UE, secondo cui: «Gli Stati membri provvedono affinché le
Amministrazioni aggiudicatrici adottino misure adeguate per prevenire,
individuare e porre rimedio in modo efficace a conflitti di interesse nello
svolgimento delle procedure di aggiudicazione degli appalti in modo da
evitare qualsiasi distorsione della concorrenza e garantire la parità di
trattamento di tutti gli operatori economici.
Il concetto di conflitti di interesse copre almeno i casi in cui il
personale di un’Amministrazione aggiudicatrice o di un prestatore di servizi
che per conto dell’amministrazione aggiudicatrice interviene nello
svolgimento della procedura di aggiudicazione degli appalti o può
influenzare il risultato di tale procedura ha, direttamente o
indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse
personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e
indipendenza nel contesto della procedura di appalto».
Si tratta di una norma di portata estremamente ampia e atipica, destinata a
colorarsi in funzione della finalità di tutela della concorrenza e della
imparzialità, sicché sulla nozione di “conflitto di interessi”
disegnata dal nuovo codice dei contratti pubblici il Consiglio di Stato ha
affermato che: «l’art. 24 della direttiva 2014/24/UE (cui il predetto
art. 42, comma 2 del d.lgs. n. 50 del 2016 dà attuazione), non sembra
dettare una disciplina univoca del “conflitto di interesse”, ma indica
solamente una soglia minima di contenuto e tutela …
La fattispecie descritta dall’art. 42, comma 2, del d.lgs. 50 del 2016 ha
portata generale, come emerge dall’uso della locuzione “in particolare”,
riferita alla casistica di cui al richiamato art. 7 d.P.R. n. 62 del 2013,
avente dunque mero carattere esemplificativo.
Ritiene il Collegio -considerate anche le finalità generali di presidio
della trasparenza e dell’imparzialità dell’azione amministrativa- che bene
il primo giudice abbia ritenuto che l’espressione “personale” di cui alla
norma in questione vada riferita non solo ai dipendenti in senso stretto
(ossia, i lavoratori subordinati) dei soggetti giuridici ivi richiamati, ma
anche a quanti, in base ad un valido titolo giuridico (legislativo o
contrattuale), siano in grado di validamente impegnare, nei confronti dei
terzi, i propri danti causa o comunque rivestano, di fatto o di diritto, un
ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare l’attività esterna.
Diversamente, si entrerebbe nella contraddizione di escludere dalla portata
della norma -dalla manifesta funzione preventiva- proprio quei soggetti che
più di altri sono in grado di condizionare l’operato dei vari operatori del
settore (pubblici e privati) e dunque si darebbe vita a situazioni di
conflitto che la norma vuol prevenire, ossia i componenti degli organi di
amministrazione e controllo.
Invero, se la norma sul conflitto di interessi si applica sicuramente ai
dipendenti “operativi”, a maggior ragione andrà applicata anche agli organi
ed uffici direttivi e di vertice (nonché ai dirigenti e amministratori
pubblici), come si evince proprio dal richiamo all’art. 7 del d.P.R. n. 62
del 2013, per indicare le ampie categorie di soggetti cui fare riferimento …
Seppur sia riferito al previgente sistema normativo in materia di contratti
pubblici, costituito dal d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e dal d.P.R. 10.12.2010,
n. 207, dove non vi era una specifica disciplina del conflitto di interessi,
il Collegio ritiene di poter fare applicazione, in quanto non contraddetto
dalla disciplina attualmente vigente, del costante orientamento
giurisprudenziale (ex multis, Cons. Stato, V, 19.09.2006, n. 5444)
per cui
“le situazioni di conflitto di interessi, nell’ambito dell’ordinamento
pubblicistico non sono tassative, ma possono essere rinvenute volta per
volta, in relazione alla violazione dei principi di imparzialità e buon
andamento sanciti dall’art. 97 Cost., quando esistano contrasto ed
incompatibilità, anche solo potenziali, fra il soggetto e le funzioni che
gli vengono attribuite”.
Per l’effetto, al di là delle singole disposizioni normative, ogni
situazione che determini un contrasto, anche solo potenziale, tra il
soggetto e le funzioni attribuitegli, deve comunque ritenersi rilevante a
tal fine: invero, secondo consolidata giurisprudenza, “ogni Pubblica
Amministrazione deve conformare la propria immagine, prima ancora che la
propria azione, al principio generale di imparzialità e di trasparenza ex
art. 97 Cost. (Cons. Stato, sez. IV, 07.10.1998, n. 1291; Cons. Giust. Amm.
Sic., sez. giur., 26.04.1996, n. 83; Cons. Stato, sez. IV, 25.09.1995, n.
775),
tanto che le regole sull’incompatibilità, oltre ad assicurare
l’imparzialità dell’azione amministrativa, sono rivolte ad assicurare il
prestigio della Pubblica Amministrazione ponendola al di sopra di ogni
sospetto, indipendentemente dal fatto che la situazione incompatibile abbia
in concreto creato o non un risultato illegittimo (Cons. Stato, sez. VI,
13.02.2004, n. 563)”.
Ritiene il Collegio che in quest’ottica si collochi, senza soluzione di
continuità, il principio adesso normativamente espresso dall’art. 42, comma
2, del d.lgs. n. 50 del 2016.
In effetti, le ipotesi ivi previste (in termini generali ed astratti) si
riferiscono a situazioni in grado di compromettere, anche solo
potenzialmente, l’imparzialità richiesta nell’esercizio del potere
decisionale. Si verificano quando il “dipendente” pubblico (ad esempio, il
Rup ed i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le
valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali ed il provvedimento
finale, esecuzione contratto e collaudi) ovvero colui (anche un soggetto
privato) che sia chiamato a svolgere una funzione strumentale alla
conduzione della gara d’appalto, è portatore di interessi della propria o
dell’altrui sfera privata, che potrebbero influenzare negativamente
l’esercizio imparziale ed obiettivo delle sue funzioni.
La definizione normativa, del resto, appare coerente con lo ius receptum per
cui le regole sull’incompatibilità, oltre ad assicurare l’imparzialità
dell’azione amministrativa, sono rivolte ad assicurare il prestigio della
pubblica amministrazione, ponendola al di sopra di ogni sospetto,
indipendentemente dal fatto che la situazione incompatibile abbia in
concreto creato o meno un risultato illegittimo (Cons. Stato, VI,
13.02.2004, n. 563)
… la nozione di “conflitto di interesse” delineata all’art.
24 della direttiva 2014/24/UE
(che, come già anticipato, prevede solamente un livello minimo ed essenziale
di tutela, lasciando agli Stati membri la possibilità di predisporre forme
più anticipate ed estese di protezione)
ha … una portata più indiretta ed ipotetica, essendo
integrata allorché il soggetto interveniente -su cui si discute- può già
solo “influenzare il risultato di tale procedura o ha, direttamente o
indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse
personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità”»
(sez. V, sent. n. 3415/2017).
Ancora, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato che «un
conflitto d’interessi comporta il rischio che l’amministrazione
aggiudicatrice pubblica si lasci guidare da considerazioni estranee
all’appalto in oggetto e che sia accordata una preferenza a un offerente
unicamente per tale motivo. Un conflitto d’interessi del genere è pertanto
idoneo a costituire una violazione dell’articolo 2 della direttiva 2004/18
[ora art. 18, Direttiva 2014/24/UE] … Per quanto riguarda il regime
probatorio a tale riguardo, si deve rilevare che, conformemente all’articolo
2 della direttiva 2004/18, le Amministrazioni aggiudicatrici devono trattare
gli operatori economici su un piano di parità, in modo non discriminatorio e
agire con trasparenza. Ne discende che ad esse è attribuito un ruolo attivo
nell’applicazione dei menzionati principi di aggiudicazione degli appalti
pubblici.
Poiché tale dovere corrisponde all’essenza stessa delle direttive relative
alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici (v. sentenza Michaniki, C-213/07, EU:C:2008:731, punto 45),
ne risulta che
l’Amministrazione aggiudicatrice è, in ogni caso, tenuta a verificare la
sussistenza di eventuali conflitti di interessi e ad adottare le misure
adeguate al fine di prevenire, di individuare i conflitti di interesse e di
porvi rimedio. Orbene, sarebbe incompatibile con siffatto ruolo attivo far
gravare sulla ricorrente l’onere di provare, nell’ambito del procedimento di
ricorso, la parzialità concreta degli esperti nominati dall’Amministrazione
aggiudicatrice. Una soluzione del genere sarebbe del pari contraria al
principio di effettività e al requisito di un ricorso efficace di cui
all’articolo 1, paragrafo 1, terzo comma, della direttiva 89/665, tenuto
conto della circostanza che, segnatamente, un offerente, di norma, non è in
grado di avere accesso a informazioni e a elementi di prova tali da
consentirgli di dimostrare una siffatta parzialità.
Quindi, se l’offerente escluso presenta elementi oggettivi che mettono in
dubbio l’imparzialità di un esperto dell’Amministrazione aggiudicatrice,
spetta a detta Amministrazione aggiudicatrice esaminare tutte le circostanze
rilevanti che hanno condotto all’adozione della decisione relativa
all’aggiudicazione dell’appalto al fine di prevenire, di individuare i
conflitti di interesse e di porvi rimedio, anche, eventualmente, chiedendo
alle parti di fornire talune informazioni e elementi probatori … l’articolo
1, paragrafo 1, terzo comma, della direttiva 89/665 e gli articoli 2, 44,
paragrafo 1, e 53, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2004/18, devono
essere interpretati nel senso che non ostano, in linea di principio, a che
l’illegittimità della valutazione delle offerte degli offerenti sia
constatata sulla base della sola circostanza che l’aggiudicatario
dell’appalto ha avuto legami significativi con esperti nominati
dall’Amministrazione aggiudicatrice che hanno valutato le offerte.
L’Amministrazione aggiudicatrice, in ogni caso, è tenuta a verificare la
sussistenza di eventuali conflitti di interessi e ad adottare le misure
adeguate al fine di prevenire, di individuare i conflitti di interesse e di
porvi rimedio. Nell’ambito dell’esame di un ricorso diretto all’annullamento
della decisione di aggiudicazione a causa della parzialità degli esperti non
si può richiedere all’offerente escluso di provare concretamente la
parzialità del comportamento degli esperti. Spetta, in via di principio, al
diritto nazionale determinare se ed in quale misura le Autorità
amministrative e giurisdizionali competenti debbano tenere conto della
circostanza che un’eventuale parzialità degli esperti abbia avuto o meno un
impatto su una decisione di aggiudicazione dell’appalto …» (sez. V,
sent., 12.02.2015, C538/13, cit.)
Sono, dunque, le dichiarate finalità della norma che mira a
sterilizzare le ipotesi di conflitto di interesse -i.e. a evitare il
pericolo di distorsioni della concorrenza e/o di violazioni della parità di
trattamento di tutti gli operatori economici- a riempire di significato la
nozione stessa.
Sicché se acquistano rilevanza tutte le ipotesi di “contaminazione”
della posizione dei dipendenti, o di coloro che in base a un qualunque
titolo giuridico (di fonte normativa o contrattuale) siano in grado di
impegnare validamente l’Amministrazione nei confronti dei terzi, o di coloro
che comunque rivestano (di fatto o di diritto) un ruolo tale da poter
obiettivamente influenzare l’attività esterna della Stazione appaltante, o
dei componenti degli organi di amministrazione e controllo -vale a dire dei
soggetti che in qualunque modo contribuiscano a formare la volontà dell’Ente
e/o ne siano legittimi portatori, in quanto legati allo stesso da un
rapporto di identificazione organica- non vi è modo di negare che le
medesime cautele debbano essere poste in atto ogni qualvolta un “conflitto
di interessi” tale da mettere in pericolo la perfetta concorrenzialità
della procedura e l’imparzialità dell’azione amministrativa si appunti
immediatamente in capo al soggetto giuridico che riveste il ruolo di
Stazione appaltante. |
APPALTI:
L’Adunanza plenaria esclude che chi è colpito da informativa
antimafia possa ricevere il risarcimento del danno
riconosciuto da giudicato formatosi dopo l’informativa.
---------------
● Informativa antimafia – Effetti - Incapacità ex lege
parziale e temporanea.
●
Informativa antimafia – Contributi e finanziamenti –
Elargizione – Art. 67, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 159 del
2011 – Divieto a soggetti ai quali è stata applicata con
provvedimento definitivo una misura di prevenzione prevista
dal libro I, titolo I, capo II – Estensione del divieto a
somme dovute a titolo risarcitorio per effetto di giudicato
– Giudicato formatosi dopo l’informativa interdittiva
antimafia – Irrilevanza ex se.
●
Il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina
una particolare forma di incapacità ex lege, parziale -in
quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la
Pubblica amministrazione- e tendenzialmente temporanea, con
la conseguenza che al soggetto –persona fisica o giuridica– è precluso avere con la Pubblica amministrazione rapporti
riconducibili a quanto disposto dall’art. 67, d.lgs. 06.09.2011, n. 159 (1).
●
L’art. 67, comma 1, lett. g), d.lgs. 06.09.2011, n.
159, nella parte in cui prevede il divieto di ottenere, da
parte del soggetto colpito dall’interdittiva antimafia,
“contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre
erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi
o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o
delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività
imprenditoriali”, ricomprende anche l’impossibilità di
percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno
patito in connessione all’attività di impresa,
riconosciutigli da una sentenza passata in giudicato (2).
---------------
(1) La questione era stata rimessa all’Adunanza plenaria da
Cons. St., sez. V, ord., 28.08.2017, n. 4078.
L’Alto Consesso ha preliminarmente ricostruito la natura e
la ratio dell’istituto dell’interdittiva antimafia
richiamando la copiosa giurisprudenza della Sezione terza
del Consiglio di Stato.
Ha chiarito che l’interdittiva antimafia è provvedimento
amministrativo al quale deve essere riconosciuta natura
cautelare e preventiva, in un’ottica di bilanciamento tra la
tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà
di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost.;
costituisce “una misura volta –ad un tempo– alla
salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera
concorrenza tra le imprese e del buon andamento della
Pubblica amministrazione" (Cons. St., sez. III,
03.05.2016, n. 1743).
Tale provvedimento, infatti, mira a prevenire tentativi di
infiltrazione mafiosa nelle imprese, volti a condizionare le
scelte e gli indirizzi della Pubblica amministrazione e si
pone in funzione di tutela sia dei principi di legalità,
imparzialità e buon andamento, riconosciuti dall’art. 97
Cost., sia dello svolgimento leale e corretto della
concorrenza tra le stesse imprese nel mercato, sia, infine,
del corretto utilizzo delle risorse pubbliche.
L’interdittiva esclude, dunque, che un imprenditore, persona
fisica o giuridica, pur dotato di adeguati mezzi economici e
di una altrettanto adeguata organizzazione, meriti la
fiducia delle istituzioni (sia cioè da queste da
considerarsi come “affidabile”) e possa essere, di
conseguenza, titolare di rapporti contrattuali con le
predette amministrazioni, ovvero destinatario di titoli
abilitativi da queste rilasciati, come individuati dalla
legge, ovvero ancora (come ricorre nel caso di specie)
essere destinatario di “contributi, finanziamenti o mutui
agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque
denominate”.
Il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina
una particolare forma di incapacità giuridica, e dunque la insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che
di esso è destinatario ad essere titolare di quelle
situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi,
interessi legittimi) che determinino (sul proprio cd. lato
esterno) rapporti giuridici con la Pubblica amministrazione
(Cons. St. sez. IV, 20.07.2016, n. 3247).
Si tratta di una incapacità giuridica prevista dalla legge a
garanzia di valori costituzionalmente garantiti e
conseguente all’adozione di un provvedimento adottato
all’esito di un procedimento normativamente tipizzato e nei
confronti del quale vi è previsione delle indispensabili
garanzie di tutela giurisdizionale del soggetto di esso
destinatario. Essa è:
a) parziale, in quanto limitata ai rapporti giuridici con la
Pubblica amministrazione, ed anche nei confronti di questa
limitatamente a quelli di natura contrattuale, ovvero
intercorrenti con esercizio di poteri provvedimentali, e
comunque ai precisi casi espressamente indicati dalla legge
(art. 67, d.lgs. n. 159 del 2011);
b) tendenzialmente temporanea, potendo venire meno per il
tramite di un successivo provvedimento dell’autorità
amministrativa competente (il Prefetto).
(2) Ha chiarito l'Adunanza plenaria che in relazione al
riconosciuto carattere “parziale” dell’incapacità, l’art.
67, d.lgs. 06.09.2011, n. 159 ne circoscrive il
“perimetro”, definendo le tipologie di rapporti giuridici in
ordine ai quali il soggetto, colpito della misura, non può
acquistare o perde la titolarità di posizioni giuridiche
soggettive e, dunque, l’esercizio delle facoltà e dei poteri
ad esse connessi.
Tutto ciò chiarito, l’Adunanza plenaria ha ritenuto che il
cit. art. 67 debba essere inteso nel senso di precludere
all’imprenditore (persona fisica o giuridica) la titolarità
della posizione soggettiva che lo renderebbe idoneo a
ricevere somme dovutegli dalla Pubblica amministrazione a
titolo risarcitorio in relazione (come nel caso di specie)
ad una vicenda sorta dall’affidamento (o dal mancato
affidamento) di un appalto.
Ad avviso dell’Adunanza –anche sulla scorta della propria
precedente
decisione n. 9 del 2012- l’espressione usata dal
legislatore nell’art. 67, d.lgs. n. 159 del 2011 e
concernente il divieto di ottenere (o meglio, l’incapacità a
poter ottenere) , da parte del soggetto colpito dall’interdittiva
antimafia, “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed
altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate,
concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti
pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di
attività imprenditoriali”, ricomprenda anche l’impossibilità
di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno
patito in connessione all’attività di impresa.
Come già affermato dalla richiamata sentenza n. 9 del 2012,
“l’ampia clausola di salvaguardia contenuta nella citata
prescrizione è idonea a ricomprendervi quelle ... in cui
la matrice indennitaria sia più immediatamente percepibile
rispetto a quella compensativa sottesa ad ogni altra
tipologia di erogazione”. D’altra parte, “non si vede perché
nella suddetta ratio dovrebbero rientrare unicamente le
erogazioni dirette ad arricchirlo (l’imprenditore colpito da
interdittiva) e non anche quelle dirette a parzialmente
compensarlo di una perdita subita sussistendo per entrambe
il pericolo che l’esborso di matrice pubblicistica giovi ad
un’impresa soggetta ad infiltrazioni criminali”.
In sostanza –ed è questa la ratio della norma– il
legislatore intende impedire ogni attribuzione patrimoniale
da parte della Pubblica amministrazione in favore di tali
soggetti, di modo che l’art. 67, comma 1, lett. g), del
Codice delle leggi antimafia non può che essere interpretato
se non nel senso di riferirsi a qualunque tipo di esborso
proveniente dalla P.A..
E tale finalità –in linea con quanto innanzi affermato in
ordine agli effetti della interdittiva antimafia– è
perseguita dal legislatore per il tramite di una
tendenzialmente (temporanea) perdita, per l’imprenditore,
della possibilità di essere titolare, nei confronti della
Pubblica amministrazione, delle posizioni giuridiche
riferite alle ipotesi puntualmente indicate nell’art. 67 cit..
Viceversa, una volta che venga meno l’incapacità determinata
dall’interdittiva, quel diritto di credito, riconosciuto
dalla sentenza passata in giudicato, “rientra” pienamente
nel patrimonio giuridico del soggetto, con tutte le facoltà
ed i poteri allo stesso connessi, ivi compresa l’actio
iudicati dal quale era temporaneamente uscito, e ciò non in
quanto una “causa esterna” (il provvedimento di interdittiva
antimafia) ha inciso sul giudicato, ma in quanto il soggetto
che è stato da questo identificato come il titolare dei
diritti ivi accertati torna ad essere idoneo alla titolarità
dei medesimi.
Né la titolarità del diritto ovvero la concreta possibilità
di farlo valere, una volta “recuperata” la piena capacità
giuridica, potrebbero risultare compromessi, posto che, come
è noto, ai sensi dell’art. 2935 c.c. “la prescrizione
comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere
fatto valere”
(Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza 06.04.2018 n. 3
- commento tratto da e link a
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EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso di ufficio - Adozione di permessi di
costruire in violazione del PRG - Responsabilità del
funzionario responsabile dell'Area Urbanistica del Comune -
Cambio di destinazione d'uso dell'edificio - Art. 323 cod.
pen. Giurisprudenza.
L'adozione di permessi di costruire in violazione delle
disposizioni contenute nel piano regolatore integra
violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità
del reato di cui all'art. 323 cod. pen. (Cass. Sez. 6, n.
16241 del 02/04/2001 Ud., Ruggeri; Sez. 6, n. 6247 del
14/03/2000, Sisti e a.) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 05.04.2018 n. 15166 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO - URBANISTICA:
Opere di edilizia scolastica - Iter
amministrativo - Violazione delle Norme Tecniche di
Attuazione (N.T.A.) - Piano Regolatore Generale Comunale (P.R.G.C.)
- Fattispecie: Cambio di destinazione d'uso dell'edificio -
Contrasto con le prescrizioni dello strumento urbanistico -
Abuso di ufficio.
In conformità al d.m. 02.04.1968, n. 1444 -che stabilisce i
parametri urbanistici inderogabili da osservarsi per
l'edificazione nelle zone territoriali omogenee di cui
all'art. 41-quinquies, legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge
urbanistica fondamentale), quale introdotto dall'art. 17,
legge 06.08.1967, n. 675 (c.d. legge ponte)- il P.R.G.C. può
stabilire che gli istituti di istruzione superiore siano
collocati in zona F1, vale a dire nella zona territoriale
del comune specificamente destinata ad ospitare gli impianti
di interesse generale.
Questa previsione è aderente al disposto di cui all'art. 4,
sub n. 5, d.m. 1444 del 1968 e rinviene la propria ratio
nella circostanza che gli istituti superiori, avendo com'è
noto indirizzi diversi, soprattutto in cittadine di non
grandissime dimensioni, sono destinati ad essere frequentati
da ragazzi che risiedono in differenti zone della città (e
spesso in comuni limitrofi), sicché, da un lato, non v'è
ragione di collocarli in particolari zone residenziali,
servendo essi ad un'utenza vasta e variamente dislocata sul
territorio, e, d'altro lato, vi è invece necessità di
prevedere adeguate infrastrutture anche per i trasporti.
Sicché, l'ordinamento si fa carico di prevedere speciali e
più agili procedure che consentano di risolvere i problemi
dell'edilizia scolastica, se del caso derogando alle
previsioni del piano regolatore, anche in assenza
dell'approvazione di varianti al medesimo, laddove la
rigidità delle relative disposizioni si riveli in contrasto
con l'interesse pubblico connesso alle scelte legate al
settore dell'istruzione.
Difatti, l'art. 10, legge 05.08.1975, n. 412 -richiamato e "stabilizzato",
al di là dell'originario contesto che ne aveva visto
l'approvazione, dall'art 88, d.lgs. 16.04.1994, n. 297- dopo
aver affermato il principio secondo cui le aree necessarie
per l'esecuzione delle opere di edilizia scolastica sono
prescelte secondo le previsioni degli strumenti urbanistici
approvati o adottati, stabilisce che «la individuazione
delle aree in zone genericamente destinate dagli strumenti
urbanistici a servizi pubblici, ovvero la scelta di aree non
conformi, per sopravvenuta inidoneità di quelle già
indicate, alle previsioni degli strumenti urbanistici,
ovvero la scelta di aree in comuni i cui strumenti
urbanistici non contengono la indicazione di aree per
edilizia scolastica, ovvero in comuni sprovvisti di ogni
strumento urbanistico, sono disposte con deliberazione del
consiglio comunale, previo parere di una commissione
composta dal provveditore regionale alle opere pubbliche,
dall'ingegnere capo dell'ufficio del genio civile, dal
provveditore agli studi della provincia, dal medico
provinciale, dal sindaco, che la presiede, o da loro
delegati [ ... ]. Nel caso di scelta di aree non conformi
alle previsioni degli strumenti urbanistici la deliberazione
costituisce, in deroga alle norme vigenti, variante al piano
regolatore generale ed agli altri strumenti urbanistici, a
norma della legge 17.08.1942, n. 1150, e successive
modificazioni ed integrazioni» (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 05.04.2018 n. 15166 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Manufatto destinato a stalla - Natura precaria -
Elementi - Obiettive esigenze contingenti e temporanee -
Limiti alla sottrazione del permesso di costruire - Artt. 6,
44, lett. b e c, d.P.R. n. 380/2001.
Al fine di ritenere sottratta al preventivo rilascio del
permesso di costruire la realizzazione di un manufatto,
l'asserita precarietà dello stesso deve ricollegarsi a
mente di quanto previsto dall'art. 6, comma secondo, lett.
b), d.P.R. n. 380 del 2001, come emendato dall'art. 5, comma
primo, D.L. 25.03.2010, n. 40 (convertito, con
modificazioni, nella l. n. 73 del 2010)- alla circostanza
che l'opera sia intrinsecamente destinata a soddisfare
obiettive esigenze contingenti e temporanee, e ad essere
immediatamente rimossa al venir meno di tale funzione,
sicché non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i
materiali impiegati e l'agevole rimovibilità, ma le esigenze
temporanee alle quali l'opera eventualmente assolva (ex plurimis, Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni; Sez. 3,
n. 966 del 26/11/2014, Manfredini, secondo cui al fine di
ritenere sottratta al preventivo rilascio del permesso di
costruire la realizzazione di un manufatto per la sua
asserita natura precaria, la stessa non può essere desunta
dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data
all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla
intrinseca destinazione materiale dell'opera ad un uso
realmente precario e temporaneo per fini specifici,
contingenti e limitati nel tempo, con conseguente
possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non
risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il
mancato ancoraggio al suolo; Sez. 3, n. 22054 del
25/02/20091 Frank) (Corte di Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza 05.04.2018 n. 15025 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Abbandono o deposito di
rifiuti - Qualifica soggettiva dell'autore della condotta
(titolari di impresa o responsabili di enti) - Specifica
attività di impresa Artt. 255 e 256 d.lgs. n. 152 del 2006.
Ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 256,
comma 2, d.lgs. n, 152 del 2006, è necessaria e sufficiente
la qualifica soggettiva dell'autore della condotta, non
essendo altresì richiesto che i rifiuti abbandonati derivino
dalla specifica attività di impresa (si veda, in
motivazione, Sez. 3, n. 47662 del 08/10/2014, Pelizzari,
secondo cui il reato in esame può essere commesso dai
titolari di impresa o responsabili di enti che abbandonano o
depositano in modo incontrollato non solo i rifiuti di
propria produzione, ma anche quelli di diversa provenienza e
ciò in quanto il collegamento tra le fattispecie previste
dal primo e dal secondo comma dell'art. 256, comma 2,
riguarda il solo trattamento sanzionatorio e non anche la
parte precettiva. Nello stesso senso, Sez. 3 n. 35710 del
22.6.2004, Carbone) (Corte di Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza 05.04.2018 n. 15025 - link a
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Ripetizione del maggior valore indebitamente attribuito ai
buoni pasto.
---------------
● Pubblico impiego privatizzato – Ripetizione emolumenti non
dovuti – Obbligo - Limiti.
● Pubblico impiego privatizzato – Buoni pasto – Ripetizione
maggior valore indebitamente attribuito – Esclusione.
● L’Amministrazione è tenuta a ripetere le somme indebitamente
corrisposte ai pubblici dipendenti; la ripetizione
dell’indebito deve essere valutata tenendo conto
dell’imputabilità alla sola Amministrazione dell’errore
originario, del lungo lasso di tempo tra la data di
corresponsione e quella di emanazione del provvedimento di
recupero, della tenuità delle somme corrisposte anche in
riferimento ai servizi resi, della eventuale complessità
della macchina burocratica dalla quale è scaturito l'errore
di conteggio (1).
●
L’Amministrazione non può recuperare il maggior valore
indebitamente attribuito ai buoni pasto erogati ai propri
dipendenti, trattandosi di benefici destinati a soddisfare
esigenze di vita primarie e fondamentali dei dipendenti
medesimi, di valenza costituzionale, a fronte dei quali non
è configurabile una pretesa restitutoria, per equivalente
monetario (2).
---------------
(1)
Cons. St., sez. V, 15.10.2003, n. 6291.
Ha ricordato la Sezione che
a) l'azione di ripetizione di
indebito ha come suo fondamento l'inesistenza
dell'obbligazione adempiuta da una parte, o perché il
vincolo obbligatorio non è mai sorto o perché è venuto meno
successivamente, ad esempio a seguito di annullamento (Cons.
St., sez. IV, 03.11.2015, n. 5010);
b) il recupero
delle somme erogate e non dovute costituisce il risultato di
attività amministrativa di verifica e di controllo, priva di
valenza provvedimentale;
c) in tali ipotesi l'interesse
pubblico è in re ipsa e non richiede specifica motivazione
in quanto, a prescindere dal tempo trascorso, l'oggetto del
recupero produce di per sé un danno all'Amministrazione,
consistente nell'esborso di denaro pubblico senza titolo ed
un vantaggio ingiustificato per il dipendente (sulla
“autoevidenza” delle ragioni che impongono l’esercizio
dell’autotutela, a protezione di interessi sensibili
dell’Amministrazione,
Cons. St., A.P., 17.10.2017, n.
8);
d) si tratta, dunque, di un atto dovuto che non lascia
all'Amministrazione alcuna discrezionale facoltà di agire e,
anzi, configura il mancato recupero delle somme
illegittimamente erogate come danno erariale;
e) il solo
temperamento ammesso è costituito dalla regola per cui le
modalità di recupero non devono essere eccessivamente
onerose, in relazione alle condizioni di vita del debitore;
f) l'affidamento del pubblico dipendente e la stessa buona
fede non sono di ostacolo all'esercizio del potere-dovere di
recupero, nel senso che l'Amministrazione non è tenuta a
fornire un'ulteriore motivazione sull'elemento soggettivo
riconducibile all'interessato (Cons. St., sez. III, 12.09.2013, n. 4519; id.,
sez. V, 30.09.2013, n.
4849);
g) rimane recessivo il richiamo ai principi in
materia di autotutela amministrativa sotto il profilo della
considerazione del tempo trascorso e dell'affidamento
maturato in capo agli interessati (Cons. St., sez. III, 10.12.2012, n. 11548; id.
31.05.2013, n. 2986; id.
04.09.2013, n. 4429).
(2) La Sezione ha richiamato i principi espressi dalla Corte
di cassazione (sez. lav., 14.07.2016, n. 14388), secondo
cui l'attribuzione dei buoni pasto rappresenta
un’agevolazione di carattere assistenziale.
I buoni pasto sono titoli non monetizzabili destinati
esclusivamente a esigenze alimentari in sostituzione del
servizio mensa e, per tale causale, pacificamente spesi nel
periodo di riferimento (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.04.2018 n. 2115
- commento tratto da e link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Rimozione dell'autovettura abbandonata
in area privata e smaltimento in un centro autorizzato -
Inottemperanza a ordinanza del sindaco - Artt. 192 e 255
D.Lgs. n. 152/2006.
Integra il reato di cui all'art. 255, comma 3, in relazione
all'art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006
l'inottemperanza all'ordinanza del sindaco con la quale
impone la rimozione di un'autovettura abbandonata in area
privata e il suo smaltimento mediante un centro autorizzato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.04.2018 n. 14808
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE ECOLOGIA:
RIFIUTI - Rottami ferrosi - Applicazione e deroga
della disciplina dei rifiuti - Regolamento n. 333/2011/UE -
Artt. 184-bis e 256 D.Lgs. n. 152/2006.
I rottami ferrosi, anche a seguito dell'entrata in vigore
del regolamento UE del 31.03.2011, n. 333, rientrano nel
campo d'applicazione della disciplina dei rifiuti, salvo che
gli stessi provengano da un centro autorizzato di gestione e
trattamento di rifiuti e presentino caratteristiche
rispondenti a quelle previste dai decreti ministeriali sul
recupero agevolato di rifiuti pericolosi e non pericolosi,
assumendo in tal caso la qualificazione di materia prima
secondaria.
Infatti, i predetti materiali non si sottraggono alla
qualificazione di rifiuto non rilevando la loro
riutilizzazione da parte dei terzi acquirenti, né gli stessi
sono classificabili come materie prime secondarie ovvero
sottoprodotti, essendosi il detentore disfatto di tali
materiali avviandoli alle operazioni di recupero.
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti in
assenza del prescritto titolo abilitativo - Attività di
raccolta e trasporto in forma ambulante dei rifiuti prodotti
da terzi - Deroga ex art. 266, c. 5, d.lgs. n. 152/2006 -
Condizioni - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Speciale tenuità
ex art. 131-bis cod. pen. - Reato continuato - Esclusione.
La condotta sanzionata dall'art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152
del 2006 è riferibile a chiunque svolga, in assenza del
prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra
quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 211,
212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, svolta anche di
fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di
una attività primaria diversa che richieda, per il suo
esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia
caratterizzata da assoluta occasionalità.
La deroga prevista dall'art. 266, comma 5, d.lgs. n. 152 del
2006 per l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti
prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera
qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in
possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività
commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs.
31.03.1998, n. 114 e, dall'altro, che si tratti di rifiuti
che formano oggetto del suo commercio.
Inoltre, il reato continuato, è incompatibile con la
speciale tenuità ex art. 131-bis cod. pen in relazione in
particolare al parametro normativamente richiesto della non
abitualità del comportamento (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 04.04.2018 n. 14806 - link a
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INCARICHI PROFESSIONALI:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Esercizio della
professione subordinato per legge all'iscrizione in apposito
albo o ad abilitazione - Prestazione d'opera professionale
di natura intellettuale - Mancanza d'iscrizione all'albo -
Nullità assoluta - TUTELA DEI CONSUMATORI - Rapporto tra
professionista non iscritto albo e cliente - Il
professionista non iscritto all'albo non ha alcuna azione
per il pagamento della retribuzione - Artt. 1418 e 2231 cod.
civ..
L'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di
natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto
nell'apposito albo previsto dalla legge dà luogo, ai sensi
degli artt. 1418 e 2231 cod. civ., a nullità assoluta del
rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto
di qualsiasi effetto, con la conseguenza che il
professionista non iscritto all'albo non ha alcuna azione
per il pagamento della retribuzione, sempreché la
prestazione espletata dal professionista rientri in quelle
attività che sono riservate in via esclusiva a una
determinata categoria professionale, essendo l'esercizio
della professione subordinato per legge all'iscrizione in
apposito albo o ad abilitazione (Cass. n. 6402 del 2011;
Cass. n. 14085 del 2010; Cass. n. 8543 del 2009) (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 04.04.2018 n. 8234 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L'annullamento giurisdizionale del piano per l'edilizia
economica e popolare in sede giurisdizionale ha effetti solo
fra le parti in causa.
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● Processo amministrativo – Azione di annullamento –
Accoglimento del ricorso – Effetti – Solo tra le parti –
Effetti erga omnes – Limiti - Atti a contenuto normativo,
secondari (regolamenti) o amministrativi generali, rivolti a
destinatari indeterminati ed indeterminabili a priori.
●
Processo amministrativo – Azione di annullamento –
Accoglimento del ricorso – Effetti – Annullamento Piano di
edilizia economica e popolare - Effetti solo tra le parti.
●
La decisione di annullamento –che per i limiti soggettivi
del giudicato esplica in via ordinaria effetti solo fra le
parti in causa– acquista efficacia erga omnes nei casi di
atti a contenuto inscindibile, ovvero di atti a contenuto
normativo, secondari (regolamenti) o amministrativi
generali, rivolti a destinatari indeterminati ed
indeterminabili a priori, in relazione ai quali gli effetti
dell’annullamento non sono circoscrivibili ai soli
ricorrenti, essendosi in presenza di un atto a contenuto
generale sostanzialmente e strutturalmente unitario, il
quale non può esistere per taluni e non esistere per altri
(1).
●
L’annullamento giurisdizionale del Piano di edilizia
economica e popolare ha effetti solo fra le parti in causa,
non avendo il Piano carattere generale, unitario e
inscindibile (2).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che tali principi sono stati da
ultimo ribaditi dall’Adunanza Plenaria n. 11 del 2017, la
quale -in una fattispecie in cui veniva in rilievo il
termine per proporre ricorso e la sua decorrenza e veniva
assunta come rilevante la conoscenza dell’accertamento
dell’illegittimità- ha affermato che il sopravvenuto
annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo non
può giovare ai cointeressati che non abbiano tempestivamente
proposto il gravame e per i quali, pertanto, si è già
verificata una situazione di inoppugnabilità, con
conseguente esaurimento del relativo rapporto giuridico,
fatta eccezione per l’ipotesi degli atti ad effetti
inscindibili.
(2) Alle stesse conclusione della sez. IV è pervenuta anche
la giurisprudenza civile, secondo la quale il soggetto che
non ha partecipato al giudizio amministrativo non può
avvalersi del giudicato relativo all’annullamento di un
piano di zona per l’edilizia economica e popolare al fine di
ottenere dal giudice ordinario la cancellazione della
trascrizione del decreto di espropriazione e il risarcimento
dei danni, in quanto la dichiarazione di pubblica utilità,
implicita nell’approvazione del piano di zona, non è un atto
collettivo, ma deve essere inquadrato nella categoria degli
atti plurimi, caratterizzati dall’efficacia soggettivamente
limitata ai destinatari individuabili in relazione alla
titolarità delle singole porzioni immobiliari oggetto della
potestà ablatoria, con la conseguenza che il suo
annullamento non spiega efficacia erga omnes (Cass. civ.,
sez. I, n. 11920 del 2009; n. 7253 del 2004; n. 2038 del
1996).
La correttezza della scelta di limitare gli effetti
soggettivi del giudicato di annullamento del PEEP trova
giustificazione anche nella evoluzione giurisprudenziale
tendente a limitare l’estensione soggettiva degli effetti
del giudicato in riferimento agli strumenti urbanistici in
generale.
Da un lato si è affermato che la sentenza che conduce
all’annullamento di un atto generale non sempre ha efficacia
erga omnes, il che accade facilmente nel caso
dell’annullamento di un piano regolatore, in cui l’interesse
fatto valere nel ricorso resta circoscritto alle aree
individuate o a parti specifiche del territorio comunale,
pertinenti alle posizioni dell’istante (Cons. St., sez. IV,
n. 7771 del 2003).
Dall’altro, che le prescrizioni contenute in una variante al
piano regolatore generale vanno considerate scindibili, ai
fini del loro eventuale annullamento in sede
giurisdizionale, con la conseguenza che, nel caso in cui il
ricorso prospetti vizi relativi solo ad alcune
determinazioni, l’annullamento del provvedimento non può
essere che parziale, stante il principio generale della
specificità dei motivi proponibili nei ricorsi davanti al
giudice amministrativo (Cons. St., sez. IV, n. 8146 del
2003).
Ed ancora, si è messo in collegamento tale orientamento con
il principio giurisprudenziale, secondo cui sono
inammissibili per carenza di interesse le censure
concernenti la disciplina urbanistica di aree estranee a
quelle di proprietà del ricorrente, giacché le prescrizioni
dello strumento urbanistico vanno considerate scindibili ai
fini del loro eventuale annullamento in sede
giurisdizionale, salva la possibilità di proporre
impugnativa allorquando la nuova destinazione urbanistica,
pur concernendo un'area non appartenente al ricorrente,
incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato
dell'area stessa, o comunque su interessi propri e specifici
del medesimo esponente (Cons. St., sez. IV, n. 6619 del
2007; id. n. 4977 del 2003) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.04.2018 n. 2097
- commento tratto da e link a
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CONSIGLIERI COMUNALI: Necessario
l'avviso pubblico se il sindaco non garantisce le quote di genere in giunta
È illegittima la nomina della giunta comunale, composta da due soli
assessori di sesso maschile, in violazione delle “quote rosa”.
Lo ha
affermato il TAR Basilicata con la
sentenza
04.04.2018 n. 237.
Il caso
Un’elettrice di un Comune sotto i 3mila abitanti e la Consigliera regionale
di parità hanno impugnato il decreto con cui il sindaco ha nominato i due
componenti della Giunta, entrambi di sesso maschile. Deducono la violazione
del principio della parità di genere e/o della rappresentanza di genere,
tutelato dalla Costituzione, dagli articoli 6, comma 3, e 46, comma 2, del
Tuel, dall'articolo 1, comma 4, del Dlgs 198/2006 e dall'articolo 1, comma
137, della legge 56/2014, oltre che da norme di diritto internazionale e
comunitario.
Contestano anche l’insufficienza delle comunicazioni di
indisponibilità a ricoprire la carica di assessore inviate al sindaco dalle
consigliere elette, che avevano però accettato altre cariche offerte dal
sindaco stesso, e dalla candidata prima dei non eletti, in quanto il primo
cittadino avrebbe dovuto ricercare figure femminili anche al di fuori del
gruppo che lo aveva sostenuto in campagna elettorale.
I riferimenti normativi
Avendo il Comune in questione una popolazione inferiore a 3mila abitanti, i
giudici rilevano la non applicazione del comma 137 della legge 56/2014,
riferito alle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti,
nelle quali nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura
inferiore al 40%. La disciplina è dunque da rinvenire nell'art. 46, comma 2,
del Tuel, che impone al sindaco di garantire la presenza di entrambi i sessi
nella nomina dei componenti della Giunta.
Questo comporta un impegno di
carattere politico che non esclude l'effettiva impossibilità di assicurare
la presenza dei due generi, purché –afferma il Tar– venga “adeguatamente
provata sia mediante la effettuazione di un'accurata e approfondita
istruttoria, sia con una puntuale motivazione del provvedimento sindacale di
nomina degli assessori, che specifichi le ragioni che hanno impedito il
rispetto della suddetta normativa in materia di parità di genere nella
composizione delle Giunte”.
Le quote rosa
Il sindaco avrebbe dunque dovuto svolgere un'adeguata istruttoria
finalizzata a verificare la disponibilità di idonee personalità di sesso
femminile nell'ambito di tutti i cittadini residenti o che abbiano un
significativo legame col comune, non essendo sufficienti le comunicazioni
delle consigliere elette e della candidata prima dei non eletti di rinuncia
alla carica di assessore. Né lo sono i provvedimenti con i quali ha
conferito loro funzioni inerenti alcune materie, di tutt'altro genere
rispetto alle nomine assessorili.
La soluzione –a dir poco singolare– suggerita dai giudici amministrativi è
quella di indire un apposito avviso pubblico finalizzato all'acquisizione
dell'interesse di donne, appartenenti al partito politico o alla coalizione
di partiti che hanno vinto le elezioni comunali, a ricoprire la carica di
assessore, le quali condividano il programma della lista capeggiata dal
sindaco
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.04.2018).
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MASSIMA
E’ opportuna una premessa normativa.
La Costituzione della Repubblica italiana all’art. 3 sancisce il principio
di eguaglianza formale e sostanziale con riferimento al sesso, mentre
all’art. 51, comma 1, stabilisce che “tutti i cittadini dell’uno o
dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche
elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla
legge”, precisando che “a tale fine la Repubblica promuove con appositi
provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
Tali principi costituzionali sono stati attuati dalla normativa in materia
di composizione delle Giunte degli Enti Locali.
Infatti, il D.Lg.vo n. 267/2000 prevede: all’art. 6, comma 3 (come
modificato dall’art. 1 L. n. 215/2012) che “gli statuti comunali e
provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità
tra uomo e donna ai sensi della L. n. 125/1991 e per garantire la presenza
di entrambi i sessi nelle giunte”; all’art. 46, comma 2 (come modificato
dall’art. 2, comma 1, lett. b, L. n. 215/2012) che “il sindaco e il
presidente della provincia nominano, nel rispetto del principio di pari
opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi,
i componenti della giunta”; ed all’art. 47, commi 3 e 4, che “nei comuni con
popolazione superiore a 15.000 abitanti e nelle province gli assessori sono
nominati dal sindaco o dal presidente della provincia, anche al di fuori dei
componenti del consiglio, fra i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere”, e
che “nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti lo statuto può
prevedere la nomina ad assessore di cittadini non facenti parte del
consiglio ed in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e
compatibilità alla carica di consigliere”.
Ciò si verifica nel Comune di Vietri di Potenza, il cui Statuto all’art. 39, comma 6, stabilisce che
possono far parte della Giunta anche “cittadini non facenti parte del
Consiglio Comunale”.
Poiché, nella specie, il Comune di Vietri di Potenza, ha una popolazione
inferiore a 3.000 abitanti, non ricade nella sfera di applicazione dell’art.
1, comma 137, L. n. 56/2014, emanato per colmare la lacuna della precedente
normativa, nella parte in cui non precisava la percentuale minima del sesso
sottorappresentato, dalla cui applicazione erano sorti contrasti su quale
fosse la misura necessaria che garantisse il rispetto dei principi della
parità di genere e/o della rappresentanza di genere, che ha stabilito che
“nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno
dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento,
con arrotondamento aritmetico”.
Pertanto, la fattispecie in esame risulta disciplinata dal suddetto art. 46,
comma 2, D.Lg.vo n. 267/2000, il quale statuisce che, in attuazione del
principio di pari opportunità tra donne e uomini, il Sindaco deve garantire
la presenza di entrambi i sessi nella nomina dei componenti della Giunta,
tenuto pure conto della circostanza che lo Statuto del Comune di Vietri di
Potenza ha utilizzato l’opzione, prevista dall’art. 47, comma 4, D.Lg.vo n.
267/2000, stabilendo all’art. 39, comma 6, che possono far parte della
Giunta anche “cittadini non facenti parte del Consiglio Comunale” (sul punto
cfr. TAR Brescia Sent. n. 1595 del 26.11.2015; TAR Catanzaro Sez. II
Sentenze n. 278 del 12.02.2015 e n. 3 del 09.01.2015).
Al riguardo, va, però, rilevato che secondo la V Sezione del Consiglio di
Stato (sentenza n. 406 del 3.2.2016, richiamata dalle ricorrenti),
non può
escludersi a priori l’effettiva impossibilità di assicurare nella
composizione della Giunta comunale la presenza dei due generi, ma tale
impossibilità deve essere adeguatamente provata sia mediante la
effettuazione di un’accurata e approfondita istruttoria, sia con una
puntuale motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori,
che specifichi le ragioni che hanno impedito il rispetto della suddetta
normativa in materia di parità di genere nella composizione delle Giunte.
Alla luce di tali norme il Sindaco del Comune di Vietri di Potenza avrebbe
dovuto svolgere un’adeguata istruttoria (sul punto cfr. TAR Basilicata Sent.
n. 631 del 17.06.2016; TAR Salerno Sez. I Sent. n. 1746 del 12.12.217; TAR
Catanzaro Sez. II Sentenze n. 867 del 29.05.2017, n. 651 del 10.04.2015, n.
278 del 12.02.2015 e nn. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 del 09.01.2015; TAR Pescara Sent. n.
357 del 17.11.2016; TAR Napoli Sez. I Sent. n. 2655 del 13.5.2015; TAR
Brescia Sent. n. 1595 del 26.11.2015), volta a reperire, per la nomina di
Assessori, la disponibilità di idonee personalità di sesso femminile
nell’ambito di tutti i cittadini residenti o che abbiano un significativo
legame con Vietri di Potenza, come per esempio l’indizione di un apposito
avviso pubblico, finalizzato all’acquisizione dell’interesse di donne,
appartenenti al partito politico o alla coalizione di partiti che hanno
vinto le elezioni comunali, a ricoprire la carica di Assessore, le quali
condividano il programma della Lista, capeggiata dal Sindaco (cfr. TAR
Veneto Sez. I Sent. n. 282 del 06.03.2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'invaso agricolo trasformato in piscina paga dazio.
Chi realizza una piscina naturale
sfruttando un'area di raccolta delle acque piovane realizza
una trasformazione dello stato dei luoghi che risulta
rilevante sotto il profilo urbanistico.
Quindi senza una segnalazione certificata di inizio di
attività questa attività risulta illegittima e comporta una
sanzione pecuniaria che risulta anche correlata all'aumento
del valore dell'immobile
(massima tratta da www.dirittoegiustizia.it).
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3. Con il secondo motivo di gravame, l’appellante ha
censurato la ratio decidendi della sentenza
impugnata, secondo cui l’impermeabilizzazione dell’invaso
naturale e la creazione di un vano protettivo per l’impianto
di sollevamento dell’acqua hanno comportato l’incremento del
valore dell’immobile.
In realtà, ad avviso dell’appellante, quanto dedotto dal TAR
non corrisponderebbe alle effettive condizioni delle opere
in esame.
In primo luogo, il terreno in questione corrisponderebbe ad
un invaso naturale esistente da tempo immemorabile, nel
quale l’acqua piovana già naturalmente si accumulava
all’interno. Non corrisponderebbe, poi, al vero che, senza
il telo impermeabile, l’acqua non si sarebbe accumulata, il
telo, invero, permetterebbe soltanto una maggiore permanenza
dell’acqua.
Peraltro, l’appellante non avrebbe modificato la porzione di
terreno su cui insiste la “piscina”, né tanto meno
avrebbe realizzato opere murarie o di contenimento o di
stabilizzazione intorno all’invaso naturale. Sarebbe
irrealistico ritenere che fosse stata realizzata una “piscina”,
dal momento che l’invaso avrebbe solamente la funzione di
recipiente dell’acqua piovana.
Sul punto, il TAR non avrebbe considerato in maniera
corretta la preventiva esistenza dell’invaso, oltre al fatto
che quest’ultimo conteneva acqua anche prima che fosse
apposto il telo impermeabile. Inoltre, non sarebbe stato
preso in considerazione il fatto che l’appellante non
avrebbe modificato in alcun modo (quindi neppure con opere)
il terreno, di conseguenza non si potrebbe parlare di una “piscina”,
come intesa dall’art. 37, co. 4, del D.P.R. 380/2001, non
avendo l’apposizione del telo precario ed impermeabile
modificato l’aspetto, la funzione ed il valore
dell’immobile, ovvero le condizioni del terreno.
Nemmeno per quanto riguarda il piccolo manufatto presente in
prossimità dell’invaso naturale, poi, potrebbe ritenersi che
questo abbia portato ad un incremento del valore
dell’immobile. Oltretutto, l’impianto -a protezione del
quale il manufatto è stato eretto- non sarebbe mai stato
utilizzato. La stessa asserzione del giudice di prime cure
secondo cui l’impianto avrebbe richiesto maggiori interventi
di manutenzione senza il vano protettivo non potrebbe essere
condivisa, dal momento che non esisterebbe alcuna
connessione tra la maggiore manutenzione dell’impianto ed il
valore del bene. La consistenza del manufatto come la sua
mancata utilizzazione e la presunta inferiore manutenzione
sarebbero in ogni caso talmente modeste ed irrilevanti da
far ritenere impossibile qualsiasi aumento del valore.
Per tutto quanto esposto, sarebbe evidente che le opere di
cui si tratta non potrebbero essere considerate illegittime,
per cui la sanzione dovrebbe essere annullata e, in ogni
caso, il valore dell’immobile non potrebbe ritenersi
aumentato, per cui si dovrebbe applicare la sanzione minima
prevista per legge e, comunque, l’importo della sanzione
dovrebbe essere ridotto.
4. L’articolato motivo di gravame non risulta fondato.
In primo luogo, va respinta la tesi dell’appellante, secondo
la quale l’Amministrazione ed il TAR avrebbero disconosciuto
le vere caratteristiche delle opere, non potendosi parlare,
nella specie, di una “piscina”.
Nella relazione integrativa del 22.05.2012 dell’Agenzia del
Territorio, si legge, infatti, che “le opere in oggetto
consistono nella sistemazione di una piscina naturale senza
opere murarie, ma con la posa di un telo in polietilene
impermeabilizzante su un invaso preesistente” ed anche
nella sentenza impugnata si dà atto che l’Amministrazione
non ha travisato in alcun modo l’effettiva natura ed entità
degli abusi contestati, poiché ha calcolato l’incremento del
valore del bene non avendo riguardo alla creazione (ex
novo), ma valutando le sole opere che hanno determinato
la sua trasformazione attraverso l’impermeabilizzazione di
fondo e pareti.
Il fatto che l’invaso così creato venga definito “piscina
naturale” e non “invaso per la raccolta delle acque
piovane” risulta irrilevante, in quanto la diversa
denominazione non muta la consistenza e le caratteristiche
delle opere, che sono state correttamente apprezzate sia
dall’Amministrazione che dal TAR.
Nella specie, poi, non può nemmeno essere messo in dubbio
che l’impermeabilizzazione del fondo e delle pareti
dell’invaso aumenti in maniera considerevole le capacità
dell’invaso di trattenere l’acqua, per cui è ininfluente che
l’invaso fosse preesistente.
L’opera, così come apprezzata dall’Amministrazione e dal
TAR, ha comportato, anche in assenza di opere murarie, la
trasformazione dell’aspetto e della funzione dell’invaso
naturale, come tale necessitante di un titolo abilitativo ex
art. 37, D.P.R. n. 380/2001.
Lo stesso discorso vale, poi, per il vano protettivo della
pompa idraulica, in assenza del quale, effettivamente
l’impianto sarebbe rimasto esposto alle intemperie,
richiedendo quindi interventi manutentivi più frequenti ed
onerosi.
Anche in questo caso ci si trova di fronte ad un intervento
di trasformazione dello stato dei luoghi, rilevante sotto il
profilo della normativa edilizia, e che l’opera avrebbe
quindi necessitato di una previa segnalazione certificata di
inizio attività (SCIA).
Accertata l’illegittimità delle opere oggetto di causa, il
Collegio ritiene, poi, altresì, che le opere, nel loro
complesso, per quanto modeste, abbiano comunque comportato
in ogni caso un aumento del valore dell’immobile, dal
momento che attraverso le stesse l’interessato ha a
disposizione un efficace impianto per la gestione delle
acque piovane ed il fondo circostante può essere considerato
conseguentemente senz’altro in termini di terreno irriguo,
avente un valore maggiore della stessa tipologia di terreno
che non gode di tale beneficio, considerate la possibilità
di praticare colture più redditizie, grazie alla maggiore
disponibilità di acqua.
Per quanto riguarda il quantum della sanzione, il
Collegio ritiene che l’importo sia stato determinato
correttamente, avendo l’Agenzia del Territorio valutato in
maniera coerente la miglioria conseguita alle opere nel loro
complesso, consistente nell’opportunità di avere a
disposizione un impianto di gestione delle acque piovane per
vari utilizzi a beneficio del fondo circostante, per cui ha
ben potuto prendere in considerazione la differenza di
valore tra un seminativo arborato e un seminativo arborato
irriguo.
5. Conclusivamente, l’appello va respinto e la sentenza
impugnata va confermata (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.04.2018 n. 2064 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’omissione della comunicazione del nominativo
del responsabile del procedimento non risulta idonea ad
incidere sulla legittimità del provvedimento finale,
risolvendosi piuttosto in una mera irregolarità priva di
carattere viziante, alla cui mancanza si supplisce con
l’individuazione ex lege del responsabile del procedimento,
che si identifica con il funzionario preposto alla
competente unità organizzativa.
---------------
Quanto alla eccepita violazione dei termini di cui all’art.
38, comma 5, della l.R. Lombardia n. 12/2005, ossia al
superamento dei quindici giorni dalla presentazione della
domanda per richiedere integrazioni istruttorie, ne va
evidenziata l’infondatezza, in ragione della natura
ordinatoria dei termini procedimentali sia intermedi che
finali, in assenza di una specifica qualificazione degli
stessi come perentori.
Ciò appare in linea con la consolidata giurisprudenza,
condivisa dal Collegio, secondo la quale la violazione dei
termini che scandiscono lo svolgimento di un procedimento
amministrativo non determina “l’illegittimità dell’atto
tardivo –salvo che il termine sia qualificato perentorio
dalla legge–, trattandosi di una regola di comportamento e
non di validità. L’art. 2-bis della legge sul procedimento,
infatti, correla all’inosservanza del termine (…)
conseguenze significative sul piano della responsabilità
dell’Amministrazione, ma non include, tra le conseguenze
giuridiche del ritardo, profili afferenti la stessa
legittimità dell’atto tardivamente adottato. Il ritardo, in
definitiva, non è quindi un vizio in sé dell’atto ma è un
presupposto che può determinare, in concorso con altre
condizioni, una possibile forma di responsabilità
risarcitoria dell’Amministrazione”.
Inoltre, secondo l’art. 21-octies, comma 2, della legge n.
241 del 1990, le violazioni procedimentali non determinano
l’annullamento dell’atto finale qualora –come verrà
dimostrato in prosieguo– lo stesso non poteva avere un
contenuto diverso da quello in concreto adottato.
---------------
1. Il ricorso non è meritevole di accoglimento.
2. Con la prima censura si assume l’illegittimità del
diniego di permesso di costruire per mancata comunicazione
del nominativo del responsabile del procedimento e per la
richiesta, peraltro tardiva, di una integrazione istruttoria
affatto necessaria e del tutto strumentale, essendo gli
Uffici comunali in possesso della documentazione utile per
determinarsi sull’istanza della ricorrente.
2.1. La doglianza è infondata.
Il comma 2 dell’art. 38 della legge regionale n. 12 del 2005
prevede che lo Sportello unico comunichi entro dieci giorni
al richiedente il permesso di costruire il nominativo del
responsabile del procedimento, ai sensi degli articoli 4 e 5
della legge 07.08.1990, n. 241; l’art. 5, comma 2, della
legge n. 241 del 1990, a sua volta, stabilisce che fino a
quando non sia effettuata l’assegnazione della
responsabilità dell’istruttoria, è considerato responsabile
del singolo procedimento il funzionario preposto all’unità
organizzativa competente.
Dal combinato disposto delle norme sopra individuate emerge
che l’omissione della comunicazione del nominativo del
responsabile del procedimento non risulta idonea ad incidere
sulla legittimità del provvedimento finale, risolvendosi
piuttosto in una mera irregolarità priva di carattere
viziante, alla cui mancanza si supplisce con
l’individuazione ex lege del responsabile del procedimento,
che si identifica con il funzionario preposto alla
competente unità organizzativa (da ultimo, TAR Campania,
Napoli, II, 27.02.2017, n. 1145).
2.2. Quanto alla eccepita violazione dei termini di cui
all’art. 38, comma 5, della legge regionale n. 12 del 2005,
ossia al superamento dei quindici giorni dalla presentazione
della domanda per richiedere integrazioni istruttorie, ne va
evidenziata l’infondatezza, in ragione della natura
ordinatoria dei termini procedimentali sia intermedi che
finali, in assenza di una specifica qualificazione degli
stessi come perentori.
Ciò appare in linea con la consolidata giurisprudenza,
condivisa dal Collegio, secondo la quale la violazione dei
termini che scandiscono lo svolgimento di un procedimento
amministrativo non determina “l’illegittimità dell’atto
tardivo –salvo che il termine sia qualificato perentorio
dalla legge–, trattandosi di una regola di comportamento e
non di validità. L’art. 2-bis della legge sul procedimento,
infatti, correla all’inosservanza del termine (…)
conseguenze significative sul piano della responsabilità
dell’Amministrazione, ma non include, tra le conseguenze
giuridiche del ritardo, profili afferenti la stessa
legittimità dell’atto tardivamente adottato. Il ritardo, in
definitiva, non è quindi un vizio in sé dell’atto ma è un
presupposto che può determinare, in concorso con altre
condizioni, una possibile forma di responsabilità
risarcitoria dell’Amministrazione” (Consiglio di Stato, VI,
09.03.2018, n. 1519; in precedenza, V, 11.10.2013, n.
4980).
Inoltre, secondo l’art. 21-octies, comma 2, della legge n.
241 del 1990, le violazioni procedimentali non determinano
l’annullamento dell’atto finale qualora –come verrà
dimostrato in prosieguo– lo stesso non poteva avere un
contenuto diverso da quello in concreto adottato (cfr.
Consiglio di Stato, V, 21.06.2013, n. 3402; TAR
Lombardia, Milano, II, 20.12.2017, n. 2410) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.04.2018 n. 882 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lo strumento urbanistico, proprio per le sue
caratteristiche di strumento di pianificazione e delle sua
possibilità di utilizzo, nel disporre le future
conformazioni del territorio, considera le sole “aree libere”, tali dovendosi ritenere quelle
“disponibili” al momento della pianificazione, e ancor più
precisamente quelle che non risultano già edificate (in
quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate
per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel
rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già
utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla
realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo
volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova
pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla
precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in
volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione
storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale
(cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti),
valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a
considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di
edificazione, in quanto non ostacolata da presenze
materiali, e non già come un bene da conformare per il
migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti
costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso
vivono ed operano.
Quanto sin qui esposto, comporta che l’eventuale
modificazione del piano regolatore, che prevede nuovi e più
favorevoli indici di fabbricazione, non può che interessare,
nell’ambito della zona del territorio considerata dallo
strumento urbanistico, se non le sole aree libere, nel senso
sopra precisato, con esclusione, quindi, di tutte le aree
comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le
stesse si presentino “fisicamente” libere da immobili.
---------------
3. Con la seconda censura si assume l’illegittimità del
diniego di permesso di costruire, in quanto il vigente
strumento urbanistico attribuirebbe all’area interessata
dall’intervento edilizio, qualificata come lotto libero, un
proprio indice edificatorio privo di limiti e vincoli,
peraltro nemmeno risultanti da atti formali.
3.1. La doglianza è infondata.
Il compendio immobiliare cui si riferisce la richiesta di
permesso di costruire della società ricorrente è stato in
passato interessato da alcuni interventi edilizi che ne
hanno saturato la volumetria, come sottolineato anche dalla
sentenza n. 844 del 21.06.1995 di questa Sezione.
Infatti, nei primi anni sessanta veniva realizzato un
edificio residenziale di sette piani, oggetto di successivi
ampliamenti con varianti, e nel 1989 veniva realizzato un
nuovo edificio residenziale (cfr. all. 3 e 4 del Comune); il
titolo edilizio relativo a tale secondo manufatto –pratica
edilizia n. 183/1989– è stato annullato in autotutela dal
Comune con il provvedimento prot. n. 21246 del 06.10.1992 (all. 5 del Comune), in ragione dell’attribuzione di
volumetria in misura superiore a quella ancora disponibile:
con la citata sentenza n. 844 del 1995, questa Sezione ha in
effetti riconosciuto l’avvenuta realizzazione sul lotto di
un intervento edilizio avente una volumetria superiore a
quella disponibile, in quanto una buona parte della stessa
risultava essere già stata sfruttata in occasione delle
pregresse attività edilizie (il titolo edilizio tuttavia è
stato confermato dal Tribunale per altre ragioni,
disponendosi l’annullamento dell’atto di autotutela
comunale).
Il Comune ha correttamente ritenuto che, anche
sulla scorta della conclusioni contenute nella citata
sentenza, attualmente, il compendio non disponga di alcuna
volumetria residua tale da consentire la realizzazione di
quanto prospettato dalla parte ricorrente.
3.2. Non appare idonea ad infirmare la conclusione raggiunta
dagli Uffici comunali la circostanza, evidenziata dalla
difesa attorea, secondo cui le previsioni contenute nel
P.G.T. vigente avrebbero, in ragione del loro carattere
novativo, attribuito al lotto una nuova ed autonoma capacità
edificatoria; difatti, secondo la più recente
giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ‘lo strumento
urbanistico, proprio per le sue caratteristiche di strumento
di pianificazione e delle sua possibilità di utilizzo, nel
disporre le future conformazioni del territorio, considera
le sole “aree libere”, tali dovendosi ritenere quelle
“disponibili” al momento della pianificazione, e ancor più
precisamente quelle che non risultano già edificate (in
quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate
per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel
rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già
utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla
realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo
volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova
pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla
precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in
volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione
storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale
(cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti),
valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a
considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di
edificazione, in quanto non ostacolata da presenze
materiali, e non già come un bene da conformare per il
migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti
costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso
vivono ed operano.
Quanto sin qui esposto, comporta che l’eventuale
modificazione del piano regolatore, che prevede nuovi e più
favorevoli indici di fabbricazione, non può che interessare,
nell’ambito della zona del territorio considerata dallo
strumento urbanistico, se non le sole aree libere, nel senso
sopra precisato, con esclusione, quindi, di tutte le aree
comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le
stesse si presentino “fisicamente” libere da immobili’
(Consiglio di Stato, IV, 22.11.2017, n. 5419).
3.3. Nemmeno appare rilevante la mancanza di un formale atto
di asservimento dell’area interessata dal progettato
intervento edilizio ad altre aree già oggetto di passata
edificazione, come richiesto dalla vigente normativa
edilizia laddove ci si trovi al cospetto di lotti distinti,
in quanto si tratta di un unico compendio che, solo con il
passare del tempo, è stato oggetto di frazionamento; del
resto, da un punto di vista edilizio, l’intero complesso,
originariamente appartenente alla Im.La.Mi. S.p.a., è stato sempre considerato unitariamente
(cfr. punto 6 del diritto della sentenza di questo Tribunale
n. 844 del 1995).
3.4. Ciò determina il rigetto anche della predetta doglianza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.04.2018 n. 882 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La formazione del silenzio-assenso sulla
domanda di permesso di costruire postula che l’istanza sia
assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, giacché
in assenza della documentazione prescritta dalle norme o di
uno dei presupposti per la realizzazione dell’intervento
edilizio, alcun titolo tacito può formarsi, considerato che
l’eventuale inerzia dell’Amministrazione non può far
guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non
potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento
espresso, trattandosi non di una deroga al regime
autorizzatorio, ma di modalità semplificata di conseguimento
dell’autorizzazione.
Ciò appare in perfetta aderenza al consolidato orientamento
giurisprudenziale secondo il quale il silenzio assenso non
si forma in presenza di lacune documentali essenziali o
incompletezze della pratica sottoposta all’esame
dell’Amministrazione.
---------------
4. Con la terza censura di ricorso si assume l’illegittimità
del diniego impugnato, in quanto sulla domanda della
ricorrente si sarebbe formato il silenzio assenso, stante
l’avvenuto decorso dei termini previsti dai commi 3 e 7
dell’art. 38 della legge regionale n. 12 del 2005.
4.1. La doglianza è infondata.
Va evidenziato che la formazione del silenzio-assenso sulla
domanda di permesso di costruire postula che l’istanza sia
assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, giacché
in assenza della documentazione prescritta dalle norme o di
uno dei presupposti per la realizzazione dell’intervento
edilizio, alcun titolo tacito può formarsi, considerato che
l’eventuale inerzia dell’Amministrazione non può far
guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non
potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento
espresso, trattandosi non di una deroga al regime
autorizzatorio, ma di modalità semplificata di conseguimento
dell’autorizzazione (TAR Puglia, Bari, III, 12.05.2017, n. 492; 14.01.2016, n. 37).
Ciò appare in
perfetta aderenza al consolidato orientamento
giurisprudenziale secondo il quale il silenzio-assenso non
si forma in presenza di lacune documentali essenziali o
incompletezze della pratica sottoposta all’esame
dell’Amministrazione (ex multis, TAR Lombardia, Milano, II,
08.03.2017, n. 556; 12.10.2016, n. 1855).
Nella fattispecie de qua, come è emerso in
precedenza, l’assenza di volumetria disponibile sul lotto
interessato dall’intervento costruttivo proposto dalla
ricorrente, quale presupposto indispensabile per ottenere il
titolo edilizio, non avrebbe giammai potuto dar luogo alla
formazione del silenzio assenso sull’istanza di rilascio del
permesso di costruire (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.04.2018 n. 882 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La vexata quaestio
dell’annullamento dei titoli edilizi in autotutela è stata
di recente risolta, in maniera definitiva, con la sentenza
dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2017.
In base a tale decisione “Nella vigenza dell'art. 21-nonies
l. n. 241 del 1990 —per come introdotto dalla l. n. 15 del
2005— l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in
sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale
considerevole dal provvedimento annullato, deve essere
motivato in relazione alla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di
ritiro, anche tenuto conto degli interessi dei privati
destinatari del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il
potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in
ogni caso, il termine ‘ragionevole' per la sua adozione
decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte
dell'Amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a
fondamento dell'atto di ritiro;
ii) che l'onere motivazionale gravante sull'Amministrazione
risulterà attenuato in ragione della rilevanza e
autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto
che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere
soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti
circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela
che risultano in concreto violate, che normalmente possano
integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico
che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi);
iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle
circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento
dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di
configurare in capo a lui una posizione di affidamento
legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale
gravante sull'Amministrazione potrà dirsi soddisfatto
attraverso il documentato richiamo alla non veritiera
prospettazione di parte”.
---------------
Preliminarmente, si deve precisare anche come risulti
incontestato tra le parti che il provvedimento oggetto di
impugnazione (ordinanza n. 5 del 21/5/2012) costituisca -non
un provvedimento di reiezione della domanda di rilascio
della concessione edilizia, ma- un provvedimento di
annullamento in autotutela della concessione formatasi in
modo tacito, secondo il meccanismo previsto dall’art. 2
della L.R. 17/1994.
Sulla base di tale premessa deve essere respinta la prima
censura contenuta nel primo motivo di ricorso –concernente
la violazione dell’articolo 10-bis della legge 241/1990, a
causa dell’omessa adozione del preavviso di rigetto
dell’istanza- poiché nella vicenda in esame la stessa
amministratore resistente riconosce che il titolo edilizio
(ora annullato) si era regolarmente formato.
Il sindacato giurisdizionale, quindi, deve concentrarsi sul
contestato esercizio del potere di annullamento in
autotutela, che ha portato alla rimozione di una concessione
edilizia formatasi circa due anni prima dell’adozione del
provvedimento ora impugnato.
A tal proposito, deve ricordarsi come la vexata quaestio
dell’annullamento dei titoli edilizi in autotutela sia stata
di recente risolta, in maniera definitiva, con la sentenza
dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2017.
In base a tale decisione “Nella vigenza dell'art.
21-nonies l. n. 241 del 1990 —per come introdotto dalla l.
n. 15 del 2005— l'annullamento d'ufficio di un titolo
edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale
considerevole dal provvedimento annullato, deve essere
motivato in relazione alla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di
ritiro, anche tenuto conto degli interessi dei privati
destinatari del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il
potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in
ogni caso, il termine ‘ragionevole' per la sua adozione
decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte
dell'Amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a
fondamento dell'atto di ritiro;
ii) che l'onere motivazionale gravante sull'Amministrazione
risulterà attenuato in ragione della rilevanza e
autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto
che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere
soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti
circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela
che risultano in concreto violate, che normalmente possano
integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico
che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi);
iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle
circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento
dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di
configurare in capo a lui una posizione di affidamento
legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale
gravante sull'Amministrazione potrà dirsi soddisfatto
attraverso il documentato richiamo alla non veritiera
prospettazione di parte”.
Nel caso in esame si deve sottolineare come
l’amministrazione, nell’atto impugnato, abbia motivato la
decisione di annullare in autotutela la concessione edilizia
già assentita in favore del ricorrente in base al rilievo
della “assenza della chiara dimostrata preesistenza dei
ruderi nella consistenza volumetrica e planimetrica indicata
in progetto”.
Ciò consente di affermare che non ricorre quella ipotesi
peculiare contemplata nella citata decisione dell’adunanza
plenaria, e che impedirebbe il nascere di un legittimo
affidamento in capo al titolare della concessione,
rappresentata dalla “non veritiera prospettazione da
parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto
poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole”.
Al contrario, l’amministrazione non ha mai dichiarato che
gli elementi di fatto forniti dal ricorrente a sostegno
della domanda di concessione edilizia siano non veritieri,
ma si è limitata a dire che non siano stati sufficientemente
provati nella loro consistenza. Peraltro, deve aggiungersi
che la documentazione versata in giudizio dal ricorrente (in
particolare, rilievi fotografici) consente di affermare che
il rudere da ricostruire era effettivamente esistente,
sebbene qualche incertezza avrebbe potuto sorgere in ordine
alla sua effettiva consistenza.
Per tale motivo, l’amministrazione avrebbe potuto e dovuto
nel corso del procedimento approfondire in via istruttoria
tale aspetto, prima di lasciare che il titolo edilizio
richiesto si formasse per silentium. Risulta, invece,
che l’attività istruttoria sia stata svolta solo in un
momento ampiamente successivo al formarsi del titolo.
Sulla base di queste premesse, risulta fondata la censura
contenuta nel primo motivo di ricorso con la quale viene
lamentato l’illegittimo esercizio dell’attività di
annullamento in autotutela, a causa della mancata
esternazione dell’interesse pubblico perseguito con un
provvedimento di secondo grado, e della mancata
considerazione dell’incolpevole affidamento radicatosi in
capo al privato, che ha nel corso del biennio portato avanti
i lavori.
Si richiama, in proposito, la già citata decisione
dell’adunanza plenaria nella parte in cui stabilisce che “l'annullamento
d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad
una distanza temporale considerevole dal provvedimento
annullato, deve essere motivato in relazione alla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale
all'adozione dell'atto di ritiro, anche tenuto conto degli
interessi dei privati destinatari del provvedimento
sfavorevole”.
L’annullamento dell’ordinanza n. 5 del 21/5/2012 determina
la caducazione dell’ordinanza n. 69 del 2/7/2012 che su
quella trovava fondamento.
In conclusione, assorbite le ulteriori censure il ricorso va
accolto.
Le spese processuali possono essere compensate in ragione
dei contrasti giurisprudenziali esistenti in tema di
annullamento d’ufficio dei titoli edilizi, risolti solo di
recente con la citata sentenza A.P. 8/2017 (TAR
Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 03.04.2018 n. 680 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
Sono atti pubblici ai sensi degli artt.
476-479
cp gli atti del Sindaco o degli organi collegiali comunali
che manifestano la volontà dell'Ente verso l'esterno e sono
destinati per previsione di legge a determinare conseguenze
giuridiche.
Tale principio è, del resto, coerente con
quanto in generale ritenuto dalla giurisprudenza di
legittimità, per la quale l'atto pubblico contemplato dagli
artt.
476,
479 cp è quello caratterizzato dalla produttività
di effetti costitutivi, traslativi, dispositivi,
modificativi od estintivi rispetto a situazioni giuridiche
di rilevanza pubblicistica.
Più recentemente nella nozione di atto
pubblico oggetto del delitto di falso ideologico ex
art. 479 cod. pen. è stato ricompreso ogni atto
redatto dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue
funzioni, giacché ciò che rileva è la provenienza dell'atto
dal medesimo ed il contributo dallo stesso fornito, in
termini di conoscenza o di determinazione, ad un
procedimento della pubblica amministrazione.
---------------
Deve considerasi
che la deliberazione consiliare, già
definibile atto pubblico quanto all'organo collegiale di
provenienza ed all'esercizio di pubbliche funzioni dei
soggetti che l'hanno adottata, è idonea a rappresentare la
volontà dell'Ente (nella fattispecie circa l'approvazione
del bilancio consuntivo), è inserita in un più ampio
procedimento amministrativo ed è destinata per legge a
determinare conseguenze giuridiche, produttive degli
specifici effetti costitutivi, traslativi, dispositivi,
modificativi od estintivi di situazioni giuridiche di
rilevanza pubblicistica, sotto ogni aspetto della complessa
attività e del funzionamento dell'amministrazione comunale,
sia verso il suo interno che verso l'esterno.
Il provvedimento, pertanto, è qualificabile come atto
pubblico ex
art. 479 c.p.
---------------
Il terzo motivo di ricorso, nel quale è stata
sollevata la questione della qualificazione giuridica degli
atti pubblici di cui ai capi di imputazione 1) e 3), è
infondato.
12. Deve puntualizzarsi che al Sindaco Fa. è stato
contestato al capo 1) di aver concorso moralmente e
materialmente con le condotte già ben descritte nelle
sentenze dei Giudici di merito ed innanzi sintetizzate -tra
le quali la firma per conto della Giunta all'autorizzazione
del 29.01.2011- alla falsa formazione della delibera di
approvazione del rendiconto di gestione economico-
finanziaria del Comune da parte dei consiglieri comunali,
indotti in errore -come si legge in sentenza alla pagina 39-
dall'intervento in aula dell'assessore Va., che aveva agito
in pieno concorso col Sindaco e col direttore di ragioneria;
costui, professore universitario in materie economiche,
della cui competenza i consiglieri si erano fidati, li aveva
convinti che essi, non approvandolo, avrebbero leso le
prerogative della Giunta e si sarebbero opposti ad un
percorso di risanamento finanziario efficacemente iniziato.
Al capo 3) è stato contestato di aver formato,
sottoscrivendolo, in concorso con Va. e Ra., il prospetto
previsto dall'art 77-bis/15 DL 112/2008, in cui falsamente
era attestato il rispetto del patto di stabilità da parte
del Comune di Alessandria.
12.1 Il ricorrente ha sostenuto che entrambi gli atti erano
da qualificarsi ai sensi dell'art.
480 cp -e non
479 cp come erroneamente aveva ritenuto la Corte-
poiché il Sindaco si sarebbe limitato ad attestare la
veridicità di dati relativi alla gestione economico-
finanziaria del 2010, ma non aveva formato gli atti in base
ad attività da egli stesso compiuta.
13. In proposito, quanto alla delibera
consiliare di approvazione del rendiconto di gestione
economico-finanziaria del Comune, occorre ricordare una
antica ma chiara pronunzia di questa Corte, che ha ritenuto
atti pubblici ai sensi degli artt.
476-479
cp gli atti del Sindaco o degli organi collegiali comunali
che manifestano la volontà dell'Ente verso l'esterno e sono
destinati per previsione di legge a determinare conseguenze
giuridiche (Sez.
5, Sentenza n. 10883 del 01/10/1996 Ud. (dep. 20/12/1996) Rv.
206537).
Tale principio è, del resto, coerente con
quanto in generale ritenuto dalla giurisprudenza di
legittimità, per la quale l'atto pubblico contemplato dagli
artt.
476,
479 cp è quello caratterizzato dalla produttività
di effetti costitutivi, traslativi, dispositivi,
modificativi od estintivi rispetto a situazioni giuridiche
di rilevanza pubblicistica
(Cass. SU n. 10929/1981; conformi Cass. 5 n. 10149 del 1984;
Cass. 17.06.1987, Iorio).
13.1 Più recentemente nella nozione di atto
pubblico oggetto del delitto di falso ideologico ex
art. 479 cod. pen. è stato ricompreso ogni atto
redatto dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue
funzioni, giacché ciò che rileva è la provenienza dell'atto
dal medesimo ed il contributo dallo stesso fornito, in
termini di conoscenza o di determinazione, ad un
procedimento della pubblica amministrazione
(Sez. 5, Sentenza n. 44383 del 29/05/2015 Ud. (dep.
03/11/2015) rv. 266401). In senso conforme: Sez. 5, Sentenza
n. 43737 del 27/09/2012 Ud. (dep. 09/11/2012) Rv. 254520.
13.2 Applicando tali consolidati principi alla fattispecie
concreta deve considerasi che la delibera
consiliare in discussione, già definibile atto pubblico
quanto all'organo collegiale di provenienza ed all'esercizio
di pubbliche funzioni dei soggetti che l'hanno adottata, è
idonea a rappresentare la volontà dell'Ente circa
l'approvazione del bilancio consuntivo, è inserita in un più
ampio procedimento amministrativo -di cui vi è chiaro
riscontro nelle sentenze di merito- ed è destinata per legge
a determinare conseguenze giuridiche, produttive degli
specifici effetti costitutivi, traslativi, dispositivi,
modificativi od estintivi di situazioni giuridiche di
rilevanza pubblicistica, sotto ogni aspetto della complessa
attività e del funzionamento dell'amministrazione comunale,
sia verso il suo interno che verso l'esterno.
Il provvedimento, pertanto, è qualificabile come atto
pubblico ex
art. 479 c.p.
(Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 30.03.2018 n. 14617). |
EDILIZIA PRIVATA:
Servitù di veduta, ci sono dei vincoli per opporsi. Servitù di
veduta opponibili soltanto se risultano dalla nota di trascrizione dell'atto
di acquisto e a condizione che dalla stessa sia possibile desumere
l'indicazione del fondo dominante e di quello servente, la volontà delle
parti di costituire una servitù, nonché l'oggetto e la portata del diritto,
oltre che eventuali termini o condizioni.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con l'ordinanza
30.03.2018 n. 8000.
Il caso concreto.
Nella specie, nella controversia avviata da un condominio nei confronti dei
proprietari di un fabbricato limitrofo, il tribunale aveva accertato la
mancanza di conformità di una finestra esistente sul retro dell'immobile di
proprietà dei convenuti e del sottostante foro di aerazione, ordinando ai
medesimi di tamponarli secondo quanto indicato nella consulenza tecnica
d'ufficio espletata nel corso del procedimento.
Allo stesso tempo il giudice
di primo grado aveva altresì accertato che la sopraelevazione condotta dai
predetti convenuti rispetto alla quota originaria del tetto del proprio
edificio aveva determinato una riduzione di luce nella misura del 15% a
danno del cortile del condominio attore, ordinandone quindi la riduzione in
pristino.
La sentenza, impugnata dinanzi alla Corte di appello, era stata
integralmente confermata. I giudici di secondo grado avevano a loro volta
ritenuto che la sussistenza di una condizione pattizia risolutiva delle due
servitù (di gronda e di veduta) risultasse da un atto di divisione
immobiliare giudicato opponibile agli appellanti, pur non risultando che
detta condizione fosse stata menzionata nelle note di trascrizione
risultanti dai registri immobiliari.
La Corte aveva infatti ritenuto di
poter presumere che il notaio che aveva provveduto alla redazione dell'atto
di divisione si fosse anche occupato di curarne conformemente la
trascrizione nei pubblici registri, trattandosi di obbligo di legge e
dovendosi quindi ritenere che il professionista vi avesse a suo tempo
ottemperato. Inoltre i giudici di secondo grado avevano ulteriormente
osservato, a sostegno della propria decisione, che, essendovi la prova della
trascrizione, il relativo contenuto avrebbe potuto essere accertato
altrimenti e, ove necessario, anche giudizialmente. Di qui la decisione dei
proprietari dell'edificio confinante con quello condominiale di presentare
ricorso in Cassazione.
La decisione della Suprema corte.
Nella vicenda in questione le parti in causa avevano effettivamente
richiamato il contenuto di un atto divisionale risalente nel tempo e in base
al quale, «in caso di innovazione di fabbrica», e cioè di modifica
dell'edificio, le predette servitù sarebbero cessate e i proprietari del
fondo in precedenza dominante avrebbero dovuto eliminare lo scolo di gronda
e la finestra.
Tuttavia i proprietari originariamente convenuti in giudizio
e ricorrenti in Cassazione avevano contestato la sentenza impugnata proprio
nella parte in cui con essa era stata sancita l'opponibilità nei loro
confronti della menzionata condizione risolutiva della servitù di veduta e
di scolo prevista in favore del fondo di cui i medesimi erano
successivamente divenuti titolari e in danno del fondo confinante
condominiale, in quanto detta condizione non risultava menzionata nelle note
di trascrizione degli atti di acquisto dei loro danti causa.
La Corte di
appello aveva infatti ritenuto irrilevante, ai fini della contestata opponibilità, la circostanza del mancato rinvenimento del supporto cartaceo
relativo alla nota di trascrizione del suddetto atto originario, presumendo
che il notaio rogante avesse provveduto a tale adempimento in conformità a
un obbligo di legge e che, in ogni caso, fosse sufficiente che nella specie
si fosse proceduto effettivamente all'adempimento della trascrizione,
ritenendo che il relativo contenuto potesse essere accertato altrimenti e,
ove necessario, anche giudizialmente.
I giudici di legittimità hanno però smontato la ricostruzione normativa
della fattispecie operata dal tribunale e confermata dalla Corte di appello,
in quanto contraria al principio generale recepito nell'ordinamento e in
base al quale, in tema di trascrizione, al fine di stabilire se e in quali
limiti un determinato atto sia opponibile ai terzi, deve aversi riguardo
esclusivo al contenuto della nota di trascrizione, unico strumento
funzionale alla conoscenza, per gli interessati, del contenuto, dell'oggetto
e del destinatario dell'atto.
Come già evidenziato in precedenza dalla
medesima Suprema corte, la pubblicità immobiliare, che si attua con il
sistema della trascrizione, è infatti imperniata su principi formali, in
forza dei quali il terzo che è rimasto estraneo all'atto trascritto, per
individuare l'oggetto cui l'atto si riferisce attraverso la notizia che ne
dà la pubblicità stessa, deve esclusivamente fare affidamento sul contenuto
con cui la notizia dell'intervento dell'atto è riferita nei registri
immobiliari.
La corretta individuazione di detto contenuto è affidata, a sua
volta, all'esclusiva responsabilità del soggetto che richiede la
trascrizione, sul quale incombe quindi l'onere di procedervi redigendo la
nota di trascrizione. Una volta redatta la nota, e avvenuta la trascrizione
sulla sua base, il contenuto della conseguente pubblicità-notizia è quindi
solo quello da essa desumibile e ai soggetti che se ne avvalgono non incombe
alcun onere di controllo ulteriore.
La seconda sezione civile della Cassazione ha quindi chiarito come per
stabilire se e in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile
ai terzi deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di
trascrizione, dovendo la stessa consentire di individuare, senza margini di
incertezza, gli estremi essenziali del negozio, i beni ai quali esso si
riferisce, nonché l'essenza, la natura e i dati caratterizzanti del diritto
trasferito o costituito, restando esclusa ogni possibilità di attingere
aliunde i predetti elementi, né dai titoli presentati e depositati con la
medesima nota né, tanto meno, da altri atti o dati a questa estranei.
La sentenza impugnata è quindi stata cassata e la causa rinviata alla Corte
di appello, perché la stessa provveda nuovamente a valutare la controversia
attenendosi al principio di diritto per il quale l'indagine sull'opponibilità
della servitù ai terzi successivi acquirenti deve essere condotta con
esclusivo riguardo al contenuto della nota di trascrizione del contratto che
della servitù integra il titolo, sicché detta opponibilità può essere
ritenuta solo quando dalla predetta nota sia possibile desumere
l'indicazione del fondo dominante e di quello servente, la volontà delle
parti di costituire una servitù, nonché l'oggetto e la portata del diritto,
anche quindi con riguardo all'eventuale sottoposizione della modifica o
dell'estinzione di tale diritto a termine o condizione, come imposto
dall'ultimo comma dell'art. 2659 c.c.
Del resto già in passato la Suprema corte aveva avuto modo di osservare che
per stabilire se e in quali limiti un determinato atto trascritto sia
opponibile ai terzi deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della
nota di trascrizione, poiché le indicazioni riportate nella nota stessa
devono essere di per sé sufficienti a consentire di individuare, senza
margini di equivoci e di incertezza, gli estremi essenziali del negozio, i
beni ai quali esso si riferisce, nonché l'essenza, la natura e i dati
caratterizzanti del diritto trasferito o costituito, restando esclusa ogni
possibilità di attingere elementi dai titoli presentati e depositati con la
nota anzidetta o, tanto meno, da altri atti o dati a questa estranei.
Nella specie, al contrario, era circostanza pacifica tra le parti in causa
che non fosse stata rinvenuta la nota di trascrizione dell'atto originario
comprendente il contestato patto istitutivo della condizione a cui era stata
risolutivamente subordinata la costituzione e la successiva permanenza del
diritto di servitù.
Quindi, secondo la Suprema corte, non potendosi
applicare in casi del genere in via suppletiva alcuna presunzione
riconducibile all'espletamento dell'attività in generale del notaio rogante
e non risultando, comunque, alcuna menzione specifica di essa nelle note di
trascrizione, doveva concludersi che la predetta condizione risolutiva
comportante l'estinzione del diritto di servitù di veduta e di scolo non
fosse opponibile agli attuali proprietari dell'immobile confinante con il
condominio (articolo
ItaliaOggi Sette del 16.04.2018).
---------------
MASSIMA
Con riferimento alla prima dedotta censura i ricorrenti hanno debitamente
inteso confutare la sentenza impugnata nella parte in cui con essa era stata
sancita l'opponibilità, nei loro confronti, della condizione risolutiva
della servitù
di veduta e di scolo prevista (nel senso che "in caso di innovazione di
fabbrica",
e cioè della modifica dell'edificio ricompreso nel II lotto, le servitù
sarebbero
cessate ed i proprietari del fondo in precedenza dominante avrebbero dovuto
eliminare lo scolo di gronda e la finestra) nell'atto costitutivo
consistente nel
richiamato atto divisionale del 1891 per notar Giani, a favore del fondo di
cui
essi erano successivamente divenuti titolari ed in danno del fondo
confinante di
proprietà del Condominio di viale ... 8 di Milano, malgrado la stessa
condizione non fosse risultata menzionata nelle note di trascrizione degli
atti di
acquisto dei loro danti causa.
In particolare, la doglianza attinge la decisione di appello (confermativa,
sul
punto, di quella di primo grado) nella parte in cui la Corte territoriale ha
ritenuto priva di rilevanza -ai fini della contestata opponibilità- la
circostanza
del mancato rinvenimento del supporto cartaceo relativo alla nota di
trascrizione del suddetto atto originario, sul presupposto dell'operatività
della
presunzione che il notaio rogante del 1891 avesse provveduto a tanto in
conformità ad un obbligo di legge e che, in ogni caso, risultava sufficiente
che si
fosse proceduto effettivamente all'adempimento della trascrizione, potendo
il
relativo contenuto essere accertato altrimenti e, ove necessario, anche
giudizialmente.
Sennonché, osserva il collegio, tale ricostruzione incorre nella violazione
delle richiamate norme codicistiche, poiché collide con il principio generale
recepito
nel nostro ordinamento in base al quale, in tema di trascrizione, al fine di
stabilire se ed in quali limiti un determinato atto sia opponibile ai terzi,
deve
aversi riguardo esclusivo al contenuto della nota di trascrizione, unico
strumento funzionale, "ex lege", alla conoscenza, per gli interessati, del
contenuto, dell'oggetto e del destinatario dell'atto (cfr. Cass. n.
5002/2005 e
Cass. n. 21758/2012).
In altri termini, per stabilire se, ed in quali
limiti, un
determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi deve aversi riguardo
esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, dovendo le
indicazioni
riportate nella nota stessa consentire di individuare, senza margini di
equivoci e
di incertezza, gli estremi essenziali del negozio, i beni ai quali esso si
riferisce,
nonché l'essenza, la natura ed i dati caratterizzanti del diritto trasferito
o
costituito, restando esclusa ogni possibilità di attingere elementi dai
titoli
presentati e depositati con la nota anzidetta, o, tanto meno, da altri atti
o dati a
questa estranei.
In particolare, in tema di servitù convenzionali, va affermato il principio
di
diritto (al quale dovrà, perciò, conformarsi il giudice di rinvio)
secondo
cui
l'indagine sull'opponibilità della servitù ai terzi successivi acquirenti va
condotta
con esclusivo riguardo al contenuto della nota di trascrizione del contratto
che
della servitù integra il titolo, sicché detta opponibilità può essere
ritenuta solo
quando dalla nota cennata è possibile desumere l'indicazione del fondo
dominante e di quello servente, la volontà delle parti di costituire una
servitù,
nonché l'oggetto e la portata del diritto, anche, quindi, con riguardo
all'eventuale sottoposizione della modifica o dell'estinzione del relativo
diritto a
termine o condizione, come imposto dall'ultimo comma dell'art. 2659 c.c. (v.
Cass. n. 3590/1993; Cass. n. 8448/1998 e Cass. n. 18892/2009). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il muro comune divisorio può essere
sopraelevato senza necessità di consenso dell'altro comproprietario perché
la
relativa facoltà, esercitabile ai sensi dell'art. 885 c.c., è svincolata dal
regime
normale della comunione e non trova alcuna restrizione nel citato art. 1102
c.c.
In altre parole,
deve, in questa sede, in relazione alla prima censura,
statuirsi
(e ribadirsi) il principio di diritto
secondo cui il citato art. 885 c.c., che
riconosce
ad ogni comproprietario la facoltà di alzare il muro comune, introduce una
deroga (e vale, quindi, come "ex specialis") sia al normale regime della
comunione che a quello dell'accessione perché consente -senza essere
subordinata al consenso dell'altro comproprietario del muro- la formazione
di
una proprietà separata ed esclusiva della sopraelevazione, la quale
appartiene
al comproprietario che per primo abbia innalzato il muro comune, il quale
può,
altresì, giovarsi, nella prosecuzione in altezza dello stesso principio di
prevenzione adottato sulla base della costruzione, fatta salva la
possibilità per il
vicino comproprietario del muro di chiedere la comunione del muro
sopraelevato.
Sotto altro profilo,
deve anche rammentarsi
che
la
disposizione dello stesso art. 885 c.c., che consente al comproprietario di
alzare
il muro comune, non interferisce con la disciplina in materia di distanze
legali,
né deroga alla stessa, questa perseguendo la funzione di evitare
intercapedini
dannose tra fabbricati (normativa codicistica) e anche di tutelare l'assetto
urbanistico di una data zona e la densità degli edifici in relazione
all'ambiente
(disciplina regolamentare, richiamata dall'art. 873 c.c.).
Del resto,
in
materia di
distanze legali, sono da ritenere integrative delle norme del codice civile
solo le
disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione
della distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza e che regolino con
qualsiasi
criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le
costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela di
interessi generali urbanistici, disciplinano solo l'altezza in sé degli
edifici, senza
nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi, tutelano,
nell'ambito
degli interessi privati, esclusivamente il valore economico della proprietà
dei
vicini;
ne
consegue che, mentre nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il
diritto alla riduzione in pristino, nel secondo è ammessa la sola tutela
risarcitoria.
---------------
Come
anticipato, anche il secondo motivo formulato dai ricorrenti è fondato per
essere incorsa la Corte di appello di Milano, nella sentenza qui impugnata,
nella
prospettata violazione degli artt. 1102, 885 e 872 c.c.
La domanda originariamente dedotta sul punto dal Condominio oggi
controricorrente tendeva ad ottenere la dichiarazione di illegittimità della
sopraelevazione per circa mt. 0,95 del manufatto di proprietà degli attuali
ricorrenti rispetto alla quota originaria del tetto, in quanto comportante
una
limitazione ingiustificata del diritto del predetto Condominio di godere
dell'aria e
della luce garantite dal cortile interno fino alla realizzazione
sopravvenuta del
contestato innalzamento della falda.
La Corte di appello ambrosiana ha confermando anche su tale aspetto la
statuizione del giudice di prime cure, con la quale, sulla scorta delle
risultanze
della c.t.u., era stato ritenuto che, per effetto della eseguita
sopraelevazione
del tetto, si era venuto a determinare un superamento della quota di
prospetto
della facciata attigua che aveva implicato, per il cortile condominiale, una
riduzione della luce quantificabile nell'ordine del 15% rispetto alla
situazione
precedente, in considerazione dell'entità delle superfici concretamente
interessate e dell'incidenza oraria e stagionale del fenomeno.
Il giudice di
secondo grado è giunto a tale conclusione ravvisando, nella condotta degli
appellanti (oggi ricorrenti) Ug.-Ba. la violazione dell'art. 1102
c.c., sul
presupposto che questi ultimi avevano, in parte, alterato la pregressa
destinazione e le precedenti modalità di fruizione del suddetto bene comune.
Anche questa ricostruzione non risulta correttamente svolta in punto di
diritto.
Premessi i dati pacifici in fatto che la sopraelevazione del muro a confine
del
Condominio di viale ... 8 era stata autorizzata dal Comune di Milano
senza presentare difformità rispetto ai regolamenti di rilevanza
pubblicistica e
che i due ricorrenti non rivestivano la qualità di condomini del menzionato
Condominio né che tra gli stessi e il Condominio medesimo fosse stata
conclusa
una convenzione contemplante una "servitus altius non tollendi", deve
ritenersi
che l'opera di innalzamento del muro comune (comunque rimasto, su tale
fronte, cieco) sia stata realizzata dai ricorrenti nell'esercizio del
diritto
riconosciuto dall'art. 885 c.c., di cui si sono avvalsi a loro spese, senza
che, perciò, nella fattispecie, potesse venire in rilievo l'applicabilità
della recessiva
norma generale di cui all'art. 1102 c.c. nonché dell'art. 872 c.c. (non
versandosi
propriamente in tema di violazione di distanze legali che, se accertata,
avrebbe
potuto determinare la legittima emissione dell'ordine di condanna alla
riduzione
in pristino).
Infatti,
secondo la concorde giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es.,
Cass.
n. 6627/1993 e Cass. n. 237/1997),
il muro comune divisorio può essere
sopraelevato senza necessità di consenso dell'altro comproprietario perché
la
relativa facoltà, esercitabile ai sensi dell'art. 885 c.c., è svincolata dal
regime
normale della comunione e non trova alcuna restrizione nel citato art. 1102
c.c.
In altre parole,
deve, in questa sede, in relazione alla prima censura,
statuirsi
(e ribadirsi) il principio di diritto (al quale pure dovrà, ulteriormente,
conformarsi il giudice di rinvio)
secondo cui il citato art. 885 c.c., che
riconosce
ad ogni comproprietario la facoltà di alzare il muro comune, introduce una
deroga (e vale, quindi, come "ex specialis") sia al normale regime della
comunione che a quello dell'accessione perché consente -senza essere
subordinata al consenso dell'altro comproprietario del muro- la formazione
di
una proprietà separata ed esclusiva della sopraelevazione, la quale
appartiene
al comproprietario che per primo abbia innalzato il muro comune, il quale
può,
altresì, giovarsi, nella prosecuzione in altezza dello stesso principio di
prevenzione adottato sulla base della costruzione, fatta salva la
possibilità per il
vicino comproprietario del muro di chiedere la comunione del muro
sopraelevato.
Sotto altro profilo,
deve anche rammentarsi (cfr. Cass. n. 19142/2013)
che
la
disposizione dello stesso art. 885 c.c., che consente al comproprietario di
alzare
il muro comune, non interferisce con la disciplina in materia di distanze
legali,
né deroga alla stessa, questa perseguendo la funzione di evitare
intercapedini
dannose tra fabbricati (normativa codicistica) e anche di tutelare l'assetto
urbanistico di una data zona e la densità degli edifici in relazione
all'ambiente
(disciplina regolamentare, richiamata dall'art. 873 c.c.).
Del resto,
in
materia di
distanze legali, sono da ritenere integrative delle norme del codice civile
solo le
disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione
della distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza e che regolino con
qualsiasi
criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le
costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela di
interessi generali urbanistici, disciplinano solo l'altezza in sé degli
edifici, senza
nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi, tutelano,
nell'ambito
degli interessi privati, esclusivamente il valore economico della proprietà
dei
vicini (v. Cass. n. 1073/2009 e, più di recente, Cass. n. 10264/2016);
ne
consegue che, mentre nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il
diritto alla riduzione in pristino, nel secondo è ammessa la sola tutela
risarcitoria (che, tuttavia, non ha costituito propriamente, nella vicenda
processuale dedotta in ricorso, oggetto del "thema decidendum" né di alcun
motivo di doglianza in sede di legittimità) (Corte di Cassazione,
Sez. II civile,
ordinanza
30.03.2018 n. 8000). |
URBANISTICA:
Il sindacato
giurisdizionale sulle scelte pianificatorie della P.A. è
circoscritto alle sole ipotesi di palese erroneità o di
manifesta irrazionalità di valutazioni, non potendo il
giudice sovrapporre le proprie opinioni a quelle di merito
di competenza dell’Amministrazione, onde non travalicare il
limite esterno della sua giurisdizione di legittimità; di
norma, peraltro, si tratta di profili non facilmente
apprezzabili sotto il profilo della legittimità se non nei
limiti della verifica del corretto esercizio dei poteri
affidati alla P.A., con riguardo, ad es., alla completezza
dell’istruttoria, alla sussistenza dei presupposti,
all’osservanza di criteri di proporzionalità.
In particolare, si ritiene che le scelte pianificatorie
della P.A., per quanto concerne sia la destinazione delle
singole aree, sia l’indice di edificabilità, costituiscano
valutazioni discrezionali espressione di scelte di merito,
dunque sottratte al sindacato giurisdizionale, salvo che non
siano affette da errori di fatto o da abnormi illogicità,
non essendo peraltro necessaria una specifica motivazione
concernente le singole aree o i singoli comparti.
A ciò va aggiunto che, ai sensi dell’art. 10, secondo
comma, lett. c), della l. n. 1150/1942 (Legge urbanistica),
alla Regione è consentito, all’atto di approvazione dello
strumento urbanistico, apportare modifiche, tra l’altro, al
fine di assicurare la tutela del paesaggio e dei complessi
storici, monumentali, ambientali ed archeologici: modifiche
che, in quanto indispensabili per detta tutela, si
atteggiano come obbligatorie per la stessa autorità
regionale.
---------------
Considerato, infatti, che:
- in ordine alle censure dedotte dalla ricorrente, va
richiamato il costante indirizzo giurisprudenziale, per cui
il sindacato giurisdizionale sulle scelte pianificatorie
della P.A. è circoscritto alle sole ipotesi di palese
erroneità o di manifesta irrazionalità di valutazioni, non
potendo il giudice sovrapporre le proprie opinioni a quelle
di merito di competenza dell’Amministrazione, onde non
travalicare il limite esterno della sua giurisdizione di
legittimità (C.d.S., Sez. IV, 18.11.2014, n. 5661); di
norma, peraltro, si tratta di profili non facilmente
apprezzabili sotto il profilo della legittimità se non nei
limiti della verifica del corretto esercizio dei poteri
affidati alla P.A., con riguardo, ad es., alla completezza
dell’istruttoria, alla sussistenza dei presupposti,
all’osservanza di criteri di proporzionalità (v. TAR
Lombardia, Milano, Sez. I, 24.08.2017, n. 1764);
- in particolare, si ritiene che le scelte pianificatorie
della P.A., per quanto concerne sia la destinazione delle
singole aree, sia l’indice di edificabilità, costituiscano
valutazioni discrezionali espressione di scelte di merito,
dunque sottratte al sindacato giurisdizionale, salvo che non
siano affette da errori di fatto o da abnormi illogicità,
non essendo peraltro necessaria una specifica motivazione
concernente le singole aree o i singoli comparti (cfr.
TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 1764/2017, cit.; TAR
Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 22.01.2015, n. 34;
TAR Campania, Napoli, Sez. II, 23.07.2012, n. 3506);
- a ciò va aggiunto che, ai sensi dell’art. 10, secondo
comma, lett. c), della l. n. 1150/1942 (Legge urbanistica),
alla Regione è consentito, all’atto di approvazione dello
strumento urbanistico, apportare modifiche, tra l’altro, al
fine di assicurare la tutela del paesaggio e dei complessi
storici, monumentali, ambientali ed archeologici (cfr.
C.d.S., Sez. IV, 17.09.2013, n. 4614; id., 01.12.2011, n. 6349): modifiche che, in quanto
indispensabili per detta tutela, si atteggiano come
obbligatorie per la stessa autorità regionale (cfr. C.d.S.,
Sez. IV, 26.02.2013, n. 1182);
- il riflesso, sul piano della legislazione regionale, del
potere di modifica d’ufficio previsto dall’art. 10, secondo
comma, lett. c), della l. n. 1150/1942 si rinviene, per il
Veneto, nell’art. 45, primo comma, n. 4, della l.r. n.
61/1985 (applicabile ratione temporis): e nel caso di specie
la deliberazione gravata adduce, a fondamento della modifica
d’ufficio da essa introdotta e di cui l’Im.Se.
S.r.l. chiede l’annullamento, proprio l’art. 45, primo
comma, n. 4, cit.;
- tanto premesso, nel caso di specie le censure dedotte
dalla ricorrente si rivelano non solo sprovviste di
fondamento, ma al limite dell’inammissibilità, in quanto
rivolte a censurare il merito delle scelte discrezionali
della P.A.: scelte che, per quanto si dirà subito, non sono
inficiate da quei vizi di palese erroneità, manifesta
irrazionalità delle valutazioni, abnorme illogicità, che, in
base all’insegnamento sopra riportano, consentono –soli–
il sindacato giurisdizionale;
- da un lato, infatti, rientra totalmente nel merito delle
scelte discrezionali della P.A. e non si configura per nulla
come irragionevole o illogica la decisione della Regione di
tutelare non soltanto la facciata principale, ma anche
quella retrostante, del complesso monumentale di Villa
Albuzio, predisponendo uno “sfondo scenografico” della
stessa che certamente non si arresta –come pretenderebbe la
società ricorrente– alla riva del fiume, ma ben può
oltrepassarla e coinvolgere i terreni di sua proprietà: ciò,
indipendentemente da un rapporto pertinenziale di detti
terreni con la Villa, il cui richiamo appare, in questa
sede, non del tutto conferente;
- alla luce di tali riflessioni, non appare sproporzionato o
eccessivo il pur rilevante sacrificio imposto ai terreni
della ricorrente con la destinazione a “verde privato”, che
mira espressamente –come dice la deliberazione impugnata–
a garantire lo sfondo scenografico del complesso
monumentale. E del resto non è chi non veda come consentire
l’edificazione su tali terreni avrebbe molto verosimilmente
compromesso la visuale scenografica della Villa, che,
indubbiamente, si apprezza da tutti i lati e non solo da
quello della facciata principale;
- il punto, insomma, non è che dalla Villa neppure si
vedrebbero i terreni della ricorrente, come da questa
asserito, quanto piuttosto il fatto che eventuali
costruzioni su detti terreni possano pregiudicare
irreparabilmente la visuale complessiva della Villa
medesima;
- da ultimo, la relazione difensiva versata in atti dalla
Regione osserva come la destinazione a verde privato
dell’area (che magari sarebbe stato più appropriato
classificare quale zona agricola) non possa intendersi come
imposizione di un vincolo preordinato all’esproprio,
soggetto a decadenza decorso un quinquennio, con obbligo di
indennizzo, nonché di specifica motivazione in caso di
reiterazione. Invero –prosegue condivisibilmente la Regione– detta destinazione, pur implicando l’inedificabilità
dell’area e pur impedendo al proprietario di utilizzarla,
rappresenta la mera espressione del potere di pianificazione
del territorio, in funzione del suo ordinato sviluppo,
nonché –c’è da aggiungere– della conservazione dei suoi
valori e significati più importanti;
- donde, in definitiva, l’infondatezza sia delle censure
contenute nel primo motivo di gravame, sia di quelle dedotte
con il secondo motivo;
Ritenuto in definitiva, alla luce di tutto ciò che si è
esposto, di dover respingere il ricorso, in quanto nel suo
complesso infondato;
Ritenuto, per conseguenza, di dover respingere altresì la
domanda di risarcimento del danno proposta dalla ricorrente,
difettando essa del presupposto dell’illegittimità del
provvedimento amministrativo da cui sarebbe derivata la
lesione (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 26.03.2018 n. 349 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Terra e rocce da scavo - Area di
stoccaggio di rifiuti - Omesso controllo delle
autorizzazioni - Responsabilità del rappresentante legale
per colpa - Attribuzione di un fatto altrui (dipendenti) -
Assenza di delega di funzioni idonea a scriminare -
Fattispecie: Attività di raccolta, trasporto e smaltimento
di rifiuti speciali non pericolosi in assenza di apposita
autorizzazione - Art. 256 d.lgs. n.152/2006.
In tema di rifiuti, l'omissione dell'accertamento della
presenza dell'autorizzazione, può integrare il reato
colposo, quando non può comunque ritenersi un errore di
fatto, ma abbia un profilo di colpa.
Sicché, la responsabilità in capo al legale rappresentante
della ditta, non rileva, per l'attribuzione di un fatto
altrui -dei dipendenti dell'azienda di cui è il legale
rappresentante-, ma per la sua condotta di capo dell'impresa
che non ha controllato la sussistenza dell'autorizzazione; e
comunque non è stata fornita, in sede di merito, una
effettiva e concreta delega di funzioni idonea a scriminare.
Nella specie, la mole di terra e rocce che era stata
depositata consentiva di ritenere la realizzazione di una
vasta area di stoccaggio di rifiuti, in difetto delle
prescritte autorizzazioni, e/o omettendo di verificare
l'esistenza delle autorizzazioni come avrebbe dovuto fare
qualsivoglia operatore professionale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.03.2018 n. 13729
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività di gestione dei rifiuti -
Mancanza dell'autorizzazione, iscrizione o comunicazione -
Configurabilità del reato di cui all'art. 256, c. 1°, d.lgs.
n. 152/2006 - Raccolta e trasporto esercitate in forma
ambulante - Categorie di rifiuti autonomamente disciplinate
- Esclusione dell'operatività della deroga - Artt. 208, 209,
211, 212, 214, 215, 216 e 266 d.lgs. 152/2006.
Il reato di cui all'art. 256, comma primo, del d.lgs.
n.152/2006, sanziona le attività di gestione dei rifiuti
compiute in mancanza della prescritta autorizzazione,
iscrizione o comunicazione di cui agli artt. 208, 209, 210,
211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo d.lgs. è configurabile
nei confronti di chiunque svolga tali attività anche di
fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di
una attività primaria diversa che richieda, per il suo
esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e non sia
caratterizzata da assoluta occasionalità.
Allo stesso tempo, la fattispecie di cui all'art. 256, comma
1, d.lgs. n. 152 del 2006 (la quale sanziona appunto le
attività di gestione compiute in mancanza della prescritta
autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli artt.
208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo
d.lgs.), è configurabile anche con riferimento alle condotte
di raccolta e di trasporto esercitate in forma ambulante e
con una minima organizzazione, salva l'applicabilità della
deroga di cui al comma quinto dell'art. 266 del d.lgs. 152
del 2006, per la cui operatività occorre che il soggetto sia
in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di
attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs.
31.03.1998, n. 114, e che si tratti di rifiuti che formano
oggetto del suo commercio (Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014,
Lazzaro), ma non riconducibili, per le loro peculiarità, a
categorie autonomamente disciplinate (è stata così esclusa
l'operatività della deroga in relazione ad elettrodomestici
in disuso, parti meccaniche di autovetture, pile ed
accumulatori, trattandosi di rifiuti specificamente
regolamentati) (Cass. Sez. 3, n. 34917 del 09/07/2015,
Caccamo; Cass. Sez. 3, n. 19209 del 16/03/2017, Tutone e
altri).
RIFIUTI - Gestione di rifiuti e profilo
della assoluta occasionalità - Questione probatoria -
Accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto -
Valutazione del fatto - Giudice del merito - Natura di
illecito istantaneo - Insindacabilità in sede di legittimità
- Giurisprudenza - Artt. 183 e 256 d.L.vo n. 152/2006.
In tema di gestione di rifiuti il profilo della assoluta
occasionalità sarà oggetto precipuo della valutazione di
fatto rimessa al giudice del merito, e dunque questione
essenzialmente probatoria, e, ove congruamente motivata, non
sarà suscettibile di censura in sede di legittimità (Cass.,
Sez. 3, n. 5716 del 07/01/2016, Isoardi).
Pertanto, l'accertamento della natura di un oggetto quale
rifiuto, ai sensi dell'art. 183 d.lgs. 03.04.2006, n. 152
costituisce una quaestio facti, come tale demandata
al giudice di merito, ed insindacabile in sede di
legittimità se sorretta da motivazione esente da vizi logici
o giuridici.
Tuttavia, trattandosi di illecito istantaneo, ai fini della
configurabilità del reato di cui all'art. 256, comma 1 cit.
è sufficiente anche una sola condotta integrante una delle
ipotesi alternative tipizzate dalla fattispecie penale (Sez.
3, n. 8979 del 2/10/2014, dep. 2015, Cristinzio; Sez. 3, n.
45306 del 17/10/2013, Carlino; Sez. 3, n. 24428 del
25/05/2011, D'Andrea; Sez. 3, n. 21655 del 13/04/2010,
Hrustic), purché costituisca una "attività" e non
sia, appunto, assolutamente occasionale, laddove è la stessa
descrizione normativa ad escludere dall'area di rilevanza
penale le condotte di assoluta occasionalità (Corte di
cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.03.2018 n. 13741 - link a
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INCARICHI
PROFESSIONALI: Sugli
onorari impossibile risparmiare.
Anche se la parte chiamata in causa assume un atteggiamento «non oppositivo»
non si può risparmiare sugli onorari degli avvocati. Non basta quindi
compensare le spese di lite ma vanno liquidate per intero tutte le somme,
quindi anche il cachet dei legali.
Lo chiarisce la II Sez. civile della Corte di Cassazione, nell'ordinanza
23.03.2018 n. 7292, che ha ascoltato le
lamentele di un avvocato che, ammesso al patrocinio gratuito, ha intascato
solo il rimborso per le spese di dibattito. Questo perché, secondo il
legale, «era stato applicato il dm 140 del 2012 in luogo del dm 127 del
2004, vigente all'epoca di cessazione del mandato», si legge nel
dispositivo, «nonché l'omessa liquidazione delle spese generali e delle
spese documentate».
Nell'aprile del 2013 la Corte territoriale di Bologna ammetteva
l'opposizione al decreto di liquidazione, ma «liquidava in favore del
difensore del ricorrente le sole spese vive sostenute per l'opposizione».
Questo perché i giudici del Riesame decisero di non erogare «i compensi
spettanti al difensore, in ragione della «posizione processuale non
oppositiva assunta» dall'amministrazione interessata».
Ma gli ermellini di piazza Cavour, constatando la vicenda, hanno ritenuto
fondata l'opposizione sollevata dall'avvocato perché «l'obbligo del
pagamento è regolato dalle disposizioni del codice di procedura civile
relative alla responsabilità delle parti per le spese». Così i porporati
del Palazzaccio hanno bacchettato in sordina l'incauta decisione della Corte
bolognese che, «pur non esprimendosi in maniera esplicita, ha operato una
compensazione parziale delle spese di lite», violando l'articolo 91 e 92
del codice di procedura civile.
Quindi le alte toghe hanno sentenziato che «in tema di spese giudiziali,
le gravi ed eccezionali ragioni, che giustificano la compensazione in
assenza di reciproca soccombenza», chiosano i supremi giudici, «devono
trovare riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia
decisa da indicare esplicitamente nella motivazione della sentenza, senza
che possa darsi meramente rilievo alla contumacia della controparte»,
concludono i porporati, «permanendo in questa circostanza la sostanziale
soccombenza della parte» (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.04.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 24 del D.P.R. n. 380/2001, il
certificato di agibilità attesta la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti negli stessi
installati, valutate secondo quanto dispone la normativa
vigente.
Esso, dunque, non può essere prefigurato come un atto
meramente formale, ma rappresenta il presupposto del
regolare uso dell’edificio in coerenza alla destinazione
dello stesso.
---------------
La conformità dei manufatti alle norme urbanistico/edilizie
costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo
rilascio del certificato di agibilità, in quanto, ancor
prima della logica giuridica, è la ragionevolezza ad
escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi
destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa
urbanistico/edilizia e, come tale, in potenziale contrasto
con la tutela degli interessi collettivi alla cui protezione
quella disciplina è preordinata.
Ciò trova fonte normativa nella lettera dell’art. 25, comma
1, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001 che richiede, da parte
del richiedente, una dichiarazione di conformità dell’opera
rispetto al progetto approvato.
Infatti, se in linea generale il tacito accoglimento di una
domanda si differenzia dalla decisione esplicita solo per
l'aspetto formale, è necessario tuttavia che sussistano
tutti gli elementi soggettivi e oggettivi che rappresentano
gli elementi costitutivi della fattispecie di cui si invoca
il perfezionamento.
---------------
Giova rammentare, in via generale, che la formazione del
silenzio-assenso sulle istanze dei privati postula che
l'istanza sia assistita da tutti i presupposti di legge, non
determinandosi ope legis l'accoglimento della richiesta ogni
qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto
previsti dalla norma.
Difatti, il provvedimento di assenso tacito non può formarsi
in assenza della documentazione completa prescritta dalle
norme di settore, in quanto l'eventuale inerzia
dell'amministrazione nel provvedere sull’istanza di avvio
del procedimento non può far conseguire agli interessati un
risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in
virtù di un provvedimento espresso; al riguardo, va
precisato che il silenzio equivale al provvedimento
amministrativo ma non incide in senso abrogativo
sull'esistenza del regime autorizzatorio, che rimane
inalterato, trattandosi di una modalità semplificata di
conseguimento dell'autorizzazione.
La produzione di tale documentazione è indispensabile
proprio al fine del riscontro dei requisiti soggettivi ed
oggettivi, la cui incompletezza preclude la formazione del
titolo abilitativo in forma tacita.
Peraltro, della presenza di tutta la documentazione deve
essere data prova, alla stregua degli ordinari principi
processuali (art. 64 c.p.a.), dalla parte ricorrente, poiché
si presume che la copia sia nella sua disponibilità oppure
che sia virtualmente accessibile mediante l'impiego degli
strumenti procedimentali o processuali previsti
dall'ordinamento.
---------------
Il ricorso è infondato.
Come noto, ai sensi dell'art. 24 del D.P.R. n. 380/2001, il
certificato di agibilità attesta la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti negli stessi
installati, valutate secondo quanto dispone la normativa
vigente.
Esso, dunque, non può essere prefigurato come un atto
meramente formale, ma rappresenta il presupposto del
regolare uso dell’edificio in coerenza alla destinazione
dello stesso.
Il successivo art. 25, comma 3, prevede che "Entro trenta
giorni dalla ricezione della domanda di cui al comma 1, il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale,
previa eventuale ispezione dell'edificio, rilascia il
certificato di agibilità verificata la seguente
documentazione (...)".
Il comma 4 stabilisce ancora che "Trascorso inutilmente
il termine di cui al comma 3, l'agibilità si intende
attestata nel caso sia stato rilasciato il parere dell'A.S.L.
di cui all'articolo 5, comma 3, lettera a). In caso di
autodichiarazione, il termine per la formazione del
silenzio-assenso è di sessanta giorni”.
Secondo consolidato indirizzo della giurisprudenza
amministrativa, la conformità dei manufatti alle norme
urbanistico/edilizie costituisce il presupposto
indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di
agibilità, in quanto, ancor prima della logica giuridica, è
la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato,
per qualsiasi destinazione, un fabbricato non conforme alla
normativa urbanistico/edilizia e, come tale, in potenziale
contrasto con la tutela degli interessi collettivi alla cui
protezione quella disciplina è preordinata. Ciò trova fonte
normativa nella lettera dell’art. 25, comma 1, lett. b), del
D.P.R. n. 380/2001 che richiede, da parte del richiedente,
una dichiarazione di conformità dell’opera rispetto al
progetto approvato.
Infatti, se in linea generale il tacito accoglimento di una
domanda si differenzia dalla decisione esplicita solo per
l'aspetto formale, è necessario tuttavia che sussistano
tutti gli elementi soggettivi e oggettivi che rappresentano
gli elementi costitutivi della fattispecie di cui si invoca
il perfezionamento (cfr. TAR Napoli, n. 1767/2016 e n.
2191/2014; TAR Salerno, n. 1325/2013).
Ebbene, dalla documentazione esibita in giudizio dal Comune
di Pastorano emergono i seguenti profili ostativi al
rilascio per silentium dell’agibilità.
Sotto un primo profilo, mette conto evidenziare che, come
rilevato dalla difesa dell’ente locale (cfr. nota del Comune
di Pastorano prot. n. 7065 del 12.10.2012) il manufatto di
cui si controverte venne autorizzato con concessione
edilizia n. 31/98 dell’11.01.1999 e successiva variante in
sanatoria n. 47/2000 del 27.11.2000, titoli che riguardavano
la realizzazione di un capannone industriale da adibire alla
lavorazione del ferro con annessa palazzina destinata ad
uffici e alloggio custode.
Viceversa, la domanda di agibilità dell’08.06.2010 è stata
avanzata per una difforme destinazione, segnatamente quella
di recupero e messa in riserva di rifiuti speciali non
pericolosi che, ovviamente, presenta differenti esigenze
igienico-edilizie derivanti dal diverso uso dei locali.
Ciò collide con l’art. 25, comma 1 lett. b), del Testo Unico
dell’Edilizia che richiede la presentazione di una
dichiarazione sottoscritta dallo stesso richiedente “di
conformità dell'opera rispetto al progetto approvato”.
In secondo luogo, l’intervento contrasta con la destinazione
urbanistica visto che, sulle aree de quibus
(ricadenti in zona industriale) con delibere del 10.01.2008,
27.05.2008 e 05.08.2008, il Consiglio Comunale di Pastorano
ha inibito lo svolgimento di attività di stoccaggio e
trattamento di rifiuti pericolosi e, altresì, di quelli non
pericolosi che presentano potenziali nocività per la
salubrità dell’ambiente e per la salute dei cittadini.
Sussiste poi una ulteriore ragione a sostegno della
legittimità dell’azione amministrativa, costituita dalla
carenza dei presupposti di legge, con specifico riferimento
alla omessa allegazione della documentazione prescritta
dall’art. 25 del D.P.R. n. 380/2001.
Al riguardo, giova infatti rammentare, in via generale, che
la formazione del silenzio-assenso sulle istanze dei privati
postula che l'istanza sia assistita da tutti i presupposti
di legge, non determinandosi ope legis l'accoglimento
della richiesta ogni qualvolta manchino i presupposti di
fatto e di diritto previsti dalla norma. Difatti, il
provvedimento di assenso tacito non può formarsi in assenza
della documentazione completa prescritta dalle norme di
settore, in quanto l'eventuale inerzia dell'amministrazione
nel provvedere sull’istanza di avvio del procedimento non
può far conseguire agli interessati un risultato che gli
stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di un
provvedimento espresso; al riguardo, va precisato che il
silenzio equivale al provvedimento amministrativo ma non
incide in senso abrogativo sull'esistenza del regime
autorizzatorio, che rimane inalterato, trattandosi di una
modalità semplificata di conseguimento dell'autorizzazione.
La produzione di tale documentazione è indispensabile
proprio al fine del riscontro dei requisiti soggettivi ed
oggettivi, la cui incompletezza preclude la formazione del
titolo abilitativo in forma tacita (TAR Campania, Napoli,
Sez. IV, n. 1100/2016).
Peraltro, della presenza di tutta la documentazione deve
essere data prova, alla stregua degli ordinari principi
processuali (art. 64 c.p.a.), dalla parte ricorrente, poiché
si presume che la copia sia nella sua disponibilità oppure
che sia virtualmente accessibile mediante l'impiego degli
strumenti procedimentali o processuali previsti
dall'ordinamento (cfr. TAR Lazio, Roma, n. 9267/2016).
Applicando tali coordinate ermeneutiche alla fattispecie in
esame deve allora ritenersi che non sussistano in atti gli
elementi sufficienti per la pronuncia, allo stato degli atti
di causa, di una declaratoria di formazione del
silenzio-assenso.
In particolare, dalla nota del Comune di Pastorano prot. n.
7065 del 12.10.2012 si evince che, contrariamente a quanto
riportato nell’atto di diffida della società istante, non
risultano acquisiti al protocollo dell’amministrazione
locale l’autocertificazione dell’agibilità a firma
dell’arch. An.Ce. -asseritamente prodotta in data
20.10.2010- e la relativa documentazione. Benché richiesti
dall’ente locale, tali atti non sono stati esibiti dalla
società ricorrente, con la conseguenza che l’incompletezza
documentale impedisce la formazione del titolo per
silentium.
Si aggiunga infine che, come sottolineato dalla difesa
dell’amministrazione comunale, non vi è neppure prova del
rilascio del parere dell’A.S.L., atto richiesto
espressamente dall’art. 25, comma 4, del D.P.R. n. 380/2001
per la formazione del provvedimento tacito di assenso (“Trascorso
inutilmente il termine di cui al comma 3, l'agibilità si
intende attestata nel caso sia stato rilasciato il parere
dell'A.S.L. di cui all'all'articolo 5, comma 3, lettera ‘a’.
In caso di autodichiarazione, il termine per la formazione
del silenzio-assenso è di sessanta giorni”).
Le considerazioni illustrate ostano alla piena operatività
del silenzio-assenso sulla richiesta di agibilità avanzata
dalla società ricorrente, con la conseguenza che gli atti
impugnati si appalesano legittimamente adottati dalle
amministrazioni intimate.
Per l’effetto, il ricorso ed i motivi aggiunti vanno
respinti con conseguente condanna della società ricorrente
al pagamento delle spese processuali in favore del Comune di
Pastorano (TAR Calabria-Napoli, Sez. I,
sentenza 21.03.2018 n. 1773 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La società
concessionaria della distribuzione dell’energia elettrica
non sconta il pagamento del contributo di costruzione.
L’art. 17, comma 3, lett. c), del d.p.r.
n. 380/2001 recita che il contributo di costruzione non è
dovuto: “c) per gli impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
Secondo pacifica giurisprudenza, dal punto di vista
soggettivo, può beneficiare dell’esenzione anche un
soggetto privato.
Invero, "Lo sgravio dal contributo di costruzione per le
opere pubbliche o di interesse generale, ex art. 17, comma
3, lett. c), D.P.R. n. 380/2001, esige il concorso di due
presupposti: uno oggettivo, l'ascrivibilità del
manufatto oggetto di concessione edilizia alla categoria
delle opere pubbliche o di interesse generale, e l'altro
soggettivo, l'esecuzione delle opere da parte di enti
istituzionalmente competenti, vale a dire da parte di
soggetti cui sia demandata in via istituzionale la
realizzazione di opere di interesse generale, ovvero da
parte di privati concessionari dell'ente pubblico, purché le
opere siano inerenti all'esercizio del rapporto concessorio.”
---------------
... per l'annullamento del permesso di costruire n. 32/2012
del 01.10.2012, notificato ad Enel Distribuzione S.p.A. il
04.10.2012, rilasciato per i lavori di realizzazione di un
fabbricato MT e lavori vari in Corso Sempione n. 50 nel
territorio comunale, nella parte in cui ha "dato atto che
l'opera di cui al presente permesso di costruire non ricade
nei casi di esonero dal contributo di costruzione ai sensi
dell'art. 17 del D.P.R. n. 380/2001" e disposto per il
suo rilascio a carico della medesima società ricorrente la
corresponsione della somma di Euro 2.558,88 a titolo di
contributo relativo agli oneri di urbanizzazione di cui
all'art. 16, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001;
- nonché per la condanna della medesima amministrazione
comunale alla restituzione della somma di Euro 2.258,88 già
versata da Enel Distribuzione S.p.A. a titolo di pagamento
del contributo relativo agli oneri di urbanizzazione.
...
La società ricorrente ha impugnato il permesso di costruire
n. 32/2012 limitatamente alla parte in cui ha affermato che
l’intervento assentito (realizzazione di una nuova sezione
della cabina MT di una cabina primaria di distribuzione
dell’energia elettrica) non ricade nell’esonero del
contributo previsto dall’art. 17 del d.p.r. n. 380/2001.
Deduce di essere concessionaria del servizio di
distribuzione dell’energia elettrica in forza del DM
13.10.2003 e, in tale ruolo, di svolgere attività di
manutenzione degli impianti elettrici ad Alta, Media e Bassa
tensione; l’intervento autorizzato è stato posto in essere
per far fronte all’obsolescenza di talune sezioni MT a
giorno della cabina primaria che, in caso di guasto,
comporterebbero il rischio di un black-out elettrico;
l’intervento è anche finalizzato a migliorare la sicurezza
degli operatori.
Il comune di Santhià ha quantificato gli oneri di
urbanizzazione in € 2.258,88, che la ricorrente ha versato
per la necessità di eseguire i lavori, contestando tuttavia
che la fattispecie sarebbe esente dal contributo.
La ricorrente lamenta quindi: la violazione e falsa
applicazione dell’art. 16, co. 2, del d.p.r. n. 380/2001 e
dell’art. 8, co. 2, della l.r. Piemonte n. 23/1984; la falsa
applicazione dell’art. 17 del d.p.r. n. 380/2001, il
travisamento e la carenza di presupposti di fatto e diritto.
La fattispecie presenterebbe i requisiti soggettivi ed
oggettivi per l’esonero dal contributo.
Ha pertanto chiesto annullarsi il provvedimento impugnato in
parte qua e condannarsi l’amministrazione resistente alla
rifusione della somma versata, pari ad € 2.258,88, oltre
interessi e rivalutazione.
...
L’art. 17, comma 3, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001 recita
che il contributo di costruzione non è dovuto: “c) per
gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di
interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente
competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite
anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Secondo pacifica giurisprudenza, dal punto di vista
soggettivo, può beneficiare dell’esenzione anche un
soggetto privato; da ultimo si veda, ex pluribus,
Cons. St. sez. IV. n. 5356/2017, secondo cui: “Lo sgravio
dal contributo di costruzione per le opere pubbliche o di
interesse generale, ex art. 17, comma 3, lett. c), D.P.R. n.
380/2001, esige il concorso di due presupposti: uno
oggettivo, l'ascrivibilità del manufatto oggetto di
concessione edilizia alla categoria delle opere pubbliche o
di interesse generale, e l'altro soggettivo,
l'esecuzione delle opere da parte di enti istituzionalmente
competenti, vale a dire da parte di soggetti cui sia
demandata in via istituzionale la realizzazione di opere di
interesse generale, ovvero da parte di privati concessionari
dell'ente pubblico, purché le opere siano inerenti
all'esercizio del rapporto concessorio.”
Nel caso di specie è indubbio che la società sia
concessionaria della distribuzione dell’energia elettrica e
che la manutenzione delle cabine di distribuzione
dell’energia con interventi che ne prevengano l’obsolescenza
e garantiscano la sicurezza sia funzionale al corretto
esercizio del rapporto concessorio di distribuzione
dell’energia.
Ritiene quindi il collegio che ricorrano i presupposti
soggettivi ed oggettivi per l’esenzione dal
versamento del contributo.
Il ricorso deve dunque essere accolto con annullamento in
parte qua del provvedimento impugnato e condanna di parte
resistente a rifondere a parte ricorrente quanto
indebitamente versato, oltre interessi dal giorno del
versamento (19.09.2012, cfr. doc. 9 di parte ricorrente) al
saldo; non sono invece dovute somme ulteriori a titolo di
rivalutazione, non avendo la ricorrente allegato né
dimostrato alcun maggior danno subito per l’indebito esborso
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 21.03.2018 n. 346 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissioni e mezzi di
prova esperibili - Rumori fastidiosi udibili nell'immobile
sottostante anche in orario notturno - Superamento della
normale tollerabilità ex art. 844 c.c. - Poteri del giudice
di merito - Accorgimenti idonei a limitare le immissioni -
Rivalutazione delle prove in Cassazione - Esclusione.
In tema di immissioni, i mezzi di prova esperibili per
accertare il livello di normale tollerabilità ex art. 844
c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura
tecnica che, di regola, vengono compiuti mediante apposita
consulenza d'ufficio con funzione "percipiente", in
quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per
mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone,
l'intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas,
nonché il loro grado di sopportabilità per le persone,
potendosi in tale materia tuttavia ricorrere alla prova
testimoniale quando essa verta su fatti caduti sotto la
diretta percezione sensoriale dei deponenti e non si riveli
espressione di giudizi valutativi (Cass. Sez. 2, 20/01/2017,
n. 1606).
Spetta, in ogni modo, al giudice di merito accertare in
concreto il superamento della normale tollerabilità e
individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le
immissioni nell'ambito della stessa, supponendo tale
accertamento un'indagine di fatto, sicché nel giudizio di
legittimità non può chiedersi alla Corte di cassazione di
prendere direttamente in esame l'intensità, la durata, o la
frequenza dei suoni o delle emissioni per sollecitarne una
diversa valutazione di sopportabilità (Cass. Sez. 2,
05/08/2011, n. 17051; Cass. Sez. 2, 12/02/2010, n. 3438;
Cass. Sez. 2, 25/08/2005, n. 17281) (Corte di Cassazione,
Sez. VI civile,
ordinanza 20.03.2018 n. 6867 - link a
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INCARICHI
PROFESSIONALI: No
a scorciatoie sulla parcella. Il legale non può trattenere soldi da debitori
del cliente.
L'avvocato non può trattenere soldi dai debitori del suo cliente per il suo
onorario.
Lo conferma la Corte di Cassazione - Sez. II penale, nella
sentenza
12.03.2018 n. 10977, sul caso di un avvocato condannato per appropriazione
indebita nel 2015 e pena confermata, nel 2017, dalla Corte territoriale di
Bologna.
Essendo il patrocinatore legale di una società ha provveduto a riscuotere
dall'azienda debitrice circa 10 mila euro, senza più restituirli. L'avvocato
ha impugnato la sentenza della Corte d'appello bolognese «per essere
insussistente la dimostrazione della presenza dell'elemento soggettivo del
reato e dell'animus possidenti», si legge nel dispositivo, «e infatti, nella
fattispecie non vi è stata, prima della proposizione della querela, alcuna
richiesta di restituzione delle somme incassate. L'imputato era
semplicemente in attesa delle istruzioni degli amministratori della propria
cliente», spiega il legale, «tra i quali, a seguito degli avvicendamenti che
si sono verificati, sono evidentemente insorte incomprensioni al riguardo».
Infine il legale portava, a difesa della sua condotta, l'autorizzazione
verbale a trattenere quella somma dall'amministratore del suo cliente, in
attesa che i vertici societari verificassero i conti. Anche se questa linea
difensiva è stata smentita dalle alte sfere aziendali. Inoltre, si legge
nella sentenza, «il pagamento era stato richiesto con lettera nella quale si
invitava al pagamento «direttamente allo scrivente Studio» indicando allo
scopo i dati dell'Iban, che trattavasi di procedura del tutto anomala
rispetto alla prassi corrente per casi analoghi».
E i porporati di piazza Cavour hanno respinto il ricorso «inammissibile,
in quanto basato su motivi manifestamente infondati o comunque non
consentiti. Né dubbi possono giustificarsi in relazione alla eventuale
presenza di crediti professionali del difensore. Infatti, quand'anche
sussistessero eventuali crediti professionali, nel reato di appropriazione
indebita non opera il principio della compensazione con credito
preesistente, allorché si tratti di crediti non certi, né liquidi ed
esigibili. E i crediti, di cui nella fattispecie si è vagamente parlato,
erano tutti incerti, illiquidi e contestati» (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.04.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Se
la PA blocca l’impresa danni da liquidare in base ai mancati utili.
La pubblica amministrazione che ostacola l’attività di un imprenditore paga
i danni, quantificati in relazione agli utili che risultano dai bilanci
depositati.
Questo è l’innovativo principio posto dal Consiglio di Stato nella
sentenza
06.03.2018 n. 1457.
La novità consiste nel collegamento tra l’ingiusto ritardo e l’attività
economica danneggiata: nel caso deciso si discuteva di due anni di attività
turistico balneare, paralizzata dal ministero per i Beni e le attività
culturali.
La vicenda
In un Comune alle porte del Salento, un imprenditore aveva investito risorse
su circa 40mila metri quadrati, ristrutturando alcuni trulli e collocando
opere accessorie ad un’iniziativa balneare. Per due volte la Soprintendenza
per i beni archeologici aveva fermato l’iniziativa, subendo peraltro due
annullamenti dal locale Tar. Riattivata l’iniziativa, l’imprenditore ha
chiesto al ministero un congruo risarcimento, sottolineando l’accanimento
dell’amministrazione, nonché la sproporzione tra la paralisi imposta ed i
presunti valori archeologici che si intendevano tutelare.
La decisione
La novità della pronuncia n. 1457/2018 consiste nel ragionamento utilizzato
per quantificare il risarcimento: senza ricorrere a consulenze esterne, i
giudici hanno accordato fiducia ai bilanci dell’impresa, quantificando gli
utili perduti. Applicando princìpi posti dalla Corte di cassazione (sentenza
500/1999) e le norme del processo amministrativo, il risarcimento mitiga
l’impatto dell’amministrazione sui cittadini. Utilizzando per la prima
volta, a quanto è dato leggere nelle sentenze amministrative, il principio
di accountability , cioè la resa del conto delle proprie azioni.
Resa del conto significa anche quantificazione dei danni, che il Consiglio
di Stato ha effettuato utilizzando strumenti economici, senza ricorrere a
parametri di equità o riduzione forfettaria in nome di un «interesse
pubblico asseritamente prevalente». Superando quindi precedenti orientamenti
(Consiglio di Stato 1271/2011) che avevano riconosciuto importi forfettari
(15mila euro per un biennio di ritardo in edilizia, indennizzando sette
punti di invalidità e la perdita dei capelli), la sentenza del 2018 valuta
il mancato funzionamento dell’impianto produttivo, l’ostacolo all’attività
di impresa e la carenza di guadagni.
I giudici hanno quindi indagato su ciò che sarebbe potuto avvenire senza gli
ostacoli del ministero, ipotizzando ciò che sarebbe stato probabile che
avvenisse («più probabile che non»): ne è scaturito il calcolo del
tempo imprenditoriale perso (due anni), convertito poi in utili non
percepiti. All’impresa danneggiata spetteranno due anni di utili (detratte
le imposte), con riferimento al periodo in cui la struttura ha operato a
regime
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.03.2018).
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MASSIMA
13 – Come si è detto, sotto il profilo del negato riconoscimento del
danno da mancato guadagno commisurato all’impossibilità di svolgere la
propria attività imprenditoriale l’appello merita di essere accolto, con le
precisazioni che seguono.
Al riguardo, a supporto della domanda, i ricorrenti hanno depositato in
giudizio perizia recante un’analitica quantificazione del presumibile utile
annuale derivante dall’esercizio dell’attività di stabilimento balneare, in
tale stima il lucro cessante veniva quantificato in circa € 400.000,00 per
ogni anno di piena attività dello stabilimento balneare.
13.1 - Il Giudice di prime cure ha ritenuto che tale voce di danno non
sarebbe sufficientemente provata; ciò perché il “potenziale pieno
funzionamento della struttura risulta del tutto indimostrato”,
considerato che “l’area in questione si trova tuttora allo stato incolto
... risultando realizzata solo la ristrutturazione del trullo”. In altre
parole, ad avviso del Giudice, la mancata realizzazione della iniziativa
imprenditoriale “nel periodo successivo all’annullamento degli atti
impeditivi pone fondati dubbi sull’effettività dell’impedimento costituito
da questi ultimi”.
Come anticipato la valutazione del primo giudice non risulta condivisibile.
13.2 – A tal fine
è utile ricordare il criterio che deve governare la materia in questione
desumibile dalla norma di cui all’art. 1223 c.c., in base al quale è
risarcibile il danno “conseguenza immediata e diretta” dell’illecito.
Secondo l’orientamento dominante tale formula sarebbe espressione del
criterio della c.d. causalità adeguata, in base al quale devono ritenersi
risarcibili anche le conseguenze indirette e mediate dell’illecito, purché
normali, prevedibili e non anomale. In questo ambito, la giurisprudenza
civile
(Cass. 26042/2010)
ha chiarito che la regola dell’art. 1223 cod. civ. “riguarda la
determinazione dell’intero danno cagionato oggetto dell’obbligazione
risarcitoria, attribuendosi rilievo, all’interno delle serie causali così
individuate, a quelle che, nel momento in cui si produce l’evento, non
appaiono del tutto inverosimili, come richiesto dalla cosiddetta teoria
della causalità adeguata o della regolarità causale, fondata su un giudizio
formulato in termini ipotetici”.
Più in generale,
l’orientamento prevalente della Corte di Cassazione impone di considerare
danni-conseguenza risarcibili quelli riconducibili al fatto illecito secondo
principi di regolarità causale che fanno applicazione del criterio dell’id
quod plerumque accidit.
In questa ottica,
la giurisprudenza ritiene risarcibile anche il danno mediato o indiretto,
purché sia prodotto da una sequela normale di eventi che traggono origine
dal fatto originario secondo la regola probatoria del “più probabile che
non”
(Cass. civ., sez. III, n. 29.02.2016, 3893; id., sez. II, 24.04.2012, n.
6474; id., sez. III, 04.07.2006, n. 15274; id., sez. III, 19.08.2003, n.
12124; Cass. civ., sez. III, 17.09.2013, n. 21255). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Tutela dei beni
paesaggistici - Esecuzione di interventi (anche non edilizi)
potenzialmente idonei ad arrecare nocumento alle zone
vincolate - Assenza autorizzazione - Alterazione,
danneggiamento o deturpamento del paesaggio - Reato formale
e di pericolo - Art. 181 d.lgs. n. 42/2004.
In tema di tutela dei beni paesaggistici, il reato formale e
di pericolo previsto dall'art. 181 del d.lgs. 22.01.2004, n.
42 si perfeziona mediante l'esecuzione di interventi (anche
non edilizi) potenzialmente idonei ad arrecare nocumento
alle zone vincolate in assenza della preventiva
autorizzazione e senza che sia necessario l'accertamento
dell'intervenuta alterazione, danneggiamento o deturpamento
del paesaggio, in quanto per la sua configurabilità, è
sufficiente -come accertato nella specie- che l'agente
faccia del bene protetto dal vincolo un uso diverso da
quello a cui è destinato, essendo il vincolo imposto
prodromico al governo del territorio stesso (Sez. 3, n.
34764 del 21/06/2011; Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013; Sez.
3, n. 11048 del 18/02/2015) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 05.03.2018 n. 9870 - link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Gestione non autorizzata - Trasporto e
smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi - Rifiuti da
demolizioni/lavori edili senza la prescritta autorizzazione
- Responsabilità del rappresentante legale per il trasporto
illecito effettuato dal dipendente - Albo Nazionale Gestori
Ambientali - Iscrizione dei mezzi di trasporto - Necessità -
Artt. 192 e 256 d.lgs. n.152/2006 - Giurisprudenza.
Si configurano i reati, ex artt. 192 e 256 d.lgs.
n.152/2006, per il trasporto e smaltimento di rifiuti
speciali non pericolosi senza la prescritta autorizzazione.
Nella specie, si trasportava a mezzo autocarro, non
ricompreso tra i mezzi di cui all'iscrizione Albo Nazionale
Gestori Ambientali, rifiuti speciali provenienti da attività
edile (circa otto/nove metri cubi, costituiti da parte di
tegole, mattoni, cemento) depositandoli come sottofondo di
una strada di cantiere (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.02.2018 n. 9056
- link a www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Con la notifica a mano scatta il termine breve.
La notifica della sentenza all'ente locale o all'ufficio fiscale può essere
effettuata con consegna a mano all'impiegato addetto, che ne rilascia
ricevuta, facendo decorrere il termine breve per l'impugnazione.
È quanto si legge nell'ordinanza 28.02.2018 n. 4616
della Corte di Cassazione, Sez. V civile.
Il collegio di legittimità era chiamato a pronunciarsi in merito a un
ricorso proposto da un comune della provincia di Reggio Emilia, contro una
sentenza della Ctr di Bologna, sfavorevole alla parte pubblica, avente a
oggetto la tassazione di alcuni terreni, ritenti non edificabili dai giudici
regionali. Costituendosi nel giudizio, il contribuente muoveva un'eccezione
preliminare di tardività del ricorso per cassazione, proposto oltre il
termine breve dalla notifica della sentenza. Il ricorso, infatti, era stato
proposto il 25.11.2011, dunque oltre i 60 giorni dalla consegna della
pronuncia, eseguita in data 03.12.2010.
Di contro, l'ente comunale sosteneva che la sentenza in questione era stata
consegnata a mano presso l'ufficio tributi e tale modalità non era idonea a
far decorrere il termine breve. All'uopo, richiamava il pensiero della
Suprema corte secondo cui la conoscenza della sentenza da parte del
soccombente non determina di per sé la decorrenza del termine breve, essendo
necessario che la stessa avvenga secondo le modalità tipiche. Per questa
ragione, la proposizione del ricorso doveva ritenersi tempestiva, avendo
riguardano al termine lungo d'impugnazione.
La Cassazione ha ritenuto fondata l'eccezione di inammissibilità,
compensando le spese di giudizio in ragione della novità dell'orientamento
seguito, formatosi in epoca successiva alla proposizione del ricorso.
Piazza Cavour ha ricordato la modifica all'articolo 38, comma 2, del dlgs n.
546/1992, apportata dal dl 40/2010, secondo cui le notifiche delle sentenze
tributarie si eseguono ai sensi della disciplina speciale contenuta
nell'articolo 16 del citato dlgs n. 546. Tale norma, al comma 3, prevede che
le notificazioni all'ufficio o all'ente locale possano essere effettuate
«mediante consegna dell'atto all'impiegato addetto che ne rilascia ricevuta
sulla copia».
Questa modalità di notificazione, peculiarità del procedimento
tributario, è certamente applicabile anche in relazione alla notifica della
sentenza, risultando quindi idonea a far decorrere il termine breve per
l'impugnazione.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
F.B. srl impugnava gli avvisi di accertamento con i quali il comune di
Gattatico procedeva al recupero dell'Ici. La Ctr per l'Emilia Romagna,
confermando la sentenza di primo grado, recepiva la tesi del contribuente,
secondo cui i terreni di sua proprietà non erano assoggettabili a Ici in
quanto non edificabili; il comune di Gattatico propone ricorso per
Cassazione ( ).
La preliminare eccezione di tardività del ricorso per
cassazione è fondata. Sostiene la controricorrente che è decorso il termine
breve per impugnare la sentenza della Ctr, assumendo l'esistenza di una
valida notifica della sentenza di secondo grado, secondo i modi previsti dal
novellato art. 38, dlgs n. 542 del 1992. Nel caso di specie la parte
controricorrente ha documentato di avere proceduto alla notifica mediante
consegna diretta della sentenza della Ctr (depositata il 13/10/2010) al
comune di Gattatico in data 03/12/2010, sicché il termine di 60 giorni per
proporre ricorso in cassazione scadeva in data 03/02/2011, mentre il ricorso
risulta notificato solo il 25/11/2011.
A fronte di tale deduzione, il comune
ricorrente ha eccepito che la consegna a mani della sentenza non integra una
forma di notifica idonea a far decorrere il termine breve per l'impugnazione
( ). Pur condividendosi tale orientamento, deve rilevarsi la non
applicabilità nell'ambito del processo tributario, stante la specialità
della disciplina prevista per tale giudizio; l'art. 38, comma 2, del dlgs
546/1992, è stato modificato dall'art.3 dl n. 40/2010 (conv. legge n. 73/2010)
( ).
La modifica normativa appena ricordata ha consentito alle parti private
di procedere alla notificazione della sentenza con consegna diretta ai sensi
del dlgs n. 546 del 1992, art. 16, comma 3, in base al quale le
notificazioni all'ufficio del Ministero delle finanze e all'ente locale,
possono essere effettuate «mediante consegna dell'atto all'impiegato addetto
che ne rilascia ricevuta sulla copia»; la peculiarità del regime della
notifica valida in ambito tributario è sicuramente applicabile anche in
relazione alla notifica della sentenza, come implicitamente riconosciuto da
questa Corte, allorché si è affermato il principio secondo cui in tema di
contenzioso tributario ( ) opera solo a partire dall'entrata in vigore della
disposizione novellatrice, sicché, per l'epoca precedente, la notifica della
sentenza deve effettuarsi ai sensi degli artt. 137 e ss. c.p.c. e non già ex
art. 16 del dlgs n. 546 del 1992. ( ) sulla base di tali principi, il
ricorso per cassazione proposto dal comune di Gattatico va dichiarato
inammissibile, stante l'intervenuto decorso del termine per impugnare ( ) (articolo
ItaliaOggi Sette del 03.04.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’abrogato art. 3, l. 10/1977 individuava quale
parametro l'incidenza delle spese di urbanizzazione. La
giurisprudenza di questo Consiglio ha da sempre ritenuto che
le modalità concrete di computo del detto contributo in
relazione alle distinte tipologie di intervento edilizio
fossero rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione,
deputata a definire il rapporto tra l’intervento edilizio e
l’incidenza delle spese di urbanizzazione.
Così, ad esempio, si è affermato che "Il contributo di
urbanizzazione e costruzione, richiesto dall'art. 3, l.
28.01.1977, n. 10 per il rilascio della concessione
edilizia, trova la sua giustificazione nel concreto
esercizio della facoltà di edificare, ed è commisurato
all'incidenza delle relative spese.
Peraltro nessuna disposizione stabilisce che l'anzidetto
contributo in caso di ristrutturazione del patrimonio
edilizio non possa essere maggiore a quello dovuto per la
realizzazione di nuove costruzioni.
Conseguentemente deve ritenersi legittima la deliberazione
regionale con la quale l'intervento di ristrutturazione, che
comporti un aumento delle abitazioni, sia assoggettato ad un
maggior pagamento a titolo di oneri di urbanizzazione
rispetto ad una nuova edificazione, tenuto conto che il
costo delle opere di urbanizzazione può essere maggiore nel
primo caso".
---------------
Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo
di diritto pubblico posto a carico del concessionario a
titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che
la nuova costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo
in relazione alla zona interessata alla trasformazione
urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che
il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e
dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la
realizzazione delle opere stesse.
Gli oneri di urbanizzazione sono dovuti sia per le nuove
costruzioni sia nei casi di ristrutturazione e/o cambio di
destinazione d'uso. Tanto in forza del principio contenuto
nel detto art. 16, secondo il quale ogni qual volta
l'Amministrazione rilascia un titolo edilizio in relazione
ad un intervento, sia pure in variante, allo scopo di
realizzare un mutamento della destinazione d'uso anche
soltanto di tipo funzionale, il richiedente titolo è
comunque tenuto a corrispondere gli oneri d'urbanizzazione
ed il costo di costruzione connessi con l'intervento.
Non è consentito scorporare il criterio di quantificazione
degli oneri di urbanizzazione dalla effettiva zonizzazione
prevista dallo strumento urbanistico generale. Nel senso
che:
a) non può considerarsi legittima una quantificazione degli oneri
di urbanizzazione che applichi le tariffe di una tipologia
zona ad un intervento edilizio da realizzarsi su di una zona
connotata da differente vocazione;
b) solo in via sussidiaria, e comunque per il perseguimento di
preminenti interessi pubblici, l’ente locale può valorizzare
ulteriori parametri per la determinazione degli oneri di
urbanizzazione, fermo restando il loro aggancio con il
carico urbanistico individuabile per la relativa zona.
---------------
L’elemento del “carico urbanistico”, introdotto dall’art. 3
della legge n. 10/1977, deve costituire il fondamentale
criterio di riferimento per la determinazione del contributo
di urbanizzazione, ma ciò non toglie che il Comune,
nell’interesse pubblico, ben possa valorizzare a tali fini
ulteriori parametri senza però poter permettere che
situazioni di vantaggio di parte dei consociati vengano
ingiustificatamente a gravare su altra parte della
collettività locale.
--------------
Se è vero che non può predicarsi una stretta inerenza tra il
costo degli oneri di urbanizzazione e le opere da realizzare
nella specifica area in questione è anche vero che la
trasformazione edilizia in una zona di completamento o nuovo
impianto va accompagnata fisiologicamente dalla
realizzazione di un maggior numero di opere di
urbanizzazione anche se le stesse possono non ricadere per
ragioni programmatiche all’interno della stessa zona,
rispetto all’intervento edilizio realizzato all’interno di
un’area interamente urbanizzata quale il centro storico.
---------------
6. L’appello è infondato e non può essere accolto.
La disamina delle censure sottoposte al Collegio deve essere
preceduta dalla ricostruzione della disciplina di
riferimento e dalla individuazione del decisum
contenuto nella sentenza n. 6834/2007, la cui violazione
viene invocata con l’odierno gravame.
6.1. Quanto alla disciplina relativa alle modalità di
calcolo degli oneri di urbanizzazione va rammentato che
l’abrogato art. 3, l. 10/1977 individuava quale parametro
l'incidenza delle spese di urbanizzazione. La giurisprudenza
di questo Consiglio ha da sempre ritenuto che le modalità
concrete di computo del detto contributo in relazione alle
distinte tipologie di intervento edilizio fossero rimesse
alla discrezionalità dell’amministrazione, deputata a
definire il rapporto tra l’intervento edilizio e l’incidenza
delle spese di urbanizzazione.
Così, ad esempio, si è affermato che: “Il contributo di
urbanizzazione e costruzione, richiesto dall'art. 3, l.
28.01.1977, n. 10 per il rilascio della concessione
edilizia, trova la sua giustificazione nel concreto
esercizio della facoltà di edificare, ed è commisurato
all'incidenza delle relative spese; peraltro nessuna
disposizione stabilisce che l'anzidetto contributo in caso
di ristrutturazione del patrimonio edilizio non possa essere
maggiore a quello dovuto per la realizzazione di nuove
costruzioni; conseguentemente deve ritenersi legittima la
deliberazione regionale con la quale l'intervento di
ristrutturazione, che comporti un aumento delle abitazioni,
sia assoggettato ad un maggior pagamento a titolo di oneri
di urbanizzazione rispetto ad una nuova edificazione, tenuto
conto che il costo delle opere di urbanizzazione può essere
maggiore nel primo caso” (Cons. St., Sez. V, 27.09.1990,
n. 692).
Il vigente art. 16, comma 4, d.P.R. n. 380/2001, invece,
detta una disciplina secondo la quale: “L'incidenza degli
oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita
con deliberazione del consiglio comunale in base alle
tabelle parametriche che la regione definisce per classi di
comuni in relazione:
a) all'ampiezza ed all'andamento demografico dei comuni;
b) alle caratteristiche geografiche dei comuni;
c) alle destinazioni di zona previste negli strumenti urbanistici
vigenti;
d) ai limiti e rapporti minimi inderogabili fissati in applicazione
dall'articolo 41-quinquies, penultimo e ultimo comma, della
legge 17.08.1942, n. 1150, e successive modifiche e
integrazioni, nonché delle leggi regionali;
d-bis) alla differenziazione tra gli interventi al fine di
incentivare, in modo particolare nelle aree a maggiore
densità del costruito, quelli di ristrutturazione edilizia
di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), anziché quelli
di nuova costruzione;
d-ter) alla valutazione del maggior valore generato da interventi
su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con
cambio di destinazione d'uso. Tale maggior valore, calcolato
dall'amministrazione comunale, è suddiviso in misura non
inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata
ed è erogato da quest'ultima al comune stesso sotto forma di
contributo straordinario, che attesta l'interesse pubblico,
in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di
costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da
realizzare nel contesto in cui ricade l'intervento, cessione
di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica
utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche .
4-bis. Con riferimento a quanto previsto dal secondo periodo
della lettera d-ter) del comma 4, sono fatte salve le
diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli
strumenti urbanistici generali comunali”.
Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo
di diritto pubblico posto a carico del concessionario a
titolo di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che
la nuova costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo
in relazione alla zona interessata alla trasformazione
urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che
il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e
dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la
realizzazione delle opere stesse (Cons. St., Sez. IV,
16.03.2017, n. 2881).
Secondo l’interpretazione fatta propria da questo Consiglio
(ex plurimis Cons. St., Sez. IV, 28.06.2016, n.
2915), gli oneri di urbanizzazione sono dovuti sia per le
nuove costruzioni sia nei casi di ristrutturazione e/o
cambio di destinazione d'uso. Tanto in forza del principio
contenuto nel detto art. 16, secondo il quale ogni qual
volta l'Amministrazione rilascia un titolo edilizio in
relazione ad un intervento, sia pure in variante, allo scopo
di realizzare un mutamento della destinazione d'uso anche
soltanto di tipo funzionale, il richiedente titolo è
comunque tenuto a corrispondere gli oneri d'urbanizzazione
ed il costo di costruzione connessi con l'intervento (Cons.
St., Sez. IV, 15.09.2015, n. 4296).
Sempre la giurisprudenza di questo Consiglio ha stabilito
che non è consentito scorporare il criterio di
quantificazione degli oneri di urbanizzazione dalla
effettiva zonizzazione prevista dallo strumento urbanistico
generale. Nel senso che:
a) non può considerarsi legittima una quantificazione degli oneri
di urbanizzazione che applichi le tariffe di una tipologia
zona ad un intervento edilizio da realizzarsi su di una zona
connotata da differente vocazione;
b) solo in via sussidiaria, e comunque per il perseguimento di
preminenti interessi pubblici, l’ente locale può valorizzare
ulteriori parametri per la determinazione degli oneri di
urbanizzazione, fermo restando il loro aggancio con il
carico urbanistico individuabile per la relativa zona.
6.2. Tanto premesso sulla disciplina di riferimento occorre
individuare l’esatta delimitazione della regula juris
contenuta nella sentenza n. 6834/2007 di questo Consiglio.
La citata pronuncia ha accolto il primo motivo di appello
avente ad oggetto: “violazione dei principi generali
sulla determinazione degli oneri di urbanizzazione e, in
particolare, dell’art. 3 della legge 10/1977. Eccesso di
potere per irragionevolezza e per manifesta ingiustizia”.
Secondo il Consiglio l’elemento del “carico urbanistico”,
introdotto dall’art. 3 della legge n. 10/1977, deve costituire
il fondamentale criterio di riferimento per la
determinazione del contributo di urbanizzazione, ma ciò non
toglie che il Comune, nell’interesse pubblico, ben possa
valorizzare a tali fini ulteriori parametri senza però poter
permettere che situazioni di vantaggio di parte dei
consociati vengano ingiustificatamente a gravare su altra
parte della collettività locale.
Nella fattispecie la pronuncia n. 6834/2007 ha ritenuto
legittimo l’interesse pubblico, dato dalla ritenuta esigenza
di favorire interventi di recupero del centro storico, posto
a base della deliberazione del Consiglio comunale n. 119 del
23.12.1999 nella parte concernente la determinazione dei
detti oneri per il centro storico e per le zone B e C. Ma,
al contempo, ha stigmatizzato il meccanismo di utilizzare lo
strumento delle agevolazioni previsto dall’art. 52, ultimo
comma, della legge regionale Piemonte 05.12.1977 n. 56, e di
compensarlo in assenza di adeguate risorse finanziarie
mediante maggiorazione degli oneri sugli interventi relativi
alle zone B e C.
Dalla ritenuta illegittimità della
deliberazione di aggiornamento degli oneri concessori
consegue, quindi, secondo la sentenza n. 6834/2007 l’obbligo
dell’Amministrazione di provvedere nuovamente nella materia
di cui trattasi, con conseguente rinnovo della valutazione
del rapporto in causa.
7. Nell’esame delle doglianze contenute nell’odierno gravame
deve ribadirsi come il sindacato del g.a. nella fattispecie
debba limitarsi alla verifica della logicità dell’azione
amministrativa e dell’assenza di vizi funzionali.
7.1. Quanto alla prima doglianza deve rilevarsi che la
pronuncia n. 6834/2007 onera nuovamente l’amministrazione di
riesercitare quel potere urbanistico illegittimamente
cristallizzatosi nel provvedimento caducato in via
giurisdizionale. Nel fare ciò l’amministrazione ben poteva
perseguire l’interesse pubblico sotteso alla tutela del
centro storico e, del pari, ben poteva affiancare al
criterio del carico urbanistico ulteriori parametri, avendo
cura di evitare un meccanismo meramente finanziario di
aggravamento della situazione dei titolari delle aree B e C
a favore dei proprietari di aree site nel centro storico.
La soluzione prescelta dall’amministrazione comunale, nel
rispetto della disciplina di riferimento come del giudicato
rappresentato dalla sentenza n. 6834/2007, mantiene fermo il
criterio del carico urbanistico, quale elemento centrale, e
giunge a prevedere una maggiorazione, rispetto alle aree del
centro storico, degli oneri di urbanizzazione per le aree B
e C, in forza della logica considerazione che queste ultime
a differenza delle prime necessitano di un numero maggiore
di opere di urbanizzazione.
In questo modo non vi è stata alcuna violazione o elusione
della regula juris contenuta nel giudicato amministrativo,
che non imponeva di provvedere diversamente quanto agli
effetti di un’eventuale differenza dei parametri da
utilizzare per il calcolo degli oneri di urbanizzazione in
ragione delle diverse tipologie di aree, lasciando ampia
discrezionalità sul punto all’amministrazione con i limiti
sopra tratteggiati.
7.2. Del pari destituita di fondamento è la seconda
doglianza, dal momento che gli interventi edilizi si
differenziano quanto ad incidenza antropica ontologicamente
in ragione della tipologia di area in cui vengano
realizzati.
Pertanto, se è vero che non può predicarsi una stretta
inerenza tra il costo degli oneri di urbanizzazione e le
opere da realizzare nella specifica area in questione è
anche vero che la trasformazione edilizia in una zona di
completamento o nuovo impianto va accompagnata
fisiologicamente dalla realizzazione di un maggior numero di
opere di urbanizzazione anche se le stesse possono non
ricadere per ragioni programmatiche all’interno della stessa
zona, rispetto all’intervento edilizio realizzato
all’interno di un’area interamente urbanizzata quale il
centro storico.
Quanto, invece, all’affermazione secondo la quale le opere
di urbanizzazione realizzate all’interno del centro storico
sconterebbero costi maggiori, la stessa nella sua genericità
non è assistita dalla logica, atteso il minor costo che in
genere si riconosce alla mera manutenzione a fronte della
realizzazione ex novo di un’opera di urbanizzazione (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.02.2018 n. 1187 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI: Il comune taglia la mensa causa genitori morosi Il Tar: ok, il servizio non
ha valore educativo. Il giudice di Milano: La refezione non è un diritto, al
massimo un interesse.
Non
hanno funzione educativa né la refezione scolastica né il servizio di
trasporto degli alunni.
Di questo avviso è il TAR
Lombardia-Milano (Sez. III -
sentenza
27.02.2018 n.
556) che ha rigettato un ricorso
contro il comune di Corsico di genitori che contestavano l'esclusione dalla
ristorazione di alcuni bambini.
La questione si incentrava nelle scuole
dell'infanzia, primaria e secondaria di primo grado ove la refezione era in
parte a carico dell'ente locale ed in parte degli utenti. Il Comune sul
finire dell'anno 2015 denunciava una situazione di diffusa inadempienza dei
fruitori del servizio (che pur avendo chiesto una rateizzazione, non
l'avevano poi rispettata) che si contavano in più di 100 famiglie per un
credito erariale di oltre un milione di euro. I figli dei genitori morosi
sono stati prima sospesi e poi esclusi dal servizio.
I genitori non morosi che hanno promosso azione giudiziaria hanno lamentato
che tale situazione si riverberava anche sui loro figli, i quali si
trovavano a consumare il pasto senza i propri compagni, in una situazione
altamente diseducativa. Invece, secondo il Tar l'azione dei genitori non
morosi è inammissibile, poco o nulla rilevando la supposta violazione del
diritto all'istruzione anche dei loro figli nella misura in cui costoro non
consumando il pasto con i compagni morosi sarebbero privati della funzione
socializzante della scuola e del servizio.
Tale motivo corrisponde tutt'al
più a un interesse di mero fatto, come tale non tutelabile e da cui non
scaturisce alcuna posizione legittimante: non da diritti, insomma. I servizi
quali la refezione scolastica (o il viaggio nello scuolabus) non sono
riconducibili al diritto all'istruzione, essendo semmai strumentali
all'attività scolastica.
Infatti, la contestazione che i genitori non morosi non avessero titolo per
promuovere la causa era già stata sollevata dal Comune di Corsico nel
giudizio cautelare durante il quale i ricorrenti avevano chiesto la
sospensiva della esclusione onde consentire a tutti i bambini di accedere
alla mensa; tuttavia il Tar aveva rigettato (ordinanza n. 1595/2016) proprio
perché il ricorso appariva già inammissibile sotto il profilo della
legittimazione ad agire: nessuno dei ricorrenti era inciso dalla
disposizione comunale. L'appello cautelare veniva poi accolto dal Consiglio
di stato (ordinanza n. 1564/2017) pur se ai soli fini di sollecitare una
tempestiva udienza di merito che, difatti, sopravveniva dopo qualche mese,
ma non con l'esito sperato dai ricorrenti.
L'ente locale non ha alcun obbligo di organizzare il servizio, ma se decide
di istituirlo è tenuto ad individuare il costo ed a stabilire la misura
percentuale finanziabile con risorse comunali e quella da coprire per
contribuzione degli utenti.
Il servizio di mensa scolastica è, infatti, un servizio pubblico locale e «a
domanda individuale» così che non rientra tra quelli maggiormente garantiti
dalla Direttiva (Dpcm) del 27/01/1994: essi riguardano il godimento dei
diritti della persona alla salute, all'assistenza e previdenza sociale, alla
istruzione e alla libertà di comunicazione, alla libertà e alla sicurezza
della persona, e alla libertà di circolazione
(articolo
ItaliaOggi del 06.03.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
La controversia attiene alla spettanza e alla
liquidazione del contributo di costruzione riservata alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ha ad
oggetto l'accertamento di un rapporto di credito a
prescindere dall'esistenza di atti dell’Amministrazione e
non è soggetta alle regole delle azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi né ai rispettivi
termini di decadenza.
Ne consegue l’inconfigurabilità dell'istituto
dell'acquiescenza rispetto alla liquidazione del contributo
e alla sua corresponsione in funzione del rilascio del
titolo edilizio, non potendosi ritenere precluso
all’interessato, dopo la sottoscrizione della polizza o dopo
il pagamento, il ricorso alla tutela giurisdizionale per
l’accertamento del diritto a non pagare ciò che ritiene
eccedente rispetto a quanto è dovuto per legge.
---------------
L’argomento del Comune secondo il quale non dovrebbero
trovare applicazione tutte le norme della legge 24.03.1989,
n. 122, perché la convenzione urbanistica richiama solo
l’art. 2 di tale legge, è infondato.
Infatti, la convenzione ha natura negoziale ed è
riconducibile all'autonomia privata disciplinata dal codice
civile, con la conseguenza che gli obblighi a cui è soggetta
tale autonomia non sono solo quelli che le parti si
impongono liberamente e trovano espressione nell’accordo
intervenuto tra le parti, ma, ai sensi dell'art. 1374 c.c.,
anche quelli che derivano dalla legge.
E’ pertanto necessario verificare se le norme della legge
24.03.1989, n. 122 debbano essere interpretate nel senso
della gratuità o meno dei parcheggi pertinenziali.
Sul punto, benché la questione in giurisprudenza sia
controversia, il Collegio condivide l’orientamento
maggioritario secondo il quale la gratuità vale per tutti i
parcheggi pertinenziali sia di edifici esistenti, che di
edifici nuovi.
E’ infatti necessario considerare che, benché i parcheggi
pertinenziali (nel rapporto di 1mq/10 mc) a servizio di
edifici privati previsti dalla legge Tognoli non possano
propriamente essere definiti come standard perché privi
della destinazione pubblica, gli stessi sono espressamente
equiparati a questi ai fini dell’esenzione del pagamento del
costo di costruzione dall’art. 11, comma 1, della legge
24.03.1989, n. 122, secondo il quale “le opere e gli
interventi previsti dalla presente legge costituiscono opere
di urbanizzazione anche ai sensi dell'articolo 9, primo
comma, lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10”, e il
citato art. 11 a questi fini non distingue tra parcheggi da
realizzare in deroga ai parametri urbanistici ed edilizi a
servizio di edifici esistenti, o parcheggi da realizzare su
edifici nuovi in misura non inferiore ad un metro quadrato
per ogni dieci metri cubi di costruzione ai sensi dell’art.
41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150.
---------------
Le Società ricorrenti nel Comune di Vicenza hanno realizzato degli
interventi edilizi in attuazione del programma integrato di
riqualificazione urbanistica, edilizia e ambientale
denominato “Piruea Vetri” nel periodo compreso tra il 2000 e
il 2011.
Nel calcolare l’importo della quota del contributo
concessorio relativa al costo di costruzione il Comune ha
incluso anche le superfici destinate a parcheggi
pertinenziali obbligatori e le ricorrenti riferiscono di
aver versato le relative somme al solo fine di ottenere
celermente il rilascio dell’agibilità.
Tuttavia ritenendo erroneo il pagamento esteso anche alla
superficie destinata a parcheggi obbligatori, ne hanno
chiesto la restituzione con interessi calcolati dalla data
di ciascun pagamento sino al saldo e la rivalutazione
monetaria, per una somma in linea capitale di € 34.947,20
per Co. Spa e di € 31.667,68, per In.It. Spa,
dapprima in via stragiudiziale ed in seguito con il ricorso
in epigrafe.
Le ricorrenti a fondamento della propria pretesa pongono la
previsione di cui all’art. 11, comma 1, della legge 24.03.1989, n. 122, secondo la quale “le opere e gli interventi
previsti dalla presente legge costituiscono opere di
urbanizzazione anche ai sensi dell'articolo 9, primo comma,
lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10”, per il
rilievo che tale legge con l’art. 2, ha modificato l’art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, che ha imposto
che “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di
pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere
riservati appositi spazi per parcheggi in misura non
inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di
costruzione”, con la conseguenza che i parcheggi obbligatori
a servizio delle unità immobiliari residenziali devono
ritenersi esenti dall’obbligo di pagamento del contributo di
costruzione.
Si è costituito in giudizio il Comune di Vicenza eccependo
in rito l’inammissibilità del ricorso per acquiescenza in
quanto i ricorrenti, nel sottoscrivere le polizze
fideiussorie a garanzia del pagamento del contributo di
costruzione, non hanno sollevato alcuna riserva in ordine
alla quantificazione degli importi.
Nel merito il Comune ha eccepito che la restituzione delle
somme non è dovuta in quanto la costruzione degli edifici
nel caso di specie è disciplinata da apposita convenzione
che richiama solo l’art. 2 della legge 24.03.1989, n. 122
ed inoltre, contrariamente a quanto dedotto, la disciplina
di favore che esonera dal pagamento del contributo di
costruzione, riguarda solo gli interventi realizzati su
edifici esistenti, e non quelli realizzati su edifici nuovi,
per i quali non si applicano norme di deroga essendovi
l’obbligo di realizzarli ai sensi dell’art. 41-sexies della
legge 17.08.1942, n. 1150.
Alla pubblica udienza del 17.01.2018, la causa è stata
trattenuta in decisione.
L’eccezione di inammissibilità del ricorso deve essere
respinta.
Infatti la controversia attiene alla spettanza e alla
liquidazione del contributo di costruzione riservata alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ha ad
oggetto l'accertamento di un rapporto di credito a
prescindere dall'esistenza di atti dell’Amministrazione e
non è soggetta alle regole delle azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi né ai rispettivi
termini di decadenza.
Ne consegue l’inconfigurabilità dell'istituto
dell'acquiescenza rispetto alla liquidazione del contributo
e alla sua corresponsione in funzione del rilascio del
titolo edilizio, non potendosi ritenere precluso
all’interessato, dopo la sottoscrizione della polizza o dopo
il pagamento, il ricorso alla tutela giurisdizionale per
l’accertamento del diritto a non pagare ciò che ritiene
eccedente rispetto a quanto è dovuto per legge (cfr. Tar
Lombardia, Milano, Sez. II, 09.12.2015, n. 2580;
Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.05.2015, n. 2294).
L’argomento del Comune secondo il quale non dovrebbero
trovare applicazione tutte le norme della legge 24.03.1989, n. 122, perché la convenzione richiama solo l’art. 2
di tale legge, è infondato.
Infatti la convenzione ha natura negoziale ed è
riconducibile all'autonomia privata disciplinata dal codice
civile, con la conseguenza che gli obblighi a cui è soggetta
tale autonomia non sono solo quelli che le parti si
impongono liberamente e trovano espressione nell’accordo
intervenuto tra le parti, ma, ai sensi dell'art. 1374 c.c.,
anche quelli che derivano dalla legge (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. V, 04.05.2004, n. 2687; id. 10.01.2003,
n. 33).
E’ pertanto necessario verificare se le norme della legge 24.03.1989, n. 122 debbano essere interpretate nel senso
della gratuità o meno dei parcheggi pertinenziali.
Sul punto, benché la questione in giurisprudenza sia
controversia, il Collegio condivide l’orientamento
maggioritario secondo il quale la gratuità vale per tutti i
parcheggi pertinenziali sia di edifici esistenti, che di
edifici nuovi.
E’ infatti necessario considerare che, benché i parcheggi
pertinenziali a servizio di edifici privati previsti dalla
legge Tognoli non possano propriamente essere definiti come
standard perché privi della destinazione pubblica, gli
stessi sono espressamente equiparati a questi ai fini
dell’esenzione del pagamento del costo di costruzione
dall’art. 11, comma 1, della legge 24.03.1989, n. 122,
secondo il quale “le opere e gli interventi previsti dalla
presente legge costituiscono opere di urbanizzazione anche
ai sensi dell'articolo 9, primo comma, lettera f), della
legge 28.01.1977, n. 10”, e il citato art. 11 a questi
fini non distingue tra parcheggi da realizzare in deroga ai
parametri urbanistici ed edilizi a servizio di edifici
esistenti, o parcheggi da realizzare su edifici nuovi in
misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci
metri cubi di costruzione ai sensi dell’art. 41-sexies della
legge 17.08.1942, n. 1150 (cfr. Tar Emilia Romagna,
Bologna, Sez. I, 20.11.2017, n. 751; Tar Lombardia,
Brescia, Sez. I, 11.09.2017, n. 1087; Tar Campania,
Napoli, Sez. II, 11.04.2017, n. 1977; Consiglio di
Stato, Sez. IV, 24.11.2016, n. 4937; Consiglio di
Stato, sez. IV, 08.01.2013, n. 32; Consiglio di Stato,
Sez. IV, 28.11.2012, n. 6033; Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.11.2011, n. 6154; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 17.04.2007, n. 1779; Tar Campania, Napoli, Sez. IV,
16.07.2004, n. 10364).
Ne consegue che la pretesa azionata è fondata e il ricorso
deve essere accolto con la precisazione tuttavia che la
gratuità non va invece estesa ai parcheggi che eccedono la
misura minima di legge.
Nel caso di specie pertanto, il Comune di Vicenza sarà
tenuto a restituire le somme corrisposte per il costo di
costruzione con riguardo ai soli parcheggi pertinenziali
realizzati nella misura minima di legge maggiorate degli
interessi legali dalla data delle domande (dovendosi
presumere la buona fede dell'amministrazione percipiente;
nel caso di specie le domande possono essere individuate
nelle richieste di restituzione del 27.09.2012: cfr.
doc. 40 allegato al ricorso) ovvero calcolati dalle date di
ciascun pagamento, ove successive alle domande, sino
all’effettivo soddisfo ai sensi dell’art. 2033 del codice
civile, con esclusione della rivalutazione monetaria
(rispetto all’esclusione della rivalutazione cfr. Tar
Toscana, Sez. III, 27.11.2014, n. 1902; Tar Lombardia,
Milano, Sez. II, 18.09.2013, n. 2172; Consiglio di
Stato, Sez. V, 17.10.2013, n. 5045; Tar Friuli Venezia
Giulia, 12.12.2013, n. 649).
La mancanza di univocità degli orientamenti
giurisprudenziali sulla questione oggetto della controversia
giustifica tuttavia l’integrale compensazione delle spese di
giudizio tra le parti (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 21.02.2018 n. 209 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Bocciato
il «pdf» allegato alla Pec. Per i giudici è
inesistente anche l’atto cartaceo con la dicitura «firmato digitalmente».
Notifiche. Cresce il filone delle pronunce che impongono la sottoscrizione
«elettronica» con le modalità del Dpcm 13.11.2014.
Sono sempre più numerose le
pronunce di merito che censurano le modalità digitali utilizzate dal Fisco
per la formazione e la notificazione degli atti impositivi.
Così, la Ctr Liguria (sentenza 1745/3/2017, presidente Canepa e relatore
D’Avanzo) e la Ctp Treviso (sentenza 93/1/2018, presidente Chiarelli e
relatore Fadel) ribadiscono ancora una volta che è inesistente la notifica
di un atto impositivo se avviene tramite messaggio Pec contenente in
allegato il file dell’atto non firmato digitalmente.
E ancora, per la stessa Ctp Treviso (sentenza
15.01.2018 n. 55/1/2018, presidente Bazzotti, relatore Fadel - tratta
da www.studiolegalesances.it) è inesistente l’avviso di accertamento
notificato al contribuente in formato cartaceo, ma che non reca alcuna
sottoscrizione autografa del dirigente dell’ufficio (o di un suo delegato)
ma la sola dicitura «firmato digitalmente».
La notifica tramite Pec
Le prime due sentenze riguardano il caso di cartelle di pagamento notificate
al contribuente in formato “pdf” allegato a un messaggio Pec. I contribuenti
impugnano le cartelle di pagamento sotto svariati profili, evidenziando tra
l’altro che il formato “pdf” del file allegato alla Pec non garantisce l’immodificabilità
e l’integrità del documento informatico.
I giudici condividono questa tesi difensiva, in particolare richiamando
l’articolo 21, comma 1-bis, del Dlgs 82/2005 (Codice dell’amministrazione
digitale, Cad), secondo cui «l’idoneità del documento informatico a
soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono
liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle sue caratteristiche
oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità».
Da questa disposizione i giudici traggono il convincimento che, in base al
Cad, solamente il documento informatico su cui è apposta la firma digitale,
formato secondo le specifiche tecniche di cui al Dpcm 13.11.2014 (recante «Regole
tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione,
riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici» in
attuazione del Cad), è munito delle oggettive caratteristiche di qualità,
sicurezza, integrità ed immodificabilità, oltre a consentire
l’identificazione della paternità dell’atto, tali da renderne valida la
notifica a Pec.
In mancanza di tali requisiti, non c’è nessuna certezza legale che l’atto
inviato telematicamente sia identico al provvedimento in originale e che
esso sia giunto integro al suo destinatario. Pertanto, l’atto non è idoneo a
manifestare la volontà dell’amministrazione di incidere nella sfera del
destinatario (come anticipato, questa linea è stata sposata da molte altre
pronunce di merito; solo per citarne alcune: Ctr Campania 9464/11/2017, Ctp
Milano 1023/1/2017, Ctp La Spezia 420/1/2017, Ctp Vicenza 615/2/2017).
Atto cartaceo e firma digitale
La terza sentenza citata riguarda il caso di un avviso di accertamento
notificato al contribuente in forma cartacea, ma recante la sola
stampigliatura del nominativo del funzionario dell’ufficio seguita dalla
dicitura «firmato digitalmente».
Anche in questo caso, a fronte di una specifica doglianza avanzata dal
contribuente, i giudici hanno annullato l’atto, sottolineando che la
normativa rilevante (articolo 15, comma 7, Dl 78/2010 e provvedimento del
direttore dell’agenzia delle Entrate del 02.11.2010) consente di sostituire
la firma autografa con l’indicazione a stampa del nominativo del
responsabile nei soli casi in cui l’atto:
- sia prodotto da sistemi informativi automatizzati;
- e sia il risultato di attività a carattere seriale effettuate con
modalità di lavorazione accentrata (è il caso degli accertamenti delle tasse
automobilistiche, delle concessioni governative, dell’imposta di registro
annuale sui canoni di locazione pluriennali).
Ne consegue che per gli accertamenti ordinari notificati in formato
cartaceo, la firma deve essere autografa. Anche in questo caso, in difetto
di tale elemento, non può ritenersi formata alcuna volontà del Fisco idonea
ad incidere nella sfera del contribuente (articolo
Il Sole 24 Ore 16.04.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell'accertamento della avvenuta
ultimazione dei lavori è necessario verificare se
l'opera presenti le finiture interne ed esterne
quali, in particolare, gli intonaci e gli infissi.
---------------
3. Venendo,
poi, al primo motivo di ricorso presentato da
Mi.Ru. (secondo motivo di impugnazione per Mo. e
Sa.), i ricorrenti deducono l'avvenuta maturazione
della prescrizione in relazione ai reati contestati
ai capi e), f) e g) dell'imputazione: ciò sul
presupposto che il fabbricato fosse stato ultimato
ad agosto/settembre 2007 o che, comunque, a tale
data, i lavori fossero stati sospesi
volontariamente.
Sul punto, va nondimeno rilevato che la Corte territoriale ha puntualmente posto
in luce come, alla stregua della consolidata
elaborazione della giurisprudenza di legittimità, ai
fini dell'accertamento della avvenuta ultimazione
dei lavori, sia necessario verificare se l'opera
presenti le finiture interne ed esterne quali, in
particolare, gli intonaci e gli infissi
(Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, dep. 20/11/2014,
Surano, Rv. 261153). Ciò che, tuttavia, nel caso di
specie è stato motivatamente escluso, avendo
l'istruttoria dimostrato, alla stregua della
documentazione fotografica in atti, che il
fabbricato era, al momento dell'accertamento,
assolutamente incompleto, presentandosi "al
grezzo e privo di ogni rifinitura interna".
In proposito, manifestamente inconferente è la tesi
difensiva, espressa in sede di appello e ribadita in
occasione del ricorso introduttivo del presente
giudizio, secondo la quale le finiture sarebbero
state superflue in quanto il fabbricato sarebbe
stato destinato a rimessa agricola, avendo, in
proposito, i giudici di merito correttamente
sottolineato come il manufatto fosse stato, al
contrario, destinato ad uso abitativo.
Pertanto, anche la presente censura si palesa come
manifestamente infondata (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 21.09.2017 n.
43151).
|
EDILIZIA PRIVATA:
L'ultimazione dei lavori coincide con la conclusione dei lavori di
rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e
gli infissi, di modo che anche il suo utilizzo effettivo,
ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze
e dalla presenza di persone al suo interno, non è
sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione
dell'immobile abusivamente realizzato.
---------------
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Muovendo dal primo motivo di impugnazione,
giova premettere che
l'ultimazione dei lavori,
secondo l'orientamento accolto da questo Collegio,
coincide con la conclusione dei lavori di
rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e
gli infissi
(Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011, Ventura, Rv.
251424),
di modo che anche il suo utilizzo effettivo,
ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze
e dalla presenza di persone al suo interno, non è
sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione
dell'immobile abusivamente realizzato
(Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv.
261153).
Tanto premesso, osserva il Collegio che,
diversamente da quanto opinato dalla ricorrente, la
sentenza ha adeguatamente specificato come al
momento del sopralluogo il manufatto si presentasse
come lungi dall'essere ultimato, atteso che secondo
quanto dichiarato dal teste An.Pe. in occasione
dell'udienza del 03.07.2012 e riportato nel verbale
di sopralluogo in atti, il manufatto era completo
nella sua struttura, ma mancava delle rifiniture.
Ne consegue, pertanto, l'infondatezza delle censure
difensive svolte con il primo motivo di ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.06.2017 n. 30654).
|
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale, in relazione all’impugnazione dei titoli
edilizi, “il rapporto di vicinitas, ossia di stabile collegamento con l’area
interessata dall’intervento contestato, è idoneo e
sufficiente a fondare tanto la legittimazione (ossia la
titolarità di una posizione giuridica qualificata e
differenziata rispetto a quella di quisque de populo) quanto
l’interesse a ricorrere (ossia la sussistenza di una lesione
concreta e attuale alla detta situazione giuridica per
effetto del provvedimento amministrativo impugnato)”.
Nel caso oggetto del presente giudizio, il rapporto di
vicinitas sussiste indubitabilmente, perché l’impugnazione
viene proposta dal proprietario di un’unità immobiliare sita
nella palazzina posta in aderenza a quella cui si riferisce
il titolo edilizio gravato.
---------------
2.3 Infine, si eccepisce che il sig. Co. non avrebbe dimostrato di
essere effettivamente residente nella palazzina adiacente,
né un titolo di proprietà dal quale possa desumersi la vicinitas rispetto all’immobile cui si riferisce il permesso
di costruire impugnato. Inoltre, il ricorrente non avrebbe
provato di essere titolare di un interesse meritevole di
tutela all’annullamento del permesso di costruire.
2.3.1 Al riguardo, deve però rilevarsi che il ricorrente ha
poi comprovato quanto allegato nel ricorso, mediante il
deposito agli atti del giudizio di copia del certificato di
residenza e dell’atto di assegnazione dell’unità immobiliare
da parte della Cooperativa edilizia “Il Bosco”.
2.3.2 Quanto alla prova dell’interesse all’annullamento, è
sufficiente richiamare il consolidato orientamento
giurisprudenziale per il quale, in relazione
all’impugnazione dei titoli edilizi, “il rapporto di vicinitas, ossia di stabile collegamento con l’area
interessata dall’intervento contestato, è idoneo e
sufficiente a fondare tanto la legittimazione (ossia la
titolarità di una posizione giuridica qualificata e
differenziata rispetto a quella di quisque de populo) quanto
l’interesse a ricorrere (ossia la sussistenza di una lesione
concreta e attuale alla detta situazione giuridica per
effetto del provvedimento amministrativo impugnato)” (cfr.
ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 12.05.2014, n. 2403).
Nel caso oggetto del presente giudizio, il rapporto di
vicinitas sussiste indubitabilmente, perché l’impugnazione
viene proposta dal proprietario di un’unità immobiliare sita
nella palazzina posta in aderenza a quella cui si riferisce
il titolo edilizio gravato.
2.3.3 Anche questa eccezione va quindi respinta.
2.4 In definitiva, le eccezioni in rito vanno rigettate (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.05.2017 n. 1211 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come è noto, il rilascio del permesso di costruire
in sanatoria, ai sensi del predetto articolo 36, richiede la
c.d. doppia conformità, requisito dal quale non può prescindersi
ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie.
---------------
3. Nel merito, il ricorso R.G. 2573 del 2013 è fondato,
poiché deve trovare accoglimento il primo motivo di
impugnazione.
3.1 Come detto, il permesso di costruire ha disposto la
sanatoria della realizzazione di un “locale tecnico sopra la
copertura piana”. Tale era, infatti, lo stato dei luoghi,
poiché, nonostante nella pratica edilizia si descrivesse il
manufatto come sito nel “piano sottotetto”, esso –in base
agli elaborati grafici della stessa pratica– risulta
innalzato sulla superficie che avrebbe dovuto costituire il
piano di calpestio del sottotetto, ma che costituisce, di
fatto, la copertura dell’edificio.
3.2 Tuttavia, come esattamente evidenziato dal ricorrente,
l’articolo 5.5 delle NTA del PEEP stabilisce che “per gli
edifici da realizzare sono, altresì, vincolanti i seguenti
elementi compositivi, decorativi e di finitura, come
indicati alla TAV. n. 11 – Abaco elementi architettonici
vincolanti:
- copertura del tetto in coppi, a falde inclinate...”.
La previsione, nel suo chiaro tenore, esclude quindi la
possibilità di realizzare una copertura piana con un
ulteriore vano tecnico, in elevazione su di essa, destinato
anche a svolgere funzione “di supporto ai pannelli solari”,
secondo quanto risulta dalle tavole allegate alla pratica
edilizia (v. doc. 7 della ricorrente).
Né può assumere alcun rilievo, in senso contrario, la
previsione dell’articolo 27 dell’allegato energetico al
Regolamento edilizio di Lodi del 2008, richiamato dal
Condominio interveniente.
La previsione normativa si limita infatti a consigliare che,
per le coperture piane, almeno l’80 per cento della
superficie di falda sia realizzata come “tetti verdi”,
ovvero che, per la stessa superficie, siano adottati altri
accorgimenti indicati dalla medesima disposizione. La norma
ora richiamata non reca, quindi, una prescrizione vincolante
e, comunque, essa si riferisce al solo caso in cui sia
legittimamente realizzabile una copertura piana, ma non
impone (e neppure suggerisce) di costruire unicamente
coperture piane.
Pertanto, anche senza approfondire il
rapporto tra le previsioni delle NTA del PEEP e quelle
generali contenute nel Regolamento edilizio comunale, deve
escludersi che dall’articolo 27 dell’Allegato energetico al
predetto Regolamento possa trarsi una prescrizione che
legittimi, di per sé, la costruzione di coperture piane.
3.3 La sanatoria rilasciata dal Comune è, quindi,
incompatibile con la disciplina urbanistica vigente al tempo
della realizzazione dell’abuso, poiché ha ad oggetto una
conformazione della copertura dell’edificio del tutto
diversa rispetto a quella prevista dalla disciplina
vincolante stabilita dal PEEP.
Ciò di per sé comporta l’illegittimità del titolo edilizio,
senza che possa assumere alcun rilievo, in senso contrario,
l’eventuale conformità rispetto alla disciplina sopravvenuta
contenuta nel Piano di Governo del Territorio, allegata dal
Comune nelle sue difese.
Come è noto, infatti, il rilascio del permesso di costruire
in sanatoria, ai sensi del predetto articolo 36, richiede la
c.d. doppia conformità, requisito dal quale non può
prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere
edilizie (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 18.07.2016, n. 3194; Id., Sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
3.4 In conclusione, il permesso di costruire è affetto dal
vizio denunciato dal ricorrente nel primo motivo di
impugnazione, per cui il ricorso R.G. 2573 del 2013 va
accolto, con assorbimento delle rimanenti censure (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.05.2017 n. 1211 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve ricordarsi che la denuncia d’inizio
attività, secondo quanto autorevolmente chiarito, ormai da
tempo, dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, “non è
un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà
luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce
un atto privato volto a comunicare l’intenzione di
intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge”.
Affermazione, questa, che ha poi
trovato piena conferma da parte del legislatore, posto che
l’attuale articolo 19, comma 6-ter, primo periodo della
legge n. 241 del 1990 –introdotto dall'articolo 6, comma 1,
lett. c) del decreto legge 13.08.2011, n. 138,
convertito, con modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148– stabilisce espressamente che “La segnalazione
certificata di inizio attività, la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili”.
Nessun provvedimento si forma, dunque, per silenzio-assenso
a seguito della presentazione della denuncia di inizio
attività, né –del resto– quest’ultima costituisce un atto
direttamente impugnabile dal privato, secondo quanto
costantemente affermato dalla giurisprudenza della Sezione.
---------------
L’unico rimedio previsto dall’ordinamento a favore del terzo
che si ritenga leso da una denuncia o segnalazione
certificata di inizio attività è costituito dall’azione
prevista dall’articolo 19, comma 6-ter, della legge n. 241
del 1990, il quale dispone che “Gli interessati possono
sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti
all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire
esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3
del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”, ossia agire
avverso il silenzio dell’amministrazione.
La suddetta previsione impone all’amministrazione di
riscontrare motivatamente, in ogni caso, l’istanza con cui
un terzo, titolare di una situazione giuridica qualificata e
differenziata, abbia sollecitato l’intervento della stessa
amministrazione in relazione a una denuncia o segnalazione
certificata di inizio attività.
In particolare, laddove l’istanza pervenga entro sessanta
giorni dal momento in cui tale soggetto risulta aver avuto
conoscenza dei profili lesivi dell’intervento,
l’amministrazione sarà tenuta a esercitare, sussistendone i
presupposti, pieni poteri inibitori, poiché –in difetto– il
terzo subirebbe una diminuzione della tutela accordatagli
rispetto a chi sia leso da un permesso di costruire.
Superati i sessanta giorni, l’amministrazione dovrà comunque
a verificare, dandone conto motivatamente, unicamente la
sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’autotutela.
---------------
L’iter che prende avvio con la presentazione dell’istanza
dell’interessato il quale chiede all’amministrazione
l’esercizio dei poteri inibitori (avverso una presentata
d.i.a.) costituisce una fase procedimentale necessaria e un
passaggio obbligato per l’accesso alla tutela
giurisdizionale. E, in questa prospettiva, l’identità del
soggetto che presenta l’istanza e la posizione legittimante
che questi vanta è rilevante, per diverse ragioni.
Anzitutto, perché l’obbligo per l’amministrazione di
pronunciarsi in ogni caso sull’istanza, secondo quanto si è
detto, sussiste soltanto rispetto ai terzi che siano
titolari di una posizione qualificata e differenziata, ossia
nei confronti di quei soggetti che potrebbero impugnare il
titolo edilizio, ove questo consistesse in un provvedimento
espresso.
In secondo luogo, perché –come sopra detto– il potere che
l’amministrazione è chiamata a esercitare varia in relazione
al momento in cui il terzo che presenta l’istanza ha avuto
conoscenza della denuncia o segnalazione di inizio attività.
Se, infatti, questi ha atteso più di sessanta giorni dalla
conoscenza della denuncia o segnalazione per sollecitare
l’esercizio dei poteri inibitori, l’amministrazione potrà
esercitare tali poteri solo in presenza dei presupposti per
l’autotutela.
La successiva azione avverso il silenzio è diretta, poi, a
dare tutela al soggetto, titolare di una posizione
qualificata e differenziata, che ha presentato l’istanza di
esercizio dei poteri inibitori. E nella sede giurisdizionale
va verificata anche la latitudine dei poteri spettanti
all’amministrazione in relazione a quell’istanza.
Conseguentemente, lo stretto rapporto che lega la fase
procedimentale necessaria prevista dall’articolo 19, comma
6-ter, della legge n. 241 del 1990 con la successiva
eventuale azione giurisdizionale contro il silenzio
dell’amministrazione comporta che il soggetto legittimato ad
agire contro il silenzio dell’amministrazione debba
necessariamente coincidere con quello che ha presentato
l’istanza con la quale è stato sollecitato l’esercizio dei
poteri inibitori.
---------------
4. Venendo, quindi, all’esame del ricorso R.G. 28 del 2014,
il Collegio deve constatare che tutte le domande proposte
sono inammissibili.
4.1 Come sopra detto, la parte ha chiesto, anzitutto,
l’annullamento del silenzio-assenso che si sarebbe formato
sulla denuncia di inizio attività presentata dalla
Cooperativa “Lodi in fiore” in data 11.07.2013, e –occorrendo– l’annullamento della stessa d.i.a. e del titolo
edilizio perfezionatosi in merito alla stessa.
Al riguardo, deve ricordarsi che la denuncia d’inizio
attività, secondo quanto autorevolmente chiarito, ormai da
tempo, dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, “non è
un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà
luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce
un atto privato volto a comunicare l’intenzione di
intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge”
(Ad. Plen. n. 15 del 2011).
Affermazione, questa, che ha poi
trovato piena conferma da parte del legislatore, posto che
l’attuale articolo 19, comma 6-ter, primo periodo della
legge n. 241 del 1990 –introdotto dall'articolo 6, comma 1,
lett. c) del decreto legge 13.08.2011, n. 138,
convertito, con modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148– stabilisce espressamente che “La segnalazione
certificata di inizio attività, la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili”.
Nessun provvedimento si forma, dunque, per silenzio-assenso
a seguito della presentazione della denuncia di inizio
attività, né –del resto– quest’ultima costituisce un atto
direttamente impugnabile dal privato, secondo quanto
costantemente affermato dalla giurisprudenza della Sezione
(v., tra le ultime, TAR Lombardia, Milano, Sezione II, 15.02.2017, n. 389; Id., 29.11.2016, n. 2251; Id.,
14.01.2016, n. 80; v. inoltre, tra le meno recenti:
Id., 11.11.2008, n. 5294; Id., 15.11.2007, n.
6361; Id., 10.05.2007, n. 2894; Id., 17.10.2005, n.
3819).
Per questa ragione, le domande di annullamento sopra
indicate sono inammissibili.
4.2 Il ricorrente ha poi chiesto, “in ogni caso”,
l’accertamento del mancato esercizio del potere inibitorio
in merito alla d.i.a. da parte del Comune di Lodi.
4.2.1 Al riguardo, deve richiamarsi la giurisprudenza di
questa Sezione (v. in particolare TAR Lombardia, Milano,
Sez. II, 15.04.2016, n. 735, alle cui motivazioni si
rinvia), la quale ha già avuto modo di affermare che l’unico
rimedio previsto dall’ordinamento a favore del terzo che si
ritenga leso da una denuncia o segnalazione certificata di
inizio attività è costituito dall’azione prevista
dall’articolo 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990,
il quale dispone che “Gli interessati possono sollecitare
l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e,
in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui
all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”, ossia agire avverso il silenzio
dell’amministrazione.
La suddetta previsione impone all’amministrazione di
riscontrare motivatamente, in ogni caso, l’istanza con cui
un terzo, titolare di una situazione giuridica qualificata e
differenziata, abbia sollecitato l’intervento della stessa
amministrazione in relazione a una denuncia o segnalazione
certificata di inizio attività.
In particolare, laddove l’istanza pervenga entro sessanta
giorni dal momento in cui tale soggetto risulta aver avuto
conoscenza dei profili lesivi dell’intervento,
l’amministrazione sarà tenuta a esercitare, sussistendone i
presupposti, pieni poteri inibitori, poiché –in difetto–
il terzo subirebbe una diminuzione della tutela accordatagli
rispetto a chi sia leso da un permesso di costruire.
Superati i sessanta giorni, l’amministrazione dovrà comunque
a verificare, dandone conto motivatamente, unicamente la
sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’autotutela.
4.2.2 Nel caso oggetto del presente giudizio, anche a voler
ritenere che –nonostante la formulazione testuale– la
domanda del ricorrente possa essere riqualificata come
diretta a ottenere tutela avverso il silenzio
dell’amministrazione sull’istanza di esercizio dei poteri
inibitori, essa risulta comunque inammissibile. E ciò in
quanto –come correttamente eccepito dalla difesa del
Condominio interveniente– risulta agli atti del giudizio
che l’esposto all’amministrazione al quale fa riferimento il
ricorrente è stato presentato non dal sig. Co., bensì
dalla Cooperativa edilizia “Il Bosco”.
E’ solo quest’ultimo soggetto giuridico, pertanto, che
avrebbe potuto eventualmente agire contro il silenzio
serbato sull’istanza dall’amministrazione.
Questa conclusione è imposta dalla circostanza che –come
già chiarito dalla Sezione nella sentenza n. 735 del 2016–
l’iter che prende avvio con la presentazione dell’istanza
dell’interessato il quale chiede all’amministrazione
l’esercizio dei poteri inibitori costituisce una fase
procedimentale necessaria e un passaggio obbligato per
l’accesso alla tutela giurisdizionale. E, in questa
prospettiva, l’identità del soggetto che presenta l’istanza
e la posizione legittimante che questi vanta è rilevante,
per diverse ragioni.
Anzitutto, perché l’obbligo per l’amministrazione di
pronunciarsi in ogni caso sull’istanza, secondo quanto si è
detto, sussiste soltanto rispetto ai terzi che siano
titolari di una posizione qualificata e differenziata, ossia
nei confronti di quei soggetti che potrebbero impugnare il
titolo edilizio, ove questo consistesse in un provvedimento
espresso.
In secondo luogo, perché –come sopra detto– il potere che
l’amministrazione è chiamata a esercitare varia in relazione
al momento in cui il terzo che presenta l’istanza ha avuto
conoscenza della denuncia o segnalazione di inizio attività.
Se, infatti, questi ha atteso più di sessanta giorni dalla
conoscenza della denuncia o segnalazione per sollecitare
l’esercizio dei poteri inibitori, l’amministrazione potrà
esercitare tali poteri solo in presenza dei presupposti per
l’autotutela.
La successiva azione avverso il silenzio è diretta, poi, a
dare tutela al soggetto, titolare di una posizione
qualificata e differenziata, che ha presentato l’istanza di
esercizio dei poteri inibitori. E nella sede giurisdizionale
va verificata anche la latitudine dei poteri spettanti
all’amministrazione in relazione a quell’istanza.
Conseguentemente, lo stretto rapporto che lega la fase
procedimentale necessaria prevista dall’articolo 19, comma
6-ter, della legge n. 241 del 1990 con la successiva
eventuale azione giurisdizionale contro il silenzio
dell’amministrazione comporta che il soggetto legittimato ad
agire contro il silenzio dell’amministrazione debba
necessariamente coincidere con quello che ha presentato
l’istanza con la quale è stato sollecitato l’esercizio dei
poteri inibitori.
Nel caso oggetto del presente giudizio, come rilevato,
questa coincidenza non sussiste.
Da ciò l’inammissibilità della domanda proposta dal
ricorrente (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.05.2017 n. 1211 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo
giurisprudenza di questa Corte, ormai consolidata,
non può essere attribuito ad un
soggetto per il solo fatto di essere proprietario di
un'area, un dovere di controllo dalla cui violazione
derivi una responsabilità penale per costruzione
abusiva.
Il semplice fatto dì essere proprietario o
comproprietario del terreno sul quale vengono svolti
lavori edilizi illeciti, pur potendo costituire un
indizio grave, non è sufficiente da solo ad
affermare la responsabilità penale, essendo
necessario a tal fine, rinvenire elementi in base ai
quali possa ragionevolmente presumersi che egli
abbia in qualche modo concorso anche solo moralmente
con il committente o l'esecutore dei lavori.
Occorre considerare, 'in sostanza, la situazione
concreta in cui si è svolta l'attività incriminata,
tenendo conto non soltanto della piena
disponibilità, giuridica o di fatto, del suolo e
dell'interesse specifico ad effettuare una
costruzione (principio del "cui prodest"), bensì
pure di rapporti di parentela ed affinità tra
l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario,
dell'eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo,
dello svolgimento di attività di materiale vigilanza
dell'esecuzione dei lavori, della richiesta di
provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; del
regime patrimoniale tra coniugi e, in definitiva, di
tutte quelle situazioni e quei comportamenti
positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi
integrativi della colpa e prove circa la
compartecipazione anche morale all'esecuzione delle
opere".
La giurisprudenza successiva ha ribadito che in
materia edilizia può essere attribuita al
proprietario, non formalmente committente
dell'opera, la responsabilità per la violazione
dell'art. 44 DPR 380/2001, sulla base di valutazioni
fattuali, quali l'accertamento che questi abiti
nello stesso territorio comunale ove è stata eretta
la costruzione abusiva, che sia stato individuato
sul luogo, che sia destinatario finale dell'opera,
che abbia presentato richieste di provvedimenti
abilitativi anche in sanatoria.
Più di recente questa Corte, nel richiamare tutti
tali principi, ha sottolineato che "grava inoltre
sull'interessato l'onere di allegare circostanze
utili a convalidare la tesi che, nella specie, si
tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e
senza la sua volontà".
---------------
1. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
2. In ordine al primo motivo, va rilevato
che, secondo giurisprudenza di questa Corte, ormai
consolidata, non può essere attribuito ad un
soggetto per il solo fatto di essere proprietario di
un'area, un dovere di controllo dalla cui violazione
derivi una responsabilità penale per costruzione
abusiva. Il semplice fatto dì essere proprietario o
comproprietario del terreno sul quale vengono svolti
lavori edilizi illeciti, pur potendo costituire un
indizio grave, non è sufficiente da solo ad
affermare la responsabilità penale, essendo
necessario a tal fine, rinvenire elementi in base ai
quali possa ragionevolmente presumersi che egli
abbia in qualche modo concorso anche solo moralmente
con il committente o l'esecutore dei lavori (v.
Cass. Sez. 3, 29/03/2001-Bertin).
Occorre considerare, 'in sostanza, la situazione
concreta in cui si è svolta l'attività incriminata,
tenendo conto non soltanto della piena
disponibilità, giuridica o di fatto, del suolo e
dell'interesse specifico ad effettuare una
costruzione (principio del "cui prodest"), bensì
pure di rapporti di parentela ed affinità tra
l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario,
dell'eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo,
dello svolgimento di attività di materiale vigilanza
dell'esecuzione dei lavori, della richiesta di
provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; del
regime patrimoniale tra coniugi e, in definitiva, di
tutte quelle situazioni e quei comportamenti
positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi
integrativi della colpa e prove circa la
compartecipazione anche morale all'esecuzione delle
opere" (così Cass. pen. Sez. 3 n. 216 del
08/10/2004; conf. Cass. Sez. 3 n. 5476 del
29/04/1999, Zarbo; Cass. Sez. 3 n. 31130 del
10/08/2001, Gagliardi; Cass. Sez. 3, 25/02/2003,
Cafasso ed altro).
La giurisprudenza successiva ha ribadito che in
materia edilizia può essere attribuita al
proprietario, non formalmente committente
dell'opera, la responsabilità per la violazione
dell'art. 44 DPR 380/2001, sulla base di valutazioni
fattuali, quali l'accertamento che questi abiti
nello stesso territorio comunale ove è stata eretta
la costruzione abusiva, che sia stato individuato
sul luogo, che sia destinatario finale dell'opera,
che abbia presentato richieste di provvedimenti
abilitativi anche in sanatoria (cfr. ex multis
cass. pen. sez. 3 n. 9536 del 20/01/2004; Cass. sez.
3, 14/02/2005,Di Marino; Cass. sez. 3 n. 32856 del
13/072005, Farzone).
Più di recente questa Corte, nel richiamare tutti
tali principi, ha sottolineato che "grava inoltre
sull'interessato l'onere di allegare circostanze
utili a convalidare la tesi che, nella specie, si
tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e
senza la sua volontà" (Cass. pen. Sez. 3 n.
25669 del 30/05/2012 che richiama anche Cass. Sez. 3
n. 35907 del 19/09/2008 e tutte le precedenti
pronunce).
2.1. La Corte distrettuale ha fatto corretta
applicazione di tali principi, rilevando, sulla base
di una serie di elementi, che gli imputati fossero
committenti dell'opera realizzata. Che fossero
proprietari del terreno emerge pacificamente, avendo
già il primo giudice accertato che essi avevano
acquistato la titolarità della particella n. 263, su
cui era stata realizzata l'opera, in forza di
contratto di compravendita del 28/07/2004.
Ma, oltre che dalla qualifica formale di
proprietari, la riferibilità dell'opera realizzata è
stata desunta dalla testimonianza Al.Sa. (il quale
riferiva che gli imputati avevano iniziato a
scaricare, sul suolo di loro proprietà, materiale di
risulta, proseguendo nonostante la emissione di tre
ordinanze di rimessione in pristino),
dall'autorizzazione comunale n. 73/2005, rilasciata
ai medesimi imputati, dalla testimonianza dell'ing.
Co., dirigente del settore urbanistica del Comune,
secondo cui il manufatto realizzato era difforme da
quello per cui gli imputati medesimi erano stati
autorizzati.
Non vi è stata, quindi, alcuna inversione dell'onere
della prova, essendosi la Corte territoriale
limitata ad affermare che a, fronte di tali non
equivoci elementi, valutati complessivamente, gli
imputati non avevano neppure negato di avere la
disponibilità di fatto del terreno e neppure
ipotizzato che altri potessero avere a loro insaputa
realizzato l'opera (cfr. la già richiamata sentenza
n. 35907 del 19/09/2008) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.05.2017 n. 22336). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di un muro di recinzione
necessita del previo rilascio del permesso di
costruire allorquando, avuto riguardo alla sua
struttura ed all'estensione dell'area relativa, lo
stesso sia tale da modificare l'assetto del
territorio, così rientrando nel novero degli
interventi di nuova costruzione di cui all'art. 3,
lett. e), DPR 380 del 2001.
---------------
3. La Corte territoriale ha poi correttamente
ritenuto che, per le dimensioni e caratteristiche
del muro di recinzione (lungo circa 70 metri ed alto
circa metri 2,60) fosse necessario il permesso di
costruire.
Infatti la realizzazione di un muro di recinzione
necessita del previo rilascio del permesso di
costruire allorquando, avuto riguardo alla sua
struttura ed all'estensione dell'area relativa, lo
stesso sia tale da modificare l'assetto del
territorio, così rientrando nel novero degli
interventi di nuova costruzione di cui all'art. 3,
lett. e), DPR 380 del 2001 (la fattispecie esaminata
riguardava la realizzazione di un muro alto m. 2,50,
con struttura in blocchi di lapillo e pilastri, in
cemento armato di sostegno, relativo ad un'area di
circa mq. 1200)- cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 4755 del
13112/2007) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.05.2017 n. 22336). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Compete al sindaco, e non alla Giunta Comunale, conferire
al difensore del Comune la procura alle liti.
Nel nuovo ordinamento delle autonomie
locali, competente a conferire al difensore del Comune la
procura alle liti è il Sindaco; la delibera della Giunta
comunale è un atto meramente gestionale e tecnico, privo di
valenza esterna (Cass., Sez. I, 17.05.2007, n. 11516) (Corte
di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 23.03.2016 n. 5802). |
EDILIZIA PRIVATA:
In mancanza di una prova ragionevolmente sicura
circa la realizzazione degli abusi dopo l’entrata in vigore
della legge 06.08.1967 n. 765 (01.09.1967), deve essere
preferita la tesi più favorevole ai privati.
All’epoca il titolo edilizio non era necessario, trattandosi
di area posta all’esterno del centro abitato, e dunque era
ammissibile anche un’edificazione in parte basata su un
titolo edilizio e in parte priva di titolo.
Conseguentemente, non essendovi la possibilità di
individuare un abuso edilizio nel senso attuale del termine,
non è neppure necessaria la procedura di accertamento di
conformità. È invece sufficiente che la DIA sia integrata
con degli elaborati indicanti in modo separato il progetto
assentito dalla licenza edilizia e lo stato di fatto al
termine della prima edificazione. Una volta prodotti questi
elaborati, che hanno lo scopo di completare la
documentazione, gli uffici sono tenuti a riprendere senza
ritardo l’esame del progetto dei nuovi lavori.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
del provvedimento del responsabile dell’Area Gestione
Territorio prot. n. 7919 dell’11.06.2015, con il quale è
stato interrotto il termine di esame della DIA in attesa
della regolarizzazione ex art. 36 del DPR 06.06.2001 n. 380
delle opere realizzate in difformità dalla licenza edilizia
del 24.08.1964;
...
Considerato a un sommario esame:
1. La società ricorrente ha presentato in data 15.05.2015
una DIA per la realizzazione di opere edilizie in un
edificio residenziale situato in via S. Maurizio nel Comune
di Lovere. L’intervento è descritto come manutenzione
straordinaria con frazionamento in due unità immobiliari (in
realtà, si tratta di ristrutturazione).
2. Il Comune, con provvedimento del responsabile dell’Area
Gestione Territorio dell’11.06.2015, ha interrotto il
termine di esame della DIA, in quanto nello stato di fatto
sono presenti opere eseguire in difformità dalla licenza
edilizia del 24.08.1964. Per la prosecuzione della procedura
la ricorrente è stata invitata a chiedere l’accertamento di
conformità ex art. 36 del DPR 06.06.2001 n. 380.
3. La decisione del Comune non appare condivisibile. In
mancanza di una prova ragionevolmente sicura circa la
realizzazione degli abusi dopo l’entrata in vigore della
legge 06.08.1967 n. 765 (01.09.1967), deve essere preferita
la tesi più favorevole ai privati (v. TAR Brescia Sez. II
10.05.2012 n. 825). Nello specifico, è verosimile che i
lavori in difformità siano stati realizzati nel contesto
della prima edificazione, dunque anteriormente alla data che
ha segnato il cambio di regime normativo.
4. All’epoca il titolo edilizio non era necessario,
trattandosi di area posta all’esterno del centro abitato, e
dunque era ammissibile anche un’edificazione in parte basata
su un titolo edilizio e in parte priva di titolo.
5. Conseguentemente, non essendovi la possibilità di
individuare un abuso edilizio nel senso attuale del termine,
non è neppure necessaria la procedura di accertamento di
conformità. È invece sufficiente che la DIA sia integrata
con degli elaborati indicanti in modo separato il progetto
assentito dalla licenza edilizia e lo stato di fatto al
termine della prima edificazione. Una volta prodotti questi
elaborati, che hanno lo scopo di completare la
documentazione, gli uffici sono tenuti a riprendere senza
ritardo l’esame del progetto dei nuovi lavori.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
(a) accoglie la domanda
cautelare, come precisato in motivazione;
(b) fissa la trattazione del merito alla prima udienza pubblica di
dicembre 2017;
(c) compensa le spese della fase cautelare (TAR Lombardia-Brescia,
Sez. I,
ordinanza 23.10.2015 n. 1960 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il d.m. n. 1444/1968 è stato emanato sulla base
della delega contenuta negli ultimi due commi dell’art.
41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, aggiunto
dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765: “In tutti i
Comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli esistenti, debbono
essere osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di
altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti
massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e
produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività
collettive, a verde pubblico o a parcheggi. I limiti e i
rapporti previsti dal precedente comma sono definiti per
zone territoriali omogenee, con decreto del Ministro per i
lavori pubblici di concerto con quello per l’interno,
sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici. In sede
di prima applicazione della presente legge, tale decreto
viene emanato entro sei mesi dall’entrata in vigore della
medesima”.
In coerenza con tali direttive, l’art. 1 del d.m. n.
1444/1968 stabilisce: “Le disposizioni che seguono si
applicano ai nuovi piani regolatori generali e relativi
piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate; ai
nuovi regolamenti edilizi con annesso programma di
fabbricazione e relative lottizzazioni convenzionate; alle
revisioni degli strumenti urbanistici esistenti”.
La giurisprudenza amministrativa, in passato, ha
privilegiato un’interpretazione del citato art. 1 che,
aderendo rigorosamente aderente al suo dato letterale,
conduceva ad escludere che le successive disposizioni dello
stesso d.m. n. 1444 si applicassero direttamente e con
immediata forza precettiva, in assenza della necessaria
mediazione rappresentata dal loro recepimento in uno
strumento urbanistico o in un regolamento edilizio.
Tale impostazione è stata successivamente abbandonata: il
giudice amministrativo d’appello ha precisato che le
disposizioni del d.m. n. 1444 in tema di distanze tra
costruzioni non vincolano solo i Comuni, tenuti ad
adeguarvisi nell’approvazione di nuovi strumenti urbanistici
o nella revisione di quelli esistenti, ma sono
immediatamente operanti nei confronti dei proprietari
frontisti; tale conclusione vale, analogamente, per le
altezze, poiché “scopo delle norme regolamentari concernenti
l’altezza degli edifici non è soltanto la tutela dell’igiene
pubblica, ma, insieme, quella del decoro e dell’indirizzo
urbanistico dell’abitato”.
Le pronunce della Cassazione sono da tempo orientate in modo
univoco ad affermare che il decreto ministeriale in
questione (ascrivibile all’atipica categoria dei regolamenti
delegati o liberi) ha efficacia di legge, cosicché le sue
disposizioni, anche in tema di limiti inderogabili di
altezza dei fabbricati, prevalgono sulle contrastanti
previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si
sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente
loro diretta operatività nei rapporti tra privati (tale
orientamento si è formato sulla scorta della sentenza delle
sezioni unite n. 5889 del 01.07.1997 ed è stato ribadito con
numerose pronunce successive.
---------------
Ritiene il Collegio che le previsioni del d.m. n. 1444 in
tema di altezza massima degli edifici, essendo intese a
definire l’assetto urbanistico dell’abitato secondo canoni
di sostenibilità, esprimano norme di principio cui la
legislazione regionale non può consentire deroghe.
Costituisce una sorta di dimostrazione postuma di tale
assunto l’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, inserito
dall’art. 30, comma 1, lett. Oa), del d.l. 21.06.2013, n.
69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013,
n. 98, secondo cui, “ferma restando la competenza statale in
materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di
proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle
disposizioni integrative, le regioni e le province autonome
di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi
e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del
Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono
dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli
insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli
riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi,
nell’ambito della definizione o revisione di strumenti
urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e
unitario o di specifiche aree territoriali”.
La disposizione citata è rubricata “deroghe in materia di
limiti di distanza tra fabbricati” e, sebbene la rubrica non
abbia pacificamente forza cogente per l’interprete, non si
può tuttavia ritenere che essa sia priva di valore e
significato.
Se ne desume che il legislatore statale ha voluto attribuire
il potere di deroga con esclusivo riguardo ai limiti di
distanze tra fabbricati e non a tutti gli standard
urbanistici, in particolare non con riferimento ai limiti di
altezza dei fabbricati.
Significativa in tal senso è anche la previsione di cui
all’art. 14 del d.P.R. n. 380/2001 che, per gli edifici e
impianti pubblici o di interesse pubblico, prevede che possa
essere rilasciato il permesso di costruire in deroga agli
strumenti urbanistici generali, “fermo restando in ogni caso
il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9
del d.m. 02.04.1968, n. 1444”: se la regola relativa
all’assoluta intangibilità dei limiti massimi di altezza si
impone nel caso degli edifici di proprietà pubblica o di
interesse pubblico, sarebbe ben difficile sostenere che essa
possa essere derogata nel caso di interventi unicamente
riferibili all’iniziativa privata.
---------------
Ha recentemente precisato la giurisprudenza amministrativa
che, laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva
che, in una certa zona di piano, l’altezza massima degli
edifici di nuova costruzione non può superare la media
dell’altezza di quelli preesistenti circostanti, logica
vuole che tale media non può che limitarsi ai soli edifici
limitrofi a quello costruendo, a rischio altrimenti di
svuotare la norma urbanistica di qualunque significato,
mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati
contigui o vicini presentino altezze marcatamente
differenti, considerato, peraltro, che l'assetto edilizio
mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti
in zone di limitata estensione.
Stante l’identità della ratio e della terminologia
utilizzata (“edifici preesistenti e circostanti”), tale
conclusione deve ovviamente ritenersi valida anche nel caso
in cui, come si verifica nella fattispecie, il limite di
altezza degli edifici di una determinata zona di piano non
sia stato direttamente fissato dallo strumento urbanistico,
ma discenda dalla previsione normativa primaria.
---------------
Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, le
previsioni contenute nel secondo e nel terzo comma dell'art.
9 DM 1444/1968 (distanza minima tra fabbricati) si
riferiscono esclusivamente alle zone urbanistiche
contrassegnate come zone C), fattispecie pertanto estranea
all’edificio in esame che rientra nell’ambito della zona
classificata come B).
---------------
2) Con il primo motivo di ricorso, le esponenti
denunciano la violazione del limite di altezza dei
fabbricati previsto dall’art. 8 del d.m. 02.04.1968, n.
1444.
2.1) Tale disposizione prevede che l’altezza massima dei
nuovi edifici compresi nelle zone B) “non può superare
l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti, con la
eccezione di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti
di densità fondiaria di cui all’art. 7”.
E’ incontestato che il costruendo edificio non forma oggetto
di alcun piano particolareggiato o lottizzazione
convenzionata.
Esso avrà un’altezza di gronda pari a 24,85 metri, contro i
13 metri circa dell’edificio preesistente; tutti gli edifici
circostanti, compreso quello delle ricorrenti, non
supererebbero i 12 metri di altezza.
Tale elemento, ad avviso delle esponenti, sarebbe
sufficiente ad inficiare radicalmente l’avversato titolo
edificatorio.
2.2) Le controparti eccepiscono che:
- l’art. 8 del d.m. n. 1444/1968 non detta norme di diretta
applicazione;
- il limite di altezza ivi previsto deve ritenersi comunque
derogato per effetto delle previsioni della legge regionale
ligure sul piano casa;
- la censura è infondata anche sul piano fattuale, poiché
esisterebbe un edificio frontistante (in corso di
ultimazione, ma da ritenersi già esistente in senso sia
giuridico sia materiale) che si svilupperà in altezza per
circa 25 metri.
2.3) Il primo argomento difensivo è volto a
dimostrare l’irrilevanza del citato art. 8 che, ad avviso
delle parti resistenti, detterebbe unicamente norme di
indirizzo per la formazione dei piani urbanistici, quindi
non suscettibili di diretta applicazione qualora non
recepite dal pianificatore comunale, a differenza del
successivo art. 9, in tema di distanze tra edifici, le cui
disposizioni sono intangibili (recte: erano
intangibili prima del d.l. n. 60 del 2013) per effetto del
rinvio dinamico operato dall’art. 873 cod. civ. e
dell’attinenza alla materia di legislazione esclusiva
statale dell’ordinamento civile.
Tale prospettazione non pare condivisibile.
Occorre premettere che il d.m. n. 1444/1968 è stato emanato
sulla base della delega contenuta negli ultimi due commi
dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150,
aggiunto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765: “In
tutti i Comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli esistenti, debbono
essere osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di
altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti
massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e
produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività
collettive, a verde pubblico o a parcheggi.
I limiti e i rapporti previsti dal precedente comma sono
definiti per zone territoriali omogenee, con decreto del
Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per
l’interno, sentito il Consiglio superiore dei lavori
pubblici. In sede di prima applicazione della presente
legge, tale decreto viene emanato entro sei mesi
dall’entrata in vigore della medesima”.
In coerenza con tali direttive, l’art. 1 del d.m. n.
1444/1968 stabilisce: “Le disposizioni che seguono si
applicano ai nuovi piani regolatori generali e relativi
piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate; ai
nuovi regolamenti edilizi con annesso programma di
fabbricazione e relative lottizzazioni convenzionate; alle
revisioni degli strumenti urbanistici esistenti”.
La giurisprudenza amministrativa, in passato, ha
privilegiato un’interpretazione del citato art. 1 che,
aderendo rigorosamente aderente al suo dato letterale,
conduceva ad escludere che le successive disposizioni dello
stesso d.m. n. 1444 si applicassero direttamente e con
immediata forza precettiva, in assenza della necessaria
mediazione rappresentata dal loro recepimento in uno
strumento urbanistico o in un regolamento edilizio (Cons.
Stato, sez. V, 05.11.1999, n. 1841).
Tale impostazione è stata successivamente abbandonata: il
giudice amministrativo d’appello ha precisato che le
disposizioni del d.m. n. 1444 in tema di distanze tra
costruzioni non vincolano solo i Comuni, tenuti ad
adeguarvisi nell’approvazione di nuovi strumenti urbanistici
o nella revisione di quelli esistenti, ma sono
immediatamente operanti nei confronti dei proprietari
frontisti; tale conclusione vale, analogamente, per le
altezze, poiché “scopo delle norme regolamentari
concernenti l’altezza degli edifici non è soltanto la tutela
dell’igiene pubblica, ma, insieme, quella del decoro e
dell’indirizzo urbanistico dell’abitato” (Cons. Stato,
sez. IV, 12.07.2002, n. 3931).
Le pronunce della Cassazione sono da tempo orientate in modo
univoco ad affermare che il decreto ministeriale in
questione (ascrivibile all’atipica categoria dei regolamenti
delegati o liberi) ha efficacia di legge, cosicché le sue
disposizioni, anche in tema di limiti inderogabili di
altezza dei fabbricati, prevalgono sulle contrastanti
previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si
sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente
loro diretta operatività nei rapporti tra privati (tale
orientamento si è formato sulla scorta della sentenza delle
sezioni unite n. 5889 del 01.07.1997 ed è stato ribadito con
numerose pronunce successive: cfr., tra le più recenti,
Cass., sez. II, 14.03.2012, n. 4076 e Cass., sez. un.,
07.07.2011, n. 14953).
Il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi da tale
consolidato orientamento giurisprudenziale, cosicché va
disattesa l’argomentazione inerente alla natura non
immediatamente precettiva e vincolante delle disposizioni
dettate dall’art. 8 del d.m. n. 1444/1968.
2.4) In secondo luogo, le parti resistenti sostengono
che le previsioni del d.m. n. 1444 in tema di altezza
massima degli edifici sarebbero state derogate, in ogni
caso, dalla legge regionale sul piano casa, trattandosi di
fonte normativa che opera nell’ambito della legislazione
concorrente e che consente anche di realizzare interventi
edificatori in deroga alla disciplina dei piani urbanistici
vigenti.
Tale percorso argomentativo può essere così sintetizzato:
poiché la legge regionale n. 49 del 2009 consente di
assentire interventi in deroga alla disciplina degli
strumenti urbanistici vigenti, la deroga riguarderebbe anche
le prescrizioni in tema di altezza degli edifici che, pur
essendo dettate da una norma primaria, eterointegrano in
modo automatico la disciplina di piano.
La ricostruzione suddetta, pur pregevole sul piano logico,
non può tuttavia essere condivisa.
Innanzitutto, i due fenomeni si pongono su piani distinti:
la facoltà di realizzare interventi edificatori in deroga
alle previsioni dei piani regolatori, riconosciuta a
determinate condizioni dalla l.r. n. 49/2009, non implica
che la legge regionale abbia inteso derogare alle
disposizioni statali in tema di standard urbanistici.
In ogni caso, ritiene il Collegio che le previsioni del d.m.
n. 1444 in tema di altezza massima degli edifici, essendo
intese a definire l’assetto urbanistico dell’abitato secondo
canoni di sostenibilità, esprimano norme di principio cui la
legislazione regionale non può consentire deroghe.
Costituisce una sorta di dimostrazione postuma di tale
assunto l’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, inserito
dall’art. 30, comma 1, lett. Oa), del d.l. 21.06.2013, n.
69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013,
n. 98, secondo cui, “ferma restando la competenza statale
in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto
di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle
disposizioni integrative, le regioni e le province autonome
di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi
e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del
Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono
dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli
insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli
riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi,
nell’ambito della definizione o revisione di strumenti
urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e
unitario o di specifiche aree territoriali”.
La disposizione citata è rubricata “deroghe in materia di
limiti di distanza tra fabbricati” e, sebbene la rubrica
non abbia pacificamente forza cogente per l’interprete, non
si può tuttavia ritenere che essa sia priva di valore e
significato.
Se ne desume che il legislatore statale ha voluto attribuire
il potere di deroga con esclusivo riguardo ai limiti di
distanze tra fabbricati e non a tutti gli standard
urbanistici, in particolare non con riferimento ai limiti di
altezza dei fabbricati.
Significativa in tal senso è anche la previsione di cui
all’art. 14 del d.P.R. n. 380/2001 che, per gli edifici e
impianti pubblici o di interesse pubblico, prevede che possa
essere rilasciato il permesso di costruire in deroga agli
strumenti urbanistici generali, “fermo restando in ogni
caso il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7,
8 e 9 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444”: se
la regola relativa all’assoluta intangibilità dei limiti
massimi di altezza si impone nel caso degli edifici di
proprietà pubblica o di interesse pubblico, sarebbe ben
difficile sostenere che essa possa essere derogata nel caso
di interventi unicamente riferibili all’iniziativa privata.
Infine, occorre anche sottolineare come la legge regionale
ligure sul piano casa, qualora interpretata nel senso
suggerito dalle parti resistenti, si esporrebbe a rilevanti
sospetti di illegittimità costituzionale, consentendo ai
Comuni di derogare ai limiti di altezza previsti dalla fonte
primaria statale, non in funzione di una conformazione
omogenea dell’assetto urbanistico di una specifica zona del
proprio territorio, ma con riferimento ai singoli edifici
che versino nelle condizioni per beneficiare delle
possibilità straordinarie di intervento accordate dalla
stessa legge regionale.
L’interpretazione costituzionalmente orientata della legge
regionale induce ad escludere, pertanto, che essa possa
condurre all’attuazione di soluzioni derogatorie ex se non
idonee a garantire l’ordinato assetto del territorio.
2.5) La terza e ultima eccezione si colloca sul piano
fattuale: la difesa del controinteressato nega che
l’edificio in progetto avrà un’altezza superiore a quella
degli stabili circostanti, poiché in prossimità dello stesso
si sta ultimando la costruzione di un altro immobile,
appartenente alla G.S. Costruzioni S.r.l., che si svilupperà
su otto piani fuori terra, con un’altezza complessiva di
circa 25 metri.
La parte ricorrente contrasta tale rilievo con variegati
argomenti, tra cui assume particolare rilievo quello
inerente alla reale natura del menzionato fabbricato di
G.S.Co. che, a suo avviso, non sarebbe affatto unitaria,
essendo lo stesso costituito da due distinti corpi di
fabbrica aventi diversa altezza: poiché il corpo di fabbrica
più vicino all’edificio in progetto ha un’altezza di soli 15
metri circa, esso non varrebbe, pertanto, a “legittimare”
la contestata iniziativa edificatoria.
Si impone un chiarimento.
Ha recentemente precisato la giurisprudenza amministrativa
che, laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva
che, in una certa zona di piano, l’altezza massima degli
edifici di nuova costruzione non può superare la media
dell’altezza di quelli preesistenti circostanti, logica
vuole che tale media non può che limitarsi ai soli edifici
limitrofi a quello costruendo, a rischio altrimenti di
svuotare la norma urbanistica di qualunque significato,
mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati
contigui o vicini presentino altezze marcatamente
differenti, considerato, peraltro, che l'assetto edilizio
mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti
in zone di limitata estensione (Cons. Stato, sez. IV,
09.02.2014, n. 4553).
Stante l’identità della ratio e della terminologia
utilizzata (“edifici preesistenti e circostanti”),
tale conclusione deve ovviamente ritenersi valida anche nel
caso in cui, come si verifica nella fattispecie, il limite
di altezza degli edifici di una determinata zona di piano
non sia stato direttamente fissato dallo strumento
urbanistico, ma discenda dalla previsione normativa
primaria.
Tanto precisato, si tratta quindi di accertare se l’edificio
di G.S.Co., effettivamente assentito prima di
quello del controinteressato e prossimo all’ultimazione,
debba o meno essere considerato limitrofo a quest’ultimo
(potendo solo nel primo caso essere validamente assunto
quale parametro di riferimento per la determinazione
dell’altezza massima).
Come già accennato, la parte ricorrente sostiene che si
tratti, in realtà, di due edifici o corpi di fabbrica
distinti, il più alto dei quali non può essere considerato
limitrofo o immediatamente circostante il fabbricato in
progetto, poiché tra di esso e l’edificio del
controinteressato si interpone l’edificio o corpo di
fabbrica più basso.
La difesa di controparte sostiene, invece, che lo stabile di
G.S.Co. costituisce un edificio unico dal punto di vista
formale (poiché assentito con un solo permesso di costruire)
e sostanziale (stante l’unitarietà della struttura
fondazionale e l’assenza di divisioni interne ed esterne).
Si rileva, innanzitutto, che anche la struttura o corpo di
fabbrica più alto del fabbricato di G.S.Co. sarebbe
pur sempre meno elevato di quello in contestazione (24,25
metri contro 24,85 metri).
A prescindere da tale rilievo, la documentazione acquisita
in sede istruttoria conferma che la ricostruzione di parte
ricorrente è conforme alla realtà fattuale.
L’intervento di ristrutturazione edilizia mediante
demolizione, ricostruzione e ampliamento del preesistente
fabbricato di proprietà della G.S.Co. S.r.l., infatti, è
stato assentito mediante permesso di costruire prot. n.
1.476 del 03.02.2011 (prat. ed. n. 137/2010), in atti, la
cui rubrica fa riferimento alla “realizzazione di numero due
nuovi fabbricati ad uso residenziale”.
Nel preambolo e nel dispositivo dello stesso titolo
abilitativo, si ribadisce che l’intervento edificatorio
riguarda la “realizzazione di due nuovi fabbricati ad uso
residenziale denominati rispettivamente ‘casa A’, articolata
su n. 6 livelli oltre al piano terra ad uso commerciale e
comprendente n. 34 alloggi, e ‘casa B’, articolata su n. 8
livelli comprendente n. 16 alloggi”.
Posto che la dimensione dell’intervento è stata
successivamente ridefinita in diminuzione con permesso di
costruire in variante n. 2 del 2013 (riducendo il numero dei
piani e l’altezza della “casa A”), si rileva come la stessa
formulazione testuale del titolo edilizio rilasciato dal
Comune di Loano confermi che il progetto di G.S.Co.
avesse ad oggetto la realizzazione di due distinti edifici.
Per la determinazione dell’altezza massima dei nuovi edifici
realizzabili nella zona urbanistica di riferimento, si deve
prendere in considerazione il fabbricato denominato “casa
A”, interposto fra l’edificio di proprietà del signor Mu. e
la “casa B”, che, essendo certamente più basso dell’edificio
in progetto, non può quindi valere a legittimare
l’iniziativa edificatoria in contestazione.
2.6) In definitiva, il primo motivo di ricorso è fondato,
poiché l’edificio in progetto avrà un’altezza assai maggiore
di tutti gli edifici immediatamente circostanti, compreso
quello limitrofo di G.S.Co.: tale circostanza concreta la
violazione dei limiti di altezza fissati dall’art. 8 del
d.m. n. 1444/1968 per i nuovi edifici ricadenti nelle zone
urbanistiche di tipo B).
3) E’ infondato, invece, il secondo motivo di
ricorso, relativo alla violazione delle distanze minime tra
fabbricati previste dall’art. 9, secondo e terzo comma, del
d.m. n. 1444/1968.
Il nuovo permesso di costruire rilasciato a seguito
dell’annullamento giurisdizionale del precedente, infatti, è
conforme al limite di distanza di 10 metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti, previsto dal
primo comma del citato art. 9, ma non rispetterebbe le
distanze minime previste dai commi successivi i quali
stabiliscono: “Le distanze minime tra fabbricati -tra i
quali siano interposte strade destinate al traffico dei
veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al
servizio di singoli edifici o di insediamenti)- debbono
corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata
di:
- ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
- ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra
ml. 7 e ml. 15;
- ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml.
15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate,
risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le
distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura
corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze
inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso
di gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”.
Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, dal
quale il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, le
previsioni contenute nel secondo e nel terzo comma del
citato art. 9 si riferiscono esclusivamente, però, alle zone
urbanistiche contrassegnate come zone C), fattispecie
pertanto estranea all’edificio in esame che rientra
nell’ambito della zona classificata come B) (cfr., fra le
più recenti, TAR Veneto, sez. II, 20.03.2014, n. 364 e TAR
Piemonte, sez. I, 12.01.2012, n. 17)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 17.09.2015 n. 743 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per le costruzioni eseguite in epoca antecedente
al 1942, la libertà di costruire è stata affermata dalla
giurisprudenza amministrativa limitatamente alle “zone agricole”.
Diversamente l’edificabilità nei centri abitati è stata
assoggettata a strumenti di pianificazione e/o disposizioni
regolamentari sin dalla legislazione unitaria fondamentale
del 1865, sicché da quell’epoca in poi, all’interno dei
centri abitati, lo jus aedificandi non poteva certo
considerarsi libero ed illimitato ma doveva pur sempre
trovare esplicazione entro i limiti imposti dagli strumenti
conformativi esistenti. Si è altresì chiarito che, in
seguito alla introduzione con d.m. 02.04.1968 degli
standards di edificabilità delle aree, le costruzioni
preesistenti al 1942 -erette senza il titolo abilitativo
successivamente prescritto- concorrono senza dubbio a
formare la “densità territoriale” omogenea di zona ed il
carico di edificazione che può gravare sulla stessa zona.
Diversamente, ai fini del calcolo della “densità fondiaria”
ossia del volume massimo consentito all’interno di un’area
edificatoria secondo l’indice di fabbricabilità applicabile,
la volumetria massima assentibile va computata tenendo conto
del dato reale, ossia della condizione in cui versano gli
immobili preesistenti e delle “relazioni che intrattengono
con l’ambiente circostante in virtù del complesso di effetti
riconducibili ad atti di soggetti pubblici e privati nonché
a fatti della più varia natura, ma idonei, in ogni caso, ad
incidere sull’edificabilità” .
Di qui consegue che, sebbene la tecnica dell’asservimento
abbia trovato la propria ragion d’essere e si sia sviluppata
dopo l’introduzione di limiti inderogabili di densità
edilizia di cui alla legge n. 765/1967, ciò non toglie che,
per le fattispecie perfezionatesi anteriormente, possano
comunque individuarsi delle fattispecie negoziali atipiche
ad effetti obbligatori in tutto equiparabili ad un
asservimento, in quanto idonee a realizzare una specie
particolare di relazione pertinenziale nella quale la
qualità edificatoria di un fondo viene posta durevolmente a
servizio di un altro fondo.
E per questa ragione l’Adunanza Plenaria conclude nel senso
che relazioni pertinenziali rilevanti, ai fini del calcolo
della volumetria assentibile, possano essersi determinate
anche prima della entrata in vigore della normativa di cui
alla legge n. 765/1967 e del d.m. n. 1444/1968, introduttivi
di limiti inderogabili di densità edilizia, “in ragione
della obiettiva destinazione e configurazione dei fondi
effettuata da chi ne aveva la disponibilità”.
---------------
1.2 L’assunto fatto proprio dal comune e dal
controinteressato non può ritenersi condivisibile ad avviso
del Collegio.
La questione di diritto sottesa al presente giudizio
relativa alla computabilità, ai fini della volumetria
assentibile con il rilascio di un nuovo permesso di
costruire, dei fabbricati preesistenti, in specie edificati
prima della legge n. 1150/1942, deve essere risolta alla
luce della più recente pronuncia n. 3 del 23.04.2009 della
Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato chiamata a
pronunciarsi su un caso analogo al presente.
Ivi la questione della computabilità, ai fini del rilascio
di un nuovo permesso di costruire, dei fabbricati
preesistenti alla legge n. 1150 cit., è stata esaminata e
risolta prescindendo dal dato cronologico relativo all’epoca
di edificazione dell’edificio, ma valorizzando la situazione
reale dell’immobile preesistente e dell’area ad esso annessa
nella sua complessità con riferimento alle vicende
giuridiche che nel tempo l’hanno caratterizzata. Ciò in ogni
caso partendo dal presupposto della non decisività ai fini
della questione sottoposta, del mero dato cronologico della
preesistenza di un fabbricato rispetto alla normativa che
nel 1942 ha imposto l’obbligo di dotarsi di licenza di
costruzione.
1.3 L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha
innanzitutto chiarito che, per le costruzioni eseguite in
epoca antecedente al 1942, la libertà di costruire è stata
affermata dalla giurisprudenza amministrativa limitatamente
alle “zone agricole”.
Diversamente l’edificabilità nei centri abitati è stata
assoggettata a strumenti di pianificazione e/o disposizioni
regolamentari sin dalla legislazione unitaria fondamentale
del 1865, sicché da quell’epoca in poi, all’interno dei
centri abitati, lo jus aedificandi non poteva certo
considerarsi libero ed illimitato ma doveva pur sempre
trovare esplicazione entro i limiti imposti dagli strumenti
conformativi esistenti. Si è altresì chiarito che, in
seguito alla introduzione con d.m. 02.04.1968 degli
standards di edificabilità delle aree, le costruzioni
preesistenti al 1942 -erette senza il titolo abilitativo
successivamente prescritto- concorrono senza dubbio a
formare la “densità territoriale” omogenea di zona ed il
carico di edificazione che può gravare sulla stessa zona.
Diversamente, ai fini del calcolo della “densità fondiaria”
ossia del volume massimo consentito all’interno di un’area
edificatoria secondo l’indice di fabbricabilità applicabile,
la volumetria massima assentibile va computata tenendo conto
del dato reale, ossia della condizione in cui versano gli
immobili preesistenti e delle “relazioni che intrattengono
con l’ambiente circostante in virtù del complesso di effetti
riconducibili ad atti di soggetti pubblici e privati nonché
a fatti della più varia natura, ma idonei, in ogni caso, ad
incidere sull’edificabilità” .
Di qui consegue che, sebbene la tecnica dell’asservimento
abbia trovato la propria ragion d’essere e si sia sviluppata
dopo l’introduzione di limiti inderogabili di densità
edilizia di cui alla legge n. 765/1967, ciò non toglie che,
per le fattispecie perfezionatesi anteriormente, possano
comunque individuarsi delle fattispecie negoziali atipiche
ad effetti obbligatori in tutto equiparabili ad un
asservimento, in quanto idonee a realizzare una specie
particolare di relazione pertinenziale nella quale la
qualità edificatoria di un fondo viene posta durevolmente a
servizio di un altro fondo.
E per questa ragione l’Adunanza Plenaria conclude nel senso
che relazioni pertinenziali rilevanti, ai fini del calcolo
della volumetria assentibile, possano essersi determinate
anche prima della entrata in vigore della normativa di cui
alla legge n. 765/1967 e del d.m. n. 1444/1968, introduttivi
di limiti inderogabili di densità edilizia, “in ragione
della obiettiva destinazione e configurazione dei fondi
effettuata da chi ne aveva la disponibilità”
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 08.07.2009 n. 3821 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 09.04.2018 |
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GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
07.04.2018 n. 81 "Rilevazione
dei prezzi medi per l’anno 2016 e delle variazioni
percentuali annuali, in aumento o in diminuzione, superiori
al dieci per cento, relative all’anno 2017, ai fini della
determinazione delle compensazioni dei singoli prezzi dei
materiali da costruzione più significativi" (Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 27.03.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
07.04.2018 n. 81 "Approvazione del glossario contenente
l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie
realizzabili in regime di attività edilizia libera, ai sensi
dell’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo
25.11.2016, n. 222"
(Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 02.03.2018).
---------------
Per una migliore intelligibilità delle n. 58 opere elencate
nel suddetto DM, si leggano gli
artt. 6 e 3 del DPR n. 380/2001 integrati con le medesime. |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
V. Neri,
Note minime sulla disapplicazione delle linee guida ANAC da
parte del giudice amministrativo e sulla rilevanza penale
della loro violazione (06.04.2018 - tratto
da www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
C. Contessa,
L’autotutela amministrativa all’indomani della ‘legge Madia’
(04.04.2018 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Inquadramento della questione - 2. Le
forme e i modi dell’autotutela - 3. Le ipotesi normative di
riesame in autotutela con esito demolitorio: l’annullamento
d’ufficio e la revoca - 4. L’autotutela e i rapporti con la
SCIA e la nuova conferenza di servizi - 5. Questioni ancora
aperte e nuovi profili problematici – 6. La questione
dell’autotutela in materia edilizia: l’Ad. Plen. 8 del 2017. |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
OGGETTO: Trasporto dei rifiuti non pericolosi di metalli
ferrosi e non ferrosi (Ministero dell'Interno,
nota 30.03.2018 n.
300/A/2667/18/105/14/2 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO:
Le nuove Norme Tecniche per le
Costruzioni (NTC 2018) e gli edifici scolastici
(ANCI, 28.03.2018). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI:
Pagamento fornitori fatture sopra soglia.
Domanda
Abbiamo un dubbio relativi alle verifiche da effettuare
prima di procedere al pagamento di fornitori per fatture di
importo superiore a 5.000 €: un fornitore (risultato
inadempiente) ci ha contestato una verifica fatta su un
totale fattura di 5.490 € in quanto da lui ritenuta sotto
soglia; oltre a ciò lo stesso lamenta che per la sanzione
per cui è risultato inadempiente gli fosse già stato imposto
il fermo amministrativo su un mezzo.
Quale sarebbe stato il comportamento corretto da tenere in
questo caso?
Risposta
L’abbassamento da 10.000 € a 5.000 € della soglia per la
verifica (prevista dall’articolo 48-bis del d.p.r. 602/1973)
di eventuali inadempienze all’obbligo di versamento
derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento
da parte di fornitori a decorrere dal 1 marzo scorso sta
notevolmente incrementando le situazioni particolari da
affrontare. Ad entrambi i dubbi dell’ente, in ogni caso, ha
dato risposta la recente circolare della Ragioneria Generale
dello Stato n. 13 del 21.03.2018.
Quanto alla prima parte del quesito la citata circolare ha
previsto che, allorquando soggette al regime della scissione
dei pagamenti, ai fini dell’individuazione della soglia le
amministrazioni non dovranno considerare l’IVA, bensì
dovranno tener conto soltanto di quanto effettivamente
spettante in via diretta al proprio fornitore, ovvero
dell’importo al netto dell’IVA. Nel quesito il comune
rappresenta che il totale fattura ammonta a 5.490 €,
pertanto –ipotizzando un’aliquota IVA del 22%– la stessa è
composta da un imponibile (ovvero dell’importo spettante al
fornitore) di € 4.500 ed un’IVA soggetta a Split Payment di
990 €. Ciò detto si ritiene che il pagamento non fosse da
assoggettare a verifica.
Quanto invece alla seconda parte a nulla rileva che, per il
recupero della medesima sanzione, fosse già stato disposto
anche il fermo amministrativo su un mezzo del fornitore. La
circolare chiarisce infatti che fermo amministrativo e
verifica disciplinata dall’articolo 48-bis del D.P.R. n.
602/1973 costituiscono … istituti aventi un diverso raggio
d’azione e diversi presupposti e finalità, benché possano
risultare, in qualche misura, complementari tra loro
(Cassazione, sez. 5, ordinanza n. 15017 del 16.06.2017).
Ovviamente una volta saldato l’intero debito per cui è stato
iscritto il fermo (ad esempio attraverso versamento fatto
dall’Ente), il fornitore potrà richiedere la cancellazione
del fermo (09.04.2018 - link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
permesso di costruire in sanatoria – immobile in
comproprietà – necessità del consenso di tutti i
comproprietari per il rilascio del titolo abilitativo
richiesto – parere
(Legali Associati per Celva,
nota
06.04.2018 - tratto da www.celva.it).
---------------
Problema riscontrato: Il Comune di Ayas ha
ricevuto una domanda di Permesso di Costruire in sanatoria
per opere di risanamento e rimodellazione di giardino a
servizio di edificio esistente, in seguito all’esecuzione di
opere di sostituzione della fognatura gravemente
danneggiata. Le opere erano state eseguite senza alcun
titolo autorizzativo.
A seguito dell’istruttoria eseguita dall’Ufficio tecnico
comunale si è verificato che detto terreno non appartiene in
modo esclusivo al richiedente ma anche ad altri intestatari
che non risultano presenti nella richiesta.
Al fine del rilascio del provvedimento , quindi, è stato
richiesto di integrare la domanda con la firma di tutti i
comproprietari.
In data 22/01/2018 è pervenuta una lettera da parte di un
comproprietario non richiedente la sanatoria che specifica
che “...declina ogni responsabilità riguardo alle opere
eseguite su detta corte in quanto del tutto estranea ai
lavori per i quali è stata richiesta sanatoria. Ella , non
ha conoscenza degli interventi effettivamente eseguiti sulla
corte in questione , non li ha autorizzati e non ha
incaricato né un professionista né un impresa ad eseguirli.
E’ stata inoltre avvisata delle richiesta di sanatoria solo
a posteriori ….. Si riserva di adire le vie legali nel caso
se ne presentasse l’esigenza.”
Riferimenti normativi: Codice civile; Art. 1102 del
codice civile; Ordinanza della Cassazione Sez. VI n. 5729
del 23/03/2015; Sentenza TAR Molise n. 101 del 19/03/2008,
Sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV n. 3823 del
07/09/2016
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Nessuna
Quesiti: Con la presente si richiede se il Comune sia
tenuto a richiedere la condivisione della domanda da parte
di tutti i comproprietari oppure possa rilasciare il titolo
abilitativo in sanatoria al solo richiedente
comproprietario. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Conviventi di fatto e permessi legge 104-1992.
Domanda
Una coppia di
residenti del nostro comune iscritti in anagrafe come “conviventi
di fatto”, ci chiede se in questo caso c’è la
possibilità di usufruire dei permessi previsti dalla l.
104/1992, essendo una delle parti affetta da disabilità
grave.
Risposta
La questione è stata prevista dalla Circolare INPS n. 38 del
27.02.2017, avente ad oggetto “Unioni civili e convivenze
di fatto. Legge 20.05.2016, n. 76 e Sentenza della Corte
Costituzionale n. 213 del 05.07.2016. Effetti sulla
concessione dei permessi ex lege n. 104/92 e del congedo
straordinario ex art. 42, comma 5, D.Lgs.151/2001 ai
lavoratori dipendenti del settore privato“.
La l. 76/2016 ha disciplinato le unioni civili tra persone
dello stesso sesso e le convivenze di fatto prevedendo, tra
l’altro, che “le disposizioni che si riferiscono al
matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge»,
«coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle
leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti
nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi,
si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile
tra persone dello stesso sesso”.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 213 del
05.07.2016, inoltre, ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 33, comma 3, della l. 104/1992
nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti
legittimati a fruire dei permessi ex art. 33, comma 3, della
l. 104/1992.
Secondo tale circolare, pertanto, i permessi previsti dalla
l. 104/1992 sono da estendere anche al componente
dell’unione civile e al convivente di fatto.
In particolare, la circolare evidenzia che:
1. la parte di una unione civile, che presti assistenza all’altra
parte, può usufruire di:
– permessi previsti dalla l. 104/1992;
– congedo straordinario ex art. 42, comma 5, del d.lgs.
151/2001.
2. il convivente di fatto di cui ai commi 36 e 37, dell’art. 1,
della l. 76/2016, che presti assistenza all’altro
convivente, può usufruire unicamente dei permessi previsti
dalla l. 104/1992.
Per la definizione del concetto di “convivente” è
necessario fare riferimento alla “convivenza di fatto”
prevista dal comma 36, dell’art. 1, della l. 76/2016 in base
al quale “per convivenza di fatto si intendono due persone
maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia
e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate
da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio
o da unione civile” e accertata ai sensi del comma 37, il
quale prevede che, ferma restando la sussistenza dei
presupposti di cui al comma 36, per l’accertamento della
stabile convivenza deve farsi riferimento alla dichiarazione
anagrafica di cui all’art. 4 e alla lett. b) del comma 1
art. 13 del regolamento anagrafico di cui al d.p.r. 223/1989
(quindi, il riferimento è al convivente di fatto registrato
in anagrafe) (06.04.2018 - link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Nuovo CCNL e permessi per lutto convivente.
Domanda
I permessi per lutto potranno ancora essere chiesti per il
convivente inteso in senso ampio?
Risposta
L’art. 31 del contratto in arrivo contiene le nuove regole
e, dal giorno successivo alla data della stipulazione
definitiva, saranno disapplicati sia l’art. 19 del CCNL del
06.07.1995, che l’art. 18 del CCNL del 14.09.2000, norme che
ad oggi contengono la disciplina dei permessi per lutto.
In particolare, va osservato che l’art. 18 del CCNL del
14.09.2000 aveva esteso la previsione anche al convivente,
che poteva quindi chiedere di fruire dei tre giorni di
permesso nel caso in cui incorresse nella sfortunata ipotesi
di vedere passare a miglior vita il proprio convivente
appunto.
Il contratto aveva precisato che la stabile convivenza
doveva essere accertata sulla base della certificazione
anagrafica presentata dal dipendente.
A conferma che l’accezione del termine convivente doveva
essere intesa nel senso più ampio, è arrivato anche un
parere dell’ARAN nel maggio 2016, dove l’Agenzia ha
precisato che il termine convivente non doveva essere inteso
in senso stretto, come concernente cioè la sola fattispecie
del compagno/compagna conviventi more uxorio con il
dipendete, ma in senso ampio, nel senso di ricomprendervi
anche i casi di convivenza di un qualsiasi componente la
famiglia anagrafica del dipendente stesso, a prescindere
quindi dalla relazione affettiva intercorrente tra i
soggetti.
La nuova disciplina invece, indica quale soggetto
legittimato, il convivente ai sensi dell’art. 1, commi 36 e
50 della l. 76/2016.
Il riferimento è alla legge di disciplina delle unioni
civili e delle convivenze e, nello specifico, il comma 36
dell’art. 1, declina i “conviventi di fatto” come due
persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di
coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non
vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da
matrimonio o da un’unione civile.
La relazione affettiva di coppia sembra evidentemente
prevalere sull’ambito della famiglia anagrafica, escludendo
in questo modo dalla previsione contrattuale, le convivenze
intese in senso ampio come in precedenza declinate.
Dunque, i riferimenti contenuti nella nuova disciplina
contrattuale fanno propendere per una risposta negativa al
quesito, anche se l’art. 1, comma 50, della l. 76/2016,
ripreso dal contratto, rinvia alla possibilità, esercitabile
dai conviventi di fatto, di disciplinare i rapporti
patrimoniali relativi alla loro vita in comune, attraverso
la sottoscrizione di un contratto di convivenza (05.04.2018
- link a www.publika.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Raggruppamento e servizi svolti.
Domanda
Nel caso di gare di progettazione come possono essere
richiesti i requisiti di partecipazione, in particolare
quelli che attengono all’avvenuto espletamento dei servizi
svolti, anche di “punta” nel caso di raggruppamenti?
Risposta
Le linee guida n. 1 di attuazione del d.lgs. 18.04.2016 n.
50 “Indirizzi generali sull’affidamento dei servizi
attinenti all’architettura e all’ingegneria” approvate
dal Consiglio dell’Autorità con delibera n. 973 del
14.09.2016 e aggiornate al d.lgs. 56/2017 con delibera del
Consiglio dell’Autorità n. 138 del 21.02.2018 definiscono al
paragrafo 2.2.2 i requisiti di partecipazione, tra cui
rientrano i servizi svolti, anche c.d. “di punta”.
Preliminarmente occorre individuare l’oggetto
dell’affidamento. Sul punto l’ANAC è più volte intervenuta
affermando che nei bandi ed avvisi per l’affidamento di
servizi di architettura ed ingegneria, all’onere di
specificazione dell’attività principale e delle attività
secondarie può assolversi anche mediante la mera
individuazione delle classi e categorie di progettazione,
con i relativi importi (delibera n. 431 del 24.04.2017).
All’art. 5 delle sopra citate linee guida, rubricato “Classi,
categorie e tariffe professionali” l’Autorità fornisce
delle indicazioni sulla classificazione delle prestazioni, e
sull’elasticità nella valutazione del possesso dei
requisiti.
Con riferimento alla partecipazione dei raggruppamenti le
linee guida si limitano ad affermare che i requisiti
finanziari e tecnici di cui al paragrafo 2.2.2 devono essere
posseduti cumulativamente dal raggruppamento, senza
specificare se il possesso del requisito debba essere
limitato ai lavori della classificazione prevalente per
importo, o estesa a tutte le lavorazioni.
In particolare, si ritiene che il requisito di
partecipazione di cui al sopra citato quesito, debba essere
differentemente disciplinato a seconda che si faccia
riferimento a raggruppamenti di tipo orizzontale, oppure
verticale. Pertanto:
1. nel caso di raggruppamenti di tipo orizzontale:
• requisito di cui al punto 2.2.2.1 lett. b): Il requisito
deve essere posseduto dal raggruppamento nel suo complesso.
Tutti gli operatori riuniti devono essere qualificati in
ognuna delle prestazioni previste (principale e secondarie).
Il mandatario in ogni classe e categoria deve possedere ed
eseguire il rispettivo requisito in misura percentuale
superiore ed il o i mandanti in ogni classe e categoria
devono possedere cumulativamente il rispettivo requisito
nella restante percentuale;
• requisito di cui al punto 2.2.2.1 lett. c): deve essere
posseduto per intero dalla mandataria che esegue in misura
maggioritaria (requisito non frazionabile);
2. nel caso di raggruppamento di tipo verticale:
• requisiti di cui al punto 2.2.2.1 lett. b e c): devono
essere posseduti dal raggruppamento nel suo complesso. Il
mandatario deve possedere il requisito nella percentuale del
100% con riferimento alla prestazione principale ed ogni
mandante deve possedere i requisiti nella percentuale del
100% con riferimento alla classe e categoria della
prestazione secondaria (04.04.2018 - link a
www.publika.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Straordinari elettorali e adempimenti trasparenza.
Domanda
Il nostro ente
deve procedere alla liquidazione dei compensi per lavoro
straordinario per consultazione elettorale. Quali obblighi
di pubblicazione dobbiamo rispettare, ai sensi del d.lgs.
33/2013?
Risposta
Il decreto Trasparenza (d.lgs. 33/2013) non prevede nessun
obbligo di pubblicazione nella sezione Amministrazione
trasparente per ciò che concerne la liquidazione del
trattamento accessorio dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni, tra cui figura anche il lavoro
straordinario. Gli obblighi per la pubblicazione dei dati
sui trattamenti economici riguardano altre categorie di
soggetti tra i quali compaiono gli amministratori dell’ente
(art. 14, comma 1), i collaboratori e consulenti (art. 15,
comma 1), i dipendenti per gli incarichi extra-istituzionali
conferiti o autorizzati dalla propria amministrazione (art.
18).
Per i dirigenti apicali, i dirigenti non apicali e le
posizioni organizzative, titolari di funzioni dirigenziali,
l’iniziale obbligo –previsto dal riscritto art. 14 del
d.lgs. 33/2013– risulta attualmente sospeso, in attesa della
pronuncia della Corte Costituzionale, come da delibere ANAC
n. 241 del 08.03.2017 e n. 382 del 12.04.2017, nonché
Comunicato del Presidente del 07.03.2018.
Escluse queste figure, il trattamento economico del
personale dipendente viene menzionato nell’art. 20, del
d.lgs. 33/2013, specificando che vanno pubblicati (comma 1)
“i dati relativi all’ammontare complessivo dei premi
collegati alla performance stanziati e l’ammontare dei premi
effettivamente distribuiti” e (comma 2) “i criteri
definiti nei sistemi di misurazione e valutazione della
performance per l’assegnazione del trattamento accessorio e
i dati relativi alla sua distribuzione, in forma aggregata,
al fine di dare conto del livello di selettività utilizzato
nella distribuzione dei premi e degli incentivi”.
Chiarito che, per le norme sulla trasparenza, non si ravvisa
alcun obbligo, resta da capire come deve essere redatto
l’atto per poter liquidare l’importo dovuto a ciascun
dipendente per il lavoro straordinario, svolto in occasione
delle consultazioni elettorali.
Ipotizzando che si debba procedere con una determinazione
dirigenziale –adottata dal responsabile del servizio
elettorale– da pubblicare su Albo pretorio online, è
consigliabile che, nel testo dell’atto, venga inserita
solamente la cifra complessiva da liquidare, dando atto che
l’elenco dei singoli dipendenti, le ore di lavoro
straordinario da ciascuno effettuate, le relative tariffe
orarie e il totale della somma dovuta da ciascun dipendente,
sia riportato in un documento collegato alla determinazione
dirigenziale depositato (e non allegato) presso l’ufficio
elettorale e l’ufficio personale.
In sede di rendicontazione delle spese sostenute, da
trasmettere alla Prefettura territorialmente competente, per
la parte che riguarda il personale dipendente comunale,
dovrà essere trasmessa la seguente documentazione:
• determinazione di costituzione dell’ufficio elettorale e
autorizzazione allo svolgimento di lavoro straordinario;
• determinazione di liquidazione dei compensi (con la sola somma
complessiva);
• elenco dettagliato, collegato alla determina di liquidazione,
depositato presso la competente struttura comunale con la
distinta dei singoli dati (tabella) (03.04.2018 -
link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito al rapporto tra agibilità e conformità
edilizia di un immobile – Comune di Fara in Sabina (Regione Lazio,
nota
29.03.2018 n. 186215 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
immobile realizzato in area sottoposta a vincolo
paesaggistico in assenza di titolo – accertamento positivo
di compatibilità – istanza di rilascio concessione in
sanatoria con mutamento della destinazione d’uso –
provvedimenti consequenziali in capo all’Ente locale –
parere (Legali Associati per Celva,
nota 28.03.2018 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: In data 21.03.1986 il
proprietario di un immobile rurale, realizzato abusivamente
in area sottoposta a vincolo paesaggistico, presenta una
richiesta di condono ai sensi della legge n. 47 del
28.02.1985. L’amministrazione comunale non rilascia il
condono poiché la Soprintendenza si esprime con parere
negativo con provvedimento n. 9923/TP del 20.05.2002 (in
allegato).
I nuovi proprietari dell’immobile, in data 13.07.2017,
presentano presso la Soprintendenza domanda di accertamento
della compatibilità paesaggistica proponendo, questa volta,
sulla base delle motivazioni del provvedimento di diniego
del 2002, il recupero del fabbricato con intervento di
adeguamento e rimozione delle superfetazioni. Tuttavia il
recupero del fabbricato prevede la demolizione, la
ricostruzione e il contestuale cambio di destinazione d’uso
(da agro-silvo-pastorale ad abitazione temporanea).
La struttura regionale preposta alla tutela del vincolo,
riesaminato il caso in questione, si esprime ‘con parere
favorevole al mantenimento in opera di quanto realizzato e
dispone la realizzazione degli interventi di adeguamento e
rimozione delle superfetazioni di cui agli allegati
elaborati progettuali, da ultimarsi nel termine di otto mesi
dalla data di notifica” (nota n. 825/TP del 07.08.2018 in
allegato).
Riferimenti normativi: .
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: .
Quesiti: L’Amministrazione comunale chiede come
procedere al fine di consentire la realizzazione delle
disposizioni impartite dalla Soprintendenza, tenuto conto
che le stesse si inseriscono nel procedimento di condono
edilizio del 1986 col quale si chiedeva solo di
regolarizzare un manufatto rurale abusivo, e come consentire
il contestuale cambio di destinazione d’uso, tenuto conto
dell’imprescindibile unitarietà dell’intervento proposto e
dell’onerosità dello stesso. |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
permesso di costruire – ristrutturazione e aumento
volumetrico – zona Ba17 del PRGC – l.r. n. 24/2009 (cd.
Piano casa) – distanze legali tra costruzioni – parere
(Legali Associati per Celva,
nota
28.03.2018 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Al protocollo del comune è
pervenuta una pratica edilizia, tendente al rilascio del
permesso di costruire per ristrutturazione di fabbricato con
cambio d’uso ed aumento volumetrico, ai sensi della L.R.
24/2009 – piano casa.
Il fabbricato di cui trattasi è ubicato in zona Ba17, si
trova immediatamente adiacente alla perimetrazione della
zona A, con un muro perimetrale costituente confine tra la
zona Ba17 e la zona A ed è fronteggiante un fabbricato ivi
ubicato, il tutto come illustrato nelle planimetrie di PRG e
catastale allegate.
Ai fini dell’aumento volumetrico del fabbricato, essendo
questo dovuto a sopraelevazione, si fa riferimento alla DGR
n. 514/2012, attuativa della L.R. 24/2009, in particolare
all’ All. A– paragrafo 3.1 che stabilisce la distanza minima
tra le costruzioni
La situazione del fabbricato trattato non è chiaramente
inquadrabile nelle condizioni previste dalla predetta
normativa, in quanto:
1. non è in zona A (punto 1 del DM 1444/1968), ma, come
detto sopra, un muro perimetrale costituisce confine di zona
tra le zone Ba17 e A;
2. è preesistente allo strumento urbanistico comunale ma –
pur essendo inserito in zona Ba, non è un “nuovo edificio
ricadente in altre zone (punto 2 del DM 1444/1968).
Riferimenti normativi: DGR n. 514/2012, attuativa
della L.R. 24/2009, in particolare all’ All. A– paragrafo
3.1 che stabilisce:
"DISTANZA MINIMA TRA LE COSTRUZIONI
Le distanze tra le costruzioni definite inderogabili dalla
l.r. 24/2009 sono quelle stabilite nei singoli PRG o RE, in
coerenza con le norme nazionali vigenti.
Tali distanze minime sono inderogabili anche nel caso in cui
ci sia l’assenso del proprietario dell’edificio
fronteggiante.
Nel riquadro seguente sono richiamate le norme relative alla
definizione della distanza minima tra le costruzioni, di cui
al Codice Civile e al DM 1444/1968.
• Codice Civile
Art. 873 - Distanze nelle costruzioni.
Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o
aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre
metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una
distanza maggiore.
• D.M. 1444/1968 - art. 9. Limiti di distanza tra i fabbricati
Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone
territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e
per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli
edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti
tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener
conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di
valore storico, artistico o ambientale.
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in
tutti i casi la distanza minima assoluta di m 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti.
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di
edifici antistanti, la distanza minima pari all’altezza del
fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una
sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si
fronteggino per uno sviluppo superiore a ml 12.
Le distanze minime tra fabbricati - tra i quali siano
interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con
esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di
singoli edifici o di insediamenti) – debbono corrispondere
alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
- ml. 5,00 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml.
7.
- ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra
ml. 7 e ml. 15;
- ml. 10,000 per lato, per strade di larghezza superiore a
ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate,
risultino inferiori all’altezza del fabbricato più alto, le
distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura
corrispondente all’altezza stessa. Sono ammesse distanze
inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso
di gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche."
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Si chiede
se sia corretto, nel caso di specie, applicare, per
analogia, la predetta DGR 514/2012 con riferimento alle
distanze tra costruzioni, in zone A, anche in considerazione
del fatto che il prospiciente edificio in zona A –qualora
divenisse oggetto di analogo intervento– potrebbe
beneficiare delle condizioni di cui alla citata DGR 514/2012
in ordine alle distanze per i fabbricati in zone A e
creando, di fatto, una disparità di trattamento tra due
fabbricati fronteggianti.
Quesiti: Si chiede la Vs. consulenza, finalizzata ad
un’interpretazione univoca della norma applicabile al caso
di specie, nonché ad analoghe situazioni che possano
manifestarsi, vista la particolarità degli agglomerati
residenziali di antica e/o vetusta formazione del territorio
comunale. |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito alla definizione di area di sedime di un
fabbricato - Comune di Bracciano (Regione Lazio,
nota
14.03.2018 n. 142239 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Parere in merito all’opportunità di eliminare gli estremi
del certificato di agibilità dei locali dal procedimento per
l’avvio di un’attività commerciale o produttiva
(Legali Associati per Celva,
nota
07.02.2018 - tratto da www.celva.it).
---------------
Problema riscontrato: Lo Sportello unico degli
enti locali ha messo in atto un processo di revisione dei
procedimenti di propria competenza nell’ottica della
semplificazione per il richiedente.
Il processo, inoltre, persegue l’obiettivo di adeguare i
procedimenti telematici del SUEL alla modulistica approvata
in sede di Conferenza Unificata, in accordo tra Governo,
Regioni ed enti locali.
Tra le diverse novità introdotte dalla modulisitica
unificata, vi è l’eliminazione di alcuni dati e adempimenti,
tra i quali l’indicazione degli estremi relativi
all’agibilità dei locali, per l’avvio di un’attività
commerciale o produttiva.
Il sito www.italiasemplice.gov.it, curato dal Dipartimento
della Funzione pubblica, illustra tali premesse: "(…) Con
l'accordo tra Governo, Regioni ed enti locali siglato in
Conferenza Unificata il 04.05.2017, è stata raggiunta
l’intesa su moduli unificati e standardizzati per
comunicazioni e istanze nei settori dell'edilizia e delle
attività commerciali e assimilate.
L’accordo è stato pubblicato sul Supplemento ordinario n. 26
della Gazzetta Ufficiale n. 128 del 05.06.2017.
Con l’arrivo dei moduli unici nazionali i cittadini e le
imprese che vogliono aprire, ad esempio, un negozio, un bar,
o un esercizio commerciale (comprese le attività di
e-commerce e di vendita a domicilio) o avviare interventi
edilizi, come i lavori di ristrutturazione della propria
casa, avranno tempi e regole certi e una riduzione dei costi
e degli adempimenti, con una modulistica più semplice e
valida su tutto il territorio nazionale.
Tra le novità più importanti:
Non possono più essere richiesti dati e adempimenti che
derivano da prassi amministrative, ma non sono espressamente
previsti dalla legge. Ad esempio, non è più richiesto il
certificato di agibilità dei locali per l’avvio di
un’attività commerciale o produttiva. (…)”.
Riferimenti normativi: legge regionale 06.041998, n.
11
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: -
Quesiti: Si richiede pertanto un parere con
riferimento all’opportunità di eliminare gli estremi del
certificato di agibilità dei locali per l’avvio di
un’attività commerciale o produttiva, considerando anche
quanto previsto dalla legge regionale 06.04.1998, n. 11
“Normativa urbanistica e di pianificazione territoriale
della Valle d'Aosta”. |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Comune di Montjovet – Scia per la realizzazione di
un’autorimessa – Abuso edilizio – Richiesta di sanatoria –
Parere
(Legali Associati per Celva,
nota
29.12.2017 - tratto da www.celva.it).
----------------
Problema riscontrato: Un cittadino ha presentato
una SCIA per la realizzazione di un’autorimessa a servizio
del proprio edificio residenziale.
A distanza di anni dalla conclusione dei lavori, su
segnalazione del confinante, è stato effettuato sopralluogo
per rilevare il segnalato abuso edilizio. Dal sopralluogo è
emerso che parte dell’autorimessa era stata adibita a
servizio igienico e a taverna, quest’ultimo locale così
definito in quanto all’interno dello stesso era presente un
cucinino (fornelli, lavandino), un forno, una stufa a legna,
un divano, un tavolo con panche e sedie e vari
suppellettili.
Il proprietario dell’edificio ha presentato richiesta di
rilascio di permesso di costruire in sanatoria definendo
cantina quel locale che nel corso del sopralluogo era stato
identificato quale taverna e che lui stesso aveva così
definito in documenti presentati in precedenza all’ufficio
tecnico; non di poco conto il fatto che tale difformità
d’uso sia stata di recente evidenziata al Comune anche dal
vicino di casa sulla base della propria conoscenza diretta,
con il quale il proprietario ha in essere contenzioso
edilizio riguardante la costruzione in parola che ad oggi lo
ha visto soccombere con obbligo di demolizione di una parte
dell’autorimessa oltreché di altre opere pertinenziali.
Il progetto di sanatoria non evidenzia l’esecuzione di opere
successive al sopralluogo effettuato dal Comune e nulla
menziona in merito al fatto che la taverna sia poi diventata
cantina.
Si ipotizza che il locale non possedendo i requisiti
igienico-sanitari (luce e aerazione diretta dall’esterno)
non potesse essere definito taverna e per questa ragione sia
stato rinominato in cantina.
Si chiede se il Comune possa procedere al rilascio del
permesso di costruire in sanatoria del locale cantina,
sebbene in sede di sopralluogo sia stato accertato che il
medesimo fosse invece destinato a taverna, e , in caso
affermativo, se e quali ulteriori sanzioni debbano essere
applicate.
Riferimenti normativi: LR 11/1998
Quesiti: Si chiede se il Comune possa procedere al
rilascio del permesso di costruire in sanatoria del locale
cantina, sebbene in sede di sopralluogo sia stato accertato
che il medesimo fosse invece destinato a taverna, e , in
caso affermativo, se e quali ulteriori sanzioni debbano
essere applicate. |
PATRIMONIO: OGGETTO:
Richiesta di installazione di un lampione di pubblica
illuminazione in strada extraurbana locale – obbligatorietà
– parere
(Legali Associati per Celva,
nota
29.12.2017 - tratto da www.celva.it).
---------------
Problema riscontrato: Il Comune di
Rhêmes-Notre-Dame ha ricevuto un’istanza volta a ottenere
dal Comune stesso l’installazione di un lampione di pubblica
illuminazione di fronte a un fabbricato posto ai margini di
un abitato isolato.
Riferimenti normativi: PRGC
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Non
accogliere la richiesta
Quesiti: Tenuto conto che si tratta di una località
di alta montagna dove il passaggio sia veicolare che
pedonale notturno è molto limitato se non quasi nullo, e di
una strada percorribile solo in periodo estivo, quando le
ore di luce sono maggiori;
- tenuto conto, altresì, del fatto che non vi sono in loco
attraversamenti pedonali, né imbocchi di strade pubbliche,
né ostacoli (cunette, scale, pali) sulla strada comunale;
- tenuto conto, infine, che il minimo inquinamento luminoso
ben si confà alla caratteristica del luogo;
con la presente si chiede se ci siano fondamenti normativi o
giurisprudenziali alla richiesta che pongano a carico
dell’Amministrazione l’obbligo di provvedere. |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Richiesta di accesso civico generalizzato ex art. 5, c. 2,
del d.lgs. 33/2013 - accesso a documentazione edilizia -
limiti - parere (Legali Associati per Celva,
nota 05.12.2017 - tratto da www.celva.it).
---------------
Quesiti: Un privato cittadino richiede copia di
tutta la documentazione edilizia (senza specificare i
periodi) riguardante una struttura del territorio (nel caso
specifico un residence/condominio) ritenendo di avvalersi
del diritto di accesso civico generalizzato.
L’amministrazione risponde, anche avvalendosi di un recente
parere del garante della privacy, qualificando la richiesta
di cui trattasi quale accesso documentale e richiedendo sia
di documentare l’interesse diretto del cittadino a
richiedere la documentazione sia di specificare di quale
documentazione edilizia egli necessiti. Il cittadino si
rivolge al difensore civico il qual e dispone il diritto
dello stesso ad avere la documentazione richiesta e
ritenendo la stessa un accesso civico generalizzato.
A seguito di breve analisi presso l’archivio viene
verificata l’esistenza di circa 15 pratiche edilizie
inerenti la struttura di cui trattasi nell’arco degli ultimi
15 anni. Si richiede:
- è sufficiente rilasciare la copia dei titoli edilizi (permesso
edilizio, SCIA, ecc.) o vanno rilasciate anche le copie
degli elaborati progettuali allegati?
- vanno sentiti i controinteressati? (i titolari dei permessi
edilizi)
- è possibile addebitare al richiedente i costi di riproduzione? |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
Comune di Ayas – Regolarità edilizia di manufatti realizzati
prima del 1967 fuori dai centri abitati – Parere (Legali
Associati per Celva,
nota 04.12.2017
- tratto da www.celva.it).
---------------
Problema riscontrato: Il Comune di Ayas ha
approvato, in data 09/08/1940 con Deliberazione del
Commissario Prefettizio, il Regolamento edilizio che
richiedeva la preventiva autorizzazione del Podestà per
eseguire attività edilizie.
La Legge n. 1150/1942 ha disciplinato la materia edilizia a
livello nazionale introducendo l'obbligo di preventivo
titolo abilitativo esclusivamente nei centri abitati e nelle
zone di espansione previste nei PRGC. Considerato che il
Comune di Ayas tra il 1942 e il 1967 non era dotato di PRGC
né adottato né approvato, ai sensi della Legge specificata
necessitava di titolo abilitativo esclusivamente l'attività
edilizia all'interno dei centri abitati.
Si rileva, quindi, che il Regolamento comunale specificato
risultava in contrasto con la Legge urbanistica.
La prima perimetrazione dei centri abitati è stata approvata
dal Consiglio comunale il 20/03/1969 con Deliberazione n.
23. Di conseguenza, per semplificazione, i centri abitati
tra il 1942 e il 1967 vengono fatti coincidere con i centri
storici dei piani regolatori attualmente approvati.
Agli atti del Comune esistono pratiche edilizie anteriori al
1967 e relative ad immobili esterni agli attuali centri
storici che presentano regolari Permessi edilizi rilasciati
dal Comune con relativi progetti approvati e talvolta anche
dichiarazioni di abitabilità, si presume rilasciati in
ottemperanza al Regolamento Edilizio.
Il TAR Toscana, Sez. III, con Sentenza del 29.05.2014, n.
899 esprime il principio che: "Ai fini dell'accertamento
della regolarità edilizia di manufatti realizzati al di
fuori dei centri abitati in epoca anteriore alla entrata in
vigore della L. 765 del 1967, assume rilevanza esclusiva la
norma primaria sopravvenuta di cui all'art. 31 della L. 1150
del 1942 che ha introdotto, a livello nazionale, l'obbligo
di preventivo titolo abilitativo limitatamente agli immobili
ricadenti nei centri abitati; cosicché essa deve
considerarsi prevalente rispetto alla disciplina
regolamentare locale preesistente atteso che, come ha
sancito la Corte Costituzionale nella sentenza 303 del 2003,
la disciplina dei titoli abilitativi rientra nell'ambito dei
principi fondamentali della materia edilizia che la
Costituzione (anche prima della riforma del Titolo V)
riservava e ancora oggi riserva allo Stato al fine di
garantire uno standard uniforme di trattamento del diritto
di proprietà su tutto il territorio nazionale anche in
coerenza con la riserva di legge prevista dall'art. 42
....".
Riferimenti normativi: Regolamento edilizio approvato
con Deliberazione del Commissario prefettizio in data
09/08/1940
Legge Urbanistica 1150 del 17/08/1942
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Nessuna
Quesiti: Con la presente si richiede quindi, se in
fase di accertamento della regolarità edilizia il Comune sia
tenuto a considerare i progetti edilizi autorizzati
anteriormente al 06/08/1967, rilasciati ai sensi del
Regolamento edilizio del 1940, e che riguardano immobili
edificati esternamente agli attuali centri storici. |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
realizzazione di una scala esterna ad un fabbricato
– affaccio su strada comunale – incidenza sulla fascia di
rispetto stradale – deroghe di cui alla L.R. n. 24/2009 -
parere
(Legali Associati per Celva,
nota
28.03.2017 - tratto da www.celva.it).
---------------
Problema riscontrato: La scrivente amministrazione
intende chiedere chiarimenti circa la possibilità di
realizzare una scala esterna ad un fabbricato per l’accesso
al piano primo (oggi sottotetto non abitabile, ma nel quale
il proprietario intende realizzare una nuova unità abitativa
con la L.R. 24/2009 e smi).
Per la precisione la scala esterna sarebbe su una porzione
di proprietà privata adiacente alla strada comunale, ma di
fatto inglobata nella strada stessa da tempo. Tale porzione,
infatti, è completamente asfaltata e costituisce un tutt’uno
con la strada comunale a meno di due gradini in pietra che
servono per accedere all’abitazione al piano terra. La scala
in progetto partirebbe da tali gradini e salirebbe al piano
primo lungo il fianco del fabbricato. Una parte della scala,
quindi, sarebbe all’interno dell’ingombro dei 2 gradini
preesistenti, il resto sarebbe sulla succitata porzione di
terreno di proprietà privata che di fatto costituisce un
tutt’uno con la strada comunale.
Su tale porzione di terreno, non risulta che siano mai stati
fatti atti di qualunque tipo che ne indichino l’uso
pubblico, è solo negli anni stata asfaltata ed in parte
usata come se fosse parte della strada comunale.
Il fabbricato ricade in zona urbanistica “A” di P.R.G.C.
La nuova scala in progetto, per la presenza dei due gradini
preesistenti a terra, non andrebbe a restringere la sede
della strada comunale, ma, essendo posta ad un incrocio,
ridurrebbe leggermente la visibilità e renderebbe più ardua
la svolta.
Riferimenti normativi: Codice civile - DM 1444/1968 -
Codice della Strada - LR 24/2009 - LR 11/1998
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: L’utenza
ha prodotto un proprio parere ma che lascia forti dubbi
quindi non esprimiamo possibile soluzione
Quesiti: Sulla base delle sopra citate premesse, la
scrivente amministrazione vorrebbe sapere se:
• la scala è un manufatto che può essere o meno realizzato
all’interno della fascia dei 5m di rispetto della strada
comunale;
• se, all’interno di un procedimento di ampliamento volumetrico ex
L.R. 24/2009 dell’unità immobiliare al piano primo, dato che
tale legge prevede la possibilità di costruire all’interno
della fascia di rispetto della strada comunale mantenendo
gli allineamenti preesistenti, la scala potrebbe essere
considerata come parte dell’ampliamento (anche se non
costituisce il volume di ampliamento) e se, in caso
affermativo, i due gradini preesistenti possano essere
considerati come allineamento preesistente e quindi la scala
in progetto all’interno degli allineamenti preesistenti e
quindi realizzabile. |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
costruzione di un fabbricato lungo una strada privata –
qualificazione della strada – assoggettamento ad uso
pubblico – non sussiste – fasce di rispetto stradale –
inapplicabilità codice della strada – applicazione norme
PRGC – parere
(Legali Associati per Celva,
nota
23.03.2017 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Distanze da rispettare nel
caso di costruzioni in lotti adiacenti a strade private.
Riferimenti normativi: art. 25 N.T.A. del PRG
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Stante
l’assenza di classificazione, consentire le costruzioni
senza imporre fasce di rispetto nei confronti della "strada"
di accesso ai fondi privati.
Quesiti: 1) come classificare una strada privata in
assenza di una sua definizione nel Regolamento edilizio; 2)
necessità o meno di disciplinare le fasce di rispetto delle
costruzioni in relazione alle strade private. |
EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO:
N.T.A. del P.R.G.C. di Ayas - nozione di “proprietario a
titolo esclusivo” – interpretazione – casi concreti (nudo
proprietario; comproprietario; proprietà della persona
giuridica) – parere
(Legali Associati per Celva,
nota
01.02.2017 - tratto da www.celva.it).
---------------
Problema riscontrato: interpretazione della norma
art. 51 N.T.A. di P.R.G.C. circa la dicitura "proprietario a
titolo esclusivo"
Riferimenti normativi: art. 51 N.T.A. di P.R.G.C.
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: persona
che risulta esclusivamente nuda proprietaria persona che
risulta comproprietaria persona che risulta socio o legale
rappresentante
Quesiti: Si chiede un chiarimento circa
l’interpretazione della prescrizione "proprietario a titolo
esclusivo" in merito a possibilità di realizzare abitazione
permanente e principale ai sensi art. 51 N.T.A. di P.R.G.C. |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: OGGETTO:
servitù di uso pubblico a parcheggio autoveicoli –
costituzione in via convenzionale – modalità di estinzione –
parere
(Legali Associati per Celva,
nota
12.12.2016 - tratto da www.celva.it).
---------------
Problema riscontrato: Il Comune di La Salle
dispone di area pubblica che è stata dismessa dai privati ai
fini dell’ottenimento di concessione edilizia (anno 1985).
Il Consiglio Comunale nel 1986 delibera a favore
dell’acquisizione (o meglio dell’intenzione di acquisire)
l’area. La successiva convenzione che prevede l’istituzione
del parcheggio pubblico consiste in una scrittura privata
registrata (anno 1992) di servitù permanente gratuita di
parcheggio ad uso pubblico. L’area si compone di solaio in
cemento armato che sovrasta autorimessa.
I privati ora chiedono di essere rimmessi nel possesso
privato dell’area che ad oggi è parcheggio ed è stato
mantenuto (asfalto, cartelli, strisce, sgombero neve,...) ad
opera del Comune. Il Comune ad oggi utilizza detta area come
parcheggio pubblico e vuole porlo parzialmente a pagamento
(zone blu).
Riferimenti normativi: D.P.R. n. 327 del 2001
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: -
possibile applicare art. 42-bis
Quesiti: Si chiede se i proprietari dell'area hanno
diritto alla reimmissione in possesso del parcheggio come da
loro richiesta. |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi consentiti in assenza di piano
attuativo - Art. 59, c. 3, l.r. Umbria n. 1/2015 - Contrasto
con le previsioni di cui all’art. 9, c. 2, d.P.R. n.
380/2001 - Illegittimità costituzionale.
L’art. 59, comma 3, della l.r. Umbria n. 1 del 2015, nella
parte in cui consente la realizzazione, in assenza del piano
attuativo, quando quest’ultimo sia obbligatorio, di
interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di
restauro e risanamento conservativo, nonché di
ristrutturazione edilizia, senza limitazioni, prevedendo che
tali interventi possano «comportare anche la modifica
della destinazione d’uso in atto in un edificio esistente
nell’ambito dell’insediamento, purché la nuova destinazione
d’uso risulti compatibile con le previsioni dello strumento
urbanistico generale», si pone in contrasto con le
previsioni di cui all’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 380 del
2001, che costituiscono principi fondamentali della materia.
Deve, pertanto, esserne dichiarata l’illegittimità
costituzionale, in quanto non limita gli interventi edilizi
consentiti in assenza di piano attuativo a quelli
individuati dall’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 (Corte Costituzionale,
sentenza 05.04.2018 n. 68 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere interne - Art. 118, c. 1, lett.
e), l.r. Umbria n. 1/2015 - Inclusione tra gli interventi di
edilizia libera - Contrasto con l’art. 7, c. 1, d.P.R. n.
380/2001 - Illegittimità costituzionale.
L’art. 118, comma 1, lettera e), della legge reg. Umbria n.
1 del 2015, nella parte in cui annovera tra gli interventi
di attività edilizia libera le «opere interne alle unità
immobiliari di cui all’art. 7, comma 1, lettera g)»,
escludendo la sottoposizione di esse alla CILA, contrasta
con i principi fondamentali della materia fissati dal
legislatore statale. Infatti, le Regioni non possono «differenziarne
il regime giuridico, dislocando diversamente gli interventi
edilizi tra le attività deformalizzate, soggette a CIL e
CILA» (sentenza n. 231 del 2016).
L’«omogeneità funzionale della comunicazione preventiva […]
rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni
(permesso di costruire, DIA, SCIA) deve indurre a
riconoscere alla norma che la prescrive –al pari di quelle
che disciplinano i titoli abilitativi edilizi– la natura di
principio fondamentale della materia del governo del
territorio», in quanto volto a garantire l’interesse
unitario ad un corretto uso del territorio (sentenza n. 231
del 2016).
Deve, pertanto, esserne dichiarata l’illegittimità
costituzionale (Corte Costituzionale,
sentenza 05.04.2018 n. 68 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Artt. 147, 155 e 118, c. 2, lett. h),
l.r. Umbria n. 1/2015 - Disciplina dei mutamenti di
destinazione d’uso degli edifici - Definizione delle diverse
categorie di interventi - Contrasto con le definizioni
contenute nel d.P.R. n. 380/2001 - Illegittimità
costituzionale.
Gli artt. 147, 155 e 118, comma 2, lettera h), della l.r.
Umbria n. 1 del 2015 dettano la disciplina dei mutamenti di
destinazione d’uso degli edifici e delle unità immobiliari,
identificandone le tipologie, individuando i relativi titoli
abilitativi richiesti e le connesse sanzioni. Una simile
operazione è assimilabile alla classificazione delle
categorie di interventi edilizi o urbanistici; tuttavia, «sono
principi fondamentali della materia le disposizioni che
definiscono le categorie di interventi, perché è in
conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei
titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli
oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche
penali, sicché la definizione delle diverse categorie di
interventi edilizi spetta allo Stato» (sentenza n. 259
del 2014).
Lo spazio di intervento che residua al legislatore regionale
è quello di «esemplificare gli interventi edilizi che
rientrano nelle definizioni statali», a condizione,
però, che tale esemplificazione sia «coerente con le
definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia»
(sentenza n. 49 del 2016).
L’esame congiunto delle normative –statale e regionale–
evidenzia che la normativa regionale impugnata, non solo non
si rivela coerente con le definizioni contenute nel d.P.R.
n. 380 del 2001, ma si pone in contrasto con le stesse e
quindi con i principi fondamentali espressi da quest’ultimo:
mentre il legislatore statale individua cinque categorie
funzionali e stabilisce che il passaggio dall’una all’altra
costituisce mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente
rilevante, il legislatore regionale umbro ne individua solo
tre, che risultano dall’accorpamento di alcune di quelle
individuate dal legislatore statale.
Ciò comporta l’esclusione della “rilevanza urbanistica”
dei mutamenti di destinazione d’uso interni alle categorie
funzionali accorpate e, quindi, della loro assoggettabilità
a titoli abilitativi, in contrasto con la normativa statale
di principio e con conseguente incisione dell’ambito di
applicazione delle sanzioni previste dal legislatore statale
nell’esercizio della competenza esclusiva in materia di «ordinamento
civile e penale», di cui all’art. 117, secondo comma,
lettera l), Cost. (Corte Costituzionale,
sentenza 05.04.2018 n. 68 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rischio sismico - Art. 250 l.r. Umbria
n. 1/2015 - Introduzione di categorie di interventi edilizi
ignote alla legislazione statale - Sottrazione alla
vigilanza sul rischio sismico - Illegittimità
costituzionale.
L’art. 250 della legge regionale n. 1 del 2015, al comma 1,
lettere a), b) e c), attribuisce alla Giunta regionale il
potere di individuare categorie di interventi «privi di
rilevanza ai fini della pubblica incolumità» (lettera
a), «di minore rilevanza ai fini della pubblica
incolumità» (lettera b), nonché varianti di parti
strutturali prive di carattere sostanziale (lettera c),
interventi questi rispetto ai quali si esclude o si delimita
l’applicazione delle norme tecniche corrispondenti a quelle
previste dal Capo IV della Parte II del d.P.R. n. 380 del
2001 (art. 201, commi 3 e 4, ed art. 202, comma 1, della
legge reg. Umbria n. 1 del 2015) e detta una disciplina
derogatoria (art. 208 della medesima legge regionale).
Una simile normativa, poiché introduce categorie di
interventi edilizi ignote alla legislazione statale e le
esclude dall’applicazione di norme improntate al principio
fondamentale della vigilanza assidua sulle costruzioni
riguardo al rischio sismico, si pone in contrasto con i
principi fondamentali fissati dal legislatore statale in
materia di «protezione civile» e di «governo del
territorio» e deve, pertanto, essere dichiarata
costituzionalmente illegittima (Corte Costituzionale,
sentenza 05.04.2018 n. 68 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rischio sismico - Art. 258 l.r. Umbria
n. 1/2015 - Introduzione di un condono edilizio
straordinario - Illegittimità costituzionale.
L’art. 258, della l.r. Umbria n. 1/2015, nella parte in cui
mira a sanare opere non conformi, in tutto o in parte, agli
strumenti urbanistici, finisce per introdurre un condono
edilizio straordinario.
Si tratta, infatti, di una fattispecie non riconducibile
all’accertamento di conformità di cui all’art. 36 del d.P.R.
n. 380 del 2001, che prescrive, ai fini del rilascio del
permesso in sanatoria per interventi edilizi realizzati in
assenza di titolo o in difformità da esso, l’accertamento
della conformità degli stessi alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della realizzazione degli
stessi, sia al momento della presentazione della domanda.
L’art. 258 della legge reg. Umbria n. 1 del 2015 ha, invece,
a oggetto edifici «realizzati prima del 31.12.2000»
espressamente riconosciuti come «non conformi, in tutto o
in parte, agli strumenti urbanistici» (comma 1) vigenti
al momento della loro realizzazione, e dispone che, ai fini
del rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, è
sufficiente l’«accertamento della conformità alle
previsioni della variante approvata ai sensi del presente
articolo» (comma 8).
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 258 e del connesso art. 264, comma
13, della legge regionale n. 1 del 2015, in quanto
disciplinano una ipotesi di condono edilizio straordinario,
da cui discende la cessazione degli effetti penali
dell’abuso, non previsto dalla legge statale, in contrasto
con i principi fondamentali in materia di governo del
territorio di cui al d.P.R. n. 380 del 2001 (in particolare
con l’art. 36) e con conseguente invasione della sfera di
competenza esclusiva statale in materia di ordinamento
civile e penale.
Art. 264, c. 14, l.r. Umbria n. 1/2015 -
Contrasto con il principio dell’accertamento di doppia
conformità di cui all’art. 36 d.P.R. n. 380/2001 -
Illegittimità costituzionale.
L’art. 264, c. 14, della l.r. Umbria n. 1/2015, nella
versione antecedente le modifiche introdotte dalla l.r.
Umbria n. 13/2016, prevedeva il rilascio del permesso in
sanatoria relativo a interventi riguardanti l’area di
pertinenza degli edifici dell’impresa agricola, già
esistenti alla data del 30.06.2014, realizzati in assenza
del titolo.
Tale sanatoria veniva condizionata all’accertamento della
conformità dei predetti interventi alla disciplina
urbanistica ed edilizia e agli strumenti urbanistici vigenti
al momento della domanda, nonché al non contrasto con quelli
adottati alla data del 30.06.2014, data nella quale i
predetti interventi erano già esistenti, come espressamente
indicato nella stessa norma.
Una simile previsione contrasta apertamente con l’art. 36
del d.P.R. n. 380 del 2001, configurandosi un’ipotesi di
condono edilizio, che ha «quale effetto la sanatoria non
solo formale ma anche sostanziale dell’abuso, a prescindere
dalla conformità delle opere realizzate alla disciplina
urbanistica ed edilizia (sentenza n. 50 del 2017)»
(sentenza n. 232 del 2017), in contrasto con il principio
fondamentale dell’accertamento di doppia conformità di cui
al citato art. 36 del d.P.R n. 380 del 2001.
Deve pertanto esserne dichiarata l’illegittimità
costituzionale (Corte Costituzionale,
sentenza 05.04.2018 n. 68 - link a
www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Comuni siti in zone sismiche - Artt. 28, c. 10, e
56, c. 3, l.r. Umbria n. 1/2015 - Attribuzione del compito
di rendere il parere sugli strumenti urbanistici ai Comuni -
Illegittimità costituzionale.
Le
disposizioni di cui agli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3,
della legge della Regione Umbria 21.01.2015, n. 1, nella
parte in cui assegnano ai Comuni –piuttosto che al
competente ufficio tecnico regionale‒ il compito di rendere
il parere sugli strumenti urbanistici generali ed attuativi
dei Comuni siti in zone sismiche, si pongono in contrasto
con il principio fondamentale posto dall’art. 89 del d.P.R.
n. 380 del 2001.
Deve, pertanto, esserne dichiarata l’illegittimità
costituzionale (Corte Costituzionale,
sentenza 05.04.2018 n. 68 - link a
www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA: Deve essere dichiarata l’illegittimità
costituzionale degli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3,
della legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui
stabiliscono che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico
regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti
urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone
sismiche.
Questa Corte ha avuto più volte
occasione di affermare che l'art. 89 del d.lgs. n. 380/2001
è norma di principio in materia non solo di «governo del
territorio», ma anche di «protezione civile», in quanto
volta ad assicurare la tutela dell’incolumità pubblica.
Essa, pertanto, si impone al legislatore regionale nella
parte in cui in cui: prescrive a tutti i Comuni, per la
realizzazione degli interventi edilizi in zone sismiche, di
richiedere il parere del competente ufficio tecnico
regionale sugli strumenti urbanistici generali e
particolareggiati, nonché sulle loro varianti ai fini della
verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con
le condizioni geomorfologiche del territorio (comma 1);
disciplina le modalità e i tempi entro cui deve pronunciarsi
detto ufficio (comma 2); infine prevede che, in caso di
mancato riscontro, il parere deve intendersi reso in senso
negativo (comma 3).
Tale norma, al pari di altre ritenute di principio dalla
giurisprudenza di questa Corte, anche in specifico
riferimento a funzioni ascritte agli uffici tecnici della
Regione analoghe a quella in esame, «riveste una posizione
“fondante” […] attesa la rilevanza del bene protetto, che
involge i valori di tutela dell’incolumità pubblica, i quali
non tollerano alcuna differenziazione collegata ad ambiti
territoriali».
---------------
7.‒ Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna, inoltre,
l’art. 28, comma 10, e l’art. 56, comma 3, della citata
legge regionale nella parte in cui, rispettivamente, il
primo attribuisce al Comune, in sede di adozione del PRG, il
compito di esprimere il parere sugli strumenti urbanistici
generali dei comuni siti in zone sismiche o in abitati da
consolidare, di cui all’art. 89 del d.P.R. 06.06.2001, n.
380 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia – Testo A); il secondo
stabilisce che lo sportello unico delle attività produttive
ed edilizie (SUAPE) acquisisca direttamente «i pareri che
debbono essere resi dagli uffici comunali, necessari ai fini
dell’approvazione del piano attuativo compreso il parere in
materia sismica, idraulica ed idrogeologica, da esprimere
con le modalità di cui all’articolo 112, comma 4, lettera
d)».
Tali disposizioni si porrebbero in contrasto con i principi
fondamentali in materia di «governo del territorio» e di
«protezione civile» contenuti nel citato art. 89 del d.lgs.
n. 380 del 2001. Secondo quest’ultimo, infatti, il parere
sugli strumenti urbanistici generali dei comuni siti in zone
sismiche o in abitati da consolidare deve essere richiesto
al «competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti
urbanistici generali e particolareggiati prima della
delibera di adozione nonché sulle lottizzazioni
convenzionate prima della delibera di approvazione, e loro
varianti, ai fini della verifica della compatibilità delle
rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del
territorio» (comma 1).
7.1.‒ La questione è fondata.
Questa Corte ha avuto più volte occasione di affermare che
il citato art. 89 è norma di principio in materia non solo
di «governo del territorio», ma anche di «protezione
civile», in quanto volta ad assicurare la tutela
dell’incolumità pubblica (fra le altre, sentenza n. 167 del
2014).
Essa, pertanto, si impone al legislatore regionale
nella parte in cui in cui: prescrive a tutti i Comuni, per
la realizzazione degli interventi edilizi in zone sismiche,
di richiedere il parere del competente ufficio tecnico
regionale sugli strumenti urbanistici generali e
particolareggiati, nonché sulle loro varianti ai fini della
verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con
le condizioni geomorfologiche del territorio (comma 1);
disciplina le modalità e i tempi entro cui deve pronunciarsi
detto ufficio (comma 2); infine prevede che, in caso di
mancato riscontro, il parere deve intendersi reso in senso
negativo (comma 3).
Tale norma, al pari di altre ritenute di principio dalla
giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, le sentenze n.
167 del 2014, n. 300, n. 101 e n. 64 del 2013, n. 201 del
2012, n. 254 del 2010), anche in specifico riferimento a
funzioni ascritte agli uffici tecnici della Regione analoghe
a quella in esame (sentenze n. 64 del 2013 e n. 182 del
2006), «riveste una posizione “fondante” […] attesa la
rilevanza del bene protetto, che involge i valori di tutela
dell’incolumità pubblica, i quali non tollerano alcuna
differenziazione collegata ad ambiti territoriali» (sentenza
n. 167 del 2014).
Le disposizioni regionali impugnate di cui agli artt. 28,
comma 10, e 56, comma 3, pertanto, nella parte in cui
assegnano ai Comuni –piuttosto che al competente ufficio
tecnico regionale‒ il compito di rendere il parere sugli
strumenti urbanistici generali ed attuativi dei Comuni siti
in zone sismiche, si pongono in contrasto con il principio
fondamentale posto dall’art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Nessun rilievo riveste, peraltro, la circostanza –richiamata dalla difesa regionale‒ che l’art. 20 della
legge 10.12.1981, n. 741 (Ulteriori norme per
l'accelerazione delle procedure per l'esecuzione di opere
pubbliche) ha consentito alle Regioni di prevedere uno
snellimento delle procedure e di introdurre norme per
l’adeguamento degli strumenti urbanistici generali e
particolareggiati vigenti, nonché sui criteri per la
formazione degli strumenti urbanistici ai fini della
prevenzione del rischio sismico.
Questa Corte ha già
chiarito che «l’intera materia è stata oggetto di una più
recente completa regolazione, che si è tradotta nelle
vigenti disposizioni di cui al d.P.R. n. 380 del 2001 […] il
quale ha fatto venire meno –anche in mancanza di formale
abrogazione– le possibilità di deroga di cui all’art. 20
della legge n. 741 del 1981» (sentenza n. 64 del 2013; nello
stesso senso, sentenza n. 182 del 2006).
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità
costituzionale degli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3,
della legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui
stabiliscono che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico
regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti
urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone
sismiche (Corte
Costituzionale,
sentenza 05.04.2018 n.
68). |
URBANISTICA: Deve essere dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 59, comma 3, della legge regionale
n. 1 del 2015, in quanto non limita gli interventi edilizi
consentiti in assenza di piano attuativo a quelli
individuati dall’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 380 del
2001.
L’art. 9 del d.P.R. n. 380/2001, dopo aver individuato, al comma 1, gli
interventi edilizi consentiti «nei comuni sprovvisti di
strumenti urbanistici», «[s]alvi i più restrittivi limiti
fissati dalle leggi regionali» e comunque nel rispetto delle
norme di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, provvede ad
identificare, al comma 2, quelli che possono essere
realizzati in assenza di piani attuativi, quando questi
ultimi siano indicati dagli strumenti urbanistici generali
come presupposto per l’edificazione.
Fra questi annovera:
gli interventi di manutenzione ordinaria, di manutenzione
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo
(art. 9, comma 1, lettera a) e quelli di ristrutturazione
edilizia (art. 3, comma 1, lettera d) «che riguardino
singole unità immobiliari o parti di esse» o che «riguardino
globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per
cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare
del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del
comune e a cura e spese dell'interessato, a praticare,
limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso
residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione
concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di
urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del
presente titolo».
Questa Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi sul
citato art. 9, anche se con specifico riguardo al comma 1, e
ha ritenuto che esso, pur dettando specifici e puntuali
limiti alla possibilità di realizzare interventi edilizi in
assenza di strumenti urbanistici, «non può qualificarsi come
norma di dettaglio, esprimendo piuttosto un principio
fondamentale della materia».
Ciò
ha ritenuto in ragione della sua peculiare funzione, che
consiste nell’«impedire, tramite l’applicazione di standard
legali, una incontrollata espansione edilizia in caso di
“vuoti urbanistici”, suscettibile di compromettere
l’ordinato (futuro) governo del territorio e di determinare
la totale consumazione del suolo nazionale, a garanzia di
valori di chiaro rilievo costituzionale».
La medesima funzione –e quindi la medesima natura di norma
di principio– deve essere ascritta anche al comma 2 del
citato art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001, là dove individua
e delimita la tipologia di interventi edilizi realizzabili
in assenza di piani attuativi, che siano qualificati dagli
strumenti urbanistici generali come presupposto necessario
per l’edificazione.
Anche in tal caso la norma in esame mira
a salvaguardare la funzione di pianificazione urbanistica
intesa nel suo complesso, evitando che, nelle more del
procedimento di approvazione del piano attuativo, siano
realizzati interventi incoerenti con gli strumenti
urbanistici generali e comunque tali da compromettere
l’ordinato uso del territorio.
---------------
9.– Ulteriore norma denunciata è l’art. 59, comma 3, della
legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui consente
gli interventi edilizi di manutenzione ordinaria e
straordinaria, di restauro e risanamento conservativo,
nonché di ristrutturazione edilizia, nelle aree in cui non
siano state attuate le previsioni degli strumenti
urbanistici generali, anche a mezzo di piano attuativo,
presupposto per l’edificazione, e stabilisce che tali
interventi possano comportare anche la modifica della
destinazione d’uso in atto in un edificio esistente, purché
la nuova destinazione risulti compatibile con le previsioni
dello strumento urbanistico generale.
Tale norma si porrebbe in contrasto con la normativa statale
di principio contenuta nell’art. 9 del d.P.R. n. 380 del
2001, che limita la possibilità di mutare la destinazione
d’uso e, in ogni caso, non consentirebbe gli interventi
previsti dalla norma regionale impugnata.
9.1.– La questione è fondata.
La disposizione regionale impugnata disciplina gli
interventi edilizi consentiti in assenza del piano
attuativo, quando quest’ultimo sia obbligatorio, poiché
qualificato come «presupposto per l’edificazione».
A tal proposito, considerato l’insegnamento costante di
questa Corte secondo cui l’urbanistica e l’edilizia vanno
ricondotte alla materia «governo del territorio», di cui
all’art. 117, terzo comma, Cost., viene in rilievo –come
indicato dal ricorrente– l’art. 9 del d.P.R. n. 380 del
2001.
Quest’ultimo, dopo aver individuato, al comma 1, gli
interventi edilizi consentiti «nei comuni sprovvisti di
strumenti urbanistici», «[s]alvi i più restrittivi limiti
fissati dalle leggi regionali» e comunque nel rispetto delle
norme di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, provvede ad
identificare, al comma 2, quelli che possono essere
realizzati in assenza di piani attuativi, quando questi
ultimi siano indicati dagli strumenti urbanistici generali
come presupposto per l’edificazione.
Fra questi annovera:
gli interventi di manutenzione ordinaria, di manutenzione
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo
(art. 9, comma 1, lettera a) e quelli di ristrutturazione
edilizia (art. 3, comma 1, lettera d) «che riguardino
singole unità immobiliari o parti di esse» o che «riguardino
globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per
cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare
del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del
comune e a cura e spese dell'interessato, a praticare,
limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso
residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione
concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di
urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del
presente titolo».
Questa Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi sul
citato art. 9, anche se con specifico riguardo al comma 1, e
ha ritenuto che esso, pur dettando specifici e puntuali
limiti alla possibilità di realizzare interventi edilizi in
assenza di strumenti urbanistici, «non può qualificarsi come
norma di dettaglio, esprimendo piuttosto un principio
fondamentale della materia» (sentenza n. 87 del 2017). Ciò
ha ritenuto in ragione della sua peculiare funzione, che
consiste nell’«impedire, tramite l’applicazione di standard
legali, una incontrollata espansione edilizia in caso di
“vuoti urbanistici”, suscettibile di compromettere
l’ordinato (futuro) governo del territorio e di determinare
la totale consumazione del suolo nazionale, a garanzia di
valori di chiaro rilievo costituzionale» (sentenza n. 87 del
2017).
La medesima funzione –e quindi la medesima natura di norma
di principio– deve essere ascritta anche al comma 2 del
citato art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001, là dove individua
e delimita la tipologia di interventi edilizi realizzabili
in assenza di piani attuativi, che siano qualificati dagli
strumenti urbanistici generali come presupposto necessario
per l’edificazione. Anche in tal caso la norma in esame mira
a salvaguardare la funzione di pianificazione urbanistica
intesa nel suo complesso, evitando che, nelle more del
procedimento di approvazione del piano attuativo, siano
realizzati interventi incoerenti con gli strumenti
urbanistici generali e comunque tali da compromettere
l’ordinato uso del territorio.
L’art. 59, comma 3, della legge regionale n. 1 del 2015,
nella parte in cui consente la realizzazione, in assenza del
piano attuativo, quando quest’ultimo sia obbligatorio, di
interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di
restauro e risanamento conservativo, nonché di
ristrutturazione edilizia, senza limitazioni, prevedendo che
tali interventi possano «comportare anche la modifica della
destinazione d’uso in atto in un edificio esistente
nell’ambito dell’insediamento, purché la nuova destinazione
d’uso risulti compatibile con le previsioni dello strumento
urbanistico generale», si pone in contrasto con le
previsioni di cui al citato art. 9, comma 2, del d.P.R. n.
380 del 2001, che costituiscono principi fondamentali della
materia.
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 59, comma 3, della legge regionale
n. 1 del 2015, in quanto non limita gli interventi edilizi
consentiti in assenza di piano attuativo a quelli
individuati dall’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 380 del
2001 (Corte
Costituzionale,
sentenza 05.04.2018 n.
68). |
APPALTI:
Determinabilità ovvero possibilità di ricostruire,
attraverso una lettura complessiva del contratto di
avvalimento, gli impegni assunti dall’impresa ausiliaria.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento –
Contenuto – Individuazione.
In tema di avvalimento, gli impegni
assunti dall’impresa ausiliaria, al fine di corroborare sul
piano sostanziale il prestito del requisito (ed evitare che
lo stesso si riduca ad una dichiarazione di impegno
meramente formale ed inidonea a garantire la stazione
appaltante in ordine alla solidità economico-finanziaria del
concorrente ausiliato), devono essere, se non determinati,
quantomeno determinabili, ovvero ricostruibili attraverso
una lettura complessiva del contratto di avvalimento (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione -nel richiamare i principi espressi da
Cons. St., A.P., 04.11.2016, n. 23- che si presta
allo scopo il contratto che contenga clausole atte
univocamente a fondare il “trasferimento”, in capo
all’impresa ausiliata (e quindi, di riflesso, a vantaggio
della stazione appaltante, a soddisfacimento delle sue
esigenze di garanzia in ordine alla affidabilità
economico-finanziaria dell’esecutore del servizio), degli
elementi che costituiscono il sostrato sostanziale ed,
insieme, la ratio del requisito in discorso, quali il
richiamo alla responsabilità solidale assunta dall’impresa
ausiliaria e da quella ausiliata “in relazione alle
prestazioni oggetto dell’appalto”, a garanzia della
quale sovviene, appunto, la solidità finanziaria “cumulata”
delle medesime imprese, così come attestata, pro quota, dal
fatturato specifico di cui esse hanno il rispettivo
possesso.
Ha aggiunto la Sezione che non rileva, da questo punto di
vista, che la responsabilità solidale delle imprese
sottoscrittrici del contratto di avvalimento costituisca
l’effetto tipico dell’istituto, ai sensi dell’art. 89, comma
5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (“il concorrente e l’impresa
ausiliaria sono responsabili in solido nei confronti della
stazione appaltante in relazione alle prestazioni oggetto
del contratto”), con il conseguente carattere
apparentemente ridondante della clausola suindicata.
La responsabilità solidale delle due imprese viene infatti
in rilievo, per i presenti fini, quale strumento di
realizzazione della “comunione” delle risorse
finanziarie di cui è in possesso l’impresa ausiliaria e
della quale il requisito del fatturato è espressione,
appartenendo quindi al piano della fattispecie, prima ancora
che a quello degli effetti, dell’avvalimento, ergo alla
sfera dei presupposti costitutivi dell’istituto.
Ha osservato infine la Sezione che quanto invece alla
componente “curriculare” del requisito in discorso,
ovvero alla sua capacità espressiva dell’esperienza che
l’impresa ha maturato nel settore, deve osservarsi che essa
non si presta ad essere tradotta in impegni specifici alla
prestazione di determinate risorse, come il “patrimonio
esperenziale” menzionato dalla parte appellante:
patrimonio che, in quanto intrinseco all’impresa, non può
esserne tout court estrapolato per essere messo a
disposizione dell’impresa ausiliata.
Da questo punto di vista, la garanzia che riceve
l’Amministrazione dall’avvalimento si correla
all’affiancamento, all’impresa concorrente e priva (in
parte) dell’esperienza necessaria a garantire la piena
affidabilità in ordine alla corretta esecuzione delle
prestazioni contrattuali, di altra impresa, in possesso del
fatturato specifico (quindi dell’esperienza) di cui quella
concorrente è manchevole, la quale, mediante la stipulazione
del contratto di avvalimento, si obbliga ad assicurare
all’impresa ausiliata l’assistenza e la cooperazione
necessarie a garantire il buon esito dell’appalto: obblighi
che, anche se non esplicitati in una clausola ad hoc,
si ricavano agevolmente dai doveri di buona fede e
cooperazione che innervano qualunque rapporto contrattuale,
tanto più in presenza della responsabilità solidale in
ordine all’esecuzione delle prestazioni contrattuali che le
due imprese hanno espressamente assunto con la stipulazione
del contratto di avvalimento (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 04.04.2018 n. 2102
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
L’appello non è meritevole di accoglimento.
Deve premettersi che l’impresa ausiliaria Va. Di Va. s.r.l.
ha prestato all’impresa ausiliata Se.In.Sa. s.r.l. il
requisito relativo al fatturato specifico, concernente i
servizi analoghi a quelli oggetto di gara, in via
integrativa di quello da essa posseduto: in particolare,
mentre il fatturato necessario al fine di consentire
all’impresa ausiliata di concorrere all’aggiudicazione dei
tre lotti (2, 4 e 7) per i quali ha presentato domanda di
partecipazione era pari ad € 7.648.509,54, essa ha
dichiarato il possesso di un fatturato specifico pari ad €
6.000.000, al quale sommare quello messo a disposizione
della ausiliaria, pari ad € 2.500.000.
Deve altresì precisarsi che,
secondo
l’orientamento giurisprudenziale dominante, gli impegni
assunti dall’impresa ausiliaria, al fine di corroborare sul
piano sostanziale il prestito del requisito (ed evitare che
lo stesso si riduca ad una dichiarazione di impegno
meramente formale ed inidonea a garantire la stazione
appaltante in ordine alla solidità economico-finanziaria del
concorrente ausiliato), devono essere (se non determinati,
quantomeno) determinabili, ovvero ricostruibili attraverso
una lettura complessiva del contratto di avvalimento
(cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 23 del
04.11.2016).
Ebbene, deve ritenersi che il contratto de quo
contenga clausole atte univocamente a fondare il “trasferimento”,
in capo all’impresa ausiliata (e quindi, di riflesso, a
vantaggio della stazione appaltante, a soddisfacimento delle
sue esigenze di garanzia in ordine alla affidabilità
economico-finanziaria dell’esecutore del servizio), degli
elementi che costituiscono il sostrato sostanziale ed,
insieme, la ratio del requisito in discorso: basti
all’uopo richiamare la responsabilità solidale assunta
dall’impresa ausiliaria e da quella ausiliata “in
relazione alle prestazioni oggetto dell’appalto” (cfr.
punto 5 del contratto di avvalimento), a garanzia della
quale sovviene, appunto, la solidità finanziaria “cumulata”
delle medesime imprese, così come attestata, pro quota, dal
fatturato specifico di cui esse hanno il rispettivo
possesso.
Non rileva, da questo punto di vista, che la responsabilità
solidale delle imprese sottoscrittrici del contratto di
avvalimento costituisca l’effetto tipico dell’istituto, ai
sensi dell’art. 89, comma 5, d.lvo n. 50/2016 (“il
concorrente e l’impresa ausiliaria sono responsabili in
solido nei confronti della stazione appaltante in relazione
alle prestazioni oggetto del contratto”), con il
conseguente carattere apparentemente ridondante della
clausola suindicata.
La responsabilità solidale delle due imprese viene infatti
in rilievo, per i presenti fini, quale strumento di
realizzazione della “comunione” delle risorse
finanziarie di cui è in possesso l’impresa ausiliaria e
della quale il requisito del fatturato è espressione,
appartenendo quindi al piano della fattispecie, prima ancora
che a quello degli effetti, dell’avvalimento, ergo alla
sfera dei presupposti costitutivi dell’istituto.
Quanto invece alla componente “curriculare” del
requisito in discorso, ovvero alla sua capacità espressiva
dell’esperienza che l’impresa ha maturato nel settore, deve
osservarsi che essa non si presta ad essere tradotta in
impegni specifici alla prestazione di determinate risorse,
come il “patrimonio esperenziale” menzionato dalla
parte appellante: patrimonio che, in quanto intrinseco
all’impresa, non può esserne tout court estrapolato
per essere messo a disposizione dell’impresa ausiliata.
Da questo punto di vista, la garanzia che
riceve l’Amministrazione dall’avvalimento si correla
all’affiancamento, all’impresa concorrente e priva (in
parte) dell’esperienza necessaria a garantire la piena
affidabilità in ordine alla corretta esecuzione delle
prestazioni contrattuali, di altra impresa, in possesso del
fatturato specifico (quindi dell’esperienza) di cui quella
concorrente è manchevole, la quale, mediante la stipulazione
del contratto di avvalimento, si obbliga ad assicurare
all’impresa ausiliata l’assistenza e la cooperazione
necessarie a garantire il buon esito dell’appalto: obblighi
che, anche se non esplicitati in una clausola ad hoc,
si ricavano agevolmente dai doveri di buona fede e
cooperazione che innervano qualunque rapporto contrattuale,
tanto più in presenza della responsabilità solidale in
ordine all’esecuzione delle prestazioni contrattuali che le
due imprese hanno espressamente assunto con la stipulazione
del contratto di avvalimento.
Deve solo aggiungersi che la conclusione esposta e fatta
propria dal TAR non implica la dedotta “disapplicazione”
dell’art. 88 d.P.R. n. 207/2010 né, a rigore, l’annullamento
dell’art. 9 del disciplinare di gara (sebbene disposto dal
TAR in accoglimento del ricorso incidentale proposto dalle
imprese controinteressate), in quanto costituisce il frutto,
non demolitorio ma meramente interpretativo, della corretta
esegesi delle norme suindicate e della esigenza di adattarne
il significato dispositivo allo specifico requisito
(economico-finanziario) oggetto di avvalimento.
Per finire, dallo stesso panorama giurisprudenziale possono
ricavarsi significative indicazioni a sostegno della esposta
conclusione interpretativa.
In primo luogo, non assume carattere decisivo il precedente
citato dalla parte appellante (Cons. St., V, 22.11.2017, n.
5429), concernente una fattispecie in cui, come si desume
dalla motivazione della sentenza, faceva difetto “il
contestuale vincolante impegno finanziario nei confronti
della stazione appaltante” (impegno nella specie
individuabile nella menzionata responsabilità solidale
assunta dalle imprese stipulanti il contratto di avvalimento).
In ogni caso, sussiste un consolidato
filone giurisprudenziale a mente del quale per l’avvalimento
dei requisiti di capacità economica e finanziaria, ed in
particolare del fatturato globale o specifico, non è
richiesta l’indicazione dei mezzi e delle risorse aziendali
messe a disposizione dall’ausiliaria per l’esecuzione
dell’appalto, perché l’impegno assunto da quest'ultima
riguarda la complessiva solidità patrimoniale e finanziaria,
la quale è riferibile all’azienda nel suo complesso
(cfr., da ultimo, Cons. Stato, V, 30.10.2017, n. 4973; Cons.
Stato, III, 11.07.2017, n. 3422, 17.11.2015, n. 5703,
04.11.2015, nn. 5038 e 5041, 02.03.2015, n. 1020,
06.02.2014, n. 584; IV, 29.02.2016, n. 812; V, 22.12.2016,
n. 5423).
Con diretto riferimento ad una fattispecie analoga a quella
oggetto del presente giudizio, inoltre, questa stessa
Sezione (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 11.07.2017, n.
3422) ha affermato che “nelle gare
pubbliche, in caso di avvalimento avente ad oggetto il
requisito di capacità economica finanziaria, rappresentato
dal fatturato sia globale che specifico, la prestazione
oggetto specifico dell’obbligazione è costituita non già
dalla messa a disposizione da parte dell’impresa ausiliaria
di strutture organizzative e mezzi materiali, ma dal suo
impegno a garantire con le proprie complessive risorse
economiche, il cui indice è costituito dal fatturato,
l’impresa ausiliata; in sostanza, ciò che la impresa
ausiliaria mette a disposizione della impresa ausiliata è il
suo valore aggiunto in termini di solidità finanziaria e di
acclarata esperienza di settore, dei quali il fatturato
costituisce indice significativo; ne consegue che non
occorre che la dichiarazione negoziale costitutiva
dell’impegno contrattuale si riferisca a specifici beni
patrimoniali o ad indici materiali atti ad esprimere una
determinata consistenza patrimoniale e, dunque, alla messa a
disposizione di beni da descrivere ed individuare con
precisione, essendo sufficiente che da essa dichiarazione
emerga l’impegno contrattuale della società ausiliaria a
mettere a disposizione la sua complessiva solidità
finanziaria ed il suo patrimonio esperienziale, garantendo
con essi una determinata affidabilità ed un concreto
supplemento di responsabilità
(cfr. Cons. Stato, III, n. 2952/2016; n. 5038/2015; n.
5041/2015; vedi anche, in senso analogo, V, n. 1032/2016).
Tali elementi minimi risultano soddisfatti dal
contratto di avvalimento in esame, che indica puntualmente
il fatturato messo a disposizione e prevede la
responsabilità solidale con l’ausiliata nei confronti della
stazione appaltante, e non può quindi configurarsi alla
stregua di un prestito di un valore puramente cartolare ed
astratto, tale da soddisfare su di un piano meramente
formale il requisito di partecipazione (ciò che,
effettivamente, renderebbe l’avvalimento illegittimo
- cfr. CGUE, 07.04.2016, in C-324/14)”.
Il rigetto dell’appello, derivante dalle considerazioni
svolte, consente di prescindere dalla disamina delle
eccezioni di inammissibilità dello stesso, formulate dalle
parti resistenti. |
APPALTI:
Il principio della suddivisione in lotti di un appalto è
derogabile.
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Contratti della pubblica amministrazione – Lotti –
Suddivisione dell’appalto in lotti – Art. 51, d.lgs. n. 50
del 2016 – Derogabilità – Sindacabilità – Limiti.
Il principio della suddivisione in
lotti di un appalto, previsto dall’art. 51, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, può essere derogato, seppur attraverso
una decisione che deve essere adeguatamente motivata ed è
espressione di scelta discrezionale, sindacabile soltanto
nei limiti della ragionevolezza e proporzionalità, oltre che
dell’adeguatezza dell’istruttoria, in ordine alla decisone
di frazionare o meno un appalto “di grosse dimensioni” in
lotti (1)
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(1)
Cons. St., sez. VI, 12 settembre 2014, n. 4669;
id.,
sez. V, 16.03.2016, n. 1081.
Ha chiarito la Sezione che se è vero che l’art. 51, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 ha mantenuto il principio della
suddivisione in lotti, al fine di favorire l’accesso delle
microimprese, piccole e medie imprese alle gare pubbliche,
già previsto dall’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006, n.
163, tuttavia, nel nuovo regime, il principio non risulta
posto in termini assoluti ed inderogabili, giacché il
medesimo art. 51, comma 1, secondo periodo afferma che “le
stazioni appaltanti motivano la mancata suddivisione
dell’appalto in lotti nel bando di gara o nella lettera di
invito o nella relazione unica di cui agli artt. 99 e 139”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.04.2018 n. 2044
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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3. Basandosi sull’“assoluta disomogeneità” dei
servizi oggetto di affidamento unitario, il TAR ha inoltre
affermato la necessità di un’unica gara suddivisa in lotti,
al fine di garantire l’accesso alla selezione da parte delle
micro-imprese, piccole e medie imprese, le quali, “diversamente,
si vedrebbero estromesse in caso di accorpamento di
prestazioni disomogenee”, alla luce della disciplina
normativa di cui agli artt. 30, 51 e 81 d.lgs. n. 50-2016.
Nel caso in esame tuttavia può ragionevolmente escludersi
che la disciplina di gara contestata possa produrre effetti
restrittivi della concorrenza in danno alle micro-piccole e
medie imprese, stante il valore economico oggettivamente
modesto dell’appalto (€ 344.265,00 nel triennio).
Peraltro, è pur vero che l’art. 51 d.lgs. n. 50-2016 ha
mantenuto il principio della suddivisione in lotti, al fine
di favorire l’accesso delle microimprese, piccole e medie
imprese alle gare pubbliche, già previsto dall’art. 2, comma
1-bis, d.lgs. n. 163/2006; tuttavia, nel nuovo regime, il
principio non risulta posto in termini assoluti ed
inderogabili, giacché il medesimo art. 51, comma 1, secondo
periodo afferma che “le stazioni appaltanti motivano la
mancata suddivisione dell’appalto in lotti nel bando di gara
o nella lettera di invito o nella relazione unica di cui
agli articoli 99 e 139”.
Il principio della suddivisione in lotti può dunque essere
derogato, seppur attraverso una decisione che deve essere
adeguatamente motivata (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI,
12.09.2014, n. 4669) ed è espressione di scelta
discrezionale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 16.03.2016,
n. 1081), sindacabile soltanto nei limiti della
ragionevolezza e proporzionalità, oltre che dell’adeguatezza
dell’istruttoria, in ordine alla decisone di frazionare o
meno un appalto “di grosse dimensioni” in lotti,
mentre, come detto, l’appalto in esame non è di elevato
importo economico e la scelta del Comune di Orvieto è
motivata, come sarà meglio esplicitato ai punti nn. 4 e 5
della presente decisione, in modo del tutto ragionevole e,
perciò, sottratta al sindacato del giudice di legittimità,
non ravvisandosi manifesta illogicità, irragionevolezza o
arbitrarietà nel tenore della medesima.
4. In particolare, ad avviso della Sezione, l’adozione
dell’opzione del lotto unico risulta ragionevole perché la
commessa riveste carattere unitario, in quanto sia il
servizio di gestione e controllo sia il servizio
complementare di pulizia hanno ad oggetto le medesime aree
di parcheggio e i medesimi impianti di risalita.
Inoltre, si tratta di servizi che rispondono alla medesima
finalità di garantire il corretto funzionamento e la
migliore fruibilità del sistema integrato composto da
parcheggi e impianti di mobilità alternativa.
La scelta di non frazionare l’appalto in lotti, nel caso in
cui l'unitarietà sia imposta dall'oggetto dell'appalto e
dalle modalità esecutive scaturenti dalla situazione
materiale e giuridica dei luoghi entro cui operare può
ritenersi ragionevole e non illogica o arbitraria: non può
sottacersi infatti, sotto altro concorrente profilo, che le
attività prestazionali oggetto dei suddetti servizi non
esigono specializzazioni, né qualifiche particolari che
impongano, giustificano o rendano anche solo opportuna una
suddivisione in lotti. |
EDILIZIA PRIVATA:
All’Adunanza plenaria la questione della natura giuridica,
pubblicistica o privatistica, della rideterminazione degli
oneri concessori.
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione
siciliana rimette all’Adunanza plenaria la questione della
natura giuridica, pubblicistica o privatistica, dell’atto
mediante il quale sono rideterminati gli oneri concessori in
occasione del rilascio del titolo edilizio ai sensi
dell’art. 16, d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
Edilizia – Contributo per il rilascio del permesso di
costruire – Rideterminazione – Estrinsecazione di potere
autoritativo o facoltà nell’ambito del rapporto paritetico
di natura creditizia – Deferimento all’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato.
Vanno rimesse all’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato le seguenti questioni:
a) se la rideterminazione degli oneri concessori in occasione del
rilascio del titolo edilizio ai sensi dell’art. 16, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 sia estrinsecazione di potere
autoritativo da parte dell’amministrazione comunale,
nell’ambito dell’autotutela pubblicistica soggetta ai
presupposti e requisiti dell’art. 21-novies, l. 07.08.1990,
n. 241, ovvero sia espressione di una sua legittima facoltà,
nell’ambito del rapporto paritetico di natura creditizia,
conseguente al rilascio del titolo edilizio a carattere
oneroso, sottoposto nelle sue forme di esercizio al termine
prescrizionale ordinario;
b) ove dovesse prevalere la prima opzione interpretativa, se la
rideterminazione dei suddetti oneri sia da ascrivere
all’ambito dei rapporti di diritto pubblico quali che siano
le ragioni che l’abbiano ispirata, ovvero solo nei casi in
cui la stessa dipenda dalla applicazione di parametri o
coefficienti determinativi diversi (originari o
sopravvenuti) da quelli in precedenza applicati, con
esclusione quindi dei casi di errore materiale di calcolo
delle somme dovute sulla base dei medesimi parametri
normativi;
c) in alternativa ed a prescindere dall’inquadramento giuridico
della fattispecie secondo le richiamate categorie, e quale
che sia la natura giuridica da riconnettere al provvedimento
rideterminativo degli oneri concessori, se vi sia spazio, ed
in quali limiti, perché possa trovare applicazione nella
fattispecie in esame il principio del legittimo affidamento
del privato, da ricostruire vuoi sulla base della disciplina
pubblicistica dell’autotutela, vuoi su quella privatistica
della lealtà e della buona fede nell’esecuzione delle
prestazioni contrattuali, ovvero sulla base dei principi
desumibili dai limiti posti dall’ordinamento civile per
l’annullamento del contratto per errore o per altra causa
(1).
---------------
(1)
I. - Con l’ordinanza in epigrafe, il Consiglio di giustizia
amministrativa per la regione siciliana rimette all’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato la questione della natura
giuridica dell’atto mediante il quale l’autorità comunale
provvede alla rideterminazione degli oneri concessori
previsti dall’art. 16 del t.u. edilizia (d.P.R. n. 380 del
2001).
Nel caso esaminato dal Collegio, l’amministrazione ha
rideterminato, in malam partem, gli oneri concessori
dovuti dal soggetto beneficiario del titolo edilizio, a
notevole distanza temporale dal rilascio del titolo e dalla
originaria determinazione degli oneri.
L’esame dei motivi di ricorso richiede, secondo l’ordinanza,
la qualificazione giuridica della fattispecie, dovendosi
stabilire se debba farsi applicazione di istituti di natura
pubblicistica, qualificando la rideterminazione come una
forma di autotutela, ovvero di istituti di diritto privato.
In entrambi i casi, si pone il problema della tutela della
posizione del privato che, medio tempore, abbia ritirato il
provvedimento assentivo e iniziato o completato i lavori,
facendo, in sostanza, affidamento su un determinato
preventivo di spesa del programmato intervento edilizio.
II. - Il Collegio premette che, nel caso esaminato, non si è
trattato di errore di calcolo, che si riscontra in caso di
svolgimento del conteggio sulla base di criteri corretti ma
applicati in modo inesatto, ma di errore di impostazione dei
criteri di calcolo, in quanto:
a) è stata applicata un’unica tariffa anziché due
tariffe differenziate in relazione ai distinti parametri
della superficie lorda dei fabbricati e della superficie
complessiva dell’insediamento;
b) è stata applicata la tariffa a una superficie
inferiore a quella effettiva.
Nella pronuncia si precisa che non si registrano posizioni
omogenee nella giurisprudenza amministrativa sulla natura
giuridica dell’atto di rideterminazione degli oneri
concessori.
c) Le tesi che accolgono l’orientamento
privatistico (Cons. Stato, sez. IV, 20.11.2012, n. 6033, in
Giurisdiz. amm., 2012, I, 1631; Cons. Stato, sez. V,
04.05.1992, n. 360, in Riv. giur. ed., 1992, I, 624), pur
muovendo dal comune rilievo secondo cui le controversie in
tema di determinazione della misura dei contributi edilizi
riguardano diritti soggettivi che traggono origine
direttamente da fonti normative, giungono a conclusioni
diversificate sulla disciplina applicabile in caso di
rideterminazione in peius dell’onere; in sintesi:
c1) secondo l’orientamento “privatistico”
(Cons. giust. amm. reg. sic., 15.06.2007, n. 422; Id.,
18.05.2007, n. 373; Id., 21.03.2007, n. 244, in Foro amm. –
Cons. Stato, 2007, 1063; Id., 02.03.2007, n. 64, in
Giurisdiz. amm., 2007, I, 412), la determinazione del
contributo darebbe luogo a un rapporto paritetico,
azionabile da entrambe le parti nel termine di prescrizione
ordinario di dieci anni.
La definizione dell’ammontare del contributo si
cristallizzerebbe, tuttavia, al momento del rilascio del
titolo edilizio e, in applicazione della disciplina
civilistica sul contratto in generale, sarebbe rettificabile
solo in caso di errore di calcolo e non potrebbe trovare
applicazione la disciplina dell’annullamento dell’atto per
errore per difetto del requisito della riconoscibilità;
c2) una diversa ricostruzione,
ancora di matrice privatistica (cfr. in particolare, Cons.
Stato, sez. IV, 27.09.2017, n. 4515; Cons. Stato, sez. IV,
12.06.2017, n. 2821), giunge a conclusioni opposte,
ritenendo che la rettifica dell’ammontare del contributo sia
sempre consentita, perché l’applicazione di una tariffa
diversa da quella corretta altro non è che un errore di
calcolo;
d) secondo l’orientamento “pubblicistico”
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.12.2016, n. 5402), il
rapporto nascente dalla determinazione del contributo
andrebbe qualificato come prestazione patrimoniale imposta
di carattere non tributario, con conseguente applicabilità
delle regole dell’autotutela amministrativa.
Nell’alveo della ricostruzione pubblicistica, il Collegio
richiama anche
Cons. Stato, Ad. plen., sentenza 07.12.2016, n. 24
(in Foro it., 2017, III, 129, e in Giornale dir. amm., 2017,
528 (m), con nota di CUTINI, oggetto della
News US in data 03.01.2017, allegata, cui si
rinvia anche per approfondimenti dottrinali e
giurisprudenziali), che, con riferimento al tema
dell’applicabilità delle sanzioni per il ritardo nel
pagamento dei contributi, ha affermato che il contributo
dovuto dal privato in occasione del ritiro di un permesso a
costruire si colloca nell’ambito dei rapporti di diritto
pubblico e deve essere qualificato come una prestazione
patrimoniale imposta, di carattere non tributario.
Il Collegio manifesta, quindi, la propria preferenza per la
ricostruzione pubblicistica ritenendo che:
e) consente di recuperare coerenza sul piano
dogmatico con il sistema giuridico di riferimento;
f) garantisce un migliore contemperamento delle
esigenze pubblicistiche, sottese alla corretta
determinazione del contributo dovuto e alla salvaguardia
degli interessi erariali, anche in sede di correzione di
precedenti errori di quantificazione, e delle esigenza di
tutela della parte privata riguardo l’affidamento riposto
nella originaria determinazione dell’ente;
g) consente, a tutela dell’affidamento del
privato, di applicare gli istituti posti a presidio delle
garanzie partecipative previsti per l’attività
amministrativa e le condizioni legali di esercizio
dell’autotutela, avuto riguardo ai tempi e ai contenuti
motivazionali dell’atto di secondo grado (artt.
21-quinquies, octies, novies della l. n. 241 del 1990).
III. – Per completezza si segnala quanto segue:
h)
Cons. Stato, Ad. plen., sentenza 07.12.2016, n. 24
cit., ha precisato che “l’amministrazione comunale ha il
pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario
di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta
dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso
pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione
anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto
contributo, abbia omesso di escutere la garanzia
fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli
ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere
attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore
principale”;
i) oltre alle sentenze richiamate nell’ordinanza
di rimessione, hanno aderito alla tesi pubblicistica:
i1) Cons. Stato, sez. IV,
28.11.2017, n. 5571, secondo cui il contributo di
costruzione rappresenta una compartecipazione del privato
alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione e, quindi, una prestazione
patrimoniale imposta di indole non tributaria, da
ricollegare, sul piano eziologico, al surplus di opere di
urbanizzazione che l’amministrazione comunale è tenuta ad
affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del
richiedente il titolo edilizio;
i2) Cons. Stato, sez. IV,
07.11.2017, n. 5133, il quale, nel confermare la natura di
prestazione patrimoniale imposta di carattere non tributario
del contributo di costruzione, precisa che le prestazioni da
adempiere da parte dell’amministrazione comunale e del
privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro
poste in posizione sinallagmatica, con la conseguenza che il
soggetto obbligato è tenuto a corrispondere il contributo
nel rispetto dei termini stabiliti e il suo mancato
pagamento legittima l’amministrazione ad applicare sanzioni
pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del ritardo, a
prescindere dall’eventuale responsabilità del privato, e, in
caso di persistenza dell’inadempimento, alla riscossione del
contributo e delle sanzioni secondo le norme vigenti in
materia di riscossione coattiva delle entrate;
i3) Cons. giust. amm. reg.
sic., 03.11.2017, n. 471, in Foro amm., 2017, 11, 2268,
secondo cui il contributo, previsto dall’art. 3 della l. n.
10 del 1977, in caso di concessione edilizia, è una
prestazione patrimoniale di natura impositiva che trova la
sua ratio nell’incremento patrimoniale conseguito per
l’intervento edilizio dal titolare del permesso di costruire
e la causa giuridica del pagamento è la sussistenza di un
titolo abilitativo valido ed efficace e la concreta
fruizione da parte del concessionario;
j) in relazione alle conseguenze della scelta
sulla natura giuridica dell’atto, occorre precisare che
l’adesione alla tesi pubblicistica comporta che il privato è
obbligato a impugnare l’atto che determina o ridetermina il
contributo nel termine decadenziale previsto per
l’impugnazione degli atti amministrativi. Al contrario, in
caso di adesione alla tesi privatistica, è possibile
contestare l’esistenza o il contenuto dell’obbligazione
entro il termine prescrizionale;
k) secondo Cons. Stato, sez. IV, 20.11.2017, n.
5356, il rilascio della concessione edilizia è il fatto
costitutivo dell’obbligo giuridico del concessionario di
corrispondere il contributo per oneri di urbanizzazione. Ne
discende che il contributo è dovuto per il solo rilascio
della concessione, senza che rilevi l’eventuale già
intervenuta realizzazione di opere di urbanizzazione.
Muovendo da questa prospettiva, l’esenzione prevista
dall’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001
è dovuta solo qualora concorrano due presupposti: “uno
oggettivo, l’ascrivibilità del manufatto oggetto di
concessione edilizia alla categoria delle opere pubbliche o
di interesse generale, e l’altro soggettivo, l’esecuzione
delle opere da parte di enti istituzionalmente competenti,
vale a dire da parte di soggetti cui sia demandata in via
istituzionale la realizzazione di opere di interesse
generale, ovvero da parte di privati concessionari dell’ente
pubblico, purché le opere siano inerenti all’esercizio del
rapporto concessorio”;
l) nel senso dell’applicabilità delle
disposizioni in tema di interruzione e di sospensione della
prescrizione al diritto di credito avente ad oggetto il
pagamento della sanzione e degli interessi per il ritardato
pagamento degli oneri concessori dovuti all’amministrazione
comunale per il rilascio di permesso a costruire si veda
Cons. Stato, sez. IV, 13.11.2017, n. 5202;
m) sulla possibilità (ed i limiti) che un terzo
–diverso dal titolare del permesso di costruire- adempia
l’obbligo di pagamento del contributo e sulla legittimazione
a contestare in giudizio l’entità dello stesso, si veda
Cons. Stato, sez. IV, 29.12.2016, n. 5523 (che approfondisce
la correlazione fra gli istituti civilistici
dell’adempimento del terzo e della estinzione
dell’obbligazione con il rapporto pubblicistico che
scaturisce dal rilascio del permesso di costruire);
n) ai sensi dell’art. 1, comma 460, della l. n.
232 del 2016, “a decorrere dal 01.01.2018, i proventi dei
titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal
testo unico di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, sono destinati esclusivamente
e senza vincoli temporali alla realizzazione e alla
manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di
complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle
periferie degradate, a interventi di riuso e di
rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni
abusive, all’acquisizione e alla realizzazione di aree verdi
destinate a uso pubblico, a interventi di tutela e
riqualificazione dell’ambiente e del paesaggio, anche ai
fini della prevenzione e della mitigazione del rischio
idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione
del patrimonio rurale pubblico, nonché a interventi volti a
favorire l’insediamento di attività di agricoltura
nell’ambito urbano”.
Sul tema, in dottrina, si vedano, tra gli altri: AA.VV., La
rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al diritto
delle città, a cura di DI LASCIO e GIGLIONI, Bologna, 2017
(cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti dottrinali e
normativi); URBANI, Governo del territorio e delle attività
produttive. Tra regole, libertà d’iniziativa economica e
disciplina della proprietà, in Urb. app., 2016, 12, 1309;
SCALIA, Governo del territorio e tutela dell’ambiente:
urbanistica e limitazione del consumo del suolo, in Urb.
app., 2016, 10, 1065;
o) Corte cost., 03.11.2016, n. 231 (in Foro it.,
2017, I, 2566, cui si rinvia per ogni approfondimento sul
tema della determinazioni degli oneri di urbanizzazione), ha
dichiarato “incostituzionale l’art. 6, 20º e 21º comma,
primo trattino, l.reg. Liguria 07.04.2015 n. 12, nella parte
in cui stabilisce l’esonero dal contributo di costruzione
per gli interventi sul patrimonio edilizio esistente che
determinano un aumento della superficie agibile
dell’edificio o delle singole unità immobiliari, quando
l’incremento della superficie agibile all’interno delle
unità immobiliari sia inferiore a 25 metri quadrati e quando
le variazioni di superficie derivino da mera eliminazione di
muri divisori, e per gli interventi di frazionamento di
unità immobiliari che determinino un numero di unità
immobiliari inferiore al doppio di quelle esistenti, sia
pure con aumento di superficie agibile” e “inammissibile,
in quanto formulata in termini generici in ordine ai
parametri costituzionali invocati, la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 6, 20º e 21º comma,
primo e secondo trattino, l.reg. Liguria 07.04.2015 n. 12,
nella parte in cui disciplina l’imposizione e l’ammontare
del contributo di costruzione, in riferimento agli art. 3 e
97 cost.”;
p) Cons. Stato, sez. V, 28.03.2008, n. 1334, in
Foro it., 2008, III, 556, ha precisato che “il giudizio
concernente l’esclusione dell’esenzione dal contributo di
costruzione ha per oggetto un interesse legittimo, quando la
debenza del contributo risalga a una convenzione urbanistica
e al relativo permesso di costruire; pertanto il relativo
ricorso va proposto entro un termine di decadenza" (CGARS,
ordinanza 27.03.2018 n. 175 - commento tratto da
e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Occasionalità del trasporto - Criteri e
indici sintomatici - Configurabilità del reato - Natura di
illecito istantaneo - Condotta di assoluta occasionalità -
Fattispecie: trasporto di materiale ferroso qualificato come
rifiuto.
Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 256,
comma 1, d.lgs. n.152/2006, trattandosi di illecito
istantaneo, è sufficiente anche una sola condotta integrante
una delle ipotesi alternative tipizzate dalla fattispecie
penale, purché costituisca una "attività" e non sia
assolutamente occasionale, laddove è la stessa descrizione
normativa ad escludere dall'area di rilevanza penale le
condotte di assoluta occasionalità.
Inoltre, il carattere non occasionale della condotta di
trasporto illecito di rifiuti può essere desunto anche da
indici sintomatici, quali la provenienza del rifiuto da una
attività imprenditoriale esercitata da chi effettua o
dispone l'abusiva gestione, la eterogeneità dei rifiuti
gestiti, la loro quantità, le caratteristiche del rifiuto
indicative di precedenti attività preliminari di prelievo,
raggruppamento, cernita, deposito, non rilevando appunto la
qualifica soggettiva del soggetto agente bensì la concreta
attività posta in essere in assenza dei prescritti titoli
abilitativi, che può essere svolta anche di fatto o in modo
secondario, purché non sia caratterizzata da assoluta
occasionalità.
RIFIUTI - Definizione e qualificazione
di rifiuto - Finalità della normativa europea -
Giurisprudenza della Corte di Giustizia - Intenzione del
detentore - Ininfluenza.
In tema di rifiuti, la definizione dell'art. 183, comma
primo, lett. a), del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, a termini
della quale costituisce rifiuto qualsiasi sostanza od
oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione
ovvero l'obbligo di disfarsi, esige -in conformità alla
giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale impone di
interpretare l'azione di disfarsi alla luce della finalità
della normativa europea, volta ad assicurare un elevato
livello di tutela della salute umana e dell'ambiente secondo
i principi di precauzione e prevenzione- che la
qualificazione alla stregua di rifiuti dei materiali di cui
l'agente si disfa consegua a dati obiettivi connaturanti la
condotta tipica, anche in rapporto a specifici obblighi di
eliminazione, con conseguente esclusione della rilevanza di
valutazioni soggettivamente incentrate sulla mancanza di
utilità, per il medesimo, dei predetti materiali (Cass. Sez.
3, n. 19206 del 16/03/2017, Costantino).
Per rifiuto, quindi, deve intendersi qualsiasi sostanza od
oggetto di cui il produttore o il detentore si disfi,
restando irrilevante se ciò avvenga attraverso lo
smaltimento del prodotto ovvero tramite il suo recupero e,
inoltre, prescindendosi da ogni indagine sull'intenzione del
detentore che abbia escluso ogni riutilizzazione economica
della sostanza o dell'oggetto da parte di altre persone.
RIFIUTI
- Attività di gestione - Mancanza di autorizzazione,
iscrizione o comunicazione - Irrilevanza penale della
condotta in ragione della occasionalità - Presupposti e
limiti - Accertamento della natura di un oggetto quale
rifiuto - Quaestio facti demandata al giudice di merito -
Insindacabile in sede di legittimità - Artt. 193, 208, 209,
210, 211, 212, 214, 215 e 216 256 d.lgs. n. 152/2006.
Il reato di cui all'art. 256, comma primo, del d.lgs.
n. 152/2006, che sanziona le attività di gestione compiute in
mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o
comunicazione di cui agli artt. 208, 209, 210, 211, 212,
214, 215 e 216 del medesimo d.lgs. è configurabile nei
confronti di chiunque svolga tali attività anche di fatto o
in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una
attività primaria diversa che richieda, per il suo
esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e non sia
caratterizzata da assoluta occasionalità.
L'accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto, ai
sensi dell'art. 183 d.lgs. 03.04.2006, n. 152 costituisce
una quaestio facti, come tale demandata al giudice di
merito, ed insindacabile in sede di legittimità se sorretta
da motivazione esente da vizi logici o giuridici (Sez. 3, n.
7037 del 18/01/2012, Fiorenza) (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 12.03.2018 n. 10799 - link a
www.ambientediritto.it). |
AGGIORNAMENTO AL 03.04.2018 |
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IN EVIDENZA |
ESPROPRIAZIONE:
Possibilità di abdicare al diritto di proprietà di un fondo
occupato ma poi non espropriato.
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Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione –
Omessa espropriazione – Abdicazione diritto di proprietà –
Esclusione.
Il privato il cui fondo sia stato
occupato per la realizzazione di un’opera pubblica o di
pubblica utilità e che poi non sia stato espropriato nelle
forme legislativamente previste, non può unilateralmente
abdicare al diritto di proprietà vantato sul fondo medesimo
(1).
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(1) Ha chiarito il Tar che alla base di tale conclusione ci sono
due ordini di ragioni.
Va rilevato, in primo luogo, che l’art. 42-bis, d.P.R.
08.06.2001, n. 327 consente di regolarizzare le predette
occupazioni illegittime mercé l’adozione del c.d. “decreto
di acquisizione sanante”, e tanto con riferimento a
qualsiasi fattispecie di occupazione illegittima, futura o
passata, sia essa connotata, o meno, da una rinuncia
abdicativa del privato; inoltre, non è prevista la
possibilità che il “decreto di acquisizione sanante”
abbia come destinatario un soggetto diverso dal proprietario
del fondo occupato né che esso possa avere effetti diversi
da quelli traslativi della proprietà.
L’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001, in definitiva,
sottende che il bene immobile illegittimamente occupato per
la realizzazione di un’opera di pubblica utilità rimane
sempre di proprietà del soggetto che risulta esserne
proprietario al momento della occupazione, fino a che la
proprietà venga ceduta alla amministrazione occupante (o a
terzi) nei modi previsti dalla legge. Pertanto si può
affermare che l’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001 ha
definitivamente certificato l’impossibilità per il privato
di rinunciare unilateralmente al diritto di proprietà di un
fondo illegittimamente occupato per scopi di pubblica
utilità
In secondo luogo, ed a prescindere dalle considerazioni che
possono trarsi dalla disciplina specifica afferente le
occupazioni illegittime per causa di pubblica utilità, va
rilevato che nel nostro ordinamento giuridico la rinunzia
abdicativa (e non traslativa) ad un diritto reale può
ritenersi consentita solo nei casi tipici previsti dal
codice civile, tra i quali non è inclusa la rinunzia
abdicativa al diritto di proprietà esclusiva su bene
immobile: una tale rinunzia, pertanto, non può essere
validamente esercitata né tramite atto unilaterale espresso,
ancorché rogato da notaio, né implicitamente, mediante
domanda giudiziale tendente al riconoscimento
dell’equivalente monetario del bene immobile oggetto della
rinunzia abdicativa.
Diversamente opinando –e cioè ammettendo che il privato
possa abdicare unilateralmente alla proprietà di un bene
immobile, occupato o meno per scopi di pubblica utilità- si
perviene a risultati paradossali ed estremamente dannosi per
la finanza pubblica.
A livello generale va rilevato che la rinunzia abdicativa
alla proprietà esclusiva di beni immobili renderebbe i beni
stessi privi di proprietario e, come tali, devoluti al
patrimonio dello Stato ai sensi dell’art. 827 c.c.: per
effetto di ciò lo Stato diventerebbe proprietario di un
numero indefinito di beni immobili con riferimento ai quali
dovrebbe assicurare la custodia e la manutenzione, rimanendo
contestualmente privato del relativo gettito tributario:
tali effetti, di tutta evidenza estremamente gravosi per le
finanze dello Stato, si produrrebbero ex lege ed a
prescindere dalla conoscenza effettiva che lo Stato abbia
dell’acquisto della proprietà di immobili per effetto di
rinunzia abdicativa.
Con riferimento specifico alla occupazione illegittima di
fondi finalizzata alla realizzazione di opere di pubblica
utilità, premesso e ricordato che risulta ormai
completamente superato l’insegnamento pretorio secondo il
quale il privato perderebbe la proprietà del bene immobile
occupato per scopi di pubblica utilità quale effetto della
trasformazione impressa dalla attività manipolatrice della
amministrazione occupante, e rammentato altresì che in
giurisprudenza –soprattutto quella amministrativa– si è
progressivamente consolidato il principio secondo cui la
restituzione del bene al privato deve ritenersi sempre
possibile, e doverosa, perché in realtà nulla, se non
fattori di natura meramente economica, impedisce il
ripristino del bene allo stato originario e la restituzione
di esso, si deve constatare che:
a) non si giustifica (più) la corresponsione, al privato, del
risarcimento del danno commisurato al valore venale del bene
immobile, stante che tale bene non è estinto e viene
restituito al legittimo proprietario, virtualmente
arricchito del valore dell’opera pubblica che su di esso è
stata realizzata, che il privato volendo può ritenere e
sfruttare;
b) ammettendo che il privato, il cui bene sia stato
illegittimamente occupato per scopi di pubblica utilità,
possa unilateralmente rinunziare, a titolo “abdicativo”
(e non “traslativo”) alla proprietà del bene
medesimo, condizionando tale rinunzia al risarcimento del
danno commisurato al valore venale di esso, si ha che
l’amministrazione “occupante” rimane gravata
dell’onere di corrispondere un risarcimento privo (ormai) di
valida giustificazione giuridica e pur senza divenire
proprietaria del fondo sul quale ha realizzato l’opera di
pubblica utilità (giacché l’unico effetto immediato della
rinunzia “abdicativa” consiste nella dismissione del
bene dal patrimonio del privato, la cui proprietà sarebbe
semmai devoluta allo Stato ai sensi dell’art. 827 c.c.)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 28.03.2018 n. 368
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. La ricorrente era proprietaria in Comune di Cherasco
di un terreno di circa 1.200 mq censito al locale Catasto
terreni al Foglio 8, mapp. 93, avente destinazione agricola.
2. Il terreno in questione è adiacente alla strada “frazione
Veglia”, in relazione alla quale il Comune di Cherasco, con
delibera della Giunta municipale n. 118 del 28/08/2007, ha
approvato un progetto esecutivo per la realizzazione di
lavori di ampliamento e sistemazione, provvedendo dipoi a
contattare tutti i proprietari interessati per verificare la
possibilità di addivenire a cessione bonaria: tra essi anche
la ricorrente, il cui fondo sopra indicato è adiacente alla
strada comunale e del quale in base al progetto esecutivo il
Comune doveva acquisire una porzione.
3. Nel frangente la ricorrente ha firmato una sorta di
pre-accordo con il quale dimostrava la disponibilità alla
cessione gratuita “per l’asservimento dell’area necessaria
ad ampliare la strada fino ad ottenere una larghezza
dell’asfalto a 6 metri. La proprietaria richiede che in
occasione della prossima variante al PRGC venga inserita la
possibilità di realizzare un piccolo fabbricato
residenziale”, possibilità fino a quel momento non esistente
attesa la destinazione agricola del fondo.
4. Accordi bonari sono stati stipulati dal Comune anche con
gli altri proprietari, come risulta dalla delibera di Giunta
Municipale impugnata, n. 13 del 24.01.2008, oggetto di
gravame, nella quale vengono anche esplicitati i criteri di
indennizzo e laddove, nella lista dei proprietari
interessati, accanto al nome della ricorrente non è indicato
alcun indennizzo.
5. L’Amministrazione, senza dover disporre l’occupazione
d’urgenza degli immobili, ha quindi preso possesso delle
aree necessarie, ha iniziato i lavori nel febbraio 2008 e li
ha terminati nel settembre 2009.
6. Dopo di ciò, constatata l’effettiva superficie occupata a
danno di ciascuno dei proprietari interessati, il Comune ha
determinato le relative indennità di espropriazione: la
ricorrente, tuttavia, secondo quanto il Comune ha riferito
nella nota di chiarimenti acquisita in corso di causa, in
realtà non è mai stata contattata a tale scopo poiché
l’Amministrazione riteneva che essa avesse acconsentito alla
cessione a titolo gratuito.
7. Il decreto di esproprio, con riguardo al fondo della
ricorrente, non è mai stato emesso né è stato stipulato
alcun atto comportante traslazione della proprietà.
8. La ricorrente nel 2009, a lavori ultimati, tramite il
proprio difensore ha formulato richiesta di restituzione del
fondo o, in difetto, di risarcimento del danno: ne è seguita
una trattativa che non è andata a buon fine.
9. La ricorrente si è pertanto indotta ad impugnare la
delibera di Giunta n. 13 del 24.01.2008, che essa
asserisce di aver conosciuto solo nel 2010, lesiva nella
misura in cui non riconosce ad essa alcun indennizzo:
nell’atto introduttivo del giudizio essa ha pertanto chiesto
al Tribunale di annullare la delibera medesima e, in via
risarcitoria, di “accertare e dichiarare tenuta
l’Amministrazione comunale alla reintegrazione in forma
specifica del danno patito dalla ricorrente con conseguente
restituzione della parte di terreno acquisita dal Comune di Cherasco senza titolo, ovvero, in subordine, condannare
l’Amministrazione al risarcimento del danno per equivalente
monetario in misura non inferiore ad E. 5848,00 oltre
interessi dal giorno della occupazione illegittima al saldo,
oltre alla rivalutazione monetaria.”
10. Nessuno si è costituito in giudizio per il Comune di
Cherasco.
11. Con atto depositato il 07.04.2011 la ricorrente,
premesso di aver ricevuto dalla Amministrazione comunale una
comunicazione nella quale si faceva presente che
l’occupazione del terreno della signora Ta. era
legittima, che essa aveva manifestato la disponibilità a
cederlo gratuitamente, che la richiesta formulata dalla
medesima risultava eccessiva e che peraltro il Comune era
disponibile ad acquistare l’appezzamento di 90 mq. di
proprietà della medesima, utilizzato per l’ampliamento della
strada, al prezzo di Euro 2,74 mq., tanto premesso la
signora Ta. ha dichiarato di rinunciare alla domanda di
annullamento dell’atto impugnato, insistendo solo per le
domande risarcitorie.
12. Il ricorso è stato chiamato alla pubblica udienza del 25.01.2017, allorché il Collegio ha chiesto alla
Amministrazione di depositare una nota di chiarimenti,
adempimento al quale il Comune ha provveduto: dalla nota
risulta quanto sopra riferito nonché il fatto che con rogito
dell’11.10.2011 la ricorrente ha venduto la restante
parte del fondo interessato dall’esproprio, per una
superficie di 1.117 mq.. La ricorrente, peraltro, ha
prodotto in giudizio copia dell’atto di vendita, dal quale
risulta che il corrispettivo pattuito per la vendita è pari
ad Euro 4.500,00, corrispondente ad E. 4,02 al mq.
13. Il ricorso è quindi tornato per la discussione del
merito alla pubblica udienza del 07.06.2017, allorché è
stato introitato a decisione.
14. Il Collegio ritiene preliminarmente di dover precisare
che, limitatamente alla domanda di annullamento, esso va
dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di
interesse, per quanto dichiarato da parte ricorrente
nell’atto depositato il 07.04.2011.
15. Resta da decidere la domanda risarcitoria, in relazione
alla quale il Collegio deve pregiudizialmente verificare la
propria giurisdizione, tenuto conto del fatto che viene in
considerazione una ipotesi di occupazione di terreno privato
non assistita da decreto di esproprio o decreto che ha
disposto la occupazione d’urgenza, finalizzata però alla
realizzazione di un’opera pubblica.
15.1. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, già con
sentenza n. 2688/2007, hanno affermato il principio, in
seguito sempre ribadito (si veda ancora la pronuncia di
Cassazione civile, sez. un., 23/03/2015, n. 5744), secondo
cui “In materia espropriativa, sussiste la giurisdizione del
Giudice Amministrativo nei casi in cui l’occupazione e la
irreversibile trasformazione del fondo siano avvenute anche
in assenza o a seguito dell’annullamento del decreto di
esproprio ma in presenza di una dichiarazione di pubblica
utilità, anche se questa sia poi stata annullata in via
giurisdizionale o di autotutela (c.d. occupazione usurpativa
spuria), mentre spetta al Giudice Ordinario la
giurisdizione nei casi in cui l’occupazione e la
irreversibile trasformazione del fondo siano avvenute in
assenza della dichiarazione di pubblica utilità e nelle
ipotesi di sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di
pubblica utilità (fattispecie di c.d. occupazione usurpativa
pura”.
Nel caso che occupa l’Amministrazione comunale ha
approvato il progetto esecutivo di ampliamento e
sistemazione della strada con delibera di Giunta Municipale
del 28.08.2007, e tale progetto, ai sensi dell’art. 12,
comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 327/2001, equivale a
dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. Inoltre, ai
sensi di quanto previsto dal combinato disposto dei comma 3
e 6 dell’art. 13 del D.P.R. 327/2001, la dichiarazione di
pubblica utilità ha una efficacia di cinque anni, dal che
consegue che le opere realizzate nel predetto periodo di
tempo debbono ritenersi assistite da una valida
dichiarazione di pubblica utilità.
15.2. Nel caso di specie i lavori sono iniziati nel 2008 e
portati a termine nel 2009: pertanto si versa certamente in
una ipotesi di occupazione “appropriativa”, e non già
“usurpativa”, con conseguente sussistenza della
giurisdizione del Giudice Amministrativo sulla domanda
risarcitoria formulata da parte ricorrente, la quale nella
memoria depositata il 22.12.2016 ha precisato le
conclusioni chiedendo il riconoscimento del danno:
a)
rapportato al periodo di illegittima occupazione del terreno
e da quantificarsi in misura corrispondente agli interessi
legali sul valore del bene;
b) all’equivalente del valore
della porzione di terreno illegittimamente occupata: sul
punto parte ricorrente invoca espressamente l’insegnamento
di cui alla pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione n. 735/2015, secondo la quale la perdita della
proprietà di un bene, a carico di un privato, può
verificarsi anche in dipendenza della c.d. rinunzia abdicativa al diritto dominicale, rinunzia che può anche
ravvisarsi mediante la richiesta di tutela risarcitoria.
16. Prima di passare alla disamina del
merito delle domande formulate dalla ricorrente, il Collegio ritiene opportuno
ripercorrere, sia pure per sommi capi, la giurisprudenza
venutasi a formare nel corso degli ultimi decenni con
riferimento alla sorte della proprietà dei fondi privati
occupati da una pubblica amministrazione per la
realizzazione di opere di pubblica utilità, con riferimento
ai casi in cui detta occupazione non sia stata seguita dalla
emissione, nei termini di legge, del decreto di esproprio.
16.1. Con la storica sentenza della Corte di Cassazione n.
1464/1983 si inaugurò l’orientamento giurisprudenziale che
annetteva alla irreversibile e totale trasformazione di un
fondo connessa alla realizzazione di un’opera di pubblica
utilità la acquisizione della proprietà del sedime
interessato in capo alla Pubblica Amministrazione
committente tale opera. Detto istituto, di pura creazione
pretoria, è stato denominato nel corso del tempo prima
accessione invertita e poi occupazione acquisitiva o
appropriativa o espropriativa; esso si fondava, secondo
l’originario disegno di cui alla sentenza delle Sezioni
Unite n. 1464/1983, poi confermato dalla sentenza, sempre
delle Sezioni Unite, n. 12546 del 1992, sulla constatazione
che laddove la realizzazione di un’opera pubblica implichi
una irreversibile trasformazione del fondo privato,
l’originario diritto di proprietà sullo stesso viene
totalmente svuotato e dunque si estingue; contestualmente la
azione manipolatrice-distruttrice della Amministrazione crea
un quid novi di cui la Amministrazione medesima acquista la
proprietà a titolo originario, con esclusione, dunque, di
una fattispecie di tipo traslativo; al proprietario privato
del suo diritto per effetto della azione
manipolatrice-distruttrice della Amministrazione, è dovuto
un risarcimento del danno.
16.2. Nel contesto di questo orientamento il titolo in base
al quale la Amministrazione acquisiva la proprietà del bene
risultante dalla sua azione manipolatrice/distruttrice del
fondo privato, non è sempre stato individuato in modo
univoco: dall’originario richiamo all’istituto della
accessione di cui all’art. 938 c.c., effettuato nella
ricordata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione, la Giurisprudenza è poi passata attraverso il
richiamo all’istituto della usucapione, alla tesi
dell’attrazione dell’opera al regime dei beni pubblici per
giungere a fondare l’acquisto della proprietà del fondo e
dell’opera pubblica sullo stesso realizzata in virtù del
collegamento tra l’opera e la dichiarazione di pubblica
utilità. Allo stesso modo non era univocamente individuata
la causa della perdita del diritto di proprietà in capo al
privato, che infatti già la sentenza della Corte di
cassazione, Sez. II, n. 3872 del 04.04.1987 affermava
permanere, nonostante l’irreversibile trasformazione ed
utilizzazione del bene, sino a che il privato non avesse
chiesto a titolo risarcitorio il valore integrale
dell’immobile, esprimendo in tal modo la volontà di
abbandonare il diritto di proprietà del suolo in favore
dell’occupante.
16.3. Si deve ricordare, peraltro, che a partire dalla metà
degli anni Novanta la Cassazione (Sez. I n. 12841 del
15.12.1995; SS.UU. n. 1907 del 4.3.1997; n. 148 del
10.01.1998), anche per il fatto che l’art. 5-bis della L.
359/1992 fissava l’indennizzo per le occupazioni illegittime
“per causa di pubblica utilità”, ha cominciato a distinguere
i casi in cui la attività manipolatrice del fondo privato,
da parte della amministrazione, risultava assistita da una
precedente dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e
quelli in cui una tale dichiarazione mancava ab origine o
era venuta meno successivamente, stabilendo che in questa
seconda fattispecie, poi denominata “occupazione
usurpativa”, non sussistevano gli estremi per ritenere
operante il meccanismo acquisitivo del bene realizzato dalla
amministrazione, che non poteva dirsi rispondente a fini
pubblici; conseguentemente e correlativamente neppure si
verificava l’effetto estintivo del diritto di proprietà del
privato, che poteva chiedere la restituzione del bene.
Con
riferimento alle fattispecie in esame, allora, la perdita
della proprietà in capo al privato si determinava non per
effetto dello “svuotamento” del diritto bensì per effetto
della (eventuale) domanda risarcitoria con la quale il
privato chiedeva di essere risarcito del valore del terreno,
stante che una simile domanda conteneva e comportava una
implicita rinuncia al diritto dominicale con valenza
meramente abdicativa e non traslativa del diritto, dovendosi
conseguentemente escludere che effetto automatico di tale
rinuncia fosse costituito dall’acquisto del fondo in capo
all’ente pubblico occupante (Cass. Civ. Sez. I n. 9173 del
03.05.2005, che ha escluso -essendo la rinuncia alla
proprietà atto abdicativo e non traslativo- che vi fosse
contraddizione tra le statuizioni del giudice di merito di
riconoscere, per un verso, al proprietario il risarcimento
integrale per la perdita della proprietà e di negare, per
altro verso, l'acquisizione della proprietà stessa in capo
all'ente pubblico occupante; Cass. Civ. Sez. I n. 184 del
18.02.2000; n. 6515 del 16.07.1997).
Ed in tal caso il
risarcimento, proprio perché non collegato alla necessità di
realizzare una finalità pubblica, doveva essere liquidato
secondo i criteri ordinari, e non secondo i criteri indicati
dall’art. 5-bis della L. 359/1992, avuto riguardo alla
circostanza che la avvenuta realizzazione dell’opera
pubblica da parte della amministrazione occupante comportava
una tale ed irreversibile trasformazione del fondo da far
ritenere di fatto il bene originario irrecuperabile: si
legge infatti nella storica sentenza della Suprema Corte n.
1907/1997 che “poiché la valenza restitutoria dell'azione
del privato potrebbe trovare ostacolo o nell'eccessiva
onerosità di essa per il debitore (art. 2058, comma 2, c.c.)
o nel pregiudizio per l'economia nazionale (art. 2933, comma
2 c.c.) come espressamente rilevano le S.U. nella sentenza
3963/89, o essere irragionevolmente antieconomica a cagione
della irreversibilità -anche soltanto materiale- della
trasformazione del fondo, non si vede perché il privato non
dovrebbe essere ammesso a formulare la sua pretesa in
termini di risarcimento del danno per la perdita del bene”.
E’ dunque importante sottolineare e ricordare, ai fini di
quanto infra si dirà, che storicamente la ragione per cui al
privato è stata riconosciuta la possibilità di chiedere, in
caso di occupazione non preceduta da valida dichiarazione di
pubblica utilità, una tutela risarcitoria per equivalente
commisurata al valore venale del bene, anziché la sola
tutela restitutoria, riposa sul fatto che in allora la
giurisprudenza riteneva che la manipolazione del bene
connessa alla realizzazione dell’opera da parte della
Amministrazione pubblica ne comportasse la inutilizzabilità,
e quindi, in sostanza, la perdita.
16.4. Il ricordato orientamento giurisprudenziale si è
consolidato ed ha trovato costante applicazione per circa un
ventennio, durante il quale il legislatore non è mai
intervenuto riconoscendo esplicitamente ed in via generale,
alla fattispecie in esame, valenza acquisitiva della
proprietà del bene in favore della Amministrazione
“occupante” e tanto meno valenza estintiva del diritto di
proprietà del privato.
16.4.1. Con l’art. 3 della legge n. 458/1988, il legislatore
ha riconosciuto che “il proprietario del terreno utilizzato
per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e
convenzionata, ha diritto al risarcimento del danno causato
da provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con
sentenza passata in giudicato, con esclusione della
retrocessione del bene”; l’art. 11, comma 5 e 7, della L.
413/1991 ha stabilito che il risarcimento conseguito dal
privato in dipendenza di “occupazioni illegittime”, concorre
alla formazione del reddito imponibile ai fini IRPEF; l’art.
10 del D.L. 444/1995 ha previsto per gli enti locali e loro
consorzi la possibilità di chiedere mutui alla Cassa
Depositi e Prestiti “a copertura dei maggiori oneri
ricadenti sui bilanci………… in dipendenza dell'acquisizione di
aree per la realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria e di altre opere pubbliche dichiarate
di pubblica utilità..”; l’art. 3, comma 6, della L. 662/1996
ha introdotto nel corpo dell’art. 5-bis del D.L. 333/1992,
convertito nella L. 359/1992, il comma 7-bis, che per la prima
volta ha legislativamente disciplinato in via generale il
risarcimento del danno dovuto al privato proprietario in
dipendenza da “occupazioni illegittime”, disponendo che esso
dovesse computarsi in ragione della media tra il valore
venale del bene ed il coacervo del reddito dominicale degli
ultimi dieci anni, maggiorato del 10%.
16.4.2. Ebbene: nessuna delle dianzi ricordate disposizioni
menziona esplicitamente l’acquisizione della proprietà del
sedime in capo alla Amministrazione “occupante” e
l’estinzione del diritto di proprietà del privato quali
effetti della fattispecie complessa risultante dalla
occupazione del fondo privato, dalla illecita trasformazione
dello stesso conseguente alla realizzazione di un’opera di
pubblica utilità e dalla concorrente richiesta del privato
di essere risarcito del valore del bene, da quegli non più
utilizzabile; né, tampoco, le dianzi citate norme collegano
il diritto del privato a conseguire il “risarcimento del
danno” ad una manifestazione dello stesso di “abdicare” alla
proprietà vantata sul fondo illegittimamente occupato per la
realizzazione di un’opera di pubblica utilità.
Ancora va
sottolineato che tutte le ricordate norme –le quali, se il
Collegio non è in errore, esauriscono il panorama delle
norme che in qualche modo alludono alle fattispecie in
argomento- non danno una chiara definizione del concetto di
“occupazione illegittima” e non contengono una organica
disciplina dell’istituto: sul punto merita sottolineare che
anche l’art. 3 della L. 458/1988, nel riconoscere il diritto
del privato a conseguire il risarcimento del danno
conseguente ad una procedura espropriativa illegittima,
limita tale istituto alle sole espropriazioni finalizzate
alla realizzazione di edilizia residenziale pubblica, ed
alle ipotesi in cui sia già stato emanato un decreto di
esproprio illegittimo; nelle ipotesi divisate da tale norma,
dunque, l’acquisizione della proprietà del bene in capo alla
amministrazione espropriante si collega ad un titolo
ablativo tipico, e l’originalità della disciplina risiede
piuttosto nel fatto che alla declaratoria di illegittimità
del decreto di esproprio non ne consegue l’annullamento,
spiegandosi così la mancata retrocessione del bene,
espressamente vietata dalla norma.
La Corte di Cassazione,
per il vero, con la sentenza n. 735 del 19.01.2015 -di
cui si dirà infra–ha dato una diversa lettura della norma
in esame, affermando che essa “presuppone evidentemente che
alla trasformazione irreversibile dell'area consegua
necessariamente l'acquisto della stessa da parte chi ha
realizzato le opere”, ma come sopra precisato il Collegio
non crede che questa possa essere l’unica lettura possibile,
ritenendo invece che la mancata retrocessione –id est:
restituzione– del bene nella specie consegue non già al
fatto che esso è già stato, in precedenza, acquisito in
proprietà in capo alla p.a., quanto piuttosto al fatto che è
il legislatore a vietarlo.
16.4.2.1. Si consideri, del resto, che la stessa Corte di
Cassazione SS.UU., con la sentenza n. 12546 del 25.11.1992, ha escluso che la fattispecie disciplinata dall’art. 3
della L. 458/1988 possa riferirsi all’istituto della
occupazione appropriativa, difettando alcuni requisiti
fondamentali.
16.4.2.2. Va inoltre sottolineato che sino a che è stato in
vigore, l’art. 3 della L. 458/1988 ha sempre vietato la
retrocessione delle aree illegittimamente espropriate per
edilizia residenziale pubblica senza distinzione alcuna, e
cioè sia nei casi di occupazione acquisitiva che usurpativa:
si vuol dire, cioè, che ove fosse stato così chiaro il
meccanismo estintivo/acquisitivo disegnato dalla ricordata
giurisprudenza, il legislatore non avrebbe avuto necessità
di tenere fermi gli effetti dei “provvedimenti
espropriativi” indicati dalla norma, accertati illegittimi
con sentenza passata in giudicato, stante che in tali casi
avrebbe potuto agevolmente trovare applicazione il ricordato
orientamento, implicante comunque l’acquisto della proprietà
dell’opera pubblica e del sedime pertinenziale a favore
della Amministrazione.
Il legislatore, tra l’altro, non ha
ritenuto di dover modificare la norma neppure dopo che, a
partire dal 1997, la Corte di Cassazione ha escluso
l’operatività del meccanismo estintivo/acquisitivo alle
occupazioni “usurpative”, non assistite da valida
dichiarazione di pubblica utilità: il Collegio si domanda
allora per quale ragione il legislatore, all’indomani della
ricordata precisazione giurisprudenziale, non abbia pensato
di modificare l’art. 3 della L. 458/1988 limitando la
esclusione della retrocessione (e quindi il mantenimento in
vita dei provvedimenti espropriativi illegittimi) alle sole
occupazioni usurpative, giungendo alla conclusione che il
legislatore stesso, per il quale l’edilizia residenziale
pubblica costituiva evidentemente una assoluta priorità, ha
ritenuto che gli interessi della amministrazione non
potessero essere adeguatamente tutelati dall’istituto della
“occupazione acquisitiva”, che di fatto non ha riconosciuto.
L’art. 3 della L. 458/1988 rappresenta dunque, ad avviso del
Collegio, un indice della diffidenza e del non
riconoscimento, da parte del legislatore, dell’istituto
pretorio di cui si discorre: disconoscimento, dunque, sia
della rilevanza della azione manipolatrice della
amministrazione ai fini di determinare la estinzione del
diritto di proprietà del privato, sia della eventuale
volontà abdicativa del proprio diritto manifestata dal
privato.
16.4.3. Nella ricordata pronuncia n. 735/2015 la Suprema
Corte analizza le ulteriori norme sopra ricordate, da taluni
reputate quale indice del recepimento, da parte del
legislatore, dell’istituto della occupazione appropriativa,
giungendo a conclusioni simili a quelle testé enunciate:
l’art. 11, comma 5 e 7, della L. 413/1991 è norma a valenza
meramente fiscale; mentre l’art. 55 del D.P.R. 327/2001 -ma
le medesime considerazioni valgono anche per l’art, 5-bis
del D.L. 662/1996- è norma che “pur avendo storicamente
presupposto una occupazione acquisitiva, non richiede
necessariamente un contesto nel quale l'occupazione dia
luogo all'acquisizione del terreno alla mano pubblica con
esclusione (della) restituzione al proprietario. La norma,
infatti, prende in considerazione il risarcimento del danno
eventualmente spettante al proprietario in caso di illecita
utilizzazione del suo terreno, ma non esclude affatto la
possibilità di una restituzione del bene illecitamente
utilizzato dall'Amministrazione.
In altre parole, la
disposizione in esame, sebbene vista in passato come
copertura normativa dell'istituto creato dalla
giurisprudenza, può e deve essere letta oggi come sganciata
dall'occupazione acquisitiva e perciò come se in essa fosse
presente l'inciso "ove non abbia luogo la restituzione non
più, secondo la lettura data in precedenza, come se in essa
fosse presente l'inciso "non essendo possibile la
restituzione".
16.4.4. Di guisa che l’impressione che si trae è quella che
il legislatore, lungi dal recepire a livello di diritto
positivo l’istituto di creazione pretoria in argomento,
abbia semplicemente inteso prendere atto della esistenza
dell’orientamento giurisprudenziale che l’ha elaborato ed
abbia voluto dotare le amministrazioni pubbliche di
strumenti idonei a fronteggiare i debiti derivanti dalle
condanne risarcitorie già pronunciate relativamente a
fattispecie di “occupazioni illegittime” nonché a contenere
l’entità delle condanne future fondate sulla stessa causale,
nella consapevolezza che simili provvedimenti giudiziali
avrebbero potuto ancora intervenire: conferma della valenza
sostanzialmente “emergenziale” delle su ricordate norme si
trae, del resto, anche dalla constatazione che esse sono per
lo più contenute in testi di legge di valenza finanziaria,
con la sola eccezione della L. 458/1988, che però, come già
precisato, ha un ambito di applicazione assolutamente
limitato alla utilizzazione dei suoli per finalità di
edilizia residenziale pubblica.
16.4.5. E’ utile ancora ricordare che nella sentenza della
Corte Costituzionale n. 369/1996 -che dichiarò la
illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 6, del
D.L. 333/1992, siccome da interpretarsi, secondo il diritto in
allora vivente, nel senso che la misura della indennità di
esproprio ivi contemplata (semisomma del valore di mercato e
del reddito dominicale, con riduzione del 40%, evitabile
solo con la cessione volontaria del bene) dovesse applicarsi
sia alle espropriazioni rituali che al risarcimento del
danno dovuto in conseguenza di occupazioni illegittime– è
richiamata “la natura innegabilmente risarcitoria delle
conseguenze patrimoniali ricollegate dall'ordinamento
all'attuarsi della occupazione privativa-acquisitiva o c.d.
"accessione invertita" (che, in dipendenza della
irreversibile destinazione del suolo occupato all'opera
pubblica, spiega all'un tempo l'effetto estintivo,
dell'originario diritto di proprietà, e quello acquisitivo,
dell'immobile così trasformato, alla pubblica
amministrazione): qualificazione, che è, in tali termini,
ormai consolidata da tempo nella giurisprudenza della
Cassazione ed in quella conforme dei giudici di merito; ha
superato anche il vaglio di costituzionalità con la recente
sentenza n. 188 del 1995, ed ha trovato parallela ricezione,
infine, sul piano normativo, negli artt. 11, commi 5 e 7,
della legge 30.12.1991, n. 413, e 10, co. 3-bis, del
decreto-legge 27.10.1995, n. 444 , convertito in legge
20.12.1995, n. 539.”.
E’ opinione del Collegio che con
l’inciso in questione la Consulta ha inteso affermare che
ciò che ha trovato esplicito riconoscimento nelle norme e
precedenti giurisprudenziali citati non è l’istituto nel
complesso, ossia la valenza estintiva/acquisitiva della
azione manipolatrice della Amministrazione posta in essere
su fondi privati non ritualmente espropriati, quanto
piuttosto la sola qualificazione in termini di risarcimento
delle conseguenze patrimoniali che si determinano a favore
del privato, leso dalla trasformazione del fondo: ciò spiega
come la Corte Costituzionale abbia potuto menzionare le
norme esaminate nei paragrafi che precedono, le quali – come
si è visto - nulla dicono in ordine alla valenza
estintiva/acquisitiva delle occupazioni illegittime, tra
quelle che avrebbero recepito la qualificazione risarcitoria
delle conseguenze patrimoniali ridondanti a carico della
amministrazione responsabile della occupazione illegittima e
della successiva azione manipolatrice. Si vuol qui
sottolineare che le norme citate se incontestabilmente
alludono ad una responsabilità risarcitoria, che peraltro
non avrebbe potuto essere disconosciuta dal legislatore in
quanto per definizione generata da un comportamento
connotato da illegittimità, a prescindere dalla estinzione
del diritto di proprietà del privato, d’altro canto nulla
provano in ordine al recepimento dell’istituto da parte del
legislatore.
Quanto al richiamo alla sentenza n. 188/1995
della medesima Corte Costituzionale, osserva il Collegio che
in quella sede la Consulta era chiamata a valutare la
legittimità costituzionale dell’art. 2043 c.c. siccome
interpretato dal diritto vivente, e cioè nella misura in cui
accordava al privato proprietario, leso da una occupazione
illegittima, un risarcimento conseguente ad un illecito
istantaneo (e non permanente), soggetto pertanto ad una
prescrizione quinquennale (e non decennale, non venendo in
considerazione una obbligazione indennitaria), decorrente
dal momento in cui si verificava la irreversibile
trasformazione del fondo: la Corte Costituzionale in quella
sede si è limitata a prendere atto –conformemente al
proprio ruolo, che non è quello di interprete delle leggi–
dell’orientamento giurisprudenziale in parola, costituente
diritto vivente, dal quale ha tratto le debite conclusioni
in ordine alle caratteristiche delle conseguenze di natura
patrimoniale nascenti a favore del privato nonché in ordine
alla conformità alla Costituzione di esse.
Va sottolineato,
dunque, che anche nella sentenza n. 188/1995 la Corte
Costituzionale ha esaminato solo i profili di natura
patrimoniale che le occupazioni illegittime facevano sorgere
a favore del privato proprietario, e che, ad ogni buon
conto, Essa non ha espresso alcuna valutazione in ordine
all’essere, l’indirizzo giurisprudenziale in parola,
conforme, o meno, a Costituzione o ad altre norme
dell’ordinamento giuridico.
16.4.6. Il Collegio reputa conclusivamente che
l’orientamento giurisprudenziale dianzi esaminato -che
attribuisce alle occupazioni illegittime di fondi privati
seguite dalla realizzazione dell’opera pubblica, valenza
contestualmente estintiva del diritto di proprietà del
privato e acquisitiva di un diverso diritto a favore della
Amministrazione– ha costituito certamente diritto vivente
sino alla prima metà degli anni 2000, ma non ha ricevuto
alcun avallo diretto a livello normativo, essendo anzi
contraddetto dall’art. 3 della L. 458/1988, come sopra
interpretato.
17. Nel contesto del ricordato orientamento
giurisprudenziale si è inserito l’art. 43 del D.P.R.
327/2001, entrato in vigore il 30/06/2003, il quale
sottendeva il principio per cui il diritto di proprietà, sul
fondo illegittimamente occupato ed utilizzato per la
realizzazione di un’opera di pubblica utilità, può
estinguersi, in mancanza di decreto di esproprio o di
cessione spontanea, solo per effetto del decreto di
acquisizione contemplato dalla norma, la quale costituiva, a
livello di diritto positivo, una risposta concreta del
legislatore italiano all’orientamento assunto in materia
dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
17.1. Quest’ultima, pronunciatasi su molti casi di
occupazione acquisitiva, ha affermato che la perdita della
proprietà al di fuori di uno schema ablatorio-espropriativo
legislativamente disciplinato, pur se finalizzata a scopi di
pubblica utilità deve ritenersi illegittima in quanto non
consente al cittadino di prevedere il risultato e così di
aver contezza della vicenda, dal momento che gli effetti che
derivano dalla occupazione diventano palesi solo con la
sentenza che definisce il procedimento. Il meccanismo della
occupazione acquisitiva (o appropriativa), quindi, secondo
la Corte Europea dei Diritti Umani integra(va) una
illegittima compromissione del diritto di proprietà nonché
violazione dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1: in
conseguenza di ciò lo Stato è tenuto a risarcire il
cittadino leso per effetto di tale comportamento consumato
ai suoi danni, preferibilmente mediante restituzione del
bene utilizzato per scopi di pubblica utilità (sentenza
Carbonara e Ventura c. Stato Italiano), ovvero a mezzo di
risarcimento per equivalente tale da eliminare totalmente le
conseguenze subìte in esito alla occupazione illegittima.
17.2. La fermezza con la quale la Corte di Strasburgo ha
continuato a denunciare la contrarietà della occupazione
acquisitiva alla Convenzione E.D.U. ha indotto il
legislatore italiano a porre rimedio alla situazione
venutasi a creare, e tanto mediante l’introduzione, nel T.U.
Espropriazioni, dell’art. 43 sopra ricordato, il quale, sul
presupposto che la perdita della proprietà in capo al
privato non può, nelle ipotesi in esame, collegarsi se non
ad un atto di natura consensuale o autoritativa ( fatti
salvi gli effetti della usucapione ordinaria), introduceva
un meccanismo finalizzato, per così dire, a mettere ordine
in tutte quelle situazioni caratterizzate dalla sostanziale
perdita della disponibilità del bene in capo ad un privato,
a favore di una pubblica amministrazione che lo utilizzava
per scopi di pubblica utilità senza averne acquisito la
proprietà nei modi ordinari.
Così, nel sistema delineato
dall’art. 43, in presenza di determinate condizioni la
Pubblica Amministrazione “che utilizza(va) il bene” poteva
emettere il decreto di acquisizione “sanante” previsto dal
comma 1, dal quale soltanto derivava il trasferimento di
proprietà del bene a favore della Pubblica Amministrazione
procedente. E l’eventuale richiesta di restituzione del
bene, formulata dal privato in sede giudiziale, secondo
quanto esplicitamente previsto dall’art. 43 avrebbe potuto
essere bloccata solo da una richiesta della Amministrazione,
rivolta al giudice della causa, di disporre il risarcimento
del danno con esclusione della restituzione senza limiti di
tempo: in particolare, secondo quanto previsto dal comma 4
dell’art. 43, in tale eventualità “l’autorità che ha
disposto l’occupazione dell’area emana l’atto di
acquisizione, dando atto dell’avvenuto risarcimento del
danno….”.
17.3. L’art. 43 presupponeva, dunque, la perdurante
sussistenza e sopravvivenza del diritto di proprietà
privata; correlativamente l’acquisizione di esso a favore
della Amministrazione interessata era collegata unicamente
alla emissione del decreto di acquisizione sanante, al punto
che in mancanza di esso ed in conseguenza della condanna
risarcitoria il giudice della causa doveva escludere la
restituzione senza limiti di tempo. Dunque, anche la domanda
risarcitoria formulata dal privato doveva ritenersi inidonea
a determinare l’estinzione del proprio diritto, segnatamente
quale effetto di un atto di natura abdicativa.
17.4. Tali principi, già enunciati nella relazione della
Adunanza Generale del Consiglio di Stato 29/03/2001, sono
poi stati ribaditi dalla sentenza della Adunanzia Plenaria
n. 2/2005, e dipoi richiamati anche dalla sentenza della
sezione IV n. 2582 del 21/05/2007.
17.5. Come noto, la Corte Costituzionale, con sentenza n.
293 dell’08.10.2010 ha dichiarato la illegittimità
costituzionale dell’art. 43 del D.P.R. 327/2001. Tale
pronuncia -che tra l’altro ha richiamato l’orientamento del
Consiglio di Stato di cui alle pronunce della Sez. IV, 26.03.2010, n. 1762 e
08.06.2009, n. 3509, della Ad. Plen.
29.04.2005, n. 2 e della Sez. IV, 16.11.2007, n.
5830, da considerarsi “diritto vivente”, secondo il quale la
norma in questione doveva ritenersi applicabile a tutte le
occupazioni illegittime ed a tutte le procedure di
acquisizione in sanatoria, ancorché relative ad occupazioni
poste in essere prima della entrata in vigore del D.P.R.
327/2001- è pervenuta alla declaratoria di
incostituzionalità dell’art. 43 citato per eccesso di
delega, rilevando che nella legge delega, n. 59 del 1997,
non era dato rinvenire alcuna disposizione che legittimasse
il legislatore delegato ad introdurre nell’ordinamento
interventi volti a sanare difetti delle procedure ablative
già intraprese; che la “acquisizione sanante”, così come
congegnata dalla norma censurata, in realtà non risultava
affatto coerente con gli orientamenti di giurisprudenza che,
elaborando gli istituti della occupazione “acquisitiva” ed
“usurpativa”, avevano cercato di porre rimedio alle gravi ed
innumerevoli patologie riscontrate in un gran numero di
procedimenti espropriativi; e che il legislatore delegato
era dunque andato, con l’art. 43 del D.P.R. 327/2001, ben al
di là del compito affidatogli e consistente nel mero
“coordinamento formale relativo a disposizioni vigenti”.
Né
l’istituto disegnato dalla nuova norma poteva -secondo la
Corte Costituzionale- giustificarsi con la necessità di
adeguare l’ordinamento ai rilievi provenienti dalla
giurisprudenza della Corte EDU, giurisprudenza che non
imponeva affatto la adozione della soluzione in concreto
adottata e che, inoltre, aveva già lasciato intendere di
ritenere illegittima qualsiasi “espropriazione indiretta” -ancorché fondata su una norma, come l’art. 43- “in quanto
tale forma di espropriazione non può comunque costituire
un'alternativa ad un'espropriazione adottata secondo «buona
e debita forma» (Causa Sciarrotta ed altri c. Italia - Terza
Sezione - sentenza 12.01.2006 - ricorso n. 14793/02).”; una simile procedura crea inoltre il rischio di un
risultato arbitrario ed imprevedibile, in violazione del
principio di certezza del diritto, e “tende a ratificare una
situazione di fatto derivante dalle azioni illegali commesse
dall’amministrazione, tende a risolverne le conseguenze a
livello sia privato che amministrativo e permette
all’amministrazione di trarre beneficio dal proprio
comportamento illegale” (sentenza Dominici c/ Gov. Italiano
n. 64111/00 del 15.11.2005).
17.6. Con D.L. n. 98/2011 è stato introdotto, nel corpo del
D.P.R. 327/2001, l’art. 42-bis, il quale prevede la
possibilità per “l'autorità che utilizza un bene immobile
per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un
valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo
della pubblica utilità”, di “disporre che esso sia
acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio
indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un
indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non
patrimoniale…”: la norma precisa, inter alia, che “Il
provvedimento di acquisizione può essere adottato anche
quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il
vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia
dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di
esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere
adottato anche durante la pendenza di un giudizio per
l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del
presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto
impugnato lo ritira.”; l’art. 42-bis prevede inoltre che le
relative disposizioni “...trovano altresì applicazione ai
fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente
ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la
valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse
pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme
già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse
legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente
articolo”.
17.7. Il ricordato art. 42-bis, escludendo che l’acquisto
della proprietà del sedime interessato possa verificarsi ex tunc, precisando che il ristoro economico dovuto al privato
sia commisurato all’intero danno patrimoniale e non
patrimoniale subìto dal privato, ed infine stabilendo che la
relativa disciplina trova applicazione anche ai fatti
anteriori alla entrata in vigore del D.L. 98/2011, ha inteso
conformarsi alle indicazioni provenienti dalla Corte di
Strasburgo, la quale, nella sentenza 06.03.2007 n. 43662/98
(Scordino c/ Italia), ha ribadito l’illegittimità della
“espropriazione indiretta” ed ha indicato anche le misure
idonee per conformarsi alle sue pronunce in materia e cioè:
a) evitare occupazioni sino a che non siano stati approvati
il progetto e gli atti espropriativi, verificando la
copertura finanziaria per procedere ad un celere indennizzo;
b) abolire gli ostacoli di carattere giuridico che
impediscono la restituzione del bene trasformato, in assenza
di decreto di esproprio;
c) scoraggiare le pratiche non
conformi, perseguendo anche i responsabili di tali
procedure.
17.8. Ciò nonostante anche l’art. 42-bis è stato fatto
oggetto di rimessione alla Corte Costituzionale. Le Sezioni
Unite della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 442/2014,
hanno sottolineato che il provvedimento che dispone
l’acquisizione ai sensi della norma censurata ha comunque
valenza “sanante”, nel senso che legittima ex post una
occupazione d’urgenza che non avrebbe mai dovuto aver luogo,
integrando così uno strumento che autorizza la
Amministrazione a non restituire il fondo illegittimamente
occupato e/o a non ridurlo nello stato originario, e ciò
anche a dispetto di un giudicato che abbia ordinato alla
Amministrazione la restituzione del bene al privato.
La
Corte di Cassazione si è quindi interrogata sulla
legittimità costituzionale di una norma che di fatto
consente alla Amministrazione “di mutare, successivamente
all'evento dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui e
per effetto di una propria unilaterale manifestazione di
volontà, il titolo e l'ambito della responsabilità, nonché
il tipo di sanzione/ristoro (da risarcimento ad in
indennizzo), stabiliti in via generale dal precetto del neminem laedere per qualunque soggetto dell'ordinamento”,
pervenendo così alla “legalizzazione dell’illegale”,
legalizzazione che “non è conclusivamente consentita dalla
giurisprudenza di Strasburgo neppure ad una norma di legge,
né tanto meno ad un provvedimento amministrativo di essa
attuativo, quale è quello che disponga l'acquisizione
sanante (Ucci, 22.06.2006; Cerro sas, 23.05.2006; De Sciscio, 20.04.2006; Dominici, 15.02.2006; Serrao,
13.01.2006; Sciarrotta, 12.01.2006; Carletta, 15.07.2005; Scordino, 17.05.2005” .
17.8.1. Ha osservato in particolare l’ordinanza in esame che
il principio di legalità non potrebbe ritenersi recuperato
in forza dei bilanciamenti e delle comparazioni tra
interessi pubblici e privati devoluti dalla norma
all'autorità amministrativa che dispone l'acquisizione,
perché un tale bilanciamento di opposti interessi deve
ritenersi ammissibile, alla luce della giurisprudenza della
Corte EDU, solo allorché effettuati nel contesto di una
procedura legittima e non arbitraria, ed inoltre perché
l’art. 42-bis attribuisce il compito di effettuare siffatto
bilanciamento di contrapposti interessi alla Amministrazione
responsabile dell’illecito, chiamata ad effettuare una
scelta unilaterale e fondamentalmente imprevedibile, con il
risultato che anche il nuovo regime autorizza la
compromissione della proprietà privata all’esito di un
procedimento non caratterizzato da un sufficiente grado di
certezza e prevedibilità.
Inoltre il regime introdotto
dall’art. 42-bis, essendo applicabile anche a fatti
anteriori alla entrata in vigore della norma, finisce per
influire sull’andamento di processi iniziati ed impostati
secondo diversi presupposti normativi “sì da incorrere anche
nella violazione dell'art. 6, par. 1, della Convenzione per
il mutamento "delle regole in corsa": risultando sotto tale
profilo in contrasto anche con l'art. 111 Cost., commi 1 e
2, nella parte in cui, disponendo l'applicabilità ai giudizi
in corso delle regole sull'acquisizione coattiva sanante in
seguito ad occupazione illegittima, viola i principi del
giusto processo, in particolare le condizioni di parità
delle parti davanti al giudice, che risultano lese
dall'intromissione del potere legislativo
nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire
sulla risoluzione di una circoscritta e determinata
categoria di controversie; ed appare, quindi, anche sotto
questo profilo, nuovamente in contrasto con i vincoli
derivanti dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost.).”.
Infine le Sezioni Unite hanno rilevato che il sistema
disegnato dall’art. 42-bis determinerebbe un differente
trattamento tra proprietari vittime di analoghi
comportamenti illeciti posti in essere da una
Amministrazione pubblica, tra i quali proprietari quelli
destinatari di un decreto di acquisizione sanante non
potrebbero aspirare alla tutela restitutoria congiunta al
risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. e sarebbero
destinatari di un indennizzo di misura addirittura inferiore
all’indennizzo spettante in caso di espropriazione
legittima, non soggetto a rivalutazione monetaria (in quanto
connesso ad una obbligazione indennitaria di valuta e non ad
una obbligazione risarcitoria di valore), con impossibilità
di valorizzare la perdita di valore del fondo residuo che
permane in proprietà al privato.
17.9. Con sentenza n. 71/2015, del 30.04.2015, la Corte
Costituzionale ha dichiarato non fondate le varie questioni
di legittimità costituzionale prospettate nei confronti
dell’art. 42-bis, sottolineando: la differente disciplina di
tale istituto rispetto a quello disegnato dall’art. 43; la
necessità che il decreto che dispone l’acquisizione ex art.
42-bis sia motivato in modo stringente sia in ordine ai
motivi imperativi di interesse generale che determinano la
necessità di acquisire il bene, sia con riferimento alla
impossibilità di ricorrere a soluzioni alternative; la
decorrenza ex nunc della acquisizione, con conseguente
impossibilità di adottare il provvedimento in esame quando
la restituzione del fondo al privato sia già stata disposta
con sentenza passata in giudicato.
Per quanto di interesse
ai fini della presente decisione va sottolineato che l’art.
42-bis ha superato il vaglio di legittimità costituzionale
anche nella parte in cui esso prevede che la norma debba
trovare applicazione a tutti fatti precedenti alla sua
entrata in vigore: tale previsione implica, in guisa di
presupposto logico, che secondo il legislatore tutte le
occupazioni illegittime consumate prima del 06.07.2011
(data di entrata in vigore della norma), ancorché tradottesi
in “irreversibili trasformazioni” del fondo privato o
ancorché precedute da richieste risarcitorie giudiziali
formulate dal privato con chiaro intento abdicativo, non
possono avere l’effetto di estinguere il diritto di
proprietà del privato, e proprio per tale ragione
all’occorrenza possono essere sanate mediante l’adozione di
un decreto di acquisizione sanante.
17.10. Si deve quindi riconoscere che allo stato attuale del
diritto positivo la occupazione illegittima di un fondo per
scopi di pubblica utilità, seguita dalla effettiva
realizzazione di opere riconosciute di pubblica utilità, non
solo non produce ex se, a favore della Amministrazione che
ha occupato il fondo, l’acquisizione della proprietà
dell’opera e del fondo sul quale l’opera insiste, ma neppure
può essere all’origine della estinzione del diritto di
proprietà vantato dal privato sul fondo oggetto di
occupazione, ancorché nel frattempo questi abbia manifestato
l’intenzione di volervi “abdicare”.
Tutta la disciplina
dell’art. 42-bis D.P.R. 327/2001 sottende infatti che il
decreto di acquisizione “sanante” viene sempre emesso nei
confronti del privato proprietario, e tale aspetto si
evince, in particolare, dal comma 4, il quale stabilisce che
“Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione
delle circostanze che hanno condotto alla indebita
utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale
essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in
riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse
pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate
comparativamente con i contrapposti interessi privati ed
evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua
adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al
comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di
trenta giorni. L'atto è notificato al proprietario e
comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto
condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai
sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai
sensi dell'articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione
presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura
dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia
all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.”:
ebbene, non si comprende quale logica possa giustificare il
fatto che al decreto di acquisizione sanante si attribuisca
la capacità di trasferire la proprietà e che poi esso sia
invariabilmente, e senza eccezione alcuna, notificato al
proprietario, subordinato al pagamento al medesimo del
risarcimento e dipoi trascritto nei di lui confronti, se non
per la ragione che il privato proprietario non ne perde mai
la proprietà.
Considerato poi che l’art. 42-bis non contiene
una disciplina derogatoria o specifica con riferimento ai
casi in cui il privato abbia precedentemente manifestato, in
sede giudiziale o stragiudiziale, la volontà di rinunciare
alla proprietà del bene, non si può che concludere che tutto
l’art. 42-bis sottende che il proprietario il cui fondo sia
utilizzato “per scopi di interesse pubblico” non perde la
proprietà ancorché possa aver manifestato di non avervi più
interesse.
18. Nonostante tutto quanto sopra rilevato sopravvive
tuttavia, in giurisprudenza, l’affermazione secondo cui la
domanda del privato che chieda in giudizio il risarcimento
del danno conseguente ad una occupazione illegittima,
commisurando il danno medesimo al valore del fondo oggetto
di tale occupazione, deve qualificarsi come manifestazione
della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo: tale
affermazione si ritrova, in particolare, proprio nella
sentenza della Corte di Cassazione n. 735/2015, la quale,
pur dopo essere giunta alla conclusione che l’espunzione
della occupazione appropriativa dall’ordinamento giuridico,
voluta dalla Corte Europea dei Diritti Umani, non si poneva
in contrasto con il diritto positivo (difettando, per le
ragioni sopra dette, indici normativi del recepimento di
esso da parte del legislatore), ha affermato: “In
conclusione, alla luce della costante giurisprudenza della
Corte Europea dei diritti dell'uomo, quando il decreto di
esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato,
l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un
privato da parte dell'Amministrazione si configurano,
indipendentemente dalla sussistenza o meno di una
dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di
diritto comune, che determina non il trasferimento della
proprietà in capo all'Amministrazione, ma la responsabilità
di questa per i danni. In particolare, con riguardo alle
fattispecie già ricondotte alla figura dell'occupazione
acquisitiva, viene meno la configurabilità dell'illecito
come illecito istantaneo con effetti permanenti e,
conformemente a quanto sinora ritenuto per la c.d.
occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di
illecito permanente, che viene a cessare solo per effetto
della restituzione, di un accordo transattivo, della
compiuta usucapione da parte dell'occupante che lo ha
trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo
diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni
per equivalente. A tale ultimo riguardo, dissipando i dubbi
espressi dall'ordinanza di rimessione, si deve escludere che
il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore
dell'immobile rimasto nella sua titolarità. Infatti, in
alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre
concessa l'opzione per una tutela risarcitoria, con una
implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo
irreversibilmente trasformato (cfr. ex plurimis, in tema di
occupazione c.d. usurpativa, Cass. 28.03.2001, n. 4451 e
Cass. 12.12.2001, n. 15710); tale rinuncia ha
carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non
consegue, quale effetto automatico, l'acquisto della
proprietà del fondo da parte dell'Amministrazione (Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 18.02.2000 n. 1814). La
cessazione dell'illecito può aversi, infine, per effetto di
un provvedimento di acquisizione reso dall'Amministrazione,
ai sensi dell'art. 42-bis del t.u. di cui al D.P.R. n. 327
del 2001, con l'avvertenza che per le occupazioni anteriori
al 30.06.2003 l'applicabilità dell'acquisizione sanante
richiede la soluzione positiva della questione, qui non
rilevante, sopra indicata al punto n. 4 della motivazione.”
19. Il Collegio non condivide l’affermazione, che si legge
nella ricordata pronuncia, secondo cui “in alternativa alla
restituzione, al proprietario è sempre concessa l'opzione
per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al
diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato
(cfr. ex plurimis, in tema di occupazione c.d. usurpativa,
Cass. 28.03.2001, n. 4451 e Cass. 12.12.2001, n.
15710); tale rinuncia ha carattere abdicativo e non
traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto
automatico, l'acquisto della proprietà del fondo da parte
dell'Amministrazione (Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 18.02.2000 n. 1814)”.
20. Come sopra precisato la possibilità che un privato
possa, nelle fattispecie di che trattasi, unilateralmente e
legittimamente rinunciare alla proprietà del bene,
acquisendo il diritto ad ottenere un risarcimento
commisurato al valore venale del bene anche a prescindere
dalla adozione di un decreto di acquisizione sanante, deve
escludersi alla luce della disciplina positiva contenuta
nell’art. 42-bis, di cui sopra si è dato conto.
20.1. Merita ricordare, a questo punto, che proprio con
riferimento alla disciplina di cui all’art. 43 D.P.R.
327/2001 ed alla circostanza che essa –come l’art. 42-bis–
risultava applicabile anche alle occupazioni pregresse, la
Corte di Cassazione, con sentenza n. 11096 del 11/06/2004,
ha argomentato l’obbligo di “disapplicare” i principi
giurisprudenziali formatisi in materia di occupazione appropriativa, a favore della sopravvenuta disciplina di cui
all’art. 43 (in allora non ancora dichiarato
incostituzionale), affermando che “La funzione
giurisdizionale è necessariamente applicativa delle
disposizioni vigenti (che il giudice interpreta con
incondizionata autonomia, accertando e dichiarando la
volontà della legge in relazione al caso concreto), per cui,
se la legge muta o se, con un'ulteriore legge, viene
attribuito a precedenti disposizioni un determinato
significato, il giudice non può non essere vincolato dalla
volontà del legislatore, anche perché le pronunce della
Suprema Corte, se anche espressione della funzione nomofilattica, non possono assurgere a fonti di diritto,
onde, con riguardo all'istituto dell'occupazione
appropriativa, inizialmente affermatasi nell'applicazione
giurisprudenziale, e successivamente regolata dalla legge,
non è concettualmente configurabile un conflitto di
attribuzione, per cui si debba investire la Corte
costituzionale, fra potere giudiziario e potere legislativo,
né è concepibile uno straripamento di quest'ultimo, per
essere intervenuto a regolare un istituto di origine
giurisprudenziale.” .
20.2. Orbene, il Collegio non vede per quale ragione questo
cristallino ragionamento, che è espressione del ben noto
principio secondo cui il giudice è sottoposto (solo) alla
legge, che è tenuto ad applicare, non sia predicabile anche
nel caso in esame, dovendosi già per questa via pervenire
alla affermazione secondo la quale nelle fattispecie di
occupazione appropriativa ed usurpativa l’eventuale rinuncia
del privato alla proprietà del fondo è priva di qualsiasi
effetto abdicativo o traslativo: a tale conclusione –si
ribadisce– è d’obbligo pervenire a fronte della
constatazione che il decreto ex art. 42-bis:
a) può essere
emesso a fronte di qualsiasi tipologia di “occupazione per
scopi di pubblico interesse”, non prevedendosi alcun
trattamento specifico per l’ipotesi in cui il privato abbia
manifestato di voler rinunciare alla proprietà del fondo;
b)
non è prevista la possibilità che esso abbia come
destinatario un soggetto diverso dal proprietario del fondo
occupato né che esso possa avere effetti diversi da quelli
traslativi della proprietà;
c) richiede una motivazione che
giustifichi la preminenza del pubblico interesse rispetto
alle esigenze del privato proprietario, esigenze -queste
ultime– che non avrebbe senso tenere in considerazione ove
il privato avesse perso/potesse perdere la proprietà del
bene con una semplice manifestazione unilaterale;
d) può
essere emesso anche con riferimento a occupazioni poste in
essere in epoca anteriore alla entrata in vigore del D.P.R.
327/2001 o dello stesso art. 42-bis.
20.3. Non stupisce, del resto, che il legislatore possa aver
consapevolmente inteso precludere al proprietario di
rinunciare alla proprietà del fondo. Ove una tale rinuncia
“abdicativa” fosse possibile e sortisse gli effetti
preconizzati dalla giurisprudenza che qui si contesta, le
amministrazioni pubbliche si troverebbero esposte al rischio
di dover corrispondere un risarcimento commisurato al valore
venale del bene occupato anche nei casi in cui il fondo
stesso e l’opera che su di esso insiste non siano più
rispondenti a “scopi di pubblico interesse”, poiché
l’obbligo di corrispondere un tale risarcimento verrebbe in
tal caso a dipendere unicamente dalla illegittima
occupazione del fondo da parte della amministrazione e dalla
unilaterale reazione del privato, prescindendo totalmente da
valutazioni afferenti l’utilità pubblica del bene: orbene,
pare evidente al Collegio che ove l’art. 42-bis dovesse
essere letto nel senso che non include anche le situazioni
in cui il privato abbia manifestato l’intenzione di
rinunciare alla proprietà del bene esso si presterebbe a
censure di incostituzionalità per manifesta
irragionevolezza, stante l’evidente sottovalutazione dei
danni alla finanza pubblica che un tale “vuoto normativo”
potrebbe comportare, tanto più ove si consideri che la
rinuncia “abdicativa” del diritto di proprietà manifestata
dal privato non farebbe automaticamente acquisire la
proprietà del fondo alla amministrazione occupante –particolare questo ben specificato nella pronuncia della
Suprema Corte n. 735/2015– e che dunque essa
amministrazione sarebbe paradossalmente tenuta a
corrispondere al privato un risarcimento commisurato
all’intero valore venale del terreno senza, tuttavia,
poterne acquisire contestualmente la proprietà.
20.4. Di contro, letto l’art. 42-bis nel senso che esso si
applica, come già precisato, anche alle occupazioni che
abbiano ad oggetto beni rispetto ai quali il proprietario
abbia già manifestato una rinuncia “abdicativa”, esso
risulta al riparo da censure di incostituzionalità: non solo
perché le esigenze di finanza pubblica risultano
salvaguardate dalla necessità che il decreto di acquisizione
dia conto degli “scopi di pubblico interesse” ai quali
l’acquisizione è funzionale, ma anche per la ragione che nel
caso in cui l’amministrazione si risolva nel senso di non
acquisire la proprietà del bene, questo va restituito ed al
privato è dovuto il risarcimento riferito all’intero periodo
di occupazione senza titolo, senza contare il fatto che in
base al principio superficies solo cedit il privato si
ritrova ad essere proprietario anche della opera pubblica
che sul fondo insiste, la quale rappresenta un valore e che
molte volte può essere sfruttata economicamente anche dallo
stesso privato proprietario (l’attività di un ospedale o di
una scuola, ad esempio, può anche essere esercitata da un
soggetto privato, come anche privato può essere un
parcheggio per auto aperto al pubblico; esistono persino
casi di strade private, che attraversano proprietà
interamente private, che collegano viabilità pubbliche e la
cui percorribilità è consentita al pubblico previo pagamento
di un pedaggio): l’opzione per la rimessione in pristino,
spesso chiesta dai privati insieme alla restituzione, anche
se riguardata solo dal punto di vista del privato –tralasciando cioè la valutazione dell’inevitabile spreco di
risorse pubbliche che essa determina- non costituisce
dunque una scelta necessitata né sempre avveduta.
20.5. Va peraltro sottolineato che la sentenza n. 735/2015
della Corte di Cassazione, di cui sopra si è dato conto e
che viene espressamente invocata dalla ricorrente a
fondamento della domanda risarcitoria, è stata pubblicata
prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 71/2015,
che ha dichiarato non fondate le censure di costituzionalità
prospettate contro l’art. 42-bis, tra le quali v’era anche
quella afferente la applicabilità della disciplina in esso
contenuta anche alle occupazioni poste in essere in epoca
anteriore alla entrata in vigore della norma nonché allo
stesso D.P.R. 327/2001: tenuto conto del fatto che al punto
4 della motivazione la pronuncia citata sostiene che “l'art.
42-bis, non può essere individuato come la causa
dell'espunzione dall'ordinamento dell'istituto
dell'occupazione acquisitiva e si apre, invece, il diverso
problema, non rilevante in questa sede, se per effetto
dell'espunzione dell'istituto, determinata da una diversa
causa, possa ipotizzarsi, alla stregua dei principi in tema
di applicazione della legge ai fatti anteriori alla sua
entrata in vigore ed ai rapporti da tali fatti generati, un
ampliamento temporale del campo di applicazione dell'art. 42-bis, che non troverebbe più il limite derivante da
situazioni in cui è già avvenuta l'acquisizione alla mano
pubblica, ma eventualmente il limite, da verificare,
dell'irretroattività della nuova disciplina oltre la
decorrenza da essa desumibile e come sopra individuata”, si
deve credere che la pronuncia medesima, laddove ha affermato
la possibilità che il privato può sempre rinunciare al
diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato
con un atto a carattere abdicativo e non traslativo, si sia
fondata su una interpretazione dell’art. 42-bis che ne
escludeva l’applicabilità alle occupazioni anteriori alla
sua entrata in vigore e che, pertanto, consentiva di
salvaguardare le “rinunce abdicative” manifestate dai
privati relativamente alle occupazioni pregresse.
La
possibilità di adottare il decreto di acquisizione sanante
con riferimento a qualsiasi fattispecie di occupazione
illegittima, futura o passata, connotata da una rinuncia abdicativa del privato o meno, consente invece di affermare
che l’art. 42-bis ha definitivamente certificato
l’impossibilità per il privato di rinunciare unilateralmente
al diritto di proprietà di un fondo illegittimamente
occupato per scopi di pubblica utilità, di guisa che la
contraria opzione accreditata dalla sentenza n. 735/2015
potrebbe e dovrebbe, all’attualità, ritenersi superata.
20.6. Del resto, ove così non fosse, e cioè ammettendo che
in tali casi il privato possa ancora oggi sempre, ed
efficacemente, rinunziare al proprio diritto di proprietà
sull’immobile oggetto di occupazione –con le conseguenze
gravissime di cui si dirà nei paragrafi 24, 25 e 26– si
finisce per attribuirgli un abnorme potere di determinare in
via unilaterale e, soprattutto, non necessariamente
prevedibile l’andamento della procedura e le sorti del bene
occupato, e si tratterebbe di un potere squilibrato: perché
foriero di gravi danni per la amministrazione occupante, la
quale ciò nonostante nulla di concreto potrebbe opporre per
bloccarlo, stanti gli effetti automatici ex lege che la
rinunzia abdicativa produrrebbe.
La situazione che si
verrebbe/viene a creare, ammettendo la rinunzia abdicativa
del privato alla proprietà del bene illegittimamente
occupato, sarebbe quindi caratterizzata, questa volta a
scapito della amministrazione, da quella stessa incertezza
che ha indotto la Corte di Strasburgo a bocciare l’istituto
della occupazione appropriativa e proprio tale constatazione
induce il Collegio ad affermare che la rinunzia abdicativa
alla proprietà su un bene immobile, quantomeno se riferita
ad un bene illegittimamente occupato per scopi di pubblica
utilità, non può essere consentita.
21. Ferme restando le dianzi esposte considerazioni, di per
sé sufficienti a sostenere l’affermazione secondo cui gli
atti di rinuncia ad una proprietà immobiliare sono privi di
effetti allorquando abbiano ad oggetto fondi occupati
illegittimamente per scopi di pubblica utilità, il Collegio
ritiene che la domanda risarcitoria formulata dalla attrice
possa essere respinta anche sulla base di ulteriori
argomenti, ed in particolare per la ragione che la rinuncia abdicativa
della proprietà immobiliare deve ritenersi dall’ordinamento
giuridico non consentita, e come tale priva di effetti, non
solo se manifestata in occasione ed in conseguenza di una
occupazione illegittima posta in essere per scopi di
pubblica utilità, ma anche a prescindere da una simile
cornice fattuale, sempre che non ricorra una delle
fattispecie specificamente previste dal Codice civile.
21.1. In particolare ritiene il Collegio che il contestato
principio affermato da Cass. Civ. n. 735/2015 -che peraltro
costituisce solo il precedente più recente, ma certamente
non l’unico- non sia condivisibile perché, inesattamente ad
avviso del Collegio, si fonda sull’esistenza, nel nostro
ordinamento, della rinunzia abdicativa del diritto di
proprietà su un immobile quale istituto di carattere
generale.
21.2. La rinunzia c.d. abdicativa, é generalmente
qualificata dalla dottrina come un negozio consistente nella
dismissione di un diritto dal patrimonio del rinunciante: è
un negozio unilaterale, perché il titolare del diritto se ne
priva limitandosi a dismetterlo senza trasferirlo ad altri;
è un negozio non recettizio, perché non ha un destinatario
immediato e qualora produca un accrescimento del patrimonio
di altro soggetto tale accrescimento non costituisce un
effetto conseguente in via diretta alla manifestazione di
volontà e non può essere lo scopo del rinunciante; ha
efficacia immediata (salvo la presenza di condizioni) e, per
questo, è normalmente irrevocabile (tranne la rinuncia
all’eredità); opera ex nunc, comportando la dismissione di
un diritto già acquistato.
21.3. Tali caratteri della rinunzia abdicativa sono stati
ricavati dalla dottrina dallo studio delle figure tipiche di
tale istituto, disciplinate dal codice civile: la rinuncia
alla eredità, la rinuncia al credito, la rinuncia ad alcuni
diritti reali minori espressamente contemplata dal codice
civile, che invece non fa menzione della rinuncia al diritto
di proprietà immobiliare.
21.4. Dalla rinunzia abdicativa si distingue, pertanto, la
rinunzia c.d. traslativa, che comporta il trasferimento del
diritto e che suppone l’esistenza di un contratto in quanto
in tal caso la rinunzia costituisce il mezzo per effettuare
a favore di un determinato soggetto, scelto dal rinunziante
e non dalla legge, la traslazione di un diritto, traslazione
che costituisce pertanto un effetto preveduto e voluto dal
rinunziante.
21.5. Numerose sono le disposizioni del codice civile che
fanno riferimento alla rinunzia: se ne parla con riguardo
all'eredità e al legato (art. 478, 519 ss., 649, 650 c.c.),
alle cause di estinzione dei diritti reali di godimento,
specificamente in tema di enfiteusi (art. 963 c.c.) e di
servitù (art. 1070 c.c.); la rinuncia è espressamente
considerata dal legislatore in materia di garanzie
dell'obbligazione (art. 1238, 1240 c.c.), di prescrizione e
decadenza (art. 2937, 2968 c.c.), in materia di ipoteca
(art. 2878, 2879 c.c.), di contratto di mandato (art. 1722,
1727 c.c.), e in materia di rapporto di lavoro (art. 2113
c.c. come novellato dall'art. 6 l. 11.08.1973, n. 533);
la rinunzia “liberatoria” riferita alla proprietà
immobiliare è poi ammessa dal codice civile nell’art. 1104,
con riferimento ai diritti del comunista sulla cosa comune,
nonché all’art. 882 c.c., con riferimento ai diritti di
comproprietà sul muro comune; essa è invece espressamente
esclusa dall’art. 1118, comma 2, con riferimento ai diritti
del condomino sulle cose comuni.
21.6. Argomentando dalle su ricordate norme, in dottrina si
è formato un orientamento, anche abbastanza sostenuto, che
ammette la possibilità, per un privato, di esercitare la
rinunzia abdicativa ai diritti di proprietà immobiliare non
solo nelle ipotesi specificamente menzionate dal codice
civile ma in qualsiasi situazione, facendo assumere
all’istituto un carattere generale anche con riferimento
alla proprietà immobiliare.
21.6.1. In particolare l’argomento principe utilizzato per
ammettere la rinunzia abdicativa al diritto di proprietà
immobiliare fa leva sull’art. 827 c.c., il quale afferma che
“I beni immobili che non sono di proprietà di alcuno
spettano al patrimonio dello Stato”, e che pertanto –secondo tale dottrina- implicitamente ammette che possano
esistere beni immobili acefali, cioè privi di un
proprietario. Questa dottrina fa anche leva sull’art. 1350
n. 5 e sull’art. 2643 n. 5.
La prima norma contempla “gli
atti di rinunzia ai diritti indicati ai numeri precedenti”,
tra i quali figura anche il diritto oggetto di “contratti
che trasferiscono la proprietà di beni immobili”. L’art.
2643 n. 5 contempla invece “gli atti tra vivi di rinunzia ai
diritti menzionati nei numeri precedenti”, tra i quali
figura, ancor qui, il diritto oggetto dei “contratti che
trasferiscono la proprietà di beni immobili”.
Tali norme
sarebbero, secondo la dottrina in esame, ricognitive della
generale possibilità riconosciuta dall’ordinamento, di
rinunziare unilateralmente, con atto non traslativo e non recettizio, al diritto di proprietà su beni immobili, e tale
manifestazione di volontà dovrebbe comportare che il bene
immobile oggetto della rinunzia diviene acefalo per poi
entrare a far parte, un istante dopo, del patrimonio dello
Stato quale effetto ex lege, in virtù di quanto stabilito
dall’art. 827 c.c.
21.6.2. Altra norma sulla quale fa leva la dottrina per
ammettere, in via generale, la rinunzia abdicativa alla
proprietà immobiliare sarebbe costituita dall’art. 1118,
comma 2, il quale, escludendo che il condomino possa
rinunziare ai suoi diritti sulle parti comuni,
implicitamente sottenderebbe la possibilità di effettuare
tale rinunzia, constatazione questa che spiegherebbe per
quale ragione il codice avrebbe sentito la necessità di
intervenire espressamente per escludere la rinunziabilità
del diritto sulle parti comuni.
22. Non si può negare che il richiamo, effettuato dalle
dianzi ricordate norme del codice civile, agli atti di
rinunzia che hanno ad oggetto il diritto di proprietà su
beni immobili è molto suggestivo; tuttavia a parere del
Collegio esse non forniscono argomenti risolutivi che
consentano di affermare l’esistenza, nel nostro ordinamento,
della rinunzia abdicativa quale istituto di carattere
generale, specialmente con riferimento ai beni immobili.
22.1. L’art. 1350 è la prima norma del capitolo che tratta
specificamente “Della forma del contratto”, e quindi si
riferisce ai contratti, cioè ad atti che per definizione
intercorrono tra due o più persone: di conseguenza vi è
motivo per credere che il n. 5 di tale disposizione si
riferisca comunque ad accordi che abbiano ad oggetto atti di
trasferimento di beni immobili, ai quali le parti
rinunziano, con la conseguenza che alla rinunzia al diritto
di proprietà su un immobile manifestata da una parte va a
corrispondere il riacquisto, automatico, del diritto
medesimo in capo al soggetto che prima l’aveva trasferito al
rinunziante. Si tratterebbe dunque, più propriamente, di una
rinunzia traslativa, alla quale le parti possono ricorrere
sia in esecuzione della concordata risoluzione di un
precedente contratto traslativo della proprietà su beni
immobili –dalla quale consegue il venir meno delle
obbligazioni contrattuali per entrambe le parti-, sia in
esecuzione di una pattuizione che preveda il venir meno
degli effetti del contratto precedentemente concluso per una
sola delle parti, in questo caso del solo rinunziante
22.2. Considerazioni analoghe valgono per l’art. 2643 n. 5:
nei numeri da 1 a 4 l’art. 2643 contempla infatti i
“contratti” che abbiano ad oggetto determinati diritti
reali, tra i quali anche la proprietà immobiliare; sembra
quindi ragionevole supporre che il n. 5, richiamando “i
diritti menzionati ai numeri precedenti” non intenda
semplicemente richiamare i diritti in sé, ma i diritti
nascenti da determinati contratti: tale considerazione
conferma, ad avviso del Collegio che “gli atti tra vivi di
rinunzia” di cui al n. 5 sono finalizzati, semplicemente, a
far venir meno l’efficacia, in tutto o in parte, di
precedenti contratti che hanno costituito, modificato o
trasferito diritti reali immobiliari, conseguendo in
particolare da tali atti di rinunzia che la proprietà su un
certo immobile torna nella disponibilità del dante causa del
rinunziante.
22.3. Gli articoli 1350 n. 5 e 2643 n. 5, insomma,
contemplano, ad avviso del Collegio, degli atti di rinunzia
traslativa nonché, al limite, gli atti di rinunzia a diritti
reali immobiliari espressamente disciplinati dal codice
civile.
22.4. Tale lettura dell’art. 2643 n. 5 consente inoltre di
superare le incongruenze che sono state rilevate,
relativamente alla rinunzia a diritti immobiliari, rispetto
a quelli che l’art. 2644 c.c. indica essere gli effetti
conseguenti, e cioè: “Gli atti indicati nell’articolo
precedente non hanno effetto riguardo ai terzi che a
qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in
base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla
trascrizione degli atti medesimi. Seguita la trascrizione,
non può avere effetto contro colui che ha trascritto alcuna
trascrizione o iscrizione di diritti acquistati verso il suo
autore, quantunque l’acquisto risalga a data anteriore.”
22.4.1. E’ stato infatti osservato che, non essendo la
rinunzia abdicativa un atto recettizio e comportando essa un
acquisto ex lege a titolo originario, e non derivativo -a
favore del soggetto di volta in volta indicato dalla legge
(nudo proprietario, concedente, comproprietari pro-indiviso,
lo Stato ex art. 827)-, a rigore non sarebbe stato
necessario prevedere che la rinunzia ai diritti immobiliari
fosse inopponibile ai terzi acquirenti in buona fede di
diritti sugli immobili oggetto di rinunzia, sulla base di
atti trascritti in data anteriore alla trascrizione della
rinunzia stessa: venendo in considerazione un acquisto ex lege che si verifica automaticamente in conseguenza della
rinunzia abdicativa, nessun eventuale atto dispositivo
posteriore alla rinunzia potrebbe mai risultare opponibile
all’ “acquirente ex lege”. Così, al fine di risolvere
l’indicata incongruenza, autorevole dottrina ha ritenuto che
la pubblicità della rinunzia ai diritti immobiliari
troverebbe ragion d’essere sostanzialmente nella necessità
di notiziare il terzo “acquirente ex lege” della avvenuta
rinunzia e, quindi, dell’acquisto in suo favore.
22.4.2. A parere del Collegio, tuttavia, il tenore l’art.
2644 è chiaro nel sottendere un conflitto che possa essere
generato e correlato all’atto di rinunzia; non può quindi
trattarsi di norma “pensata”, semplicemente o anche, per
pubblicizzare atti dai quali un simile conflitto non può
conseguire. Si trae da ciò una ulteriore conferma del fatto
che gli atti menzionati dall’art. 2643 n. 5 possono essere,
in realtà:
a) vuoi atti di rinunzia di natura traslativa e
non abdicativa, previamente concordati tra le parti,
costituenti in sé atti di disposizione rispetto ai quali è
possibile concepire un possibile conflitto con eventuali
terzi acquirenti;
b) vuoi atti di rinunzia abdicativa ai
diritti immobiliari specificamente indicati dal codice
(diritti reali minori; comproprietà pro-indiviso), i quali
non lasciano mai –come infra meglio si dirà– il diritto
“acefalo”, determinando automaticamente l’accrescimento del
patrimonio di terzi per effetto della c.d. elasticità della
proprietà: è quindi possibile che tali atti di rinunzia
possano generare un conflitto tra il rinunziante, e/o i
creditori di costui, ed il terzo il cui diritto si espande
automaticamente per effetto della rinuncia e/o i creditori
di questo ultimo.
L’art. 2643 n. 5 non fa, inoltre, alcun
riferimento a specifici effetti conseguenti ad atti di
rinunzia abdicativa.
22.4.3. Tutto ciò considerato il Collegio, anche in
applicazione del canone interpretativo “in claris non fit
interpretatio”, non crede che l’art. 2644 c.c. possa essere
letto nel senso, che invero neppure é esplicitato, per cui
la pubblicità degli atti di rinunzia abdicativa avrebbe
valenza meramente informativa dell’acquisto a favore
dell’acquirente ex lege. E del resto una simile
interpretazione dell’art. 2644 c.c. rimane inevitabilmente
frustrata dalla dottrina e dalla prassi notarile, che
ritengono che la rinunzia abdicativa a diritti reali debba
essere presa “contro” il rinunziante –il che appare cosa
ovvia– ma “a favore” di nessuno, e ciò proprio sul
presupposto che la rinunzia abdicativa di per sé stessa non
determina l’accrescimento dell’altrui patrimonio, che
eventualmente consegue quale effetto indiretto ex lege.
Tale
essendo il meccanismo della pubblicità immobiliare, segue
che essa giammai potrebbe consentire ad un soggetto di
verificare se il proprio patrimonio si sia accresciuto per
effetto della rinunzia abdicativa ad un diritto reale da
parte di un terzo soggetto (ad esempio -seguendo la
prospettiva che qui si contesta- lo Stato in relazione alla
proprietà immobiliare; il nudo proprietario con riferimento
all’immobile gravato da usufrutto, uso, abitazione, servitù;
il proprietario del fondo dominante con riguardo alla
rinunzia liberatoria che abbia ad oggetto il fondo servente;
il proprietario pro-quota indivisa con riguardo alla
rinunzia di altro comproprietario alla rispettiva quota), il
che conferma che verosimilmente il legislatore, quando ha
prefigurato la trascrizione degli atti di rinunzia ai sensi
dell’art. 2643 n. 5 c.c. pensava piuttosto ad atti di
rinunzia traslativa o comunque ad atti di rinunzia dai quali
conseguano immediati effetti ampliativi del patrimonio
altrui, che dunque giustifichino una contestuale
trascrizione “a favore” di un soggetto determinato e che
possano ingenerare conflitti che possano trovare definizione
in applicazione del principio “prior in tempore potior in
jure”.
22.5. Dirimente non è, ad avviso del Collegio, neppure la
previsione di cui all’art. 1118, comma 2, cod. civ.. Il fatto
che la norma preveda espressamente che al condomino è
vietato di poter rinunziare al suo diritto sulle cose comuni
si spiega con il fatto che in materia di proprietà comune
vige, in generale, il principio opposto, questo chiaramente
enunciato all’art. 1104, comma 1: “Ciascun partecipante deve
contribuire nelle spese necessarie per la conservazione ed
il godimento della cosa comune e nelle spese deliberate
dalla maggioranza, salva la facoltà di liberarsene con la
rinunzia al suo diritto”, principio che si trova ribadito
anche dall’art. 882, comma 2 c.c., in tema di rinuncia alla
comproprietà del muro comune.
In giurisprudenza si è
affermato (Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 3931 del
23/08/1978) che per effetto della c.d. “rinuncia
liberatoria”, in esame, il bene immobile oggetto di rinunzia
non rimarrebbe acefalo perché si determinerebbe l’automatico
accrescimento del diritto dei comproprietari, sui quali,
correlativamente aumenterebbe anche il carico delle spese
relative alla manutenzione della cosa o del muro comune. Nel
silenzio delle due norme si ritiene che tale forma di
rinuncia sarebbe non recettizia e proprio per tale ragione
l’accrescimento della proprietà dei comproprietari
costituirebbe un effetto legale. Il Collegio nutre qualche
perplessità in ordine al fatto che la rinuncia al diritto di
comproprietà costituisca atto non recettizio.
E’ fuor di
dubbio, comunque, che l’accrescimento del diritto degli
altri comproprietari si collega alla natura stessa della
proprietà comune, che è una proprietà pro indiviso, la quale
si estende all’intero bene, consentendo di fatto a ciascun
“comunista” il godimento del bene nella sua interezza, sia
pure con i limiti che derivano dalla necessità di assicurare
anche agli altri comproprietari un godimento della medesima
natura. Ad avviso del Collegio, allora, l’accrescimento del
diritto dei comproprietari pro-indiviso, a fronte della
rinunzia al proprio diritto manifestata da uno di essi
costituisce un effetto naturale che si collega alla c.d.
“elasticità” del diritto di proprietà, e proprio per tale
ragione si tratta di una rinunzia che non crea alcun tipo di
scompenso: il bene immobile non rimane “acefalo”,
continuando ad identificarsi uno o più soggetti responsabili
della custodia e delle obbligazioni di vario tipo connesse
alla proprietà di quel bene.
22.5.1. Di conseguenza, il fatto che l’art. 1118 escluda,
per il condomino, la possibilità di rinunciare al suo
diritto sulle cose comuni nulla prova in ordine alla
esistenza, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa
della proprietà immobiliare anche al di fuori delle ipotesi
espressamente disciplinate dal codice. Sembra chiaro,
peraltro, che la disciplina di cui all’art. 1118, comma 2, si
giustifica con il fatto che nel condominio di edifici i
singoli proprietari neppure volendo possono sottrarsi
all’uso di determinate cose comuni, tra le quali –come noto– rientrano le mura perimetrali, il tetto di copertura, il
suolo sul quale sorge l’edificio, le scale ed i portoni di
ingresso, e così via dicendo.
Sarebbe dunque manifestamente
ingiusto, oltre che foriero di gravi problematiche, se i
vari proprietari delle singole unità immobiliari potessero a
piacimento sottrarsi, mediante rinunzia al proprio diritto
di comproprietà, all’obbligo di pagare le spese per la
manutenzione di parti comuni, delle quali essi comunque sono
obbligati ad usufruire: e che la ratio della norma sia
questa è confermato dal fatto che l’art. 1118 u.c. consente
ai singoli proprietari di scollegarsi dai soli impianti di
riscaldamento e condizionamento centralizzati, del cui
utilizzo essi possono effettivamente fare a meno.
22.6. Considerazioni simili possono svolgersi con
riferimento a tutte le varie tipologie di rinunzia, che il
codice civile ammette espressamente con riferimento ai
diritti immobiliari, che in realtà esso non qualifica e che
da molti sono ritenute di natura “abdicativa”, ma si tratta
in realtà di una opzione non unanimemente condivisa.
22.6.1. Ai sensi dell’art. 963 c.c., è possibile rinunziare
alla enfiteusi, ma solo quando il fondo perisca
parzialmente: in tal caso, l’enfiteuta “secondo le
circostanze può chiedere una congrua riduzione del canone o
rinunziare al suo diritto, restituendo il fondo al
concedente, salvo il diritto al rimborso dei miglioramenti
sulla parte residua”, e l’esercizio della facoltà di
rinunzia non è più possibile decorso l’anno. Il legislatore
ha dunque limitato in maniera assai precisa la possibilità
di rinunziare al diritto di enfiteusi, e tale constatazione,
unita alla considerazione che l’enfiteusi è un istituto che
persegue non solo l’interesse dell’enfiteuta ma anche quello
del proprietario al miglioramento del fondo, induce ad
escludere che l’enfiteuta possa abdicare al proprio diritto,
come sostengono coloro che, invece, valorizzano anche le
previsioni di cui all’art. 1350 n. 5 e 2643 n. 5.
22.6.2. La rinuncia all’usufrutto è specificamente
menzionata dall’art. 2814 c.c., a mente del quale l’ipoteca
costituita sul diritto di usufrutto perdura, nonostante la
rinunzia, sino a che non si verifichi l’evento che avrebbe
altrimenti prodotto l’estinzione dell’usufrutto:
l’ammissibilità della rinunzia all’usufrutto, a prescindere
da un atto di adesione del nudo proprietario, in questo caso
poggia su una norma chiara, che sembra dare quasi per
scontata tale eventualità; è dubbio tuttavia se si tratti di
rinunzia abdicativa, poiché non vi è alcun indizio nel
codice in tal senso; si può tuttavia rilevare che, anche se
abdicativa la rinunzia, all’usufrutto non comporta per il
nudo proprietario svantaggi assolutamente estranei alla di
lui sfera giuridica o imprevedibili, e del resto, se per
effetto della rinuncia all’usufrutto sul nudo proprietario
tornano a gravare tutte le responsabilità ordinarie (per
imposte, custodia, etc. etc.), tuttavia esse sono compensate
dalla disponibilità dei frutti del bene. Dunque la rinunzia
all’usufrutto, contrariamente alla rinunzia alla enfiteusi,
non presenta particolari controindicazioni alla rinunzia,
anche se abdicativa.
22.6.3. Quanto ai diritti di uso ed abitazione, la dottrina
ne ammette la rinunzia proprio sulla constatazione che il
codice ammette la rinunzia al più ampio diritto di
usufrutto.
22.6.4. Discorso diverso va effettuato con riferimento alla
servitù, dal momento che il –codice, mentre non menziona
chiaramente la rinunzia alla servitù –se non indirettamente
nei più volte citati articoli 1350 n. 5 e 2643 n. 5–
stabilisce invece espressamente, all’art. 1070, che il
proprietario del fondo servente si può sempre liberare
dall’obbligo di pagare le spese necessarie per l’uso o per
la conservazione della servitù “rinunziando alla proprietà
del fondo servente a favore del proprietario del fondo
dominante”. In giurisprudenza ed in dottrina si trovano sia
l’orientamento che ammette la rinunzia alla sola servitù ma
solo in via bilaterale, sia l’orientamento che ammette anche
la rinunzia alla servitù di natura abdicativa: in entrambi i
casi si perviene ad ammettere la rinunzia alla servitù
facendo leva, sostanzialmente, sulla considerazione che si
tratta pur sempre di un diritto disponibile.
Tuttavia a
parere del Collegio, proprio il fatto che il legislatore ha
disciplinato la diversa ipotesi di cui all’art. 1070 c.c.
induce a dubitare della possibilità di rinunziare,
quantomeno in via unilaterale, alla sola servitù: e la
spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che la servitù non
è posta e non esiste solo a vantaggio di un soggetto, bensì
di un fondo, il quale, venendo meno la servitù, potrebbe
risultare non più adeguatamente sfruttabile o rimanerne
comunque svalorizzato. In questa prospettiva il fatto che il
fondo servente venga “abbandonato” specificamente a favore
del proprietario del fondo dominante consente di
raggiungere, al medesimo tempo, sia lo scopo di sollevare il
proprietario del fondo servente da un peso di duplice
natura, sia quello di mantenere in buono stato manutentivo
le opere attraverso le quali la servitù può essere
esercitata, e, con esse, la godibilità del fondo dominante.
22.7. Il Collegio considera, a questo punto, che tutti i
casi in cui il codice civile ha espressamente ammesso la
rinunzia ad un diritto reale risultano accomunati dal fatto
che a fronte della rinuncia la proprietà immobiliare non
rimane “acefala”, perché in tali casi la rinunzia provoca
l’estinzione del diritto reale minore e la correlativa riespansione della piena proprietà; ovvero, trattandosi di
diritti reali minori in comunione, provoca l’accrescimento
delle quote altrui sul diritto reale minore. In nessun caso,
comunque, si viene ad avere un bene immobile privo di
proprietario.
Tutte queste fattispecie inoltre, in ultima
analisi sono accomunate anche dal fatto che consentono una
migliore gestione del bene immobile in tutti i casi in cui
il titolare del diritto oggetto di rinunzia sia, per
qualsiasi ragione, riottoso al pagamento delle spese
necessarie per mantenere il bene immobile nelle condizioni
ottimali: tanto si apprezza nella disciplina della rinuncia
alla quota in comproprietà indivisa, alla rinuncia
liberatoria alla proprietà del fondo servente, ed alla
rinuncia alla enfiteusi, che peraltro è rigidamente
disciplinata all’evidente fine di evitare che colui che si è
impegnato a produrre un determinato miglioramento del fondo,
possa sottrarsi a tale obbligo a piacimento. Solo la
rinunzia all’usufrutto sembra derogare da questa logica; ma
la realtà è che la rinuncia all’usufrutto -come del resto
la rinuncia al diritto di piena proprietà su un bene–
assume un senso solo ipotizzando che il titolare non voglia
o non sia in grado di sopportare i pesi connessi al fondo,
che la legge pone a carico dell’usufruttuario.
E’ quindi
ragionevole l’ipotesi secondo cui anche la rinunzia
all’usufrutto è consentita dal legislatore per favorire la
corretta gestione del bene immobile ogni qualvolta
l’usufruttuario non voglia o non possa continuare a farsi
carico del bene oggetto di usufrutto.
22.7.1. Perciò, in definitiva, il fatto che la rinunzia ai
diritti reali sia espressamente ammessa dal codice civile
solo con riferimento a taluni diritti reali ed alla quota di
comproprietà indivisa, non consente di presumere che la
rinunzia abdicativa ai diritti reali costituisca un istituto
generale, disciplinato in talune situazioni solo per
esplicitarne gli effetti, essendo molto più logica la
contraria opzione, secondo la quale il legislatore avrebbe
ammesso la rinunzia a diritti reali solo nei casi in cui
essa risulta funzionale alla corretta gestione ed alla
valorizzazione del bene immobile.
22.8. Le dianzi esposte considerazioni appaiono del resto
coerenti con la funzione sociale che l’art. 42 della
Costituzione assegna alla proprietà privata, la quale è
riconosciuta a garantita a tutti i cittadini non solo per
soddisfare bisogni egoistici ma anche per la soddisfazione
di interessi generali: il mantenimento in buono stato di un
bene immobile, dunque, costituisce non solo esplicazione
delle facoltà inerenti alla proprietà, ma anche un dovere,
la cui violazione, quando non ingeneri situazioni di per sé
foriere di responsabilità, viene scoraggiata dal legislatore
in vari modi: ad esempio con la possibilità di espropriare
le relative aree per assicurarne la riconversione a nuovi
utilizzi; oppure, più semplicemente, consentendo che altri
acquisiscano la proprietà del bene per usucapione.
22.9. La ammissione generalizzata della possibilità di
abdicare alla proprietà esclusiva, anche solo di tipo
superficiario, di un bene immobile, va invece in segno
diametralmente opposto, poiché non incoraggia i proprietari
ad interessarsi e ad occuparsi in maniera diligente ed
attiva dei beni, sul presupposto che di essi sarebbe sempre
possibile disfarsi mediante una rinunzia abdicativa.
22.10 Ad avviso del Collegio neppure l’art. 827 c.c. offre
validi e risolutivi argomenti a sostegno del recepimento
generalizzato, nel nostro ordinamento, della rinunzia
abdicativa alla proprietà immobiliare. Tale norma infatti,
nella sua laconicità, sembra essere stata introdotta nel
codice civile semplicemente quale disposizione di
“chiusura”, ad evitare che possano esistere beni immobili
acefali e come tali acquisibili per “occupazione” da parte
di chiunque: del resto l’occupazione della res nullius è un
modo di acquisto della proprietà valevole solo per i beni
mobili (art. 923 c.c.) e tutta la disciplina codicistica
riguardante i modi di acquisto della proprietà in realtà
dimostra che il legislatore ha cercato di evitare le
situazioni in cui beni immobili possano venire a trovarsi
privi di un proprietario. In quest’ottica la previsione di
cui all’art. 827 c.c. dovrebbe servire non già a far
acquisire al patrimonio dello Stato la proprietà di una gran
moltitudine di beni oggetto di rinunzia da parte dei
rispettivi proprietari, bensì, unicamente a dare una
proprietà a quei beni immobili rispetto ai quali non sia
possibile risalire ai proprietari dai registri immobiliari e
catastali ovvero a dare “copertura” a fattispecie
imprevedibili ed estreme, non riconducibili ad alcuna delle
ipotesi di acquisto della proprietà già previste dal codice:
ad esempio il caso di emersione di una nuova isola in acque
territoriali, che non è contemplata dagli articoli 922 e
seguenti c.c., la cui proprietà è acquisita automaticamente
al patrimonio dello Stato proprio in forza di quanto
previsto dall’art. 827 c.c.
22.11. Ma soprattutto, contro l’argomento secondo il quale
lo Stato recupererebbe automaticamente la proprietà dei beni
immobili la cui proprietà sia stata abdicata dal
proprietario, milita la considerazione che un tale sistema
mal si concilia con la nozione moderna della proprietà
privata, come diritto che ab origine è attribuito a
cittadini privati, ad enti o allo Stato, risultando
piuttosto coerente con quella concezione del diritto di
proprietà –ancor oggi vivente nei paesi di common law e che
negli Stati europei caratterizzava invece il diritto feudale
della proprietà– secondo cui esso fa capo unicamente allo
Stato o al suo rappresentante, potendo soggetti diversi
goderne, sia pure per periodi lunghissimi e con amplissime
facoltà, solo in forza di una sorta di concessione.
22.12. Del resto, salvo errore da parte del Collegio,
l’unico caso in cui in giurisprudenza si è dato ingresso
alla rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare è
costituito proprio dalla rinunzia al bene illegittimamente
occupato da una amministrazione per la realizzazione di un
bene di pubblica utilità: tale orientamento, enunciato nella
celebre sentenza della Corte di Cassazione n. 1907/1997,
poggia sulla mera considerazione che il fatto che il privato
non perda la proprietà del bene, laddove non risulti
operante una valida dichiarazione di pubblica utilità, “non
esclude peraltro la possibilità dell'interessato di
avvalersi, come nella specie si è avvalso, di un'azione di
risarcimento del danno per perdita definitiva del bene,
ponendo in essere un meccanismo abdicatorio che non manca di
riscontri nel nostro ordinamento positivo (artt. 1070, 1104,
550 c.c.).”, considerazione che al Collegio non pare frutto
di una meditazione particolarmente approfondita.
23. Il Collegio considera pertanto che dalle dianzi
esaminate disposizioni non si trova alcun argomento “forte”
che confermi, al di fuori delle ipotesi tipiche disciplinate
dal codice civile, la possibilità di rinunciare al diritto
di proprietà su di un bene immobile senza che
contestualmente tale diritto non si trasferisca o non si
consolidi in capo a terzi quale effetto voluto dal
rinunziante (e non dalla legge). Al contrario si constata
che né tali norme, né altre che disciplinano la forma e la
pubblicità degli atti e negozi giuridici, prevedono
espressamente la rinunzia unilaterale al diritto di
proprietà su un bene immobile.
24. Il Collegio si chiede, allora, per quale ragione, ove la
rinunzia abdicativa alla proprietà di un bene immobile,
intesa come negozio unilaterale non recettizio, costituisse
un istituto generalmente ammesso nel nostro ordinamento, il
legislatore non ha ritenuto di ammetterla esplicitamente e
di disciplinarla espressamente, tenuto conto del fatto che
se ammissibile essa sarebbe, per lo Stato, causa di acquisto
della proprietà di beni immobili di incidenza infinitamente
maggiore rispetto ai casi disciplinati agli articoli 922 e
seguenti, e considerato altresì il fatto che la proprietà di
beni immobili, ed in special modo di fabbricati, comporta
una responsabilità per custodia che il Collegio dubita
fortemente il legislatore abbia inteso addossare allo Stato
mediante la previsione di cui all’art. 827 c.c., senza
ulteriori e più specifiche norme e senza che
l’Amministrazione statale abbia la possibilità di esprimere
il proprio consenso né di venirne a conoscenza: si pensi
alla responsabilità legata alla proprietà di un terreno
franoso che sia prospiciente una via pubblica o un centro
abitato; o la responsabilità connessa alla proprietà di un
edificio in stato fatiscente, che possa crollare sulla via
pubblica o all’interno del quale chiunque possa penetrare;
responsabilità che l’Amministrazione statale farebbe fatica
a prevenire, avuto riguardo al fatto che -come già
precisato– la trascrizione della rinunzia abdicativa
sarebbe verosimilmente eseguita solo “contro” il rinunziante
ma non anche “a favore” dello Stato, che pertanto non
sarebbe neppure in grado di venire a conoscenza di eventuali
nuovi “acquisti” verificando periodicamente le trascrizioni
“a favore”. Salvo sostenere che, proprio per tale ragione,
lo Stato è impossibilitato ad esercitarne la custodia in
maniera diligente, con il risultato paradossale che tutto
questo patrimonio immobiliare continuerebbe, lecitamente, a
rimanere incustodito, improduttivo ed inutilizzato,
fatiscente e fonte di pericolo per la incolumità pubblica.
25. Si consideri ancora che la rinunzia abdicativa alla
proprietà immobiliare comporterebbe il venir meno, in capo
al privato, dell’obbligo di pagare le varie imposte
(fondiarie, imu, tari, etc. etc.) collegate alla proprietà
del bene oggetto di rinunzia, evenienza, questa, che
ugualmente si può dubitare fortemente costituisca una
conseguenza preveduta ed accettata dal legislatore quale
effetto dell’enunciato contenuto nell’art. 827.
26. Né si può trascurare di rilevare che gli effetti
conseguenti alla dottrina di cui sopra si è dato conto
risultano, se possibile, ancor più paradossali e dannosi
proprio con riferimento alle occupazioni illegittime, per la
già accennata ragione che, ammettendo in dette fattispecie
che il privato abbia la possibilità di rinunziare alla
proprietà vantata sul bene occupato divenendo
contestualmente titolare del diritto ad essere risarcito del
valore venale dell’immobile, si finisce per gravare
l’amministrazione “occupante” di un obbligo risarcitorio al
quale però non fa da contraltare l’acquisto della proprietà
del bene, il quale, per effetto di questa rinunzia
“atipica”, passerebbe invece a far parte del patrimonio
dello Stato ex lege, ai sensi dell’art. 827 c.c..
Vale la
pena precisare, sul punto, che non vi sono ragioni per
pensare che tale norma alluda allo “Stato” inteso come
insieme delle Amministrazioni pubbliche che ne sono
espressione, derivazione o che comunque coesistono sul
territorio nazionale. Infatti, anche in altri casi, e con
riferimento a settori in cui non si dubita che la norma
alluda allo Stato-persona, il codice civile lo indica
semplicemente come “Stato” (ad es. all’art. 586) senza
ulteriori specificazioni; in giurisprudenza, inoltre, la
norma è stata interpretata nel senso che essa allude al
patrimonio dello Stato (persona) e non di altre
Amministrazioni pubbliche (cfr. Cass. Civ. n. 2862/1995).
Infine merita ricordare che con l’art. 1, comma 260, della L.
296/2006 il legislatore ha confermato la spettanza allo
Stato (persona) dei beni “vacanti” e di quelli relativi alle
eredità giacenti, stabilendo che con decreto
interministeriale (peraltro ad oggi non ancora emanato)
dovessero essere indicati i criteri utili ad individuare
tali beni.
26.1. Risulta quindi non condivisibile quanto afferma la
pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4636 del 07.11.2016, secondo la quale “Con riferimento alla
specifica ipotesi in cui il proprietario formuli non già
domanda di restituzione ovvero di riduzione in pristino del
proprio bene illecitamente occupato dall'amministrazione,
bensì di risarcimento del danno patito (con effetti
abdicativi del diritto di proprietà), muovendo da tali
principi, occorre ancora affermare che: a) stante la natura abdicativa e non traslativa dell'atto di rinuncia, il
provvedimento con il quale l'amministrazione procede alla
effettiva liquidazione del danno -rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente
apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo che di
esso rappresenta il presupposto- costituisce atto da
trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e
2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti
della acquisizione del diritto di proprietà in capo
all'amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di
rinuncia”: non è condivisibile, a tacer d’altro, per
l’intrinseca contraddizione insita nell’affermazione secondo
cui la rinunzia avrebbe carattere abdicativo e tuttavia
l’acquisto del bene oggetto di rinunzia dovrebbe avvenire in
capo alla amministrazione che liquida il danno, e cioè alla
amministrazione occupante, e non già in capo allo Stato.
26.1.1. Infatti -si ricorda- la giurisprudenza della Corte
di Cassazione ha sempre qualificato la rinunzia del privato
alla proprietà del bene occupato come rinunzia abdicativa,
ma da essa consegue –secondo la ricostruzione che qui si
avversa- che il bene occupato a seguito della rinunzia
rimane per un istante senza proprietario, res nullius per
poi entrare nel patrimonio dello Stato, e non già nel
patrimonio di altra amministrazione; e la stessa sentenza
della Corte di Cassazione n. 735/2015 afferma espressamente
che l’amministrazione occupante non acquista il bene
occupato per effetto della rinunzia, trattandosi di rinunzia
abdicativa e non traslativa.
26.1.2. Quanto affermato dal Consiglio di Stato
nella sopra ricordata pronuncia risulta dunque non
condivisibile non solo perché, in conformità con
l’orientamento in questo momento prevalente, ammette la
possibilità di esercitare la rinunzia abdicativa della
proprietà immobiliare anche al di fuori dei casi ammessi dal
codice civile, ma prima ancora perché afferma, erroneamente
ad avviso del Collegio, che la proprietà del bene rinunziato
viene acquisita in capo alla amministrazione occupante.
26.2. La giurisprudenza, sia della Corte di Cassazione che
quella del Consiglio di Stato, non sembra essersi
interrogata circa le incongruenze che derivano
dall’ammettere che il privato possa rinunziare
unilateralmente al proprio diritto di proprietà facendo
conseguire da tale manifestazione di volontà l’obbligo della
amministrazione occupante di risarcire il privato di un
valore commisurato all’intero valore del bene.
26.2.1. Dal momento che l’amministrazione occupante non
diventa proprietaria del bene non si comprende, anzitutto,
per quale ragione essa debba corrispondere un danno
commisurato all’intero valore venale del bene, stante che il
bene stesso non viene distrutto. Sul punto mette conto
sottolineare che a seguito della evoluzione di cui sopra si
è dato conto e che ha portato a riconoscere che il privato
non perde la proprietà del bene per effetto della
trasformazione impressa dalla attività manipolatrice della
amministrazione occupante, in giurisprudenza –soprattutto
quella amministrativa– si è progressivamente consolidato il
principio secondo cui la restituzione del bene deve
ritenersi sempre possibile, e doverosa, perché in realtà
nulla, se non fattori di natura meramente economica,
impedisce il ripristino del bene allo stato originario e la
restituzione di esso (C.d.S. Sez. IV, n. 1466/2015, punto
2.1., con la giurisprudenza ivi richiamata; C.d.S., Sez. IV
- sentenza 02.09.2011 n. 4970; C.d.S. Sez. IV -
sentenza 15.09.2014, n. 4696; C.d.S. Sez. IV -
sentenza 29.04.2014, n. 2232).
Né si deve trascurare di
considerare che il privato, rimanendo proprietario del fondo
occupato diventa automaticamente proprietario anche
dell’opera che su di esso è stata realizzata, opera che il
più delle volte può essere sfruttata economicamente anche da
privati e che pertanto costituisce per il privato una fonte
di arricchimento, più che di impoverimento. Dipoi si deve
considerare che, anche ammessa la possibilità per il privato
di abdicare unilateralmente al proprio diritto, il bene esce
dal di lui patrimonio per effetto di una manifestazione di
volontà unilaterale di quest’ultimo, manifestazione che, per
definizione, non è qualificata da un vizio di volontà, ed in
particolare da coartazione.
Quindi non si comprende proprio
per quale motivo, a fronte della manifestazione di una
volontà abdicativa del proprio diritto di proprietà, al
proprietario dovrebbe sempre ed invariabilmente essere
riconosciuto il diritto ad ottenere un risarcimento
commisurato, sostanzialmente, al valore venale di un bene
che non ha mai perso, che ha diritto a vedersi restituire
allo stato originario (fatte salve eventuali valutazioni in
senso contrario nelle situazioni rilevanti ai sensi
dell’art. 2933 c.c.) e che molte volte vede il suo valore
economico accresciuto rispetto al momento della occupazione.
Né pare possibile che la domanda risarcitoria possa
condizionare la rinunzia abdicativa manifestata dal privato,
la quale reca in sé la non onerosità e la rinuncia del
privato rinunziante a pretendere qualsivoglia corrispettivo,
proprio perché si tratta di rinunzia che non ha un
destinatario e che non vuole conseguire altro scopo se non
quello di dismettere la proprietà del bene.
26.2.2. In secondo luogo si deve sottolineare che non esiste
una norma specifica che obblighi lo Stato a ritrasferire
alla amministrazione occupante, gratuitamente o anche solo
ad un prezzo simbolico, il bene occupato, alla cui proprietà
il privato ha rinunziato e che per tale ragione sarebbe
entrato a far parte del patrimonio dello Stato: le
amministrazioni occupanti, quindi, a fronte della
unilaterale rinunzia manifestata dal privato si trovano
onerate dall’obbligo di sborsare una somma commisurata al
valore del bene, corrisposta al privato, oltre all’obbligo
di sborsare una ulteriore somma danaro necessaria per
riacquistare il bene dallo Stato: il Collegio non ignora che
esiste una normativa che ad alcune condizioni consente, tra
amministrazioni pubbliche, di effettuare trasferimenti di
proprietà a prezzi significativamente inferiori a quelli di
mercato, ma anche così lo Stato potrebbe pretendere il
pagamento di un prezzo, che si aggiungerebbe al risarcimento
già corrisposto al privato, salvo che lo Stato e
l’amministrazione occupante non si accordino, su base
totalmente volontaria, per attuare il trasferimento
dell’immobile ad un prezzo simbolico o a titolo di donazione
o comunque ad un titolo che non comporti corresponsione di
prezzo alcuno.
27. Come si vede sono numerose e gravi le conseguenze insite
nell’ammettere che il privato possa sempre rinunziare
unilateralmente al proprio diritto di proprietà su un bene
immobile, e tali conseguenze sono ancor più gravi ove
oggetto di rinunzia sia un bene occupato e trasformato per
realizzarvi un’opera di pubblica utilità: si tratta in tutti
i casi di conseguenze che, sia pure in modi diversi, vanno a
gravare sulla finanza pubblica.
27.1. Che si tratti di un problema molto sentito nella
prassi e, quindi, possibilmente foriero di conseguenze
incalcolabili, o quasi, è testimoniato dal fatto sono sempre
più numerosi i casi in cui privati proprietari manifestano
l’intenzione di voler abdicare, con atto notarile, al
proprio diritto di proprietà su un immobile, esattamente
allo scopo di sottrarsi agli obblighi fiscali nonché agli
obblighi di custodia e manutenzione che la proprietà di un
bene immobile comporta, al punto che la questione è stata
fatta oggetto dello studio civilistico n. 216-2014/C
dell’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato, il
quale nella premessa spiega che “Il presente studio nasce a
seguito di molteplici quesiti pervenuti all’Ufficio studi
aventi ad oggetto la possibilità da parte del Notaio di
ricevere atti di rinunzia ai diritti reali, nonché la
disciplina e gli effetti dei medesimi. Il tema in esame
risulta essere particolarmente interessante, sia da un punto
di vista prettamente teorico e dogmatico, sia da un punto di
vista pratico, tanto più in un contesto socio-economico,
quale quello attuale, in cui atti del genere possono
risultare frequenti, stante la crisi economica e la forte
pressione fiscale. Spesso infatti le fattispecie in cui può
emergere la volontà rinunziativa della parte hanno ad
oggetto beni e diritti dei quali non si vuole più sostenere
l’onere tributario, ovvero che non sono più di interesse, in
quanto di scarso valore e praticamente ingestibili (si pensi
ad un piccolo fabbricato fatiscente inservibile ovvero alla
quota di comproprietà su un piccolo terreno infruttuoso sito
in una località molto distante da quella di residenza). Le
fattispecie più rilevanti, tra quelle esaminate, sembrano
essere quella della rinunzia al diritto di proprietà nonché
alla quota indivisa di comproprietà, forse anche perché
ritenute le più inconsuete, tanto da dubitarsi –almeno nel
sentire comune– persino della loro ammissibilità. La
dottrina che se ne è occupata in passato, del resto, le ha
quasi sempre considerate come ipotesi di scuola, oggetto di
un interesse prettamente teorico, ma che oggi possono
divenire concretamente praticabili.”.
L’indicato studio
conclude nel senso della ammissibilità della rinunzia abdicativa alla proprietà esclusiva di un bene immobile, e
quindi è prevedibile che nella prassi tali rinunzie
cominceranno ad aumentare e a diventare numerose.
28. Tali considerazioni convincono definitivamente il
Collegio che occorre grande prudenza prima di affermare che
nel nostro ordinamento la rinunzia abdicativa ai diritti
reali, ed in particolare alla proprietà esclusiva su un bene
immobile, sia un istituto generalmente ammesso dal
legislatore: la considerazione delle gravi conseguenze, per
la finanza pubblica, derivanti dall’ammettere senza limiti
la rinunzia abdicativa ai diritti reali immobiliari, anche
fuori dai casi contemplati dal codice, avrebbe dovuto
spingere il legislatore ad esprimersi con norme chiare e
specifiche, ciò che non é.
29. Per le ragioni esposte nei paragrafi che precedono
il
Collegio non crede che il corredo normativo esistente, di
cui sopra si è dato conto, giustifichi la affermazione
secondo cui la rinunzia abdicativa è ammessa in via generale
dal nostro ordinamento e che, conseguentemente, può essere
esercitata anche fuori dalle ipotesi disciplinate dal codice
civile, segnatamente con riferimento al diritto di proprietà
su beni immobili.
Essa rinunzia non può essere desunta in
via interpretativa da norme che disciplinano casi specifici
di rinunzia abdicativa, dalle quali semmai si dovrebbe
ricavare che il legislatore ha voluto ammettere solo casi
tipici. Né essa rinunzia si può evincere, in maniera chiara,
senza ricorso a forzature interpretative e senza pretendere
di “riempire” vuoti normativi, dalle ulteriori norme codicistiche che sopra sono state esaminate: gli articoli
1350 n. 5 e 2643 n. 5, in particolare, facendo riferimento
alla rinunzia ai diritti immobiliari possono e debbono
interpretarsi, prima di tutto, nel senso che si riferiscono
ai casi di rinunzia a diritti reali espressamente
disciplinati dal codice (ad esempio: la rinunzia a diritti
reali minori; la rinunzia alla quota di proprietà pro
indiviso) ovvero, comunque, a casi di rinunzia traslativa, e
non abdicativa; d’altro canto l’art. 827 c.c. non contiene
alcun riferimento alla rinunzia abdicativa a diritti
immobiliari e segnatamente alla rinunzia al diritto di
proprietà, né, peraltro, tale norma contiene riferimento
alcuno agli atti e fatti giuridici che possono aver dato
luogo alla esistenza di beni immobili privi di proprietario.
Valga infine la considerazione che tutti i casi di rinunzia
a diritti reali contemplati dal codice civile, che la
dottrina per lo più qualifica come ipotesi di rinunzia non ricettizia, facendone discendere la natura abdicativa, non
rendono mai il bene oggetto del diritto rinunziato privo di
proprietario, a differenza di quanto accadrebbe ammettendo
che il proprietario singolo di un bene possa unilateralmente
abdicare alla proprietà di esso: è quindi lecito presumere
che il legislatore abbia ammesso (solo) quelle fattispecie
di rinunzia abdicativa a diritti immobiliari che non
determinano una “vacatio” nella titolarità del bene, il che
conferma, semmai ve ne fosse ancora bisogno, che la rinunzia abdicativa a diritti reali non può considerarsi ammessa in
via generale, con conseguente nullità degli atti che ne
costituiscono espressione.
30. Il Collegio ritiene, conclusivamente, di doversi
discostare dal pressoché unanime e costante orientamento
della giurisprudenza civile ed amministrativa che ancora
oggi ammette la possibilità, per il privato, il cui bene
immobile sia stato illegittimamente occupato per la
realizzazione di un’opera di pubblica utilità, di abdicare
unilateralmente alla proprietà di esso: ciò in primo luogo
perché deve ritenersi non consentita dal nostro ordinamento
giuridico la rinunzia abdicativa alla proprietà esclusiva su
beni immobili; in secondo luogo perché una tale rinunzia
abdicativa all’attualità deve comunque ritenersi non
consentita con riferimento a beni immobili illegittimamente
occupati per scopi di pubblica utilità.
31. La domanda risarcitoria formulata dalla ricorrente per
vedersi indennizzare della perdita del valore dell’intero
terreno deve pertanto essere respinta.
32. La ricorrente resta però proprietaria della porzione di
terreno che risulta occupata dalla strada, e di essa,
conformemente alla giurisprudenza che si era ormai
consolidata a partire dalla fine degli anni 2000 e che
prevede che i beni non espropriati debbono essere restituiti
ovvero acquisiti in proprietà nelle forme previste
dall’ordinamento (compravendita; esproprio; acquisizione ex
art. 42-bis), la ricorrente può chiedere ed ottenere la
restituzione, ciò che non ha fatto nel presente giudizio.
Il
Collegio non può quindi disporre la restituzione, a meno di
incorrere nella violazione del principio di corrispondenza
tra il chiesto ed il pronunciato. La ricorrente potrà agire
in separata sede per ottenere tale restituzione, fermo
restando, tuttavia, che anche dopo la restituzione il Comune
di Cherasco manterrà la facoltà di acquisire il bene nelle
forme dianzi indicate.
33. Relativamente al danno conseguente al periodo di
occupazione, conformemente ai più recenti approdi
giurisprudenziali va riconosciuto alla ricorrente il danno
conseguente al non aver potuto disporre della porzione di sedime occupata: “posto che la proprietà è la facoltà di
godere e disporre del bene, la privazione della facoltà di
godimento lascia presumere la lesione del diritto reale,
peraltro caratterizzato, a differenza dei diritti relativi,
da una atipicità delle possibili forme d'uso. Il
proprietario, pertanto, non deve dimostrare positivamente il
danno; grava, viceversa, sull'occupante l'onere della prova
circa il fatto che il dominus si sia consapevolmente
disinteressato dell'immobile ed abbia omesso di esercitare
su di esso ogni pur ridotta forma di utilizzazione (cfr., da
ultimo, Cass., Sez. 3, 09.08.2016, n. 16670; Sez. 2, 15.10.2015, n. 20823; Sez. 2,
07.08.2012, n. 14222;
Cons. Stato, Sez. IV, 27.02.2017, n. 897)”: così
C.d.S. Sez. IV n. 5574 del 28/11/2017 (pronuncia dalla quale
il Collegio evidentemente si discosta, invece, per le sopra
esposte ragioni, in punto ammissibilità della rinunzia
abdicativa della proprietà da parte del privato e della
correlativa domanda risarcitoria da questi formula).
34. Il Collegio ritiene di poter procedere equitativamente
alla liquidazione del danno, dal momento che, in ragione
della modesta superficie occupata, una verificazione sul
punto sarebbe antieconomica. Tenuto conto del fatto che la
ricorrente nel 2011 ha venduto la residua parte del terreno
al prezzo di E. 4.02/mq, assumendo che tale prezzo sia
frutto di una svalutazione dovuta alla occupazione, il
Collegio ritiene che esso possa rappresentare il valore
venale del bene nel 2008, al momento della apprensione. Alla
ricorrente spetta dunque un danno “da sottrazione” del bene
che va quantificato, per ogni anno di occupazione, in
ragione del 5% del valore venale del bene occupato, ovvero
il 5% annuo di Euro 361,80 (Euro 4,02/mq x 90 mq.) dal
momento della occupazione (01.02.2008) al momento
della notificazione della domanda giudiziale (16.02.2011). A detta somma devono aggiungersi la rivalutazione
monetaria e gli interessi al tasso legale computati sulla
somma anno per anno rivalutata sino al soddisfo.
35. La complessità dei temi trattati giustifica la
compensazione delle spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte
(Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso,
come in epigrafe proposto, ogni diversa domanda rigettata
così provvede:
- dichiara improcedibile la domanda di annullamento del
provvedimento in epigrafe indicato;
- accoglie la domanda risarcitoria limitatamente al danno mancato
godimento del sedime di terreno oggetto di illegittima
occupazione, nei limiti indicati al paragrafo 33.1.;
- per l’effetto condanna il Comune di Cherasco al pagamento, in
favore della ricorrente, delle somme indicate al paragrafo
34. |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Ripetibilità
delle somme versate a titolo di contributo di concessione.
Il TAR Milano richiama l’orientamento
della giurisprudenza secondo il quale il contributo di
costruzione è strettamente correlato all'attività di
trasformazione del territorio e, conseguentemente, ove tale
circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta
privo della causa dell'originaria obbligazione di dare.
Da ciò l’ulteriore corollario che, allorché si dia luogo
alla rinuncia al permesso di costruire o questo rimanga
inutilizzato, ovvero nelle ipotesi di intervenuta decadenza
del titolo edilizio, sorge in capo alla p.a., anche ai sensi
dell’articolo 2033 c.c. o, comunque, dell’articolo 2041
c.c., l'obbligo di restituzione delle somme corrisposte a
titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione, e il diritto del privato a pretenderne la
restituzione.
Il diritto alla restituzione del contributo di costruzione
sorge, poi, non solamente nel caso in cui la mancata
realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il
permesso di costruire sia stato utilizzato solo
parzialmente.
Ciò posto, il TAR Milano aggiunge che:
- deve pure tenersi presente che, se ciò vale, in linea di
principio, nelle ipotesi di rilascio di un ordinario
permesso di costruire, tuttavia la situazione dei rapporti
di diritto-obbligo gravanti tra le parti può atteggiarsi
diversamente quando il titolo edilizio sia chiesto e
ottenuto in esecuzione di previsioni contenute in una
convenzione urbanistica;
- laddove i rapporti tra il privato e l’Amministrazione siano
regolati da un’apposita convenzione, occorre verificare
quale sia stato l’effettivo intento delle parti in ordine
alla corresponsione del contributo di costruzione;
- nel caso in cui le modalità di assolvimento dell’obbligazione del
privato siano direttamente funzionalizzate all’attuazione
delle trasformazioni oggetto della convenzione (come nelle
ipotesi di realizzazione di opere di urbanizzazione a
scomputo degli oneri dovuti, o di opere che il privato
accetti di realizzare in aggiunta agli oneri dovuti, o
ancora laddove la convenzione disciplini le opere da
realizzarsi da parte dell’Amministrazione, prevedendo
tuttavia l’accollo del relativo onere economico, con varie
modalità, a carico del privato) le obbligazioni attinenti al
contributo di costruzione (e soprattutto quelle relative
agli oneri di urbanizzazione) trovano la propria
giustificazione causale non solo e non tanto nel carico
urbanistico specificamente riconducibile alla quantità di
edificazione che forma oggetto di ciascun titolo edilizio
rilasciato in esecuzione della convenzione, bensì nel
disegno relativo al complessivo assetto urbanistico
stabilito dalla stessa convenzione quale risultato finale
derivante dalla relativa attuazione.
In questo caso, la mancata esecuzione degli interventi
privati non farà venir meno la causa giustificativa delle
obbligazioni attinenti alla realizzazione di opere
pubbliche, essendo queste obbligazioni stabilite in funzione
dell’attuazione del piano, e non del singolo e specifico
intervento edificatorio assentito con il titolo edilizio;
- al contrario, laddove la convenzione si limiti a disciplinare le
modalità di corresponsione del contributo di costruzione,
senza far emergere la specifica correlazione delle
prestazioni del privato rispetto all’attuazione delle
trasformazioni previste dal piano, l’obbligazione inerente
al contributo rimane correlata soltanto al carico
urbanistico ascrivibile allo specifico intervento oggetto di
ciascun titolo edilizio, secondo i principi sopra
richiamati; in questo caso occorre applicare gli ordinari
principi e, quindi, affermare la ripetibilità delle
eventuali quote di contributo commisurate (esclusivamente)
alle parti di intervento non effettivamente realizzate (commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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MASSIMA
1. Con ricorso portato alla notifica il 09.05.2014 e
depositato il successivo 13 maggio, la società Pe.RE a r.l. ha agito per ottenere la condanna del Comune di
Bernareggio al pagamento in suo favore della somma di euro
189.944,54 o della diversa somma che risultasse dovuta in
corso di causa, maggiorata degli interessi legali dal 19.07.2013 al saldo effettivo; somma pretesa dalla
ricorrente a titolo di parziale rimborso degli oneri di
urbanizzazione secondaria corrisposti in relazione
all’intervento edificatorio oggetto del permesso di
costruire n. 7/2009 e successive varianti, a causa della
mancata realizzazione di parte delle opere assentite.
2. Secondo quanto esposto nel ricorso e risultante dalla
documentazione a esso allegata, il Comune di Bernareggio ha
rilasciato alle società Pa. s.p.a. e Ro. s.r.l. il
permesso di costruire n. 7/2009 del 23.06.2009, avente
ad oggetto la realizzazione di due corpi di fabbrica
nell’ambito di un piano per gli insediamenti produttivi (PIP),
regolato da una convenzione precedentemente prorogata con
deliberazione del Consiglio comunale n. 23 del 22.04.2009.
L’intervento oggetto del permesso di costruire presentava
una superficie lorda di pavimento (SLP) di progetto di
16.685,76 e, a fronte di tale prevista realizzazione, il
Comune aveva quantificato il contributo di costruzione in
complessivi euro 647.240,25, di cui euro 558.138,34 per
oneri di urbanizzazione secondaria ed euro 89.101,90 per
contributo per lo smaltimento dei rifiuti. Non era, invece,
dovuta la corresponsione di alcuna somma a titolo di oneri
di urbanizzazione primaria.
Il permesso di costruire è stato poi volturato in favore
dell’odierna ricorrente Pe.RE ed è stato, quindi, oggetto
di numerose varianti, per cui l’assetto finale
dell’intervento prevedeva la realizzazione non più di due
corpi di fabbrica, bensì di quattro lotti, denominati A, B,
C e D.
Quest’ultimo lotto, tuttavia, non è stato realizzato entro i
termini di efficacia del titolo edilizio.
Con provvedimento del 09.08.2013, emesso in relazione a
un’istanza di permesso di costruire in variante presentata
dalla società, il Comune ha poi affermato –tra l’altro–
l’impossibilità di prorogare il permesso di costruire.
Secondo quanto allegato nel ricorso, la realizzazione
dell’intervento sarebbe stata poi preclusa dalla
sopravvenienza del Piano Territoriale di Coordinamento
Provinciale (PTCP) di Monza e della Brianza, che avrebbe
reso l’area inedificabile.
Va, infine, evidenziato che, con nota inviata mediante posta
elettronica certificata in data 19.07.2013, Pe.RE ha
chiesto al Comune il rimborso della quota degli oneri
versati, al rilascio del titolo edilizio del 2009, con
riferimento alla parte di intervento non realizzata.
3. Non avendo ottenuto il rimborso richiesto, la società ha
proposto il presente giudizio, con il quale ha allegato il
carattere indebito delle somme versate in relazione al
rilascio del permesso di costruire del 2009 e commisurate
alle superfici non realizzate, e ha domandato la condanna
del Comune alla restituzione dei relativi importi.
Più in dettaglio, la ricorrente ha affermato che:
- la SLP prevista dal permesso di costruire del 2009 e in
relazione alla quale sono stati corrisposti a suo tempo gli
oneri di urbanizzazione secondaria e il contributo per lo
smaltimento dei rifiuti era pari, come detto, a 16.685,76
mq;
- a seguito delle varianti al titolo, la superficie in
progetto si è ridotta a 13.420,41 mq, dei quali 1.853,40 mq
imputabili al lotto D, non realizzato;
- la superficie non effettivamente realizzata, rispetto a
quanto previsto dal permesso di costruire originario,
ammonterebbe a mq 4.896,74 (al netto di due atti di cessione
di volumetria agli acquirenti degli immobili effettivamente
realizzati, per complessivi mq 220,00);
- conseguentemente, la società sarebbe creditrice del Comune
per il complessivo importo di euro 189.944,54 derivante
dalla somma dei maggiori oneri di urbanizzazione secondaria
versati per 163.795,95 euro (4.896,74 x 33,45) e della
maggior somma pagata a titolo di contributo per lo
smaltimento dei rifiuti per euro 26.148,59 (4.896,74 x
5,34).
4. In data 24.12.2014 il Comune di Bernareggio si è
costituito in giudizio, con mera memoria formale.
5. L’11.10.2017, in prossimità dell’udienza pubblica
fissata per la trattazione della causa, Pe.Re ha
depositato una memoria corredata da documentazione.
5.1 In particolare –per quanto qui rileva– la ricorrente
ha depositato copia delle reversali di incasso dei pagamenti
effettuati.
5.2 Ha, inoltre, precisato nella suddetta memoria l’importo
del credito vantato nei confronti del Comune in euro
198.555,92. Al riguardo, la parte ha affermato che
l’indicazione di una somma minore nel ricorso (come detto,
euro 189.944,54) fosse stata dovuta allo scomputo delle SLP
che Pe.Re aveva alienato, mediante cessione di
volumetria, agli acquirenti dei fabbricati realizzati.
Tuttavia, la suddetta cessione non sarebbe stata ritenuta
dall’Amministrazione quale modalità idonea ad assolvere gli
oneri dovuti da parte dell’acquirente, per cui i relativi
importi sarebbero stati nuovamente posti a carico della
ricorrente. Da ciò la necessità di rideterminare in aumento
le superfici in relazione alle quali sarebbero stati
corrisposti oneri non dovuti.
5.3 Infine, la ricorrente ha sottolineato la circostanza
che, nella delibera di costituzione in giudizio, il Comune
aveva affermato di non ravvisare l’immediata esigenza di
restituzione degli oneri, perché l’eventuale accoglimento
del ricorso proposto dalla stessa Penta RE contro il PTCP
avrebbe consentito di completare l’intervento edificatorio
progettato.
Tuttavia, la pretesa di trattenere gli oneri
versati in eccesso dalla ricorrente sarebbe stata mantenuta
dall’Amministrazione anche dopo che il Comune e la società –in un momento successivo alla proposizione del ricorso–
hanno acclarato la compatibilità dell’intervento con il PTCP,
avviando quindi la stipulazione di un nuovo piano attuativo
relativo alle sole opere non ancora eseguite.
In altri termini, la parte stigmatizza la circostanza che, a
seguito della stipulazione della nuova convenzione, gli
oneri relativi a tali opere verrebbero ad essere pretesi due
volte dall’Amministrazione (una prima volta per effetto dei
pagamenti effettuati in dipendenza del permesso di costruire
del 2009 e una seconda volta a seguito della stipulazione
della nuova convenzione).
6. La stessa ricorrente ha, poi, depositato una ulteriore
memoria il 31.10.2017.
7. Il 14.11.2017 la difesa comunale ha depositato una
memoria, con la quale:
- ha chiesto il rinvio della causa per la trattazione
congiunta con il ricorso RG 177/2014, avente ad oggetto il
diniego di proroga del permesso di costruire n. 7/2009;
- ha affermato che la ricorrente avrebbe accettato di
espungere dal testo della nuova convenzione urbanistica il
riferimento agli importi già versati in dipendenza del
precedente titolo edilizio, con ciò prestando acquiescenza
alla pretesa comunale di trattenere definitivamente gli
oneri già corrisposti, senza alcun rimborso o alcuna
compensazione in dipendenza del rinnovato accordo inerente
alla realizzazione delle opere non eseguite;
- ha sostenuto che, in ogni caso, gli importi
originariamente versati non potrebbero essere restituiti, in
quanto l’intervento non era legittimato da un titolo
edilizio “semplice”, ma era oggetto di una convezione
urbanistica, nella quale la parte privata aveva assunto
l’obbligazione di pagare gli oneri dipendenti
dall’attuazione del PIP; conseguentemente, il Comune avrebbe
contato sull’incasso degli importi pattuiti ai fini della
realizzazione degli ulteriori interventi resi necessari
dalla realizzazione dell’insediamento produttivo.
8. Con un ulteriore scritto difensivo, depositato il 18.11.2017, la ricorrente ha eccepito l’inammissibilità
della memoria comunale, in quanto esorbitante dai contenuti
tipici assegnati dalla disciplina processuale alle repliche.
In subordine, in caso di ritenuta ammissibilità della
produzione avversaria, la società ha chiesto di reputare
ammissibile anche le proprie ulteriori difese. In questa
prospettiva, Penta RE ha contestato le tesi
dell’Amministrazione e le stesse circostanze da questa
allegate, e ha, inoltre, prodotto ulteriore documentazione,
comprendente –tra l’altro– l’originaria convenzione
urbanistica del 1998, accessoria al PIP.
La ricorrente ha, infine, chiesto la condanna del Comune per
lite temeraria.
...
13. Nel merito il ricorso è fondato e va accolto. E, al
riguardo, deve pure aggiungersi che, in ogni caso, tale
conclusione non è confutata, ma è anzi avvalorata, dalle pur
tardive produzioni della difesa comunale.
Per completezza espositiva tali difese verranno quindi prese
comunque in considerazione nel prosieguo della trattazione,
come pure le conseguenti ulteriori produzioni della
ricorrente, che vanno anch’esse esaminate, a garanzia della
pienezza del contraddittorio, unitamente alle prime. Ciò
ferma restando la valutazione del comportamento processuale
della parte resistente ai fini della decisione sulle spese.
14. La questione oggetto del giudizio attiene
all’accertamento della sussistenza del diritto alla
restituzione delle maggiori somme versate a titolo di oneri
di urbanizzazione secondaria e di contributo per lo
smaltimento dei rifiuti per la parte riferita alle opere non
realizzate nell’ambito di quelle assentite con il permesso
di costruire n. 7/2009, avente ad oggetto la costruzione di
capannoni industriali a seguito di assegnazione di aree
nell’ambito di un PIP.
15. Va preliminarmente escluso che la ricorrente abbia
prestato acquiescenza alla pretesa comunale di trattenere
tali maggiori importi.
L’acquiescenza è infatti configurabile, sul piano logico e
giuridico, soltanto a fronte dell’esercizio di poteri
autoritativi dell’Amministrazione. Laddove, invece, si
faccia questione, come nel caso oggetto del presente
giudizio, di rapporti di diritto-obbligo tra le parti, potrà
–al più– parlarsi di rinuncia al proprio diritto o di
riconoscimento del debito, ma non di accettazione degli
effetti del provvedimento eventualmente illegittimo.
Peraltro, anche tali eventualità non sono riscontrabili nel
caso di specie.
Il nuovo accordo si limita, infatti, a disciplinare le
obbligazioni nascenti dalle previsioni del nuovo piano,
senza nulla dire in ordine ai pregressi rapporti tra le
parti. Le pattuizioni sono, quindi, del tutto neutre sotto
tale profilo. Circostanza, questa, che è del resto
comprensibile, stante la pendenza del contenzioso oggetto
del presente giudizio al tempo della negoziazione della
nuova convenzione e, quindi, l’esistenza di una situazione
non definita tra le parti in relazione ai rapporti
preesistenti.
16. Escluso, pertanto, che la ricorrente abbia comunque
acconsentito alla pretesa comunale, deve ricordarsi che,
secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, il
contributo di costruzione è strettamente correlato
all'attività di trasformazione del territorio.
Conseguentemente, ove tale circostanza non si verifichi, il
relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria
obbligazione di dare.
Da ciò l’ulteriore corollario che,
allorché si dia luogo alla rinuncia al permesso di costruire
o questo rimanga inutilizzato, ovvero nelle ipotesi di
intervenuta decadenza del titolo edilizio, sorge in capo
alla p.a., anche ai sensi dell’articolo 2033 c.c. o,
comunque, dell’articolo 2041 c.c., l'obbligo di restituzione
delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione, e il diritto del
privato a pretenderne la restituzione (Cons. Stato, Sez. V,
23.06.2003 n. 3714; Id., 12.06.1995, n. 894; Id. 02.02.1988, n. 105; TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
01.03.2017, n. 496; Id., 07.01.2016, n. 12; Id., 15.12.2015, n. 2642; Id. 22.10.2014, n. 2527; TAR
Lazio, Sez. II-bis, 10.11.2015, n. 12693; TAR Umbria,
27.02.2014, n. 135).
La giurisprudenza ha, poi, avuto modo di chiarire che
il
diritto alla restituzione del contributo di costruzione
sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione
delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di
costruire sia stato utilizzato solo parzialmente (in questo
senso: TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 496 del 2017,
cit.; Id. n. 12 del 2016, cit.; Id., n. 2642 del 2015, cit.;
Id. 24.03.2010, n. 728; TAR Lazio, n. 12693 del 2015,
cit.; per il diritto al rimborso del contributo in caso di
mancata costruzione di uno dei tre edifici previsti nel
complessivo intervento edilizio: Cons. Stato, Sez. V, 23.06.2003, n. 3714).
17. Ciò posto, deve pure tenersi presente che,
se ciò vale,
in linea di principio, nelle ipotesi di rilascio di un
ordinario permesso di costruire, tuttavia la situazione dei
rapporti di diritto-obbligo gravanti tra le parti può
atteggiarsi diversamente quando il titolo edilizio sia
chiesto e ottenuto in esecuzione di previsioni contenute in
una convenzione urbanistica.
17.1 Laddove, infatti, i rapporti tra il privato e
l’Amministrazione siano regolati da un’apposita convenzione,
occorre verificare attentamente quale sia stato l’effettivo
intento delle parti in ordine alla corresponsione del
contributo di costruzione.
In particolare, occorre chiedersi se le modalità di
assolvimento dell’obbligazione del privato siano
direttamente funzionalizzate all’attuazione delle
trasformazioni oggetto della convenzione, ovvero non
presentino tale correlazione. Esempi del primo caso sono
riscontrabili tipicamente nelle ipotesi di realizzazione di
opere di urbanizzazione a scomputo degli oneri dovuti, o di
opere che il privato accetti di realizzare in aggiunta agli
oneri dovuti, o ancora laddove la convenzione disciplini le
opere da realizzarsi da parte dell’Amministrazione,
prevedendo tuttavia l’accollo del relativo onere economico,
con varie modalità, a carico del privato.
In tutte tali ipotesi, le obbligazioni attinenti al
contributo di costruzione (e soprattutto quelle relative
agli oneri di urbanizzazione) trovano la propria
giustificazione causale non solo e non tanto nel carico
urbanistico specificamente riconducibile alla quantità di
edificazione che forma oggetto di ciascun titolo edilizio
rilasciato in esecuzione della convenzione, bensì nel
disegno relativo al complessivo assetto urbanistico
stabilito dalla stessa convenzione quale risultato finale
derivante dalla relativa attuazione.
Al contrario, laddove la convenzione si limiti a
disciplinare le modalità di corresponsione del contributo di
costruzione, senza far emergere la specifica correlazione
delle prestazioni del privato rispetto all’attuazione delle
trasformazioni previste dal piano, l’obbligazione inerente
al contributo rimane correlata soltanto al carico
urbanistico ascrivibile allo specifico intervento oggetto di
ciascun titolo edilizio, secondo i principi sopra
richiamati.
17.2 Le diverse modalità di atteggiarsi della volontà delle
parti nella strutturazione delle obbligazioni nascenti dalla
convenzione urbanistica non possono che riflettersi sulle
conseguenze dell’eventuale mancata realizzazione, in tutto o
in parte, delle trasformazioni previste dai titoli edilizi
rilasciati in esecuzione dell’accordo.
Ove, infatti, gli impegni assunti dal privato siano
funzionali alla complessiva realizzazione dell’assetto
urbanistico stabilito dal piano attuativo, la mancata
esecuzione degli interventi privati non farà venir meno la
causa giustificativa delle obbligazioni attinenti alla
realizzazione di opere pubbliche, essendo queste
obbligazioni stabilite in funzione dell’attuazione del
piano, e non del singolo e specifico intervento edificatorio
assentito con il titolo edilizio.
Nel caso opposto, ossia laddove (e per la parte in cui) le
obbligazioni previste a carico del privato dalla convenzione
urbanistica non presentino tale correlazione, dovrà
concludersi per l’applicazione degli ordinari principi e,
quindi, per la ripetibilità delle eventuali quote di
contributo commisurate (esclusivamente) alle parti di
intervento non effettivamente realizzate.
18. Nel caso oggetto del presente giudizio, emerge
chiaramente dalla lettura della convenzione urbanistica che,
al momento dell’assegnazione delle aree, il Comune aveva
assunto su di sé la realizzazione delle necessarie opere di
urbanizzazione primaria del contesto produttivo e che il
prezzo dell’assegnazione includeva la quota dovuta dal
privato in dipendenza della realizzazione di tali
infrastrutture.
Quanto, invece, alla quota di contributo commisurata alle
opere di urbanizzazione secondaria e agli oneri connessi
allo smaltimento dei rifiuti, questa era dovuta al rilascio
dei singoli titoli edilizi, in correlazione con le quantità
di edificazione ivi previste, e non era posta in relazione
con la realizzazione di alcuno specifico intervento
funzionale all’insediamento industriale o ad altre finalità
di interesse pubblico comunque indicate
dall’Amministrazione.
19. Dalla lettura della convenzione emerge, perciò, che lo
stretto nesso di correlazione di cui si è detto tra le
obbligazioni del privato e le trasformazioni previste dal
piano e dalla convenzione è riscontrabile soltanto con
riferimento alle quote versate dall’assegnatario a titolo di
contributo per l’urbanizzazione primaria.
Quanto agli oneri commisurati alle opere di urbanizzazione
secondaria e allo smaltimento dei rifiuti, tale nesso non è,
invece, ravvisabile. Conseguentemente, con riguardo a queste
quote di contributo non possono che trovare applicazione gli
ordinari principi, in base ai quali –come detto– la
giustificazione causale dell’obbligazione risiede
nell’attuazione dell’intervento oggetto del permesso di
costruire.
Deve aggiungersi, poi, che questa conclusione non muta in
considerazione della circostanza che, nel caso di specie,
trattandosi di permesso di costruire per interventi da
realizzare su aree oggetto di assegnazione nell’ambito di un
PIP, il privato fosse obbligato a costruire i capannoni
industriali progettati.
Va, infatti, tenuto concettualmente
distinto il profilo attinente all’inadempimento
dell’obbligazione di realizzazione dei capannoni
(inadempimento le cui conseguenze trovano la propria
disciplina in specifiche previsioni della convenzione, oltre
che negli ordinari principi), da quello concernente
l’obbligazione relativa alle quote di contributo sopra
dette; obbligazione che mantiene la propria causa
giustificativa nella circostanza di fatto dell’effettiva
realizzazione dei manufatti industriali.
In altri termini,
l’eventuale possibilità per l’Amministrazione di reagire
all’incompleta realizzazione degli interventi non fa venir
meno il dato di fatto della mancanza di giustificazione
causale del contributo versato dal privato in relazione a
opere non eseguite e, quindi, in difetto del presupposto
dell’incremento del carico urbanistico.
20. Alla luce delle considerazioni sin qui esposte,
deve perciò ritenersi sussistente il diritto del
privato, ai sensi dell’articolo 2033 c.c., alla restituzione
delle somme a suo tempo versate per le opere non
effettivamente realizzate, a titolo di oneri di
urbanizzazione secondaria e di contributo per lo smaltimento
dei rifiuti.
L’Amministrazione va, quindi, condannata al pagamento dei
relativi importi, maggiorato degli interessi legali, dovuti
fino al soddisfo, e decorrenti, in conformità al disposto
dell’articolo 2033 c.c., dalla domanda giudiziale (Cass.
civ., Sez. III, 07.05.2007, n. 10297; Cons. Stato, Sez. IV, 26.05.2006, n. 3189; TAR Lombardia, Sez. II,
07.01.2016, n. 12).
21. L’Amministrazione soccombente va, inoltre, condannata al
pagamento delle spese oggetto del presente giudizio.
Al riguardo, il Collegio non ravvisa i presupposti per
l’applicazione della disciplina sulla lite temeraria,
invocata da Pe.RE.
Le spese vanno, tuttavia, liquidate tenendo conto del
complessivo comportamento processuale delle parti e,
specificamente, dell’aggravio difensivo determinato, a
carico della ricorrente, dalle produzioni tardive del
Comune. In considerazione di quanto precede, il relativo
importo va, perciò, determinato in euro 3.000,00
(tremila/00), oltre IVA, c.p.a., oneri per spese generali
nella misura del quindici per cento e rimborso del
contributo unificato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.03.2018 n. 718 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ripetibilità
delle somme versate a titolo di contributo di concessione.
Il TAR Milano, dopo aver ricordato che
il contributo non è dovuto in caso di rinuncia o, comunque,
di mancato utilizzo del permesso di costruire, con
conseguente obbligo della pubblica amministrazione, ai sensi
dell'art. 2033 cod. civ., di restituire le somme
eventualmente incamerate a tale titolo, aveva aggiunto che
questo principio può essere applicato anche in presenza di
una stipulazione di una convenzione urbanistica, stante, nel
caso in esame:
a) l’assoluta mancata realizzazione di ogni opera prevista dalla
convenzione;
b) l’impossibilità per il soggetto attuatore, a seguito
dell’intervenuta scadenza dei termini previsti dalla
convenzione stessa, di realizzare le opere private di suo
interesse;
Secondo il TAR, la convenzione urbanistica non costituisce
autonoma fonte dell’obbligo di versamento del contributo di
costruzione, trovando quest’ultimo la propria fonte
direttamente nella legge, la quale lo pone in stretta
correlazione all’attività di trasformazione del territorio
in assenza della quale esso non è comunque dovuto.
La convenzione svolge dunque il ruolo, non già di fonte
dell’obbligo, ma di fonte di regolazione dello stesso per
quanto concerne il quantum ed il quomodo; sicché una volta
escluso che la trasformazione del territorio possa attuarsi,
il pagamento del contributo di costruzione diviene privo di
causa, quantunque esso sia previsto e disciplinato da una
convenzione urbanistica (commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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MASSIMA
12. Come noto, in base ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale, il contributo di costruzione è
strettamente correlato alla trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio e, dunque, al concreto esercizio
della facoltà di costruire. Pertanto, secondo la
giurisprudenza, il contributo non è dovuto in caso di
rinuncia o, comunque, di mancato utilizzo del permesso di
costruire, con conseguente obbligo della pubblica
amministrazione, ai sensi dell'art. 2033 cod. civ., di
restituire le somme eventualmente incamerate a tale titolo
(cfr. fra le tante, TAR Campania Salerno, sez. I, 31.01.2017, n. 179).
13. Ritiene il Collegio che questo principio possa essere
applicato al caso di specie, e ciò nonostante questo sia
caratterizzato dall’intervenuta stipulazione di una
convenzione urbanistica.
14. In proposito va osservato che la Sezione –con sentenze
21.05.2013, n. 1337 e 11.05.2015, n. 1137– ha negato la
possibilità per il soggetto attuatore di sottrarsi
dall’obbligo di corresponsione del contributo di costruzione
mediante atto di rinuncia alla convenzione urbanistica.
15. In particolare, nella sentenza n. 1337 del 2013, si è
rilevato che la rinuncia alla convenzione urbanistica
costituisce in realtà un vero e proprio atto di recesso
dall’accordo contrattuale in violazione dell’art. 1372,
primo comma, cod. civ., e dell’art. 21-sexies della legge n.
241 del 1990. E una volta negata la possibilità di recesso
unilaterale, ed una volta constatata quindi la perdurante
vigenza della convenzione, si è escluso che il versamento
del contributo di costruzione fosse divenuto privo di causa:
il pagamento trovava invero la propria giustificazione nel
fatto che la convenzione era ancora vigente e che quindi,
non era venuta meno la possibilità per il privato di attuare
l’intervento di trasformazione del territorio che ne
costituiva oggetto.
16. L’impossibilità di rinuncia della convenzione
urbanistica è stata poi ribadita nella sentenza n. 1137 del
2015 la quale, peraltro, per negare la possibilità di
sottrarsi all’obbligo di realizzazione delle opere a
scomputo oneri, ha potuto utilizzare un’altra argomentazione
decisiva: l’intervenuta realizzazione delle opere di
interesse privato.
17. Ritiene il Collegio che i principi affermati in queste
sentenze non possano essere utilmente invocati nel caso di
specie il quale si caratterizza per due elementi che lo
diversificano da quelli in precedenza considerati: a)
l’assoluta mancata realizzazione di ogni opera prevista
dalla convenzione; b) l’impossibilità per il soggetto
attuatore, stante l’intervenuta scadenza dei termini
previsti dalla convenzione stessa, di realizzare le opere
private di suo interesse.
18. Ritiene il Collegio che l’assoluta assenza di attività di
trasformazione del territorio e l’impossibile attuazione
futura di questa attività non possano far altro che rendere
privo di causa l’incameramento del contributo di
costruzione.
19. A questo proposito si osserva che, a parere del
Collegio, il contributo di costruzione non può essere
considerato alla stregua di un corrispettivo sinallagmatico
correlato al trasferimento al privato del diritto di
costruire, corrispettivo da ritenersi comunque dovuto anche
se il privato stesso ometta poi di sfruttare il diritto
acquisito: come noto, la Corte costituzionale, a partire
dalla sentenza n. 5 del 1980, ha chiarito che la possibilità
di edificare non è altro che una facoltà che inerisce al
diritto di proprietà; e la giurisprudenza ha dal canto suo
chiarito che la funzione del contributo di costruzione è
quella di far compartecipare colui che ponga in essere
un’attività di trasformazione del territorio determinante
incremento del carico urbanistico alle spese necessarie alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione (cfr., fra le
tante, Consiglio di stato, sez. V, 20.04.2008, 2359).
21. La convenzione urbanistica, pertanto,
non costituisce
autonoma fonte dell’obbligo di versamento del contributo di
costruzione, trovando quest’ultimo la propria fonte
direttamente nella legge la quale, come detto, lo pone in
stretta correlazione all’attività di trasformazione del
territorio in assenza della quale esso non è comunque
dovuto.
La convenzione svolge dunque il ruolo, non già di
fonte dell’obbligo, ma di fonte di regolazione dello stesso
per quanto concerne il quantum ed il quomodo; sicché, come
anticipato, una volta escluso che la trasformazione del
territorio possa attuarsi, il pagamento del contributo di
costruzione diviene privo di causa, quantunque esso sia
previsto e disciplinato da una convenzione urbanistica.
A
questo punto preme al Collegio precisare che a conclusioni
diverse non è pervenuta la sentenza della Sezione n. 2172
del 14.11.2017, atteso che nella fattispecie ivi
esaminata la parte privata aveva versato solo una parte del
contributo di costruzione in adempimento di un obbligo che
era correlato dalla convenzione, non solo al contributo di
costruzione appunto, ma anche ad una caparra confirmatoria
ivi prevista: in quel caso quindi –sebbene la convenzione
non fosse più attuabile– la restituzione era impedita dal
fatto che il pagamento fosse avvenuto anche a titolo di
caparra confirmatoria.
22. In questo quadro si deve escludere che, nella
fattispecie in esame, la convenzione stipulata fra la
ricorrente ed il Comune di Novate Milanese possa
giustificare il pagamento del contributo di costruzione
nonostante l’impossibilità di attuare gli interventi di
trasformazione del territorio ivi previsti.
23. Neppure può ritenersi che il Comune di Novate Milanese
possa pretendere di trattenere le somme versate dalla
ricorrente stessa in ragione dell’avvenuto impiego delle
medesime nel finanziamento di attività di pubblico
interesse. Invero, l’art. 2033 cod. civ. non ammette deroghe
all’obbligo di restituzione del pagamento indebitamente
ricevuto, e ciò neanche quando la fonte dell’obbligazione,
in origine esistente, venga meno in un secondo momento;
salvo, per l’accipiens in buona fede, il beneficio di non
dover corrispondere gli interessi se non a decorrere dal
giorno della domanda, e salva la possibilità, per lo stesso
Comune di Novate Milanese, di ottenere il risarcimento dei
danni qualora dimostri che la parte privata si sia
comportata in maniera sleale, ledendo un suo legittimo
affidamento.
24. Da tutto quanto sopra consegue che il pagamento del
contributo di costruzione effettuato dalla ricorrente deve
ritenersi ormai privo di causa e che, pertanto, il Comune
resistente ha l’obbligo di restituire alla ricorrente stessa
la somma di euro 1.222.330,91.
25. Per quanto concerne invece gli interessi, stante la
buona fede dell’Amministrazione, non può accogliersi la
domanda della ricorrente di ottenerne il riconoscimento a
decorrere dal giorno del pagamento. Gli interessi vanno
infatti riconosciuti, per le ragioni anzidette, solo a
decorrere dal giorno della domanda.
26. In conclusione, assorbite le altre censure in ragione
della completa soddisfazione degli interessi della
ricorrente, il ricorso deve essere accolto nei limiti sopra
indicati (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 28.02.2018 n. 596
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
All’Adunanza plenaria alcune questioni connesse alla
rideterminazione degli oneri concessori.
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Edilizia – Oneri di costruzione – Rideterminazione –
Espressione di potere autoritativo o facoltà conseguente al
rilascio del titolo edilizio e possibile legittimo
affidamento del privato – Contrasto giurisprudenziale –
Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
Stante il contrasto
giurisprudenziale, sono rimesse all’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato le questioni:
a) se la rideterminazione degli oneri concessori in occasione del
rilascio del titolo edilizio ai sensi dell’art. 16, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 sia estrinsecazione di potere
autoritativo da parte dell’amministrazione comunale,
nell’ambito dell’autotutela pubblicistica soggetta ai
presupposti e requisiti dell’art. 21-novies, l. 07.08.1990,
n. 241, ovvero sia espressione di una sua legittima facoltà,
nell’ambito del rapporto paritetico di natura creditizia,
conseguente al rilascio del titolo edilizio a carattere
oneroso, sottoposto nelle sue forme di esercizio al termine
prescrizionale ordinario;
b) ove dovesse prevalere la prima opzione interpretativa, se la
rideterminazione dei suddetti oneri sia da ascrivere
all’ambito dei rapporti di diritto pubblico quali che siano
le ragioni che l’abbiano ispirata, ovvero solo nei casi in
cui la stessa dipenda dalla applicazione di parametri o
coefficienti determinativi diversi (originari o
sopravvenuti) da quelli in precedenza applicati, con
esclusione quindi dei casi di errore materiale di calcolo
delle somme dovute sulla base dei medesimi parametri
normativi;
c) in alternativa ed a prescindere dall’inquadramento giuridico
della fattispecie secondo le richiamate categorie, e quale
che sia la natura giuridica da riconnettere al provvedimento
rideterminativo degli oneri concessori, se vi sia spazio, ed
in quali limiti, perché possa trovare applicazione nella
fattispecie in esame il principio del legittimo affidamento
del privato, da ricostruire vuoi sulla base della disciplina
pubblicistica dell’autotutela, vuoi su quella privatistica
della lealtà e della buona fede nell’esecuzione delle
prestazioni contrattuali, ovvero sulla base dei principi
desumibili dai limiti posti dall’ordinamento civile per
l’annullamento del contratto per errore o per altra causa
(1).
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(1)
Ha chiarito il C.g.a. che la questione involge le forme, le
condizioni ed i tempi attraverso cui un’amministrazione
comunale può rideterminare (in malam partem) gli
oneri concessori dovuti dal soggetto beneficiario di un
titolo edilizio dopo che questi abbia già ritirato il
provvedimento assentivo (e magari anche iniziato e
completato i lavori) ed abbia avuto contezza in quella sede
o, ancor prima, degli importi determinati
dall’Amministrazione quale contributo commisurato alla
incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione ed abbia, in definitiva, sulla base di quei
dati, fatto affidamento su un determinato preventivo di
spesa del programmato intervento edilizio.
Ad avviso del Consiglio di giustizia amministrativa
siciliana è necessario prendere posizione dalla questione di
carattere generale, e cioè se la rideterminazione degli
oneri concessori sia attività sussumibile nell’autotutela
amministrativa ovvero sia inquadrabile nell’ambito di un
normale rapporto paritetico di debito-credito, come tale
astretta alle regole ed ai rimedi di diritto comune.
Su tale questione non si registrano posizioni omogenee nella
giurisprudenza amministrativa.
Ed invero, secondo una prima tesi dello stesso C.g.a. (nn.
64,
188,
244,
373,
422,
790 tutte del 2007) la determinazione del
contributo darebbe luogo ad un rapporto paritetico che,
seppur azionabile da ambo le parti nel rispetto del termine
prescrizionale ordinario di dieci anni, si cristallizzerebbe
nel quantum al momento del rilascio del titolo
edilizio, nel senso che lo stesso non sarebbe suscettibile
di modifiche successive (se non nei casi di manifesto errore
di calcolo) in quanto, in applicazione dei principi
desumibili dalla disciplina dei contratti, non darebbe mai
luogo ad un errore riconoscibile (donde l’intangibilità
pressoché assoluta della originaria determinazione
amministrativa).
Secondo tale approccio ermeneutico, non vi sarebbe ragione
per l’applicazione dell’istituto dell’autotutela
amministrativa per la eventuale rideterminazione del
contributo (proprio perché il rapporto inter partes è
di natura paritetica) né, come si diceva, vi sarebbe spazio
per una modifica successiva per errore perché questo, in
quanto maturato nella sfera riservata dell’amministrazione,
sarebbe per definizione non riconoscibile e quindi
irrilevante, con la conseguenza che si dovrebbe sempre
salvaguardare la tutela dell’affidamento della parte
privata.
Altra tesi, fatta propria in alcune sentenze della quarta
sezione del Consiglio di Stato (27.09.2017,
n. 4515; id.
12.06.2017, n. 2821), pur muovendo da analoga
impostazione sulla natura paritetica del rapporto, giunge
tuttavia a conclusioni opposte. Si è osservato, infatti, che
proprio perché si tratta di un rapporto di debito-credito di
natura paritetica, soggetto a prescrizione decennale, la
rettifica è sempre possibile sia in bonam che in
malam partem, entro il limite della prescrizione del
diritto reciproco delle parti alla correzione delle esatte
somme dovute, perché per un verso il procedimento è
svincolato dal rispetto delle condizioni legali di esercizio
dell’autotutela amministrativa (in particolare, di quelle
previste all’art. 21-novies, l. n. 241 del 1990), per altro
verso la rideterminazione del contributo dovuto secondo
rigidi parametri regolamentari o tabellari non soltanto è
possibile, ma costituisce atto dovuto, residuando altrimenti
un indebito oggettivo, inammissibile nei rapporti di diritto
amministrativo.
Entrambe le tesi muovono dal rilievo, ampiamente diffuso
nella giurisprudenza amministrativa, secondo cui le
controversie in tema di determinazione della misura dei
contributi edilizi concernono l'accertamento di diritti
soggettivi che traggono origine direttamente da fonti
normative, per cui sono proponibili, a prescindere
dall'impugnazione di provvedimenti dell'amministrazione, nel
termine di prescrizione (Cons. St., sez. IV, 20.11.2012, n.
6033; id., sez. V, 04.05.1992, n. 360); ribadiscono che si
tratta di rapporto creditorio paritetico, ma pervengono,
come detto, a conclusioni assai diversificate sul piano
della tutela da apprestare alla parte privata che abbia
subito una rideterminazione in peius.
Una posizione diversa e innovativa rispetto ai riferiti
orientamenti giurisprudenziali, quantomeno in ordine alla
impostazione teorica delle questioni, si rinviene poi in
altra sentenza della quarta sezione del Consiglio di Stato (n.
5402 del 2016). Qui il rapporto nascente dalla
determinazione del contributo (nel caso esaminato, di
costruzione) è attratto nell’orbita del regime di diritto
pubblico, in quanto qualificato prestazione patrimoniale
imposta di carattere non tributario, con conseguente
applicabilità, in astratto, delle regole dell’autotutela
amministrativa.
E tuttavia, sul piano della tutela dell’affidamento della
parte privata rispetto ad una delibera di giunta comunale di
rideterminazione del contributo di costruzione (sia pur di
adeguamento alla soglia minima del 5% fissata dalla legge
nazionale all’art. 16, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001), si
afferma che le garanzie partecipative (in particolare, art.
10-bis, l. n. 241 del 1990) devono essere pur sempre
coordinate con le previsioni dell’art. 21-octies, l. cit. e
con le esigenze di finalizzazione del procedimento con
l’applicazione della tariffa dovuta. Si richiama al
proposito la giurisprudenza del Consiglio di Stato sul
recupero di somme indebitamente corrisposte
dall’amministrazione (Cons.
St., sez. V, n. 5863 del 2015), fattispecie che
viene assimilata a quella di causa, relativa a somme dovute
dal privato e non riscosse dall’ente comunale.
Tale decisione ha segnato un cambio di passo rispetto ai
precedenti arresti della medesima sezione in ordine
all’inquadramento generale nei sensi anzidetti dell’istituto
del contributo previsto dall’art. 16 cit.
Ricordate le diverse tesi emerse sull’argomento, il C.g.a.
ha affermato che l’ascrizione all’alveo dei rapporti di
diritto pubblico del contributo in questione imporrebbe
quindi, in via consequenziale, l’applicazione del regime
proprio dell’autotutela amministrativa all’attività di
rideterminazione delle somme dovute a tal titolo dalla parte
privata, quantomeno nei casi in cui non si tratti di por
mano ad un semplice errore materiale di calcolo desumibile
dagli atti del procedimento ovvero non si tratti di
rideterminazione imposta dall’adozione di un nuovo
provvedimento abilitativo edilizio, anche semplicemente per
effetto della intervenuta decadenza temporale del primo (ma
qui si resterebbe in ogni caso fuori dall’ambito
dell’autotutela) (CGARS,
ordinanza 27.03.2018 n. 175
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
8. Orbene, l’esame della questione nel merito impone uno
sforzo ermeneutico ricostruttivo necessario per la corretta
qualificazione giuridica della fattispecie, dovendosi
stabilire se debba qui farsi applicazione di istituti di
stretta matrice pubblicistica (ed in particolare
dell’autotutela e delle sue modalità di esercizio) ovvero
degli stessi frammisti ad istituti di diritto privato: con
possibili esiti diversificati delle questioni controverse, a
seconda che si ritenga applicabile l’uno o l’altro
strumentario giuridico.
8.1. Più in particolare,
qui si tratta della dibattuta
questione involgente le forme, le condizioni ed i tempi
attraverso cui un’amministrazione comunale può rideterminare
(in malam partem) gli oneri concessori dovuti dal
soggetto beneficiario di un titolo edilizio dopo che questi
abbia già ritirato il provvedimento assentivo (e magari
anche iniziato e completato i lavori) ed abbia avuto
contezza in quella sede o, ancor prima, degli importi
determinati dalla amministrazione quale contributo
commisurato alla incidenza delle spese di urbanizzazione
nonché al costo di costruzione: ed abbia, in definitiva,
sulla base di quei dati, fatto affidamento su un determinato
preventivo di spesa del programmato intervento edilizio.
9. E’ bene subito precisare che i casi qui in esame esulano
dalle ipotesi del mero errore di calcolo degli oneri
concessori desumibile già dall’iniziale atto determinativo
degli importi dovuti.
Qui è accaduto, in entrambe le fattispecie di causa, che il
Comune di Cinisi abbia dapprincipio fissato l’importo dovuto
dal signor Pa. e dalla ditta Di Sa. Fa. s.n.c. a
titolo di oneri di urbanizzazione, nell’ambito
rispettivamente della concessione edilizia n. 3 del 22.10.2002 (e della successiva variante n. 2 del 28.03.2003) nonché della concessione edilizia n. 2 del 22.10.2002 (e della successiva variante n. 1 del 28.03.2003).
Indi, a distanza di oltre quattro anni dalla data di tali
atti, ha provveduto a rideterminare (con le già richiamate
note n. 9004 e 9005 del 07.05.2007) gli importi dovuti a
tal titolo dalle parti qui appellate, incrementandoli in
misura corrispondente a circa quattro volte gli importi
originari (portandoli ad euro 167.223,47 per il Pa. ed
a euro 181.590,54 per la società Di. s.r.l., già Di sa.
Fa. s.n.c.).
A base di tali rideterminazioni il Comune ha addotto
l’erronea determinazione originaria dei rispettivi
contributi, effettuata sulla base della tariffa più bassa
(quella da applicare sulla superficie dell’insediamento e
non dell’intero lotto) e su una superficie minore (quella
occupata dagli edifici, con esclusione degli spazi di
pertinenza esterni). In sostanza, l’errore sarebbe stato
duplice, perché sarebbe stata applicata un’unica tariffa
(quella più bassa) ad una superficie inferiore a quella
effettiva, invece che le previste due tariffe in relazione
ai distinti parametri della superficie lorda dei fabbricati
e della superficie complessiva dell’insediamento.
Si tratta dunque di errore di impostazione dei criteri di
calcolo, e non di mero erroneo svolgimento del calcolo sulla
base di criteri corretti.
10. La difesa del Comune di Cinisi assume che l’errore
sarebbe stato indotto dal tecnico di fiducia delle parti
private, che avrebbe fornito dati fuorvianti sulla cui base
sarebbe maturato l’errore sulla originaria determinazione
dei contributi. Inoltre, il Comune sostiene che la
fattispecie in esame sarebbe ben distinta da quelle oggetto
delle decisioni di questo CGA risalenti al 2007 (v. oltre al
par. 13) di accoglimento dei ricorsi delle parti private, in
ragione del fatto che:
- nelle vicende qui in esame la originaria determinazione
comunale sarebbe avvenuta con la clausola salvo conguaglio,
onde non vi sarebbe un affidamento della parte privata
meritevole di tutela;
- l’errore nel calcolo del contributo sarebbe evidente e
riconoscibile;
- non vi sarebbe stato adempimento integrale
dell’obbligazione di pagamento degli oneri determinati con
il primo calcolo;
- la stessa parte avrebbe richiesto il riesame della
quantificazione ritenendo di essere esente, onde la
situazione giuridica avrebbe dovuto ritenersi in fieri e non
esaurita, sì da far ritenere legittima la rettifica operata
dalla amministrazione comunale nel superiore interesse
pubblico alla corretta contribuzione dei cittadini alle
opere di urbanizzazione.
11. Osserva il Collegio che, al di là di tutti questi
profili e degli altri che le cause pongono e che
indubbiamente dovranno essere affrontati e decisi con il
merito, se del caso anche per i profili quantificatori
vertendo le cause in una materia affidata alla giurisdizione
esclusiva del g.a. (ai sensi dell’art. 133, lett. f), c.p.a.),
per la definizione degli appelli sia tuttavia ancor prima
necessario prendere posizione sulla cennata questione di
carattere generale, e cioè se la rideterminazione degli
oneri concessori sia attività sussumibile nell’autotutela
amministrativa ovvero sia inquadrabile nell’ambito di un
normale rapporto paritetico di debito-credito, come tale
astretta alle regole ed ai rimedi di diritto comune.
12. Ora, poiché su tale questione non si registrano
posizioni omogenee nella giurisprudenza amministrativa, il
Collegio ritiene di deferirla all’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato, ricorrendo l’ipotesi prevista dall’art.
99 c.p.a., atteso che il suindicato punto di diritto ha dato
luogo a contrasti giurisprudenziali che non appare utile
alimentare ulteriormente, ma piuttosto dirimere, affidando
la risoluzione della questione al giudice della nomofilachia.
13. In sintesi, le interpretazioni che sono state sostenute
in giurisprudenza sulla natura del contributo dovuto in
occasione del rilascio del titolo edilizio ai sensi
dell’art. 16 d.P.R. n. 380 del 2001 e sulla possibilità di
rideterminarlo possono essere così ricordate.
13.1. Secondo una prima tesi di questo CGA (cfr. sentenze
CGARS nn. 64, 188, 244, 373, 422, 790 tutte del 2007) la
determinazione del contributo darebbe luogo ad un rapporto
paritetico che, seppur azionabile da ambo le parti nel
rispetto del termine prescrizionale ordinario di dieci anni,
si cristallizzerebbe nel quantum al momento del rilascio del
titolo edilizio, nel senso che lo stesso non sarebbe
suscettibile di modifiche successive (se non nei casi di
manifesto errore di calcolo) in quanto, in applicazione dei
principi desumibili dalla disciplina dei contratti, non
darebbe mai luogo ad un errore riconoscibile (donde
l’intangibilità pressoché assoluta della originaria
determinazione amministrativa).
Secondo tale approccio
ermeneutico, non vi sarebbe ragione per l’applicazione
dell’istituto dell’autotutela amministrativa per la
eventuale rideterminazione del contributo (proprio perché il
rapporto inter partes è di natura paritetica) né, come si
diceva, vi sarebbe spazio per una modifica successiva per
errore perché questo, in quanto maturato nella sfera
riservata dell’amministrazione, sarebbe per definizione non
riconoscibile e quindi irrilevante, con la conseguenza che
si dovrebbe sempre salvaguardare la tutela dell’affidamento
della parte privata.
13.2. Altra tesi fatta propria in alcune sentenze della
quarta sezione del Consiglio di Stato (cfr. in particolare,
Cons. St., IV, 27.09.2017 n. 4515; Cons. St., IV, 12.06.2017
n. 2821), pur muovendo da analoga impostazione sulla natura
paritetica del rapporto, giunge tuttavia a conclusioni
opposte.
Si è osservato, infatti, che proprio perché si tratta di un
rapporto di debito-credito di natura paritetica, soggetto a
prescrizione decennale, la rettifica è sempre possibile sia
in bonam che in malam partem, entro il limite della
prescrizione del diritto reciproco delle parti alla
correzione delle esatte somme dovute, perché per un verso il
procedimento è svincolato dal rispetto delle condizioni
legali di esercizio dell’autotutela amministrativa (in
particolare, di quelle previste all’art. 21-novies l. n. 241
del 1990), per altro verso la rideterminazione del
contributo dovuto secondo rigidi parametri regolamentari o
tabellari non soltanto è possibile, ma costituisce atto
dovuto, residuando altrimenti un indebito oggettivo,
inammissibile nei rapporti di diritto amministrativo.
Più in particolare, nella sentenza n. 2821 del 2017 si
afferma che, in sostanza, l’applicazione di una tariffa
diversa da quella corretta altro non è che un errore di
calcolo della tariffa, sicché vi sarebbe sempre spazio per
la rettifica, purché si tratti della tariffa vigente
all’epoca del rilascio del titolo edilizio (con esclusione
quindi di ogni forma di applicazione di regimi tariffari in
via retroattiva).
13.3. Entrambe le tesi muovono dal rilievo, ampiamente
diffuso nella giurisprudenza amministrativa, secondo cui le
controversie in tema di determinazione della misura dei
contributi edilizi concernono l'accertamento di diritti
soggettivi che traggono origine direttamente da fonti
normative, per cui sono proponibili, a prescindere
dall'impugnazione di provvedimenti dell'amministrazione, nel
termine di prescrizione (Cons. St., sez. IV, 20.11.2012 n. 6033; Id., sez. V,
04.05.1992, n. 360);
ribadiscono che si tratta di rapporto creditorio paritetico,
ma pervengono, come detto, a conclusioni assai diversificate
sul piano della tutela da apprestare alla parte privata che,
come nella specie, abbia subito una rideterminazione in peius.
13.4. Una posizione diversa e innovativa rispetto ai
riferiti orientamenti giurisprudenziali, quantomeno in
ordine alla impostazione teorica delle questioni, si
rinviene poi in altra sentenza della quarta sezione del
Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., IV, n. 5402 del 2016).
Qui il rapporto nascente dalla determinazione del contributo
(nel caso esaminato, di costruzione) è attratto nell’orbita
del regime di diritto pubblico, in quanto qualificato
prestazione patrimoniale imposta di carattere non
tributario, con conseguente applicabilità, in astratto,
delle regole dell’autotutela amministrativa.
E tuttavia, sul
piano della tutela dell’affidamento della parte privata
rispetto ad una delibera di giunta comunale di
rideterminazione del contributo di costruzione (sia pur di
adeguamento alla soglia minima del 5% fissata dalla legge
nazionale all’art. 16, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001), si
afferma che le garanzie partecipative (in particolare, art.
10-bis l. 241 del 1990) devono essere pur sempre coordinate
con le previsioni dell’art. 21-octies l. cit. e con le
esigenze di finalizzazione del procedimento con
l’applicazione della tariffa dovuta.
Si richiama al
proposito la giurisprudenza del Consiglio di Stato sul
recupero di somme indebitamente corrisposte dalla
amministrazione (Cons. St., V, n. 5863/2015), fattispecie
che viene assimilata a quella di causa, relativa a somme
dovute dal privato e non riscosse dall’ente comunale.
Al di là del contenuto negativo delle statuizioni sui
singoli capi di domanda, la decisione si segnala per il
cambio di passo rispetto ai precedenti arresti della
medesima sezione in ordine all’inquadramento generale nei
sensi anzidetti dell’istituto del contributo previsto
dall’art. 16 cit.
13.5. In tale contesto, non potrebbe non farsi menzione di
quanto affermato dalla Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato nella sentenza n. 24 del 2016. In tale decisione, resa
sulla diversa questione della applicabilità delle sanzioni
per ritardo nel pagamento dei contributi, pur in presenza di
una polizza fideiussoria a garanzia del debito del
contributo ammesso a dilazione, si è tra l’altro affermato –per quel che qui rileva– che il contributo dovuto dal
privato in occasione del ritiro di un permesso di costruire,
quale prestazione patrimoniale imposta funzionale a
remunerare l’esecuzione di opere pubbliche, si colloca
pacificamente nell’alveo dei rapporti di diritto pubblico.
Si è in particolare affermato che il contributo di
costruzione dovuto dal soggetto che intraprenda
un’iniziativa edificatoria rappresenta una compartecipazione
del privato alla spesa pubblica occorrente alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione e ha natura di
prestazione patrimoniale imposta, di carattere non
tributario. Per tale motivo, le prestazioni da adempiere da
parte dell’Amministrazione comunale e del privato
intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in
posizione sinallagmatica, con la conseguenza che il soggetto
obbligato è tenuto a corrispondere il contributo di
costruzione nel rispetto dei termini stabiliti.
Il suo
mancato pagamento legittima quindi l’Amministrazione ad
esercitare il suo potere-dovere in ordine all’applicazione
di sanzioni pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del
ritardo (ai sensi dell’art. 42 d.P.R. n. 380 del 2001) e, in
caso di persistenza dell’inadempimento, alla riscossione del
contributo e delle sanzioni secondo le norme vigenti in
materia di riscossione coattiva delle entrate.
In effetti, le conclusioni della Plenaria meritano
condivisione, quantomeno se restano ferme le conclusioni
sulla natura di prestazione patrimoniale imposta del
contributo di che trattasi e sul suo carattere non
sinallagmatico rispetto agli interventi di urbanizzazione
che mettono capo all’ente pubblico, secondo un livello di
programmazione temporale e qualitativo sul quale il privato
non avrebbe titolo per interferire.
13.6. L’ascrizione all’alveo dei rapporti di diritto
pubblico del contributo in questione imporrebbe quindi, in
via consequenziale, l’applicazione del regime proprio
dell’autotutela amministrativa all’attività di
rideterminazione delle somme dovute a tal titolo dalla parte
privata, quantomeno nei casi in cui non si tratti di por
mano ad un semplice errore materiale di calcolo desumibile
dagli atti del procedimento ovvero non si tratti di
rideterminazione imposta dall’adozione di un nuovo
provvedimento abilitativo edilizio, anche semplicemente per
effetto della intervenuta decadenza temporale del primo (ma
qui si resterebbe in ogni caso fuori dall’ambito
dell’autotutela).
Se il Collegio potesse esprimere una preferenza rispetto
alle suindicate opzioni ermeneutiche, osserverebbe che la
soluzione da ultimo proposta, oltre a recuperare coerenza
sul piano dogmatico con il sistema giuridico di riferimento,
si rivelerebbe più appropriata anche in ordine al miglior
grado di contemperamento delle esigenze pubblicistiche
sottese alla corretta determinazione del contributo dovuto
(e alla salvaguardia degli interessi erariali), anche in
sede di emenda di precedenti errori di quantificazione, e le
esigenze di tutela della parte privata riguardo
all’affidamento riposto nella originaria determinazione
dell’ente.
A tale ultimo proposito, infatti, soccorrerebbero
gli istituti posti a presidio delle garanzie partecipative
previsti per l’attività amministrativa di secondo grado,
oltre che naturalmente il rispetto delle stesse condizioni
legali di legittimo esercizio dell’autotutela, avuto
riguardo ai tempi, alle forme ed ai contenuti motivazionali
dell’atto espressivo dello ius poenitendi (cfr., in
particolare, artt. 21-quinquies, octies e novies della l. n.
241 del 1990).
14. Stante il contrasto giurisprudenziale in atto sulle
suindicate questioni si richiede, ai sensi dell'art. 99, co.
1, c.p.a, l’intervento dell’Adunanza plenaria del Consiglio
di Stato, cui vanno rimessi gli atti di causa, al fine della
definizione delle seguenti questioni di diritto:
a) se la rideterminazione degli oneri concessori sia
estrinsecazione di potere autoritativo da parte della
amministrazione comunale, nell’ambito dell’autotutela
pubblicistica soggetta ai presupposti e requisiti dell’art.
21-novies, l. n. 241/1990, ovvero sia espressione di una sua
legittima facoltà, nell’ambito del rapporto paritetico di
natura creditizia, conseguente al rilascio del titolo
edilizio a carattere oneroso, sottoposto nelle sue forme di
esercizio al termine prescrizionale ordinario;
b) ove dovesse prevalere la prima opzione interpretativa, se
la rideterminazione dei suddetti oneri sia da ascrivere
all’ambito dei rapporti di diritto pubblico quali che siano
le ragioni che l’abbiano ispirata, ovvero solo nei casi in
cui la stessa dipenda dalla applicazione di parametri o
coefficienti determinativi diversi (originari o
sopravvenuti) da quelli in precedenza applicati, con
esclusione quindi dei casi di errore materiale di calcolo
delle somme dovute sulla base dei medesimi parametri
normativi;
c) in alternativa ed a prescindere dall’inquadramento
giuridico della fattispecie secondo le richiamate categorie,
e quale che sia la natura giuridica da riconnettere al
provvedimento rideterminativo degli oneri concessori, se vi
sia spazio, ed in quali limiti, perché possa trovare
applicazione nella fattispecie in esame il principio del
legittimo affidamento del privato, da ricostruire vuoi sulla
base della disciplina pubblicistica dell’autotutela, vuoi su
quella privatistica della lealtà e della buona fede
nell’esecuzione delle prestazioni contrattuali, ovvero sulla
base dei principi desumibili dai limiti posti
dall’ordinamento civile per l’annullamento del contratto per
errore o per altra causa.
15. Tutte le altre questioni che la causa pone e le spese di
lite saranno definite con la sentenza definitiva.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana, in sede giurisdizionale, non definitivamente
pronunciando sui ricorsi in epigrafe, ne dispone, previa
loro riunione, il deferimento all'adunanza plenaria del
Consiglio di Stato limitatamente al motivo degli appelli
incidentali indicato in motivazione. |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, febbraio 2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Guida all'applicazione del Regolamento europeo in
materia di protezione dei dati personali. Nuovo Regolamento
Ue sulla privacy. On-line l'aggiornamento 2018 della Guida
applicativa.
Il Garante per la protezione dei dati personali mette a
disposizione l'aggiornamento febbraio
2018 della Guida all'applicazione del Regolamento UE
2016/679 in materia di protezione dei dati personali.
Il documento -che traccia un quadro generale delle
principali innovazioni introdotte dal Regolamento e fornisce
indicazioni utili sulle prassi da seguire e gli adempimenti
da attuare per dare corretta applicazione alla normativa- è
stato in parte modificato e integrato alla luce
dell'evoluzione della riflessione a livello nazionale ed
europeo. Il testo potrà subire ulteriori aggiornamenti, allo
scopo di offrire sempre nuovi contenuti e garantire un
aggiornamento costante.
---------------
La Guida intende offrire un panorama delle principali
problematiche che imprese e soggetti pubblici dovranno
tenere presenti in vista della piena applicazione del
regolamento, prevista il 25.05.2018.
Attraverso raccomandazioni specifiche vengono suggerite
alcune azioni che possono essere intraprese sin d’ora perché
fondate su disposizioni precise del regolamento che non
lasciano spazi a interventi del legislatore nazionale (come
invece avviene per altre norme del regolamento, in
particolare quelle che disciplinano i trattamenti per
finalità di interesse pubblico ovvero in ottemperanza a
obblighi di legge).
Vengono, inoltre, segnalate alcune delle principali novità
introdotte dal regolamento rispetto alle quali sono
suggeriti possibili approcci. |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI
LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 14 del 03.04.2018:
● XI^ Legislatura -
Nomina dei componenti della Giunta regionale (decreto
P.G.R. 29.03.2018 n. 1);
● XI^ Legislatura - Nomina dei sottosegretari (decreto
P.G.R. 29.03.2018 n. 2).
---------------
Si legga anche:
Nuova Giunta, Fontana: ecco i nomi di assessori e
sottosegretari (29.03.2018 - link a
www.regione.lombardia.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie
ordinaria n. 13 del 30.03.2018,
"Modalità e criteri per la valutazione della non
occasionalità dell’attività svolta in materia di acustica
applicata ai fini della verifica del requisito di cui
all’articolo 22, comma 2, lettera a) del decreto legislativo
17.02.2017, n. 42" (decreto
D.U.O. 26.03.2018 n. 4201). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 13 del 30.03.2018, "Ricorso
per il Presidente del Consiglio dei Ministri n. 13 del
12.02.2018 - Pubblicazione disposta dal Presidente della
Corte costituzionale a norma dell’art. 20 delle Norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale"
(Corte Costituzionale,
Atto di Promovimento 12.02.2018 n. 13).
---------------
RICORSO
ex art. 127 Cost. del Presidente del Consiglio dei Ministri
pro tempore, rappresentato e difeso ex lege
dall’Avvocatura generale dello Stato presso i cui uffici in
Roma, via dei Portoghesi n. 12, e domiciliato per legge
CONTRO la
Regione Lombardia, in persona del Presidente in carica, con
sede a Milano, Piazza Città di Lombardia, 1
per la declaratoria della illegittimità
costituzionale,
giusta deliberazione del Consiglio dei Ministri assunta
nella seduta del giorno 08.02.2018, degli gli
artt. 2, comma 1, lett. b) e 10, comma 1, lett. d), n. 9
della legge della Regione Lombardia 12.12.2017, n. 36
pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione Lombardia
n. 50 del 15.12.2017.
Nello specifico:
● Art. 2 (Modifiche all’articolo 13 della l.r. 1/2012 in
tema di conferenza di servizi)
1. All'articolo 13 della legge regionale 01.02.2012, n. 1 (Riordino
normativo in materia di procedimento amministrativo, diritto
di accesso ai documenti amministrativi, semplificazione
amministrativa, potere sostitutivo e potestà sanzionatoria)
sono apportate le seguenti modifiche:
(omissis)
b) dopo il comma 1 sono inseriti i seguenti:
'1-bis.
Il rappresentante unico della Regione di cui all'articolo
14-ter, comma 3, della legge 241/1990è individuato, ai sensi
del comma 5 dello stesso articolo 14-ter, tra i dirigenti
delle direzioni regionali competenti per le materie
interessate dall'oggetto della conferenza di servizi, ed è
designato con decreto del Segretario generale della
Presidenza della Giunta regionale, sulla base di criteri
definiti con deliberazione della Giunta regionale, con la
quale sono indicate altresì le modalità per consentire
l'espressione, da parte del rappresentante unico, della
posizione univoca e vincolante regionale in conferenza di
servizi. Sono fatte salve le disposizioni
sull'individuazione del rappresentante unico della Regione
di cui all'articolo 2, comma 7-sexies, della legge regionale
02.02.2010, n. 5 (Norme in materia di valutazione di impatto
ambientale), per i progetti assoggettati a valutazione di
impatto ambientale di competenza regionale.
1-ter. Nel caso in cui la partecipazione della Regione alla
conferenza di servizi comporti l'espressione di un unico
atto di assenso, comunque denominato, il rappresentante
unico della Regione è individuato nel dirigente regionale
competente per materia, senza necessità di previa
designazione da parte del Segretario generale di cui al
comma 1-bis.
1-quater. Qualora la determinazione da assumere in conferenza di
servizi presupponga o implichi anche l'adozione di un
provvedimento di competenza di un organo di indirizzo
politico, tale provvedimento è acquisito prima della
convocazione della conferenza di servizi o successivamente
alla determinazione motivata di conclusione della stessa
conferenza. In caso di acquisizione successiva del
provvedimento di cui al precedente periodo, l'efficacia
della determinazione di conclusione della conferenza di
servizi è sospesa nelle more della formalizzazione dello
stesso provvedimento.
1-quinquies. Gli enti del sistema regionale di cui agli allegati A1
e A2 della l.r. 30/2006, designano i propri rappresentanti
unici in conferenza di servizi, secondo le rispettive
modalità organizzative. Nei casi in cui gli enti del sistema
regionale operino come amministrazioni riconducibili alla
Regione ai sensi dell'articolo 14-ter, comma 5, della legge
241/1990, si applicano le disposizioni di cui ai commi da
1-bis a 1-quater.
1-sexies. Spetta al rappresentante unico della Regione proporre
opposizione, previa deliberazione della Giunta regionale, al
Presidente del Consiglio dei Ministri ai sensi dell'articolo
14-quinquies, comma 2, della legge 241/1990.
1-septies. In caso di conferenza di servizi riguardante un
procedimento di cui al comma 1, soggetto ad autorizzazione
unica ambientale, si applicano i termini e le modalità
previsti dal decreto del Presidente della Repubblica
13.03.2013, n. 59 (Regolamento recante la disciplina
dell'autorizzazione unica ambientale e la semplificazione di
adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti
sulle piccole e medie imprese e sugli impianti non soggetti
ad autorizzazione integrata ambientale, a norma
dell'articolo 23 del decreto-legge 09.02.2012, n. 5,
convertito, con modificazioni, dalla legge 04.04.2012, n.
35).
1-octies. Con deliberazione della Giunta regionale sono definite le
modalità per la gestione telematica delle conferenze di
servizi per i procedimenti di cui al comma 1.';
●
Art. 10 (Modifiche
alla l.r. 5/2010)
1. Alla legge regionale 02.02.2010, n. 5 (Norme in materia di
valutazione di impatto ambientale) sono apportate le
seguenti modifiche:
(omissis)
d) all'articolo
4 sono apportate le seguenti modifiche:
(omissis)
9) dopo il comma 6 sono
aggiunti i seguenti:
'6-bis. Qualora
in sede di conferenza di servizi emergano, in base alla
normativa vigente, posizioni ritenute non superabili dovute
alla sussistenza di motivi ostativi all'approvazione o anche
all'autorizzazione necessaria alla realizzazione e
all'esercizio del progetto, non rilevati ai sensi del comma
6, il verbale della conferenza produce gli effetti della
comunicazione di cui all'articolo 10 bis della legge
241/1990.
6-ter. Qualora per l'approvazione degli interventi in progetto o
per l'espressione di atti di assenso, comunque denominati,
la determinazione da assumere in conferenza di servizi
presupponga o implichi anche l'adozione di un provvedimento
di competenza di un organo di indirizzo politico, si applica
quanto previsto all'articolo 13, comma 1-quater, della l.r.
1/2012.'; |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 13 del 29.03.2018, "Secondo
aggiornamento 2018 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (deliberazione
G.R. 22.03.2018 n. 4135). |
PATRIMONIO: G.U.
29.03.2018 n. 74 "Applicazione della normativa
antincendio agli edifici e ai locali adibiti a scuole di
qualsiasi tipo, ordine e grado, nonché agli edifici e ai
locali adibiti ad asili nido" (Ministero dell'Interno,
decreto 21.03.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
17.03.2018 n. 64 "Individuazione degli ostacoli tecnici o
degli oneri economici eccessivi e non proporzionali alle
finalità dell’obbligo di presenza di più tipologie di
carburanti negli impianti di distribuzione di carburanti"
(Ministero dello Sviluppo Economico,
decreto 05.03.2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: G.U.
16.03.2018 n. 63 "Regolamento di organizzazione degli
uffici amministrativi della giustizia amministrativa che
sostituisce integralmente il decreto del Presidente del
Consiglio di Stato in data 15.02.2005" (Consiglio
di Presidenza della Giustizia Amministrativa,
decreto presidenziale 29.01.2018).
---------------
1. Finalità e àmbito di applicazione.
1. Le disposizioni del presente regolamento disciplinano
l’organizzazione ed il funzionamento degli uffici centrali
della giustizia amministrativa e delle strutture
amministrative del Consiglio di Stato, dei tribunali
amministrativi regionali, delle sezioni staccate e degli
altri organi di giustizia amministrativa. (...continua). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: G.U.
14.03.2018 n. 61 "Regolamento a norma dell’articolo 57
del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, recante
l’individuazione delle modalità di attuazione dei principi
del Codice in materia di protezione dei dati personali
relativamente al trattamento dei dati effettuato, per le
finalità di polizia, da organi, uffici e comandi di polizia"
(D.P.R.
15.01.2018 n. 15). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 14.03.2018, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 28.02.2018, in attuazione
della legge 26.10.1995, n. 447 e del decreto legislativo
17.02.2017, n. 42" (comunicato
regionale 09.03.2018 n. 33). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
PRIMA APPLICAZIONE DEL DM 17.01.2018, RIPORTANTE
L’AGGIORNAMENTO DELLE “NORME TECNICHE PER LE COSTRUZIONI”,
ALLE PROCEDURE AUTORIZZATIVE E DI QUALIFICAZIONE DEL
SERVIZIO TECNICO CENTRALE (Consiglio Superiore dei
Lavori Pubblici, Servizio Tecnico Centrale,
nota 21.03.2018 n. 3187 di prot.). |
APPALTI:
OGGETTO: Decreto ministeriale 18.01.2008, n. 40,
concernente “Modalità di attuazione dell’articolo 48-bis del
decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602,
recante disposizioni in materia di pagamenti da parte delle
Pubbliche Amministrazioni” – Chiarimenti aggiuntivi (MEF-RGS,
circolare 21.03.2018 n. 13). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
I. Lagrotta,
Il rito «super accelerato» in materia di appalti tra profili
di (in)compatibilità costituzionale e conformità alla
normativa comunitaria
(28.03.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: Premesse – 1. I presupposti: le esigenze
dichiarate – 2. I due riti in materia di appalti: accelerato
e nuovo rito super accelerato – 3. Il nuovo rito per la
definizione dei giudizi di (immediata) impugnazione dei
provvedimenti di esclusione e di ammissione alle procedure –
4. La pubblicazione sul profilo del committente – 5. Motivi
aggiunti nel rito appalti e rito applicabile in caso di
cumulo di domande di annullamento ex commi 6 e 6-bis
dell’art. 120 c.p.a. – 6. Rito super accelerato e ricorso
incidentale: limiti – 7. Il nuovo rito c.d. super
accelerato: termini processuali – 8. Rito super accelerato
ed interesse al ricorso – 9. Permanenza dell’interesse alla
decisione del ricorso ex art. 120, comma 2-bis c.p.a., dopo
che il ricorrente si sia aggiudicato la gara – 10. Rito su
per accelerato e misure cautelari – 11. Appellabilità delle
pronunce rese all’esito del giudizio governato dal rito
super accelerato – 12. Profili di (in)compatibilità
costituzionale – 13. Profili di conformità alla normativa
comunitaria – 14. Conclusioni. |
ENTI
LOCALI:
M. F. Serra,
Il ‘lavoro’ gratuito sportivo: una questione ancora aperta (28.03.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa. – 2. L’art. 41 Cost. – 3.
Utilità sociale, volontarismo e gratuità. – 4. Conclusioni. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Incontro
formativo del 23.03.2018, tenutosi a Varese, dal titolo: “Modalità
di attuazione degli interventi di trasformazione previsti
dallo strumento urbanistico: interventi edificatori privati
e connesse opere di urbanizzazione. Procedure e profili di
tutela”:
●
E. Boscolo, Dallo
STANDARD URBANISTICO alle DOTAZIONI TERRITORIALI (23.03.2018 - tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
●
M. C. Colombo, Modalità
di attuazione degli interventi di trasformazione previsti
dallo strumento urbanistico: interventi edificatori privati
e connesse opere di urbanizzazione
(23.03.2018 - tratto da https://camerainsubria.blogspot.it). |
SICUREZZA LAVORO:
G. Catalisano,
USO FOTOCOPIATRICE,
DANNO ALLA SALUTE E RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO
(21.03.2018 - tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
Sommario: 1. Uso della fotocopiatrice e lesione
del diritto alla salute – 2. La responsabilità ex art. 2087
c.c. – 3. Considerazioni conclusive. |
EDILIZIA PRIVATA:
L. B. Molinaro,
CONDONO EDILIZIO E ACCERTAMENTO DI COMPATIBILITÀ
PAESAGGISTICA: Dubbi e certezze in ordine alla
primazia dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 sulla
disciplina previgente e alla applicabilità, in materia, del
silenzio-assenso di nuovo conio (art. 17-bis della legge n.
241 del 1990) (20.03.2018 - link a
www.ambientediritto.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Il condono edilizio e la primazia
dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 sulla disciplina
previgente. 2. L’art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 e
l’applicabilità del silenzio assenso al procedimento di
autorizzazione paesaggistica “a regime” e al condono
edilizio con “fase co-decisoria pluristrutturata”. 3. Il
parere vincolante della Soprintendenza e la differenza di
poteri nell’attività di cogestione. 4. L’applicabilità del
silenzio-assenso di nuovo conio al procedimento di
accertamento di compatibilità paesaggistica (art. 167 del
d.lgs. n. 42 del 2004). 5. Conclusioni. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: A.
Russo,
La responsabilità per la
bonifica ambientale: profili comparatistici europei
(14.03.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. I principi di diritto comunitario; 2.
La responsabilità (non sempre?) oggettiva del soggetto
inquinatore; 3. Le incongruenze del recepimento italiano: la
responsabilità oggettiva e la riparazione del danno; 4.
(segue) la bonifica del proprietario incolpevole; 5. La
responsabilità per la bonifica in Francia; 6. La
responsabilità per la bonifica in Germania; 7.
Considerazioni conclusive. |
APPALTI: A.
Longo ed E. Canzonieri,
L’ambito di
operatività del sindacato giurisdizionale sul giudizio
sull’anomalia dell’offerta
(14.03.2018 - tratto
da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa. - 2. La valutazione
tecnico-discrezionale della Pubblica Amministrazione. - 3.
La verifica di anomalia dell’offerta e i limiti del
sindacato giurisdizionale. - 4. Il divieto di modifica
dell’offerta. - 5. Considerazioni conclusive. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: C.
Feliziani,
L’elemento soggettivo della
responsabilità amministrativa. Dialogo a-sincrono tra Corte
di giustizia e giudici nazionali
(14.03.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Notazioni preliminari - 2.
Dall'irresponsabilità alla responsabilità per lesione di
interessi legittimi - 3. Incertezze circa la colpa della
P.A. nella giurisprudenza nazionale - 4. Argomenti per una
responsabilità oggettiva della P.A. nella giurisprudenza
della Corte di giustizia - 5. Dialogo a -sincrono tra Corte
di giustizia e giudici nazionali - 6. Considerazioni di
sintesi. |
ATTI AMMINISTRATIVI: M.
De Donno,
Nuove prospettive del
principio di consensualità nell’azione amministrativa: gli
accordi normativi tra pubblica amministrazione e privati
(14.03.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1.
Premessa. Evoluzione dell’amministrazione per accordi e
nuove prospettive per il principio di consensualità. – 2.
Gli accordi normativi tra pubblica amministrazione e
privati: alla ricerca di una definizione. – 3. Gli accordi
normativi negli altri ordinamenti. Uno sguardo comparato. –
4. Sulla possibilità giuridica degli accordi normativi: il
principio di consensualità come principio generale del
diritto amministrativo – 5. Gli accordi normativi atipici.
Ovvero sull’efficacia e sulla vincolatività degli accordi
normativi in assenza di una norma-base. – 6. Gli accordi
normativi tipici nella legislazione di settore. – 7. Sulla
possibile disciplina degli accordi normativi. – 7.1. Forma,
motivazione e causa. – 7.2. Effetti, validità ed esecuzione.
L’oggetto, il rapporto e il procedimento. – 7.2.1. Mancata
esecuzione delle clausole contrattuali. – 7.2.2. Clausole
normative, poteri di modifica unilaterale
dell’amministrazione e tutela del terzo. – 8. Alcune
considerazioni conclusive. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il documento digitale nel tempo (Consiglio Nazionale
del Notariato,
studio 22-23.02.2018 n.
1-2017/DI).
---------------
Lo studio in sintesi (Abstract): I documenti cartacei
sono un mezzo per trasmettere informazioni e conservarle. I
documenti elettronici le trasmettono in maniera più
efficiente ma le conservano in maniera meno efficiente,
occorrendo a tal fine delle infrastrutture ad hoc.
In particolare, l’affidabilità e l'autenticità di un
documento informatico è legata esclusivamente alla sicurezza
dei certificati di firma utilizzati per la sua
sottoscrizione. Tale sicurezza, per essere mantenuta nel
tempo, necessita di precisi processi tecnici di
conservazione non surrogabili da procedure esterne.
In tale contesto la verifica della firma è processo centrale
nella valutazione dell'affidabilità ed autenticità del
documento e deve sempre essere effettuata con riferimento
alla data concreta di utilizzo del documento. Effettuare
tale verifica ad una specifica data anteriore (cosiddetta
"verifica alla data") è processo da limitarsi rigorosamente
ai soli ed esclusivi casi normativamente previsti ed in cui
è possibile una etero datazione dell'intero documento e non
solo dei suoi estremi con esclusione quindi di tutti i
sistemi etero datazione parziale e non idonei a tale scopo.
Lo studio ripercorre la normativa vigente in materia,
evidenziando le ragioni sottostanti alla previsione di cui
all’art. 24, co. 4-bis, del CAD che sancisce la perdita
della sottoscrizione in relazione ad un documento la cui
firma digitale sia scaduta, sospesa o revocata. Vengono
quindi esaminate le soluzioni che la normativa (anche di
natura tecnica) ha approntato per assicurare la validità dei
documenti informatici nel tempo, con particolare riferimento
alla conservazione a norma ed alla marcatura temporale.
Vengono inoltre esaminati gli effetti giuridici della
spedizione del documento a mezzo Posta Elettronica
Certificata e della protocollazione informatica. Lo studio
si sofferma infine su una analisi dei principali sistemi
alternativi di datazione di un documento informatico (quali
la registrazione o l’iscrizione a repertorio) evidenziandone
i limiti.
---------------
Sommario: 1. Introduzione generale: la specificità
del documento informatico - 2. La firma digitale e le
ragioni della sua validità limitata - 3. La marca temporale:
funzione, caratteristiche ed oneri - 4. Il procedimento di
conservazione a norma: cenni e funzione - 5. Altri sistemi
di validazione temporale - 6. Il rapporto tra norme
civilistiche e tecniche: la data certa del Pubblico
Ufficiale e la data certa ai sensi dell’art. 2704 c.c. - 7.
Il repertorio notarile quale sistema di etero datazione:
limiti - 8. La verifica della firma digitale e funzione
della “verifica alla data”, limiti di corretto utilizzo - 9.
Il documento informatico con firma scaduta. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
M. Gerardo,
L’ispezione nel diritto amministrativo
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2017).
---------------
Sommario: 1. aspetti generali - 2. ispezione quale
atto di procedimento (cd. ispezione istruttoria) - 3.
Procedimento amministrativo di ispezione (cd. ispezione
ordinaria) - 4. ispezione quale atto del processo
amministrativo - 5. Distinzione dall’inchiesta. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A. Tallarida,
Le notifiche di atti giudiziari alle pubbliche
amministrazioni a mezzo Pec
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2017).
---------------
Sommario: 1. orientamenti giurisprudenziali - 2.
Principi generali delle comunicazioni telematiche nella P.a.
- 3. il processo telematico - 4. Le successive modifiche -
5. i pubblici elenchi - 6. L’indice delle pubbliche
amministrazioni (iPa) - 7. La notifica ad indirizzo iPa - 8.
invalidità o irregolarità - 9. Sanatoria - 10. Preclusione -
11. Conclusioni. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
F. Mariniello,
Trasparenza amministrativa e nuovo accesso civico dopo il
d.Lgs. n. 97/2016
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 4/2017).
---------------
Sommario: 1. Premessa - 2. il principio di
trasparenza - 3. Evoluzione normativa dell’istituto - 4.
Dalla trasparenza come obbligo di pubblicazione alla
trasparenza come libertà di accesso a dati e documenti.
Novità del c.d. “Decreto Trasparenza” - 5. Natura giuridica
del diritto di accesso - 6. Nuovo ambito soggettivo e
oggettivo di applicazione dell’accesso generalizzato - 7. il
procedimento di accesso - 8. Comunicazione ai
controinteressati e gratuità dell’accesso - 9.
responsabilità e sanzioni - 10. accesso e riservatezza - 11.
Considerazioni finali. |
A.N.AC. |
PUBBLICO IM
PIEGO:
Dirigenti PA, stop agli stipendi online. Trasparenza. L’Anac
sospende gli obblighi di pubblicazione dei compensi.
Bandiera bianca, e parola alla Corte costituzionale.
La battaglia ingaggiata
dai 156mila dirigenti pubblici italiani contro la pubblicazione online dei
loro compensi ha espugnato l’ultimo fortino: quello dell’Anac (Comunicato
del Presidente del 07.03.2018), che ieri ha
sospeso gli obblighi di trasparenza anche per aiutare le amministrazioni
ormai intrappolate nel più classico degli intrecci burocratici all’italiana.
All’atto pratico, l’ostacolo finale è caduto: e i dirigenti possono chiedere
agli uffici di rimuovere dai siti dell’«amministrazione trasparente»
i dati sui compensi.
Quella decisa ieri dall’Anac è l’ultima (per ora) mossa di un’altalena che
appassiona da anni gli uffici pubblici. Tutto nasce dai decreti che nel 2013
hanno attuato la «legge Severino» sulla lotta alla corruzione, e hanno
previsto lo stesso trattamento per politici e dirigenti: in nome della
trasparenza, ministri, sindaci, assessori e vertici amministrativi avrebbero
dovuto pubblicare su Internet patrimoni, redditi, rimborsi per viaggi e
missioni e tutti gli altri compensi a carico della Pa.
Il dibattito fra sostenitori della «trasparenza» e detrattori del «gossip
retributivo» si è infiammato subito, e ha complicato la vita alla trafila
burocratica. La legge Severino è stata attuata da due decreti, e i decreti
sono stati applicati con le istruzioni del Garante della Privacy. I
dirigenti, esperti conoscitori del meccanismo, sono partiti dal fondo, e
hanno chiesto al Tar Lazio di occuparsi degli atti del Garante. Con
l’ordinanza 1030 del 2017 i giudici amministrativi hanno tirato la prima
bordata, e hanno sospeso le istruzioni che spiegavano come pubblicare i dati
su stipendi, patrimoni e rimborsi spese.
Ma il colpo non è stato definitivo, perché la burocrazia è una scienza
esatta. La decisione del Tar ha interessato il comma 1, lettere c) e f), e
il comma 1-bis dell’articolo 14 del decreto legislativo 33 del 2013, che
regolano la pubblicazione distinta di patrimoni, stipendi e così via. Lo
stesso articolo 14 ha però anche un comma 1-ter, che riguarda la diffusione
online degli «emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza
pubblica» da ogni dirigente.
La distinzione è importante per i politici, ma nel caso dei dirigenti gli
«emolumenti complessivi a carico della finanza pubblica» finiscono nei fatti
a corrispondere con lo stipendio, nelle sue varie componenti. Il dubbio è
venuto allo stesso Garante della Privacy, che è tornato a bussare al Tar per
capire se la bocciatura dei primi due commi (1 e 1-bis) si estendesse di
fatto anche al terzo (1-ter).
La risposta, affermativa, è arrivata a gennaio
con la sentenza 84/2018. A quel punto le amministrazioni si sono trovate
strette fra i «no» del Tar e i «sì» dell’Anac, che ha continuato a evitare
la sospensione con due comunicati di maggio e novembre 2017. Ora le
indicazioni cambiano, anche per fermare la battaglia fra chi brandisce le
sentenze amministrative Tar e chi risponde con le istruzioni dell’Authority.
Ma l’ultima parola tocca alla Consulta a cui, sempre su richiesta del Tar
Lazio (ordinanza 9828/2017) tocca chiarire se il solito comma 1-ter va
d’accordo con la Costituzione
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.03.2018). |
APPALTI: Affidamenti
sotto-soglia, procedure aperte senza obbligo di rotazione.
Le procedure per affidamenti sottosoglia con massima apertura ai soggetti
interessati permettono di non applicare il principio di rotazione.
L'Autorità nazionale anticorruzione ha adottato e pubblicato la nuova
versione delle linee-guida n. 4, attuative dell'articolo 36 del Codice
appalti (Dlgs 50/2016) dopo la revisione conseguente alle novità introdotte
dal decreto correttivo (delibera
01.03.2018 n. 206 - Linee Guida n. 4, di attuazione del
Decreto Legislativo 18.04.2016, n. 50, recanti “Procedure per l’affidamento
dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza
comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di
operatori economici”. Approvate dal Consiglio dell’Autorità con delibera n.
1097 del 26.10.2016. Aggiornate al Decreto Legislativo 19.04.2017, n. 56 con
delibera del Consiglio n. 206 del 01.03.2018).
Nel nuovo testo sono state recepite anche alcune osservazioni rese dal
Consiglio di Stato.
I princìpi
La novità più rilevante è la riformulazione delle modalità di applicazione
del principio di rotazione, che va riferito sia all'affidatario sia ai
soggetti invitati alla procedura negoziata. L'Anac conferma l'obbligo di
applicazione del principio e la possibilità di reinvito del gestore uscente
(e degli altri soggetti coinvolti nella mini-gara) solo con una motivazione
in grado di dimostrare le particolari condizioni di mercato che giustificano
la deroga, sostenute dall'esecuzione senza criticità del lavoro, servizio o
fornitura gestiti in precedenza e dalla dimostrazione della competitività in
termini di prezzo dell'operatore economico.
Le Linee-guida definiscono tuttavia specifiche condizioni di presupposto: il
principio di rotazione si applica con riferimento all'affidamento
immediatamente precedente, nei casi in cui i due affidamenti (quello
precedente e quello attuale) abbiano ad oggetto una commessa dello stesso
settore merceologico, nella stessa categoria di opere o ancora nello stesso
settore di servizi.
Le deroghe
L'Anac, inoltre, individua una serie di ipotesi nelle quali la rotazione non
deve essere applicata, ossia quando il nuovo affidamento avvenga tramite
procedure ordinarie o comunque aperte al mercato, nelle quali la stazione
appaltante, per regole prestabilite dal Codice dei contratti pubblici o
dalla stessa Pa in caso di indagini di mercato o consultazione di elenchi,
non operi alcuna limitazione in ordine al numero di operatori economici tra
i quali effettuare la selezione (ad esempio invitando tutti i soggetti che
hanno risposto all'avviso pubblico con manifestazioni di interesse).
La stazione appaltante, con regolamento, può anche suddividere gli
affidamenti in fasce di valore economico, in modo da applicare la rotazione
solo in caso di affidamenti rientranti nella stessa fascia. Inoltre, l'Anac
evidenzia che negli affidamenti di importo inferiore a mille euro è
consentito derogare all'applicazione del principio, motivando sinteticamente
la scelta nell'atto di affidamento.
I preventivi per gli affidamenti diretti
In relazione all'affidamento diretto, l'Anac precisa che la stazione
appaltante deve motivare le ragioni della scelta dell'operatore economico
(anche tenendo conto dell'esplicita previsione contenuta nell’articolo 32,
comma 2 Codice, che consente la formalizzazione con un unico provvedimento),
facendo rilevare soprattutto il rispetto del principio di economicità, tra
quelli dell'articolo 30.
In tal senso l'amministrazione può ricorrere alla comparazione dei listini
di mercato, di offerte precedenti per commesse identiche o analoghe o
all'analisi dei prezzi praticati ad altre amministrazioni, oppure può
richiedere due o più preventivi (soluzione che l'Anac ritiene costituire la
pratica migliore per garantire il principio di concorrenza).
Le Linee guida introducono anche una regolamentazione specifica per la
verifica dei requisiti di ordine generale per gli acquisti di minore
importo, individuando un regime super-semplificato per quelli di valore
inferiore ai 5mila euro e uno comprensivo di alcune verifiche ulteriori
nella fascia tra i 5mila e i 20mila euro. Oltre questo limite il controllo
va effettuato su tutti i requisiti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.03.2018). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
La richiesta di parere è intesa a conoscere se sia possibile non includere
l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’ art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 nel tetto del fondo per la contrattazione
collettiva decentrata -in difformità dall’indicazione della
Sezione delle autonomie di cui alla deliberazione n. 7/2017-
per dare soluzione al caso di un proprio dipendente che ha
notificato diffida ad adempiere per il pagamento della
richiamata incentivazione, avendo svolto le funzioni di R.U.P. per la formazione della documentazione tecnica e di
gara e per l’aggiudicazione del servizio di gestione e
manutenzione di impianti d’illuminazione e semaforici.
Il quesito è argomentato sulla considerazione che il
relativo capitolato ha previsto i costi per l’espletamento
della gara, inclusi quelli in esame, a carico
dell’aggiudicatario del servizio e che, avendo quest’ultimo
corrisposto al Comune il previsto “quantum”, la relativa
spesa non graverebbe sul bilancio dell’ente.
Il Collegio ritiene il medesimo inammissibile sotto il profilo
oggettivo poiché implica considerazioni che non
mancherebbero di interferire con successive pronunce
giurisdizionali, che non è irragionevole considerare
possibili alla luce della situazione venuta a determinarsi,
suscettibile di scaturire in contenzioso.
In sostanza il quesito, invece di porre come previsto una
questione generale ed astratta riguardante aspetti di
contabilità pubblica, ricostruisce e prospetta un caso
concreto e specifico, mentre la giurisprudenza contabile ha
puntualmente più volte rammentato che dalla funzione
consultiva resta esclusa qualsiasi forma di cogestione o
co-amministrazione con l'organo di controllo esterno.
In altri termini la funzione consultiva non può avere ad
oggetto fattispecie specifiche, né può estendersi sino ad
impingere, in tutto o in parte, nell'ambito della
discrezionalità, nonché nelle specifiche attribuzioni e
delle responsabilità, degli Enti interpellanti e dei loro
organi mentre il quesito si pone
in una prospettiva, non conforme a legge, di apertura ad una
consulenza generale della Corte dei Conti.
...
Il Sindaco del Comune di Cadeo (PC) ha inoltrato a questa
Sezione una richiesta di parere avente ad oggetto l’istituto
degli incentivi per funzioni tecniche introdotto dall’art.
113 del D.Lgs. n. 50/2016- Codice degli appalti; in
particolare, il quesito riguarda la possibilità di non
includere l’incentivo de quo nel tetto del fondo per la
contrattazione collettiva decentrata, in difformità
dall’indicazione della Sezione delle autonomie di cui alla
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ed è esplicitamente motivato dalla
necessità di decidere in merito alla diffida ad adempiere al
completo pagamento della richiamata incentivazione (per
complessivi euro 13.191,57), ricevuta da un proprio tecnico
comunale (ed allegata al quesito) che, su incarico
dell’amministrazione ha predisposto, in qualità di
responsabile del procedimento, la documentazione tecnica e
di gara per l’aggiudicazione del servizio di gestione e
manutenzione di impianti d’illuminazione e semaforici.
Il quesito è argomentato sulla sola considerazione che il
relativo capitolato ha previsto i costi per l’espletamento
della gara, inclusi quelli in esame, a carico
dell’aggiudicatario del servizio e che, avendo quest’ultimo
corrisposto al Comune il previsto “quantum”, la relativa
spesa non graverebbe sul bilancio dell’ente.
...
Sulla base di quanto appena sopra per ultimo evidenziato, la
richiesta di parere del Sindaco di Cadeo dev’essere
considerata oggettivamente inammissibile, innanzitutto
poiché va rilevato che nel caso sottoposto al parere della
Sezione, l’auspicata funzione consultiva implica
considerazioni che potrebbero interferire con successive
pronunce giurisdizionali, che è ragionevole considerare
probabili alla luce della situazione venuta a determinarsi,
già in fase prodromica al contenzioso.
In sostanza il quesito, invece di porre una questione
generale ed astratta riguardante aspetti di contabilità
pubblica, prospetta la soluzione ad un concreto episodio di
amministrazione attiva, tuttora in corso.
La giurisprudenza contabile, al riguardo, ha puntualmente
più volte rammentato che dalla funzione consultiva resta
esclusa qualsiasi forma di cogestione o co-amministrazione
con l'organo di controllo esterno (cfr. ex multis SRC
Lombardia, n. 36/2009/PAR, delibera Sezione di controllo
regione Piemonte, n. 345/2013/SRCPIE/PAR).
Ne consegue che
la funzione consultiva non può avere ad oggetto fattispecie
specifiche, né può estendersi sino ad impingere, in tutto o
in parte, nell'ambito della discrezionalità, nonché nelle
specifiche attribuzioni e delle responsabilità, degli Enti
interpellanti e dei loro organi (Sezione regionale di
controllo per la Campania, deliberazione del 17.01.2013, n. 2/2013; deliberazione del 14.02.2013, n.
22/2013) ove nel caso di specie è palese che la finalità
della richiesta di parere non è esclusivamente ottenere
chiarimenti sulle normative e sui relativi atti applicativi
che disciplinano, in generale, l'attività finanziaria che
precede o che segue i distinti interventi di settore (cit.
Sezioni Riunite in sede di controllo, deliberazione n. 54/CONTR/10
del 17.11.2010), bensì anche di ricevere indicazioni
circa la soluzione gestionale prospettata per risolvere il
rappresentato caso concreto, in una prospettiva, non
conforme a legge, di apertura ad una consulenza generale
della Corte dei conti.
Inoltre un compiuto esame del quesito, da condurre
attraverso la concreta valutazione degli atti rappresentati,
implicherebbe un iniziale approfondimento ed una successiva
valutazione proprio del comportamento evidenziato dall’ente
quale argomento dirimente per la soluzione auspicata nel
quesito stesso, ovvero occorrerebbe vagliare la liceità di
previsioni e procedure che pongano a carico
dell’aggiudicatario la copertura degli incentivi e, più in
generale, la più ampia categoria delle spese di gara. A tal
riguardo, a revocare quanto meno in dubbio la prospettiva di
una piena liceità di tali comportamenti vanno considerate
alcune recenti e conformi pronunce dell’ANAC che ne hanno
sottolineato la minore conformità.
In particolare, la citata Autorità ha ritenuto presentasse
profili di illegittimità la clausola inserita in un bando di
gara con cui si prevedeva di porre a carico
dell’aggiudicatario le spese di progettazione sostenute
dall’amministrazione in quanto “l’attività di progettazione
svolta dall’ufficio tecnico del Comune è un compito
istituzionale dello stesso, e come tale non è lecito
chiedere per essa alcun rimborso” (ANAC,
delibera 17.06.2015 n. 49; in senso conforme ANAC,
Parere sulla Normativa 18/07/2013 - rif. AG 21/13 e parere ANAC n. 138221 del 22.09.2016).
E’ evidente, al riguardo, come la
preliminare valutazione che occorrerebbe svolgere, esuli
dagli aspetti di contabilità pubblica ed esorbiti in tal
senso dalle specifiche competenze della Corte, per come
richiamate nella presente deliberazione, configurandosi così
come ulteriore motivo di inammissibilità oggettiva del
quesito formulato dall’ente stesso.
Infine, con riferimento al richiamo, nel testo del quesito,
alla
deliberazione 06.04.2017 n. 7 della Sezione
Autonomie della Corte dei Conti ed al
parere 12.10.2017 n. 152 di questa Sezione, vale la pena di osservare
che entrambe, sul punto specifico, affermano che non si
ravvisano i presupposti per escludere gli incentivi tecnici
in parola dal limite del tetto di spesa per i trattamenti
accessori del personale in quanto essi (proprio come nel
caso rappresentato) non vanno a remunerare prestazioni
professionali tipiche di soggetti individuati ed
individuabili acquisibili anche attraverso il ricorso a
personale esterno alla P.A. (ai sensi della
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle sezioni riunite della Corte), prescindendo
invece da qualsiasi riferimento alla loro inclusione nel
perimetro delle spese a carico del bilancio.
P.Q.M.
dichiara inammissibile la richiesta di
parere del Comune di Cadeo (PC)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 27.03.2018 n. 74). |
INCENTIVO FUNZIONI PUBBLICHE: La giurisprudenza contabile ha da tempo
chiarito come ciò che rileva ai fini della corresponsione di
detti incentivi sia:
- da un lato, l’effettivo svolgimento di una delle attività
elencate dalla norma di riferimento. Nell’art. 113 citato,
infatti, “…l’avverbio “esclusivamente” esprime con
chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il
compenso incentivante limitatamente alle attività
espressamente previste, ove effettivamente svolte dal
dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella
norma deve considerarsi tassativa”;
- dall’altro, che le suddette attività incentivabili siano
riferibili a contratti affidati mediante procedura di
“gara”, seppur in forma semplificata. L’art. 113, infatti,
dispone l’accantonamento in un apposito fondo di risorse
finanziarie “… in misura non superiore al 2 per cento
modulate sull’importo dei lavori posti a base di gara”, con
ciò, quindi, presupponendo esplicitamente lo svolgimento di
una gara o, comunque, di una procedura comparativa.
Non pare, peraltro, superfluo ricordare come la disposizione
recata dalla norma in esame rivesta carattere di
eccezionalità, ragion per cui gli incentivi tecnici, in
virtù del principio di onnicomprensività del trattamento
economico, possono essere corrisposti solo al ricorrere di
tutti i requisiti fissati dalla legge.
---------------
La singola amministrazione non può procedere a riparto
fintanto che non abbia provveduto all’adozione del
regolamento ex art. 113, giacché è proprio tale
provvedimento che recepisce e traduce in norme le modalità
ed i criteri individuati in sede di contrattazione
decentrata integrativa del personale.
Circa l’accantonamento di somme nel quadro
economico riguardante la singola opera ai fini del riparto,
tale aspetto –a differenza della erogazione– trova completa
disciplina già nell’articolo di legge, il quale così
dispone: “A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le
amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito
fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per
cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture,
posti a base di gara per le funzioni tecniche…”.
L’amministrazione, dunque, procede all’accantonamento “… non
sulla base del regolamento approvato successivamente, che
non è retroattivo, ma sulla base di una scelta prudenziale
dell’ente, effettuata, nei limiti di legge, ex ante”.
A ben vedere,
infatti, mentre la pregressa disciplina stabiliva che fosse
il regolamento a determinare la percentuale effettiva da
destinare al fondo (art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006:
“La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per
cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e
alla complessità dell'opera da realizzare”),
ora, invece,
l’art. 113 nulla dispone in merito ed individua quale
contenuto del regolamento le sole modalità ed i criteri di
ripartizione del fondo, come fissati in sede di
contrattazione. Ne consegue che la singola amministrazione
ha facoltà di determinare la percentuale da destinare al
fondo, ovviamente entro i limiti di legge del 2 per cento.
Ed infatti, l’accantonamento in parola rappresenta una
scelta discrezionale e prudenziale dell’ente, al quale
soltanto compete decidere se procedervi o meno.
Del resto, tale posizione era già stata espressa –seppur
incidentalmente– anche nel
parere 14.12.2017 n. 186
di questa Sezione: “l’adozione del regolamento da parte
della singola amministrazione è <conditio sine qua non> per
attuare il riparto tra gli aventi diritto, individuati sulla
base del combinato disposto di norme primarie e
regolamentari, e quindi per l’effettiva erogazione
dell’incentivo. Tale impianto viene confermato nel
successivo D.Lgs. n. 50/2016. Le Sezioni regionali di
controllo per il Veneto, Piemonte e Lombardia, chiariscono
che l’adozione del regolamento è atto preliminare e
necessario per corrispondere e calcolare l’incentivo, ma che
l’amministrazione potrebbe accantonare le somme previste
dalla legge senza tuttavia ripartirle o erogarle”.
Conclusivamente, pertanto, si condivide l’orientamento
espresso dalla Sezione Lombardia con il
parere 07.11.2017 n. 305,
nei termini indicati, anche nell’ottica di prevenire
possibili contenziosi che potrebbero essere instaurati dal
personale avente astrattamente diritto agli incentivi e che
potrebbe risultare ingiustamente penalizzato a causa
dell’inerzia dell’ente nella tempestiva emanazione del
prescritto regolamento.
Resta inteso
che è preclusa per l’ente la possibilità di liquidare gli
incentivi non previsti nei quadri economici dei singoli
appalti.
---------------
Con nota acquisita al protocollo interno della Sezione al n.
759 in data 01.03.2018, il Sindaco del comune di
Montecatini Terme (PT) ha inoltrato, per il tramite del
Consiglio delle Autonomie Locali, richiesta di parere ex
art. 7, comma 8, della l. n. 131/2003, avente ad oggetto gli
oneri derivanti dall’erogazione degli incentivi per funzioni
tecniche.
In particolare l’Ente, dato conto della novella legislativa
recata dall’art. 1, co. 526, della L. n. 205/2017 –che
inserisce nell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 il comma 5-bis
che dispone “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno
capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli
lavori, servizi e forniture”- e richiamata la
giurisprudenza delle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale
e della Sezione delle Autonomie relativamente alla
qualificazione degli incentivi per funzioni tecniche quali
spese di funzionamento (spese di personale), “(I)in ossequio
all'intervenuta novella legislativa (…)”, formula i seguenti
quesiti:
“1) In virtù del comma 5- bis dell'art. 113 del D.Lgs. 50/2016
tutti gli incentivi per le funzioni tecniche di cui al comma
2 del precitato art. 113 sono da escludersi dal tetto di
spesa del fondo per il trattamento economico accessorio?
2) Se, in caso di risposta negativa, siano da escludersi dal tetto
gli incentivi relativi alle spese d'investimento e come tali
finanziati sul titolo II ovvero gli incentivi volti a
remunerare prestazioni professionali tipiche la cui
provvista all'esterno potrebbe comportare aggravi di spesa a
carico dei bilanci delle amministrazioni pubbliche
(direttore dei lavori, collaudi, etc.)?
3) Se gli incentivi per funzioni tecniche spettino anche agli
appalti di forniture e servizi la cui provvista avvenga in
virtù di adesioni a Convenzioni Consip o simili?
4) Vista altresì la deliberazione della Corte dei Conti Lombardia
n. 305/2017 successiva al pronunciamento di Codesta
illustrissima Corte (177/2017) con cui la stessa Corte della
Lombardia così si pronuncia in merito alla retroattività del
regolamento ex art. 113 del Codice: "Ne deriva che non può
aversi ripartizione del fondo tra gli aventi diritto se non
dopo l'adozione del prescritto regolamento. Il che tuttavia
non impedisce che quest'ultimo possa disporre anche la
ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche espletate
dopo l'entrata in vigore dei nuovo codice dei contratti
pubblici e prima dell'adozione del regolamento stesso,
utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel quadro
economico riguardante la singola opera (Sezione regionale di
controllo per la Lombardia, deliberazione n. 185/2017/PAR;
Sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazione
n. 353/2016/PAR)." si chiede se codesta illustrissima Corte
ritenga di concordare con tale posizione e se, in caso
affermativo, sia possibile liquidare gli incentivi (a
seguito dell'adozione del relativo regolamento) anche
qualora le somme non siano state previste nei quadri
economici riguardanti i singoli appalti”.
...
2. Con il primo quesito il Comune chiede se,
considerata la modifica legislativa intervenuta, sia
possibile escludere tutti gli incentivi ex art. 113 citato
dal tetto di spesa del fondo per il trattamento economico
accessorio.
3. Con il secondo quesito il Comune chiede, invece,
se -in caso di risposta negativa alla questione di cui al
punto che precede– “…siano da escludersi dal tetto gli
incentivi relativi alle spese d'investimento e come tali
finanziati sul titolo II ovvero gli incentivi volti a
remunerare prestazioni professionali tipiche la cui
provvista all'esterno potrebbe comportare aggravi di spesa a
carico dei bilanci delle amministrazioni pubbliche
(direttore dei lavori, collaudi, etc.)”.
4. Con riferimento ai primi due quesiti, che vengono
trattati congiuntamente in quanto intimamente connessi,
appare utile evidenziare che la Sezione regionale di
controllo per la Puglia, con
deliberazione 09.02.2018 n. 9 e la Sezione regionale di controllo per la
Lombardia, con
deliberazione 16.02.2018 n. 40,
hanno sollevato dinanzi alla Sezione competente della Corte
–ai sensi degli artt. 17, co. 31, D.L. n. 78/2009 e 6, co.
4, D.L. n. 174/2012- apposita questione di massima inerente
la natura giuridica degli incentivi ex art. 113 D.Lgs.
50/2016, ai fini della loro eventuale esclusione dalla spesa
del personale e del trattamento accessorio, alla luce della
novella legislativa recata dall’art. 1, co. 526, della L. n.
205/2017, che ha introdotto il comma 5-bis all’art. 113 del
Codice dei contratti pubblici, ovvero le concrete modalità
contabili da seguire in caso di sottoposizione degli
incentivi anzidetti al limite complessivo del trattamento
economico.
Il Collegio, tenuto conto di quanto sopra, sospende il
parere relativamente ai punti indicati e rinvia, pertanto,
la decisione in merito al primo ed al secondo quesito
all’esito della decisione assunta dalla Sezione delle
Autonomie, la cui trattazione risulta già fissata.
5. Con riferimento, invece, alle altre due questioni poste
dal comune di Montecatini Terme, la Sezione ritiene di poter
immediatamente deliberare.
6. Con il terzo quesito, il Comune chiede se sia
possibile corrispondere gli incentivi tecnici di cui al
citato art. 113, comma 2, anche nel caso in cui l’ente si
sia avvalso di convenzioni Consip o simili.
Al riguardo, la giurisprudenza contabile ha da tempo
chiarito come ciò che rileva ai fini della corresponsione di
detti incentivi sia:
- da un lato, l’effettivo svolgimento di una delle attività
elencate dalla norma di riferimento. Nell’art. 113 citato,
infatti, “…l’avverbio “esclusivamente” esprime con
chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il
compenso incentivante limitatamente alle attività
espressamente previste, ove effettivamente svolte dal
dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella
norma deve considerarsi tassativa” (Sezione regionale di
controllo per la Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 185);
- dall’altro, che le suddette attività incentivabili siano
riferibili a contratti affidati mediante procedura di
“gara”, seppur in forma semplificata. L’art. 113, infatti,
dispone l’accantonamento in un apposito fondo di risorse
finanziarie “… in misura non superiore al 2 per cento
modulate sull’importo dei lavori posti a base di gara”, con
ciò, quindi, presupponendo esplicitamente lo svolgimento di
una gara o, comunque, di una procedura comparativa (Sezione
regionale di controllo per la Toscana,
parere 14.12.2017 n. 186).
Non pare, peraltro, superfluo ricordare come la disposizione
recata dalla norma in esame rivesta carattere di
eccezionalità, ragion per cui gli incentivi tecnici, in
virtù del principio di onnicomprensività del trattamento
economico, possono essere corrisposti solo al ricorrere di
tutti i requisiti fissati dalla legge.
Con specifico riferimento al caso sottoposto, si osserva
preliminarmente come le previsioni legislative inerenti
l’acquisto di beni e servizi mediante strumenti di
e-procurement (quali convenzioni Consip, MEPA ecc.)
rispondano a esigenze di semplificazione e razionalizzazione
del procedimento di provvista della Pubblica
Amministrazione, per cui –laddove l’ente sia tenuto o
decida di far ricorso a tali modalità di approvvigionamento- le attività indicate nell’art. 113, per le quali soltanto,
come ricordato, spetta l’incentivo, potrebbero, in concreto,
non realizzarsi, con conseguente impossibilità di procedere
alla erogazione dei connessi incentivi.
Ciò posto, spetta all’ente, caso per caso, la valutazione
circa la effettiva ricorrenza dei presupposti sopra indicati
ai fini della erogazione degli incentivi (in senso conforme,
Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 185).
7. Con il quarto quesito, il Comune chiede se sia
possibile ripartire gli incentivi per le funzioni tecniche
espletate dopo l’entrata in vigore del nuovo codice e prima
dell’adozione del regolamento di cui all’art. 113, comma 3,
anche qualora le somme non siano state previste nei quadri
economici riguardanti i singoli appalti.
A tal proposito, il Comune richiedente richiama la
parere 07.11.2017 n. 305 “…. con cui la … Sezione Lombardia
così si pronuncia in merito alla retroattività del
regolamento ex art. 113 del Codice: <Ne deriva che non può
aversi ripartizione del fondo tra gli aventi diritto se non
dopo l’adozione del prescritto regolamento. Il che tuttavia
non impedisce che quest’ultimo possa disporre anche la
ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche espletate
dopo l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti
pubblici e prima dell’adozione del regolamento stesso,
utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel quadro
economico riguardante la singola opera>”.
Il quesito, così come posto, pare evocare un possibile
disallineamento tra la posizione assunta da questo Collegio
con il
parere 26.10.2017 n. 177 e quella della Sezione
lombarda nel
parere 07.11.2017 n. 305. In realtà, a
ben vedere, le citate deliberazioni hanno affrontato quesiti
non del tutto coincidenti: nella richiesta di parere
formulata dal comune toscano, infatti, veniva semplicemente
richiesto “… se a seguito dell’adozione del regolamento ex
art. 113 l’ente possa corrispondere l’incentivo a favore
della attività svolte dopo l’entrata in vigore del D.Lgs.
50/2016 e fino alla data di adozione del regolamento
medesimo”.
In tale occasione nessun riferimento veniva fatto
all’eventuale accantonamento di somme al fondo e la Sezione,
pertanto, si è a suo tempo limitata a rispondere, in linea
con il quesito posto, che la corresponsione degli incentivi
era preclusa “… in assenza di apposito regolamento che
disciplini l’erogazione degli incentivi in oggetto”, con ciò
ribadendo il pacifico orientamento assunto dalla
giurisprudenza contabile in merito, così come fatto, del
resto, dalla stessa Sezione di controllo Lombardia nella
pronuncia citata (“Ne deriva che non può aversi ripartizione
del fondo tra gli aventi diritto se non dopo l’adozione del
prescritto regolamento”).
Ciò detto, non può che ribadirsi che la singola
amministrazione non può procedere a riparto fintanto che non
abbia provveduto all’adozione del regolamento ex art. 113,
giacché è proprio tale provvedimento che recepisce e traduce
in norme le modalità ed i criteri individuati in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale.
Passando a considerare l’accantonamento di somme nel quadro
economico riguardante la singola opera ai fini del riparto,
tale aspetto –a differenza della erogazione– trova completa
disciplina già nell’articolo di legge, il quale così
dispone: “A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le
amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito
fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per
cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture,
posti a base di gara per le funzioni tecniche…”.
L’amministrazione, dunque, procede all’accantonamento “… non
sulla base del regolamento approvato successivamente, che
non è retroattivo, ma sulla base di una scelta prudenziale
dell’ente, effettuata, nei limiti di legge, ex ante”
(Sezione controllo Lombardia
parere 09.06.2017 n. 185).
A ben vedere,
infatti, mentre la pregressa disciplina stabiliva che fosse
il regolamento a determinare la percentuale effettiva da
destinare al fondo (art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006:
“La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per
cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e
alla complessità dell'opera da realizzare”),
ora, invece,
l’art. 113 nulla dispone in merito ed individua quale
contenuto del regolamento le sole modalità ed i criteri di
ripartizione del fondo, come fissati in sede di
contrattazione. Ne consegue che la singola amministrazione
ha facoltà di determinare la percentuale da destinare al
fondo, ovviamente entro i limiti di legge del 2 per cento.
Ed infatti, l’accantonamento in parola rappresenta una
scelta discrezionale e prudenziale dell’ente, al quale
soltanto compete decidere se procedervi o meno.
Del resto, tale posizione era già stata espressa –seppur
incidentalmente– anche nel
parere 14.12.2017 n. 186
di questa Sezione: “l’adozione del regolamento da parte
della singola amministrazione è <conditio sine qua non> per
attuare il riparto tra gli aventi diritto, individuati sulla
base del combinato disposto di norme primarie e
regolamentari, e quindi per l’effettiva erogazione
dell’incentivo. Tale impianto viene confermato nel
successivo D.Lgs. n. 50/2016. Le Sezioni regionali di
controllo per il Veneto, Piemonte e Lombardia, chiariscono
che l’adozione del regolamento è atto preliminare e
necessario per corrispondere e calcolare l’incentivo, ma che
l’amministrazione potrebbe accantonare le somme previste
dalla legge senza tuttavia ripartirle o erogarle”.
Conclusivamente, pertanto, si condivide l’orientamento
espresso dalla Sezione Lombardia con il
parere 07.11.2017 n. 305,
nei termini indicati, anche nell’ottica di prevenire
possibili contenziosi che potrebbero essere instaurati dal
personale avente astrattamente diritto agli incentivi e che
potrebbe risultare ingiustamente penalizzato a causa
dell’inerzia dell’ente nella tempestiva emanazione del
prescritto regolamento.
Resta inteso –anche in ragione del chiaro dato normativo–
che è preclusa per l’ente la possibilità di liquidare gli
incentivi non previsti nei quadri economici dei singoli
appalti
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 27.03.2018 n. 19). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Debiti
fuori bilancio, niente deroghe all'obbligo di passare in consiglio.
Il
parere 22.02.2018 n. 29 della Corte dei
Conti, Sez. di controllo della Puglia, fa luce sull'iter amministrativo
che gli enti locali devono seguire per la corretta gestione (riconoscimento,
finanziamento e pagamento) dei debiti fuori bilancio derivanti da sentenze
esecutive.
Il caso
In particolare, la decisione interviene in risposta alla richiesta di parere
avanzata da un Comune in merito alla possibilità, nelle more dell'adozione
della delibera consiliare di riconoscimento e nel caso in cui nel bilancio
di previsione siano state prudenzialmente allocate risorse finanziarie per
farvi fronte, di provvedere anticipatamente alla liquidazione e al pagamento
del debito fuori bilancio, al fine di prevenire l'eventuale esecuzione
coattiva, comportante un incremento degli oneri a carico dell'ente a titolo
di interessi legali, eventuale rivalutazione monetaria e spese giudiziali.
Le disposizioni che assumono rilievo in materia sono gli articoli 193, comma
2, e 194, comma 1, lettera a), del Testo unico degli enti locali. Dal loro
combinato disposto discende che Comuni e Province riconoscono la legittimità
dei debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive con deliberazione
consiliare, da approvare entro il 30 settembre di ogni anno, o con diversa
periodicità stabilita dal regolamento di contabilità.
L'orientamento precedente
Al riguardo, il Comune ha richiamato il recente orientamento della
giurisprudenza contabile, espresso nella deliberazione n. 2/2018 della
sezione di controllo della Campania (si veda il Quotidiano degli enti locali
e della Pa del 31 gennaio), che consentirebbe all'ente debitore di procedere
al pagamento prima dell'approvazione della delibera di riconoscimento del
debito da sentenza esecutiva.
Dalla lettura della deliberazione n. 29/2018, si rileva che proprio la
pronuncia n. 2 della sezione Campania è stata oggetto di errata (favorevole)
interpretazione da parte del Comune istante. Questa pronuncia dei giudici
campani, dopo aver richiamato –per confermare l'opzione di pagamento
anticipato del debito– la decisione n. 2/2005 delle sezioni riunite della
Sicilia, riporta ampiamente i principi della delibera n. 152/2016 emanata
dalla stessa sezione Puglia ora interpellata, concludendo che «è ai
suindicati principi che l'ente richiedente il parere deve attenersi».
La lettura «autentica»
Con una sorta di interpretazione autentica, i magistrati pugliesi
ribadiscono le indicazioni fornite in precedenza. Più in dettaglio, come già
chiarito nella deliberazione n. 152/2016, viene affermato che, in mancanza
di una disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le
sentenze esecutive, non è consentito discostarsi dalla stretta
interpretazione dell'articolo 193, comma 2, lettera b), del Tuel in base al
quale i provvedimenti per il ripiano di eventuali debiti di cui all'articolo
194 del Tuel sono assunti dall'organo consiliare contestualmente
all'accertamento negativo del permanere degli equilibri di bilancio.
La valenza della delibera consiliare
Infatti, a fronte dell'imperatività del provvedimento giudiziale esecutivo,
il valore della delibera del consiglio non è quello di riconoscere la
legittimità del debito, che di per sé già esiste in virtù della decisione
del giudice, che non lascia alcun margine di valutazione all'organo
consiliare dell'ente. Nell'ipotesi in esame, invero, deve ragionevolmente
ritenersi che l'atto deliberativo consiliare costituisca lo strumento
attraverso cui viene ricondotto al «sistema di bilancio» un fenomeno di
rilevanza finanziaria (debito da sentenza) che è maturato all'esterno di
esso.
Al riguardo, conformemente anche il
parere 03.02.2015 n. 80 della sezione
di controllo della Sicilia ha chiarito che il preventivo riconoscimento del
debito da parte dell'organo consiliare risulta comunque necessario anche
nell'ipotesi di debiti derivanti da sentenza esecutiva, per loro natura
caratterizzati da assenza di discrezionalità per via del provvedimento
giudiziario a monte. Ciò nella considerazione che le funzioni di indirizzo e
la responsabilità politica del consiglio comunale o provinciale non sono
circoscritte alle scelte di natura discrezionale, ma si estendono anche ad
attività o procedimenti di spesa di natura vincolante ed obbligatoria.
L'articolo 194, comma 1, del Tuel rappresenterebbe un'eccezione alla
preventività dell'impegno formale e della copertura finanziaria; è con la
delibera consiliare che viene ripristinata la fisiologia della fase della
spesa e i debiti in esame vengono ricondotti a sistema attraverso l'adozione
dei necessari provvedimenti di riequilibrio finanziario. In questo senso,
allora, l'attivazione della procedura consiliare assume la funzione di
salvaguardia degli equilibri bilancistici.
Su questi ultimi, poi, il debito
da riconoscere avrà un diverso peso a seconda che esso trovi o meno
copertura finanziaria in un impegno di spesa assunto precedentemente nelle
previsioni della sua insorgenza. In altri termini, spetta alla diligente,
tempestiva e puntuale valutazione dell'ente l'opportunità di effettuare un
preventivo accantonamento per evitare un forte e destabilizzante impatto
della passività sugli equilibri del bilancio.
Ma la delibera di consiglio svolge una ulteriore funzione: l'accertamento
delle cause che hanno originato l'obbligo del pagamento, con le
consequenziali ed eventuali responsabilità. Questa funzione di accertamento
è rafforzata dalla previsione dell'invio alla Procura regionale della Corte
dei conti (articolo 23, comma 5, della legge 289/2002) delle delibere di
riconoscimento di debito fuori bilancio.
Dunque, la delibera consiliare svolge una duplice funzione: per un verso,
tipicamente giuscontabilistica, finalizzata ad assicurare la tutela degli
equilibri di bilancio; per altro, garantista, ai fini dell'accertamento
dell'eventuale responsabilità amministrativo-contabile.
A parere della sezione Puglia, inoltre, la necessità del (preventivo)
riconoscimento consiliare della legittimità del debito fuori bilancio
parrebbe rafforzata dall'intervento del legislatore dell'armonizzazione, il
quale si è premurato di estendere alle Regioni la stessa procedura
disciplinata per gli enti locali, con la differenza che il riconoscimento
avvenga mediante apposita legge regionale.
Il collegio pugliese ricorda, inoltre, che la previsione legislativa del
riconoscimento consiliare trova ulteriore specificazione nel dettato di
natura “sanzionatoria” dell'articolo 188, comma 1-quater, del Tuel, in virtù
del quale agli enti locali che presentino, nell'ultimo rendiconto
deliberato, debiti fuori bilancio, ancorché da riconoscere, nelle more della
variazione di bilancio che dispone il riconoscimento e finanziamento del
debito fuori bilancio, è fatto divieto di assumere impegni e pagare spese
per servizi non espressamente previsti per legge.
Necessità del preventivo riconoscimento del debito
Alla luce di questo quadro normativo e giurisprudenziale, la corte pugliese
conclude affermando che, nel caso di sentenze esecutive, non è consentito
all'ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli articoli 193
e 194 del Tuel, che impongono (prima del pagamento) la preventiva e
tempestiva adozione della delibera consiliare di riconoscimento e
finanziamento del debito fuori bilancio e che garantiscono una maggiore
efficacia ed efficienza dell'azione amministrativa per salvaguardare gli
equilibri finanziari dell'ente locale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.03.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla possibilità, nelle more dell’adozione della delibera
consiliare di riconoscimento del debito fuori bilancio ex art. 194, lett. a) Tuel, di provvedere -al fine di prevenire l’eventuale esecuzione coattiva- a
liquidazione e pagamento del debito per il quale siano state prudenzialmente
allocate risorse finanziarie per farvi fronte.
In mancanza di
una disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le
sentenze esecutive, non è consentito discostarsi dalla stretta
interpretazione dell’art. 193, comma 2, lett. b), del TUEL ai sensi del
quale “i provvedimenti per il ripiano di eventuali debiti di cui all’art.
194” sono assunti dall’organo consiliare contestualmente
all’accertamento negativo del permanere degli equilibri di bilancio.
Infatti, a fronte dell’imperatività del provvedimento giudiziale esecutivo,
il valore della deliberazione consiliare non è quello di riconoscere
la legittimità del debito che già è stata verificata in sede giudiziale,
bensì di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza
finanziaria che è maturato all’esterno di esso. Ulteriore funzione svolta
dalla delibera consiliare è l’accertamento delle cause che hanno originato
l’obbligo, con le consequenziali ed eventuali responsabilità; infatti,
questa funzione di accertamento è rafforzata dalla previsione dell’invio
alla Procura regionale della Corte dei conti
(art. 23, comma 5, L. n. 289/2002) delle delibere di
riconoscimento di debito fuori bilancio.
Ritiene, quindi, la Sezione che, nel caso di sentenze
esecutive e di pignoramenti, sussiste, l’obbligo di procedere con
tempestività alla convocazione del Consiglio comunale per il riconoscimento
del debito, in modo da impedire il maturare di interessi, rivalutazione
monetaria ed ulteriori spese legali.
Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è
consentito all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli
artt. 193 e 194 del Tuel che garantiscono una maggiore efficienza ed
efficacia dell’azione amministrativa per salvaguardare gli equilibri
finanziari dell’ente locale.
Inoltre, il tempestivo riconoscimento e finanziamento del
debito fuori bilancio, nonché il conseguente pagamento, non esporrebbero
l’ente al rischio di azioni esecutive, considerato che il decorso di 120
giorni dalla notifica del titolo esecutivo
(previsto dall’art. 14, del D.L. 31/12/1996, n. 669 convertito in legge
28/02/1997, n. 30 come modificato dall’art. 147 della Legge 23/12/2000, n.
288), comporterebbe l’avvio delle procedure esecutive nei
confronti della pubblica amministrazione.
---------------
Il Sindaco del Comune di Bari, dopo aver richiamato la normativa
prevista in materia di riconoscimento di debiti fuori bilancio derivanti da
sentenze esecutive e la disciplina prevista dall’art. 14 del D.L. n.
669/1996 che impone ad amministrazioni statali, enti pubblici economici ed
Agenzia delle Entrate di completare le procedure per l’esecuzione dei
provvedimenti giurisdizionali entro il termine di centoventi giorni dalla
notificazione del titolo esecutivo, rileva che, nelle ipotesi in cui
pervenga la notifica di un debito ricompreso nella previsione dell’art. 194,
lett. a) del Tuel, le amministrazioni sono solite far precedere il relativo
pagamento dal preventivo riconoscimento di legittimità da parte del
competente Consiglio.
Tuttavia, ad avviso del Sindaco, in considerazione della tempistica
di convocazione del Consiglio, tale prassi potrebbe determinare un
incremento degli oneri a carico dell’Ente a titolo di interessi legali ed
eventuale rivalutazione monetaria cui vanno aggiunte le eventuali spese
giudiziali conseguenti all’attivazione di procedure esecutive
nell’eventualità che la delibera di riconoscimento del debito fosse
approvata tardivamente.
Conseguentemente, il Sindaco, preso atto di recenti orientamenti
della giurisprudenza contabile che consentono all’Ente debitore di procedere
al pagamento preliminarmente all’approvazione della deliberazione di
riconoscimento del debito derivante da sentenza esecutiva, chiede
alla Sezione se, nel caso in cui nel bilancio di previsione siano state
prudenzialmente allocate risorse finanziarie per farvi fronte, i competenti
uffici possano, nelle more dell’adozione della delibera consiliare di
riconoscimento, provvedere alla liquidazione ed al pagamento del debito, al
fine di prevenire l’eventuale esecuzione coattiva.
...
Ritiene il Collegio che il quesito, da ricondurre in ogni caso a generalità
ed astrattezza, possa reputarsi riconducibile nell’ambito della materia
della contabilità pubblica poiché inerente l’interpretazione della
disciplina normativa in materia di riconoscimento di debiti fuori bilancio
che, come noto, assume carattere eccezionale ed è finalizzata a ricondurre,
nei casi tassativamente indicati dal legislatore, particolari tipologie di
spesa nel sistema di bilancio.
L’articolo 194, comma 1, lett. a), del Tuel prevede che, con deliberazione
consiliare, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori
bilancio derivanti da sentenze esecutive.
Osserva la Sezione che dal combinato disposto della predetta norma e
dell’art. 193, comma 2, del Tuel si rileva che, con
periodicità stabilita dal regolamento di contabilità dell'ente locale e
comunque almeno una volta entro il 31 luglio di ciascun anno, l'Organo
consiliare deve provvedere, con delibera, a dare atto del permanere degli
equilibri generali di bilancio o, in caso di accertamento negativo, ad
adottare, contestualmente i provvedimenti per il ripiano degli eventuali
debiti.
Conseguentemente, come già chiarito da questa Sezione nel
parere 15.09.2016 n. 152
richiamato nel quesito proposto dall’Ente, in mancanza di
una disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le
sentenze esecutive, non è consentito discostarsi dalla stretta
interpretazione dell’art. 193, comma 2, lett. b), del TUEL ai sensi del
quale “i provvedimenti per il ripiano di eventuali debiti di cui all’art.
194” sono assunti dall’organo consiliare contestualmente
all’accertamento negativo del permanere degli equilibri di bilancio.
Infatti, a fronte dell’imperatività del provvedimento giudiziale esecutivo,
il valore della deliberazione consiliare non è quello di riconoscere
la legittimità del debito che già è stata verificata in sede giudiziale,
bensì di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza
finanziaria che è maturato all’esterno di esso. Ulteriore funzione svolta
dalla delibera consiliare è l’accertamento delle cause che hanno originato
l’obbligo, con le consequenziali ed eventuali responsabilità; infatti,
questa funzione di accertamento è rafforzata dalla previsione dell’invio
alla Procura regionale della Corte dei conti
(art. 23, comma 5, L. n. 289/2002) delle delibere di
riconoscimento di debito fuori bilancio
(Sezione regionale di controllo per la Puglia,
parere 15.09.2016 n. 152).
La necessità del riconoscimento consiliare della legittimità del debito
fuori bilancio da parte dell’Organo consiliare appare, peraltro, rafforzata
dall’intervento del legislatore dell’armonizzazione che, all’art. 73 del
D.Lgs. n. 118/2011, ha esteso alle Regioni la medesima procedura
disciplinata per gli enti locali con la differenza della necessità del
riconoscimento mediante apposita legge.
Il Collegio rammenta, inoltre, che la previsione legislativa del
riconoscimento ad opera dell’Organo consiliare trova ulteriore
specificazione nel dettato di natura “sanzionatoria” dell’art. 188,
comma 1-quater, del Tuel, come modificato dal citato D.Lgs. n. 118/2011, ai
sensi del quale agli enti locali che presentino, nell'ultimo rendiconto
deliberato, debiti fuori bilancio, ancorché da riconoscere, nelle more della
variazione di bilancio che dispone il riconoscimento e finanziamento del
debito fuori bilancio, è fatto divieto di assumere impegni e pagare spese
per servizi non espressamente previsti per legge.
Ritiene, quindi, la Sezione che, nel caso di sentenze
esecutive e di pignoramenti, sussiste, l’obbligo di procedere con
tempestività alla convocazione del Consiglio comunale per il riconoscimento
del debito, in modo da impedire il maturare di interessi, rivalutazione
monetaria ed ulteriori spese legali
(Sezione Regionale per la Puglia, deliberazioni n. 122/PRSP/2016,
parere 15.09.2016 n. 152).
A tali conclusioni è pervenuta anche la Sezione regionale di controllo per
la Campania, con
deliberazione 10.01.2018 n. 1 anch’essa richiamata dal Comune di
Bari ove, dopo aver riportato ampiamente il già citato
parere 15.09.2016 n. 152
di questa Sezione, specifica che: “è ai suindicati principi che l'Ente
richiedente il parere deve attenersi”.
La Sezione regionale di controllo per la Regione Siciliana, con
parere 03.02.2015 n. 80, ha ulteriormente chiarito che
il preventivo riconoscimento del debito da parte dell’Organo
consiliare risulta comunque necessario anche nell’ipotesi di debiti
derivanti da sentenza esecutiva, per loro natura caratterizzati da assenza
di discrezionalità per via del provvedimento giudiziario a monte, posto che
le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del Consiglio comunale
o provinciale non sono circoscritte alle scelte di natura discrezionale, ma
si estendono anche ad attività o procedimenti di spesa di natura vincolante
ed obbligatoria.
Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è
consentito all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli
artt. 193 e 194 del Tuel che garantiscono una maggiore efficienza ed
efficacia dell’azione amministrativa per salvaguardare gli equilibri
finanziari dell’ente locale.
Inoltre, il tempestivo riconoscimento e finanziamento del
debito fuori bilancio, nonché il conseguente pagamento, non esporrebbero
l’ente al rischio di azioni esecutive, considerato che il decorso di 120
giorni dalla notifica del titolo esecutivo
(previsto dall’art. 14, del D.L. 31/12/1996, n. 669 convertito in legge
28/02/1997, n. 30 come modificato dall’art. 147 della Legge 23/12/2000, n.
288), comporterebbe l’avvio delle procedure esecutive nei
confronti della pubblica amministrazione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 22.02.2018 n. 29). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
Sezione rileva la necessità di porre in essere la procedura
di “riconoscimento” del debito fuori bilancio (art. 194 TUEL)
anche in presenza di un accantonamento a Fondo rischi, in
ragione della duplice sottostante ratio legislativa della
disposizione citata: da un lato, recuperare gli
equilibri rintracciando in bilancio e destinando eventuali
risorse disponibili per la copertura del debito emerso;
dall’altro evidenziare eventuali profili di
responsabilità correlati alla dinamica della trasformazione
della passività potenziale in “debito” attuale e certo.
Da un punto di vista strettamente probatorio, la Sezione
ritiene che la conoscenza assuma certezza legale con la
notifica o si presume comunque maturata scaduti i termini
per la proposizione di impugnativa o gravame avverso il
provvedimento, tenuto conto, altresì, che è lo stesso
legislatore (art. 194, lett. a TUEL) a specificare che per
il riconoscimento è sufficiente l’esecutività del
provvedimento giurisdizionale (che rende pienamente
esigibile il debito).
---------------
Il Sindaco del Comune di Frattamaggiore (NA) ha posto alla
Sezione un parere sullo stesso tema per cui la Sezione si è
già espressa con SRC Campania n. 238/2017/PAR, con alcuni
quesiti di appendice.
Il thema opinandi concerne sempre le modalità di gestione e
utilizzazione del Fondo rischi rispetto alla manifestazione
di rischi per cui è stato effettuato accantonamento,
segnatamente, sentenze esecutive connesse a pregressi e
monitorati contenziosi.
Più specificamente chiede:
«1- se si sia o meno fuori dalla fattispecie dei debiti fuori
bilancio qualora, accantonato il fondo spese relativo al
contenzioso in relazione alla probabile futura soccombenza
dell'Ente, pervenuta la sentenza esecutiva, che segna il
sorgere dell'obbligazione giuridica passiva, si formalizzi,
entro il termine previsto per il pagamento (art. 14, 1°
comma, d.l. n. 669/1996, conv. dalla l. 30/1997, come
modificato dall'art. 147 della l. n. 388/2000), l'impegno
della spesa nelle scritture contabili attingendo dalle
risorse accantonate;
2.- se, in ipotesi affermativa, debba ritenersi il sorgere
dell'obbligazione passiva in concomitanza con la notifica
della sentenza esecutiva, per cui l'impegno della spesa va
registrato nelle scritture contabili dell'ente entro i
successivi 120 giorni previsti per il pagamento, ovvero
coincidente con la pubblicazione della sentenza, ancorché
non ancora conosciuta, prescindendosi così dall'evento della
relativa notifica, tenuto conto che il principio contabile
della competenza finanziaria potenziata prevede che le spese
sono impegnate quando l'obbligazione giuridica nasce ed
imputate all'esercizio in cui l'obbligazione è esigibile;
3.- se, infine, ai predetti effetti in cui si articola il
posto quesito, alla sentenza passata in giudicato cui fa
riferimento la Commissione [ARCONET] di seguito richiamata
sia equiparabile la sentenza esecutiva di soccombenza
dell'ente».
...
1. Il presente parere viene espresso ad integrazione ed in
continuità di quanto già precisato dalla Sezione con la
pronuncia n. 238/2017/PAR, in materia di Fondo Rischi (FR).
Con il primo quesito, l’Ente chiede se una sentenza
esecutiva, per cui peraltro è già stato effettuato un
accantonamento a fondo rischi, costituisca o meno debito
fuori bilancio.
Lo stesso quesito esclude, quindi, che l’ente abbia già
registrato la spesa contestata e oggetto del contenzioso; in
tal caso, la sussistenza di un pertinente residuo passivo
non rende necessario procedere ad accantonamento a FR, in
virtù del principio applicato 4/2, punto 5.2, n. 3, lett. h,
del D.lgs. n. 118/2011 (salvo, ovviamente, il rischio di
maggiori spese da contenzioso e spese legali, per cui è
necessario procedere ad accantonamento, sulla base di un
coefficiente di rischio individuato dall’ente, in base alla
sua discrezionalità tecnica).
La necessità di porre in essere la procedura di
“riconoscimento” del debito fuori bilancio (art. 194 TUEL),
anche in presenza di un accantonamento a Fondo rischi, si
impone in ragione della duplice sottostante ratio
legislativa della disposizione citata: da un lato,
recuperare gli equilibri rintracciando in bilancio e
destinando eventuali risorse disponibili per la copertura
del debito emerso; dall’altro evidenziare eventuali profili
di responsabilità correlati alla dinamica della
trasformazione della passività potenziale in “debito”
attuale e certo
(cfr. SRC Campania n. 3/2017/PRSP, § 3.1.1).
1.1. Con riguardo alla prima finalità, si deve infatti
ricordare che un “accantonamento” non costituisce in sé una
copertura di bilancio. Pertanto, su di esso non è possibile
impegnare e pagare spesa (art. 167, comma 3, TUEL), essendo
previamente necessario –verificatosi il rischio cui
l’accantonamento è funzionale– effettuare una variazione di
bilancio per fornire la capienza finanziaria necessaria ai
programmi interessati dalla spesa sopravvenuta, previo
riconoscimento della stessa (art. 176, 175 e 194 TUEL).
Il riconoscimento determina la competenza finanziaria, in
quanto sancisce la sopravvenuta “certezza”
dell’obbligazione, che costituisce un presupposto, insieme
alla esigibilità (che nel caso dei provvedimenti
giurisdizionali è insita nell’esecutività della sentenza)
per la registrazione in bilancio della passività; detto in
altri termini, solo con la sentenza esecutiva maturano i
presupposti per l’imputazione a bilancio della spesa,
laddove in assenza di contenzioso, la competenza finanziaria
e/o economica, sarebbe stata più risalente.
1.2. Con riguardo alla seconda finalità legislativa, si deve
rammentare che la procedura di riconoscimento del debito
fuori bilancio non può non comportare l’analisi della
vicenda sottostante di nascita della passività potenziale e
della sua trasformazione in debito certo, tanto a livello
amministrativo, valorizzando la funzione di indirizzo del
Consiglio in materia di bilancio, tanto sotto il profilo
contabile, con il correlato obbligo di trasmissione della
delibera di riconoscimento alla competente Procura della
Corte dei conti (art. 23, comma 5, della Legge n. 289/2002).
2. Con il secondo quesito, l’Ente chiede, in sostanza, se
tale “certezza” si determina con il deposito del
provvedimento giurisdizionale o con la sua notifica.
L’incertezza che ha causato lo slittamento della competenza
finanziaria che astrattamente l’obbligazione avrebbe dovuto
avere in assenza di contenzioso è un’incertezza soggettiva,
che il provvedimento del giudice rimuove quando viene
“aliunde” a conoscenza dell’ente stesso.
In ogni caso,
da un punto di vista strettamente probatorio,
la conoscenza ha certezza legale con la notifica o si
presume comunque maturata scaduti i termini per la
proposizione di impugnativa o gravame avverso il
provvedimento.
3. In ultimo, con riguardo al terzo quesito, occorre tenere
presente che
è lo stesso legislatore (art. 194, lett. a TUEL)
a specificare che per il riconoscimento è sufficiente
l’esecutività del provvedimento giurisdizionale (che rende
pienamente esigibile il debito).
In tale caso,
atteso che l’obbligo di pagamento oltre che
certo è divenuto anche esecutivo, l’ente sarà tenuto ad
individuare le coperture e iscrivere la posta passiva in
bilancio (art. 194).
Ove l’ente tuttavia non sia in grado di trovare copertura e
quindi completare la procedura di riconoscimento, innescando
l’evidenza di uno squilibrio strutturale ai sensi dell’art.
244 TUEL
(“esistenza di crediti liquidi ed esigibili di
terzi cui non si possa fare validamente fronte con le
modalità di cui all'articolo 193, nonché con le modalità di
cui all'articolo 194”),
occorrerà comunque dare evidenza a
tale latente passività nel risultato di amministrazione, per
evitare una falsa rappresentazione del saldo di bilancio e
tutelare i principi di prudenza e di verità.
All’uopo,
per dare evidenza contabile dei ridetti debiti, in
via surrogatoria ed analogica, potrà avvalorarsi il Fondo
rischi, come componente negativa del risultato di
amministrazione: in questo modo sarà possibile comprimere la
spesa nell’esercizio successivo nella misura dei debiti per
cui l’ente non ha potuto completare la procedura ai sensi
dell’art. 194, precostituendo, indirettamente, le condizioni
per il riequilibrio e per il rinvenimento, negli esercizi
successivi, delle coperture per il riconoscimento
(cfr. SRC
Campania n. 240/2017/PRSP)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 08.11.2017 n. 249). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La giurisprudenza della Corte dei conti
ha ripetutamente evidenziato la sostanziale diversità esistente
tra la fattispecie di debito derivante da sentenze esecutive e le altre
previste dall’art. 194 TUEL, osservando come, mentre nel caso di sentenza
esecutive di condanna il Consiglio comunale non ha alcun margine di
discrezionalità nel valutare l’an e il quantum del debito,
poiché l’entità del pagamento rimane stabilita nella misura indicata dal
provvedimento dell’autorità giudiziaria, negli altri casi descritti
dall’art. 194 TUEL l’organo consiliare esercita un ampio apprezzamento
discrezionale.
In mancanza di una disposizione che preveda una disciplina specifica e
diversa per le “sentenze esecutive”, tuttavia, non è consentito
discostarsi dalla stretta interpretazione dell’art. 193, comma 2, lett. b),
del TUEL (nella formulazione vigente), ai sensi del quale: “…i
provvedimenti per il ripiano di eventuali debiti di cui all’art. 194…”
sono assunti dall’organo consiliare contestualmente all’accertamento
negativo del permanere degli equilibri di bilancio (cfr. art. 193, comma 2
cit.).
Infatti, a fronte dell’imperatività del provvedimento giudiziale esecutivo,
il valore della delibera del Consiglio non è quello di riconoscere la
legittimità del debito che già è stata verificata in sede giudiziale, bensì
di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria
che è maturato all’esterno di esso.
In tale prospettiva l’art. 194, primo comma, TUEL rappresenta un’eccezione
ai principi riguardanti la necessità del preventivo impegno formale e della
copertura finanziaria; onde per riportare le ipotesi previste nell’ambito
del principio di copertura finanziaria è, dunque, richiesta la delibera
consiliare con la quale viene ripristinata la fisiologia della fase della
spesa e i debiti de quibus vengono ricondotti a sistema
mediante l’adozione dei necessari provvedimenti di riequilibrio finanziario.
Ulteriore funzione svolta dalla delibera consiliare è l’accertamento delle
cause che hanno originato l’obbligo, con le consequenziali ed eventuali
responsabilità; infatti, questa funzione di accertamento è rafforzata dalla
previsione dell’invio alla Procura regionale della Corte dei conti (art. 23,
comma 5, L. 289/2002) delle delibere di riconoscimento di debito fuori
bilancio.
Nella delineata prospettiva interpretativa, la delibera consiliare svolge
una duplice funzione, per un verso, tipicamente giuscontabilistica,
finalizzata ad assicurare la salvaguardia degli equilibri di bilancio; per
l’altro, garantista, ai fini dell’accertamento dell’eventuale responsabilità
amministrativo-contabile.
Sulla base delle esposte considerazioni, nel caso di sentenze esecutive e di
pignoramenti, sussiste, l’obbligo di procedere con tempestività alla
convocazione del Consiglio comunale per il riconoscimento del debito, in
modo da impedire il maturare di interessi, rivalutazione monetaria ed
ulteriori spese legali.
Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è consentito
all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli artt. 193 e
194 TUEL che garantiscono una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione
amministrativa per salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale.
Inoltre, il tempestivo riconoscimento e finanziamento del debito fuori
bilancio, nonché il conseguente pagamento, non esporrebbero l’ente al
rischio di azioni esecutive, considerato che il decorso di 120 giorni dalla
notifica del titolo esecutivo,
comporterebbe l’avvio delle
procedure esecutive nei confronti della P.A..
---------------
Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del Comune di Salve (LE) ha
presentato una richiesta di parere prospettando più soluzioni alternative,
sulle quali chiede a questa Sezione di pronunciarsi, rispetto alla
problematica attinente all’esistenza di un debito fuori bilancio derivante
da sentenza di condanna di 1° grado esecutiva per legge.
Preliminarmente il Sindaco ha rappresentato che:
- il Comune di Salve, a seguito di sentenza emessa da Tribunale di
Lecce, è stato condannato al risarcimento del danno per un importo di circa
600.000,00 euro per il quale non dispone delle risorse necessarie di
bilancio;
- l’avanzo di amministrazione di cui dispone consentirebbe di
coprire il debito solo in parte, ma non verrebbero rispettati i vincoli di
finanza pubblica;
- non è stato raggiunto alcun accordo transattivo.
Nello specifico, chiede un parere in merito alla possibilità di approvare in
Consiglio comunale una delibera di riconoscimento del debito che non
provveda al ripiano del debito, bensì all’accantonamento delle somme che si
rendano disponibili nei bilancio dei tre esercizi successivi, al fine di
disporre di un tempo maggiore per raggiungere un accordo col creditore e, in
considerazione della mancanza di disponibilità finanziaria, per attivare le
procedure ex artt. 153 e 193 del TUEL.
Altra soluzione alternativa sulla quale l’ente ha chiesto a questa Sezione
di pronunciarsi è la seguente: “…è possibile non procedere al
riconoscimento entro il 31 luglio e dare atto del permanere degli equilibri
a condizione che si proceda in termini brevi alla transazione e nel caso non
si raggiunga alcunché si procedere ex artt. 153 e 193 Tuel?...”.
...
Preliminarmente, si rende necessario precisare che la giurisprudenza della
Corte dei conti ha avuto già occasione di pronunciarsi in merito
all’individuazione della normativa di riferimento per analoghe fattispecie,
sia in sede consultiva, che in occasione dei controlli sulla gestione
finanziaria degli enti locali, prevista dall’art. 1, comma 166 e ss., della
legge n. 266/2005 (Finanziaria per il 2006) e dall’art. 148-bis del Tuel.
La questione sottoposta al vaglio consultivo della Sezione, investe
l’istituto giuridico del riconoscimento dei debiti fuori bilancio derivanti
da sentenza esecutiva previsto dall’art. 194, comma 1, lett. a), del TUEL.
La giurisprudenza della Corte dei conti (cfr. ex multis, SSRR n.
12/2007/QM) ha ripetutamente evidenziato la sostanziale diversità esistente
tra la fattispecie di debito derivante da sentenze esecutive e le altre
previste dall’art. 194 TUEL, osservando come, mentre nel caso di sentenza
esecutive di condanna il Consiglio comunale non ha alcun margine di
discrezionalità nel valutare l’an e il quantum del debito,
poiché l’entità del pagamento rimane stabilita nella misura indicata dal
provvedimento dell’autorità giudiziaria, negli altri casi descritti
dall’art. 194 TUEL l’organo consiliare esercita un ampio apprezzamento
discrezionale.
In mancanza di una disposizione che preveda una disciplina specifica e
diversa per le “sentenze esecutive”, tuttavia, non è consentito
discostarsi dalla stretta interpretazione dell’art. 193, comma 2, lett. b),
del TUEL (nella formulazione vigente), ai sensi del quale: “…i
provvedimenti per il ripiano di eventuali debiti di cui all’art. 194…”
sono assunti dall’organo consiliare contestualmente all’accertamento
negativo del permanere degli equilibri di bilancio (cfr. art. 193, comma 2
cit.).
Infatti, a fronte dell’imperatività del provvedimento giudiziale esecutivo,
il valore della delibera del Consiglio non è quello di riconoscere la
legittimità del debito che già è stata verificata in sede giudiziale, bensì
di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria
che è maturato all’esterno di esso.
In tale prospettiva l’art. 194, primo comma, TUEL rappresenta un’eccezione
ai principi riguardanti la necessità del preventivo impegno formale e della
copertura finanziaria; onde per riportare le ipotesi previste nell’ambito
del principio di copertura finanziaria è, dunque, richiesta la delibera
consiliare con la quale viene ripristinata la fisiologia della fase della
spesa e i debiti de quibus vengono ricondotti a sistema (cfr. ex
multis Corte dei Conti, sez. contr. Friuli Venezia Giulia, 6/1c/2005,)
mediante l’adozione dei necessari provvedimenti di riequilibrio finanziario.
Ulteriore funzione svolta dalla delibera consiliare è l’accertamento delle
cause che hanno originato l’obbligo, con le consequenziali ed eventuali
responsabilità; infatti, questa funzione di accertamento è rafforzata dalla
previsione dell’invio alla Procura regionale della Corte dei conti (art. 23,
comma 5, L. 289/2002) delle delibere di riconoscimento di debito fuori
bilancio.
Nella delineata prospettiva interpretativa, la delibera consiliare svolge
una duplice funzione, per un verso, tipicamente giuscontabilistica,
finalizzata ad assicurare la salvaguardia degli equilibri di bilancio; per
l’altro, garantista, ai fini dell’accertamento dell’eventuale responsabilità
amministrativo-contabile (cfr. ex multis: Corte dei conti, Sezione
Regionale per la Puglia n. 180/PRSP/2014).
Sulla base delle esposte considerazioni, nel caso di sentenze esecutive e di
pignoramenti, sussiste, l’obbligo di procedere con tempestività alla
convocazione del Consiglio comunale per il riconoscimento del debito, in
modo da impedire il maturare di interessi, rivalutazione monetaria ed
ulteriori spese legali (cfr. ex multis Corte dei conti, Sezione Regionale
per la Puglia n. 122/PRSP/2016).
Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è consentito
all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli artt. 193 e
194 TUEL che garantiscono una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione
amministrativa per salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale.
Inoltre, il tempestivo riconoscimento e finanziamento del debito fuori
bilancio, nonché il conseguente pagamento, non esporrebbero l’ente al
rischio di azioni esecutive, considerato che il decorso di 120 giorni dalla
notifica del titolo esecutivo (previsti dall’art. 14, del Decreto Legge
31.12.1996, n. 669 convertito in legge 28.02.1997, n. 30 come modificato
dall’art. 147 della Legge 23.12.2000, n. 288), comporterebbe l’avvio delle
procedure esecutive nei confronti della P.A. (Corte dei Conti, Sez.
controllo Puglia,
parere 15.09.2016 n. 152). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni
e adozione Piano Performance (o PEG).
Domanda
Per procedere alle assunzioni di personale inserite
nell’annualità 2018, approvato il DUP ed il Bilancio
triennale, è necessario anche aver approvato il PEG/Piano
della Performance salvo incorrere nelle sanzioni previste
dall’ art. 10 del d.lgs. 150/2009?
Risposta
L’art. 10 del d.lgs. 150/2009 non è norma di diretta
applicazione per gli enti locali in quanto non espressamente
richiamata dall’art. 16 del medesimo decreto.
Nonostante ciò, rileviamo che, per le Sezioni regionali
della Corte dei Conti, tale divieto viene generalmente
inteso come vigente anche per le amministrazioni
territoriali.
A tal proposito, come approfondimento, suggeriamo la lettura
della Deliberazione n. 1/2018 della Corte dei conti della
Sardegna che rappresenta un’ottima sintesi del pensiero
attuale sulla vicenda.
In modo particolare viene affermato che l’adozione del
piano, per tutti gli enti locali, è condizione necessaria
per l’esercizio della facoltà assunzionale negli esercizi
finanziari a venire.
Inoltre, “l’assegnazione, in via preventiva di precisi
obiettivi da raggiungere e la valutazione successiva del
grado di raggiungimento degli stessi rappresentano una
condizione indispensabile per l’erogazione della
retribuzione di risultato” (Sez. controllo Veneto,
deliberazione n. 161/PAR/2013; Sez. controllo Puglia,
deliberazione n. 123/PAR/2013 e 15/PAR/2016).
L’eventuale accertamento della mancata adozione del Piano
della Performance (e del Peg per i Comuni superiori ai 5.000
abitanti), può comportare, inoltre, il divieto di erogazione
della retribuzione di risultato ai dirigenti che ne
risultino responsabili
(29.03.2018 - link a www.publika.it). |
APPALTI: Affidamento
senza requisiti.
Domanda
Dalla lettura delle linee guida ANAC n. 4, si evince un
obbligo a carico delle pubbliche amministrazioni di
effettuare i controlli sull’aggiudicatario in modo completo,
ogni volta che l’affidamento, seppur di importo limitato,
derivi da una procedura di gara, anche telematica. Attività
di controllo che in precedenza veniva talvolta bypassata
sulla base della presentazione di autocertificazioni.
Nella prassi operativa molti enti, in presenza di importi
inferiori ad € 20.000,00 stipulano il contratto prescindendo
da qualunque forma di verifica.
A parte l’eventuale conseguenza della risoluzione del
contratto nel caso di riscontro postumo del mancato possesso
dei requisiti, quali possono essere le conseguenze e le
responsabilità in capo al funzionario che abbia adottato un
provvedimento di aggiudicazione e successivamente stipulato
un contratto in assenza di verifica dei requisiti morali e
speciali previsti per la gara di che trattasi?
Risposta
Le implicazioni poste con il quesito sono effettivamente di
rilievo ed estremamente attuali considerato anche il
tentativo di “semplificare” la verifica introdotto
con le nuove linee guida n. 4 –in tema di affidamento sotto
la soglia comunitaria ed applicazione dell’art. 36 del
codice– in relazione al caso dell’affidamento diretto.
Il controllo sull’affidatario non viene annullato e viene
introdotto anche un controllo a campione (da effettuarsi
sulla base di uno specifico regolamento interno della
stazione appaltante). In caso di risoluzione del contratto,
all’affidatario compete solo l’importo di prestazioni già
eseguite (con l’incameramento della cauzione –se è stata
richiesta– o in alternativa una penale del 10% sul prezzo
del contratto).
Venendo alla sostanza del quesito la carenza sui requisiti
determina sicuramente la risoluzione del contratto (infatti
la stessa ANAC suggerisce di inserire delle specifiche
clausole nel contratto) sotto il profilo della
responsabilità dei funzionari dell’ente la questione
evidentemente è piuttosto delicata.
In primo luogo è bene annotare che la responsabilità non è
solo del funzionario stipulante (il dirigente/responsabile
del servizio) ma dello stesso RUP (se i due soggetti
evidentemente non coincidessero) e non solo interna (si
pensi al caso del danno erariale).
L’aspetto più delicato è ovviamente quello dell’abuso
d’ufficio per l’ingiusto vantaggio patrimoniale generato a
favore di un soggetto sprovvisto dei requisiti.
Altre implicazioni potrebbero essere il danno all’immagine
della stazione appaltante ed eventualmente il danno erariale
(si pensi al ricorso del potenziale affidatario che si è
visto preferito un soggetto sprovvisto di requisiti ed alle
spese per l’eventuale soccombenza che dovrà sopportare la
stazione appaltante).
Ulteriori delicate implicanze potrebbero sorgere in caso di
controllo successivo del Segretario (nel caso in cui la
stazione appaltante sia un ente locale) che può sfociare
finanche in provvedimenti disciplinari.
Da notare –e non per irrilevanza– il fatto che con l’accesso
civico generalizzato tale “negligenza” potrebbe
emergere anche a seguito di un controllo attivato da
chiunque (attraverso l’articolo 5, comma 2, del d.lgs.
33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016) senza
particolare motivazione se non l’istanza per ripristinare la
legalità dell’azione amministrativa
(28.03.2018 - link a www.publika.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Pubblicazioni
on-line e formato aperto.
Domanda
Formato aperto: quali sono le indicazioni tecniche per il
caricamento dei dati e delle informazioni nella sezione web
di Amministrazione Trasparente?
Risposta
L’Autorità Nazionale Anticorruzione –quando ancora si
chiamava CIVIT (Commissione per la Valutazione, la
Trasparenza e l’Integrità delle amministrazioni pubbliche)–
aveva diffuso un documento tecnico che definiva puntualmente
i criteri di qualità della pubblicazione dei dati nella
sezione web di Amministrazione Trasparente.
In particolare, veniva richiamata la definizione data dalla
Legge 190/2012: “per formati di dati aperti si devono
intendere almeno i dati resi disponibili e fruibili on-line
in formati non proprietari, a condizioni tali da permetterne
il più ampio riutilizzo.”.
Inoltre, il formato di dati di tipo aperto viene
precisamente definito alla lettera a), comma 3, dell’art. 68
del CAD (Codice dell’Amministrazione Digitale, decreto
legislativo 07.03.2005, n. 82) come “un formato di dati
reso pubblico, documentato esaustivamente e neutro rispetto
agli strumenti tecnologici necessari per la fruizione dei
dati stessi”. Tale definizione fa riferimento agli aspetti
tecnologici ed evidenzia l’obiettivo di garantire un livello
adeguato di interoperabilità dei dati.
Da ciò discende che i files pubblicabili in Amministrazione
Trasparente, conformi –quindi– alle regole tecniche
dettate dall’Autorità, devono possedere le seguenti
determinate caratteristiche:
• sono originati da una suite gestionale rilasciata con
licenza libera e Open Source –come OpenOffice o LibreOffice– in un formato ODF (Open Document Format) che consente di
leggere e scrivere files nei formati utilizzati dai prodotti
più diffusi sul mercato, oltre a consentirne l’esportazione
in formato PDF;
• sono originati da un applicativo il cui software –anche se
proprietario– è però scaricabile gratuitamente (es. Adobe
Acrobat ).
In questo secondo caso specifico, si raccomanda l’impiego
del software esclusivamente nelle versioni che consentano
l’archiviazione a lungo termine (ad esempio, il formato
PDF/A), a garanzia di una futura accessibilità.
Diversamente, i PDF in formato immagine –originati da una
scansione digitale di documenti cartacei– non permettono
che i dati e le informazioni contenute siano liberamente
scaricabili ed elaborabili. Per questo motivo tali files non
potranno essere pubblicati nella sezione web di
Amministrazione Trasparente, poiché non riconosciuti
dall’Autorità come “formato aperto”.
Anche i documenti originati da una suite proprietaria –come
i files di word o excel– non sono riconosciuti
dall’Autorità tra i formati aperti; per esserlo, dovranno
essere trasformati in PDF/A
(27.03.2018 - link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
L’urgenza va motivata. Per giustificare le delibere subito eseguibili.
Si tratta comunque di una scelta discrezionale
dell’amministrazione.
Per
le deliberazioni del consiglio e della giunta che, in caso di urgenza,
vengono dichiarate immediatamente eseguibili con il voto espresso dalla
maggioranza dei componenti, ai sensi dell'art. 134, comma 4, del decreto
legislativo n. 267/2000, è necessaria una specifica motivazione giustificativa
della formula di «immediata eseguibilità»?
In linea generale, la dichiarazione di immediata eseguibilità, come
disciplinata dal citato art. 134, comma 4, del decreto legislativo n.
267/2000, risponde all'esigenza di porre in essere le deliberazioni urgenti;
quindi, limitatamente a tali casi, deve scaturire da apposita separata
votazione che approvi tale dichiarazione con il voto favorevole della
maggioranza dei componenti del collegio, non essendo sufficiente il voto
della maggioranza semplice dei votanti o dei presenti.
La decisione di attribuire a una deliberazione la connotazione
dell'immediata eseguibilità assume, infatti, autonoma valenza rispetto
all'approvazione del provvedimento cui si riferisce, restandone logicamente
distinta.
In merito, il Tar Liguria, sez. II, con decisione n. 2/2007, ha affermato
che in virtù dell'art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, la
necessità che la dichiarazione di immediata eseguibilità (per motivi di
urgenza) di una delibera di consiglio o di giunta, sia oggetto di
un'autonoma votazione, fa sì che tale dichiarazione, pur accedendo alla
delibera, non si identifichi con essa. Lo stesso Tribunale ha puntualizzato
che il legislatore non ha ritenuto la clausola di immediata eseguibilità
quale attributo necessario di ogni delibera, ma ha inteso farla dipendere da
una scelta discrezionale (basata sul requisito dell'urgenza)
dell'amministrazione procedente.
Circa la fattispecie in esame, devono ritenersi, pertanto, condivisibili le
osservazioni formulate dal Tar Piemonte che, nella sentenza n. 460 del 2014,
in materia di indefettibilità di adeguata motivazione giustificativa della
dichiarazione di immediata eseguibilità, ha ritenuto che «la clausola di
immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale
dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al requisito
dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito dello
stesso atto» (articolo
ItaliaOggi del 23.03.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Conseguenze
mancata costituzione fondo risorse decentrate.
Domanda
Se un ente non costituisce il fondo delle risorse decentrate
cosa accade? Quali somme confluiscono in avanzo di
amministrazione?
Risposta
Sulla base dei principi contabili contenuti nell’allegato
4/2 del d.lgs. 118/2011 è necessario porre particolare
attenzione alle fasi di costituzione del fondo delle risorse
decentrate e alla relativa contrattazione integrativa.
La
risposta alla questione giunge dalla recente deliberazione
n. 15/2018/PAR del 28.02.2018 della Corte dei conti
del Molise con la quale viene innanzitutto ricordato che la
costituzione del fondo è atto da ricondurre alla dirigenza
atteso che lo stesso deve essere non solo ricognitivo della
presenza di sufficienti risorse in bilancio ma ben si
colloca nell’ambito delle attribuzioni della stessa
dirigenza in ordine alla verifica della correttezza della
quantificazione delle risorse iscritte in bilancio destinate
alla contrattazione decentrata e del rispetto dei vincoli di
finanza pubblica che ne influenzano la modalità di
determinazione.
In base a quanto previsto nell’allegato 4/2 al punto 5.2 del
d.lgs. 118/2011, la giurisprudenza contabile ha evidenziato
che la corretta gestione del fondo comprende tre fasi
obbligatorie e sequenziali e che solamente nel caso in cui
nell’esercizio di riferimento siano adempiute correttamente
tutte e tre le fasi, le risorse riferite al fondo potranno
essere impegnate e liquidate;
• la prima fase consiste nell’individuazione in bilancio
delle risorse;
• la seconda fase consiste nell’adozione dell’atto di
costituzione del fondo che ha la funzione di costituire il
vincolo contabile alle risorse e svolge una funzione
ricognitiva in quanto è diretta a quantificare l’ammontare
delle risorse. Tale atto deve essere formale e di competenza
del dirigente e, inoltre, deve essere sottoposto a
certificazione da parte dell’organo di revisione;
• la terza ed ultima fase consiste nella sottoscrizione del
contratto decentrato annuale che, secondo i nuovi principi
della competenza finanziaria potenziata, costituisce titolo
idoneo al perfezionamento dell’obbligazione. Infatti, alla
sottoscrizione della contrattazione integrativa si impegnano
le obbligazioni relative al trattamento accessorio e
premiante (registrazione), imputandole contabilmente agli
esercizi del bilancio di previsione in cui tali obbligazioni
scadono o diventano esigibili.
Da quanto detto, a parere del Collegio, emerge che solamente
nel momento in cui si completa l’iter appena descritto
l’ente può impegnare il fondo e può pagare secondo il
principio della competenza potenziata (esigibilità).
Quanto, poi, alla possibilità di considerare le somme
riguardanti il fondo come residui da “trascinare” nella
contrattazione degli anni successivi o, in alternativa, come
economie di bilancio, la Sezione ricorda il principio per
cui “nel caso di mancata costituzione del fondo nell’anno di
riferimento, le economie di bilancio confluiscono nel
risultato di amministrazione, vincolato per la sola quota
del fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione
collettiva nazionale”.
Ne consegue, pertanto, che la sola quota stabile del fondo,
in quanto obbligatoriamente prevista dalla contrattazione
collettiva nazionale, confluisce nell’avanzo vincolato e
potrà essere spesa nell’anno successivo; diversamente, le
risorse variabili restano definitivamente acquisite al
bilancio come economie di spesa.
Da ultimo, viene evidenziato come le risorse trasportate,
ancorché di parte stabile, debbono essere qualificate, nel
fondo degli anni successivi, come risorse a carattere
strettamente variabile, con espresso divieto, quindi, di
utilizzarle per finanziare impieghi fissi e continuativi
(22.03.2018 - link a www.publika.it). |
APPALTI: Necessità
commissione di gara.
Domanda
Nel caso di aggiudicazione all’offerta economicamente più
vantaggiosa è obbligatorio nominare una commissione di gara
(con membri esterni) indipendentemente dall’importo?
Ad esempio è obbligatorio farlo per una procedura di valore
inferiore a 40.000,00 euro?
Risposta
La risposta esige una premessa sulla struttura della
domanda. Per come posta, con riferimento all’affidamento di
importo inferiore ai 40mila euro, sembra quasi che le
acquisizioni nel sotto soglia, ed in particolare i micro
affidamenti, si situino su un piano alternativo rispetto
alle gare “tradizionali”.
Ovviamente non è così. La sostanziale differenza –certo non
di poco conto– è che per un ambito rilevantissimo il
legislatore ha deciso di incidere assicurando una maggiore
tempestività con riduzione dei formalismi legati,
soprattutto, alla non necessità di predisporre una autentica
legge di disciplina della gara.
Ma è chiaro che le norme di fondo, soprattutto quelle
finalizzare ad assicurare correttezza ed oggettività del
procedimento di assegnazione, devono essere rispettate. In
alcun modo possono essere superate/derogate.
Tra queste rientra sicuramente l’obbligo del RUP di proporre
la nomina della commissione di gara (al proprio
dirigente/responsabile del servizio) nel momento in cui
avvia un procedimento di acquisto da assegnare con il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. A
prescindere dall’importo.
In questo senso, del resto, in modo piuttosto chiaro il
primo comma dell’art. 77 del Codice in cui si legge –al
pari di quanto normalmente noto– che “nelle procedure di
aggiudicazione di contratti di appalti o di concessioni,
limitatamente ai casi di aggiudicazione con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione
delle offerte dal punto di vista tecnico ed economico è
affidata ad una commissione giudicatrice, composta da
esperti nello specifico settore cui afferisce l’oggetto del
contratto”.
In un affidamento semplificato, sicuramente, non si potrà
formalizzare sull’esperienza – nel senso che, salvo
specifiche situazioni, non sarà necessario “scomodare”
docenti e similia. Ma la valutazione discrezionale esige un
intervento collegiale.
Eccezioni –ma con rischi– si potrebbero ravvisare nel caso
in cui la valutazione non implichi effettivamente alcuna
valutazione di tipo discrezionale (ad esempio sia stata
prevista l’attribuzione di punteggi “aritmetici") ma in ogni
caso, pur non parlando di commissione, sarà necessario
costituire un seggio di gara con più soggetti. Sempre che il
tutto venga chiaramente esplicitato nella determina a
contrattare.
Sotto il profilo pratico, naturalmente, si suggerisce –con
il multi criterio– di prevedere sempre la nomina di una
commissione di gara
(21.03.2018 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Approvazione
codice comportamento.
Domanda
Dopo quanti anni occorre riapprovare il Codice di
comportamento di ente, previsto dall’art. 1, comma 2, del
d.p.r. 62/2013?
Risposta
Dopo l’entrata in vigore del d.p.r. 62/2013 “Codice di
comportamento dei dipendenti pubblici” le singole
amministrazioni dovevano definire, ai sensi dell’art. 54,
comma 5, del d.lgs. 165/2001, un proprio codice di
comportamento integrando e specificando –ma comunque in
modo più restrittivo– quello approvato dal legislatore
nazionale.
Le norme vigenti non ne prevedono una scadenza e nemmeno una
tempistica di revisione e aggiornamento.
Tuttavia, come si desume dalle indicazioni ANAC, potrebbe
risultare opportuno ridefinirne i confini dopo cinque anni
dalla sua prima approvazione.
Infatti, secondo l’aggiornamento del PNA 2015 (sezione:
Vigilanza dell’ANAC: priorità ed obiettivi – pag. 52), dopo
alcuni anni di attuazione, si rende opportuno procedere ad
una revisione generale del Codice di comportamento di ente,
sulla base di una adeguata riflessione che porti
all’adozione di norme destinate a durare nel tempo.
La revisione dovrà necessariamente essere l’esito delle
attività di vigilanza e monitoraggio sull’applicazione del
Codice che devono essere previste tra le azioni dal Piano di
Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) adottato
annualmente.
Si ricorda, altresì, che anche il PNA 2016 (pag. 5) prevede
che sui codici di comportamento l’ANAC assuma atti di
orientamento (es. Linee guida generali), riservandosi di
intervenire anche ai fini di un maggior coordinamento,
differenziando per tipologia di amministrazioni e enti,
confermando quanto contenuto nel PNA 2015 circa i loro
contenuti e valenza “gli enti sono tenuti all’adozione di
codici che contengano norme e doveri di comportamento
destinati a durare nel tempo, da calibrare in relazione alla
peculiarità delle finalità istituzionali perseguite dalle
singole amministrazioni: non quindi una generica ripetizione
dei contenuti del codice di cui al d.p.r. 62/2013, ma una
disciplina che, a partire da quella generale, diversifichi i
doveri dei dipendenti e di coloro che vi entrino in
relazione, in funzione delle specificità di ciascuna
amministrazione”.
Pertanto, avendo l’ANAC già previsto di dettare specifiche
Linee guida sulla revisione dei Codici, si consiglia di
prevedere, tra le azioni del PTPCT, la programmazione di un
lavoro di revisione del Codice di comportamento dell’ente,
da concludersi entro un quinquennio dalla sua adozione
(20.03.2018 - link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Accesso digitale agli atti.
Documenti richiedibili in formato elettronico. Se la documentazione è
voluminosa, le copie online sono preferibili.
Può essere esercitato, da parte dei consiglieri
comunali, il diritto di accesso agli atti dell'ente locale, richiedendo che
l'ostensione della documentazione amministrativa sia effettuata su supporto
digitale, o eventualmente indicando il relativo link a cui accedere nella
sezione «Amministrazione trasparente», in luogo del rilascio delle copie
cartacee?
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali deve essere esercitato in
modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali,
attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento
dell'ente (art. 43 del Testo unico enti locali, dlgs n. 267/2000).
Inoltre non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero
meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali
condizioni deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto
al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al
diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
Al fine di evitare che le continue richieste di accesso si traducessero in
un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha riconosciuto la
possibilità, per il consigliere comunale, di avere accesso diretto al
sistema informatico interno, anche contabile, del comune attraverso l'uso
della password di servizio (si veda parere del 29/11/2009).
Anche il Tribunale amministrativo regionale della Sardegna, con la sentenza
n. 29/2007, ha ritenuto che «la notevole mole della documentazione da
consegnare può, nel caso, giustificare la distribuzione nel tempo del
rilascio delle copie richieste».
Il Consiglio di stato ha, inoltre, affermato che, «qualora si tratti di
esibire documentazione complessa e voluminosa, appare, altresì, legittimo il
rilascio di supporti informatici al consigliere, o la trasmissione mediante
posta elettronica, in luogo delle copie cartacee» (si veda Consiglio di
stato, sentenza n. 6742/07 del 28/12/2007).
Tale modalità è, peraltro, conforme alla vigente normativa in materia di
digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82
del 07.03.2005) che, all'art. 2, prevede che anche «le autonomie locali
assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la
conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si
organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più
appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione» (articolo
ItaliaOggi del 16.03.2018). |
APPALTI: Adempimenti
nomina commissione giudicatrice.
Domanda
L’ente deve affidare un appalto di servizi mediante
procedura telematica con aggiudicazione all’offerta
economicamente più vantaggiosa ai sensi dell’art. 95 del
codice. Quali sono gli adempimenti previsti per la nomina
della Commissione giudicatrice?
Risposta
Le disposizioni principali che si ritiene debbano essere
considerate con riferimento alla nomina della Commissione
giudicatrice sono le seguenti:
• Codice dei contratti: art. 29 “Principi in materia di
trasparenza”; art. 77 “Commissione giudicatrice”;
art. 78 “Albo dei componenti delle commissione
giudicatrici”; art. 216, co. 12 “Disposizioni
transitorie e di coordinamento”;
• Linee guida n. 5, di attuazione del d.lgs. 50/2016, recanti “Criteri
di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli
esperti nell’Albo nazionale obbligatorio dei componenti
delle commissioni giudicatrici”, aggiornate al d.lgs.
56/2017 con deliberazione del Consiglio n. 4 del 10.01.2018;
• Linee guida n. 3, di attuazione del d.lgs. 50/2016, recanti “Nomina,
ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per
l’affidamento di appalti e concessioni”, aggiornate al
d.lgs. 56/2017 con deliberazione del Consiglio n. 1007 del
11.10.2017;
• D.lgs. n. 33/2013 “Riordino della disciplina riguardante gli
obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di
informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”,
art. 15, co. 1;
• Linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli obblighi di
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni
contenuti nel d.lgs. 33/2016 come modificato dal d.lgs.
97/2016, par. 5.1.
Sulla base delle disposizioni che precedono, una volta
individuati i commissari nel rispetto delle vigenti regole
di competenza e trasparenza, occorre procedere ai seguenti
adempimenti:
Adempimenti/Verifiche
●
Dichiarazione assenza cause di esclusione di cui ai punti
3.1 e seguenti delle linee guida n. 5
►
Soggetti interessati:
Commissario esterno/Commissario interno
●
Dichiarazione inesistenza cause di incompatibilità di cui
all’art. 77, co. 4, del codice
►
Soggetti interessati:
Commissario esterno/Commissario interno
●
Dichiarazione inesistenza cause di incompatibilità di cui
all’art. 77, co. 5, del codice
►
Soggetti interessati:
Commissario esterno/Commissario interno
●
Dichiarazione inesistenza cause di incompatibilità di cui
all’art. 77, co. 6, del codice
►
Soggetti interessati:
Commissario esterno/Commissario interno/Segretario
●
Autorizzazione di cui all’art. 53, co. 7, del d.lgs.
165/2001 della propria amministrazione
►
Soggetti interessati:
Commissario esterno dipendente di amministrazioni
aggiudicatrici
●
Dichiarazione ai sensi dell’art. 15, co. 1, del d.lgs.
33/2013 da pubblicarsi in “Amministrazione trasparente –
sotto-sezione consulenti e collaboratori”
►
Soggetti interessati:
Commissario esterno
●
Attestazione di avvenuta verifica insussistenza di
situazioni, anche potenziali di conflitto di interessi, ai
sensi dell’art. 53, co. 14, d.lgs. 165/2001, nel caso di
nomina di Commissario esterno, da pubblicarsi in “Amministrazione
trasparente – sotto-sezione consulenti e collaboratori”
►
Soggetti interessati:
Responsabile che procede alla nomina
●
Provvedimento di nomina della Commissione da pubblicarsi in
“Amministrazione trasparente” ai sensi dell’art. 29
del d.lgs. 50/2016 e Servizio Contratti Pubblici del
Ministero
www.serviziocontrattipubblici.it (sito web del Mit)
●
Curriculm vitae da pubblicarsi in “Amministrazione
trasparente” ai sensi dell’art. 29 del d.lgs. 50/2016 e
Servizio Contratti Pubblici del Ministero
www.serviziocontrattipubblici.it (sito web del Mit)
►
Soggetti interessati:
Tutti i commissari
●
Curriculm vitae da pubblicarsi in “Amministrazione
trasparente sotto-sezione consulenti e collaboratori” ai
sensi dell’art. 15, co. 1, del d.lgs. 33/2013
►
Soggetti interessati:
Commissario esterno
●
Atto di conferimento dell’incarico (disciplinare di
incarico, contratto nella forma dello scambio di lettera
commerciale)
●
Nel caso di Commissario esterno, gli estremi, con la durata
e l’ammontare erogato, vanno pubblicati in “Amministrazione
trasparente sotto-sezione consulenti e collaboratori” ai
sensi dell’art. 15, co. 1, del d.lgs. 33/2013
(14.03.2018 - link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Rilevazione annuale OIV.
Domanda
Ci sono novità da ANAC sulla rilevazione annuale dell’OIV
sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione sulla
sezione di Amministrazione Trasparente?
Risposta
Tra le news sul portale web dell’Autorità (ANAC) è apparso
mercoledì 07.03.2018 il comunicato riguardante la
rilevazione che gli OIV (o organismi con funzioni analoghe)
sono tenuti ad effettuare sul corretto assolvimento delle
pubblicazioni nella sezione web istituzionale di
AMMINISTRAZIONE TRASPARENTE.
La delibera di riferimento –n. 141 del 21.02.2018– è
scaricabile sul portale web di ANAC.
La griglia di rilevazione, con l’attestazione e la scheda di
sintesi, dovranno essere compilate a cura dell’OIV / Nucleo
di Valutazione, sulla base delle pubblicazioni presenti alla
data del 31.03.2018.
E’ importante tenere conto che la rilevazione dovrà
necessariamente considerare le informazioni pubblicate con
data antecedente il 1° aprile: ANAC è stata chiara nel
sottolineare i tempi a disposizione degli OIV/Nuclei.
Le sezioni sotto esame, per le pubbliche amministrazioni,
che ANAC ha indicato con precisione sono:
1. CONSULENTI E COLLABORATORI (artt. 15 e 53 del D.Lgs.
33/2013 e s.m.i.)
2. PERSONALE > Incarichi conferiti e autorizzati ai
dipendenti (art. 18 del D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
3. BANDI DI CONCORSO (art. 19 del D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
4. SOVVENZIONI, CONTRIBUTI, SUSSIDI, VANTAGGI ECONOMICI
(artt. 26 e 27 del D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
5. BENI IMMOBILI E GESTIONE PATRIMONIO (art. 30 del D.Lgs.
33/2013 e s.m.i.)
6. CONTROLLI E RILIEVI SULL’AMMINISTRAZIONE (art. 31 del
D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
7. PIANIFICAZIONE E GOVERNO DEL TERRITORIO (art. 39 del
D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
8. STRUTTURE SANITARIE PRIVATE ACCREDITATE (obbligo di
pubblicazione riservato alle Regioni)
9. SERVIZI EROGATI > Liste di attesa: (obbligo riservato
agli enti, aziende e strutture pubbliche e private che
erogano prestazioni per conto del servizio sanitario) (art.
41 del D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
10. ALTRI CONTENUTI > Prevenzione della corruzione (art. 10
del D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
11. ALTRI CONTENUTI > Accesso civico (Linee guide FOIA – det.
1309/2016)
Inoltre –novità di quest’anno– la delibera di riferimento
ha evidenziato che l’OIV/Nucleo dovrà rilevare nel documento
di attestazione anche le seguenti informazioni:
• se l’ente ha o meno individuato misure organizzative che
assicurano il regolare funzionamento dei flussi informativi
riguardanti la pubblicazione dei dati
• se l’ente ha o meno individuato nella sezione Trasparenza
del PTPC i responsabili della trasmissione e della
pubblicazione dei documenti.
L’attestazione, assieme alla griglia di rilevazione ed alla
scheda di sintesi, compilate dall’OIV / Nucleo di
Valutazione, andranno poi pubblicate entro il 30.04.2018
nella sotto–sezione >Controlli e rilievi
sull’amministrazione >OIV, Nuclei di valutazione o altri
organismi con funzioni analoghe (13.03.2018 - link a
www.publika.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Ardea, loc. Le Salzare, area archeologia di
Castrum Inui - Lavori di manutenzione e recupero del
patrimonio esistente - Programmazione triennale ai sensi
dell'art. 1, commi 9 e 10, della legge n. 190 del 2014 —
sostituzione RUP e ufficio di direzione lavori — parere
(MIBACT, Ufficio Legislativo,
nota
12.03.2018 n. 7090 di prot.).
---------------
Con nota prot. 3725 del 05.03.2018 codesta Soprintendenza
chiede un parere in merito alla possibilità di sostituire il
RUP già incaricato per i lavori di manutenzione e recupero
dell'area archeologica di Castrum Inui.
L'esigenza è originata dalla recente riorganizzazione degli
uffici ministeriali, a seguito della quale il territorio del
comune di Ardea ricade nelle competenze della
Soprintendenza, mentre il RUP a suo tempo nominato (in
quanto all'epoca funzionario di zona) è transitato nei ruoli
della Soprintendenza per le province di Frosinone, Latina e
Rieti. Il nuovo RUP, scelto tra il personale interno,
provvederebbe anche alla costituzione, se del caso, del
nuovo ufficio di direzione lavori.
Al riguardo, si ritiene che codesta Soprintendenza possa
senz'altro dare corso alla sostituzione proposta per le
ragioni rappresentate, tra le quali il miglior svolgimento
delle funzioni istituzionali di tutela del sito.
Questo ufficio si è già occupato in più occasioni
dell'impatto del procedimento di riorganizzazione degli
uffici ministeriali sulle procedure a evidenza pubblica in
corso di svolgimento ... (...continua). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Consiglieri senza fascia.
In
occasione di cerimonie ed eventi civili e religiosi, i consiglieri comunali
possono indossare una fascia tricolore quale titolo del ruolo politico e
amministrativo ricoperto?
Il decreto legislativo n. 267/2000 all'art. 50, comma 12, dispone
espressamente che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo
stemma della Repubblica e lo stemma del comune, da portarsi a tracolla». La
stessa disposizione prevede, altresì, che «distintivo del presidente della
provincia è una fascia di colore azzurro con lo stemma della repubblica e lo
stemma della provincia da portare a tracolla».
La legge, pertanto, non prevede nulla, per quanto riguarda i simboli da
indossare, nei riguardi degli altri amministratori degli enti locali.
Il sistema delle autonomie ha, peraltro, un limite connaturato alla stessa
essenza dell'autonomia che è quello di dare luogo ad ordinamenti liberi di
autodeterminarsi entro la cornice ben definita di un ordinamento generale
che, originario e sovrano, determina i caratteri peculiari ed il modo di
tutti i soggetti che in esso si trovano a coesistere e ad operare (cfr.
circolare Ministero dell'interno 04.11.1998 n. 5/98 – fascia tricolore –
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 270/1998).
La finalità della
previsione di un distintivo è quella di rendere immediatamente individuabili
i titolari di determinate cariche pubbliche attraverso la prescrizione di
una medesima tipologia formale per ciascuna categoria di ente. In assenza di
specifiche previsioni normative, quindi, l'istituzione di un distintivo
anche per i consiglieri comunali non può essere contemplata.
Alla luce della legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001, sussiste,
tuttavia, ampia possibilità per le autonomie locali di disciplinare, con
normativa regolamentare, l'utilizzo dei propri segni distintivi, anche a
scopo di rappresentanza, senza così ricorrere all'impiego di un simbolo,
quale la fascia tricolore, attinente nello specifico al capo
dell'amministrazione e allo svolgimento delle proprie funzioni in conformità
alle indicazioni di legge (articolo
ItaliaOggi del 09.03.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pausa
pranzo.
Domanda
La pausa pranzo può durare meno di mezzora?
Risposta
Siamo prossimi ad avere risposta certa a questa domanda,
perché il contratto la cui ipotesi è stata sottoscritta il
21 febbraio scorso, ci porta una disciplina nuova e certa
sulla durata minima della pausa.
Il quadro legale di riferimento è quello contenuto nell’art.
8 del d.lgs. 66/2003, dove si disciplina la pausa
obbligatoria, quella cioè che deve intervenire dopo le 6 ore
continuative di lavoro.
Tale pausa riveste il carattere di diritto indisponibile e
la legge rinvia alla disciplina collettiva il compito di
definirne le modalità di fruizione e la durata. In mancanza
di disciplina collettiva di riferimento, il d.lgs. 66/2003
prevede una pausa obbligatoria di durata non inferiore ai 10
minuti.
È bene precisare, tuttavia, che la pausa obbligatoria non va
confusa o assimilata in toto alla pausa pranzo. Il pranzo,
infatti, potrebbe essere consumato prima del trascorrere
delle 6 ore di servizio continuativo. Più semplicemente va
ricordato che le pause hanno diverse funzioni e
caratteristiche: alcune rivestono il carattere di diritto
indisponibile, altre quello di consentire la consumazione
del pasto.
Fino all’entrata in vigore del nuovo contratto, la fonte
contrattuale che “nomina” la durata della pausa
pranzo è l’art. 45 del CCNL del 14.09.2000 che tuttavia
disciplina la mensa e, solo di riflesso, la durata della
pausa pranzo. La norma precisa che “possono usufruire
della mensa i dipendenti che prestino attività lavorativa al
mattino con prosecuzione nelle ore pomeridiane, con una
pausa non superiore a due ore e non inferiore a trenta
minuti“.
A questo va aggiunto che l’istituzione del servizio mensa
non è un obbligo tassativo degli enti, semmai una
possibilità che deve essere compatibile con le risorse
disponibili. È chiaro che ove l’ente non abbia istituito né
la mensa né il buono pasto sostituivo, il riferimento della
durata della pausa pranzo viene a mancare completamente,
potendo lasciare spazio a pause inferiori alla mezz’ora ma
non inferiori ai 10 minuti dopo le 6 ora continuative.
Il contratto nuovo, all’art. 26, scioglie ogni riserva e
dubbio, armonizzando fonte legale e contrattuale,
quantificando la durata minima della pausa oltre le sei ore
di lavoro in trenta minuti e contestualmente prevedendo che
la stessa pausa di almeno trenta minuti è quella da tenere
in considerazione per la consumazione del pasto. In questo
modo la disciplina è certa e non lascia spazio a pause
pranzo inferiori alla mezz’ora.
L’unica eccezione alla pausa indisponibile oltre le 6 ore di
lavoro è quella legata alle attività obbligatorie per legge
(08.03.2018 - link a www.publika.it). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Gare
e commissari interni.
Domanda
Al punto 1. delle linee guida ANAC N. 5 sui “Criteri di
scelta dei commissari di gara dei componenti delle
commissione giudicatrici“, si legge “È da
considerarsi interno alla stazione appaltante il commissario
di gara scelto tra i dipendenti dei diversi entri
aggregatori ai sensi dell’art. 37, co. 3 e 4, del codice dei
contratti pubblici, anche se gli stessi non hanno
perfezionato l’iter di costituzione delle forme aggregative
di cui ai citati commi".
Volendo procedere alla nomina di un commissario esterno, in
una gara indetta da un Comune, facente parte di una centrale
unica di committenza, che tuttavia ha bandito la gara in
autonomia, non essendo obbligatorio procedere, dato
l’importo, mediante la centrale di committenza, il
funzionario di uno degli enti aderenti alla centrale può
essere considerato come esterno?
Oppure indipendentemente da chi bandisce la gara il
funzionario deve essere sempre considerato come interno?
Risposta
Nel periodo transitorio –e quindi fino alla vigenza
dell’Albo dei Commissari a gestione ANAC (ai sensi dell’art.
78 del codice dei contratti)– le stazioni appaltanti
procedono, in relazione alla nomina dell’organo giudicatore,
secondo le disposizioni del “proprio ordinamento” ovvero
come hanno proceduto ante codice dei contratti.
Le indicazioni in questo senso sono leggibili nel comma 12
dell’art. 216 del codice dei contratti (al norma
transitoria) a mente del quale “Fino alla adozione della
disciplina in materia di iscrizione all’Albo di cui
all’articolo 78, la commissione continua ad essere nominata
dall’organo della stazione appaltante competente ad
effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto,
secondo regole di competenza e trasparenza preventivamente
individuate da ciascuna stazione appaltante. Fino alla piena
interazione dell’Albo di cui all’articolo 78 con le banche
dati istituite presso le amministrazioni detentrici delle
informazioni inerenti ai requisiti dei commissari, le
stazioni appaltanti verificano, anche a campione, le
autodichiarazioni presentate dai commissari estratti in
ordine alla sussistenza dei requisiti dei medesimi
commissari. Il mancato possesso dei requisiti o la
dichiarazione di incompatibilità dei candidati deve essere
tempestivamente comunicata dalla stazione appaltante all’ANAC
ai fini della eventuale cancellazione dell’esperto dall’Albo
e la comunicazione di un nuovo esperto”.
Si impone, pertanto, alle stazioni appaltanti l’obbligo di
fissare delle regole di tipo generale che, per i comuni,
potrebbero assumere la “forma” di un regolamento
interno o anche di una direttiva generale del funzionario
anticorruzione.
Utile, in questo senso, potrebbe essere la deliberazione
dell’ANAC n. 620/2016 con cui l’autorità anticorruzione si è
data delle disposizioni circa la nomina delle proprie
commissioni di gara.
In relazione al passaggio indicato nel quesito circa la
possibilità di nominare componenti delle commissioni tra
soggetti facenti parte dell’unione, a sommesso parere, una
volta fissate le regole di cui in argomento –di disciplina
della nomina dei componenti– i funzionari facenti parte dei
comuni aderenti all’unione, a prescindere dalla circostanza
che sia stata formalizzata la centrale unica, sono da
considerarsi membri inferni (come se si trattasse di
dipendenti interni della stazione appaltante). Ciò ha delle
implicazioni pratiche evidenti in quanto –considerato che la
scelta andrà, presumibilmente, a ricadere tra i responsabili
di servizio– non saranno dovuti il c.d. “gettone” di
presenza né straordinario (salvo che i tratti di soggetti
non responsabili di servizio).
A parere di chi scrive, salvo oggettive situazioni e/o
dimostrate incompatibilità, la nomina a commissario (o
presidente) non può essere rifiutata
(07.03.2018 - link a www.publika.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Richieste
FOIA.
Domanda
È pervenuta al nostro ente una richiesta di Accesso civico
generalizzato (FOIA) che riguarda le le informazioni sotto
meglio riportate:
AREA INFORMATICA:
a) Elenco dei fornitori in essere e dei relativi contratti con
l’indicazione del periodo contrattaule e dell’importo
complessivo per gli anni 2015-2016-2017, con eventuale
distinta, evidenziata nel contratto, tra costi di assistenza
e manutenzione, di servizi e di investimento;
b) Elenco delle applicazioni con indicazione del fornitore e del
produttore (qualora differenti);
AREA TURISTICO GESTIONALE
a) Informazioni sulla spesa del comune negli ultimi tre anni
(2015-2016-2017) collegabili ad azioni di promozione e
marketing turistico, pubblicità e organizzazione eventi;
b) Indicazione sulla struttura organizzativa del personale
impegnato dal comune nei suddetti servizi e quantificazione
economica dei costi;
c) Dettagli sui numeri delle presenze turistiche in eventi (palio,
eventi musicali, letterari, manifestazioni fieristiche, ecc)
e musei.
È possibile accoglierla?
Risposta
L’accesso civico generalizzato –FOIA è l’acronimo inglese
che sta per Freedom Of Information Act– è un nuovo
istituto giuridico introdotto nell’ordinamento con il
decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, che ha largamente
modificato ed integrato il d.lgs. 14.03.2013, n. 33, recante
disposizioni in materia obblighi di trasparenza e pubblicità
delle pubbliche amministrazioni.
Dopo le modifiche, quindi, l’articolo 5, comma 2, del d.lgs.
33/2013, prevede quanto segue: "2. Allo scopo di favorire
forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque
ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle
pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli
oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel
rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi
giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto
dall’articolo 5-bis.".
L’accesso civico generalizzato, dunque, può essere attivato
da chiunque e può riguardare qualsiasi dato o documento
detenuto da una P.A. Le esclusioni e i limiti a tale diritto
sono previste nell’art. 5-bis, del d.lgs. 33/2013 e il comma
6, di tale articolo prevede che l’ANAC, d’intesa col Garante
della Privacy, avrebbe dovuto emanare delle Linee guida “ai
fini della definizione delle esclusioni e dei limiti
all’accesso civico”.
L’ANAC ha emanato le previste Linee guida, approvandole con
delibera n. 1309 del 28.12.2016 e, al Paragrafo 3, si
suggerisce l’adozione, anche nella forma di un regolamento
interno sull’accesso, di una disciplina che fornisca un
quadro organico e coordinato dei profili applicativi
relativi alle tre tipologie di accesso, con il fine di dare
attuazione al nuovo principio di trasparenza introdotto dal
legislatore e di evitare comportamenti disomogenei tra
uffici della stessa amministrazione.
L’ente, pertanto, nella valutazione dell’Accesso e nella
conseguente decisione se accoglierlo o meno, dovrebbe anche
fare riferimento –qualora adottata– alla disciplina interna
di cui dispone.
Le Linee guida ANAC, sono completate da un Allegato
contenente una “Guida operativa all’accesso generalizzato”.
Tra le varie questioni trattate, al Punto 4 della Guida, si
trova il seguente quesito e relativa risposta:
(4) Che cosa si può richiedere con l’accesso
generalizzato?
Con la richiesta di accesso generalizzato possono essere
richiesti i documenti, dati e informazioni in possesso
dell’amministrazione.
Ciò significa:
– che l’amministrazione non è tenuta a raccogliere informazioni che
non sono in suo possesso per rispondere ad una richiesta di
accesso generalizzato, ma deve limitarsi a rispondere sulla
base dei documenti e delle informazioni che sono già in suo
possesso;
– che l’amministrazione non è tenuta a rielaborare informazioni in
suo possesso, per rispondere ad una richiesta di accesso
generalizzato: deve consentire l’accesso ai documenti, ai
dati ed alle informazioni così come sono già detenuti,
organizzati, gestiti e fruiti.
– che sono ammissibili, invece, le operazioni di elaborazione che
consistono nell’oscuramento dei dati personali presenti nel
documento o nell’informazione richiesta, e più in generale
nella loro anonimizzazione, qualora ciò sia funzionale a
rendere possibile l’accesso.
La richiesta di accesso generalizzato deve identificare i
documenti e i dati richiesti. Ciò significa:
– che la richiesta indica i documenti o i dati richiesti, ovvero
– che la richiesta consente all’amministrazione di identificare
agevolmente i documenti o i dati richiesti. Devono essere
ritenute inammissibili le richieste formulate in modo così
vago da non permettere all’amministrazione di identificare i
documenti o le informazioni richieste. In questi casi,
l’amministrazione destinataria della domanda dovrebbe
chiedere di precisare l’oggetto della richiesta.
Da quanto sopra riportato, rispondendo al quesito, si
ritiene che la domanda di accesso, così come formulata, NON
SIA ACCOGLIBILE, ai sensi dell’articolo 5, comma 2, del
d.lgs. 33/2013, con la motivazione che l’interessato non ha
indicato, in modo chiaro e comprensibile, nessun dato o
documento, detenuto dall’ente, ma ha richiesto una serie di
informazioni, riferite a più anni, che l’ente locale, per
poter rispondere, dovrebbe:
a) ricercare; b) trovare; c) esaminare; d) estrapolare; e)
assemblare; f) equiparare; g) confrontare; h) elaborare.
In aggiunta, si sottolinea che alcune delle informazioni
richieste dovrebbero essere già reperibili nel sito web del
comune e più precisamente:
Per Area informatica, Punto a) le informazioni si possono
trovare nella sezione Amministrazione trasparente > Bandi di
gara e contratti.
Per Area Turistico gestionale, Punto b) le informazioni si
possono trovare nella sezione: Amministrazione trasparente >
Organizzazione > Articolazione degli uffici
(06.03.2018 - link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oneri
urbanizzazione e cassa vincolata.
Domanda
Ho letto in un vostro articolo apparso su Publika Daily n.
02/2018 che da quest’anno le entrate da oneri di
urbanizzazione creano anche cassa vincolata, mentre
–parlando in questi giorni con una collega di un comune
limitrofo– la stessa sostiene che non sia vero.
Come stanno esattamente le cose?
Risposta
L’art. 1, comma 460, della Legge di Bilancio 2017 (come
integrato dal decreto fiscale), quanto alle entrate dai
cosiddetti oneri di urbanizzazione, prevede dall’01/01/2018
un vincolo esclusivo di destinazione senza limiti temporali
per:
• realizzazione e manutenzione ordinaria e straordinaria delle
opere di urbanizzazione primaria e secondaria
• risanamento di complessi edilizi compresi nei centri
storici e nelle periferie degradate
• interventi di riuso e di rigenerazione
• interventi di demolizione di costruzioni abusive
• acquisizione e realizzazione di aree verdi destinate a uso
pubblico
• interventi di tutela e riqualificazione dell’ambiente e del
paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della
mitigazione del rischio idrogeologico e sismico
• tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico
• interventi volti a favorire l’insediamento di attività di
agricoltura nell’ambito urbano
• spese di progettazione per opere pubbliche
In conseguenza di ciò, è evidente che le economie di spesa
su capitoli finanziati da oneri di urbanizzazione (mentre
prima creavano avanzo destinato agli investimenti) dal 2018
creeranno Avanzo Vincolato per il finanziamento delle
suddette tipologie di spesa. La domanda che non trovava
chiara risposta era invece se questi creano o meno anche
cassa vincolata; infatti, come si rammenterà, a norma del
combinato disposto degli art. 195 e 180 del TUEL, creano
cassa vincolata le entrate con vincoli di destinazione
derivanti da leggi, trasferimenti e prestiti.
In una prima fase pareva che anche le entrate in commento
dovessero rientrare in questa definizione. Nei giorni scorsi
ARCONET ha finalmente pubblicato la seguente FAQ:
●
L’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016 n. 232
individua, a decorrere dal 01.01.2018, le destinazioni
esclusive e senza vincoli temporali dei proventi dei titoli
abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo
unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380.
Si chiede se trattasi di una previsione di specifica o
generica destinazione agli investimenti. Si chiede inoltre,
nel caso trattasi di un vincolo di specifica destinazione,
se è necessario adeguare la cassa vincolata al fine di
conteggiare anche gli oneri versati prima del 01/01/2018.
●
L’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016 n. 232, per
le entrate derivanti dai titoli abilitativi edilizi e delle
sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, individua un
insieme di possibili destinazioni, la cui scelta è rimessa
alla discrezionalità dell’ente.
Si ritiene pertanto che tale elenco, previsto dalla legge,
non rappresenti un vincolo di destinazione specifico ma una
generica destinazione ad una categoria di spese.
Pertanto è finalmente stato chiarito che la legge non crea
per gli oneri un «un vincolo di destinazione specifico»
bensì una mera «generica destinazione ad una categoria di
spese» e –di conseguenza– non si deve considerare tale
entrata nella quantificazione della cassa vincolata
(05.03.2018 - link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Termine
preavviso congedo parentale.
Domanda
Alla luce dell’art. 43 del nuovo contratto in materia di
congedo dei genitori, il termine di preavviso del congedo
parentale ad ore è di 2 o di 5 giorni?
Risposta
Per rispondere alla domanda va detto che il termine di
preavviso con il quale va presentata la domanda di congedo
parentale trova regolamentazione sia nel d.lgs. 151/2001 che
nel nuovo contratto; nelle due diverse fonti del diritto le
discipline non possono dirsi completamente allineate.
L’art. 43 dell’ipotesi di contratto, riscrive e sostituisce
all’art. 17 del CCNL del 14.09.2000 in materia di congedo
dei genitori e prevede che ai fini della fruizione, anche
frazionata, dei periodi di congedo parentale, ai sensi
dell’art. 32 del d.lgs. 151/2001, la lavoratrice madre o il
lavoratore padre debbano presentare la relativa domanda
almeno cinque giorni prima della data di decorrenza del
periodo di astensione.
La disposizione contrattuale prevede poi che, per
particolari e comprovate situazioni personali che rendano
oggettivamente impossibile il rispetto dei termini sopra
descritti, la domanda può essere presentate entro le 48 ore
precedenti l’inizio del periodo di astensione dal lavoro.
L’art. 32 del d.lgs. 151/2001 rimanda in primis ai
contratti collettivi il compito di definire i termini di
preavviso con i quali fruire del congedo parentale,
prevedendo poi un diverso termine a seconda che il congedo
sia a fruito a giorni: preavviso di 5 giorni, oppure sia
fruito ad ore: 2 giorni di preavviso. Questo salvo casi di
oggettiva impossibilità.
Fermo restando il rinvio alla contrattazione collettiva, si
ritiene che il termine di preavviso da rispettare nel caso
di congedo parentale fruito ad ore sia quello dei 5 giorni,
derogabile a 48 ora solo nei casi in cui è oggettivamente
impossibile il rispetto del termine dei 5 giorni.
Previsione contrattuale meno favorevole di quella legale
dove il termine di preavviso, in difetto di disciplina
collettiva, è, per il congedo ad ore di 2 giorni
(01.03.2018 - link a www.publika.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Convenzione
Consip attiva e requisiti minimi essenziali.
Domanda
Il Comune deve procedere al noleggio di fotocopiatrici
multifunzioni per tutti gli uffici comunali. E’ possibile
fare una gara in autonomia quando è presente una convenzione
CONSIP attiva? E a quali condizioni?
Risposta
Con riferimento al quesito in oggetto occorre rifarsi alle
varie spending review che si sono succedute nel
tempo. In particolare, all’art. 26, commi 1, 3 e 3-bis,
della l. 488/1999 che, relativamente alle “Convenzioni”
attive, prevede due alternative in capo alle Amministrazioni
pubbliche, quella di aderire ovvero di andare in autonomia
nel rispetto del benchmark.
Nonché al comma 449, della l. 296/2006, che nel caso
specifico dei comuni, consente entrambe le possibilità,
quindi di aderire alle convenzioni, ovvero di procedere
autonomamente (con gara propria) utilizzando i parametri di
qualità-prezzo delle citate convenzioni attive come limiti
massimi per la stipula dei contratti.
Infine all’art. 1, comma 507, legge 208/15 che prevede "che
con decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze sono
definiti i valori delle caratteristiche essenziali e i
relativi prezzi che costituiscono i parametri di prezzo e
qualità di cui all’art. 26, comma 3, L. 489/1999”.
Pertanto, il comune, per poter affidare in autonoma il
noleggio di multifunzioni dovrà migliorare quelle
caratteristiche minime essenziali come definite da ultimo
con decreto del MEF del 28.11.2017, pubblicato in GU n. 17
del 22.01.2018, e individuate nell’allegato 2 nei seguenti
elementi: 1) velocità, 2) durata, 3) pagine incluse, 4)
servizi connessi.
L’ente potrà legittimamente affermare che una convenzione ex
art. 26, l. 488/1999, seppure attiva, non è idonea a
soddisfare l’interesse pubblico che l’Amministrazione vuole
perseguire, quando la prestazione di cui ha la necessità
abbia delle caratteristiche migliori rispetto a quelle
minime essenziali riconosciute con decreto ministeriale,
giustificando in tal modo la mancata adesione.
Si ricorda che ai sensi dell’art. 1, comma 1, d.l. 95/2012 “i
contratti stipulati in violazione dell’art. 26, comma 3, L.
488/1999 sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e
sono causa di responsabilità amministrativa. Ai fini della
determinazione del danno erariale si tiene conto anche della
differenza tra il prezzo, ove indicato, dei detti strumenti
e quello indicato nel contratto”.
In caso di nullità, di quell’acquisto il diretto
responsabile è il singolo funzionario che ha stipulato il
contratto e non l’Amministrazione di appartenenza
(28.02.2018 - link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Verifica
situazione patrimoniale e reddituale.
Domanda
Siamo un comune senza figure dirigenziali, con posizioni
organizzative di categoria D, nominate dal sindaco. Si
chiede se le P.O. debbano consegnare la loro situazione
reddituale e patrimoniale all’ente e con quale frequenza?
Risposta
Negli enti senza dirigenza, l’obbligo previsto dall’art. 13,
comma 3, del d.p.r. 16.04.2013, n. 62, recante il “Regolamento
recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a
norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001,
n. 165”, si applica al segretario comunale e alle
posizioni organizzative, nominate ai sensi dell’art. 109,
comma 2, del TUEL, dal sindaco.
L’equiparazione delle P.O. degli enti senza dirigenti, alle
figure dirigenziali è prevista dal comma 1, del medesimo
art. 13.
Si ricorda che gli obblighi di comunicazione riguardano i
seguenti dati:
a) le partecipazioni azionarie e gli altri interessi finanziari che
possano porlo in conflitto di interessi con la funzione
pubblica che svolge;
b) la dichiarazione se ha parenti e affini entro il secondo grado,
coniuge o convivente che esercitano attività politiche,
professionali o economiche che li pongano in contatti
frequenti con l’ufficio che dovrà dirigere o che siano
coinvolti nelle decisioni o nelle attività inerenti
all’ufficio;
c) le informazioni sulla propria situazione patrimoniale e le
dichiarazioni annuali dei redditi soggetti all’imposta sui
redditi delle persone fisiche previste dalla legge.
Tale obbligo si esercita secondo due distinte tempistiche:
1) prima di assumere le funzioni;
2) con cadenza annuale, secondo i termini che saranno meglio
definiti nel Codice di comportamento di ente (di norma, si
stabilisce un termine dalla data ultima di presentazione
della dichiarazione annuale dei redditi).
I dati, di norma, vengono trasmessi al Responsabile della
prevenzione della corruzione e trasparenza dell’ente e
vengono conservati nel fascicolo individuale, tenuto presso
il servizio personale.
I dati e le informazioni, al momento attuale, non vanno mai
pubblicati nel sito web istituzionale, sezione
Amministrazione trasparente, stante la sospensione imposta
dall’ANAC con la delibera n. 382 del 12.04.2017, rubricata:
“Sospensione dell’efficacia della delibera n. 241/2017
limitatamente alle indicazioni relative all’applicazione
dell’art. 14, co. 1, lett. c) ed f), del d.lgs. 33/2013 per
tutti i dirigenti pubblici, compresi quelli del SSN”.
Dal link qui di seguito è possibile scaricare un modello per
la comunicazione dei dati alla propria amministrazione, da
parte delle P.O.
Scarica il modello per la comunicazione dei dati
patrimoniali e reddituali P.O.
(27.02.2018 - link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedo
neo-papà.
Domanda
Ho letto che sono cambiate le regole per i congedi dei
neo-papà a decorrere dall’anno 2018. Ci sono novità per i
dipendenti pubblici?
Risposta
Dal 01.01.2018 i padri lavoratori dipendenti hanno diritto a
4 giorni di congedo obbligatorio, da fruire entro i 5 mesi
dalla nascita del figlio o dall’ingresso in famiglia o in
Italia del minore (in caso di adozione e affidamento
nazionale o internazionale). I giorni possono essere goduti
anche in via continuativa e vanno chiesti con un preavviso
di 15 giorni.
Dal 2018, inoltre, il padre lavoratore può fruire di un
ulteriore giorno di congedo facoltativo.
La previsione è contenuta nella Legge di Bilancio 2017,
all’art. 1, comma 354, e la compiuta disciplina di questo
istituto è contenuta nel Decreto Ministeriale del
22.12.2012, che da attuazione alla norma istitutiva della
fattispecie: l’art. sia l’art. 24, comma a) della l.
92/2012.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica ha poi precisato,
con nota del 20.02.2013, che la normativa in questione non è
direttamente applicabile ai rapporti di lavoro dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni e che, quindi, ai
padri lavoratori pubblici, non è dato godere dei congedi
obbligatori e facoltativi.
Il congedo facoltativo, che per l’anno 2018 è di 1 giorno,
interferisce tuttavia con il congedo della madre, ed è qui
che è necessario monitorare la fruizione di questo giorno
anche nel pubblico impiego.
La fruizione da parte del padre del congedo facoltativo è
infatti condizionata alla scelta della madre lavoratrice di
non fruire di altrettanti giorni del proprio congedo di
maternità, con conseguente anticipazione del termine finale
del congedo post partum della madre
(22.02.2018 - link a www.publika.it). |
APPALTI: RUP
e avviso pubblico a manifestare interesse.
Domanda
In relazione ad
una procedura di aggiudicazione del servizio –attraverso
l’utilizzo della procedura negoziata semplificata di cui
all’art. 36, comma 2, lett. b), trattandosi di servizio
sottosoglia– risulta che l’avviso a manifestare interesse è
stato firmato dal RUP che non è responsabile del servizio.
Gli atti conseguenti, invece (in particolare l’impegno di
spesa, gli inviti, ecc.), sono stati adottati dal
responsabile del servizio.
Un appaltatore ha segnalato la discrepanza (avviso a
manifestare interesse firmato dal RUP e lettere di invito
firmate dal dirigente/responsabile del servizio) chiedendo
l’annullamento degli atti per illegittimità dell’avviso
firmato da soggetto incompetente. Si potrebbe avere un
chiarimento su quale comportamento amministrativo sarebbe
opportuno adottare?
Risposta
Gli atti a valenza esterna –ed è questo anche il caso
dell’avviso pubblico a manifestare interesse– devono essere
firmati dal soggetto che detiene la prerogativa gestionale
(in quanto dirigente o responsabile del servizio – negli
enti privi di dirigenti con funzioni attribuite con decreto
del capo dell’amministrazione).
Nel caso in cui il RUP non coincida con il
dirigente/responsabile del servizio, non può adottare,
quindi, atti a valenza esterna così come già chiarisce la l.
241/1990 nell’art. 6, lett. e), per cui il responsabile del
procedimento “adotta, ove ne abbia la competenza, il
provvedimento finale, ovvero trasmette gli atti all’organo
competente per l’adozione”.
Questo al netto delle ipotesi in cui l’ANAC ammette –ma solo
nell’ambito del procedimento di gara– che il RUP anche non
dirigente e non responsabile del servizio possa adottare
alcuni atti limitati al procedimento quali l’ammissione alla
gara e le esclusioni. Ma si tratta delle eccezioni.
L’avviso di gara non è altro che atto omologo al bando di
gara pertanto deve essere firmato dal responsabile del
servizio.
Per completezza è bene annotare –e ciò appare utile per il
caso in esame– che la giurisprudenza ha ammesso la
possibilità di ratificare l’atto adottato per incompetenza.
Ratifica che, evidentemente, è in grado di sanare
l’illegittimità.
Questo caso è stato affrontato, in tempi recenti, dal Tar
Abruzzo, Pescara, sez. I, con la sentenza del 12.10.2017 n.
279.
È sicuramente utile il ragionamento espresso dal giudice in
merito alla incompetenza del RUP ad adottare l’avviso
pubblico di gara.
Per effetto della ratifica, come si diceva, risultava sanata
l’illegittimità, il giudice, quindi, concentra la propria
attenzione proprio sull’atto adottato dal dirigente che ha
l’effetto –si puntualizza in sentenza– di sanare il vizio di
incompetenza (cfr. Tar Firenze sez. III 13.01.2015 n. 25).
La volontà di eliminare il vizio di legittimità, infatti,
emerge dalle espressioni utilizzate nella determinazione
(l’atto di ratifica) che conteneva “il riferimento
espresso all’atto ratificato e all’autorità che lo ha
adottato, nonché, attraverso l’uso del termine approvazione”
è apparsa “evidente la volontà di eliminare il vizio di
incompetenza”.
Non solo, nell’atto di ratifica del responsabile del
servizio –dotato delle prerogative gestionali– risultavano
anche “menzionate […] le medesime ragioni di interesse
pubblico che hanno giustificato l’adozione dell’atto
ratificato nonché la volontà di produrre i medesimi effetti
(cfr. Consiglio di Stato sez. V 22.12.2014 n. 6199)”.
Le ragioni di interesse pubblico, evidentemente, faranno
riferimento all’esigenza di assicurare una economia di atti
e di procedimento nonché all’interesse della stazione
appaltante ad aggiudicare la gara visto che nessun danno
concreto è stato arrecato agli appaltatori.
E’ chiaro che l’adozione di un atto da parte di un soggetto
incompetente, in realtà, potrebbe creare danno soprattutto a
chi lo adotta –se non venisse ratificato– e di riflesso
viene lesa l’aspettativa dell’appaltatore (a chi esegue la
prestazione? da chi dovrebbe essere pagato, ecc.)
(21.02.2018 - link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Responsabile
protezione dati (Data Protection Officer).
Domanda
Nel nostro ente abbiamo cominciato a ragionare sul nuovo
Regolamento Europeo sulla privacy, a cui occorre dare
attuazione entro il 25.05.2018. Guardando le novità ci siamo
imbattuti nel responsabile per la protezione dei dati.
Si possono avere ulteriori informazioni su questa nuova
figura?
Risposta
Senza alcun dubbio, una delle principali novità del
regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR,
General Data Protection Regulation – Regolamento UE
2016/679) è l’obbligo –non previsto prima in Italia– di
individuare e nominare un Responsabile per la Protezione dei
Dati (RPD). La designazione del RPD è obbligatoria quando “il
trattamento è effettuato da un’autorità pubblica o da un
organismo pubblico, eccettuate le autorità giurisdizionali
quando esercitano le loro funzioni giurisdizionali”.
Le Pubbliche amministrazioni devono, quindi, individuare e
nominare una persona esperta di legislazione e pratiche
relative alla protezione dei dati, che avrà il compito di
assistere colui che li controlla (titolare del trattamento)
o li gestisce (responsabile del trattamento), al fine di
verificare l’osservanza interna al regolamento.
In particolare il RPD (o DPO – Data Protection Officer,
in lingua inglese) dovrà avere le seguenti caratteristiche:
• requisiti professionali, intesi come competenze specialistiche,
su normative anche amministrative e pratiche di gestione
dati, e capacità di adempiere ai propri compiti, intese come
capacità di relazionarsi; informare e formare;
• compiti, tra cui informare e consigliare i responsabili del
trattamento sul rispetto del Regolamento europeo, verificare
la corretta esecuzione degli adempimenti, fornire dei
pareri, qualora richiesti, essere referente per gli
interessati, essere referente per il Garante privacy,
verificare la corretta tenuta dei registri, vigilare sugli
obblighi di formazione delle varie figure coinvolte;
• inquadramento, inteso come personale interno in possesso dei
requisiti, anche nella forma della gestione associata tra
più enti o contratto esterno (affidamento appalto di
servizio) con soggetto privato. Si ritiene la figura possa
svolgere altri incarichi e mansioni nell’ente o svolgere lo
stesso incarico in più enti, purché non in situazione di
conflitto d’interessi;
• indipendenza. Allo stesso dovrà essere garantita: la non
rimozione dall’incarico, salve l’ipotesi di giustificato
motivo; il divieto di penalizzazione; il contatto diretto
coi massimi vertici dell’ente ai quali solamente riferisce
l’esito della sua attività. Inoltre, dovrà agire in
posizione di autonomia, avendo a disposizione le necessarie
risorse finanziare, logistiche ed umane, con accesso ai dati
e ai trattamenti, e dovrà poter mantenere la competenza
specialistica, con obbligo di formazione e aggiornamento
permanente.
Da ultimo, si segnala la necessità di pubblicare, nel sito
web, i dati di contatto del RPD (indirizzo postale; e-mail;
telefono), nonché l’obbligo di comunicare i dati del RPD al
Garante della privacy e a tutto il personale.
A completamento informativo, si riporta uno Schema di atto
di designazione del Responsabile della Protezione dei Dati
personali (RPD), ai sensi dell’art. 37 del Regolamento UE
2016/679, da adottarsi, in tutte le pubbliche
amministrazioni, entro il 25.05.2018.
Scarica l’allegato Schema atto designazione RPD
(20.02.2018 - link a www.publika.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il permesso di costruire può essere rilasciato
non solo al proprietario dell’immobile, ma a chiunque abbia
titolo per richiederlo, espressione quest’ultima che va
intesa nel senso della legittima disponibilità dell’area, in
base ad una relazione qualificata con il bene di natura
reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso,
con il consenso del proprietario.
Invero, “il Comune, prima di
rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la
legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il
proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento
costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di
disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria”.
D’altra parte, il permesso di costruire non incide sulla
titolarità della proprietà o di altri diritti reali relativi
agli immobili realizzati per effetto del suo rilascio, né
tantomeno pregiudica la titolarità o l'esercizio di diritti
relativi ad immobili diversi da quelli oggetto d'intervento.
---------------
Nel particolare caso di specie non possono trovare ingresso,
pertanto, le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza
di questa Sezione, secondo cui di regola è necessario il
consenso di tutti i comproprietari ed in presenza della
opposizione di uno di essi il Comune è tenuto a non
rilasciare il titolo edilizio (anche in sanatoria, sia esso
permesso di costruire ovvero d.i.a.), restando ferma
l’inesigibilità di una approfondita disamina dei rapporti
negoziali intercorrenti fra i vari comproprietari o
condomini.
---------------
4. L’appello della società Co. deve essere accolto, con riferimento al
motivo sub lett. b2) dell’esposizione in fatto (§ 1.3.), con
conseguente parziale riforma della sentenza impugnata ed
assorbimento dei motivi sub lett. a) e b1) dell’esposizione
in fatto.
Con tale mezzo l’appellante censura la sentenza impugnata,
nella parte in cui la stessa accoglie il ricorso proposto
avverso il permesso di costruire n. 13356/2005, affermando
l’illegittimità del medesimo per violazione dell’art. 1102
c.c., in quanto “la prevista trasformazione della vecchia
strada (sterrata) di accesso alla proprietà dei ricorrenti
in una strada asfaltata e dotata di illuminazione pubblica e
segnaletica per il transito dei residenti delle nuove unità
abitative (ha) determinato una sostanziale modificazione
della destinazione dell’area comune, variando in modo
significativo l’equilibrio tra le utilizzazioni dei
comproprietari e assegnando una identità nuova”.
4.1. Giova, innanzi tutto, precisare che la realizzazione di
un fabbricato residenziale, assentita dal predetto permesso
di costruire, non grava “fisicamente” sulla particella n.
335 del foglio 46 (oggetto di comproprietà), bensì su altre
particelle, delle quali la proprietà non è contestata.
Il permesso di costruire –poiché la costruzione sarebbe
stata realizzata su area non prospiciente la pubblica via,
ma a questa collegata per il tramite di una strada sterrata
(part. 335)– era assoggettato alla prescrizione di
“asfaltatura” della strada predetta, con inserimento di
segnaletica verticale ed orizzontale.
In definitiva, i richiedenti il permesso di costruire erano
proprietari esclusivi dell’area dove sarebbe sorto
l’immobile e comproprietari (unitamente ai ricorrenti in I
grado) della strada di collegamento tra tale area e la
strada pubblica (insistente sulla particella n. 335 del
foglio 46).
Ne discende che gli stessi ben potevano richiedere il
permesso di costruire, essendo a ciò legittimati, ai sensi
dell’art. 11 DPR n. 380/2001.
4.2. Come la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo
di osservare (Cons. Stato, sez. VI, 22.09.2014 n.
4776; sez. IV, 25.09.2014 n. 4818), il permesso di
costruire può essere rilasciato non solo al proprietario
dell’immobile, ma a chiunque abbia titolo per richiederlo,
espressione quest’ultima che va intesa nel senso della
legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione
qualificata con il bene di natura reale, o anche solo
obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del
proprietario.
Si è precisato, inoltre, che, “il Comune, prima di
rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la
legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il
proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento
costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di
disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria” (Cons. Stato, sez. IV, n. 4818 del 2014 cit.;
in senso conforme, sez. V, 04.04.2012 n. 1990).
D’altra parte, il permesso di costruire non incide sulla
titolarità della proprietà o di altri diritti reali relativi
agli immobili realizzati per effetto del suo rilascio, né
tantomeno pregiudica la titolarità o l'esercizio di diritti
relativi ad immobili diversi da quelli oggetto d'intervento
(Cons. Stato, sez. VI, 27.04.2017 n. 1942).
Nel particolare caso di specie non possono trovare ingresso,
pertanto, le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza
di questa Sezione, secondo cui di regola è necessario il
consenso di tutti i comproprietari ed in presenza della
opposizione di uno di essi il Comune è tenuto a non
rilasciare il titolo edilizio (anche in sanatoria, sia esso
permesso di costruire ovvero d.i.a.), restando ferma
l’inesigibilità di una approfondita disamina dei rapporti
negoziali intercorrenti fra i vari comproprietari o
condomini (cfr. fra le tante, Cons. Stato, sez. IV, n. 3823
del 2016; n. 2546 del 2010).
4.3. Nel caso di specie:
- per un verso, coloro che hanno a suo tempo richiesto il permesso
di costruire erano titolari del titolo per richiederlo;
- per altro verso, l’intervento edilizio propriamente detto
ricadeva su area di proprietà esclusiva, mentre la
particella n. 335 in comproprietà era interessata solo dalla
strada di collegamento tra la predetta area di intervento
edilizio e la strada pubblica ed era già oggetto di
passaggio (non già in ragione di servitù, bensì per effetto
di comproprietà della medesima) da parte dei richiedenti il
permesso di costruire (e quest’ultimo si è limitato ad
imporre dei “miglioramenti” della strada esistente).
In definitiva, l’area di intervento edilizio propriamente
detto non è oggetto di comproprietà, mentre lo è solo l’area
interessata da una (preesistente) strada di collegamento.
Appare, dunque, evidente come il permesso di costruire non è
illegittimo per difetto di legittimazione del soggetto
richiedente, né il medesimo incide sul diritto dei
comproprietari della particella n. 335, già adibita a
strada, né di questa si muta la destinazione.
Ogni questione in ordine agli eventuali limiti
dell’esercizio in concreto del diritto del comproprietario
(ivi compreso quanto inerisce all’uso della cosa comune, ex
art. 1102 c.c.) esula dalle valutazioni
dell’amministrazione, nei casi in cui l’immobile considerato
non sia oggetto “diretto” del titolo edificatorio, nel senso
che attraverso quest’ultimo si realizza una trasformazione
dell’immobile, sia attraverso la realizzazione di una
volumetria su di esso insistente, sia attraverso la
realizzazione di altre opere che ne trasformino in modo
decisivo caratteristiche e destinazioni del bene ovvero che
incidano su pattuizioni tra i comproprietari in ordine
all’uso del medesimo (come le eventuali limitazioni al
passaggio di veicoli, di cui a pag. 4 memoria depositata il
22.09.2017).
Ovviamente, in ordine a tali aspetti, resta ferma la tutela
dei diritti reali assicurata dal giudice ordinario, ma ciò –nei limiti innanzi espressi– non può condizionare
l’esercizio del potere autorizzatorio in materia edilizia
della Pubblica Amministrazione, al punto da rendere
illegittimo il permesso di costruire rilasciato.
E’ appena il caso di aggiungere che, diversamente opinando,
si perverrebbe alla conclusione che il diniego di consenso
del comproprietario della particella costituente il
“collegamento” con la pubblica via frustrerebbe sia, come
già detto, l’esercizio del potere amministrativo, sia il
legittimo esercizio dello jus aedificandi del proprietario
dell’area propriamente oggetto dell’intervento edilizio (in
disparte ogni valutazione in ordine all’applicazione degli
artt. 833 e 1032 ss. c.c.).
5. Per tutte le ragioni esposte, l’appello deve essere
accolto, con conseguente parziale riforma della sentenza
impugnata e rigetto, nei limiti precisati, del ricorso
instaurativo del giudizio di I grado (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 28.03.2018 n. 1949 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Deve trovare qui
applicazione il consolidato orientamento (da ultimo trasfuso
nella previsione dell’articolo 41, comma 2, cod. proc. amm.)
secondo cui il termine per impugnare i provvedimenti
amministrativi decorre dalla notificazione, comunicazione o
piena conoscenza, ovvero per gli atti di cui non sia
richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui è
scaduto il termine per la pubblicazione se questa (come nel
caso in esame) sia prevista dalla legge o in base alla
legge.
La fine del periodo di pubblicazione opera, quindi, come
dies a quo per tutti gli atti per i quali sono sia prevista
la notificazione individuale.
E’ vero che, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio,
il termine per impugnare gli strumenti di pianificazione
urbanistica decorre, a pena di decadenza, dalla data di
pubblicazione della delibera di approvazione solo per i
soggetti non direttamente incisi, occorrendo invece per
questi ultimi la notifica individuale, ma è anche vero che i
ricorrenti in primo grado non hanno adeguatamente dimostrato
di essere necessariamente destinatari di forme di notifica
individuale.
---------------
1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello
proposto dal Comune di porto Cesareo (LE) avverso la
sentenza del TAR della Puglia – Sezione staccata di Lecce
con cui è stato accolto il ricorso proposto da alcuni
cittadini di quella città e, per l’effetto, sono stati
annullati gli atti di variante al PRG prodromici alla
realizzazione dell’impianto di depurazione comunale.
2. Il Collegio ritiene dirimente ai fini del decidere
l’esame del motivo (già proposto in primo grado ma non
esaminato dal TAR) con cui il Comune di Porto Cesareo ha
eccepito la tardività del ricorso di primo grado in quanto
proposto ben oltre il sessantesimo giorno dall’avvenuta
pubblicazione degli atti di variante urbanistica impugnati
in primo grado.
In particolare, è qui rilevante osservare che:
- la delibera del Consiglio comunale di Porto Cesareo di adozione
della variante al P.R.G. necessaria per la realizzazione
dell’impianto per cui è causa era stata adottata in data 26.07.1988 (ed è stata ritualmente pubblicata per il
termine di quindici giorni all’Albo pretorio comunale);
- la delibera regionale di approvazione della prima risale al 26.03.1990 (e tale delibera era stata pubblicata nel
Bollettino regionale del 14.06.1990);
- la pubblicazione della delibera regionale era stata effettuata
sulla base di una puntuale prescrizione (in particolare, ai
sensi dell’articolo 65 dello Statuto regionale –nel testo ratione temporis vigente– il quale stabiliva che “gli atti
amministrativi regionali sono pubblicati, per estratto, nel
Bollettino Ufficiale della Regione. La pubblicazione non
tiene luogo della notifica alle persine direttamente
interessate”);
- l’impugnativa avverso i richiamati atti è stata proposta dagli
odierni appellati solo in data 14.11.1994 (data della
notifica del ricorso di primo grado).
Ebbene, il Collegio ritiene che debba trovare qui
applicazione il consolidato orientamento (da ultimo trasfuso
nella previsione dell’articolo 41, comma 2, cod. proc. amm.)
secondo cui il termine per impugnare i provvedimenti
amministrativi decorre dalla notificazione, comunicazione o
piena conoscenza, ovvero per gli atti di cui non sia
richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui è
scaduto il termine per la pubblicazione se questa (come nel
caso in esame) sia prevista dalla legge o in base alla
legge. La fine del periodo di pubblicazione opera, quindi,
come dies a quo per tutti gli atti per i quali sono sia
prevista la notificazione individuale (sul punto, da ultimo:
Cons. Stato, V, 02.05.2017, n. 1978).
E’ vero che, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio,
il termine per impugnare gli strumenti di pianificazione
urbanistica decorre, a pena di decadenza, dalla data di
pubblicazione della delibera di approvazione solo per i
soggetti non direttamente incisi, occorrendo invece per
questi ultimi la notifica individuale (ex multis: Cons.
Stato, IV, 31.03.2015, n. 1657), ma è anche vero che i
ricorrenti in primo grado non hanno adeguatamente dimostrato
di essere necessariamente destinatari di forme di notifica
individuale.
Si osserva al riguardo che (come rilevato dal Comune
appellante) il solo appellato signor Ca. risulta
proprietario di un immobile sito nell’immediata prossimità
dell’impianto per cui è causa (circa 90 mt.); ma lo stesso
risultava presente alle operazioni di immissione in possesso
delle aree (operazioni svoltesi il 21.01.1991), ragione
per cui si ritiene che già da tale data egli avesse
acquisito conoscenza dell’opera in via di realizzazione e
della relativa portata lesiva, ragione per cui avrebbe
potuto tempestivamente insorgere a tutela delle proprie
posizioni giuridiche.
2.1. Il motivo in esame deve dunque essere accolto e, in
riforma della sentenza di primo grado, deve essere
dichiarata la tardività del primo ricorso (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 28.03.2018 n. 1939 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' da escludere che interventi di mera demolizione di opere
già esistenti (ovvero, interventi di demolizione a cui non
faccia seguito alcuna ricostruzione), versanti, tra l’altro,
in condizioni ormai “fatiscenti” nonché prive di un
qualsiasi valore sotto ulteriori profili (quale –ad esempio–
quello storico e/o artistico), possano essere annoverati tra
gli interventi imponenti il previo rilascio del permesso di
costruire e, ancora, tra quelli soggetti al previo rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica da parte dell’autorità
competente.
Sulla base di un’interpretazione strettamente letterale del
disposto dell’art. 3, comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380
del 2001 (laddove gli interventi di “nuova costruzione” sono indicati come “quelli di
trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio”, per
poi riportare un’elencazione essenzialmente connotata da
valenza esemplificativa), anche interventi di tale genere
dovrebbero essere considerati soggetti al regime di cui
all’art. 10 del menzionato D.P.R. e, dunque, sanzionabili ai
sensi del successivo art. 31.
Ragioni di coerenza giuridica, desumibili, tra l’altro,
dalla ratio sottesa alle prescrizioni che regolamentano la
trasformazione del territorio, essenzialmente volte ad
evitare che quest’ultimo subisca modificazioni incontrollate
nel rispetto del “preesistente” (inteso come stato dei
luoghi non alterato dall’agere umano) o, comunque, a
garantire che quest’ultimo sia soggetto a cambiamenti
esclusivamente in stretta aderenza e, dunque, osservanza
della disciplina che regolamenta la materia, conducono,
peraltro, ad escludere che interventi di mera demolizione di
opere già esistenti (ovvero, interventi di demolizione a cui
non faccia seguito alcuna ricostruzione), versanti, tra
l’altro, in condizioni ormai “fatiscenti” nonché prive di un
qualsiasi valore sotto ulteriori profili (quale –ad esempio–
quello storico e/o artistico), come nell’ipotesi in
trattazione, possano essere annoverati tra gli interventi
imponenti il previo rilascio del permesso di costruire e,
ancora, tra quelli soggetti al previo rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica da parte dell’autorità
competente, attesa la piena idoneità di essi a garantire
proprio la salvaguardia dello stato dei luoghi, così come
oggetto di tutela da parte del legislatore.
---------------
Ciò detto, il Collegio ritiene che, sulla base di un’interpretazione
strettamente letterale del disposto dell’art. 3, comma 1,
lett. e), del D.P.R. n. 380 del 2001 (laddove gli interventi
di “nuova costruzione” sono indicati come “quelli di
trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio”, per
poi riportare un’elencazione essenzialmente connotata da
valenza esemplificativa), anche interventi di tale genere
dovrebbero essere considerati soggetti al regime di cui
all’art. 10 del menzionato D.P.R. e, dunque, sanzionabili ai
sensi del successivo art. 31.
Ragioni di coerenza giuridica, desumibili, tra l’altro,
dalla ratio sottesa alle prescrizioni che regolamentano la
trasformazione del territorio, essenzialmente volte ad
evitare che quest’ultimo subisca modificazioni incontrollate
nel rispetto del “preesistente” (inteso come stato dei
luoghi non alterato dall’agere umano) o, comunque, a
garantire che quest’ultimo sia soggetto a cambiamenti
esclusivamente in stretta aderenza e, dunque, osservanza
della disciplina che regolamenta la materia, conducono,
peraltro, ad escludere che interventi di mera demolizione di
opere già esistenti (ovvero, interventi di demolizione a cui
non faccia seguito alcuna ricostruzione), versanti, tra
l’altro, in condizioni ormai “fatiscenti” nonché prive di un
qualsiasi valore sotto ulteriori profili (quale –ad esempio– quello storico e/o artistico), come nell’ipotesi in
trattazione, possano essere annoverati tra gli interventi
imponenti il previo rilascio del permesso di costruire e,
ancora, tra quelli soggetti al previo rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica da parte dell’autorità
competente, attesa la piena idoneità di essi a garantire
proprio la salvaguardia dello stato dei luoghi, così come
oggetto di tutela da parte del legislatore (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis,
sentenza 27.03.2018 n. 3416 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In linea di principio, ricade sul proprietario (o
sul responsabile dell'abuso) assoggettato a ingiunzione di
demolizione l'onere di provare il carattere risalente del
manufatto della cui demolizione si tratta, con riferimento a
epoca anteriore quella in cui l'obbligo di previa licenza
edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al di
fuori del perimetro del centro urbano o, per quanto concerne
Roma, al territorio comunale.
Si deve, tuttavia, ammettere un temperamento della regola
nel caso in cui il privato da un lato porti, a sostegno
della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento in
epoca antecedente l’obbligo di licenza, elementi non
implausibili e, dall'altro, il Comune fornisca elementi
incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione
del manufatto privo di titolo edilizio.
---------------
Il ricorso è fondato.
La difesa del ricorrente, nel sostenere la realizzazione del
manufatto in epoca antecedente l’obbligo di munirsi di
licenza edilizia, pur non provando rigorosamente i fatti
allegati, fornisce elementi indiziari univocamente
concordanti nel dimostrare che il terreno su cui è stato
costruito il manufatto era estraneo al territorio comunale
allegando l’atto d’acquisto del terreno del 1927, la
toponomastica introdotta solo nel 1937 e la circostanza che
il terreno acquistato nel 1927 facesse parte di una tenuta
agricola; inoltre, mediante la fotografia aerea realizzata
nel 1934, tenta di dimostrare la preesistenza del
fabbricato.
Come è noto, per la città di Roma, ogni costruzione da
eseguirsi nel relativo territorio, anche fuori del centro
abitato o dalle zone di espansione, era soggetta a
preventiva autorizzazione del Sindaco, a norma dell'art. 1
del regolamento edilizio comunale del 1934, di cui alle
delibere del Governatore 18.08.1934 n. 5261 e 29.09.1934 nn. 6032 e 6033, ovvero ancor prima
dell'entrata in vigore della l. n. 1150 del 1942, laddove si
prescriveva che le opere comportanti aumento di volumetria,
realizzate nel territorio comunale, dovessero essere
assoggettate all'autorizzazione del Sindaco (TAR Lazio,
sez. I, 07.11.2014 n. 11196; TAR Lazio, sez. I, 15.01.2016 n. 396).
In linea di principio, ricade sul proprietario (o sul
responsabile dell'abuso) assoggettato a ingiunzione di
demolizione l'onere di provare il carattere risalente del
manufatto della cui demolizione si tratta, con riferimento a
epoca anteriore quella in cui l'obbligo di previa licenza
edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al di
fuori del perimetro del centro urbano o, per quanto concerne
Roma, al territorio comunale.
Si deve, tuttavia, ammettere un temperamento della regola
nel caso in cui il privato da un lato porti, a sostegno
della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento in
epoca antecedente l’obbligo di licenza, elementi non
implausibili e, dall'altro, il Comune fornisca elementi
incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione
del manufatto privo di titolo edilizio (Cons. Stato, Sez. VI,
18.07.2016, n. 3177).
Nella fattispecie, comunque, prescindendo dalla legittimità
della costruzione originaria, si deve ravvisare una
intrinseca contraddizione nel provvedimento di demolizione
impugnato, laddove l’amministrazione ordina la demolizione
di una ristrutturazione abusiva realizzata sull’edificio e
il ripristino dell’assetto originario dello stesso motivando
la propria determinazione con la considerazione che
l’edificio sarebbe stato costruito in difetto di un titolo
abilitativo.
Se effettivamente fosse stata accertata la abusività
dell’intero edificio, il provvedimento non avrebbe dovuto
disporre la demolizione degli interventi di
ristrutturazione, bensì la demolizione dell’edificio stesso.
In caso contrario, qualora l’amministrazione, riconoscendo
l’estrema vetustà dell’edificio, avesse inteso sanzionare le
modificazioni successivamente intervenute, avrebbe dovuto
specificare la consistenza delle difformità rispetto alla
costruzione legittimamente preesistente.
Non avendo provveduto in tal senso, essa ha adottato un
provvedimento intrinsecamente contraddittorio, non sorretto
da una adeguata istruttoria e da una congrua motivazione
sulle difformità effettivamente rilevate.
Pertanto, assorbite le ulteriori censure dedotte, il ricorso
deve essere accolto e, per l’effetto, il provvedimento
impugnato deve essere annullato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 27.03.2018 n. 3411 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Decorrenza del termine per impugnare, con ricorso
incidentale, l’ammissione di altro concorrente in gara –
Presupposti per applicare il rito super accelerato
all’ammissione in gara di concorrente.
---------------
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Ricorrente
incidentale – Impugnazione ammissione di concorrente alla
gara – Dies a quo – Dalla notifica del ricorso principale ex
art. 42 c.p.a.
●
Processo
amministrativo - Rito appalti – Rito super accelerato –
Impugnazione immediata ammissione concorrenti -
Pubblicazione degli atti della procedura – Necessità.
●
Processo amministrativo - Rito appalti – Ricorso incidentale
- proposto avverso ammissione di concorrente diverso dal
ricorrente principale - Inammissibilità - Condizione.
●
Il dies a quo per
proporre il ricorso incidentale avverso l’ammissione alla
gara del ricorrente principale decorre, in applicazione del
principio dettato dall’art. 42, comma 1, c.p.a., dalla
notifica del ricorso principale e non dalla conoscenza del
provvedimento di ammissione pubblicato sul profilo del
committente, ferma restando la preclusione all’attivazione
di tale rimedio processuale quale strumento per dedurre, in
sede di impugnazione della successiva aggiudicazione, le
censure riferite alla fase di ammissione (1).
●
L'onere di immediata impugnativa dell'altrui ammissione alla
procedura di gara senza attendere l'aggiudicazione, prevista
dal comma 2-bis dell'art. 120 c.p.a., è ragionevolmente
subordinato alla pubblicazione degli atti della procedura,
perché diversamente l'impresa sarebbe costretta a proporre
un ricorso "al buio", salvi i casi in cui vi sia l'effettiva
piena conoscenza in data anteriore, circostanza da accertare
con massimo rigore (2).
●
E’
inammissibile il ricorso incidentale proposto avverso
l’ammissione alla gara di un concorrente diverso dal
ricorrente principale e che sia del tutto sganciata
dall’impugnazione principale, dovendo la posizione di tale
concorrente essere gravata con autonomo ricorso principale
(3).
---------------
(1)
La Sezione ha richiamato un proprio precedente in termini (Cons.
St., sez. III, 10.11.2017, n. 5182) al quale si è
adeguata.
Alla base delle conclusioni cui è pervenuta sono le seguenti
considerazioni:
a) la rapidità di celebrazione del contenzioso sulle ammissioni non
è pregiudicata dal rimedio di cui all’art. 42, comma 1,
c.p.a., che comporta un incremento dei tempi processuali non
significativo (30 giorni), equivalente a quello previsto per
i motivi aggiunti;
b) l’espressa menzione nell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. del
ricorso incidentale, porta a ritenere che la portata di tale
rimedio processuale debba intendersi estesa anche agli atti
che costituiscono l’oggetto proprio del nuovo rito
super-accelerato;
c) è preclusa l’attivazione del ricorso incidentale al delimitato
fine di dedurre, in sede di impugnazione della successiva
aggiudicazione, le censure relative alla fase di ammissione;
d) l’esclusione del ricorso incidentale comporterebbe una
considerevole compromissione delle facoltà di difesa della
parte resistente la quale, vista la contestazione della sua
ammissione alla gara, non potrebbe paralizzare in via
riconvenzionale l’iniziativa avversaria;
e) l’esigenza di concentrazione in un unico giudizio,
caratterizzato dalla snellezza e celerità di cui al comma
2-bis dell’art. 120 c.p.a., tutte le questioni attinenti
alla fase di ammissione ed esclusione dei concorrenti, nel
rispetto del principio della parità della armi e della
effettività del contraddittorio, salvaguarda la natura
dell’impugnazione incidentale quale mezzo di tutela
dell’interesse che sorge in dipendenza della domanda
proposta in via principale.
(2) Ha chiarito la Sezione che in questa specifica materia,
l’applicabilità del principio della piena conoscenza ai fini
della decorrenza del termine di impugnazione, presuppone un
particolare rigore nell’accertamento della sussistenza di
tale requisito.
Occorre tener conto, infatti, sia della specialità della
normativa dettata dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., sia
dei presupposti in base ai quali lo stesso legislatore ha
ricondotto la decorrenza del termine per l’impugnazione: in
base al comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., infatti, il
termine inizia a decorrere solo dopo la pubblicazione, ex
art. 29 del Codice dei contratti pubblici, della
determinazione sulle ammissioni/esclusioni dei concorrenti,
pubblicazione che assicura la piena ed effettiva conoscenza
degli atti di gara.
Da ciò consegue che, il principio della piena conoscenza
acquisita aliunde, può applicarsi solo ove vi sia una
concreta prova dell’effettiva conoscenza degli atti di gara,
acquisita in data anteriore alla pubblicazione o
comunicazione degli atti della procedura di gara.
Pertanto, non può ritenersi sufficiente a far decorrere
l’onere di impugnare il provvedimento di ammissione alla
gara la mera presenza di un rappresentante della ditta alla
seduta in cui viene decretata l’ammissione, in mancanza
della specifica prova sulla percezione immediata ed
effettiva di tutte le irregolarità che, ove sussistenti,
possano aver inficiato le relative determinazioni (Cons.
St., sez. III, 26.01.2018, n. 565).
(3) Ha ricordato la Sezione che il ricorso incidentale, così come
delineato dall’art. 42 c.p.a., assolve alla funzione di
garantire alla parte resistente la conservazione
dell’assetto degli interessi realizzato dall’atto impugnato
in via principale.
L’interesse a ricorrere sorge solo a seguito della
proposizione del ricorso principale, il che comporta la sua
accessorietà rispetto al ricorso principale.
Oggetto del ricorso incidentale può essere o lo stesso
provvedimento impugnato dal ricorrente principale (per far
valere altri vizi) o anche atti diversi, purché siano
connessi con l’atto impugnato in via principale da un
rapporto di sopraordinazione o di presupposizione, quando la
caducazione di tali atti sia idonea a precludere
l’accoglimento del ricorso principale.
Il ricorso incidentale, quindi, presenta natura difensiva
rispetto all’impugnazione principale.
E’ dunque inammissibile il ricorso incidentale proposto
avverso l’ammissione alla gara di un concorrente diverso dal
ricorrente principale e che sia del tutto sganciata
dall’impugnazione principale, dovendo la posizione di tale
concorrente essere gravata con autonomo ricorso principale
(Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 27.03.2018 n. 1902
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La mera inerzia da parte dell’amministrazione
nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela
di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a
far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo)
è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare
un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al
proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto
amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa
giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio)
il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione
dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere
al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la
sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo
edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura
l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo
oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una
siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere
sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione,
deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di
demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata
sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e
attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è
del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia
adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato
carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano
sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel
diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura
la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto
il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza
degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata
conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire
meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio
gli atti previsti a salvaguardia del territorio.
Anche nel caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile
non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la
cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le
conclusioni sono le stesse.
Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale
della misura ripristinatoria della demolizione e la sua
precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario
rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in
cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità
della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il
responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga
all’amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere
motivazionale.
Ed infatti il carattere reale dell’abuso e la stretta
doverosità delle sue conseguenze non consentono di
valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità
soggettiva (la quale può –al contrario– rilevare a fini
diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle
ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile
dell’abuso e il suo avente causa).
In altri termini, le vicende di natura civilistica, aventi
per oggetto la titolarità di un bene, non incidono sul
doveroso esercizio del potere, conseguente alla violazione
delle regole urbanistiche ed edilizie.
---------------
1.‒ Con un primo ordine di motivi, gli appellanti lamentano che il
Comune, prima di ordinare la demolizione dell’opera abusiva,
avrebbe dovuto verificare se, per il lungo lasso di tempo
trascorso dalla commissione dell’abuso e stante la limitata
consistenza delle verande, si fosse ingenerato un
affidamento nei privati, ai quale l’immobile era peraltro
pervenuto soltanto dopo la realizzazione da parte dei
precedenti proprietari di tale strutture (rispetto alle
quali gli odierni appellanti avevano soltanto provveduto, al
momento dell’acquisto, nel 1988, ad eseguire opere di
manutenzione straordinaria).
1.1.‒ La censura non può essere accolta in forza delle
dirimenti considerazioni da ultimo espresse dall’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 9 del
2017.
La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio
di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti
finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire
legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin
dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare
un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al
proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto
amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa
giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio)
il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione
dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere
al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la
sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo
edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura
l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo
oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una
siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere
sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione,
deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di
demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata
sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e
attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è
del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia
adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato
carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano
sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel
diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura
la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto
il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza
degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata
conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire
meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio
gli atti previsti a salvaguardia del territorio.
Anche nel caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile
non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la
cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le
conclusioni sono le stesse.
Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale
della misura ripristinatoria della demolizione e la sua
precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario
rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in
cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità
della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il
responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga
all’amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere
motivazionale.
Ed infatti il carattere reale dell’abuso e la stretta
doverosità delle sue conseguenze non consentono di
valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità
soggettiva (la quale può –al contrario– rilevare a fini
diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle
ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile
dell’abuso e il suo avente causa).
In altri termini, le vicende di natura civilistica, aventi
per oggetto la titolarità di un bene, non incidono sul
doveroso esercizio del potere, conseguente alla violazione
delle regole urbanistiche ed edilizie (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 26.03.2018 n. 1893 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che, in
applicazione della legge 28.02.1985, n. 47, e già
prima della riforma del 1990, di cui si darà atto tra breve,
sia necessario il rilascio di un idoneo titolo abilitativo
edilizio per la realizzazione di strutture radiotelevisive.
Le opere, implicando una trasformazione del territorio con
una ‘nuova costruzione’, necessitano di essere assentite da
un adeguato titolo abilitativo, che era costituito a suo
tempo dalla concessione edilizia.
Si riteneva, pertanto necessario che chi avesse voluto
installare un impianto di trasmissione radiotelevisiva
avrebbe dovuto ottenere il rilascio sia dell'autorizzazione
ministeriale, sia della concessione edilizia.
L’art. 4 della legge n. 223 del 1990 ha, poi, riaffermato la
regola per la quale anche per la realizzazione degli
impianti radio-televisivi occorreva il previo rilascio di
una concessione edilizia.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha più volte
affermato, in applicazione della citata legge, che
l’installazione e l’esercizio di impianti di diffusione
sonora e televisiva sono soggetti alla necessità di due
autonome e distinte concessioni, quella radiotelevisiva e
quella urbanistica-edilizia, configurandosi la prima come
titolo di legittimazione a presentare istanza per la
seconda.
Il quadro normativo è mutato a seguito dell’entrata in
vigore del decreto legislativo 01.08.2003 n. 259 (Codice
delle comunicazioni elettroniche), i cui artt. 86 e 87, nel
disciplinare il rilascio di autorizzazioni relativamente
alle infrastrutture di comunicazione elettronica per
impianti radioelettrici, prevedono un procedimento autorizzatorio,
che assorbe e sostituisce il procedimento per il rilascio
del titolo abilitativo edilizio.
---------------
1.− La questione posta all’esame della Sezione attiene alla
legittimità degli atti con cui il Comune di Cinto Euganeo ha
disposto la demolizione della postazione radiotelevisiva
indicata nella parte in fatto.
2.− L’appello è infondato.
3.− Con il primo motivo si deduce l’erroneità della sentenza
impugnata nella parte in cui il primo giudice non ha
annullato entrambi i dinieghi di sanatoria, in quanto non
sarebbe stata necessaria alcuna concessione edilizia per
l’installazione delle opere, in quanto l’antenna
radiotelevisiva, di per sé, non determinerebbe né volume né
superficie.
Il motivo è infondato.
Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che, in
applicazione della legge 28.02.1985, n. 47, e già
prima della riforma del 1990, di cui si darà atto tra breve,
sia necessario il rilascio di un idoneo titolo abilitativo
edilizio per la realizzazione di strutture radiotelevisive.
Le opere, implicando una trasformazione del territorio con
una ‘nuova costruzione’, necessitano di essere assentite da
un adeguato titolo abilitativo, che era costituito a suo
tempo dalla concessione edilizia (Cons. Stato, sez. III, 27.03.2017, n. 1386; sez. VI, 18.05.2004, n. 3193).
Si riteneva, pertanto necessario che chi avesse voluto
installare un impianto di trasmissione radiotelevisiva
avrebbe dovuto ottenere il rilascio sia dell'autorizzazione
ministeriale, sia della concessione edilizia (Cons. Stato,
sez. V, 15.12.1986, n. 642).
L’art. 4 della legge n. 223 del 1990 ha, poi, riaffermato la
regola per la quale anche per la realizzazione degli
impianti radio-televisivi occorreva il previo rilascio di
una concessione edilizia.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha più volte
affermato, in applicazione della citata legge, che
l’installazione e l’esercizio di impianti di diffusione
sonora e televisiva sono soggetti alla necessità di due
autonome e distinte concessioni, quella radiotelevisiva e
quella urbanistica-edilizia, configurandosi la prima come
titolo di legittimazione a presentare istanza per la seconda
(Cons. Stato, sez. VI, 23.05.2006, n. 3077).
Il quadro normativo è mutato a seguito dell’entrata in
vigore del decreto legislativo 01.08.2003 n. 259 (Codice
delle comunicazioni elettroniche), i cui artt. 86 e 87, nel
disciplinare il rilascio di autorizzazioni relativamente
alle infrastrutture di comunicazione elettronica per
impianti radioelettrici, prevedono un procedimento autorizzatorio, che assorbe e sostituisce il procedimento
per il rilascio del titolo abilitativo edilizio (Cons.
Stato, sez. VI, 09.03.2010, n. 1387; id, 15.12.2009,
n. 7944).
Tale disciplina –nel prevedere comunque la necessità di
titoli in assenza dei quali l’impianto va rimosso- è
successiva alle date di emanazione dei provvedimenti
impugnati in primo grado, risalenti agli anni
ottanta/novanta, e, pertanto, è inapplicabile alla
fattispecie in esame ratione temporis.
Si tenga conto, inoltre, che il mutamento di normativa ha
inciso anche sulle stesse modalità di rilascio
dell’autorizzazione all’istallazione delle suddette
infrastrutture, che presuppone, appunto, una espressa
valutazione in ordine ai profili di rilevanza edilizia.
Nella specie la società ha realizzato un traliccio e un box
di servizio, stabile, visibile da luoghi circostanti, in
zona per di più soggetta a vincolo paesaggistico, i quali,
per la loro entità e l’incidenza sul territorio,
necessitano, alla luce del quadro giurisprudenziale
riportato, anche del suddetto titolo abilitativo (Cons.
Stato, sez. V, 06.04.1998, n. 415; sez. VI, 05.10.2001, n. 5253; sez. II, 10.12.2003, n. 2420; sez. VI,
18.05.2004, n. 3193; sez. VI, 08.10.2008, n. 4910)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 26.03.2018 n. 1887 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di sopravvenienza di un vincolo di
protezione, l’Amministrazione, competente ad esaminare
l’istanza di condono proposta ai sensi della legge n. 47 del
1985, deve acquisire il parere della Autorità preposta alla
tutela del vincolo sopravvenuto, la quale deve pronunciarsi,
tenendo conto del quadro normativo vigente al momento in cui
esercita i propri poteri consultivi.
Per quanto sussista l’onere procedimentale di acquisire il
necessario parere in ordine alla assentibilità della domanda
di sanatoria –a prescindere dall’epoca d’introduzione del
vincolo– l’autorità preposta deve esprimere non una
valutazione di “conformità” delle opere alle predette
previsioni, trattandosi di un vincolo non esistente al
momento della loro realizzazione, bensì un parere di
“compatibilità” paesaggistica dell’intervento edilizio
abusivo.
La giurisprudenza ha, dunque, più volte affermato la
rilevanza del vincolo, esistente al momento in cui la
domanda di sanatoria è valutata, a prescindere dall'epoca
della sua imposizione.
---------------
5.− Con il quarto motivo si deduce l’erroneità della
sentenza impugnata nella parte in cui il primo giudice non
avrebbe accertato l’illegittimità del diniego di sanatoria
ai sensi della legge 23.12.1994, n. 724, per
violazione dell'art. 19 del Piano ambientale dei Colli
Euganei, in quanto nel diniego sarebbe richiamato il parere
espresso dall'Ente Parco il 27.01.1995, che sarebbe
frutto di un'erronea interpretazione della disposizione
citata, la quale consentirebbe, nelle aree appositamente
individuate, la permanenza degli impianti radiotelevisivi
legittimamente esistenti, tra i quali si sarebbe dovuto
ricomprendere anche quello in questione.
L’appellante aggiunge che l’Ente parco si sarebbe espresso
d’ufficio e non su richiesta del Comune, con conseguente
impossibilità di una corretta e completa istruttoria.
Il motivo è infondato.
Nel caso di sopravvenienza di un vincolo di protezione,
l’Amministrazione, competente ad esaminare l’istanza di
condono proposta ai sensi della legge n. 47 del 1985, deve
acquisire il parere della Autorità preposta alla tutela del
vincolo sopravvenuto, la quale deve pronunciarsi, tenendo
conto del quadro normativo vigente al momento in cui
esercita i propri poteri consultivi (Cons. Stato, Ad. plen.,
22.07.1999, n. 20).
Per quanto sussista l’onere procedimentale di acquisire il
necessario parere in ordine alla assentibilità della domanda
di sanatoria –a prescindere dall’epoca d’introduzione del
vincolo– l’autorità preposta deve esprimere non una
valutazione di “conformità” delle opere alle predette
previsioni, trattandosi di un vincolo non esistente al
momento della loro realizzazione, bensì un parere di
“compatibilità” paesaggistica dell’intervento edilizio
abusivo (Cons. Stato, sez. VI, 30.09.2015, n. 4564).
La giurisprudenza ha, dunque, più volte affermato la
rilevanza del vincolo, esistente al momento in cui la
domanda di sanatoria è valutata, a prescindere dall'epoca
della sua imposizione (Cons. Stato, sez. VI, 25.10.2017
n. 4935; sez. VI, 22.01.2001, n. 181; sez. V, 27.03.2000, n. 1761).
Premesso ciò, deve rilevarsi che, ai sensi dell'art. 19
delle norme tecniche di attuazione del piano ambientale del
Parco regionale dei Colli Euganei, norma sopravvenuta
rispetto al momento di realizzazione dell'abuso, le
installazioni e gli impianti di emittenza radiotelevisiva
sono considerati «attività ad alto impatto ambientale» e per
gli stessi è ammessa la permanenza negli attuali siti solo
ove legittimamente esistenti.
Nel caso di specie, l'impianto non poteva ritenersi
legittimamente esistente, poiché era stato realizzato sulla
base di un'autorizzazione provvisoria, scaduta nel 1983, che
prevedeva la riduzione in pristino dello stato dei luoghi.
Ne consegue che l’amministrazione procedente, preso atto dei
pareri sfavorevoli delle autorità preposte alla tutela del
vincolo paesaggistico, ha doverosamente denegato il rilascio
delle concessioni in sanatoria.
Per quanto attiene, infine, alla circostanza relativa alla
pronuncia d’ufficio da parte dell’Ente parco, va rilevato
che ciò non realizza alcuna illegittimità in mancanza della
prova puntuale che ciò si sarebbe risolto nella violazione
delle regole che presiedono allo svolgimento
dell’istruttoria procedimentale
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 26.03.2018 n. 1887 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il riconoscimento del
carattere di opere di pubblica utilità delle infrastrutture
di reti pubbliche di comunicazione, e l’assimilazione alle
opere di urbanizzazione primaria, non implicano che gli
interventi in questione possano essere localizzati
indiscriminatamente in ogni sito del territorio comunale,
perché la realizzazione dell’opera di pubblica utilità può
risultare incompatibile con la tutela dei beni ambientali e
culturali.
---------------
6.− Con il quinto motivo si deduce l’erroneità della
sentenza impugnata nella parte in cui il primo giudice non
avrebbe accertato la violazione della legge n. 223 del 1990,
in quanto «il giudice di primo grado non ha considerato che
il decreto legislativo n. 259 del 2003 assimila i manufatti
di cui si controverte alle opere di urbanizzazione
primaria».
Si è aggiunto che l’impianto avrebbe già ottenuto
l’autorizzazione ai sensi della legge n. 223 del 1990.
Il motivo è infondato.
L’appellante, anche nell’atto di appello, richiama il d.lgs.
n. 259 del 2003 che, per le ragioni già esposte, non si
applica nella fattispecie in esame.
In ogni caso, il riconoscimento del carattere di opere di
pubblica utilità delle infrastrutture di reti pubbliche di
comunicazione, e l’assimilazione alle opere di
urbanizzazione primaria, non implicano che gli interventi in
questione possano essere localizzati indiscriminatamente in
ogni sito del territorio comunale, perché la realizzazione
dell’opera di pubblica utilità può risultare incompatibile
con la tutela dei beni ambientali e culturali
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 26.03.2018 n. 1887 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha avuto modo di affermare che, «nel
caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione,
la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio
di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti
finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire
legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin
dall’origine illegittimo».
Tale
inerzia non può certamente radicare un affidamento di
carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso,
giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole
idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente
qualificata.
Infatti, nel caso di commissione di un abuso edilizio
l’ordinamento prevede sanzioni amministrative, oltre che
penali, e non si può dolere del fatto che l’Amministrazione
–emanando a distanza di tempo gli atti repressivi– abbia
consentito l’utilizzazione delle opere che non dovevano
essere realizzate e che debbano essere rimosse.
---------------
9.− Con l’ottavo motivo, si afferma che sarebbe mancato il
giudizio di bilanciamento degli interessi in conflitto e, in
particolare, non sarebbe stato preso in considerazione
l’affidamento ingenerato nel privato dal lungo tempo
trascorso.
Il motivo non è fondato.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza
17.10.2017, n. 9, ha avuto modo di affermare che, «nel
caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione,
la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio
di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti
finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire
legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin
dall’origine illegittimo».
Allo stesso modo, la citata sentenza ha aggiunto che «tale
inerzia non può certamente radicare un affidamento di
carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso,
giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole
idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente
qualificata».
Infatti, nel caso di commissione di un abuso edilizio
l’ordinamento prevede sanzioni amministrative, oltre che
penali, e non si può dolere del fatto che l’Amministrazione
–emanando a distanza di tempo gli atti repressivi– abbia
consentito l’utilizzazione delle opere che non dovevano
essere realizzate e che debbano essere rimosse.
Applicando questi principi anche nella fattispecie in esame,
ne discende l’irrilevanza del profilo soggettivo fatto
valere con la censura in esame
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 26.03.2018 n. 1887 - link a
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APPALTI:
Responsabilità precontrattuale per mancata stipula del
contratto a seguito di informativa antimafia.
---------------
●
Processo amministrativo – Riti – Risarcimento danni per
mancata stipula contratto – conseguente a richiesta
interdittiva antimafia – Artt. 119, comma 1, lett. a), e 120
c.p.a. – Inapplicabilità.
●
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica
amministrazione – responsabilità precontrattuale – Mancata
stipula del contratto – Per informativa antimafia –
Volontariamente chiesta dall’Amministrazione – Non spetta.
●
La controversia avente ad oggetto l’azione di risarcimento
danni per la mancata stipula di un contratto di appalto per
lavori conseguente a richiesta di informativa antimafia,
successivamente intervenuta, non riguarda la procedura di
affidamento, con la conseguenza che alla stessa non si
applica il rito abbreviato previsto dagli artt. 119, comma
1, lett. a), e 120 c.p.a., mancando la ratio per la quale il
legislatore ha ritenuto di favorire, in deroga ai termini
processuali ordinari, una più rapida tutela degli interessi
pubblici in ambiti individuati (1).
●
La mancata stipula di un contratto per lavori
conseguente a richiesta di informativa antimafia,
successivamente intervenuta, non è produttiva di danno
risarcibile stante la possibilità dell’Amministrazione di
acquisire l’informativa prefettizia al fine di evitare di
stipulare il contratto con un soggetto che poteva presentare
controindicazioni secondo la normativa antimafia; né il
mancato rispetto del termine di sessanta giorni per la
stipulazione negoziale integra di per sé un’ipotesi di
responsabilità precontrattuale, spettando al presunto
danneggiato dimostrare che il ritardo nella stipulazione sia
manifestazione di una condotta antigiuridica
dell’amministrazione lesiva del proprio legittimo
affidamento (2).
---------------
(1) Cfr.
Cons. St., sez. IV 30.12.2016, n. 5551.
(2) Ha chiarito la Sezione che trattandosi di impresa operante in
un ambito territoriale ad alta incidenza da parte della
criminalità organizzata, la valutazione operata dalla
stazione appaltante non si appalesa illogica o
irragionevole, ma anzi risulta pienamente condivisibile,
atteso che –ove l’impresa fosse stata interdetta– il Comune
avrebbe dovuto procedere alla revoca dell’aggiudicazione e
alla risoluzione del contratto con effetti negativi sulla
realizzazione dell’opera pubblica.
Ne consegue che la scelta di acquisire in via facoltativa il
provvedimento prefettizio non può costituire comportamento
illecito produttivo di danno.
Ovviamente l’acquisizione dell’informativa antimafia ha
comportato un ritardo nella stipulazione del contratto,
tenuto conto dei termini necessari per lo svolgimento della
complessa istruttoria da parte del Prefetto.
Tale circostanza non integra però di per sé fonte di
responsabilità risarcibile atteso che il termine di sessanta
giorni, previsto dall’art. 11, comma 9, d.lgs. 12.04.2006,
n. 163 per la stipula del contratto non ha natura
perentoria, né alla sua inosservanza può farsi risalire ex
se un’ipotesi di responsabilità precontrattuale ex lege
della Pubblica amministrazione, se non in costanza di tutti
gli elementi necessari per la sua configurabilità. Infatti,
le conseguenze che derivano in via diretta dall’inutile
decorso del detto termine sono: da un lato, la facoltà
dell'aggiudicatario, mediante atto notificato alla stazione
appaltante, di sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal
contratto; dall’altro, il diritto al rimborso delle spese
contrattuali documentate, senza alcun indennizzo (Cons.
St., sez. III, 28.05.2015, n. 2671).
E’ noto, infatti, che la responsabilità precontrattuale
ricorre nel caso in cui prima della stipulazione
contrattuale il presunto danneggiante, violando il principio
di correttezza e buona fede, leda il legittimo affidamento
maturato da controparte nella conclusione del contratto. In
tal caso però il mancato rispetto del termine risulta
pienamente giustificato dalle esigenze antimafia, e dunque
non può integrare gli estremi di una condotta illecita
(Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 26.03.2018 n. 1882
- commento tratto da e link a
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---------------
10. - L’eccezione è infondata.
La controversia in questione non riguarda la procedura di
affidamento –peraltro già conclusasi con l’aggiudicazione–
ma attiene esclusivamente all’azione risarcitoria proposta
dalla ricorrente: ciò comporta l’inapplicabilità a questo
giudizio del rito abbreviato di cui all’art. 119, comma 1,
lettera a), c.p.a., mancando la ratio per la quale il
legislatore ha ritenuto di favorire, in deroga ai termini
processuali ordinari, una più rapida tutela degli interessi
pubblici in ambiti individuati (cfr. Cons. Stato, Sez. IV
30/12/2016 n. 5551).
11. - L’appello, benché ammissibile, è comunque infondato e,
dunque, la sentenza di primo grado va confermata, anche se
con diversa motivazione.
Il Comune di Reggio Calabria, avendo acquisito mediante
notizie di stampa dell’esistenza di vicende giudiziarie che
avevano interessato la società -OMISSIS-, prudenzialmente ha
ritenuto di acquisire l’informativa prefettizia al fine di
evitare di stipulare il contratto con un soggetto che poteva
presentare controindicazioni secondo la normativa antimafia.
Occorre considerare, infatti, dal punto di vista prettamente
probabilistico, che trattandosi di impresa operante in un
ambito territoriale ad alta incidenza da parte della
criminalità organizzata, la valutazione operata dalla
stazione appaltante non si appalesa illogica o
irragionevole, ma anzi risulta pienamente condivisibile,
atteso che –ove l’impresa fosse stata interdetta– il
Comune avrebbe dovuto procedere alla revoca
dell’aggiudicazione e alla risoluzione del contratto con
effetti negativi sulla realizzazione dell’opera pubblica.
Ne consegue che la scelta di acquisire in via facoltativa il
provvedimento prefettizio non può costituire comportamento
illecito produttivo di danno.
Ovviamente l’acquisizione dell’informativa antimafia ha
comportato un ritardo nella stipulazione del contratto,
tenuto conto dei termini necessari per lo svolgimento della
complessa istruttoria da parte del Prefetto.
Deve però ritenersi, conformemente a quanto ritenuto in
giurisprudenza, che sebbene l’art. 11, comma 9, d.lgs.
163/2006, indichi il termine di sessanta giorni dal momento
in cui diviene definitiva l’aggiudicazione per la stipula
del contratto, tale termine non ha natura perentoria, né
alla sua inosservanza può farsi risalire ex sé un’ipotesi di
responsabilità precontrattuale ex lege della pubblica
amministrazione, se non in costanza di tutti gli elementi
necessari per la sua configurabilità. Infatti, le
conseguenze che derivano in via diretta dall’inutile decorso
del detto termine sono: da un lato, la facoltà
dell'aggiudicatario, mediante atto notificato alla stazione
appaltante, di sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal
contratto; dall’altro, il diritto al rimborso delle spese
contrattuali documentate, senza alcun indennizzo (cfr. ex
multis, Cons. St., Sez. III, 28.05.2015, n. 2671).
Pertanto, il mancato rispetto del termine di sessanta giorni
per la stipulazione negoziale non integra di per sé
un’ipotesi di responsabilità precontrattuale, spettando al
presunto danneggiato dimostrare che il ritardo nella
stipulazione sia manifestazione di una condotta
antigiuridica dell’amministrazione lesiva del proprio
legittimo affidamento (Cons. Stato Sez. V, 31.08.2016, n.
3742; Cons. Stato, Sez. III, 28.05.2015, n. 2671).
E’ noto, infatti, che la responsabilità precontrattuale
ricorre nel caso in cui prima della stipulazione
contrattuale il presunto danneggiante, violando il principio
di correttezza e buona fede, leda il legittimo affidamento
maturato da controparte nella conclusione del contratto.
Sebbene sia condivisibile la tesi secondo cui, la previsione
di un termine per la stipulazione del contratto assolve alla
funzione di tutelare anche l’aggiudicatario, il quale non
può restare vincolato per un termine indeterminato alle
determinazioni della stazione appaltante, nondimeno nel caso
di specie il mancato rispetto del termine (sollecitatorio)
di sessanta giorni risulta pienamente giustificato dalle
esigenze antimafia, e dunque non può integrare gli estremi
di una condotta illecita.
All’esito dell’istruttoria, infatti, la Prefettura ha
adottato un provvedimento interdittivo, a dimostrazione
della correttezza della valutazione prudenziale del Comune
di Reggio Calabria.
Occorre poi considerare che la norma dell’art. 11, comma 9,
del D.Lgs. 163/2006 non lascia l’impresa aggiudicataria “in
balia” della stazione appaltante, ma le consente di
recedere dal vincolo derivante dall’aggiudicazione ottenendo
anche il rimborso delle spese sostenute.
E’ lo stesso legislatore a disciplinare il bilanciamento
degli opposti interessi consentendo all’impresa di evitare
l’immobilizzazione dell’intera organizzazione aziendale
nell’attesa della stipulazione del contratto, ricorrendo al
recesso in modo da poter utilizzare le proprie risorse per
ulteriori commesse.
Né può ritenersi che il comportamento produttivo di danno
possa derivare -dopo il decorso di 45 giorni dalla richiesta
del provvedimento prefettizio- dalla mancata stipulazione
del contratto con l’apposizione della condizione risolutiva
prevista dall’art. 11 del D.P.R. n. 252/98: il ricorso a
tale misura è, infatti, meramente facoltativo per la
stazione appaltante, la quale vi ricorre in caso di urgenza,
situazione che –evidentemente– nel caso di specie non
sussisteva.
Nella fattispecie il Comune aveva, evidentemente, interesse
prioritario a non contrattare con un soggetto che avrebbe
potuto essere inaffidabile.
Né appare persuasiva la tesi dell’appellante secondo cui
essa non fosse a conoscenza delle ragioni per le quali la
stazione appaltante aveva ritardato la stipulazione del
contratto: l’impresa non poteva non essere conscia delle
vicende giudiziarie che l’avevano colpita e che avevano
indotto il Comune ad adottare una particolare cautela.
Ne consegue che non si era maturato un legittimo affidamento
in capo all’aggiudicataria circa la stipulazione del
contratto.
12. - Pertanto, sebbene possa convenirsi con l’appellante
che la motivazione addotta dal TAR per il rigetto della
domanda risarcitoria non trovi fondamento negli atti di
causa, nondimeno non sussiste la responsabilità
precontrattuale per le ragioni in precedenza esposte, alle
quali va aggiunto che il protrarsi dell’attesa è derivato
dalla scelta della stessa impresa, che avrebbe potuto
sciogliersi dal vincolo ben prima.
A fronte dell’aggiudicazione del 18.01.2011, il recesso è
intervenuto, infatti, solo il 04.07.2011, a distanza di
mesi.
Il volontario recesso operato dall’aggiudicataria esclude,
infine, l’ipotizzabilità di un danno da mancata esecuzione
della prestazione, tenuto conto che tale scelta è idonea di
per sé a recidere il nesso causale tra la condotta della
stazione appaltante e l’evento dannoso.
13. - Ne consegue che l’appello va respinto, e per l’effetto
va confermata, con diversa motivazione, la sentenza di primo
grado. La domanda risarcitoria va quindi respinta, mentre
deve essere accolta la domanda proposta in primo grado,
assorbita dal TAR, e riproposta in appello ai sensi
dell’art. 101, comma 2, c.p.a., diretta ad ottenere il
rimborso delle spese documentate, sostenute per la
partecipazione alla gara.
Il Comune di Reggio Calabria dovrà quindi provvedere ad
acquisire la documentazione probatoria attestante le spese
sostenute dalla società -OMISSIS- per la partecipazione alla
procedura selettiva in questione, e dovrà quindi provvedere
a rimborsarle alla società stessa. |
EDILIZIA PRIVATA:
Non vi è dubbio che il controinteressato non
abbia il potere di inibire l’ostensione dei titoli edilizi,
sicché il fatto in sé della sua “ferma opposizione” non è
circostanza che possa assumere autonoma ed assorbente
rilevanza ai fini del diniego di accesso agli atti, essendo
comunque onerata l’amministrazione dell’obbligo di valutare
i contrapposti interessi, al fine di individuare quello
prevalente.
---------------
Nella specie il ricorrente era sicuramente legittimato
all’accesso in qualità di proprietario confinante
all’immobile interessato dall’attività edilizia assentita
dall’amministrazione comunale, avendo il medesimo
esplicitamente fatto riferimento all’esigenza di tutelare la
propria posizione soggettiva, ciò che vale a radicare una
posizione di interesse, che non può essere sindacata dal
giudice amministrativo sotto il profilo della individuazione
e della valutazione degli strumenti di tutela potenzialmente
attivabili e della relativa tempestività: “Il diritto di
accesso non è meramente strumentale alla proposizione di
un'azione giudiziale, ma assume un carattere autonomo
rispetto ad essa. Ciò significa che il rimedio speciale
previsto a tutela del diritto di accesso deve ritenersi
consentito anche se l'interessato non può più agire, o non
possa ancora agire, in sede giurisdizionale, in quanto
l'autonomia della domanda di accesso comporta che il
giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve
verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di
accesso e non anche la possibilità di utilizzare gli atti
richiesti in un giudizio”.
---------------
Quanto poi al fatto che gli interventi edilizi in questione
siano oggetto di una indagine penale, si osserva che detta
circostanza, cui fa riferimento la difesa del comune, è
estranea al fuoco motivazionale del provvedimento di diniego
e comunque non impedisce l’ostensione dei documenti, dal
momento che non vi è prova che il comune abbia perso la
disponibilità degli atti oggetto dell’istanza di accesso:
“L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé,
la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che
in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti
oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato
disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono
risultare sottratti al diritto di accesso”.
---------------
Con istanza in data 19.10.2017 il sig. Gu.Cl.,
in qualità di proprietario confinante, chiedeva al comune di Carlopoli che venisse consentito l’accesso alla
documentazione relativa al progetto di demolizione e
ricostruzione del fabbricato sito in via Roma della Frazione
Castagna di Carlopoli (foglio 6, part. 737, sub 2 e 3), ed
alla successiva S.C.I.A. e relativo progetto di variante in
corso d’opera, al fine di tutelare i propri diritti
dominicali, siccome esposti a pregiudizio a seguito degli
interventi edilizi oggetto di assenso da parte
dell’amministrazione comunale.
Con nota prot. n. 3472 del 28.11.2107 il comune denegava
l’accesso ai documenti in ragione della opposizione
formulata dalla controinteressata sig.ra Ma.Ma.Cr..
Avverso il predetto diniego ha proposto ricorso il sig.
Gu., lamentando la carenza di motivazione del
provvedimento, di cui pertanto ha chiesto l’annullamento con
contestuale accertamento del proprio diritto all’ostensione
e conseguente condanna dell’amministrazione al rilascio di
copia dei documenti.
Si è costituito in giudizio il comune di Carlopoli, che ha
eccepito la mancanza di un interesse differenziato
all’accesso in capo al ricorrente, stante la scadenza del
termine per l’impugnazione dei titoli edilizi e comunque in
ragione dell’avvenuta ultimazione degli interventi in
questione, nonché la non ostensibilità degli atti in quanto
interessati da una indagine penale aventi ad oggetto la
relativa attività edilizia.
Il ricorso è fondato.
Non vi è dubbio che il controinteressato non abbia il potere
di inibire l’ostensione dei titoli edilizi, sicché il fatto
in sé della sua “ferma opposizione” non è circostanza che
possa assumere autonoma ed assorbente rilevanza ai fini del
diniego di accesso agli atti, essendo comunque onerata
l’amministrazione dell’obbligo di valutare i contrapposti
interessi, al fine di individuare quello prevalente.
Nella specie il ricorrente era sicuramente legittimato
all’accesso in qualità di proprietario confinante
all’immobile interessato dall’attività edilizia assentita
dall’amministrazione comunale, avendo il medesimo
esplicitamente fatto riferimento all’esigenza di tutelare la
propria posizione soggettiva, ciò che vale a radicare una
posizione di interesse, che non può essere sindacata dal
giudice amministrativo sotto il profilo della individuazione
e della valutazione degli strumenti di tutela potenzialmente
attivabili e della relativa tempestività: “Il diritto di
accesso non è meramente strumentale alla proposizione di
un'azione giudiziale, ma assume un carattere autonomo
rispetto ad essa. Ciò significa che il rimedio speciale
previsto a tutela del diritto di accesso deve ritenersi
consentito anche se l'interessato non può più agire, o non
possa ancora agire, in sede giurisdizionale, in quanto
l'autonomia della domanda di accesso comporta che il
giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve
verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di
accesso e non anche la possibilità di utilizzare gli atti
richiesti in un giudizio” (TAR Palermo, Sez. I, 15.01.2016
n. 125).
Quanto poi al fatto che gli interventi edilizi in questione
siano oggetto di una indagine penale, si osserva che detta
circostanza, cui fa riferimento la difesa del comune, è
estranea al fuoco motivazionale del provvedimento di diniego
e comunque non impedisce l’ostensione dei documenti, dal
momento che non vi è prova che il comune abbia perso la
disponibilità degli atti oggetto dell’istanza di accesso:
“L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé,
la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che
in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti
oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato
disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono
risultare sottratti al diritto di accesso” (TAR Catania,
Sez. III, 01.02.2017 n. 229).
Per le suddette ragioni il ricorso merita di essere accolto
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 26.03.2018 n. 757 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il certificato di agibilità non assume una
capacità sanante dei vizi che affliggono un titolo edilizio,
il cui annullamento all’esito dell’impugnazione
giurisdizionale si ripercuote inevitabilmente sul primo, con
effetto caducante, stante la relazione di stretta
consequenzialità.
---------------
La Società ricorrente censura il provvedimento comunale 18/03/2015,
di rilascio del permesso di costruire in sanatoria per la
realizzazione del sopralzo di un sottotetto e di un balcone.
0. Si premette che, come ha messo in evidenza la parte
ricorrente, il certificato di agibilità non assume una
capacità sanante dei vizi che affliggono un titolo edilizio,
il cui annullamento all’esito dell’impugnazione
giurisdizionale si ripercuote inevitabilmente sul primo, con
effetto caducante, stante la relazione di stretta
consequenzialità (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia –
22/04/2015 n. 188, confermata da Consiglio di Stato, sez. VI
– 09/08/2016 n. 3559).
Pertanto, non ha alcun rilievo l’omessa tempestiva
proposizione di un ricorso avverso il certificato suddetto (TAR Lombardia-Brescia, Sez.
I,
sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In linea generale non
sussiste, ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, l’obbligo di notiziare dell’attivazione del
procedimento per il rilascio del titolo edilizio i soggetti
viciniori dell’istante i quali, pur essendo legittimati
all’impugnazione, non rivestono nemmeno la qualifica di
controinteressati in senso tecnico.
Invero, è stato precisato che "ove sia stata
proposta una domanda di concessione edilizia, il vicino del
richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire
nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie
l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio
del procedimento".
E’ stato altresì
puntualizzato che i vicini non sono annoverabili tra i
soggetti destinatari della comunicazione ex art. 7 della L.
241/1990, pur quando si tratti di soggetti che si siano in
precedenza opposti all’attività edilizia del proprietario
confinante, giacché l’estensione ad essi della predetta
informativa comporterebbe un aggravio procedimentale in
contrasto con i principi di economicità e di efficienza
dell’attività amministrativa.
Certamente, il principio generale appena illustrato può
subire eccezioni per la specificità e peculiarità della
vicenda dalla quale trae giustificazione l’affermazione
dell’obbligo comunicativo, come ad esempio nel caso della
natura abusiva di un manufatto oggetto di condono –accertata da un giudicato amministrativo–
che il Comune avrebbe dovuto demolire.
Ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, la notizia
dell’impulso dato al procedimento deve pervenire ai soggetti
nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti e a quelli che per legge debbono
intervenirvi, nonché ai soggetti individuati o facilmente
individuabili –diversi dai primi– ai quali possa derivare
un pregiudizio dallo stesso provvedimento.
---------------
La Società ricorrente censura il provvedimento comunale 18/03/2015,
di rilascio del permesso di costruire in sanatoria per la
realizzazione del sopralzo di un sottotetto e di un balcone.
...
1. Il primo motivo non è suscettibile di positivo
apprezzamento.
1.1 In linea generale non sussiste, ai sensi dell’art. 7
della L. 241/1990, l’obbligo di notiziare dell’attivazione del
procedimento per il rilascio del titolo edilizio i soggetti
viciniori dell’istante i quali, pur essendo legittimati
all’impugnazione, non rivestono nemmeno la qualifica di
controinteressati in senso tecnico (Consiglio di Stato, sez.
IV – 20/07/2017 n. 3573, che richiama sez. VI – 10/04/2014 n.
1718, con la quale aveva precisato che, ove sia stata
proposta una domanda di concessione edilizia, il vicino del
richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire
nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie
l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio
del procedimento; si veda nello stesso senso TAR Piemonte
– sez. II – 26/02/2016 n. 230).
E’ stato altresì
puntualizzato che i vicini non sono annoverabili tra i
soggetti destinatari della comunicazione ex art. 7 della L.
241/1990, pur quando si tratti di soggetti che si siano in
precedenza opposti all’attività edilizia del proprietario
confinante, giacché l’estensione ad essi della predetta
informativa comporterebbe un aggravio procedimentale in
contrasto con i principi di economicità e di efficienza
dell’attività amministrativa (cfr. TAR Calabria
Catanzaro, sez. II – 21/03/2017 n. 497; TAR Emilia Romagna-Parma –
04/04/2017 n. 127; TAR Lombardia Milano, sez. II –
14/06/2017 n. 1348; TAR Emilia Romagna-Bologna, sez. I – 02/11/2017 n. 722).
1.2 Certamente, il principio generale appena illustrato può
subire eccezioni per la specificità e peculiarità della
vicenda dalla quale trae giustificazione l’affermazione
dell’obbligo comunicativo, come ad esempio nel caso della
natura abusiva di un manufatto oggetto di condono –accertata da un giudicato amministrativo– che il Comune
avrebbe dovuto demolire (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI –
07/08/2015 n. 3891).
1.3 Ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, la notizia
dell’impulso dato al procedimento deve pervenire ai soggetti
nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti e a quelli che per legge debbono
intervenirvi, nonché ai soggetti individuati o facilmente
individuabili –diversi dai primi– ai quali possa derivare
un pregiudizio dallo stesso provvedimento.
Questo Collegio
non ritiene che, nel caso di specie, dalle note depositate
dalla ricorrente il 29/08/2014 e il 13/02/2015 potessero
evincersi chiaramente e univocamente gli effetti dannosi
provocati dalle opere nei suoi confronti: in occasione delle
due segnalazioni/istanze di accesso, -OMISSIS- non ha
fornito sufficienti indicazioni sul punto, avendo fatto
riferimento ai lavori in corso (sui quali non aveva dato la
necessaria autorizzazione in quanto comproprietaria della
copertura), al pericolo di caduta di materiale e alla
necessità di verificare il rispetto delle NTA su distanze,
altezze e sicurezza.
Appare insufficiente la generica
deduzione di una violazione afferente a interessi pur
rilevanti, che non dà conto della rilevante incisione su
beni giuridici di appartenenza (e l’effettività e la
concretezza dei pregiudizi sono state adeguatamente
rappresentate soltanto con la proposizione del ricorso) (TAR Lombardia-Brescia, Sez.
I,
sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio è propenso ad
accogliere l’opinione che, per la costituzione di un
condominio, si possa prescindere da un atto formale qualora
sussistano più parti di un edificio in comunione pro
indiviso, essendo l’istituto configurabile anche tra edifici
strutturalmente autonomi, appartenenti ciascuno a singoli
soggetti, tra i quali vi siano opere comuni, pur se
distaccate, destinate al loro godimento e servizio.
---------------
In tema di condominio, l’art. 1127, comma 1, del c.c.
prevede che “il proprietario dell’ultimo piano dell'edificio
può elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti
altrimenti dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è
proprietario esclusivo del lastrico solare”.
I commi 2 e 3 prevedono quanto segue: “La sopraelevazione
non è ammessa se le condizioni statiche dell'edificio non la
consentono. I condomini possono altresì opporsi alla
sopraelevazione, se questa pregiudica l'aspetto
architettonico dell'edificio ovvero diminuisce notevolmente
l'aria o la luce dei piani sottostanti”.
La nozione di sopraelevazione, oggetto della disciplina
appena riportata, trova applicazione nei casi in cui il
proprietario dell’ultimo piano dell’edificio condominiale
esegua nuovi piani o nuove fabbriche, ovvero trasformi
locali preesistenti aumentandone le superfici e le
volumetrie.
La ratio giustificatrice della norma va ricercata nel fatto
che la sopraelevazione sfrutta lo spazio sovrastante
l'edificio ed occupa la colonna d'aria su cui esso insiste,
per cui l’esercizio di tale diritto non resta subordinato
alla prestazione del consenso da parte degli altri condomini
purché non sia compromessa la statica e l'architettura dello
stabile e non siano presenti limitazioni alla luce o
all'aria del sottostante appartamento.
---------------
La giurisprudenza amministrativa si è pronunciata sul
diritto del condomino, proprietario dell’ultimo piano, di
sopraelevare come disciplinato dall'art. 1127 c.c., in
quanto la questione non ha carattere solo civilistico, ma
incide sulle condizioni per il rilascio del titolo
abilitativo.
In proposito, ha puntualizzato che, se si ritiene, come
precisato dalla Corte di Cassazione, che il proprietario
dell'ultimo piano possa sopraelevare senza il consenso degli
altri condomini, “ne deriva che anche l'autorizzazione alla
costruzione dell'antenna possa prescindere dalla prova della
proprietà esclusiva del tetto, essendo necessario e
sufficiente che l'istante sia proprietario dell'ultimo
piano, ….”.
Più in generale, la facoltà di sopraelevare spetta ex lege
al proprietario dell’ultimo piano dell'edificio (o al
proprietario esclusivo del lastrico solare) e il suo
esercizio, che non necessita di alcun riconoscimento da
parte degli altri condomini, può essere precluso soltanto in
forza di un'espressa pattuizione che, in sostanza,
costituisca una servitù altius non tollendi a favore degli
stessi.
Nel caso di specie, da un lato non sussiste tra i condomini
un precedente accordo in senso contrario, e dall’altro non
viene dimostrato –in positivo– un pregiudizio statico o di
decoro (la Commissione per il Paesaggio ha emesso parere
positivo) o di igiene dell’edificio.
Pertanto, gli odierni controinteressati erano titolari del
diritto a sopraelevare.
---------------
La Società ricorrente censura il provvedimento comunale 18/03/2015,
di rilascio del permesso di costruire in sanatoria per la
realizzazione del sopralzo di un sottotetto e di un balcone.
...
2. Anche la seconda censura non è passibile di positivo
scrutinio.
2.1 Il Collegio è propenso ad accogliere l’opinione che, per
la costituzione di un condominio, si possa prescindere da un
atto formale qualora sussistano più parti di un edificio in
comunione pro indiviso, essendo l’istituto configurabile
anche tra edifici strutturalmente autonomi, appartenenti
ciascuno a singoli soggetti, tra i quali vi siano opere
comuni, pur se distaccate, destinate al loro godimento e
servizio (cfr. Corte di Cassazione, sez. II civile –
14/12/2017 n. 30046 che richiama Corte di Cassazione, sez.
II civile – 12/11/1998 n. 11407): come hanno sottolineato i
controinteressati, nel caso di specie sussistono tutti i
presupposti sostanziali per definire “condominio” il
complesso composto dall’edificio le cui unità immobiliari
appartengono ad -OMISSIS- S.r.l. e ai Sig.ri -OMISSIS- e
-OMISSIS-, nonché ad altri soggetti.
Infatti, anche se il
compendio contempla gli appartamenti in blocchi separati e
autonomi tra loro, nell’atto notarile 30/12/2010 (doc. 3
ricorrente - pagina 1) si dà atto della comproprietà delle
corti comuni (sub. 5, 18 e 19 del mappale 58).
2.2 Sotto altro versante, appare acclarato in base alle
deduzioni delle parti e agli atti di causa che l’assemblea è
stata convocata e che la ricorrente non vi ha partecipato,
dopo aver ricevuto l’avviso oltre il termine minimo (pari a
5 giorni) normativamente previsto. In ogni caso, è pacifico
che -OMISSIS- non ha manifestato alcun consenso alla
realizzazione dell’intervento.
Sul punto, a prescindere
dalla perdurante impugnabilità della deliberazione
assembleare, si tratta di chiarire se è necessario il
consenso unanime dei condomini o comunque l’approvazione del
soggetto che può ricevere un incisivo pregiudizio (come il
ricorrente, immediato confinante che occupa i piani
immediatamente inferiori dell’edificio oggetto di
sopraelevazione).
Il Collegio ritiene di dare al quesito risposta negativa.
2.3 In tema di condominio, l’art. 1127, comma 1, del c.c.
prevede che “il proprietario dell’ultimo piano dell'edificio
può elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti
altrimenti dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è
proprietario esclusivo del lastrico solare”.
I commi 2 e 3
prevedono quanto segue: “La sopraelevazione non è ammessa se
le condizioni statiche dell'edificio non la consentono. I
condomini possono altresì opporsi alla sopraelevazione, se
questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio
ovvero diminuisce notevolmente l'aria o la luce dei piani
sottostanti”.
La nozione di sopraelevazione, oggetto della
disciplina appena riportata, trova applicazione nei casi in
cui il proprietario dell’ultimo piano dell’edificio
condominiale esegua nuovi piani o nuove fabbriche, ovvero
trasformi locali preesistenti aumentandone le superfici e le
volumetrie. La ratio giustificatrice della norma va
ricercata nel fatto che la sopraelevazione sfrutta lo spazio
sovrastante l'edificio ed occupa la colonna d'aria su cui
esso insiste (Tribunale di Trento – 11/07/2017), per cui
l’esercizio di tale diritto non resta subordinato alla
prestazione del consenso da parte degli altri condomini
purché non sia compromessa la statica e l'architettura dello
stabile e non siano presenti limitazioni alla luce o
all'aria del sottostante appartamento (Consiglio di Stato,
sez. IV – 09/05/2017 n. 2118).
2.4 La giurisprudenza amministrativa si è pronunciata sul
diritto del condomino, proprietario dell’ultimo piano, di
sopraelevare come disciplinato dall'art. 1127 c.c., in
quanto la questione non ha carattere solo civilistico, ma
incide sulle condizioni per il rilascio del titolo
abilitativo.
In proposito, TAR Calabria Catanzaro, sez. I
– 19/11/2015 n. 1749 ha puntualizzato che, se si ritiene,
come precisato dalla Corte di Cassazione, che il
proprietario dell'ultimo piano possa sopraelevare senza il
consenso degli altri condomini, “ne deriva che anche
l'autorizzazione alla costruzione dell'antenna possa
prescindere dalla prova della proprietà esclusiva del tetto,
essendo necessario e sufficiente che l'istante sia
proprietario dell'ultimo piano, ….”.
Più in generale, la
facoltà di sopraelevare spetta ex lege al proprietario
dell’ultimo piano dell'edificio (o al proprietario esclusivo
del lastrico solare) e il suo esercizio, che non necessita
di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini, può
essere precluso soltanto in forza di un'espressa pattuizione
che, in sostanza, costituisca una servitù altius non
tollendi a favore degli stessi (TAR Liguria, sez. I –
09/07/2015 n. 651, che richiama TAR Sardegna, sez. II –
14/03/2013 n. 224).
Nel caso di specie, da un lato non
sussiste tra i condomini un precedente accordo in senso
contrario, e dall’altro non viene dimostrato –in positivo–
un pregiudizio statico o di decoro (la Commissione per il
Paesaggio ha emesso parere positivo) o di igiene
dell’edificio. Ulteriori riflessioni su tali aspetti saranno
sviluppate con l’esame dell’ultimo motivo di ricorso.
Pertanto, gli odierni controinteressati erano titolari del
diritto a sopraelevare.
2.5 La mancata indicazione, nell’accordo del 16/02/2015 (doc.
1-L ricorrente), del diritto di proprietà esclusiva di
-OMISSIS- sulla striscia contigua al muro perimetrale in
lato sud-ovest interessato dal sopralzo (e della
comproprietà della corte comune) integra indubbiamente una
lacuna, le cui conseguenze saranno esaminate in raccordo con
le successive doglianze. Per il momento, non affiora un dolo
evidente nella rappresentazione dello stato dei luoghi, che
possa ex se insinuare un vizio nel titolo edilizio
rilasciato (TAR Lombardia-Brescia, Sez.
I,
sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA:
La Corte di Cassazione –sulla questione relativa al rispetto delle distanze
all'interno di un condominio– ha richiamato il condiviso
principio di diritto secondo il quale <<Le norme
sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un
edificio condominiale, purché siano compatibili con la
disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè
quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto
con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della
norma speciale in materia di condominio determina
l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze
che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo
condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione
rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il
rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c. , deve
ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il
rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra
proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura
dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione ha poi statuito che “In tema
di condominio, ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1,
ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune,
anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni
possibile utilità, purché non alteri la destinazione della
cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri
condomini. …”.
In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali
recedono quando sono in contrasto con i principi
fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui
sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune
anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un
altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella
di dare luce ad aria.
---------------
L’art. 90 del DPR 380/2001 consente le sopraelevazioni nel
rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art.
1127 del c.c. permette di sopraelevare sull'ultimo piano
dell'edificio, ma non esonera certo dall'osservanza delle
norme in materia di distanze tra costruzioni.
Sempre ai fini del rispetto delle distanze legali tra
costruzioni, va osservato che la sopraelevazione di un
edificio preesistente, determinando un incremento della
volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova
costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle
distanze vigente al momento della sua realizzazione, non
potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione
caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce
con il completamento, strutturale e funzionale, di
quest'ultima.
---------------
La Società ricorrente censura il provvedimento comunale 18/03/2015,
di rilascio del permesso di costruire in sanatoria per la
realizzazione del sopralzo di un sottotetto e di un balcone.
...
3.4 Non sussiste neppure la dedotta violazione dell’altezza
massima, prevista in metri 10,5 dalle NTA.
Il limite –che
lo strumento urbanistico riferisce all’altezza “media”
quando il solaio di copertura non sia orizzontale e quando
il terreno o la strada siano in pendenza– risulta infatti
rispettato dall’intervento dei controinteressati, come si
evince dai disegni e dalle tavole esibite. Emerge
chiaramente che l’altezza media dell’edificio – pari a 10,31
metri – rispetta la previsione di cui all’art. 5 del Piano
delle Regole di -OMISSIS- (cfr. allegati n. 4 e n. 5
controinteressati).
Non è sufficiente, al riguardo,
lamentare una mancata “verifica in loco” da parte dei
tecnici del Comune, visto che il meccanismo di calcolo non è
stato contestato dalla parte ricorrente attraverso la
produzione di una perizia ovvero l’elaborazione di cifre
differenti.
Infine, i vani ricavati nel sottotetto aventi
altezza media ponderale non superiore a 1,80 metri sono
esclusi dal computo dell’altezza, e non vi sono ragioni per
ritenere inapplicabile la disposizione (ancorché siano stati
effettuati interventi pregressi, non affiorando il
complessivo superamento del limite).
3.5 Viceversa, i Sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno
indebitamente violato, con la creazione del sopralzo, la
distanza minima di 5 metri dal confine con la striscia di
area di proprietà della Società ricorrente, che corre in
adiacenza lungo il muro perimetrale sud ovest.
3.6 La Corte di Cassazione (sez. II civile – 27/02/2014 n.
47471) –sulla questione relativa al rispetto delle distanze
all'interno di un condominio– ha richiamato il condiviso
principio di diritto, affermato anche con la propria
sentenza n. 6546 del 18/03/2010, secondo il quale <<Le norme
sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un
edificio condominiale, purché siano compatibili con la
disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè
quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto
con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della
norma speciale in materia di condominio determina
l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze
che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo
condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione
rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il
rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c. , deve
ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il
rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra
proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura
dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione, sez. II civile – 11/6/2013 n. 14652, ha poi statuito che “In tema
di condominio, ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1,
ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune,
anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni
possibile utilità, purché non alteri la destinazione della
cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri
condomini. …”.
3.7 In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali
recedono quando sono in contrasto con i principi
fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui
sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune
anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un
altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella
di dare luce ad aria.
Tuttavia, nella fattispecie all’esame del Collegio, la
distanza rileva rispetto a un’area pacificamente di
proprietà esclusiva del confinante.
L’art. 90 del DPR
380/2001 consente le sopraelevazioni nel rispetto degli
strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art. 1127 del c.c.
permette di sopraelevare sull'ultimo piano dell'edificio, ma
non esonera certo dall'osservanza delle norme in materia di
distanze tra costruzioni (Corte di cassazione, sez. II
civile – 25/07/2016 n. 15295).
Sempre ai fini del rispetto
delle distanze legali tra costruzioni, va osservato che la
sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un
incremento della volumetria del fabbricato, va qualificata
come nuova costruzione, sicché deve rispettare la normativa
sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione,
non potendosi automaticamente giovare del diritto di
prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che
si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale,
di quest'ultima (TAR Campania Napoli, sez. VIII –
14/03/2017 n. 1465 e la giurisprudenza civile ivi
menzionata).
3.8 Non è in altri termini appropriato il richiamo al
principio dell'inoperatività, nel condominio, della
normativa sulle distanze legali, dal momento che tale
principio è valido con riferimento alle opere eseguite sulle
parti comuni e non si estende invece ai rapporti fra i
singoli condomini e le rispettive proprietà esclusive.
Si
concorda dunque con quanto affermato dalla parte ricorrente
nella memoria di replica per cui, nel caso specifico, le
unità immobiliari delle parti in causa sono perfettamente
autonome e ciò che risulta violata è la distanza del
sopralzo –qualificabile come “nuova costruzione”– rispetto
alla porzione esclusiva di area scoperta di proprietà della
ricorrente (e non rispetto ad una porzione di area
condominiale).
3.9 Da ultimo, la ricorrente lamenta che il balcone sarebbe
stato realizzato sul muro perimetrale in lato sud-ovest in
violazione dell’art. 905 del c.c., che pone il divieto di
aprire vedute dirette verso il fondo del vicino a meno di 1
metro e mezzo di distanza dal medesimo fondo.
La prospettazione non convince.
Nella memoria finale, i controinteressati hanno efficacemente affermato (senza
contestazione sul punto della parte avversaria) che il
balcone costruito sul lato sud-ovest non crea alcun affaccio
sulla striscia di proprietà di -OMISSIS- S.r.l., dal momento
che i poggioli del piano secondo ne impediscono la vista.
Con gli altri proprietari limitrofi, i Sigg.ri -OMISSIS- e
-OMISSIS- hanno sottoscritto la scrittura privata del
16/02/2015 (TAR Lombardia-Brescia, Sez.
I,
sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’asservimento volumetrico consiste, in termini
generali e come specificato dall’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato n. 3 del 2009, in una fattispecie
negoziale atipica avente effetti obbligatori, in base ai
quali un’area viene destinata a servire al computo
dell'edificabilità di un altro fondo.
Invero, <<L'asservimento realizza, in definitiva, una specie
particolare di relazione pertinenziale, nella quale viene
posta durevolmente a servizio di un fondo la qualità
edificatoria di un altro. Scopo dell’atto di asservimento è
quello di incrementare la cubatura disponibile su un fondo,
sfruttando quella concessa (e non utilizzata) ad altro fondo
della medesima area, il quale viene, conseguentemente,
assoggettato a vincolo di inedificabilità. L'atto di
asservimento dei suoli comporta la cessione di cubatura tra
fondi contigui ed è funzionale ad accrescere la potenzialità
edilizia di un'area per mezzo dell'utilizzo della cubatura
realizzabile in una particella contigua e del conseguente
computo anche della superficie di quest'ultima, ai fini
della verifica del rispetto dell'indice di fabbricabilità
fondiaria. La riconducibilità dell’asservimento a un vincolo
di inedificabilità idoneo a permanere anche in caso di
alienazione del fondo asservito, discende dalla natura
oggettiva del vincolo. …>>.
Ciò importa che, permanendo il vincolo a tempo
indeterminato, l’asservimento continua a seguire il fondo
anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi titolo
intervenuti in epoca successiva, ed è opponibile ai terzi e
a chiunque ne sia il proprietario.
---------------
L’istituto del c.d. asservimento del terreno per scopi
edificatori (o cessione di cubatura) rientra nello schema
del contratto atipico con effetti obbligatori che “senza
oneri di forma pubblica o di trascrizione, è finalizzato al
trasferimento di volumetria e che si perfeziona soltanto con
il rilascio del necessario titolo abilitativo edilizio da
parte del comune, in quanto l’effetto finale del
trasferimento di cubatura avviene solo in conseguenza
dell’emanazione del provvedimento amministrativo”.
Ne deriva che l’accordo “ha efficacia solo obbligatoria tra
i suoi sottoscrittori, mentre il trasferimento di cubatura
fra le parti e nei confronti dei terzi è determinato
esclusivamente dal provvedimento concessorio, discrezionale
e non vincolato che, a seguito della rinuncia
all’utilizzazione della volumetria manifestata al comune dal
cedente in adesione al progetto edilizio presentato dal
cessionario, può essere emanato a favore di quest’ultimo
dall’ente pubblico”.
<<Occorre precisare che, in casi quale quello di specie, non
occorre che vi sia stato un formale “atto di asservimento”
di un suolo (della sua estensione e della sua potenzialità
edificatoria) ai fini della realizzazione di un manufatto da
realizzarsi su un suolo diverso, essendo invece sufficiente
che il primo sia stato considerato al fine di assentire la
volumetria realizzanda (di cui all’istanza di concessione
edilizia), e poi concretamente realizzata. Da tale
considerazione discende, innanzi tutto, che non assume alcun
rilievo, ai fini della impossibilità di considerazione della
medesima superficie per il rilascio di altro e successivo
titolo edilizio:
- né che vi sia stata trascrizione o altra
forma di pubblicità dell’atto di asservimento ….;
- né che eventuali certificati di destinazione
urbanistica indichino detto suolo come edificabile, secondo
le previsioni ed i limiti dello strumento urbanistico,
poiché deve tenersi del tutto distinta la formale ed
astratta destinazione urbanistica di un’area dalla concreta,
intervenuta utilizzazione dell’area medesima per le finalità
urbanistico-edilizie ad essa impresse (e, dunque,
l’eventuale, intervenuto esaurimento delle potenzialità
edilizie della medesima)>>.
Il concetto di asservimento urbanistico per esaurimento
della capacità edificatoria opera obiettivamente ed è
opponibile anche al terzo acquirente pur in assenza di
trascrizione del vincolo nei registri immobiliari; esso
consegue di diritto per il solo effetto del rilascio di
legittime concessioni edilizie che determina l'esaurimento
della capacità edificatoria stabilita dallo strumento
urbanistico. Si tratta di un asservimento giuridico
oggettivo tipico del regime conformativo dei suoli, sicché
la mancata indicazione di tale effetto nella concessione
edilizia o della relativa trascrizione della stessa come di
un atto di cessione (pur aventi la valenza giuridica di
determinare e pubblicizzare l'asservimento) non possono
contrastare l'asservimento urbanistico che si determina in
ragione dell'esaurimento della volumetria disponibile,
ignorato dalla concessione o dall'atto di cessione.
---------------
La Società ricorrente censura il provvedimento comunale
18/03/2015, di rilascio del permesso di costruire in
sanatoria per la realizzazione del sopralzo di un sottotetto
e di un balcone.
...
3. Passando all’esame del motivo di cui alla lettera c)
dell’esposizione in fatto, la ricorrente deduce in via
generale un difetto di istruttoria, ma al riguardo occorre
rilevare che la pratica è stata istruita con l’acquisizione
di elementi rilevanti (parere della Commissione per il
paesaggio, verbale di assemblea condominiale, consenso dei
confinanti, altro materiale documentale).
Il Collegio può a questo punto affrontare le censure
puntuali.
3.1 Sulla cubatura, i controinteressati evocano la relazione
allegata alla DIA in variante del 2013 (cfr. doc. 5.B
ricorrente – pagina 3) dalla quale risulta che, per la
realizzazione del corpo accessorio tra il balcone e la
copertura (cd. “bussola”) – che contemplava un volume
in ampliamento di mc. 30,12 –i sig.ri -OMISSIS- e -OMISSIS-
si sono avvalsi della capacità edificatoria del mappale di
loro proprietà esclusiva “confinante ad Ovest con il
lotto in questione identificato al fg. 9, mappale 314, del
comune di -OMISSIS-. La superficie identificata come
edificabile corrisponde a mq. 200; con una capacità
edificatoria pari a 1,5 mc/mq. il lotto quindi dispone di
una volumetria pari a mc 300,00 …”.
Ultimato quell’intervento, essi disponevano di un volume
residuo di mc. 269,88, sufficiente a compiere l’opera
controversa in questa sede.
Nello specifico, i controinteressati sostengono di aver
posto in essere una “cessione di cubatura” da un
fondo all’altro, allo specifico fine di accrescere la
potenzialità edilizia del secondo tramite l’utilizzo della
volumetria del primo (coincidente con la particella
limitrofa).
Detto ordine di idee merita condivisione.
3.2 Come ha chiarito il Consiglio di Stato, sez. VI –
09/02/2016 n. 547, l’asservimento consiste, in termini
generali e come specificato dall’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato n. 3 del 2009, in una fattispecie
negoziale atipica avente effetti obbligatori, in base ai
quali un’area viene destinata a servire al computo
dell'edificabilità di un altro fondo.
Come statuito nella citata pronuncia n. 547/2016 dei giudici
d’appello <<L'asservimento realizza, in definitiva, una
specie particolare di relazione pertinenziale, nella quale
viene posta durevolmente a servizio di un fondo la qualità
edificatoria di un altro. Scopo dell’atto di asservimento è
quello di incrementare la cubatura disponibile su un fondo,
sfruttando quella concessa (e non utilizzata) ad altro fondo
della medesima area, il quale viene, conseguentemente,
assoggettato a vincolo di inedificabilità. L'atto di
asservimento dei suoli comporta la cessione di cubatura tra
fondi contigui ed è funzionale ad accrescere la potenzialità
edilizia di un'area per mezzo dell'utilizzo della cubatura
realizzabile in una particella contigua e del conseguente
computo anche della superficie di quest'ultima, ai fini
della verifica del rispetto dell'indice di fabbricabilità
fondiaria. La riconducibilità dell’asservimento a un vincolo
di inedificabilità idoneo a permanere anche in caso di
alienazione del fondo asservito, discende dalla natura
oggettiva del vincolo. …>>.
Ciò importa che, permanendo il vincolo a tempo
indeterminato, l’asservimento continua a seguire il fondo
anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi titolo
intervenuti in epoca successiva, ed è opponibile ai terzi e
a chiunque ne sia il proprietario (Consiglio di Stato, sez.
IV – 05/05/2017 n. 2064).
Ha poi puntualizzato TAR Campania Salerno, sez. I –
07/04/2016 n. 916 che l’istituto del c.d. asservimento del
terreno per scopi edificatori (o cessione di cubatura)
rientra nello schema del contratto atipico con effetti
obbligatori che “senza oneri di forma pubblica o di
trascrizione, è finalizzato al trasferimento di volumetria e
che si perfeziona soltanto con il rilascio del necessario
titolo abilitativo edilizio da parte del comune, in quanto
l’effetto finale del trasferimento di cubatura avviene solo
in conseguenza dell’emanazione del provvedimento
amministrativo”.
Ne deriva che l’accordo “ha efficacia solo obbligatoria
tra i suoi sottoscrittori, mentre il trasferimento di
cubatura fra le parti e nei confronti dei terzi è
determinato esclusivamente dal provvedimento concessorio,
discrezionale e non vincolato che, a seguito della rinuncia
all’utilizzazione della volumetria manifestata al comune dal
cedente in adesione al progetto edilizio presentato dal
cessionario, può essere emanato a favore di quest’ultimo
dall’ente pubblico”.
Come ha statuito Consiglio di Stato, sez. IV – 29/02/2016 n.
816, <<Occorre precisare che, in casi quale quello di
specie, non occorre che vi sia stato un formale “atto di
asservimento” di un suolo (della sua estensione e della sua
potenzialità edificatoria) ai fini della realizzazione di un
manufatto da realizzarsi su un suolo diverso, essendo invece
sufficiente che il primo sia stato considerato al fine di
assentire la volumetria realizzanda (di cui all’istanza di
concessione edilizia), e poi concretamente realizzata. Da
tale considerazione discende, innanzi tutto, che non assume
alcun rilievo, ai fini della impossibilità di considerazione
della medesima superficie per il rilascio di altro e
successivo titolo edilizio:
- né che vi sia stata trascrizione o altra
forma di pubblicità dell’atto di asservimento ….;
- né che eventuali certificati di destinazione
urbanistica indichino detto suolo come edificabile, secondo
le previsioni ed i limiti dello strumento urbanistico,
poiché deve tenersi del tutto distinta la formale ed
astratta destinazione urbanistica di un’area dalla concreta,
intervenuta utilizzazione dell’area medesima per le finalità
urbanistico-edilizie ad essa impresse (e, dunque,
l’eventuale, intervenuto esaurimento delle potenzialità
edilizie della medesima)>>.
Nella stessa prospettiva il Consiglio di Stato, sez. IV –
05/02/2015 n. 562 ha chiarito che “il concetto di
asservimento urbanistico per esaurimento della capacità
edificatoria opera obiettivamente ed è opponibile anche al
terzo acquirente pur in assenza di trascrizione del vincolo
nei registri immobiliari (v. Cons. di Stato, sez. V, n.
387/1998); esso consegue di diritto per il solo effetto del
rilascio di legittime concessioni edilizie che determina
l'esaurimento della capacità edificatoria stabilita dallo
strumento urbanistico. Si tratta di un asservimento
giuridico oggettivo tipico del regime conformativo dei
suoli, sicché la mancata indicazione di tale effetto nella
concessione edilizia o della relativa trascrizione della
stessa come di un atto di cessione (pur aventi la valenza
giuridica di determinare e pubblicizzare l'asservimento) non
possono contrastare l'asservimento urbanistico che si
determina in ragione dell'esaurimento della volumetria
disponibile, ignorato dalla concessione o dall'atto di
cessione”.
3.3 Alla luce dei principi illustrati non era necessaria, ai
fini del trasferimento della cubatura disponibile, né una
specifica previsione della normativa di piano né la
trascrizione dell’atto di disposizione, e la fonte
dell’effetto obbligatorio si rinviene nella relazione
tecnica che assume valore di atto unilaterale d’obbligo; al
contempo, la coincidenza della figura dei proprietari dei
terreni coinvolti nella cessione semplifica ulteriormente la
vicenda.
Da ultimo, si segnala che l’obbligo di trascrizione sancito
dall’art. 2643, comma 1, n. 2-bis, del c.c. –introdotto
dall’art. 5, n. 3), del D.L. 13/05/2011 n. 70 convertito,
con modificazioni, nella L. 12/07/2011 n. 106– non si
riflette sulla validità dell’atto ma rileva unicamente ai
fini dell’opponibilità ai terzi e della soluzione del
conflitto tra più aventi causa dallo stesso autore, ai sensi
dell'art. 2644 del c.c. (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La mancata notifica dell'ordinanza di demolizione
a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità,
comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti
del solo comproprietario interessato, ai fini della
successiva acquisizione del bene al patrimonio pubblico.
Inoltre, tale omissione è censurabile esclusivamente dal
soggetto nel cui interesse la comunicazione stessa è posta,
dato che alcun pregiudizio può discendere in capo a chi ha
ricevuto ritualmente la notificazione dell'atto per effetto
della mancata notifica del provvedimento agli altri
comproprietari del bene.
---------------
Con la prima censura si sostiene la illegittimità del
provvedimento di demolizione impugnato, in relazione alla
mancata notifica di detto provvedimento agli altri
comproprietari.
Tale censura non è suscettibile di accoglimento, in
relazione al costante orientamento giurisprudenziale, per
cui la mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno
dei comproprietari non ne inficia la legittimità,
comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti
del solo comproprietario interessato, ai fini della
successiva acquisizione del bene al patrimonio pubblico (per
tutte, Tar Campania, Napoli, 21.06.2017, n. 3377).
Inoltre, tale omissione è censurabile esclusivamente dal
soggetto nel cui interesse la comunicazione stessa è posta,
dato che alcun pregiudizio può discendere in capo a chi ha
ricevuto ritualmente la notificazione dell'atto per effetto
della mancata notifica del provvedimento agli altri
comproprietari del bene (Tar Campania, Napoli, 08.03.2016,
n. 1269) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 23.03.2018 n. 3299 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di “volume tecnico”, non computabile
nella volumetria, corrisponde a un'opera priva di
qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale,
perché è destinata solo a contenere, senza possibilità di
alternative e comunque per una consistenza volumetrica del
tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione
principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della
medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questa, come possono essere -e sempre in
difetto dell'alternativa- quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto
visivo.
---------------
Con ulteriore censura si lamenta la illegittimità
della demolizione, in quanto la sopraelevazione oggetto del
provvedimento sarebbe un mero volume tecnico.
Tale ricostruzione difensiva non può trovare accoglimento.
Per costante giurisprudenza, infatti, la nozione di “volume
tecnico”, non computabile nella volumetria, corrisponde
a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche
solo potenziale, perché è destinata solo a contenere, senza
possibilità di alternative e comunque per una consistenza
volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una
costruzione principale per essenziali esigenze
tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di
impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non
possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa,
come possono essere -e sempre in difetto dell'alternativa-
quelli connessi alla condotta idrica, termica o
all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici
interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno
di carico territoriale o di impatto visivo (Consiglio di
Stato, 08.02.2016, n. 507; 01.12.2014, n. 5932; 31.03.2014
n. 1532).
In primo luogo, la parte ricorrente ha solo dedotto in
ricorso che la sopraelevazione costituisca un volume
tecnico, senza alcuna dimostrazione in fatto che tali volumi
siano effettivamente destinati ad ospitare impianti
tecnologici. Anzi, tale circostanza, nel caso di specie,
appare incompatibile con le stesse dimensioni della
sopraelevazione e la consistenza del volume realizzato,
risultanti dal provvedimento di demolizione e dalla
relazione di sopralluogo del 19.07.2016, con allegate
fotografie, depositata in giudizio dalla difesa del Comune.
Si tratta, infatti, di una superficie complessiva di 55
metri quadri per una altezza minima di 2,20 metri e massima
di 3 metri. L’ampiezza di tali dimensioni comporta
inequivocabilmente la realizzazione di una nuova costruzione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 23.03.2018 n. 3299 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'individuazione dell'area di sedime da acquisire
al patrimonio comunale, in caso mancata spontanea esecuzione
dell'ordine di demolizione, non deve necessariamente farsi
nel provvedimento che impartisce l'ordine, potendo essere
effettuata anche successivamente mediante distinto
provvedimento, e precisamente in quello in cui viene
accertata l'inottemperanza all'ordine impartito.
Con riferimento al provvedimento di demolizione, dunque, la
mancata individuazione dell’area da acquisire e della
identificazione catastale della stessa, non costituisce
causa di illegittimità dell'atto, con conseguente
infondatezza della censura, se riferita al provvedimento di
demolizione.
---------------
Gli ulteriori motivi di ricorso sono stati proposti
in relazione alla acquisizione al patrimonio comunale,
disposta in mancanza di una previa valutazione di interesse
pubblico e senza la individuazione specifica del bene da
acquisire.
Tali censure sono inammissibili nel presente giudizio, in
quanto il provvedimento di demolizione impugnato contiene
solo l’avvertimento circa la successiva acquisizione, in
caso di inadempimento all’ordine di demolizione, prevista ai
sensi dell’art. 31, comma 3, del d.p.r. 380 del 2001, per
cui “se il responsabile dell'abuso non provvede alla
demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel
termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area
di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto
gratuitamente al patrimonio del comune”.
L’acquisizione non è stata dunque disposta con il
provvedimento impugnato.
Per costante giurisprudenza, inoltre, l'individuazione
dell'area di sedime da acquisire al patrimonio comunale, in
caso mancata spontanea esecuzione dell'ordine di
demolizione, non deve necessariamente farsi nel
provvedimento che impartisce l'ordine, potendo essere
effettuata anche successivamente mediante distinto
provvedimento, e precisamente in quello in cui viene
accertata l'inottemperanza all'ordine impartito (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. V, 07.07.2014, n. 3438; TAR
Lombardia-Milano 06.02.2017 n. 299; TAR Campania, Napoli,
sez. II, 27.07.2015, n. 3941; TAR Toscana, sez. III,
13.01.2015, n. 31).
Con riferimento al provvedimento di demolizione, dunque, la
mancata individuazione dell’area da acquisire e della
identificazione catastale della stessa, non costituisce
causa di illegittimità dell'atto, con conseguente
infondatezza della censura, se riferita al provvedimento di
demolizione.
Nel caso di specie, infatti, risulta dal provvedimento
impugnato, la individuazione dell’immobile e la dimensionale
consistenza delle opere realizzate in assenza di titolo
edilizio, circostanze peraltro non contestate in fatto dalla
difesa ricorrente.
In conclusione, il ricorso è infondato e deve essere
respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 23.03.2018 n. 3299 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Facoltà per la stazione appaltante di procedere alla c.d.
doppia riparametrazione dei punteggi dell’offerta tecnica.
---------------
Contatti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Offerta economicamente più vantaggiosa – Migliore offerta
tecnica - Attribuzione punteggio massimo previsto dalla lex
specialis mediante il criterio della c.d. doppia
riparametrazione – Obbligo – Esclusione.
Per le gare da aggiudicare con il
criterio dell’offerta più vantaggiosa nessuna norma di
carattere generale impone alle stazioni appaltanti di
attribuire alla migliore offerta tecnica in gara il
punteggio massimo previsto dalla lex specialis mediante il
criterio della c.d. doppia riparametrazione, la quale deve
essere espressamente prevista dalla legge di gara (1).
---------------
(1) Ha ricordato la Sezione che il principio enunciato è quello
prevalente nella giurisprudenza del giudice amministrativo (Cons.
St., sez. V, 27.01.2016, n. 266; id.
30.01.2017, n. 373; id.
12.06.2017, n. 2811 e
n. 2852; id.,
sez. III, 20.07.2017, n. 3580) e fermo nel
superamento di quello seguito dalla decisione della sez. III
dello stesso Consiglio di Stato (16.03.2016,
n. 1048, pronunciata, peraltro, in un caso in cui
la doppia parametrazione era prevista nella legge di gara.
Anche le Linee guida n. 2 di attuazione del d.lgs.
18.04.2016, n. 50 recanti “Offerta economicamente più
vantaggiosa”, approvate dal Consiglio ANAC con delibera
n. 1005 del 21.09.2016, hanno previsto la mera facoltà per
la stazione appaltante di procedere alla riparametrazione
dei punteggi, a condizione che la stessa sia prevista nel
bando di gara, in conformità a quanto affermato da questo
Consiglio di Stato nel parere preventivo sulle linee guida (Cons.
St., sez. consultiva, 02.08.2016, parere n. 1767),
in dichiarata continuità con la giurisprudenza prevalente
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.03.2018 n. 1845
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’impugnazione immediata delle ammissioni alla gara è
subordinata alla pubblicazione degli atti della procedura.
---------------
Processo amministrativo - Rito appalti – Rito super
accelerato – Impugnazione immediata ammissione concorrenti -
Pubblicazione degli atti della procedura – Necessità.
Ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis,
c.p.a., l'onere di immediata impugnativa dell'altrui
ammissione alla procedura di gara senza attendere
l'aggiudicazione, previsto dalla trascritta norma, è
ragionevolmente subordinato alla pubblicazione degli atti
della procedura di gara (1).
---------------
(1)
Cfr.
Cons. St., sez. III, 26.01.2018, n. 565.
Ha chiarito la Sezione –richiamando precedenti in termini (Cons.
St., sez. VI, 13.12.2017, n. 5870)– che è vero è
che la disposizione in parola non implica l’assoluta
inapplicabilità del generale principio sancito dagli artt.
41, comma 2, e 120, comma 5, ultima parte, c.p.a., per cui,
in difetto della formale comunicazione dell'atto il termine
decorre, comunque, dal momento dell'intervenuta piena
conoscenza del provvedimento da impugnare, ma ciò a patto
che l’interessato sia in grado di percepire i profili che ne
rendano evidente la lesività per la propria sfera giuridica
in rapporto al tipo di rimedio apprestato dall'ordinamento
processuale
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.03.2018 n. 1843
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Col primo motivo si denuncia l’errore commesso dal
giudice di prime cure nel respingere l’eccezione con cui
l’odierna appellante aveva dedotto che il ricorso,
notificato in data 23/11/2016, sarebbe stato proposto oltre
il termine di 30 giorni decorrente dal 7/10/2016, data in
cui la Lupo Costruzioni Generali avrebbe appreso quali
fossero le imprese ammesse alla gara, essendo presente,
tramite un proprio rappresentante, alla seduta in cui la
stazione appaltante, esaminate le offerte pervenute, ha
disposto l’aggiudicazione provvisoria.
La doglianza è infondata.
Dispone l’art. 120, comma 2-bis, del c.p.a. che: “Il
provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di
affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della
valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e
tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta
giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del
committente della stazione appaltante, ai sensi
dell'articolo 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici
adottato in attuazione della legge 28.01.2016, n. 11”.
L'onere di immediata impugnativa
dell'altrui ammissione alla procedura di gara senza
attendere l'aggiudicazione, previsto dalla trascritta norma,
è ragionevolmente subordinato alla pubblicazione degli atti
della procedura
(Cons. Stato, Sez. III, 26/01/2018, n. 565).
Vero è che la disposizione in parola non implica l’assoluta
inapplicabilità del generale principio sancito dagli artt.
41, comma 2 e 120, comma 5, ultima parte, del c.p.a., per
cui, in difetto della formale comunicazione
dell'atto -o, per quanto qui interessa, in mancanza di
pubblicazione dell'atto di ammissione sulla piattaforma
telematica della stazione appaltante- il termine decorre,
comunque, dal momento dell'intervenuta piena conoscenza del
provvedimento da impugnare, ma ciò a patto che l’interessato
sia in grado di percepire i profili che ne rendano evidente
la lesività per la propria sfera giuridica in rapporto al
tipo di rimedio apprestato dall'ordinamento processuale
(Cons. Stato, Sez. VI, 13/12/2017, n. 5870). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per quanto riguarda la tettoia la giurisprudenza
amministrativa è propensa ad evidenziare che non è prevista
la demolizione ove la sua conformazione e le ridotte
dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità
di mero arredo e di riparo e protezione dell’immobile cui
accedono, specie qualora si tratti di una struttura aperta
su tre lati e posta a servizio del fabbricato su cui poggia.
Tuttavia, nel caso di specie, parte ricorrente ha contestato
la violazione dell’art. 907 c.c.. La realizzazione di una
tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico come
intervento di nuova costruzione, richiedendo quindi il
permesso di costruire, allorché difetti dei requisiti
richiesti per le pertinenze e per gli interventi precari.
Di conseguenza, il rilascio del titolo edilizio necessita
della conformità dell’opera non solo alle specifiche
disposizioni del testo unico dell’edilizia (d.P.R. n.
380/2001), ma anche alle norme dallo stesso richiamate sulla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente.
Tra queste ultime, vanno ricomprese quelle sulle distanze
contenute nel codice civile e dunque anche quelle sulle
distanze per le vedute di cui al comma 1 dell’art. 907:
"Quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette
verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può
fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma
dell'articolo 905”.
Ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali
tra edifici di origine codicistica, la nozione di
costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma
deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente
interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità,
ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio,
incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica
preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente
dal livello di posa e di elevazione dell'opera.
---------------
Il ricorso deve trovare accoglimento.
L’eccezione di tardività della proposizione del ricorso non
può trovare accoglimento, in quanto il termine per la
impugnazione decorre dalla conoscenza e non dalla emissione
del provvedimento.
Il ricorrente impugna un permesso di costruire (e la revoca
di un provvedimento negativo nei confronti di un
controinteressato) con cui è stata assentita la
realizzazione di una tettoia metallica a un vicino
(abitazione sottostante a quella dei ricorrenti).
L’ordinanza di revoca è basata sul fatto che il
controinteressato ha dichiarato di aver smantellato l’opera
e di averla poi realizzata nuovamente in seguito al permesso
a costruire.
Per quanto riguarda la tettoia la giurisprudenza
amministrativa è propensa ad evidenziare che non è prevista
la demolizione ove la sua conformazione e le ridotte
dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità
di mero arredo e di riparo e protezione dell’immobile cui
accedono (Cons. St. 1272/2014), specie qualora si tratti di
una struttura aperta su tre lati e posta a servizio del
fabbricato su cui poggia (così Cons. St. 5283/2017).
Tuttavia, nel caso di specie, parte ricorrente ha contestato
la violazione dell’art. 907 c.c. (cfr. Cons. St. n. 72 del
21018). La realizzazione di una tettoia va configurata sotto
il profilo urbanistico come intervento di nuova costruzione,
richiedendo quindi il permesso di costruire, allorché
difetti dei requisiti richiesti per le pertinenze e per gli
interventi precari (cfr. Cass. Pen., sez. III, 23.11.2012, n. 45819).
Di conseguenza, il rilascio del titolo edilizio necessita
della conformità dell’opera non solo alle specifiche
disposizioni del testo unico dell’edilizia (d.P.R. n.
380/2001), ma anche alle norme dallo stesso richiamate sulla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente.
Tra queste ultime, vanno ricomprese quelle sulle distanze
contenute nel codice civile e dunque anche quelle sulle
distanze per le vedute di cui al comma 1 dell’art. 907: "Quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette
verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può
fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma
dell'articolo 905”.
Ai fini dell'osservanza delle norme
sulle distanze legali tra edifici di origine codicistica, la
nozione di costruzione non può identificarsi con quella di
edificio, ma deve estendersi a qualsiasi manufatto non
completamente interrato che abbia i caratteri della
solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un
corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di elevazione
dell'opera (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2013, n.
354).
La violazione della veduta del ricorrente appare
evidente anche dell’esame delle foto allegate in giudizio,
né appare idoneo a superare una tale violazione la sola
allegazione di parte ricorrente in ordine alla presenza
della vegetazione.
Per quanto concerne il rapporto con le norme dirette a
disciplinare i rapporti di vicinato se è vero che i
provvedimenti ad effetti ampliativi sono emessi con salvezza
dei diritti dei terzi, tuttavia, nel caso in cui la
circostanza della loro violazione sia stata espressamente
contestata, l’amministrazione deve verificare in concreto se
vi sia stata o meno una violazione della disposizione in
questione.
Nel caso di specie, risulta violata la veduta dei
ricorrenti, con la conseguenza che il ricorso deve trovare
accoglimento con il conseguente annullamento dei
provvedimenti impugnati. La natura assorbente del vizio
indicato esonera dall’esame degli ulteriori vizi allegati da
parte ricorrente.
La domanda risarcitoria non può trovare accoglimento in
mancanza di prova ed offerta di prova di un danno e del
nesso di causalità tra fatto e danno (TAR Calabria-Catanzaro,
Sez. I,
sentenza 23.03.2018 n. 732 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le tettoie aperte su tutti i lati devono
qualificarsi come “interventi di ristrutturazione edilizia che non creano
volumetria né incidono sui prospetti”, rientranti nella
disciplina della D.I.A. (secondo la denominazione utilizzata
dal legislatore al momento dell’adozione del provvedimento
impugnato).
---------------
La violazione dell’art. 22 D.P.R. 06.06.2001 n. 380
comporta, ai sensi dell'art. 37 del medesimo testo
normativo, l'applicazione della “sanzione pecuniaria pari al
doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile
conseguente alla realizzazione degli interventi stessi”
(mentre la più grave sanzione della demolizione prevista
dall’art. 33 del D.P.R. 380/2001 è riservata agli interventi
di più rilevante impatto urbanistico non assentiti o
realizzati in totale difformità, previsti dall’art. 10, co. 1, lett.
c).
---------------
1. E’ stata impugnata l’ordinanza n. 50 del 16.11.2010 con
cui, previo rigetto dell’istanza di permesso in sanatoria
inoltrata dal privato in data 20.01.2010, viene
ordinata all’odierno ricorrente la demolizione delle opere
accertate come prive di titolo abilitativo, all’esito del
sopralluogo effettuato da agenti della Polizia Municipale.
2. Nello specifico si tratta di una tettoia con struttura in
legno e copertura in manto di tegole, meglio descritta in
atti (sono allegate al fascicolo anche fotografie dei
luoghi).
...
6. La domanda di annullamenti è fondata, dovendo accogliersi
la doglianza sollevata in via subordinata.
7. L’esame delle questioni sollevate con tale censura -ampiamente dedotte dal ricorrente- presuppone la previa
qualificazione del manufatto abusivo tra le diverse “opere”
oggetto della normativa sui titoli edilizi (sulla
circostanza che le opere siano state concluse senza alcun
titolo abilitativo antecedente non vi è contestazione).
Come più volte osservato anche da questo Tribunale, (TAR
Catanzaro, II sez., 03.05.2016, n. 977; da ultimo, cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 31.07.2017,n. 3819) le
tettoie aperte su tutti i lati devono qualificarsi come
“interventi di ristrutturazione edilizia che non creano
volumetria né incidono sui prospetti”, rientranti nella
disciplina della D.I.A. (secondo la denominazione utilizzata
dal legislatore al momento dell’adozione del provvedimento
impugnato).
La violazione dell’art. 22 D.P.R. 06.06.2001 n. 380
comporta, ai sensi dell'art. 37 del medesimo testo
normativo, l'applicazione della “sanzione pecuniaria pari al
doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile
conseguente alla realizzazione degli interventi stessi”
(mentre la più grave sanzione della demolizione prevista
dall’art. 33 del D.P.R. 380/2001 è riservata agli interventi
di più rilevante impatto urbanistico non assentiti o
realizzati in totale difformità, previsti dall’art. 10, co. 1, lett. c) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 23.03.2018 n. 729 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA:
E’ incostituzionale la prosecuzione dell’attività in
stabilimento posto sotto sequestro.
VIA, VAS E AIA - SICUREZZA SUL LAVORO -
Stabilimenti industriali di interesse strategico -
Provvedimento di sequestro preventivo - Prosecuzione
dell’attività di impresa - Art. 3, d.l. n. 92/2015 -
Illegittimità costituzionale - Ragionevole ed equilibrato
bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti -
Necessità.
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del
decreto-legge 04.07.2015, n. 92 (Misure urgenti in materia
di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché
per l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti
industriali di interesse strategico nazionale) e degli artt.
1, comma 2, e 21-octies della legge 06.08.2015, n. 132
(Conversione in legge, con modificazioni, del d.l.
27.06.2015, n. 83).
La disposizione di cui al d.l. n. 92/2015 prevede che «l’esercizio
dell’attività di impresa degli stabilimenti di interesse
strategico nazionale non è impedito dal provvedimento di
sequestro […] quando lo stesso di riferisca ad ipotesi di
reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori».
La continuazione dell’attività produttiva di aziende
sottoposte a sequestro, è considerata lecita, a condizione
che vengano osservate le regole che limitano, circoscrivono
e indirizzano la prosecuzione dell’attività stessa secondo
un percorso di risanamento ispirato al bilanciamento tra
tutti i beni e i diritti costituzionalmente protetti, tra
cui il diritto alla salute, il diritto all’ambiente salubre
e il diritto al lavoro.
Non può infatti ritenersi astrattamente precluso al
legislatore di intervenire per salvaguardare la continuità
produttiva in settori strategici per l’economia nazionale e
per garantire i correlati livelli di occupazione, prevedendo
che sequestri preventivi disposti dall’autorità giudiziaria
nel corso di processi penali non impediscano la prosecuzione
dell’attività d’impresa; ma ciò può farsi solo attraverso un
ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori
costituzionali in gioco, che deve rispondere a criteri di
proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non
consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori
coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro.
Con la disposizione impugnata, invece, il legislatore non ha
rispettato l’esigenza di bilanciare in modo ragionevole e
proporzionato tutti gli interessi costituzionali rilevanti,
incorrendo in un vizio di illegittimità costituzionale per
non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di
tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori,
a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio
della stessa vita.
Il legislatore, in altri termini, ha finito col privilegiare
in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione
dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze
di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela
della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui
deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al
lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35
Cost.).
Il sacrificio di tali fondamentali valori tutelati dalla
Costituzione porta a ritenere che la normativa impugnata non
rispetti i limiti che la Costituzione impone all’attività
d’impresa la quale, ai sensi dell’art. 41 Cost., si deve
esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana. Rimuovere prontamente i
fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita
dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e
indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in
armonia con i principi costituzionali, sempre attenti
anzitutto alle esigenze basilari della persona (Corte
Costituzionale,
sentenza 23.03.2018 n. 58 - link a
www.ambientediritto.it). |
APPALTI SERVIZI:
Requisito di capacità economico-finanziaria delle
Associazioni sportive dilettantistiche.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di
partecipazione - Requisito di capacità economico-finanziaria
- Associazioni sportive dilettantistiche – E’ il volume di
affari.
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione –
Impugnazione – Successiva esclusione – Impugnazione nella
via dei motivi aggiunti – Legittimità dell’esclusione –
Conseguente improcedibilità dell’atto introduttivo – Limiti.
●
Le associazioni
sportive dilettantistiche sono ammesse a partecipare alle
procedure di evidenza pubblica ancorché non risultino essere
titolari di partita IVA e delle posizioni contributive
presso INPS e INAIL; in tal senso, qualora il bando di gara
richieda, quale requisito di capacità economico-finanziaria,
il raggiungimento di determinate soglie di fatturato, questo
deve essere inteso non con l'accezione propria del diritto
tributario, quanto invece in termini di volume d'affari e,
nello specifico, come corrispettivo percepito in virtù delle
prestazioni offerte; non soddisfa, pertanto, il requisito
richiesto dal bando di gara l'associazione sportiva
dilettantistica i cui introiti siano rappresentati
esclusivamente dalle somme incassate a titolo di quote
associative, poiché finalizzate alla realizzazione dei più
ampi scopi associativi previsti dallo Statuto (1).
●
Nel
caso in cui l'esclusione di un concorrente da una procedura
di gara sopravvenga all'aggiudicazione già impugnata da
detto concorrente, il quale abbia poi impugnato l'esclusione
con motivi aggiunti, l'accertata legittimità
dell'esclusione, con conseguente rigetto dei motivi
aggiunti, comporta l'improcedibilità del ricorso principale
laddove l'interesse strumentale alla ripetizione della gara
non venga specificamente dedotto e in mancanza di uno
specifico obbligo imposto dal diritto europeo.
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che poiché alcuni operatori economici
ammessi dalla legge a partecipare alle procedure ad evidenza
pubblica possono ricadere nell’ambito di applicazione di
regimi fiscali agevolati (è il caso, appunto, delle
associazioni sportive dilettantistiche), è necessario dare
una interpretazione sistematica delle clausole delle leggi
speciali di gara che richiedano, quale requisito di capacità
economico-finanziaria, il raggiungimento di una determinata
soglia di fatturato.
La nozione di “fatturato”, in tali contesti, non
coincide quella propria del diritto tributario, ma va
piuttosto intesa in termini di volume d’affari; anzi, più
ampiamente, di misura dei corrispettivi percepiti in
corrispondenza dell’offerta di determinate prestazioni
(TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 21.03.2018 n. 685
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L'obbligo per l'Autorità di motivare il
provvedimento amministrativo non può ritenersi violato
attraverso il richiamo per relationem ad altri atti, se
questi offrano comunque elementi sufficienti e univoci dai
quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter
motivazionale posti a sostegno della determinazione assunta.
---------------
10 - Con il terzo motivo di appello, l’appellante lamenta
che, a seguito dell’annullamento ministeriale, il Comune
avrebbe dovuto riesaminare gli atti e riprendere il
procedimento alla luce delle rilevazioni dell’atto di
annullamento, e non limitarsi a recepirlo altrettanto
immotivatamente.
10.1 - Il motivo è infondato, essendo condivisibile quanto
argomentato dal Giudice di prime cure. Infatti, il
provvedimento comunale non si limita a recepire passivamente
la determina del Sovrintendente. Come si desume chiaramente
dal tenore dell’atto, in realtà, il Comune, dopo a aver
rinnovato la valutazione di sua competenza, fa proprie le
considerazione del Ministero. A tal fine la determina del
Sovrintendente è stata opportunamente allegata al
provvedimento di diniego del Comune a costituirne parte
integrante.
Non è pertanto ravvisabile l’illegittimità lamentata
dall’appellante, tenuto conto della nota giurisprudenza
secondo la quale l'obbligo per l'Autorità di motivare il
provvedimento amministrativo non può ritenersi violato
attraverso il richiamo per relationem ad altri atti, se
questi offrano comunque elementi sufficienti e univoci dai
quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter
motivazionale posti a sostegno della determinazione assunta
(Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21.04.2015, n. 2011).
11 – In definitiva, l’appello deve essere respinto. Vista la
soccombenza, l’appellante deve essere condannato alla
refusione delle spese di lite, liquidate come in dispositivo
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.03.2018 n. 1799 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La ricorrente invoca l’annullamento della D.I.A.
presentata dagli odierni controinteressati, che è invece, come noto, un atto del
privato privo di valore provvedimentale ed in quanto tale
non direttamente impugnabile dai terzi.
In caso di D.I.A.,
infatti, la tutela dei terzi che si assumano lesi si
realizza attraverso la sollecitazione del potere
sanzionatorio o di autotutela da parte della P.A. e, in caso
di inerzia da parte di quest’ultima, attraverso
l’impugnazione del silenzio-rifiuto serbato o l’accertamento
dell’illegittimità del comportamento omissivo tenuto
dall’Amministrazione stessa, che non si sia attivata per
inibire i lavori.
---------------
Invero, “l’art. 19, co. 6-ter, della legge 07.08.1990, n.
241, aggiunto dall’art. 6, co. 1, lett. c), del d.l.
13.08.2011, n. 138, stabilisce che “la segnalazione
certificata di inizio attività, la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli
interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche
spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia,
esperire esclusivamente l’azione di cui all’ art. 31, commi
1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”.
Secondo l’orientamento della Sezione:
a) la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche in epoca
anteriore alla ricordata modifica legislativa, ha ritenuto
inammissibile una domanda di annullamento di una d.i.a.,
atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata;
b) tale giurisprudenza si è formata in epoca anteriore e coeva a
quella dell’atto impugnato;
c) è evidente la naturale portata retroattiva della norma sancita
dal citato art. 19, co. 6-ter;
d) pertanto essa si è sovrapposta al principio di diritto circa la
conversione della domanda, enunziato dall’Adunanza Plenaria
del 29.07.2011, n. 15 (che pure ha confermato la natura
privatistica della d.i.a.), richiamata dalla parte appellata
nella memoria del 28 luglio scorso;
e) non può valere in contrario la circostanza che, in primo grado,
la ricorrente, oltre a impugnare direttamente la d.i.a.,
abbia chiesto l’accertamento dell’illegittimità del
comportamento tenuto dal Comune, perché la domanda non
rientra comunque nello schema dell’art. 19, co. 6-ter, dal
quale, in presenza dell’inerzia del Comune a rispondere a
una specifica diffida del confinante, deriva solo la
possibilità di attivare la procedura ex art. 117 c.p.a. in
vista della nomina di un commissario che prenda in esame la
diffida e provveda su di essa”.
---------------
Ciò posto, osserva il Collegio che lo spiegato ricorso è
inammissibile, atteso che la Società ricorrente invoca
l’annullamento della D.I.A. presentata dagli odierni controinteressati, che è invece, come noto, un atto del
privato privo di valore provvedimentale ed in quanto tale
non direttamente impugnabile dai terzi; in caso di D.I.A.,
infatti, la tutela dei terzi che si assumano lesi si
realizza attraverso la sollecitazione del potere
sanzionatorio o di autotutela da parte della P.A. e, in caso
di inerzia da parte di quest’ultima, attraverso
l’impugnazione del silenzio-rifiuto serbato o l’accertamento
dell’illegittimità del comportamento omissivo tenuto
dall’Amministrazione stessa, che non si sia attivata per
inibire i lavori.
Ed invero, come è stato recentemente osservato da
condivisibile giurisprudenza, relativamente ad un caso
perfettamente analogo a quello oggetto del presente giudizio
e dalle cui conclusioni codesto TAR non ritiene di
discostarsi, “l’art. 19, co. 6-ter, della legge 07.08.1990, n. 241, aggiunto dall’art. 6, co. 1, lett. c), del
decreto-legge 13.08.2011, n. 138, stabilisce che “la
segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e
la dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli
interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche
spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia,
esperire esclusivamente l’azione di cui all’ art. 31, commi
1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”.
Secondo l’orientamento della Sezione (28.04.2017, n.
1967; 09.05.2017, n. 2120; 05.07.2017, n. 3281):
a) la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche in epoca
anteriore alla ricordata modifica legislativa, ha ritenuto
inammissibile una domanda di annullamento di una d.i.a.,
atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.09.2008, n. 4513; sez. IV, 12.03.2009, n. 1474; sez. IV, 13.05.2010, n.
2919);
b) tale giurisprudenza si è formata in epoca anteriore e
coeva a quella dell’atto impugnato;
c) è evidente la naturale portata retroattiva della norma
sancita dal citato art. 19, co. 6-ter;
d) pertanto essa si è sovrapposta al principio di diritto
circa la conversione della domanda, enunziato dall’Adunanza
Plenaria del 29.07.2011, n. 15 (che pure ha confermato
la natura privatistica della d.i.a.), richiamata dalla parte
appellata nella memoria del 28 luglio scorso;
e) non può valere in contrario la circostanza che, in primo
grado, la ricorrente, oltre a impugnare direttamente la
d.i.a., abbia chiesto l’accertamento dell’illegittimità del
comportamento tenuto dal Comune, perché la domanda non
rientra comunque nello schema dell’art. 19, co. 6-ter, dal
quale, in presenza dell’inerzia del Comune a rispondere a
una specifica diffida del confinante, deriva solo la
possibilità di attivare la procedura ex art. 117 c.p.a. in
vista della nomina di un commissario che prenda in esame la
diffida e provveda su di essa” (cfr Consiglio di Stato,
Sezione Quarta n. 4659/2017).
Conclusivamente, per le ragioni sopra sinteticamente
illustrate, lo spiegato ricorso va dichiarato inammissibile.
Quanto alle spese di lite, sussistono i presupposti di
legge, anche in considerazione del fatto che
solo nel 2011 è
stata normativamente (esplicitamente) esclusa l’impugnativa
diretta della D.I.A., per dichiararle integralmente
compensate tra le parti (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 16.03.2018 n. 443 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione presenta un carattere
rigidamente vincolato e non richiede né una specifica
motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse
pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una
comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato
al mantenimento in loco dell’immobile.
Ciò, in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo
legittimare.
---------------
Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure
tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione
non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui
l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo
dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti
intenti elusivi dell'onere di ripristino.
Nel caso di tardiva adozione del provvedimento di
demolizione, la mera inerzia da parte dell'amministrazione
nell'esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela
di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a
far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo)
è sin dall'origine illegittimo. Allo stesso modo, tale
inerzia non può certamente radicare un affidamento di
carattere "legittimo" in capo al proprietario dell'abuso,
giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole
idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente
qualificata.
---------------
Se, in linea generale, permane l’obbligo di emanare le
ordinanze di demolizione di opera edilizia abusiva nei
confronti del proprietario attuale, indipendentemente
dall’essere o meno responsabile delle opere abusive, detto
ordine deve comunque essere rivolto anche nei confronti di
chi utilizzi o abbia la disponibilità dell’opera abusiva
quale soggetto in grado di porre fine alla situazione
antigiuridica, indipendentemente dal coinvolgimento o meno
nella realizzazione dell’abuso, in considerazione del
carattere ripristinatorio della disposta demolizione.
---------------
Con il primo motivo di ricorso, si contesta la violazione degli art. 3 e
10 della legge n. 241 del 1990 per mancata considerazione e
valutazione delle documentate e rilevanti osservazioni
depositate dal ricorrente a seguito della comunicazione di
avvio del procedimento volto alla demolizione.
La censura non è fondata.
La giurisprudenza ha più volte ribadito che l’ordine di
demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e
non richiede né una specifica motivazione in ordine alla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla
demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e
l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile.
Ciò, in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo
legittimare (in tal senso -ex multis– Consiglio di Stato,
sez. IV, 28.02.2017, n. 908; id. 12.10.2016, n.
4205; id. 31.08.2016, n. 3750).
...
Con il terzo motivo, in via subordinata, si contesta la
violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 per
mancata motivazione in ordine alle ragioni di interesse
pubblico sottese alla demolizione, stante il lungo lasso di
tempo trascorso dalla realizzazione del chiosco e il
legittimo affidamento formatosi a seguito del rilascio da
parte dell’Amministrazione di molteplici autorizzazione
commerciali e dovendosi, oltre tutto, tener conto che la
posizione del ricorrente sarebbe del tutto incolpevole, non
essendo responsabile della realizzazione delle opere.
La censura non può trovare accoglimento.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, affrontando una
tematica in tutto analoga a quella qui in esame, ha
recentemente affermato il seguente principio di diritto: "il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente,
la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente
ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di
pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione
dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe
neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione
intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione
dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi
dell'onere di ripristino" (Consiglio di Stato, A.P. 17.10.2017, n. 9).
In tale pronuncia è stato, altresì, precisato che “nel caso
di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la
mera inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di
un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti
finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire
legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin
dall'origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non
può certamente radicare un affidamento di carattere
"legittimo" in capo al proprietario dell'abuso, giammai
destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a
ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata”.
Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione
dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 167 del
D.Lgs. n. 42/2004, in quanto il provvedimento impugnato non
avrebbe dovuto essere indirizzato al ricorrente, che non è
proprietario del terreno su cui sono state realizzate le
opere, né responsabile dell’abuso.
La doglianza, come rilevato dal Comune resistete, è
eccentrica, atteso che ove fosse fondata, non sussisterebbe
interesse all’impugnazione.
In ogni caso, è infondata anche nel merito.
Come affermato ormai da costante giurisprudenza, se, in
linea generale, permane l’obbligo di emanare le ordinanze di
demolizione di opera edilizia abusiva nei confronti del
proprietario attuale, indipendentemente dall’essere o meno
responsabile delle opere abusive, detto ordine deve comunque
essere rivolto anche nei confronti di chi utilizzi o abbia
la disponibilità dell’opera abusiva quale soggetto in grado
di porre fine alla situazione antigiuridica,
indipendentemente dal coinvolgimento o meno nella
realizzazione dell’abuso, in considerazione del carattere
ripristinatorio della disposta demolizione (da ultimo, TAR
Puglia, Lecce, sez. I, 28.07.2017, n. 2017) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 16.03.2018 n. 319 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Discarica abusiva - Edificazione di
manufatti finalizzati all'esercizio della discarica abusiva
- DANNO AMBIENTALE - risarcimento del danno nei confronti
della Città metropolitana di Milano - Artt. 212, 256 d.lgs.
n.152/2006.
Deve essere ricompresa nel concetto di discarica abusiva
anche la realizzazione di quei manufatti che sono
funzionalmente destinati alla discarica stessa.
Va infatti rilevato che, nel concetto di discarica -come
individuato dall'art. 2, comma 1, lettera g), del d.lgs. n.
36 del 2003- non devono essere ritenuti compresi solo i
rifiuti depositati, ma anche il suolo, eventualmente oggetto
di trasformazioni finalizzate al suo utilizzo, e le opere
edilizie, permanenti o precarie, realizzate per la
collocazione e la gestione dei rifiuti e del sito.
Si tratta, infatti, di elementi la cui presenza, consentendo
in linea di massima una maggiore capacità di smaltimento,
contribuisce in modo significativo alla compromissione
dell'ambiente che la norma penale intende evitare.
Nella specie, l'imputato era stato condannato, anche al
risarcimento del danno nei confronti della Città
metropolitana di Milano, per:
A) il reato di cui agli artt. 256, commi 1, lettera a), in
relazione all'art. 212, del d.lgs. n 152 del 2006, perché,
in qualità di proprietario di un autocarro, effettuava il
trasporto di rifiuti non pericolosi, prodotti da un'attività
di costruzione e demolizione, in mancanza dell'iscrizione
all'albo dei gestori ambientali;
B) il reato di cui all'art. 256, comma 3, del d.lgs. n 152 del
2006, perché, in qualità di titolare di una ditta
individuale, realizzava e gestiva una discarica in mancanza
di autorizzazione su un'area sottoposta a tutela
paesaggistica, attraverso l'accumulo di terre da scavo miste
a rifiuti da attività di demolizione, pneumatici, ulteriori
rifiuti di demolizione, generando un degrado ambientale per
la presenza e le modalità di accumulo dei suddetti rifiuti,
destinati a permanere nel luogo con carattere di
definitività;
C) il reato di cui all'art. 181, comma 1, del d.lgs. n. 42 del
2004, per avere realizzato la discarica di cui sopra in area
sottoposta a vincolo paesaggistico in mancanza di
autorizzazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.03.2018 n. 11568 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La circostanza secondo cui l’ordine di rimozione
del manufatto sia stato adottato a distanza di 28 anni dalla
sua realizzazione non è idonea a radicarne la sua
invalidità.
La questione è stata affrontata dall’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato che «con sentenza n. 9 del 2017 con la
quale ha statuito che nel caso di tardiva adozione del
provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte
dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere
finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse
pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che
(l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare
un affidamento di carattere «legittimo» in capo al
proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto
amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa
giuridicamente qualificata […]. Se dunque il decorso del
tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli
atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione
della relativa sanzione, deve conseguentemente essere
escluso che l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo
(pur se tardivamente adottata) debba essere motivata sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al
ripristino della legalità violata».
E’ dunque del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia
adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato
carattere abusivo dell’intervento (recte: «opere edilizie
realizzate in assenza di titolo abilitativo»), senza che si
impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali,
applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.
In tal senso, peraltro, neppure la lamentata omessa mancata
comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento coglie
nel segno, posto che secondo la consolidata giurisprudenza
non è necessario dar luogo a siffatto adempimento in
relazione all’ordine di demolizione.
---------------
1.- Oggetto della domanda di annullamento proposta con il
ricorso in epigrafe è l’ordinanza con la quale il
Responsabile dello sportello unico per l’edilizia (SUE) del
Comune di Vergato ingiungeva alla ricorrente società la
sospensione dei lavori e la demolizione del manufatto
edilizio destinato alla captazione di acqua nel sottosuolo e
relativa recinzione, siti nello stesso Comune, in località Cereglio, via
... s.n.c., foglio 19, mappale 55.
2.- Le ragioni del provvedimento ripristinatorio risiedevano
nella (presupposta) carenza del titolo abilitativo,
nell’avvenuta realizzazione delle opere su proprietà altrui,
nella sussistenza del vincolo forestale previsto dal PSC
approvato in data 29.01.2016 e nella circostanza che
l’area risulta assoggettata alla tutela prevista dal d.lgs.
n. 42 del 2004.
...
9.- Il motivo è infondato.
...
11.- Con il secondo motivo parte ricorrente deduce vizi di
ordine procedimentale che, a suo dire, avrebbero dato luogo
alla difettosità della motivazione.
Il motivo non è meritevole di pregio.
Va preliminarmente osservato che la circostanza secondo cui
l’ordine di rimozione del manufatto sia stato adottato a
distanza di 28 anni dalla sua realizzazione non è idonea a
radicarne la sua invalidità.
La questione è stata affrontata
dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che «con
sentenza n. 9 del 2017 con la quale ha statuito che nel caso
di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la
mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di
un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti
finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire
legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin
dall’origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non
può certamente radicare un affidamento di carattere
«legittimo» in capo al proprietario dell’abuso, giammai
destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a
ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata […]. Se
dunque il decorso del tempo non può incidere
sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione,
deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di
demolizione di immobile abusivo (pur se tardivamente
adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata» (cfr. C.G.A., SS.RR., n. 66 del 2018).
E’
dunque del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia
adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato
carattere abusivo dell’intervento (recte: «opere edilizie
realizzate in assenza di titolo abilitativo»), senza che si
impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali,
applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria
(cfr. C.G.A., cit.; Cons. St., IV, 28.02.2017, n.
908).
In tal senso, peraltro, neppure la lamentata omessa
mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento
coglie nel segno, posto che secondo la consolidata
giurisprudenza non è necessario dar luogo a siffatto
adempimento in relazione all’ordine di demolizione (cfr. in
tal senso, C.G.A., SS.RR., n. 24 del 2018) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez.
II,
sentenza 14.03.2018 n. 234 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non può ritenersi sussistere l’estraneità delle
opere realizzate alla disciplina che regola il conseguimento
del titolo abilitativo poiché correlate alla coltivazione
del giacimento: costituisce massima consolidata quella
secondo cui «le opere edili realizzate all’interno di una
cava in cui si svolgono attività estrattive autorizzate
necessitano del permesso di costruire, ove non precarie,
anche se connesse al ciclo produttivo».
---------------
1.- Oggetto della domanda di annullamento proposta con il
ricorso in epigrafe è l’ordinanza con la quale il
Responsabile dello sportello unico per l’edilizia (SUE) del
Comune di Vergato ingiungeva alla ricorrente società la
sospensione dei lavori e la demolizione del manufatto
edilizio destinato alla captazione di acqua nel sottosuolo e
relativa recinzione, siti nello stesso Comune, in località Cereglio, via
... s.n.c., foglio 19, mappale 55.
2.- Le ragioni del provvedimento ripristinatorio risiedevano
nella (presupposta) carenza del titolo abilitativo,
nell’avvenuta realizzazione delle opere su proprietà altrui,
nella sussistenza del vincolo forestale previsto dal PSC
approvato in data 29.01.2016 e nella circostanza che
l’area risulta assoggettata alla tutela prevista dal d.lgs.
n. 42 del 2004.
...
9.- Il motivo è infondato.
...
12.- Il terzo mezzo sottoposto all’attenzione del Collegio è
volto ad evidenziare l’asserita carenza di presupposti per
farsi luogo all’impugnata demolizione sul rilievo che il
manufatto di cui trattasi ricadrebbe su area da ritenersi di
proprietà pubblica.
La doglianza non è meritevole di pregio.
Osserva il Collegio che al di là dei rapporti interni tra i
soggetti privati relativi allo statuto proprietario
dell’area -e qui la natura pubblica del fondo non risulta
affatto provata-, in ogni caso l’art. 9 della l.r. Em. Rom.
n. 15 del 2013 stabilisce che «le attività edilizie, anche
su aree demaniali, sono soggette a titolo abilitativo»,
sicché è naturale arguirne l’applicazione delle conseguenti
norme ripristinatorie, fermo restando che anche il Testo
unico per l’edilizia, approvato con d. P.R. n. 380 del 2001,
attribuisce rilevanza alla realizzazione da parte di privati
di interventi edilizi su aree demaniali.
Né ancora può ritenersi sussistere l’estraneità delle opere
realizzate alla disciplina che regola il conseguimento del
titolo abilitativo poiché correlate alla coltivazione del
giacimento: costituisce massima consolidata quella secondo
cui «le opere edili realizzate all’interno di una cava in
cui si svolgono attività estrattive autorizzate necessitano
del permesso di costruire, ove non precarie, anche se
connesse al ciclo produttivo» (ex aliis, Cass. pen. 18546
del 2010).
Sulla base di tali considerazioni l’ordinanza emanata dal
Comune risulta, per tali aspetti, correttamente adottata (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez.
II,
sentenza 14.03.2018 n. 234 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per individuare la natura precaria di un'opera,
si deve seguire «non il criterio strutturale, ma il criterio
funzionale», per cui un'opera se è realizzata per soddisfare
esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del
regime proprio delle opere precarie anche quando le opere
sono state realizzate con materiali facilmente amovibili.
Non possono essere quindi considerati manufatti precari,
destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee, quelli
destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, e
l'alterazione del territorio non può essere considerata né
temporanea né precaria né irrilevante.
La «precarietà» dell'opera postula un uso specifico e
temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità
che non esclude la destinazione del manufatto al
soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti,
ma permanenti nel tempo.
---------------
1.- Oggetto della domanda di annullamento proposta con il
ricorso in epigrafe è l’ordinanza con la quale il
Responsabile dello sportello unico per l’edilizia (SUE) del
Comune di Vergato ingiungeva alla ricorrente società la
sospensione dei lavori e la demolizione del manufatto
edilizio destinato alla captazione di acqua nel sottosuolo e
relativa recinzione, siti nello stesso Comune, in località Cereglio, via
... s.n.c., foglio 19, mappale 55.
2.- Le ragioni del provvedimento ripristinatorio risiedevano
nella (presupposta) carenza del titolo abilitativo,
nell’avvenuta realizzazione delle opere su proprietà altrui,
nella sussistenza del vincolo forestale previsto dal PSC
approvato in data 29.01.2016 e nella circostanza che
l’area risulta assoggettata alla tutela prevista dal d.lgs.
n. 42 del 2004.
...
9.- Il motivo è infondato.
...
13.- Con il quarto motivo la ricorrente si duole
dell’illegittimità del provvedimento poiché lo stesso
riguarda opere interrate, aventi carattere precario,
rispetto alle quali, all’atto del rinnovo
dell’autorizzazione all’attività estrattiva, il Comune aveva
espresso il proprio parere favorevole sul versante
urbanistico.
Il motivo è infondato.
Rileva il Collegio che nessuno degli elementi volti a
configurare il manufatto quale avente carattere precario
risulta venir qui in evidenza. Sul punto deve essere
ribadito che per individuare la natura precaria di un'opera,
si deve seguire «non il criterio strutturale, ma il criterio
funzionale», per cui un'opera se è realizzata per soddisfare
esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del
regime proprio delle opere precarie anche quando le opere
sono state realizzate con materiali facilmente amovibili
(fra le decisioni più recenti cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1291 del
01.04.2016).
Non possono essere quindi
considerati manufatti precari, destinati a soddisfare
esigenze meramente temporanee, quelli destinati ad una
utilizzazione perdurante nel tempo, e l'alterazione del
territorio non può essere considerata né temporanea né
precaria né irrilevante (Consiglio di Stato, Sez. VI, n.
4116 del 04.09.2015).
La «precarietà» dell'opera
postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e
non la sua stagionalità che non esclude la destinazione del
manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e
contingenti, ma permanenti nel tempo (Consiglio di Stato,
Sez. VI, n. 1291 del 01.04.2016 cit.).
Nel caso di specie va ritenuto che siffatte caratteristiche
non sussistano sicché il manufatto andava assoggettato al
titolo abilitativo di legge (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez.
II,
sentenza 14.03.2018 n. 234 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Solo
il visto contabile rende il credito certo ed esigibile.
La determina di liquidazione, effettuata dal responsabile del servizio su un
impegno contabile, è un atto interno e non può provare la certezza del
credito fatto valere dal terzo. Per avere certezza del credito e, quindi,
provare il perfezionamento dell'obbligazione giuridica, assume valore il
solo visto di regolarità contabile del responsabile del servizio
finanziario.
Lo ha deciso la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la
ordinanza 13.03.2018 n. 6026.
I fatti di causa
In mancanza del pagamento vantato nei confronti di un cliente, un creditore
si è rivolto al Comune (quale terzo pignorato) per il recupero del debitore
esecutato, producendo a supporto la determina di liquidazione del
responsabile dell'ufficio tecnico.
Il Tribunale di primo grado ha riconosciuto nella determina di liquidazione
il documento con il quale il Comune ha certificato la somma certa e liquida
da pagare e, come tale, il necessario presupposto ai fini dell'azione dei
successivi atti amministrativo contabili volti a consentire il pagamento del
credito oggetto di liquidazione.
La Corte territoriale ha reputato, al contrario, sulla base dello stesso
materiale istruttorio, che la determina del servizio tecnico comunale
rappresentasse mero atto a valenza esclusivamente interna, inidonea, in
assenza del visto di regolarità contabile del responsabile del servizio
finanziario, a costituire valida prova del credito verso l'ente locale.
Contro la sentenza il convenuto si è rivolto alla Cassazione, evidenziando
l'errore della Corte territoriale in quanto, a suo dire, non solo la
determinazione rappresenta di per sé un credito liquido ed esigibile, ma che
il Comune ha anche dichiarato l'avvenuto successivo pagamento provando con
ciò la natura del credito certo ed esigibile sin dall'origine.
Le indicazioni della Cassazione
Per i giudici di Piazza Cavour non vi è contraddizione tra la dichiarazione
da parte del Comune circa la mancanza di certezza del credito, al momento
della produzione della prova della determinazione fornita in giudizio,
rispetto alla successiva dichiarazione dello stesso ente locale di
estinzione del credito mediante pagamento con successivo mandato, in quanto
ciò non ingenera un irriducibile contrasto con l'affermazione
dell'insussistenza del credito, per difetto di prova dei fatti costitutivi.
Infatti, in merito alla determinazione da parte del responsabile
dell'ufficio tecnico, quale prova del credito esistente, va precisato quanto
segue:
• a differenza di quanto asserito dal convenuto che, ai fini della
valida costituzione del rapporto obbligatorio con gli enti locali è
necessario l'impegno di spesa con l'attestazione della copertura finanziaria
in base all'articolo 191 del Tuel, la Corte ha ben evidenziato la mancanza
della regolarità contabile del responsabile del servizio finanziario
dell'ente, quale mezzo non solo di controllo di legittimità della spesa, ma
anche del requisito di esecutività e di giuridica efficacia della determina
di impegno. La determina di impegno, infatti, in mancanza del visto di
regolarità contabile, ha natura di atto endoprocedimentale a valenza
meramente interna, non dimostrativo della esistenza di un'obbligazione
dell'ente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.03.2018).
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MASSIMA
3. Con il sesto e settimo motivo di ricorso, si lamenta
violazione delle regole in tema di onere della prova.
Più specificamente, il ricorrente denuncia che «ai fini della valida
costituzione del rapporto obbligatorio con gli enti locali è necessaria
l'impegno di spesa con l'attestazione della copertura finanziaria ai sensi
dell'articolo 191 del T.U.E.L.», mentre la Corte territoriale,
considerando la necessità del visto di regolarità contabile dato rilevanza
alla fase meramente esecutiva della liquidazione della spesa, ad un tempo
gravando il creditore attore de la prova dell'esistenza di detto visto,
dimostrazione che, invece, in forza del criterio di vicinanza della prova,
doveva essere fornita dal Comune convenuto in accertamento dell'obbligo.
Le censure sono destituite di fondamento.
In linea generale, quanto alla ripartizione del carico probatorio nel
giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo, è jus
receptum nella giurisprudenza di questa Corte che il creditore è tenuto
a provare il fatto costitutivo dell'obbligo del terzo, mentre a quest'ultime
incombe l'onere di provare di aver estinto la sua obbligazione prima del
pignoramento (cfr. Cass.
21/03/2014, n. 6760; Cass. 18/11/2010, n. 23324; Cass. 08/06/1994, n. 5547).
Pienamente conformandosi a detto canone, l'impugnata sentenza ha onerato il
creditore della asseverazione dei fatti costitutivi del credito dell'ente
locale e ritenuto, a tale fine, la insufficienza della mera determina del
servizio tecnico comunale.
Quanto alla valida costituzione del rapporto obbligato con il Comune, la
censura del ricorrente è frutto di un evidente equivoco nella lettura delle
disposizioni del T.U.E.L., dacché, proprio come assume il motivo in
disamina, la sentenza impugnata ha considerato la necessità
dell'impegno di spesa con attestazione di copertura finanziaria:
quest'ultima, invero, si congiunge necessariamente, a mente del combinato
disposto degli artt. 153 e 191 del T.U.E.L., al visto di regolarità
contabile del responsabile del servizio finanziario dell'ente, mezzo di
controllo di legittimità della spesa, requisito di esecutività e di
giuridica efficacia della determinazione di impegno, la quale, ex se
valutata, ha natura di atto endoprocedimentale a valenza meramente interna,
non dimostrativo dell'esistenza di un'obbligazione dell'ente. |
APPALTI:
L'offerta bassa non è per forza anomala.
L'offerta non è automaticamente anomala se risulta inferiore al valore delle
tabelle ministeriali; occorre che vi siano discordanze considerevoli e
ingiustificate.
Lo afferma il Consiglio di Stato con la
sentenza 13.03.2018 n. 1609 del
della III Sez. in merito alla verifica dell'anomalia di una offerta
concernente un appalto (servizi di vigilanza) con il criterio del prezzo più
basso.
I giudici innanzitutto precisano che nelle gare pubbliche la verifica
dell'anomalia dell'offerta è finalizzata alla verifica dell'attendibilità e
della serietà della stessa ed all'accertamento dell'effettiva possibilità
dell'impresa di eseguire correttamente l'appalto alle condizioni proposte.
Ciò premesso, la valutazione della stazione appaltante riveste «natura
globale e sintetica e costituisce espressione di un tipico potere
tecnico-discrezionale riservato alla Pubblica amministrazione che, come
tale, è insindacabile in sede giurisdizionale, salvo che la manifesta e
macroscopica erroneità o irragionevolezza dell'operato, renda palese
l'inattendibilità complessiva dell'offerta».
È noto infatti che il giudice amministrativo non può procedere ad alcuna
autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci: si
tratterebbe di una sorta di invasione della sfera propria della pubblica
amministrazione. Il giudici può semmai verificare il giudizio sotto i
profili della logicità, della ragionevolezza e dell'adeguatezza
dell'istruttoria «ferma restando l'impossibilità di sostituire il proprio
giudizio a quello della pubblica amministrazione, può esercitare il proprio
sindacato».
Venendo alla fattispecie esaminata il Consiglio di stato afferma
che, per un appalto (servizi di vigilanza) in cui i riferimenti del costo
del lavoro sono definiti da apposite tabelle ministeriali, un'offerta non
può ritenersi anomala, ed essere esclusa, per il solo fatto che il costo del
lavoro sia stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti
dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi: perché possa dubitarsi
della sua congruità, occorre che le discordanze siano considerevoli e
palesemente ingiustificate. Cosa che non era stata dimostrata in concreto (articolo
ItaliaOggi del 23.03.2018).
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MASSIMA
2.§.3. L’impianto complessivo non convince.
Come è noto, nelle gare pubbliche la verifica dell'anomalia
dell'offerta è finalizzata alla verifica dell'attendibilità e della serietà
della stessa ed all'accertamento dell'effettiva possibilità dell'impresa di
eseguire correttamente l'appalto alle condizioni proposte. La relativa
valutazione della stazione appaltante ha natura globale e sintetica e
costituisce espressione di un tipico potere tecnico-discrezionale riservato
alla Pubblica amministrazione che, come tale, è insindacabile in sede
giurisdizionale, salvo che la manifesta e macroscopica erroneità o
irragionevolezza dell'operato, renda palese l'inattendibilità complessiva
dell'offerta (Consiglio di Stato
sez. V 30.10.2017 n. 4978).
Di norma infatti il giudice amministrativo non può
procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle
singole voci, che rappresenterebbe un'inammissibile invasione della sfera
propria della Pubblica amministrazione, ma può solo verificare il giudizio
sotto i profili della logicità, della ragionevolezza e dell’adeguatezza
dell'istruttoria (cfr. Consiglio
di Stato sez. VI 15.09.2017 n. 4350). Solo in tali limiti,
il giudice di legittimità, ferma restando l'impossibilità di sostituire il
proprio giudizio a quello della Pubblica amministrazione, può esercitare il
proprio sindacato (cfr. Consiglio
di Stato sez. V 21.11.2017 n. 5387).
Nella sostanza poi, un'offerta non può ritenersi anomala,
ed essere esclusa, per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato
calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle
ministeriali o dai contratti collettivi: perché possa dubitarsi della sua
congruità, occorre che le discordanze siano considerevoli e palesemente
ingiustificate (cfr. Consiglio di
Stato sez. III 21.07.2017 n. 3623).
Il che deve escludersi nella presente fattispecie. |
APPALTI: Anomalia
dell’offerta.
Nelle gare pubbliche il livello di
approfondimento richiesto alla stazione appaltante in sede
di valutazione della non anomalia dell'offerta, rispetto
alle singole voci di costo presentate, varia in funzione
delle caratteristiche dell'offerta e della plausibilità
delle giustificazioni già rese rispetto alle singole voci,
venendo in considerazione un giudizio discrezionale, in
ordine alla complessiva affidabilità dell'offerta, su cui il
giudice effettua un sindacato ab estrinseco.
Il giudizio, che conclude il sub procedimento di verifica
delle offerte anomale (di per sé insindacabile, salva
l'ipotesi in cui le valutazioni ad esso sottese non
risultino abnormi o manifestamente illogiche o affette da
errori di fatto), ha, infatti, natura globale e sintetica
sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme e,
conseguentemente, la relativa motivazione deve essere
rigorosa in caso di esito negativo.
Al contrario, la positiva valutazione di congruità
della presunta offerta anomala è sufficientemente espressa
anche con eventuale motivazione per relationem alle
giustificazioni rese dall'impresa offerente.
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Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto l’eccesso di potere
sotto vari profili, lamentando, in particolare, l’erroneo
giudizio di congruità dell’offerta della controinteressata
operato dalla stazione appaltante in ragione di una
sottostima delle ore necessarie per l’espletamento del
servizio, nonché del mancato possesso di tutti i veicoli di
classe euro 6, come indicato nell’offerta, per i quali
avrebbe ottenuto un punto in più rispetto a quella della
ricorrente.
La censura non coglie nel segno.
Ed invero, riguardo al primo profilo di doglianza, il
collegio aderisce al costante orientamento giurisprudenziale
in base al quale “Nelle gare pubbliche il livello di
approfondimento richiesto alla stazione appaltante in sede
di valutazione della non anomalia dell'offerta, rispetto
alle singole voci di costo presentate, varia in funzione
delle caratteristiche dell'offerta e della plausibilità
delle giustificazioni già rese rispetto alle singole voci,
venendo in considerazione un giudizio discrezionale, in
ordine alla complessiva affidabilità dell'offerta, su cui il
giudice effettua un sindacato ab estrinseco; il giudizio,
che conclude il sub procedimento di verifica delle offerte
anomale (di per sé insindacabile, salva l'ipotesi in cui le
valutazioni ad esso sottese non risultino abnormi o
manifestamente illogiche o affette da errori di fatto), ha,
infatti, natura globale e sintetica sulla serietà o meno
dell'offerta nel suo insieme e, conseguentemente, la
relativa motivazione deve essere rigorosa in caso di esito
negativo; al contrario, la positiva valutazione di congruità
della presunta offerta anomala è sufficientemente espressa
anche con eventuale motivazione per relationem alle
giustificazioni rese dall'impresa offerente” (cfr., fra
le tante, Cons. Stato, sez. V, 27.07.2017, n. 3702) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 13.03.2018 n. 727
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Soggetto “interessato” a sollecitare l’esercizio
delle verifiche spettanti all’Amministrazione nei confronti
di una Scia edilizia.
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Scia – Verifica – Soggetto interessato – Individuazione –
Ditta titolare distributore di carburante – Verifica Scia
edilizia rilasciata ad altra ditta titolare di un
distributore di carburanti – mancata impugnazione relativo
titolo commerciale – Non è soggetto interessato.
Non può essere considerato
“interessato” a sollecitare l’esercizio delle verifiche
spettanti all’Amministrazione nei confronti di una Scia
edilizia, rilasciata ad una ditta titolare di un
distributore di carburanti, e, in caso di inerzia, ad
esperire l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a.,
ai sensi dell’art. 19, comma 6-ter, l. 07.08.1990, n. 241,
il terzo -titolare di altro distributore di carburanti
situato a circa 1,5 km di distanza da quello della ditta
controinteressata- allorquando l’eventuale accoglimento
dell’azione non possa soddisfare l’interesse commerciale che
muove e legittima l’intervento dello stesso (1).
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(1)
La Sezione ha affrontato la questione della legittimazione e
dell’interesse in capo alla società ricorrente, titolare di
un distributore di carburanti situato a circa 1,5 km di
distanza da quello della ditta controinteressata, a
sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti
all’Amministrazione nei confronti di una Scia edilizia
presentata da quest’ultima e, in caso di inerzia, ad
esperire l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a.,
ai sensi dell’art. 19, comma 6-ter, l. 07.08.1990, n. 241, e
ciò a fronte della mancata impugnazione del titolo
commerciale su cui peraltro l’Amministrazione non ha inteso
esercitare il discrezionale ed autonomo potere di autotutela
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 12.03.2018 n. 630 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
6. Il Collegio ritiene prioritario affrontare, anche nel
presente giudizio, la questione relativa alla sussistenza
della legittimazione ed interesse ad agire in capo alla
ricorrente.
6.1. Quest’ultima agisce nella dichiarata finalità di
contestare la sussistenza dei presupposti dell’attività
segnalata quale terzo ai sensi dell’art. 6-ter dell’art. 19 L.
n. 241/1990, sollecitando le verifiche spettanti al Comune a
fronte di segnalazione di un’attività privata per esso
lesiva e, attesa l’inerzia, proponendo l’azione ex art. 31
del cod. proc. amm.
Specifica che, successivamente alla presentazione del
ricorso in appello, la stessa abbia rilevato una serie di
vizi ulteriori a quelli denunciati con il precedente
giudizio e con quello incardinato presso il Consiglio di
Stato.
Osserva il Collegio che l’unica nuova S.C.I.A. (edilizia) di
cui al presente ricorso -non oggetto di censure nel
precedente giudizio di cui sopra- è costituita dalla
S.C.I.A. n. 229 del 07.11.2016, con cui la ditta Fe. ha
apportato una variante al permesso di costruire originario
nei termini ivi descritti.
Orbene, per le medesime ragioni già esplicitate da questo
TAR Catanzaro, sez. II, con la sentenza n. 1577/2016, sub
iudice e non sospesa con appello cautelare, la mancata
impugnazione del titolo commerciale induce questo Collegio a
ritenere la carenza di interesse (e di legittimazione) in
capo alla ditta ricorrente anche a chiedere, con la presente
azione, che venga accertato e dichiarato che il Comune di
Acri, con il suo silenzio a seguito delle diffide della
stessa, è venuto meno agli obblighi su questo incombenti in
forza dell’art. 2 e art. 19, commi 3 e 6-ter della L. n.
241/1990.
Il Collegio ritiene, insomma,
che non può essere considerato
“interessato” a sollecitare l’esercizio delle verifiche
spettanti all’amministrazione nei confronti di una S.C.I.A.
edilizia e, in caso di inerzia, ad esperire l’azione di cui
all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del cod. proc. amm., ai sensi
dell’art. 19, comma 6-ter della legge n.241 del 1990, il
terzo -titolare di un distributore di carburanti situato a
circa 1,5 km di distanza da quello della ditta controinteressata- allorquando l’eventuale accoglimento
dell’azione, come nel caso, non possa soddisfare l’interesse
commerciale che muove e legittima l’intervento dello stesso;
ciò a fronte della mancata impugnazione del titolo
commerciale (cfr. TAR Calabria n. 1577/2016) -su cui
peraltro l’amministrazione, allo stato, non ha inteso
esercitare il discrezionale ed autonomo potere di autotutela
(pagg. 11 e 12 della memoria del Comune depositata in data 2
marzo 2018)– ed a fronte dell’intervenuto rilascio
temporaneo, in data del 26.06.2017, da parte
dell’Agenzia delle Dogane, della licenza di esercizio
relativa all’impianto ai fini fiscali.
Né vale, in questa sede, l’argomentazione sostenuta da parte
ricorrente secondo cui, nel caso, non si sarebbe formata
l’autorizzazione petrolifera per silentium, in quanto ciò
non costituisce oggetto del presente giudizio, volto invero
ad accertare l’inerzia dell’amministrazione a fronte dei
poteri sollecitatori del terzo per inibire l’attività
connessa a S.C.I.A. edilizia ritenuta illegittima o per
indurre interventi in autotutela dell’amministrazione sui
titoli edilizi indicati.
7. Il Collegio ritiene, inoltre, al di là delle superiori ed
assorbenti valutazioni, di specificare che il ricorso
comunque è inammissibile anche per le seguenti ragioni:
a) con la prima diffida (del 23/12/2016) parte ricorrente
chiedeva sostanzialmente l’attivazione dei poteri inibitori
sulla SCIA in variante del 7-10/11/2016 con cui il Fe.
dichiarava di avere eliminato i muri di scarpa;
a.1) a tale richiesta risulta che il Comune di Acri forniva
riscontro, rispondendo ad un sollecito dei poteri inibitori
(del 20/05/2017 prot. n. 8816), con comunicazione del
14/06/2017 prot. n.10297; in particolare, con tale nota si
dichiarava che la ditta Ferraro aveva fatto pervenire
chiarimenti in merito alla relazione geologica in precedenza
prodotta; che “da tale relazione il tecnico incaricato
ribadisce chiaramente che le scarpate bordanti l’area sulla
quale è in fase di realizzazione l’impianto di distribuzione
carburanti sono stabili. Per quanto riguarda la distanza tra
l’ingresso, nella predetta area, ed il vicino incrocio
misura oltre 12,00 mt, per come si evince dagli elaborati
grafici presentati successivamente al rilascio del P. di C..
Pertanto, considerato che esiste un giudizio pendente tra le
parti, il sottoscritto non può entrare nel merito delle
questioni poste con la Vs. sopracitate e ritiene concluso
favorevolmente l’iter urbanistico …”; conseguentemente, con
riferimento a tale diffida, il ricorso si palesa
inammissibile atteso il riscontro del Comune;
b) con la seconda diffida (del 07/04/2017) Br.
sollecitava il Comune di Acri “a voler inibire … l’inizio
dell’attività commerciale in considerazione degli evidenti
rischi idraulici e delle … illegittimità procedimentali; - a
voler avviare un procedimento di autotutela delle
autorizzazioni sin qui concesse …; con la terza diffida (del
19/05/2017) il ricorrente manifestava al Comune “le evidenti
carenze procedimentali e amministrative che viziano i titoli
autorizzativi della Ditta Fe. …”; con la quarta diffida
(del 23/05/2017) il ricorrente confidava che il Comune non
rilasciasse “alcuna tipologia di autorizzazione
all’esercizio … stante la conclamata assenza del titolo
commerciale e le persistenti difformità urbanistiche…”; con
la quinta diffida (del 07/07/2017) il ricorrente ribadiva
l’inesistenza dell’autorizzazione petrolifera, la presunta
difformità di quanto realizzato rispetto a quanto presente
nei titoli ed infine la mancata conformità dell’impianto con
il Codice della Strada ed invitava l’amministrazione alla
verifica della legittimità dell’azione amministrativa, anche
invocando il potere sostitutivo sancito dall’art. 39 del
d.p.r. n. 380/2001;
b.1) con riferimento a tali diffide, giova osservare
l’inammissibilità della richiesta inibitoria non
specificamente correlata ad un nuovo titolo (o fondata su
ritenuti vizi procedimentali sub iudice, per come sopra
esposto, e comunque relativi a titoli già impugnati con il
precedente giudizio), nonché la non coercibilità
dell’intervento in autotutela dell’amministrazione, non
sussistendo in capo a quest’ultima alcun obbligo di
provvedere (Consiglio di Stato, n. 2549/2012).
8. Conclusivamente, sulla base delle superiori valutazioni e
prescindendo dalle ulteriori censure in rito sollevate dalle
parti e sin qui non esaminate, il presente ricorso va
dichiarato inammissibile. |
EDILIZIA PRIVATA: Rilevanza
di un balcone aggettante ai fini del calcolo delle distanze.
Il TAR Milano, dopo aver richiamato la disciplina di cui
all’art. 9 del DM n. 1444/1968 -che per la zona storica
degli agglomerati urbani prevede, in caso di
ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non
possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi
edificati preesistenti, computati senza tener conto di
costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore
storico, artistico o ambientale- precisa che tale
disposizione è stata interpretata dalla giurisprudenza nel
senso che la natura di norma di ordine pubblico, quindi il
computo del limite di 10 metri lineari tra pareti finestrate
e pareti di edifici antistanti, debba tenere conto di un
eventuale balcone aggettante solo nel caso in cui una norma
di piano preveda ciò
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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Nel merito il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto.
In prima battuta, occorre osservare che nel verbale di
sopralluogo del 24.6.2016 si è testualmente riportato che
“l’area di intervento risulta classificata ai sensi delle
Norme di Attuazione del PGT vigente quale Tessuto storico
consolidato (Art. 37)”.
Tale inquadramento, in corso di causa, è stato confutato non
già dal Comune mediante, ad esempio, un certificato di
destinazione urbanistica, quanto –assertivamente– dal suo
difensore costituito in giudizio: un’opposizione che,
pertanto, non può determinare la revisione del più puntuale
contenuto del citato verbale.
Da ciò deriva, quale naturale conseguenza, l’applicazione
della previsione di cui all’art. 37 delle norme attuative
del piano delle regole del PGT, in cui spicca –nel contesto
generale di un’impostazione conservativa del patrimonio
esistente– la possibilità di effettuare una
riqualificazione degli edifici e delle aree degradate, anche
attraverso interventi di demolizione con o senza
ricostruzione e il ridisegno degli spazi aperti.
Nella specie, si è registrata una diffusa contrarietà, da
parte dei comproprietari del cortile, in merito alla
realizzazione del balcone frontistante una parete cieca,
posta a una distanza –in origine determinata– di circa mt.
7,36.
Tale opera, tuttavia, è ad avviso del Collegio ammissibile
in ragione della piana applicazione della disciplina di cui
all’art. 9 del DM 1444/1968, che, per la zona storica degli
agglomerati urbani (comma 1, n. 1), prevede, in caso di
ristrutturazioni, che “le distanze tra gli edifici non
possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi
edificati preesistenti, computati senza tener conto di
costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore
storico, artistico o ambientale”.
Tale disposizione è stata interpretata dalla giurisprudenza
nel senso che la natura di norma di ordine pubblico, quindi
il computo del limite di 10 metri lineari tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti, debba tenere
conto di un eventuale balcone aggettante solo nel caso in
cui una norma di piano preveda ciò (cfr., Consiglio di
Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381; TAR Lazio-Roma, 31.03.2010 n. 5319; TAR Liguria, 10.07.2009, n. 1736).
Nel caso concreto, la norma in questione è quella di cui
all’art. 13 delle NTA, ma nella versione effettivamente
individuata dai ricorrenti come applicabile ratione temporis
alla fattispecie, ossia quella secondo cui “ai fini della
misurazione delle distanze non si tiene conto degli aggetti
e degli sporti di gronda la cui sporgenza, rispetto al filo
di facciata, non ecceda 1,20 mt.”.
La disposizione che, invece, è stata richiamata
nell’impugnato provvedimento, ossia quella in cui si è
previsto che “sono esclusi dal calcolo delle distanze gli
sporti di gronda, non eccedenti 1,20 m, solo se questi
ultimi siano parte integrante del sistema di copertura”,
approvata con deliberazione di C.C. n. 5 dell’11.02.2016, è
stata, però, pubblicata sul BURL del 20.07.2017.
Dunque, ai
sensi dell’art. 13, comma 11, della legge regionale 12/2005
(“gli atti di PGT acquistano efficacia con la pubblicazione
dell’avviso della loro approvazione definitiva sul
Bollettino ufficiale della Regione, da effettuarsi a cura
del Comune”) la formulazione riformata non è opponibile ai
ricorrenti, il cui titolo edilizio si è consolidato, in
assenza di qualsiasi interdizione da parte
dell’Amministrazione, dopo il decorso di 30 giorni dalla
presentazione della DIA del 07.03.2016 e la cui legittimità è
stata tardivamente contestata, senza neppure evidenziare una
falsa rappresentazione della situazione dei luoghi e dei
programmati lavori (quindi senza provvedere all’annullamento
del titolo in autotutela), in data 13.09.2016.
Non essendo, pertanto, in discussione che l’aggetto
(profondità del balcone) sia, effettivamente, contenuto
entro il limite massimo di 1,20, ne deriva la sua regolarità
edilizia.
Invero, la precisa volontà dell’Amministrazione di ritenere
non pregiudicanti situazioni come quella in questione
conferma un intendimento, a monte, sulla portata della
tutela indotta dall’applicazione dell’art. 9 del DM
1444/1968, vale a dire, certamente, la difesa dell’interesse
pubblico di natura igienico-sanitaria, ovvero l’esigenza di
garantire l’aerazione degli spazi interni agli edifici e di
evitare la formazione di intercapedini malsane tra i
fabbricati (nella prospettiva illuminata di cui alla
sentenza della Corte costituzionale del 16.06.2005 n.
232), ma tenendo, tuttavia, conto –questo l’aspetto
innovativo– delle possibili conseguenze pratiche derivanti
da un’applicazione imponderata di tale disciplina.
Con ciò si vuol dire che il Comune di Cassano D’Adda ha
inteso positivizzare, mediante la citata previsione sulla
graduazione della rilevanza di aggetti e sporti ai fini del
computo della distanza legale, un canone di proporzionalità,
fondato, cioè, su un apprezzamento che può garantire un
contemperamento tra la trasformazione edilizia e le esigenze
di aerazione ed illuminazione (su tale principio, cfr. TAR
Lombardia–Brescia, 27.08.2010, n. 3240).
Quanto alla presunta compromissione del diritto dei
comproprietari dell’area cortilizia, si tratta di profili
che esulano dalla vigilanza edilizia, impingendo a profili
di tutela dominicale e di regolamentazione dell’uso delle
parti comuni del tutto estranei all’alveo della
giurisdizione amministrativa (cfr. Corte di Cassazione,
sezioni unite, 18.09.2006, n. 20076, secondo cui
“qualunque controversia possa insorgere nell'ambito
condominiale per ragioni afferenti al condominio,
quand'anche veda contrapposto un singolo partecipante a
tutti gli altri, ciascuno dei quali è singolarmente
rappresentato dall'amministratore, è perciò sempre una
controversia "tra condomini" la cui cognizione ratione loci
spetta esclusivamente e senza alternative, in forza del
citato art. 23 c.p.c., al giudice del luogo dove si trovano
i beni comuni o la maggior parte di essi”).
In conclusione, il ricorso va accolto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.03.2018 n. 684
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Danno
da ritardata conclusione del procedimento amministrativo.
La possibilità di risarcire il danno da
ritardata conclusione del procedimento amministrativo
presuppone anzitutto che un ritardo sia riscontrabile, ossia
richiede che il termine per la conclusione del procedimento
sia decorso interamente, senza che l’Amministrazione abbia
adottato alcuna determinazione espressa o tacita.
Nessun ritardo è perciò configurabile
allorché il silenzio dell’Amministrazione abbia –in virtù
di una previsione legislativa– il valore di un
provvedimento, positivo o negativo, ossia in tutti i casi di
c.d. silenzio-significativo.
In queste ipotesi, infatti, il
decorso del tempo non lascia permanere una situazione di
silenzio-inadempimento della stessa Amministrazione, ma
comporta la formazione di una determinazione conclusiva del
procedimento avviato ed è, perciò, esclusa in radice la
risarcibilità del danno da ritardo, ai sensi dell’art.
2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
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La situazione ora descritta è
riscontrabile nel caso di richiesta di rilascio di un
permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell’articolo 36
del d.P.R. n. 380 del 2001.
Il suddetto procedimento rientra proprio tra quelli
caratterizzati dalla tipizzazione legislativa dell’eventuale
silenzio sull’istanza, atteso che il comma 3 dell’art. 36
stabilisce che sulla richiesta di permesso in sanatoria il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni
decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.
La previsione normativa
determina, pertanto, la formazione legale e automatica di un
provvedimento di diniego una volta decorso il termine
stabilito
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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6. Il ricorso è infondato in tutte le domande proposte e va,
pertanto, respinto.
7. Osserva il Collegio che la possibilità di risarcire il
danno da ritardata conclusione del procedimento
amministrativo presuppone anzitutto logicamente che un
ritardo sia riscontrabile, ossia richiede che il termine per
la conclusione del procedimento sia decorso interamente,
senza che l’Amministrazione abbia adottato alcuna
determinazione espressa o tacita.
Nessun ritardo è perciò configurabile allorché il silenzio
dell’Amministrazione abbia –in virtù di una previsione
legislativa– il valore di un provvedimento, positivo o
negativo, ossia in tutti i casi di c.d. silenzio
significativo. In queste ipotesi, infatti, il decorso del
tempo non lascia permanere una situazione di
silenzio-inadempimento della stessa Amministrazione, ma
comporta la formazione di una determinazione conclusiva del
procedimento avviato. E’, perciò, esclusa in radice la
risarcibilità del danno da ritardo ai sensi dell’articolo
2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (Cons. Stato,
Sez. IV, 29.09.2016, n. 4028).
8. La situazione ora descritta è riscontrabile nel caso
oggetto del presente giudizio.
La società ricorrente ha, infatti, chiesto il rilascio di un
permesso di costruire in sanatoria. Si tratta del titolo
disciplinato dall’articolo 36 del d.P.R. 06.06.2001, n.
380, la cui emissione costituisce l’esito di un procedimento
di accertamento di conformità delle opere realizzate
rispetto alla disciplina urbanistica.
Il suddetto procedimento rientra proprio tra quelli
caratterizzati dalla tipizzazione legislativa dell’eventuale
silenzio sull’istanza. Il comma 3 dell’articolo 36, ora
richiamato, stabilisce infatti che “Sulla richiesta di
permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata
motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la
richiesta si intende rifiutata”. E, al riguardo, la
giurisprudenza ha da tempo chiarito che la previsione
normativa determina la formazione legale e automatica di un
provvedimento di diniego una volta decorso il termine
stabilito (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2008, n. 2681).
9. Alla luce di quanto esposto, deve rilevarsi che, nel caso
oggetto del presente giudizio, sessanta giorni dopo la
presentazione dell’istanza del 15.10.2013 si era già
formato un provvedimento tacito di rigetto, che la
ricorrente non ha impugnato.
La successiva nota comunale del 18.02.2014, recante la
comunicazione di avvio del procedimento, ha quindi operato,
in realtà, il riavvio dell’iter, che si era già da tempo
concluso in senso sfavorevole alla richiedente. In questa
occasione, peraltro, il Comune ha evidenziato la mancata
produzione della documentazione di impatto paesistico,
necessaria ai fini dell’esame del progetto.
Conseguentemente, il termine per la conclusione del
procedimento ha ripreso a decorrere dalla data in cui la
documentazione è stata prodotta, ossia dal 20.02.2014,
e si è poi nuovamente interrotto alla data dell’08.04.2014, quando il Comune ha inviato alla società il preavviso
di provvedimento negativo.
Dopo di ciò, la ricorrente ha presentato le proprie
osservazioni il 17.04.2014, e da questa data ha ripreso
a decorrere il termine di sessanta giorni per la formazione
del silenzio-diniego. Tale termine è quindi nuovamente
decorso il 16.06.2014, con la formazione di un ulteriore
provvedimento negativo, anche questo non impugnato dalla
società richiedente.
Da ultimo, il 26.06.2014 è stato rilasciato il permesso
di costruire in sanatoria con prescrizioni.
10. Come si rileva dalla ricostruzione ora illustrata, in
nessun momento dell’iter può ravvisarsi un ritardo nella
conclusione del procedimento, proprio in considerazione
della valenza attribuita direttamente dalla legge al
silenzio dell’Amministrazione. Emerge, invece, come alle
originarie determinazioni negative formatesi sull’istanza
sia poi seguito un provvedimento positivo espresso, che ha
superato i precedenti dinieghi taciti, mai censurati dalla
ricorrente.
11. Discende pianamente dalle considerazioni ora esposte il
rigetto della domanda di risarcimento del danno proposta ai
sensi dell’articolo 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del
1990.
E ciò a prescindere dalla circostanza, parimenti risultante
dagli atti, che la domanda originariamente presentata dalla
società fosse carente di documentazione essenziale, ossia
della relazione di impatto paesistico, prescritta dal Piano
Territoriale Regionale, e che, inoltre, la relazione
tardivamente prodotta presentasse, secondo l’avviso
dell’Amministrazione, una valutazione del tutto errata
dell’impatto paesistico delle opere.
12. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riferimento
alla domanda di indennizzo proposta ai sensi dell’articolo
2-bis, comma 1-bis della legge n. 241 del 1990.
E’, infatti, la stessa previsione normativa invocata a
stabilire –per evidenti ragioni di ordine logico, prima che
giuridico, secondo quanto sopra esposto– che il diritto
all’indennizzo sia escluso nelle “ipotesi di silenzio
qualificato”, tra le quali rientra il procedimento di cui
all’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
13. In definitiva, alla luce di tutto quanto sin qui
esposto, il ricorso va respinto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.03.2018 n. 680
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Accesso
civico.
Il TAR Milano richiama la sua giurisprudenza e precisa che :
-
l’accesso civico di cui al D.Lgs. n. 33/2013, come
modificato dal D.Lgs. n. 97/2016, pur costituendo uno
strumento di tutela dei diritti dei cittadini e di
promozione della loro partecipazione all’attività
amministrativa, non può essere impiegato in maniera distorta
e divenire causa di intralcio all’azione della pubblica
amministrazione;
-
tale strumento non può essere quindi utilizzato in contrasto
con il principio di buona fede previsto in via generale
dall’art. 1175 del codice civile (da leggersi alla luce del
parametro di solidarietà di cui all’art. 2 della
Costituzione);
-
un'istanza di accesso riguardante un elevato numero (50) di
determinazioni eterogenee fra loro e che si inserisce in un
elevatissimo numero di richieste di accesso presentate allo
stesso Comune in un limitato arco temporale, appare in
evidente contrasto con i richiamati principi di buona fede e
finisce per costringere l’amministrazione ad uno sforzo
straordinario, che ne aggrava l’ordinaria attività;
-
la stessa Autorità Anticorruzione (ANAC), nelle proprie
Linee Guida approvate con determinazione n. 1309 del 28.12.2016,
ha reputato non ammissibile la c.d. richiesta massiva, vale
a dire quella manifestamente irragionevole, tale cioè da
comportare un carico di lavoro in grado di interferire con
il buon funzionamento dell’amministrazione (cfr. il punto 5
dell’Allegato alle Linee Guida).
---------------
2. Il ricorso appare infondato, per le ragioni che seguono.
L’esponente presentava al Comune di Broni in data 14.10.2017
una domanda di accesso civico ai sensi del D.Lgs. 33/2013
(cfr. il doc. 1 del ricorrente), con la quale chiedeva la
copia integrale, unitamente agli allegati, di 50 (cinquanta)
determinazioni assunte dal Comune nell’anno 2016.
Tale domanda era respinta con i provvedimenti sopra indicati
(cfr. i documenti 4 e 6 del ricorrente), preceduti da
rituale preavviso di diniego (cfr. il doc. 2 del
ricorrente), nel quale l’amministrazione ricordava che negli
anni dal 2015 al 2017 il sig. Ma. aveva presentato
al protocollo dell’ente 148 (centoquarantotto) istanze di
varia natura, volte al controllo dell’attività
amministrativa esercitata dal Comune sulle più disparate
questioni.
L’istanza di accesso era di conseguenza rigettata, mediante
i provvedimenti indicati in epigrafe, contenenti entrambi
un’articolata motivazione, che fa riferimento, fra l’altro,
alla sentenza del TAR Lombardia, sez. III, n. 1951 del 2017,
pronunciata all’esito di un contenzioso analogo a quello di
cui è causa, sempre promosso dall’attuale ricorrente contro
il Comune di Broni e volto all’annullamento di un
provvedimento di diniego di accesso civico nei confronti di
determinazioni comunali dell’anno 2016.
Tale sentenza appare assolutamente condivisibile, sicché la
stessa è ivi richiamata quale precedente conforme ai sensi
dell’art. 74 del c.p.a.
In particolare, nella citata pronuncia è stato evidenziato
che:
- l’accesso civico di cui al D.Lgs. 33/2013, come modificato
dal D.Lgs. 97/2016, pur costituendo uno strumento di tutela
dei diritti dei cittadini e di promozione della loro
partecipazione all’attività amministrativa, non può essere
impiegato in maniera distorta e divenire causa di intralcio
all’azione della pubblica amministrazione;
- tale strumento non può essere quindi utilizzato in
contrasto con il principio di buona fede previsto in via
generale dall’art. 1175 del codice civile (da leggersi alla
luce del parametro di solidarietà di cui all’art. 2 della
Costituzione);
- l’attuale istanza di accesso del ricorrente, riguardante
un elevato numero (50) di determinazioni eterogenee fra loro
e che si inserisce in un elevatissimo numero di richieste di
accesso presentate allo stesso Comune in un limitato arco
temporale, appare in evidente contrasto con i richiamati
principi di buona fede e finisce per costringere
l’amministrazione ad uno sforzo straordinario, che ne
aggrava l’ordinaria attività;
- la stessa Autorità Anticorruzione (ANAC), nelle proprie
Linee Guida approvate con determinazione n. 1309 del
28.12.2016, ha reputato non ammissibile la c.d. richiesta
massiva, vale a dire quella <<manifestamente irragionevole,
tale cioè da comportare un carico di lavoro in grado di
interferire con il buon funzionamento dell’amministrazione>>
(cfr. il punto 5 dell’Allegato alle Linee Guida).
Si conferma, in conclusione, il rigetto del presente gravame (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 09.03.2018 n. 669
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Omissioni di atti d'ufficio: come scrivere la
richiesta per far scattare il reato.
I principi sanciti dalla VI Sez. penale della Corte di
Cassazione.
Il codice penale all’art. 328, comma 2, punisce il pubblico
ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che entro
trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non
compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le
ragioni del ritardo. Tale richiesta deve essere redatta in
forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla
ricezione della richiesta stessa.
Per costante giurisprudenza, la suddetta richiesta scritta
rilevante ai fini della integrazione della fattispecie, deve
assumere la natura e la funzione tipica della diffida ad
adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il
compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo
impediscono.
Ciò implica che la richiesta rivolta nei confronti della
pubblica amministrazione deve atteggiarsi, seppure senza la
osservanza di particolari formalità circa la sua
formulazione, comunque come una diffida o intimazione tale
da costituire una messa in mora nei confronti della RA. e
del soggetto preposto al relativo procedimento in quanto
responsabile.
Sulla base di tale premesse la VI Sez. penale della Corte di
Cassazione nella
sentenza 08.03.2018
n. 10595 ha affermato che il reato non è
configurabile quando la richiesta non è qualificabile quale
diffida ad adempiere, diretta alla messa in mora del
destinatario e da quest'ultimo in tali termini valutabile,
per il suo tenore letterale e per il suo contenuto.
Seppure, quindi, non siano necessarie frasi che riproducano
pedissequamente la formulazione della legge in termini di
«diffida» e «messa in mora», il contenuto della richiesta
deve essere tesa a rappresentare quantomeno la cogenza delle
richiesta e la sua necessità di un adempimento direttamente
ricondotto alla disciplina del procedimento amministrativo
e, se nel caso, circa le conseguenze in termini di
responsabilità (incluse quelle penali) di una mancata
risposta nei termini.
Solo a tali condizioni può ritenersi immediatamente e
chiaramente percepibile, quale diffida; atto che già a
livello lessicale implica la necessità di rappresentare le
conseguenze in cui si incorre in caso di inadempimento,
secondo la conformazione del reato, introdotto dall'art. 16
L. 26.04.1990, n. 86, che ha inteso rafforzare la tutela del
cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, con
la previsione di un paradigma legale che, attraverso la
attivazione del diritto potestativo della istanza,
conseguisse una tutela rafforzata delle posizioni
soggettive, la cui salvaguardia era in precedenza demandata
ai soli strumenti procedimentali o giurisdizionali dinanzi
al giudice amministrativo.
In conclusione un'interpretazione corretta dell'art. 328,
comma 2, cod. pen. necessita che la richiesta, con
percepibile immediatezza, sia rivolta a sollecitare il
compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo
impediscono; il reato si configura solo in presenza di tale
presupposto, con il decorso del termine di trenta giorni
senza che l'atto richiesto sia stato compiuto o senza che il
mancato compimento sia stato giustificato
(commento tratto da www.gazzettaamministrativa.it).
---------------
MASSIMA
3. Per costante giurisprudenza di questa Corte,
la
richiesta scritta di cui
all'art. 328, comma secondo, cod. pen., rilevante ai fini
della integrazione della
fattispecie, deve assumere la natura e la funzione tipica
della diffida ad
adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il
compimento dell'atto
o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono (Sez. 6, n.
40008 del
27/10/2010, brio, Rv. 248531; Sez. 6, n. 10002 del
08/06/2000, Spanò B, Rv.
218339; Sez. 6, n. 8263 del 17/05/2000, Visco, Rv. 216717).
Ciò implica che la richiesta rivolta nei confronti della
pubblica
amministrazione deve atteggiarsi, seppure senza la
osservanza di particolari
formalità circa la sua formulazione, comunque come una
diffida o intimazione
tale da costituire una messa in mora nei confronti della RA.
e del soggetto
preposto al relativo procedimento in quanto responsabile.
Ne deriva che il reato non è configurabile quando la
richiesta non è
qualificabile quale diffida ad adempiere, diretta alla messa
in mora del
destinatario e da quest'ultimo in tali termini valutabile,
per il suo tenore letterale
e per il suo contenuto. Seppure, quindi, non siano
necessarie frasi che
riproducano pedissequamente la formulazione della legge in
termini di «diffida»
e «messa in mora», il contenuto della richiesta deve essere
tesa a rappresentare
quantomeno la cogenza delle richiesta e la sua necessità di
un adempimento
direttamente ricondotto alla disciplina del procedimento
amministrativo e, se nel caso, circa le conseguenze in
termini di responsabilità (incluse quelle penali) di
una mancata risposta nei termini.
Solo a tali condizioni può ritenersi immediatamente e
chiaramente
percepibile, quale diffida; atto che già a livello lessicale
implica la necessità di
rappresentare le conseguenze in cui si incorre in caso di
inadempimento,
secondo la conformazione del reato, introdotto dall'art. 16
L. 26.04.1990, n.
86, che ha inteso rafforzare la tutela del cittadino nei
confronti della pubblica
amministrazione, con la previsione di un paradigma legale
che, attraverso la
attivazione del diritto potestativo della istanza,
conseguisse una tutela rafforzata
delle posizioni soggettive, la cui salvaguardia era in
precedenza demandata ai
soli strumenti procedimentali o giurisdizionali dinanzi al
giudice amministrativo.
3.1. Risulta conforme a legge, oltre ad essere i presupposti
di fatto esposti
con motivazione immune da vizi logici o lacune, quanto
rilevato in sentenza circa
la assenza di un requisito oggettivo ai fini della astratta
sussumibilità della
astratta condotta (ed a prescindere dal collegamento
soggettivo con gli imputati)
nella fattispecie di cui all'art. 323, secondo comma, cod.
pen., prevedendo una
specifica diffida contenuta nella richiesta formulata dal
privato nei confronti della
pubblica amministrazione.
Nel caso esaminato, per contro, sono state formulate
generiche richieste per
mezzo di missive indirizzate all'amministrazione, con cui
«si trasmette in allegato
alla presente la nota a firma dell'avv. [...] affinché
vengano posti in essere gli
adempimenti conseguenti, di cui all'art. 28 del C.N.L. per
il personale del
Comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali», nonché
altra nota con cui
sono state reiterate le richieste contenute nella precedente
nota «con allegata
parcella adempimenti competenti».
3.2. Non appare pregevole l'affermazione contenuta nel
ricorso secondo cui
il riferimento agli «adempimenti conseguenti» era idonea a
far ritenere la
valenza in termini di diffida delle richieste inviate al
comune, essendo la richiesta
agli adempimenti formulata in termini assolutamente
generici, tra l'altro senza
che si possa apprezzare alcuna diffida ad adempiere, non
risultando certamente
sufficiente a tali fini il termine «adempimenti» contenuto
nelle richieste
trasmesse.
Un'interpretazione corretta dell'art. 328, comma 2, cod. pen.
necessita che
la richiesta, con percepibile immediatezza, sia rivolta a
sollecitare il compimento
dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono;
il reato si configura solo
in presenza di tale presupposto, con il decorso del termine
di trenta giorni senza
che l'atto richiesto sia stato compiuto o senza che il
mancato compimento sia
stato giustificato.
3.3. Il G.u.p., con giudizio di fatto in questa sede
insindacabile, ha ritenuto
che nella specie, a meno di forzature del senso letterale
delle parole utilizzate,
non fosse stata formulata una diffida mirata a raggiungere i
risultati di cui all'art.
328, secondo comma, cod. pen., ma fosse stato effettuato un
semplice invio di
atti ai fini della futura istruttoria della pratica per
assolvimento «degli adempienti
conseguenti». |
APPALTI: Una branch estera può partecipare alle gare. Se
ha autonoma organizzazione.
Legittima
la partecipazione a una gara di appalto pubblico da parte di una branch di
una società estera, nonostante l'assenza di personalità giuridica; conta
l'autonoma organizzazione economica per offrire sul mercato lavori, servizi
o forniture e non la forma giuridica.
Lo afferma il Consiglio di
Stato (III Sez.,
sentenza 07.03.2018 n. 1462) in merito all'esclusione da una gara di una branch inglese di una società americana che aveva partecipato ad una gara di
appalto pubblico risultando esclusa in quanto priva di personalità
giuridica.
Il Consiglio di stato ha ribaltato il verdetto di primo grado
ricostruendo la fattispecie a partire da quanto prevede il codice appalti
che (lettera p) dell'art. 3, comma 1) che fornisce la definizione di
operatore economico e include espressamente, nel novero dei soggetti che
rientrano in detta nozione, l'ente senza personalità giuridica, ovviamente a
condizione (comune agli altri soggetti) che offra sul mercato la
realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti o la prestazione
di servizi.
A questa norma fanno riferimento i giudici perché «riveste un
particolare valore ermeneutico (al pari delle altre dettate dall'art. 3)
nell'interpretazione delle successive disposizioni del nuovo Codice dei
contratti pubblici», come sottolineato anche dal Consiglio di stato. Per
chiarire se nella nozione di operatore economico rientrino anche le branch,
non dotate di personalità giuridica, il Consiglio di stato richiama il
considerando 14 della direttiva appalti (24/2014) che sposa una
interpretazione ampia considerando indifferente la forma giuridica scelta
per operare sul mercato.
Pertanto, dice la sentenza, imprese, succursali,
filiali, partenariati, società cooperative, società a responsabilità
limitata, università pubbliche o private e altre forme di enti diverse dalle
persone fisiche dovrebbero rientrare nella nozione di operatore economico,
indipendentemente dal fatto che siano persone giuridiche o meno in ogni
circostanza.
In definitiva, ciò che rileva per l'ordinamento non è che (ai
fini della partecipazione alle procedure di affidamento di contratti
pubblici) la branch/filiale/succursale possieda una distinta e autonoma
personalità giuridica, bensì che possieda un propria distinta e autonoma
organizzazione economica
(articolo
ItaliaOggi del 16.03.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ vero che l’obbligo previsto dall’art. 10-bis della legge
07.08.1990, n. 241, di esaminare le memorie e i documenti
difensivi prodotti dalla parte non impone un’analitica
confutazione di ogni argomento addotto.
Tuttavia è pur sempre necessario che dal provvedimento
finale emerga un iter motivazionale che renda nella sostanza
percepibile la ragione del mancato accoglimento delle
deduzione difensive del privato.
---------------
Nel merito sono fondate e meritevoli di accoglimento le
censure proposte avverso il manufatto sopraindicato come F
con il primo e secondo motivo.
Infatti si tratta di un impianto tecnologico posizionato su
una piattaforma di calcestruzzo di ridotte dimensioni
rispetto alla quale lo stesso Comune in un primo tempo con
la nota istruttoria prot. n. 48104 del 03.09.2009, ha
riconosciuto la natura di volume tecnico (si era limitato a
chiedere dei chiarimenti solo con riguardo alla sua
collocazione nello scoperto pertinenziale, senza contestare
la mancanza dei requisiti propri degli impianti
tecnologici).
Solo successivamente nel preavviso di diniego ha contestato
la mancanza dei requisiti per poterlo qualificare come
volume tecnico e, segnatamente, la mancata dimostrazione
delle esigenze che giustificano la sua collocazione
all’esterno del corpo dell’edificio principale, e nel
provvedimento finale si è limitato a rinviare a questo
profilo del preavviso diniego.
In tal modo però l’Amministrazione dimostra di non aver in
alcun modo tenuto conto delle puntuali osservazioni della
parte ricorrente che in sede procedimentale aveva dedotto
che l’impianto appartiene alla tipologia dei generatori di
calore, la cui installazione è vietata all’interno dei
locali abitativi ai sensi del Titolo IV, punto 4
dell’allegato del DM 12.04.1996 per il rischio che la
formazione di gas, vapori o polveri possa causare la
generazione di incendi, con conseguente applicabilità della
disposizione di cui all’art. 88-bis del regolamento edilizio
che ammette la realizzazione di vani tecnici consistenti in
una centrale termica ad un minimo di 1,50 m dal confine
qualora vi sia la necessità di adeguamento alle normative
vigenti.
E’ vero che l’obbligo previsto dall’art. 10-bis della legge
07.08.1990, n. 241, di esaminare le memorie e i documenti
difensivi prodotti dalla parte non impone un’analitica
confutazione di ogni argomento addotto.
Tuttavia è pur sempre necessario che dal provvedimento
finale emerga un iter motivazionale che renda nella sostanza
percepibile la ragione del mancato accoglimento delle
deduzione difensive del privato.
Nel caso in esame il provvedimento conclusivo non contiene
alcuna indicazione delle ragioni per le quali il Comune
ritiene che l’impianto non possieda le tre caratteristiche
che la giurisprudenza ha indicato come necessarie al
riconoscimento della natura di volume tecnico, consistenti
nel rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo
della costruzione principale, l’impossibilità di soluzioni
progettuali diverse, nel senso dell’impossibilità di
ubicazione all’interno della parte abitativa, e il rapporto
di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze
effettivamente presenti, compendiate nelle disposizioni del
regolamento edilizio e delle norme tecniche di attuazione,
che invece la ricorrente ritiene di aver puntualmente
documentato come sussistenti.
La mancata valutazione di tali deduzioni procedimentali nel
caso di specie denota pertanto un difetto di motivazione ed
istruttoria (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 07.03.2018 n. 261 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come più volte affermato dalla giurisprudenza,
salvo che il progetto edilizio non sia scindibile in parti
autonome, la sua parziale difformità non può essere oggetto
di una sanatoria in parte qua poiché ciò
significherebbe imporre al richiedente un'opera diversa dal
progetto sul quale ha chiesto la concessione, e il permesso in
sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n.
380, è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti
conforme oltre che alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente al momento della presentazione della domanda, anche
a quella vigente al momento della realizzazione del
manufatto.
---------------
Le censure proposte avverso il mancato accoglimento della
domanda di sanatoria relativa al manufatto B sono invece
infondate.
Infatti, come è noto, l’interessato non può pretendere di
ottenere una sanatoria condizionata alla previa demolizione
e ricostruzione del manufatto abusivo con caratteristiche
diverse che lo rendano conforme alla disciplina urbanistica
ed edilizia, in quanto, come più volte affermato dalla
giurisprudenza, salvo che il progetto edilizio non sia
scindibile in parti autonome, la sua parziale difformità non
può essere oggetto di una sanatoria in parte qua poiché ciò
significherebbe imporre al richiedente un'opera diversa dal
progetto sul quale ha chiesto la concessione (Consiglio di
Stato, Sez. V, 11.10.2005, n. 5495), e il permesso in
sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n.
380, è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti
conforme oltre che alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente al momento della presentazione della domanda, anche
a quella vigente al momento della realizzazione del
manufatto (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 07.03.2018 n. 261 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO -
SEGRETARI COMUNALI:
Irregolarità nei mandati di pagamento: condannato
il Segretario comunale per autoliquidazione di somme non
dovute.
Secondo la Corte è corretta l'imputazione di falso
ideologico e di peculato.
Un Segretario comunale in servizio presso un Comune
calabrese veniva tratto a giudizio, per essersi appropriato
di somme di denaro attraverso l’emissione di mandati di
pagamento che presentavano causali prive di qualsiasi
riscontro contabile ed amministrativo.
La vertenza ha tratto origine dall’iniziativa del revisore
dei conti del Comune, il quale, ha dato notizia di
irregolarità riscontrate nei mandati di pagamento emessi. Il
revisore avrebbe accertato che detti mandati risultavano
accreditati sul conto corrente bancario personalmente
intestato all’alto burocrate, che in qualità di responsabile
del servizio finanziario, oltre che di segretario comunale,
aveva sottoscritto in suo favore decine di mandati, per il
complessivo importo lordo di quasi duecentomila euro,
riferito ad un periodo di sei mesi. Di questa somma
–giustificata poi con argomentazioni da ritenersi infondate
(“arretrati”, indennità varie, ecc.)– solo una minima
parte risultava essere dovuta.
Sia in primo grado che in appello l’imputato veniva
condannato per falso ideologico e per peculato. Da qui il
ricorso per cassazione nel quale la difesa ha criticato la
sentenza di secondo grado responsabile, a suo dire, vuoi
dell'erronea qualificazione come falso ideologico in atto
pubblico della contestata falsificazione dei mandati di
pagamento (giacché, in presenza di una condotta di
autoliquidazione di somme non dovute, ricorrerebbe, al più,
la fattispecie di reato di cui all'art. 480 Cod. pen., vale
a dire falso in certificazioni), vuoi dell’illogicità della
stessa pronuncia in relazione alla mancata ricorrenza già
dell'elemento oggettivo del reato di peculato relativo alla
appropriazione di un bene pubblico, in quanto la contestata
appropriazione era avvenuta sì per finalità diverse da
quelle specificatamente previste, ma pur sempre nell'ambito
delle attribuzioni del ruolo istituzionale svolto
dall'agente pubblico.
La Suprema Corte, V Sez. penale, con
sentenza 06.03.2018 n. 10120, ha respinto il ricorso
e confermato la condanna già irrogata.
Sul primo motivo i giudici di legittimità hanno
ritenuto che nessun dubbio poteva residuare, sulla
correttezza giuridica della addebitabilità all’imputato del
delitto di falso ideologico, così come contestato nel capo
di imputazione, atteso che il falso ideologico in documenti
a contenuto dispositivo può investire le attestazioni, anche
implicite, contenute nell'atto nonché i presupposti di fatto
giuridicamente rilevanti ai fini della parte dispositiva
dell'atto medesimo, che concernano fatti compiuti o
conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale, ovvero altri
fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità.
In ordine alla seconda censura, la Corte ha ricordato
che l'elemento distintivo tra il delitto di peculato e
quello di truffa aggravata dall'abuso dei poteri o dalla
violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione va
individuato con riferimento alle modalità di acquisizione
del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui
oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando
il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio se
ne appropri avendone già il possesso o comunque la
disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e
ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto
attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri
fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per
appropriarsi del bene.
Infatti, in tema di peculato, la nozione di possesso di
denaro deve intendersi non solo come comprensiva della
detenzione materiale della cosa, ma anche della sua
disponibilità giuridica, nel senso che il soggetto agente
deve essere in grado, mediante un atto dispositivo di sua
competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse
nell'ufficio, di inserirsi nel maneggio o nella
disponibilità del denaro e di conseguire quanto poi oggetto
di appropriazione: ne consegue che l'inversione del titolo
del possesso da parte del pubblico ufficiale che si comporti
uti dominus nei confronti di danaro del quale ha il
possesso in ragione del suo ufficio, e la sua conseguente
appropriazione, possono realizzarsi anche nelle forme della
disposizione giuridica, del tutto autonoma e libera da
vincoli, del danaro stesso, indisponibile in ragione di
norme giuridiche o di atti amministrativi.
In questo senso i giudici di Piazza Cavour hanno condiviso
la tesi evincibile nella sentenza della Corte distrettuale,
la quale ha evidenziato che, per un verso, l'agente si era
appropriato delle somme corrispondenti alle indennità
retributive non dovute avendone già la disponibilità per
ragione del suo ufficio e, dunque, senza aver ricorso ad
artifici o raggiri per appropriarsi delle stesse
(commento tratto da www.gazzettaamministrativa.it).
---------------
MASSIMA
2. Il ricorso è infondato.
2.1 Già il primo motivo di censura non è condivisibile.
Come già ampiamente e correttamente spiegato nella sentenza
impugnata, nel mandato di
pagamento oggetto della condotta delittuosa contestata vi
era sì una parte dispositiva
contenente l'ordine di pagamento in autoliquidazione delle
somme indebitamente percepite
dalla ricorrente, ma anche una parte ove si manifestava
l'attività di accertamento dei
presupposti fattuali e normativi per legittimare la
menzionata liquidazione, di talché oggetto
del contestato falso ideologico era proprio il predetto
accertamento relativo alla ricorrenza dei
presupposti sulla cui base veniva disposta la liquidazione
delle somme così indebitamente
percepite.
Sul punto la giurisprudenza di questa Corte è a dir poco
granitica.
Ed invero, è stato affermato che il falso ideologico in
documenti a contenuto dispositivo può
investire le attestazioni, anche implicite, contenute
nell'atto e i presupposti di fatto
giuridicamente rilevanti ai fini della parte dispositiva
dell'atto medesimo, che concernano fatti
compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale,
ovvero altri fatti dei quali l'atto è
destinato a provare la verità:
Sez. U, Sentenza n. 35488 del 28/06/2007 Ud. (dep.
24/09/2007) Rv. 236867; cfr. anche:
Sez. 5, Sentenza n. 35006 del 17/06/2015 Ud. (dep.
20/08/2015) Rv. 265019;
Sez. 5, Sentenza n. 14731 del 23/11/1999 Ud. (dep.
29/12/1999) Rv. 215197).
Nessun dubbio può dunque residuare, e ciò anche alla luce
dei principi da ultimo ricordati (e
qui riaffermati), sulla correttezza giuridica della addebitabilità alla ricorrente del delitto di falso
ideologico, così come contestato a quest'ultima nel capo di
imputazione.
2.2 Il secondo motivo di doglianza risulta anch'esso
infondato.
2.2.1 Anche qui occorre ricordare i principi espressi, con
voce unanime, dalla giurisprudenza di
questa Corte.
Orbene, l'elemento distintivo tra il delitto di peculato e
quello di truffa aggravata dall'abuso dei
poteri o dalla violazione dei doveri inerenti ad una
pubblica funzione va individuato con
riferimento alle modalità di acquisizione del possesso del
denaro o di altra cosa mobile altrui
oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando
il pubblico ufficiale o l'incaricato di
pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o
comunque la disponibilità per
ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la
seconda ipotesi quando il soggetto
attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri
fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o
raggiri per appropriarsi del bene: così,
Sez. 6, Sentenza n. 5087 del 23/01/2014 Cc. (dep. 31/01/2014) Rv. 258051; cfr. anche:
Sez. 6, Sentenza n. 5494 del 22/10/2013 Ud. (dep. 04/02/2014) Rv. 259070;
Sez. 6, Sentenza n. 18177 del 03/03/2016 Ud. (dep.
02/05/2016 ) Rv. 266985;
Sez. 6, Sentenza n. 15795 del 06/02/2014 Ud. (dep.
08/04/2014) Rv. 260154).
Va peraltro precisato, per quanto qui di interesse, che,
in
tema di peculato, la nozione di
possesso di denaro deve intendersi come comprensiva non solo
della detenzione materiale, ma
anche della disponibilità giuridica, con la conseguenza che
l'appropriazione di esso può
avvenire anche attraverso il compimento di un atto di
carattere dispositivo (cfr.
Sez. 6, Sentenza n. 45908 del 16/10/2013 Cc. (dep.
14/11/2013) Rv. 257385, ove si è
ritenuto configurabile il delitto di peculato nell'atto di
ricognizione posto in essere
dall'amministratore di una società di gestione di un
pubblico servizio di un falso debito
pecuniario).
Detto altrimenti, in tema di peculato, la
nozione di possesso di denaro deve
intendersi non solo come comprensiva della detenzione
materiale della cosa, ma anche della
sua disponibilità giuridica, nel senso che il soggetto
agente deve essere in grado, mediante un
atto dispositivo di sua competenza o connesso a prassi e
consuetudini invalse nell'ufficio, di
inserirsi nel maneggio o nella disponibilità del denaro e di conseguire quanto poi oggetto di
appropriazione (così, anche Sez. 6, Sentenza n. 7492 del
18/10/2012 Ud. (dep. 15/02/2013 )
Rv. 255529).
Ne consegue che l'inversione del titolo del
possesso da parte del pubblico
ufficiale che si comporti "uti dominus" nei confronti di
danaro del quale ha il possesso in
ragione del suo ufficio e la sua conseguente appropriazione
possono realizzarsi anche nelle
forme della disposizione giuridica, del tutto autonoma e
libera da vincoli, del danaro stesso,
indisponibile in ragione di norme giuridiche o di atti
amministrativi.
Ciò posto, va osservato come nella motivazione impugnata non
siano rintracciabile, neanche
sotto questo ulteriore profilo di doglianza, le criticità
denunziate dalla ricorrente, atteso che la
Corte distrettuale ha evidenziato che, per un verso,
l'agente si era appropriata delle somme
corrispondenti alle indennità retributive non dovute
avendone già la disponibilità per ragione
del suo ufficio e dunque senza aver ricorso ad artifici o
raggiri per appropriarsi delle stesse e
che, per altro verso, tale disponibilità era da considerarsi
giuridicamente rilevante ai sensi
dell'art. 314 cod. pen. anche nella forma della mera
disponibilità giuridica, così rendendo una
motivazione che, oltre ad essere coerente con i principi
affermati in subiecta materia da questa
Corte di legittimità, appare immune anche da vizi di
illogicità ovvero contraddittorietà.
2.3 Il terzo motivo di doglianza è invece addirittura
inammissibile, e ciò in ragione della sua
genericità.
Non spiega in alcun modo la parte ricorrente quali fossero
le mansione ulteriori (rispetto a
quelle di segretario comunale) per le quali era legittima
la corresponsione delle relative
indennità e non spiega, per converso, neanche quali fossero
quelle per le quali sarebbe incorsa
in errore nelle interpretazione delle norme extrapenali che
non consentivano la indebita
autoliquidazione, così rendendo il relativo motivo di
doglianza generico ed aspecifico.
Nessuna rilevanza scriminante assume invece la riferita
circostanza della restituzione (peraltro, parziale) delle somme corrisposte per errore,
atteso che a quel momento i fatti di
reato contestato si erano già integralmente consumati. |
APPALTI:
Perde l'appalto per una interdittiva rivelatasi
illegittima ma non gli spetta il risarcimento del danno.
I principi sanciti nella sentenza del Consiglio di Stato.
Una società, affidataria di un appalto integrato per la
progettazione esecutiva e l’esecuzione delle opere di
adeguamento di un impianto di potabilizzazione in un Comune
sardo, subiva la revoca dell’affidamento per effetto di un’interdittiva
antimafia emessa dal Prefetto di Napoli. Dopo qualche tempo
quel provvedimento prefettizio veniva annullato dal TAR
Campania con pronuncia poi divenuta irrevocabile.
A questo punto la società adiva il TAR Sardegna per ottenere
il risarcimento dei danni subiti da una revoca ritenuta
illegittima perché conseguente ad un provvedimento, sul
quale esclusivamente si fondava, che era stato annullato dal
giudice amministrativo.
Il TAR a giugno 2017 dichiarava inammissibile il ricorso per
difetto di legittimazione attiva, in quanto medio tempore
aveva ceduto l’azienda ad altra impresa, e la società allora
si rivolgeva al Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato, Sez. III, con
sentenza 06.03.2018 n. 1409 rigettava l’appello:
la pronuncia, pur condividendo le affermazioni che il
giudice di primo grado aveva svolto in ordine al profilo
della carenza di legittimazione per intervenuta cessione di
azienda, ha voluto egualmente –per completezza– scrutinare
il tema della risarcibilità del danno conseguente ad una
illegittima informativa antimafia. Aspetto che caratterizza
quindi la decisione in commento.
I giudici di Palazzo Spada hanno innanzitutto premesso che
il risarcimento del danno non è una conseguenza diretta e
costante dell’annullamento giurisdizionale di un atto
amministrativo in quanto richiede la positiva verifica,
oltre che della lesione della situazione giuridica
soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento, anche del
nesso causale tra l’illecito e il danno subito, nonché della
sussistenza della colpa o del dolo dell’Amministrazione. Ciò
posto, si è osservato che la configurabilità degli estremi
della colpa dell’Amministrazione nell’adozione delle
informative antimafia dev’essere scrutinata in coerenza con
la funzione, con la natura e con i contenuti delle relative
misure.
Andrà, in particolare, riconosciuto il dovuto rilievo alla
portata della regola di azione, alla quale devono rispondere
i Prefetti nell’esercizio della potestà in questione, che
–secondo la Sezione– “si rivela particolarmente sfuggente
e di difficile decifrazione”.
Ad ogni modo il Collegio ha ritenuto che, nel caso concreto
sottoposto al suo esame, l’informativa antimafia di cui
trattasi –pur ritenuta illegittima– non trasmodava in
provvedimento illecito, foriero di danno risarcibile ai
sensi dell’art. 2043 Cod. civ. secondo i dettami della
costante giurisprudenza formatasi in materia.
Infatti, nella fattispecie, l’informativa di cui si
discuteva era stata annullata da una sentenza resa in un
diverso giudizio (anche se avente ad oggetto il medesimo
provvedimento), perché fondata sul rinvio a giudizio
dell’amministratore della società per il reato di traffico
illecito di rifiuti, considerato tuttavia eccessivamente
risalente nel tempo.
Si tratta all’evidenza di una conclusione dalla quale, anche
alla luce della natura di reato “spia” del fatto
posto a fondamento dell’interdittiva e dell’ampia
discrezionalità che in materia compete al Prefetto, non è
parso al Supremo Consesso di potersi ricavare gli estremi
della colpa in capo all’Amministrazione procedente. Colpa,
poi, da escludersi pacificamente in capo alla stazione
appaltante poiché la revoca dell’assegnazione provvisoria
doveva, allo stato, ritenersi un atto dovuto proprio perché
frutto diretto della stessa interdittiva
(commento tratto da www.gazzettaamministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Nondimeno, ragioni di completezza rendono opportuno
rilevare che, anche nel merito, l’azione risarcitoria
proposta apparirebbe, comunque, infondata.
Invero, in concreto, l’informativa antimafia di cui trattasi
–pur ritenuta illegittima– non trasmoda in provvedimento
illecito, foriero di danno risarcibile ai sensi dell’art.
2043 c.c. alla luce del costante insegnamento di questa
sezione nella specifica materia.
Il tal senso è sufficiente ricordare che il risarcimento del
danno non è una conseguenza diretta e costante
dell'annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo
in quanto richiede la positiva verifica, oltre che della
lesione della situazione giuridica soggettiva di interesse
tutelata dall'ordinamento, anche del nesso causale tra
l'illecito e il danno subito, nonché della sussistenza della
colpa o del dolo dell'amministrazione.
E la configurabilità degli estremi della colpa
dell’amministrazione nell’adozione delle informative
antimafia dev’essere scrutinata in coerenza con la funzione,
con la natura e con i contenuti delle relative misure.
Andrà, in particolare, riconosciuto il dovuto rilievo alla
portata della regola di azione, alla quale devono rispondere
i Prefetti nell’esercizio della potestà in questione, che si
rivela particolarmente sfuggente e di difficile decifrazione
(cfr. in tal senso Consiglio di Stato sez. III n. 5737 del
18.12.2015; sez. III, 01.09.2014, n. 4441; Sez. III,
28.07.2015, n. 3707).
Peraltro, nella fattispecie, l’informativa di cui si discute
è stata annullata dalla sentenza n. 204/2013 del Consiglio
di Stato resa in un diverso giudizio ma avente ad oggetto il
medesimo provvedimento, perché fondata sul rinvio a giudizio
dell’amministratore della società per il reato di traffico
illecito di rifiuti considerato eccessivamente risalente nel
tempo (2003).
Si tratta all’evidenza di una conclusione dalla quale, anche
alla luce della natura di reato “spia” del fatto
posto a fondamento dell’interdittiva e dell’ampia
discrezionalità che in materia compete al Prefetto, non pare
proprio possano ricavarsi gli estremi della colpa in capo
all’amministrazione procedente. Colpa da escludersi
pacificamente in capo alla stazione appaltante poiché la
revoca dell’assegnazione provvisoria deve ritenersi atto
dovuto.
Sicché anche sotto tale profilo l’appello proposto risulta
infondato. |
EDILIZIA PRIVATA:
Con riferimento al promissario acquirente,
un orientamento giurisprudenziale più restrittivo esclude
che il contratto preliminare rappresenti un titolo idoneo al
rilascio del permesso di costruire, non producendo effetti
reali, ma soltanto obbligatori e facendo sorgere in capo
alle parti solo l’obbligo di futura conclusione del
contratto traslativo della proprietà.
Secondo un orientamento della giurisprudenza amministrativa
più recente, il promissario acquirente è titolare di
una posizione che lo abilita a richiedere l’approvazione di
un progetto riguardante l’immobile da acquistare, dal
momento che il contratto preliminare gli conferisce la
possibilità, ai sensi dell’art. 2932 c.c., di agire in forma
specifica nel caso di inadempimento del proprietario.
L’orientamento favorevole alla legittimazione del
promissario acquirente si rafforza quando il contratto
preliminare di compravendita gli attribuisca il diritto di
richiedere il permesso di costruire, oppure quando il
preliminare di vendita sia sottoscritto con trasferimento
anticipato del possesso del bene.
---------------
Ciò chiarito, ai sensi dell’art. 70, comma 1, della legge
provinciale n. 13 del 1997: “La concessione è data dal
sindaco a chi abbia il titolo per richiederla” (sul
piano statale l’art. 11, comma 1, del D.P.R. 06.06.2001, n.
380 dispone analogamente che “Il permesso di costruire è
rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi ne abbia
titolo per richiederlo”).
La norma richiede dunque che l’interessato dimostri di
trovarsi con il bene oggetto della domanda di concessione
edilizia in una relazione qualificata, che non deve
necessariamente essere connessa a un diritto reale, ma può
derivare anche da un rapporto giuridico obbligatorio.
Con particolare riferimento al promissario acquirente, un
orientamento giurisprudenziale più restrittivo esclude che
il contratto preliminare rappresenti un titolo idoneo al
rilascio del permesso di costruire, non producendo effetti
reali, ma soltanto obbligatori e facendo sorgere in capo
alle parti solo l’obbligo di futura conclusione del
contratto traslativo della proprietà (cfr. ex multis,
Consiglio di Stato, Sez. IV, 23.09.1998, n. 1173 e Sez. V,
20.10.1994, n. 1200; TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
30.06.2003, n. 7922 e Cassazione civile, Sez. II,
05.08.2010, n. 18251).
Secondo un orientamento della giurisprudenza amministrativa
più recente, il promissario acquirente è titolare di una
posizione che lo abilita a richiedere l’approvazione di un
progetto riguardante l’immobile da acquistare, dal momento
che il contratto preliminare gli conferisce la possibilità,
ai sensi dell’art. 2932 c.c., di agire in forma specifica
nel caso di inadempimento del proprietario (cfr, ex
pluribus, Consiglio di Stato, Sez. VI, 03.12.2004, n.
7847 e TAR Liguria, Sez. I, 20.04.2016, n. 391).
L’orientamento favorevole alla legittimazione del
promissario acquirente si rafforza quando il contratto
preliminare di compravendita gli attribuisca il diritto di
richiedere il permesso di costruire (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. IV, 18.01.2010, n. 144 e Sez. IV 27.04.2005, n.
1947; TAR Sardegna, Sez. II, 11.05.2017, n. 332, TAR Puglia,
Bari, 18.06.2012, n. 1195 e TAR Lazio, Latina, 26.07.2005,
n. 636), oppure quando il preliminare di vendita sia
sottoscritto con trasferimento anticipato del possesso del
bene (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 12.01.2000, n.
45).
Nel caso di specie, il contratto preliminare di
compravendita, stipulato dalle ricorrenti il 15.07.2015,
all’art. 4 così recita “La stipula del contratto
definitivo dovrà avvenire entro sei (6) mesi dalla stipula
del presente contratto e, se più tardi, in ogni caso, entro
venti (20) giorni dal rilascio del parere positivo della
commissione edilizia comunale riguardo alla domanda per il
rilascio della concessione edilizia richiesta dalla
promissaria acquirente. Per questo motivo la promissaria
venditrice delega la promissaria acquirente a poter
presentare presso il Comune di Bolzano domanda per il
rilascio della concessione edilizia sul lotto oggetto del
presente contratto preliminare, obbligandosi a firmare la
domanda nonché ogni altro documento necessario e utile a tal
fine”.
Il successivo art. 5 prevede poi che la consegna degli
immobili oggetto del contratto preliminare avverrà “al
momento della stipula del contratto definitivo”.
Osserva il Collegio che dall’art. 4 del richiamato contratto
preliminare risulta in modo inequivocabile sia la volontà
della proprietaria dei beni, società Me., di consentire alla
società Zi. di richiedere un titolo edilizio, sia la volontà
delle parti di stipulare il contratto definitivo solo
nell’ipotesi in cui venga rilasciata la concessione
edilizia.
Per tali ragioni, il Collegio ritiene che la società Zi.
debba ritenersi legittimata a richiedere il rilascio della
concessione edilizia, alla luce del più recente orientamento
giurisprudenziale, che condivide
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 06.03.2018 n. 73 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 9, comma
1, n. 2), del D.M. n. 1444 del 1968 prescrive, per tutti i
nuovi edifici “ricadenti in altre zone“ (diverse dalla zona
A), “la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti”.
Secondo un costante orientamento della giurisprudenza, “la
distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici
antistanti, prevista dall'art. 9 D.M. n. 1444/1968, deve
essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a
tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela”.
---------------
La giurisprudenza ha chiarito che, ai fini
dell’applicabilità dell’art. 9, comma 1, n. 2), del D.M. n.
1444 del 1968, è sufficiente che una sola delle due pareti
che si contrappongono sia finestrata.
---------------
Il citato art. 9, comma 1, n. 2), del D.M. n. 1444 del 1968
prescrive una “distanza minima assoluta” di 10 metri tra gli
edifici ricadenti in zone diverse dalla zona A e la relativa
giurisprudenza amministrativa ha precisato che “ai fini del
computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi
costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione,
aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della
immobilizzazione”, compresi, quindi, anche i “corpi
accessori”, a prescindere dalla data della loro costruzione.
---------------
Osserva il Collegio
che anche in relazione a questo motivo di diniego appare
adeguata la motivazione del provvedimento impugnato.
L’art. 9, comma 1, n. 2), del D.M. n. 1444 del 1968
prescrive, per tutti i nuovi edifici “ricadenti in altre
zone“ (diverse dalla zona A), come nel caso in esame,
“la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate
e pareti di edifici antistanti”.
Secondo un costante orientamento della giurisprudenza, “la
distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici
antistanti, prevista dall'art. 9 D.M. n. 1444/1968, deve
essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a
tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale,
prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in
posizione parallela” (cfr., da ultimo, Consiglio di
Stato, Sez. IV, 14.12.2017, n. 5895; nello stesso senso Sez.
IV, 22.11.2013, n. 5557).
Le ricorrenti affermano, senza peraltro fornirne la prova,
che le pareti della p.ed. 2448 non sarebbero finestrate e
che, di conseguenza, la norma citata non troverebbe
applicazione.
In realtà, la giurisprudenza ha chiarito che, ai fini
dell’applicabilità dell’art. 9, comma 1, n. 2), del D.M. n.
1444 del 1968, è sufficiente che una sola delle due pareti
che si contrappongono sia finestrata (cfr. TAR Puglia, Bari,
Sez. III, 09.06.2016, n. 719) e dalla tavola 04 del progetto
risulta che il costruendo edificio prevede dei terrazzi
sulla parete interessata (cfr. doc. 5 delle ricorrenti).
Le ricorrenti affermano inoltre che la sopra citata
disposizione non troverebbe applicazione perché la p.ed.
2448 non sarebbe “antistante” il costruendo edificio.
Per disattendere la doglianza va richiamato anzitutto l’art.
3, primo comma, lett. h), delle norme di attuazione del PUC,
il quale definisce la distanza tra edifici come “la
distanza minima radiale”, che va “misurata in
proiezione orizzontale tra le pareti più sporgenti degli
edifici siti sullo stesso lotto o su lotti finitimi e/o
dalla superficie coperta”.
Peraltro, anche volendo prescindere dalla sopra citata
disposizione urbanistica, secondo il già richiamato
orientamento del Consiglio di Stato sulle modalità di
calcolo della distanza di cui all’art. 9, comma 1, n. 2),
del D.M. n. 1444 del 1968, la distanza di dieci metri tra
pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art.
9 del d.m. n. 1444/1968, va calcolata con riferimento ad
ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a
quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse
siano o meno in posizione parallela (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. IV, 14.12.2017, n. 5895; nello stesso senso:
Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909 e Sez. IV, 02.11.2010, n.
7731).
Né giova infine alle ricorrenti appellarsi alla circostanza
che la p.ed. 2448, in base alle norme vigenti all’epoca
della sua costruzione (1955), era considerata un “corpo
accessorio”, in quanto avente un’altezza inferiore a 3,5
metri e, quindi, non troverebbe applicazione la prescrizione
sulle distanze minime tra edifici.
Invero, l’art. 3, primo comma, lett. i), delle norme di
attuazione del PUC chiarisce che “per costruzione
accessoria si intende un unico manufatto destinato a scopo
non abitativo con dipendenza dall’edificio primario il quale
non può superare i 2,30 m. di altezza e 25 mq di superficie
coperta e la cui cubatura urbanistica e superficie coperta
devono essere computate”, mentre l’art. 3, primo comma,
lett. h), prescrive che la distanza tra i fabbricati, “ad
eccezione di fabbricati accessori preesistenti”, non può
essere inferiore a 10 metri.
Orbene, è pacifico che la p.ed. 2448 ha un’altezza di 3
metri, altezza che, in base alle sopra richiamate
disposizioni urbanistiche vigenti al momento dell’adozione
del provvedimento impugnato (che trovano applicazione alla
fattispecie in base al principio del tempus regit actum),
non consente di poter considerare la costruzione sub p.ed.
2448 quale “corpo accessorio”.
Inoltre, va considerato che il citato art. 9, comma 1, n.
2), del D.M. n. 1444 del 1968 prescrive una “distanza
minima assoluta” di 10 metri tra gli edifici ricadenti
in zone diverse dalla zona A e la relativa giurisprudenza
amministrativa ha precisato che “ai fini del computo
delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi
costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione,
aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della
immobilizzazione” (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato,
Sez. IV, 14.12.2017, n. 5895), compresi, quindi, anche i “corpi
accessori”, a prescindere dalla data della loro
costruzione.
In conclusione, assorbita ogni altra censura e nonostante la
fondatezza dei primi due motivi ricorso, l’impugnato
provvedimento di diniego della concessione edilizia alla
società Zi. deve considerarsi legittimo e il ricorso
infondato, dato che i motivi di diniego sub 3) e 4) non
superano le critiche mosse dalle ricorrenti e sono di per sé
sufficienti a reggere il provvedimento impugnato.
E’ noto, infatti, l’orientamento giurisprudenziale secondo
cui, qualora un provvedimento sia fondato su una pluralità
di ragioni ostative fra loro ontologicamente autonome, è
sufficiente che una sola delle ragioni stesse resista alle
censure prospettate dall’interessato (cfr., ex multis,
Consiglio di Stato, Sez. VI, 18.12.2012, n. 6475; TAR Lazio,
Sez. II, 12.06.2013, n. 5902; TRGA Bolzano, 13.06.2017, n.
189, 20.04.2016, n. 138, 05.05.2015, n. 154 e 26.11.2012, n.
341)
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 06.03.2018 n. 73 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Condotta di colui che edifica un manufatto in
contrasto con le norme urbanistiche e paesaggistiche e colui
che, realizzando un'opera di tipo precario (o così
rappresentata) - Art. 44 d.P.R. n. 380/2001.
Vi è piena
equivalenza, ai fini della contestazione dei reati previsti
dall'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
tra la condotta di colui che edifica un manufatto in
contrasto con le norme urbanistiche e paesaggistiche e colui
che, realizzando un'opera di tipo precario (o così
rappresentata), non la rimuove in spregio alle indicazioni
dell'autorità amministrativa (per tutte, Sez. 3, n. 50620
del 18/06/2014, Urso, Rb. 261955).
Reato di esecuzione di lavori in assenza
di permesso di costruire o con titolo illegittimo (contra
legem) - Titolo abilitativo "provvisorio" - Caratteri di
precarietà di un'opera.
Sussiste il reato di esecuzione di lavori in assenza di
permesso di costruire, pur quanto gli stessi siano stati
assentiti da un titolo abilitativo provvisorio, o "in
precario", atteso che lo stesso risulta non soltanto
extra legem, in quanto non previsto dalla normativa
vigente, ma anche illegittimo (contra legem), poiché
giova a tollerare una situazione di evidente abuso edilizio
(Sez. 3, n. 15921 del 12/2/2009, Palombo, relativa
all'installazione di una stazione radio base mobile, con
traliccio di 34 metri, gruppo elettrogeno con supporto in
calcestruzzo armato e relativa cisterna, autorizzata
soltanto per un semestre).
Conclusione che deriva dal fatto che la legge non richiede
alcun titolo abilitativo per le opere oggettivamente
contraddistinte da caratteri di precarietà, dovendo la
stessa essere desunta non dalla temporaneità della
destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore,
ma dalla intrinseca destinazione materiale della stessa ad
un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici,
contingenti e limitati nel tempo, con conseguente
possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non
risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il
mancato ancoraggio al suolo.
Ove tali caratteri manchino, e si sia in presenza di opere
stabili (come nel caso di specie), che comportino una
modificazione urbanistico-edilizia apprezzabile nel tempo e
non finalizzata a soddisfare esigenze improvvise e
transeunti, la legge prevede un solo tipo di provvedimento
che legittima l'edificazione (il permesso di costruire).
I casi, in sostanza, sono due: o non ricorrono i presupposti
che impongono il rilascio del provvedimento che abilita a
costruire, e allora l'opera conforme alle prescrizioni di
piano è esente dal controllo pubblico; oppure essi
ricorrono, e allora il permesso di costruire tipico è
indefettibilmente necessario e non surrogabile da un atipico
provvedimento di carattere provvisorio (Sez. 3, n. 37578 del
16/04/2008, Rao) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2018 n. 9876 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire - Differenza tra opere
stagionali e precarie - Natura, effetti e disciplina
applicabile - Giurisprudenza.
Il permesso di costruire è senz'altro richiesto per
l'esecuzione di opere stagionali, differenziandosi da quelle
precarie che, per la loro stessa natura e destinazione, non
comportano effetti permanenti e definitivi sull'originario
assetto del territorio tali da richiedere il preventivo
rilascio di un titolo abilitativo.
L'opera stagionale, diversamente da quella precaria, non è,
infatti, destinata a soddisfare esigenze contingenti ma
ricorrenti, sia pure soltanto in determinati periodi
dell'anno e, per tale motivo, è soggetta a permesso di
costruire (Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016; Sez. 3, n. 34763
del 21/06/2011; Sez. 3 n. 23645, 13/06/2011; Sez. 3, n.
22868, 13/06/2007; Sez. 3, n. 13705, 19/04/2006; Sez. 3, n.
11880, 12/03/2004).
Opera stagionale - Mancata rimozione
allo spirare del termine stabilito - Configurabilità del
reato urbanistico e paesaggistico - Fatti unificati nel
vincolo della continuazione - Artt. 44, lett. e), d.P.R. n.
380/2001 e 181 d.lgs. n. 42/2004.
La mancata rimozione dell'opera stagionale allo spirare del
termine stabilito configura il reato di cui al art 44 d.P.R.
n. 380 del 2001, poiché, in tale ipotesi, la responsabilità
discende dal combinato disposto del medesimo art. 44 e
dell'art. 40, comma 2 cod. pen., per la mancata ottemperanza
all'obbligo di rimozione insito nel provvedimento
autorizzatorio temporaneo (Sez. 3, n. 21158 del 2013, cit.;
Sez. 3 n. 23645/2011, Sez. 3 n. 42190, 29/11/2010; Sez. 3 n.
29871, 11/09/2006).
I suesposti principi trovano applicazione anche in relazione
alla sussistenza del reato di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42
del 2004, osservandosi, in particolare, che la stabile
permanenza delle opere edilizie, ancorché amovibili, ne
qualifica l'attitudine a incidere sul territorio e, a
maggior ragione, sugli interessi paesaggistici sulla cui
valutazione incide anche la stagionalità e provvisorietà
dell'opera (Cass. Sez. 3, n. 925 del 06/10/2015, dep.
13/01/2016, la quale, in fattispecie analoga, ha affermato
che in tema di tutela delle zone sottoposte a vincolo, il
mantenimento delle strutture degli stabilimenti balneari
oltre il termine di scadenza stagionale del titolo
concessorio demaniale, autorizzato dall'art. 1, comma 42,
della legge della Regione Campania n. 16 del 2014, richiede
necessariamente il concorrente titolo paesistico, la cui
mancanza integra il reato di cui all'art. 181 d.lgs. n.
42/2004) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 05.03.2018 n. 9872 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
AREE PROTETTE - Aree vincolate -
Esecuzione di interventi (anche non edilizi) - Assenza della
preventiva autorizzazione - Reato paesaggistico - Natura di
reato formale e di pericolo - Bene protetto dal vincolo -
Uso diverso da quello a cui è destinato.
Il reato formale e di pericolo previsto dall'art. 181 del
d.lgs. 22.01.2004, n. 42, si perfeziona mediante
l'esecuzione di interventi (anche non edilizi)
potenzialmente idonei ad arrecare nocumento alle zone
vincolate in assenza della preventiva autorizzazione e senza
che sia necessario l'accertamento dell'intervenuta
alterazione, danneggiamento o deturpamento del paesaggio, in
quanto per la sua configurabilità, è sufficiente che
l'agente faccia del bene protetto dal vincolo un uso diverso
da quello a cui è destinato, essendo il vincolo imposto
prodromico al governo del territorio stesso (Sez. 3, n.
34764 del 21/06/2011; Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013; Sez.
3, n. 11048 del 18/02/2015) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 05.03.2018 n. 9872 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO DEMANIALE - Indipendenza tra
titoli abilitativi e concessione demaniale - Presupposti per
il rilascio - Effetti diversificati del permesso di
costruire, dell'autorizzazione paesaggistica e della
concessione demaniale.
Deve escludersi ogni dipendenza tra i titoli abilitativi e
la concessione demaniale, in quanto diversi sono i
presupposti per il rilascio: il permesso di costruire
legittima l'esecuzione di interventi di trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio secondo la relativa
disciplina e dando concreta attuazione alle scelte operate
con gli strumenti di pianificazione, l'autorizzazione
paesaggistica concerne una valutazione circa l'incidenza di
un intervento sull'originario assetto dei luoghi soggetti a
particolare protezione, mentre la concessione demaniale
consente il godimento del bene demaniale entro i limiti
stabiliti dal provvedimento (Sez. 3, n. 8110 del 07/11/2002,
dep. 19/02/2003; Sez. 3, n. 37250 del 11/06/2008, dep.
01/10/2008; Sez. 3, n. 21158 del 2013; Sez. 3, n. 5461 del
04/12/2013, dep. 04/02/2014) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 05.03.2018 n. 9872 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Le sezioni unite, confermano la giurisdizione amministrativa
in ordine alle questioni attinenti la notifica del vincolo
archeologico.
---------------
●
Atto amministrativo – Difetto assoluto di attribuzione –
Carenza di potere in astratto – Nullità.
●
Beni culturali, paesaggistici ed ambientali – Vincolo
archeologico – Notifica e trascrizione – Controversia –
Giurisdizione amministrativa.
●
Con l'art. 21-septies, 1. 07.08.1990, n. 241 il legislatore,
nell'introdurre in via generale la categoria normativa della
nullità del provvedimento amministrativo, ha ricondotto a
tale radicale patologia il solo difetto assoluto di
attribuzione, che evoca la c.d. "carenza in astratto del
potere", cioè l'assenza in astratto di qualsivoglia norma
giuridica attributiva del potere esercitato con il
provvedimento amministrativo, con ciò facendo implicitamente
rientrare nell'area della annullabilità i casi della c.d.
"carenza del potere in concreto", ossia del potere, pur
astrattamente sussistente, esercitato senza i presupposti di
legge».
Per contro, quando mancano, nel caso concreto, i requisiti
fissati dalle norme per l'esercizio del potere formalmente
attribuito alla Pubblica Amministrazione, ricorre una
violazione di legge che mette in discussione la legittimità
dell'atto e il corretto esercizio del potere amministrativo
(1).
●
Le controversie aventi ad oggetto la notifica del
vincolo archeologico e la sua trascrizione, in quanto
relative all'esercizio del potere discrezionale della PA ed
alle sue modalità di esplicazione, appartengono alla
giurisdizione del giudice amministrativo (2).
---------------
(1,
2) I.- Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte ha
affrontato una controversia concernente l'inopponibilità del
vincolo archeologico, in specie nei confronti dei soggetti
coinvolti nella alienazione del bene immobile sottoposto a
vincolo, che deriverebbe dalla inesistenza e radicale
inefficacia della notifica e della trascrizione del vincolo
archeologico ai danti causa della parte venditrice.
Con una concisa motivazione le sezioni unite hanno concluso
nel senso della sussistenza della giurisdizione
amministrativa.
Secondo il Supremo consesso le questioni attinenti alla
notifica del vincolo archeologico ed alla sua trascrizione
sono relative all'esercizio del potere discrezionale della
p.a. ed alle sue modalità di esplicazione, perimetrando
l'esercizio del diritto di prelazione e fissandone i
requisiti e le modalità esplicative.
L'eventuale inosservanza delle stesse, ancorché si risolva
nella asserita inesistenza/nullità/inefficacia degli atti
della P.A., non attiene all'an bensì al quomodo
della potestà pubblica, essendo un posterius rispetto
all'atto amministrativo (vincolo archeologico) con cui è
stato esercitato il potere attribuito al Ministero dalla
legge. Tali vizi, dunque, gravitano nell'ambito della
illegittimità e sono attratti alla giurisdizione del giudice
amministrativo.
II.- Di particolare rilievo appare l’inquadramento concernente la
dibattuta figura della nullità per difetto assoluto di
attribuzione. Al riguardo la sentenza si rifà alle
tradizionali ipotesi di carenza di potere in astratto ed in
concreto, condividendo la conclusione della giurisprudenza
amministrativa nel senso che solo la prima dia luogo alla
nullità.
Secondo la sentenza in epigrafe sussiste la giurisdizione
del giudice ordinario quando, nell’esercizio di funzioni
ablatorie (restrittive nel linguaggio della sentenza), il
provvedimento, nullo per difetto di attribuzione, pretende
di incidere su un diritto soggettivo a stampo conservativo.
In questa ipotesi l'azione amministrativa non è idonea a
scalfire il diritto soggettivo. È, pertanto, tale posizione
giuridica che viene fatta valere direttamente dal soggetto
leso, con conseguente devoluzione della controversia al
giudice ordinario. Peraltro tale effetto si verifica
unicamente in caso di carenza di potere in astratto.
Viene condivisa la giurisprudenza, definita come
consolidata, che riconduce alla nullità ex art. 21-septies
legge 241 del 1990 il solo difetto assoluto di attribuzione,
che evoca la c.d. "carenza in astratto del potere",
cioè l'assenza in astratto di qualsivoglia norma giuridica
attributiva del potere esercitato con il provvedimento
amministrativo, con ciò facendo implicitamente rientrare
nell'area della annullabilità i casi della c.d. "carenza
del potere in concreto", ossia del potere, pur
astrattamente sussistente, esercitato senza i presupposti di
legge: viene definitivamente superata l’impostazione della
tradizionale giurisprudenza della Corte di cassazione che,
anche in tale ultima ipotesi, ravvisava i presupposti per
l’affermazione della giurisdizione ordinaria.
Pertanto, allorquando mancano, nel caso concreto, i
requisiti fissati dalle norme per l'esercizio del potere
formalmente attribuito alla p.a., ricorre una violazione di
legge che mette in discussione la legittimità dell'atto e il
corretto esercizio del potere amministrativo (in questo
senso anche i seguenti precedenti della Corte suprema: Cass.
civ., sez. un., 03.10.2016, n. 19682; 28.07.2016, n. 15667;
23.09.2014, n. 19974; Cass. pen., sez. III, 15.11.2017, n.
52053, in Urbanistica e appalti, 2018, 127, secondo cui la
carenza di potere in concreto si traduce nella violazione di
legge, che costituisce requisito strutturale del reato di
abuso di ufficio ex art. 323 c.p., e si distingue dal
difetto assoluto di attribuzione che è causa di nullità
dell’atto).
III. Per completezza si segnala:
a) sul criterio di riparto della giurisdizione
fondato sulla distinzione fra carenza di potere in astratto
e concreto, v. A. M. SANDULLI, Manuale di diritto
amministrativo, XV ed., Napoli, 1989, 666 ss.; CARINGELLA –
DE NICTOLIS – GAROFOLI – POLI, Il riparto di giurisdizione,
II ed., Milano, 2008, 73 ss., 146 ss.; D. PONTE, La nullità
dell'atto amministrativo. Procedimento e processo, Milano,
2015, 135 ss.; M. CLARICH, Manuale di diritto
amministrativo, II ed., Bologna, 2017, 205 ss.; A. PLAISANT,
Dal diritto civile al diritto amministrativo, II ed.,
Cagliari, 2017, 603 ss.;
b) sulla nullità dell’atto amministrativo per
carenza assoluta di potere, Cass., sez. lav., 28.09.2006, n.
21036, in Foro it., 2007, I, 3106, con nota di D’AURIA,
secondo cui “è nullo, per essere stato emanato in difetto
assoluto di attribuzione, il bando di concorso relativo alla
copertura di un posto di «medico dirigente di primo livello»
(corrispondente, nel precedente ordinamento, al posto di
aiuto-X livello retributivo del ruolo sanitario), indetto
successivamente all’entrata in vigore del nuovo ordinamento
della dirigenza medica (introdotto dal d.lgs. 502/1992), ma
prima della sua concreta operatività, e dopo la «revoca di
diritto», disposta dall’art. 19 d.lgs. 517/1993, delle
procedure concorsuali per la copertura di posti nelle
posizioni funzionali corrispondenti, nel precedente
ordinamento, al decimo livello retributivo del ruolo
sanitario”; Cass. civ., sez. un., 07.02.2007, n. 2688
(in Foro it., 2008, I, 224, con nota di TRAVI, cui si rinvia
per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza),
secondo cui “sono devolute alla giurisdizione del giudice
ordinario le vertenze risarcitorie o restitutorie promosse
per occupazioni effettuate dall'amministrazione in mancanza
di dichiarazione di pubblica utilità, o in presenza di
dichiarazione nulla (in particolare, perché priva dei
termini per l'inizio e il compimento dell'espropriazione e
dell'opera) o divenuta inefficace per l'inutile decorso dei
termini”;
c) sul tipo di invalidità che affetta un atto
amministrativo conseguente a reato, Cons. Stato, sez. V,
17.02.2014, n. 755, in Foro it., 2014, III, 219, secondo cui
“è affetto da annullabilità (e non da nullità) il
provvedimento amministrativo che sia stato rilasciato in
seguito alla commissione di un reato”; nel medesimo
senso, ovvero che la rilevanza penale dell’atto non
determini la nullità del provvedimento amministrativo, Cons.
Stato, sez. VI, 31.10.2013, n. 5266; in senso contrario:
Cons. Stato, sez. V, 04.03.2008, n. 890, secondo cui è
nulla, per interruzione del rapporto organico, la
concessione edilizia frutto di abuso d’ufficio; Cass. pen.,
03.07.1986, Zanella, in Foro it., Rep. 1987, voce Abuso di
poteri, n. 17.
In dottrina sul tema, cfr. D’ANGELO, Nullità dell’atto «da
reato» e giurisdizione nelle controversie su atti nulli,
in Urbanistica e appalti, 2009, 461; CORTESI, Interruzione
del rapporto organico e nullità del provvedimento, in
Urbanistica e appalti, 2008, 1301 ss.; GALLO, La nullità del
provvedimento amministrativo, in Urbanistica e appalti,
2009, 189 ss.; PAOLANTONIO, Nullità dell’atto
amministrativo,voce dell’Enciclopedia del diritto-Annali,
Milano, 2007, I, 855 ss.;
d) per il ripudio della tesi della carenza di
potere in concreto come causa di nullità dell’atto
amministrativo e conseguente giurisdizione del G.O., Cons.
Stato, Ad plen., 26.03.2003, n. 4, in Foro it. 2003, III,
433, con nota di TRAVI, secondo cui “l’omissione dei
termini per l’inizio e l’ultimazione dei lavori comporta
l’annullabilità, e non la nullità, della dichiarazione di
pubblica utilità; pertanto non determina carenza di potere
rispetto ai successivi atti espropriativi”; Cons. Stato,
Ad. plen., 22.10.2007, n. 12 (in Foro it., 2008, III, 1, con
nota di TRAVI; Corriere giur., 2008, 253, con note di DI
MAJO, PELLEGRINO; Urbanistica e appalti, 2008, 339, con nota
di GALLO, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina
e giurisprudenza), secondo cui “rientra nella
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la
controversia relativa all'accertamento di intervenuta
accessione invertita e alla conseguente domanda di
risarcimento, in presenza di un agire dell'amministrazione
causalmente riferibile a una funzione che per legge le
appartiene ed è stata in concreto svolta, in quanto, nella
materia espropriativa, i comportamenti che esulano dalla
giurisdizione amministrativa esclusiva sono solo quelli che,
tenuto conto dei riferimenti formali e fattuali di ogni
fattispecie, non risultano riconducibili all'esercizio di un
pubblico potere”;
e) negli stessi termini, con riferimento al
contrasto del provvedimento amministrativo col diritto
europeo, Cons. Stato, sez. V, 10.01.2003, n. 35, in Foro it.,
2004, III, 413 con nota di PAOLA; Cons. Stato, sez. V,
19.05.2009, n. 3072 (in Urbanistica e appalti, 2009, 1097,
con nota di FRANCO, Giust. amm., 2009, fasc. 2, 223, con
nota di CORNELLA, Riv. giur. Molise e Sannio, 2012, fasc. 1,
64, con nota di BACCARI), secondo cui: “Il provvedimento
di una p.a. nazionale che si ponga in contrasto con la
disciplina comunitaria di un determinato settore configura
un'ipotesi di annullabilità dello stesso, e non di nullità,
come accade, invece, nell'ipotesi che l'atto interno sia
stato emesso in conformità ad una norma nazionale
(attributiva del potere) che risulti, essa, incompatibile
con il diritto comunitario, con il conseguente obbligo di
disapplicazione; l'azione di annullamento per violazione di
una norma comunitaria è esperibile davanti al giudice
amministrativo entro l'ordinario termine di decadenza,
mentre la p.a. è tenuta ad applicare l'atto illegittimo,
salvo il potere di annullamento in via di autotutela”;
Cons. Stato sez. III 08.09.2014, n. 4538, secondo cui “l'art.
21-septies, l. 07.08.1990, n. 241, introdotto dalla l.
11.02.2005, n. 15, ha codificato in numero chiuso le ipotesi
di nullità del provvedimento amministrativo e tra queste non
rientra la violazione del diritto comunitario per la quale
l'ipotesi della nullità è configurabile nella sola ipotesi
in cui il provvedimento nazionale sia stato adottato sulla
base di una norma interna attributiva del potere
incompatibile con il diritto comunitario”;
f) sulla nullità dell’atto amministrativo nel
regime dell’art. 21-septies, l. n. 241 del 1990, in
relazione agli artt. 31, comma 4 e 133, comma 1, n. 5,
c.p.a., v. Cons. Stato, Sez. IV, 19.04.2017, n. 1827 e
24.052016, n. 2202, in Foro amm., 2016, 1191, secondo cui: “anche
dopo l'inserimento nel vigente sistema amministrativo
dell'art. 21-septies l. 07.08.1990 n. 241, che ha codificato
la nullità «strutturale» del provvedimento amministrativo
(ossia per difetto dei suoi elementi essenziali), tale
peculiare vizio può essere in concreto ravvisato soltanto in
casi estremi e circoscritti, quale ad esempio l'inesistenza
dell'oggetto; in particolare, con riferimento all'ipotetico
difetto della causa, che sul piano civilistico è causa di
nullità del negozio, questo nella teoria del provvedimento
amministrativo, laddove lo si identifichi con
l'insussistenza dell'interesse pubblico che esso dovrebbe
perseguire, costituisce una ordinaria ipotesi di
annullabilità del provvedimento amministrativo, ex art.
21-octies, 1º comma, della stessa l. n. 241 del 1990, sub
specie di eccesso di potere; e ciò discende non solo dalla
peculiarità della patologia del provvedimento amministrativo
rispetto a quella del negozio giuridico, nella prima essendo
del tutto prioritario e prevalente l'aspetto «funzionale»
(ossia la finalizzazione del provvedimento a un interesse
pubblico), ma anche dall'eccezionalità del vizio di nullità
rispetto alle ordinarie forme di illegittimità conoscibili
dal giudice amministrativo e rilevanti quali cause di
annullabilità”; cfr. altresì Cons. Stato, sez. V,
31.12.2014, n. 6455 del 2014 (in Appalti & Contratti, 2015,
fasc. 1, 83), secondo cui il regime della nullità dell’atto
amministrativo è eccezionale e sono di stretta
interpretazione, ai sensi dell’art. 14 delle preleggi, le
norme che la prevedono, conseguentemente perché si possa
configurare la nullità dell’atto amministrativo ai sensi
dell’art. 21-septies, l. n. 241 del 1990, devono sussistere
gli indispensabili presupposti richiesti dalla norma:
mancanza degli elementi essenziali del provvedimento;
difetto assoluto di attribuzione; violazione o elusione del
giudicato; negli esatti termini, Cons. Stato, Ad. plen.,
25.02.2014, n. 9 (in Foro it., 2014, III, 429, con nota di
SIGISMONDI; Dir. proc. amm., 2014, 544, con nota di
BERTONAZZI; Urbanistica e appalti, 2014, 1075 (m), con nota
di FANTINI; Giornale dir. amm., 2014, 918 (m), con note di
FERRARA, BARTOLINI; Nuovo notiziario giur., 2014, 550, con
nota di BARBIERI, cui si rinvia per ogni approfondimento di
dottrina e giurisprudenza);
g) sulla disapplicazione del regolamento in
contrasto con il diritto europeo,
Cons. Stato, sez., VI, 02.02.2018, n. 677
(oggetto della
News US 12.02.2018, ed ai cui approfondimenti si
rinvia), che ha deferito all’Adunanza plenaria le questioni
dell’affidamento dell’incarico di direttore di polo museale
a cittadino non italiano, della disapplicazione
regolamentare e del regime giuridico delle norme interne in
contrasto con la CEDU;
h) sulla imposizione del vincolo culturale, di
recente, Cons. Stato, sez. VI, 21.05.2013 n. 2707, secondo
cui “un provvedimento amministrativo di imposizione di un
vincolo su un bene determinato (sia esso mobile o immobile)
è impugnabile innanzi al Tar o con ricorso straordinario al
Presidente della Repubblica entro i termini stabiliti dalle
legge, che decorrono -per il proprietario o il titolare del
diritto reale- dalla data della relativa notifica o della
acquisita conoscenza. L'inoppugnabilità del provvedimento
impositivo del vincolo si verifica col decorso di tali
termini. Un successivo passaggio di proprietà (inter vivos o
mortis causa) non rimette in termini l'acquirente, che
subentra nella medesima situazione giuridica nella quale si
trova il dante causa. Pertanto, l'acquirente del bene
sottoposto al vincolo non si avvale della riapertura dei
termini di impugnazione: gli atti di trasferimento del bene
sono vicende di diritto privato, che non pongono nel nulla
la conseguita inoppugnabilità del provvedimento”; Cons.
Stato, sez. VI, 14.10.2015, n. 4747, secondo cui “il
giudizio che presiede all'imposizione di una dichiarazione
di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da
un'ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica
l'applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche
specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari
(della storia, dell'arte e dell'architettura) caratterizzati
da ampi margini di opinabilità. Ne consegue che
l'apprezzamento compiuto dall'Amministrazione preposta alla
tutela -da esercitarsi in rapporto al principio fondamentale
dell'art. 9 Cost.- è sindacabile, in sede giudiziale,
esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e
completezza della valutazione, considerati anche per
l'aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e
del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il
limite della relatività delle valutazioni scientifiche,
sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere
censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori
dell'ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale
non divenga sostitutivo di quello dell'Amministrazione
attraverso la sovrapposizione di una valutazione
alternativa, parimenti opinabile. In altri termini, la
valutazione in ordine all'esistenza di un interesse
culturale (artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico) particolarmente importante, tale da
giustificare l'imposizione del relativo vincolo ai sensi
degli artt. 13, comma 1, e 10, comma 3, lett. a), d.lgs.
22.01.2004, n. 42, è prerogativa esclusiva
dell'Amministrazione preposta alla gestione del vincolo e
può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in
presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza
tale da far emergere l'inattendibilità della valutazione
tecnico-discrezionale compiuta” (Corte
di Cassazione, SS.UU. civili,
sentenza
05.03.2018 n. 5097 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Principio
di continuità delle operazioni di gara
Il Consiglio di Stato precisa che il principio di continuità
delle operazioni di gara ha carattere tendenziale, nel senso
che non si tratta di un precetto inviolabile ma, al
contrario, tollera deroghe alla sua operatività, in
particolare in presenza di situazioni peculiari che
impediscano obiettivamente l’esaurimento di tutte le
operazioni di gara in una sola seduta, purché sia garantita
nelle more l’integrità delle offerte e sia quindi assicurata
l’imparzialità del giudizio.
Aggiunge il Consiglio di Stato che la lunghezza delle
operazioni di gara non può tradursi, con carattere di
automatismo, in effetto viziante della procedura
concorsuale, in tal modo implicitamente collegando alla
mancata tempestiva conclusione della procedura il
pregiudizio alla imparzialità e trasparenza della gara; non
è il dato in sé della lunga durata della procedura a poterne
determinare l’annullamento quanto, piuttosto, l’eventuale
concreta dimostrazione di circostanze effettivamente
probanti in ordine alla violazione del principio di
trasparenza, par condicio ed imparzialità
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
6. Anche l’ultimo motivo non è suscettibile di positiva
valutazione.
Come chiarito da una giurisprudenza pressoché costante il
principio di continuità delle operazioni di gara ha
carattere tendenziale, nel senso che non si tratta di un
precetto inviolabile ma, al contrario, tollera deroghe alla
sua operatività, in particolare in presenza di situazioni
peculiari che impediscano obiettivamente l’esaurimento di
tutte le operazioni di gara in una sola seduta, purché sia
garantita nelle more l’integrità delle offerte e sia quindi
assicurata l’imparzialità del giudizio (Cons. St., sez. V,
12.06.2018, n. 2811; id., sez. III, 25.11.2016, n.
4993; id., sez. V, 22.01.2015, n. 257).
Nel caso all’esame del Collegio la complessità dell’appalto
e la difficoltà di nominare il Presidente della Commissione
giustifica il tempo trascorso dalla prima all’ultima seduta
di gara. Aggiungasi –ed il rilievo è assorbente di ogni
altra considerazione– che l’appellante non ha dimostrato
che tale lungo lasso di tempo ha compromesso l’imparzialità
e la trasparenza delle operazioni, ad esempio per essere
stati lasciati i plichi contenenti le offerte incustoditi.
Tale prova era invece necessaria a supportare il motivo
dedotto.
Ed infatti, la lunghezza delle operazioni di gara non può
tradursi, con carattere di automatismo, in effetto viziante
della procedura concorsuale, in tal modo implicitamente
collegando alla mancata, tempestiva conclusione della
procedura il pregiudizio alla imparzialità e trasparenza
della gara.
Pertanto, non è il dato in sé della lunga durata della
procedura a poterne determinare l’annullamento quanto –
piuttosto – l’eventuale concreta dimostrazione, che nella
specie è mancata, di circostanze effettivamente probanti in
ordine alla violazione del principio di trasparenza, par
condicio ed imparzialità (Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 05.03.2018 n. 1335
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli effetti della pronuncia della A.P. n. 13 del 2017 sul
vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione
di notevole interesse pubblico non possono essere limitati
al futuro.
---------------
●
Paesaggio – Tutela – Vincolo – Proposto prima dell’entrata
in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 – Procedimento non
concluso – Cessazione degli effetti.
●
Paesaggio – Tutela – Vincolo – Proposto prima dell’entrata
in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 – Procedimento non
concluso – Cessazione degli effetti – Decorrenza –
Individuazione.
●
Il combinato
disposto –nell’ordine logico– dell’art. 157, comma 2,
dell’art. 141, comma 5, dell’art. 140, comma 1 e dell’art.
139, comma 5, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, deve interpretarsi
nel senso che il vincolo preliminare nascente dalle proposte
di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate
prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto
legislativo –come modificato con il d.lgs. 24.03.2006, n.
157 e con il d.lgs. 26.03.2008, n. 63– cessa qualora il
relativo procedimento non si sia concluso entro 180 giorni
(1).
●
Il
termine di efficacia di 180 giorni del vincolo preliminare
nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole
interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore
del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 non decorre dalla pubblicazione
della sentenza dell’Adunanza plenaria 22.12.2017, n. 13,
avendo il principio da questa affermato natura dichiarativa
e, come tale, naturalmente portata retroattiva (2).
---------------
(1)
Cfr.
Cons. St., A.P., 22.12.2017, n. 13.
(2) Ha ricordato il Tar che l’Adunanza
Plenaria 22.12.2017, n. 13, chiamata a
pronunciarsi anche sugli effetti della propria pronuncia
sulle numerosissime proposte di vincolo pendenti in
relazione a procedimenti mai conclusi, ha affermato
l’ulteriore principio di diritto secondo cui “Il termine
di efficacia di 180 giorni del vincolo preliminare nascente
dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse
pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs.
22.01.2004, n. 42 decorre dalla pubblicazione della presente
sentenza”; ciò sulla premessa per cui l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato può modulare la portata
temporale delle proprie pronunce, in particolare limitandone
gli effetti al futuro, al verificarsi delle seguenti
condizioni: a) un’obiettiva e rilevante incertezza circa la
portata delle disposizioni da interpretare; b) l’esistenza
di un orientamento prevalente contrario all’interpretazione
adottata; c) la necessità di tutelare uno o più principi
costituzionali o, comunque, di evitare gravi ripercussioni
socio-economiche, condizioni ritenute sussistenti nel caso
di specie.
Il Tar ha tuttavia ritenuto di doversi motivatamente
discostare da tale principio di diritto che, ai sensi
dell’art. 99, comma 3, c.p.a., vincola le sole Sezioni del
Consiglio di Stato ma non anche il giudice di primo grado
per il quale opera il principio del libero convincimento e
soprattutto quello costituzionale di soggezione “soltanto
alla legge” ex art. 101 Cost..
A tale conclusione il Tar è pervenuto proprio alla luce del
principio di diritto espresso dalla successiva recentissima
pronuncia della medesima
Adunanza Plenaria 23.02.2018, n. 1 la quale,
disattendendo una espressa richiesta della parte appellata
finalizzata a limitare pro futuro il principio di diritto
–laddove a sé sfavorevole- ha escluso che il principio di
diritto affermato possa ritenersi applicabile soltanto a
rapporti futuri e non anche a quelli in corso, avendo gli
enunciati giurisprudenziali natura formalmente dichiarativa,
rammentando al riguardo che la diversa opinione “finisce
per attribuire alla esegesi valore ed efficacia normativa in
contrasto con la logica intrinseca della interpretazione e
con il principio costituzionale della separazione dei poteri
venendosi a porre in sostanza come una fonte di produzione”
secondo quanto affermato da
Cons. St., A.P., 02.11.2015, n. 9.
La limitazione pro futuro degli effetti della sentenza
interpretativa dell’Adunanza plenaria equivale infatti alla
creazione di una norma transitoria, in funzione para
normativa che non può vincolare il giudice di primo grado,
in quanto recessiva rispetto al principio costituzionale di
soggezione del giudice “soltanto alla legge”, ex art.
101 Cost., laddove la legge, come interpretata dall’Adunanza
Plenaria, è, nel caso di specie, chiaramente nel senso della
cessazione del vincolo preliminare -qualora il relativo
procedimento non si sia concluso entro 180 giorni– anche per
le proposte di vincolo formulate prima dell’entrata in
vigore del d.lgs. n. 42 del 2004.
Inoltre, a partire da Cass. civ., sez. un., 11.072011 n.
15144 e numerose altre successive -tra cui 21.05.2015, n.
10453; 17.12.2014, n. 26541; 04.06.2014, n. 12521, 13
febbraio 2014, n. 3308 e, da ultimo, Cass. civ., sez. un.,
1309.2017, n. 21194- si è costantemente affermato che, per
configurare il c.d. prospective overruling e quindi
per attribuire carattere innovativo, con decorrenza ex
nunc, all’intervento nomofilattico, occorra la
concomitante presenza dei seguenti tre presupposti: a)
l’esegesi deve incidere su una regola del processo; b)
l’esegesi deve essere imprevedibile ovvero seguire ad altra
consolidata nel tempo tale da considerarsi diritto vivente e
quindi da indurre un ragionevole affidamento; c)
l'innovazione comporti un effetto preclusivo del diritto di
azione o di difesa.
Tale impostazione è stata sempre seguita anche dal giudice
amministrativo: cfr. in termini (ma non presa in
considerazione dalla decisione in esame),
Cons. St., A.P, 02.11.2015, n. 9 (§ 4), in cui si
afferma esplicitamente l’impossibilità di trasformare “…una
sequenza di interventi accertativi del contenuto della norma
in una operazione di creazione di un novum ius, in sequenza
ad un vetus ius, con sostanziale attribuzione, ai singoli
arresti, del valore di atti fonte del diritto, di
provenienza dal giudice; soluzione non certo coniugabile con
il precetto costituzionale dell’art. 101 Cost.”);
successivamente, nello stesso senso si veda
Cons. St., sez. III, ord., 07.11.2017, n. 5138.
Nel caso di specie non ricorre invero alcuna delle tre
condizioni per l’operatività dell’overulling:
l’esegesi non incide infatti su norma processuale ma su una
sostanziale disciplina del procedimento amministrativo;
l'innovazione non comporta effetti preclusivi del diritto di
azione o di difesa; non si era formato un diritto vivente
sul punto controverso (tanto che era stato necessario
rimettere la questione alla Plenaria proprio per la presenza
di un contrasto di giurisprudenza maturato in seno al
Consiglio di Stato).
Ad avviso del Tar deve dunque essere ribadita la natura
dichiarativa e come tale naturalmente retroattiva del
principio di diritto affermato dalla Adunanza Plenaria con
la sentenza 22.12.2017, n. 13, con conseguente illegittimità
degli atti impugnati in quanto adottati sull’erroneo
presupposto della perdurante efficacia del vincolo
preliminare discendente da una proposta di vincolo risalente
al 2003 (TAR
Molise,
sentenza 05.03.2018 n. 117
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Il ricorso è fondato.
La problematica delle proposte di vincolo è stata
approfondita dal collegio con sentenza n. 92 del 26.02.2016 pervenendo alla conclusione della perdurante efficacia
degli effetti del vincolo preliminare nascente dalle
proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico
formulate prima dell’entrata in vigore della novella al
decreto legislativo n. 42/2004 (dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi, segnatamente, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63), non seguite dal decreto ministeriale di
conclusione del procedimento di dichiarazione di notevole
interesse pubblico
Sull’appello proposto avverso la predetta sentenza la IV
sezione del Consiglio di Stato con ordinanza 12.06.2017,
n. 2838 ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria che
con sentenza 22.12.2017, n. 13 è giunta a conclusioni
opposte, affermando il principio di diritto secondo cui “Il
combinato disposto –nell’ordine logico– dell’art. 157,
comma 2, dell’art. 141, comma 5, dell’art. 140, comma 1, e
dell’art. 139, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42,
deve interpretarsi nel senso che il vincolo preliminare
nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole
interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore
del medesimo decreto legislativo –come modificato con il
d.lgs. 24.03.2006, n. 157 e con il d.lgs. 26.03.2008,
n. 63– cessa qualora il relativo procedimento non si sia
concluso entro 180 giorni”.
Poiché nel caso di specie il procedimento non è stato mai
concluso e la proposta risale ad 11 anni prima rispetto al
diniego impugnato, deve concludersi nel senso che alla data
in cui l’autorizzazione paesaggistica è stata richiesta e
negata il vincolo preliminare era ormai decaduto ed il bene
immobile oggetto dell’intervento non più soggetto alla
disciplina di tutela di cui all’art. 146 del d.lgs. 42 del
2004, come eccepito dalla ricorrente con specifico motivo di
ricorso.
Ne discende che tutti gli atti impugnati sono illegittimi in
quanto adottati sull’erroneo presupposto della perdurante
vigenza del vincolo preliminare di tutela.
Sennonché l’Adunanza Plenaria, chiamata a pronunciarsi anche
sugli effetti della propria pronuncia sulle numerosissime
proposte di vincolo pendenti in relazione a procedimenti mai
conclusi, ha affermato l’ulteriore principio di diritto
secondo cui «Il termine di efficacia di 180 giorni del
vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione
di notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata
in vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 decorre dalla
pubblicazione della presente sentenza»; ciò sulla premessa
per cui l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato può
modulare la portata temporale delle proprie pronunce, in
particolare limitandone gli effetti al futuro, al
verificarsi delle seguenti condizioni: a) un’obiettiva e
rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni da
interpretare; b) l’esistenza di un orientamento prevalente
contrario all’interpretazione adottata; c) la necessità di
tutelare uno o più principi costituzionali o, comunque, di
evitare gravi ripercussioni socio-economiche, condizioni
ritenute sussistenti nel caso di specie.
La conseguenza di tale affermazione è rappresentata dal
fatto che anche la proposta di vincolo relativa al Comune di
Isernia, richiamata nelle premesse giustificative del
diniego di autorizzazione paesaggistica, dovrebbe ritenersi
assistita dalla perdurante efficacia del vincolo preliminare
sino al 22.06.2018 dal che discenderebbe la sussistenza
del potere di autorizzazione ai sensi dell’art. 146 d.lgs.
42/2004.
Il collegio ritiene tuttavia di doversi motivatamente
discostare da tale principio di diritto che, ai sensi
dell’art. 99, comma 3, c.p.a., vincola le sole sezioni del
Consiglio di Stato ma non anche il giudice di primo grado
per il quale opera il principio del libero convincimento e
soprattutto quello costituzionale di soggezione “soltanto
alla legge” ex art. 101 Cost..
A tale conclusione il collegio ritiene di dover pervenire
proprio alla luce del principio di diritto espresso dalla
successiva recentissima pronuncia della medesima Adunanza
Plenaria n. 1 del 2018 la quale, disattendendo una espressa
richiesta della parte appellata finalizzata a limitare pro
futuro il principio di diritto –laddove a sé sfavorevole-
ha escluso che il principio di diritto affermato possa
ritenersi applicabile soltanto a rapporti futuri e non anche
a quelli in corso, avendo gli enunciati giurisprudenziali
natura formalmente dichiarativa, rammentando al riguardo che
la diversa opinione «finisce per attribuire alla esegesi
valore ed efficacia normativa in contrasto con la logica
intrinseca della interpretazione e con il principio
costituzionale della separazione dei poteri venendosi a
porre in sostanza come una fonte di produzione» secondo
quanto affermato da Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015,
n. 9.
La limitazione pro futuro degli effetti della sentenza
interpretativa dell’Adunanza plenaria equivale infatti alla
creazione di una norma transitoria, in funzione para
normativa che non può vincolare il giudice di primo grado,
in quanto recessiva rispetto al principio costituzionale di
soggezione del giudice “soltanto alla legge”, ex art. 101
Cost., laddove la legge, come interpretata dall’Adunanza
Plenaria, è, nel caso di specie, chiaramente nel senso della
cessazione del vincolo preliminare -qualora il relativo
procedimento non si sia concluso entro 180 giorni– anche
per le proposte di vincolo formulate prima dell’entrata in
vigore del d.lgs. n. 42/2004 qual è quella che interessa il
Comune di Isernia.
Inoltre a partire da Cass. civ., sez. un., 11.07.2011 n.
15144 e numerose altre successive -tra cui 21.05.2015,
n. 10453; 17.12.2014, n. 26541; 04.06.2014, n.
12521, 13.02.2014, n. 3308 e, da ultimo, Cass. civ.,
sez. un., 13.09.2017, n. 21194- si è costantemente
affermato che, per configurare il c.d. prospective
overruling e quindi per attribuire carattere innovativo, con
decorrenza ex nunc, all’intervento nomofilattico, occorra la
concomitante presenza dei seguenti tre presupposti: a)
l’esegesi deve incidere su una regola del processo; b)
l’esegesi deve essere imprevedibile ovvero seguire ad altra
consolidata nel tempo tale da considerarsi diritto vivente e
quindi da indurre un ragionevole affidamento; c)
l'innovazione comporti un effetto preclusivo del diritto di
azione o di difesa.
Tale impostazione è stata sempre seguita anche dal giudice
amministrativo: cfr. in termini (ma non presa in
considerazione dalla decisione in esame), Cons. Stato, Ad.
plen., 02.11.2015, n. 9, specie § 4, in cui si afferma
esplicitamente l’impossibilità di trasformare “…una sequenza
di interventi accertativi del contenuto della norma in una
operazione di creazione di un novum ius, in sequenza ad un
vetus ius, con sostanziale attribuzione, ai singoli arresti,
del valore di atti fonte del diritto, di provenienza dal
giudice; soluzione non certo coniugabile con il precetto
costituzionale dell’art. 101 Cost.”); successivamente, nello
stesso senso si veda Cons. Stato, sez. III, ordinanza 07.11.2017, n. 5138.
Nel caso di specie non ricorre invero alcuna delle tre
condizioni per l’operatività dell’overulling: l’esegesi non
incide infatti su norma processuale ma su una sostanziale
disciplina del procedimento amministrativo; l'innovazione
non comporta effetti preclusivi del diritto di azione o di
difesa; non si era formato un diritto vivente sul punto
controverso (tanto che era stato necessario rimettere la
questione alla Plenaria proprio per la presenza di un
contrasto di giurisprudenza maturato in seno al Consiglio di
Stato).
Sulla valenza inderogabilmente retroattiva della esegesi di
norme di carattere sostanziale anche in presenza di un
overruling, si veda Cass. civ., Sez. V, 18.11.2015, n.
23585: “La regola secondo cui, alla luce del principio
costituzionale del giusto processo, le preclusioni e le
decadenze derivanti da un imprevedibile revirement
giurisprudenziale non operano nei confronti della parte che
abbia confidato incolpevolmente sul precedente consolidato
orientamento attiene unicamente al profilo degli effetti del
mutamento di una consolidata interpretazione del giudice
della nomofilachia in ordine a norme processuali. Il
sopravvenuto consolidamento di un nuovo indirizzo
giurisprudenziale su norme di carattere sostanziale che in
astratto consentirebbero la riforma di una precedente
decisione non può quindi giustificare la rimessione in
termini invocata dalla parte onde superare il giudicato
formale formatosi per la mancata tempestiva impugnazione di
una sentenza”.
In conclusione non possono ritenersi sussistenti le
condizioni per l’operatività del prospective overruling
secondo i principi affermati dalla giurisprudenza civile ed
amministrativa del tutto maggioritaria.
Deve dunque essere ribadita la natura dichiarativa e come
tale naturalmente retroattiva del principio di diritto
affermato dalla Adunanza Plenaria con la sentenza 22.12.2017, n. 13 con conseguente illegittimità degli
atti impugnati in quanto adottati sull’erroneo presupposto
della perdurante efficacia del vincolo preliminare
discendente da una proposta di vincolo risalente al 2003.
Stante il carattere dirimente del presente motivo, le
restante doglianze articolate dalla ricorrente possono
essere assorbite.
Il ricorso è pertanto fondato sicché dev’essere disposto
l’annullamento degli atti impugnati. |
APPALTI:
Ambito di applicazione del rito superaccelerato –
Avvalimento di garanzia e tecnico/operativo.
---------------
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Contestuale
impugnazione ammissione e aggiudicazione – Rito
superaccelerato – Non si applica.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Avvalimento - Avvalimento di
garanzia e avvalimento tecnico/operativo – Distinzione.
●
Il rito speciale c.d. “superaccelerato” di cui all’art. 120,
commi 2-bis e 6-bis, c.p.a., non si applica se oggetto di
gravame è non soltanto l’ammissione della controinteressata
ma anche il provvedimento di aggiudicazione, dovendo tale
rito essere applicato solo nei casi in cui risulti una netta
distinzione tra fase di ammissione/esclusione e fase di
aggiudicazione.
●
In
sede di gara pubblica, ricorre l’avvalimento c.d. di
garanzia nel caso in cui l’ausiliaria metta a disposizione
dell’ausiliata la propria solidità economica e finanziaria,
rassicurando la stazione appaltante sulle sue capacità di
far fronte agli impegni economici conseguenti al contratto
d’appalto, anche in caso di inadempimento: tale è l’avvalimento
che abbia ad oggetto i requisiti di carattere
economico–finanziario e, in particolare, il fatturato
globale o specifico; ricorre, invece, l’avvalimento c.d.
tecnico od operativo nel caso in cui l’ausiliaria si impegni
a mettere a disposizione dell’ausiliata le proprie risorse
tecnico–organizzative indispensabili per l’esecuzione del
contratto di appalto: tale è l’avvalimento che abbia ad
oggetto i requisiti di capacità tecnico–professionale tra i
quali, ad esempio, la dotazione di personale (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che la rilevanza della distinzione va
rinvenuta in ciò, che nel primo caso (in cui l’impresa
ausiliaria si limita a “mettere a disposizione” il
suo valore aggiunto in termini di solidità finanziaria e di
acclarata esperienza di settore), non è, in via di
principio, necessario che la dichiarazione negoziale
costitutiva dell’impegno contrattuale si riferisca a
specifici beni patrimoniali o ad indici materiali atti ad
esprimere una certa e determinata consistenza patrimoniale
e, dunque, alla messa a disposizione di beni da descrivere
ed individuare con precisione, ma è sufficiente che dalla
ridetta dichiarazione emerga l’impegno contrattuale a
prestare ed a mettere a disposizione dell’ausiliata la
complessiva solidità finanziaria ed il patrimonio
esperienziale, così garantendo una determinata affidabilità
e un concreto supplemento di responsabilità (Cons.
St., sez. V, 30.10.2017, n. 4973; id.,
sez. III, 11.07.2017, n. 3422; id.,
sez. V, 15.03.2016, n. 1032).
Ha ricordato la Sezione che l’Adunanza plenaria (04.11.2016,
n. 23), ha formulato il principio di diritto secondo cui
l’art. 49, d.lgs. n. 163 del 2006 e l’art. 88, d.P.R. n. 207
del 2010, in relazione all’art. 47, paragr. 2 della
direttiva n. 2004/18/CE, vanno interpretati nel senso che
essi ostano a un’interpretazione tale da configurare la
nullità del contratto di avvalimento nei casi in cui una
parte dell’oggetto del contratto stesso, pur non essendo
puntualmente determinata, sia, tuttavia, agevolmente
determinabile dal tenore complessivo del documento, e ciò
anche in applicazione degli artt. 1346, 1363 e 1367 c.c.
In dette ipotesi, neppure sussistono i presupposti per fare
applicazione della teorica del “requisito della
forma/contenuto” (relativa alle fattispecie in cui la
forma non rappresenta soltanto il mezzo di manifestazione
della volontà contrattuale, ma reca anche l’incorporazione
di un contenuto minimo di informazioni, che, attraverso il
contratto, devono essere fornite): ciò, perché non viene in
rilievo l’esigenza, tipica dell’enucleazione di tale figura,
di assicurare una particolare tutela al contraente debole
tramite l’individuazione di una specifica forma di cd.
nullità di protezione.
La Plenaria ha aggiunto, ancora, che nessuna variazione al
principio di diritto sopra enunciato può desumersi dalle
sopravvenute disposizioni di cui al d.lgs. 19.04.2016, n. 50
(di attuazione delle direttive nn. 2014/23/UE, 2014/24/UE e
2014/25/UE).
Pertanto, ai fini della determinazione del contenuto
necessario per il contratto di avvalimento, allorché si
tratti di “mettere a disposizione” (come, appunto,
nell’avvalimento di garanzia) requisiti generali (di
carattere economico, finanziario, tecnico-organizzativo, ad
es. il fatturato globale o la certificazione di qualità),
non sussiste l’esigenza di una indicazione puntuale e
specifica, non trattandosi di beni in senso
tecnico-giuridico (id est di “cose che possono
formare oggetto di diritti” ex art. 821 c.c.), per i
quali sussiste la necessità di sufficiente determinazione.
Per contro, nel caso di avvalimento c.d. tecnico od
operativo (che ha ad oggetto requisiti diversi rispetto a
quelli di capacità economico-finanziaria) sussiste sempre
l’esigenza di una messa a disposizione in modo specifico di
risorse determinate: onde è imposto alle parti di indicare
con precisione i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata
per eseguire l’appalto (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 28.02.2018 n. 1216
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
2.- La materia del contendere concerne il contenuto dei
contratti di avvalimento aventi ad oggetto il possesso di
requisiti di esperienza (inerenti la capacità
tecnico-professionale ed economico-finanziaria), avuto
segnatamente riguardo alla necessità della espressa e
specifica indicazione delle risorse necessarie alla
esecuzione dell’appalto oggetto di aggiudicazione.
3.- In proposito vale rammentare, in termini generali, che
la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha
elaborato e maturato, avuto riguardo alle caratteristiche ed
alle modalità dell’ausilio, una distinzione tipologica tra:
a) avvalimento c.d. di garanzia, che
ricorre nel caso in cui l’ausiliaria metta a disposizione
dell’ausiliata la propria solidità economica e finanziaria,
rassicurando la stazione appaltante sulle sue capacità di
far fronte agli impegni economici conseguenti al contratto
d’appalto, anche in caso di inadempimento
(Cons. Stato, III, 07.07.2015 n. 3390; 17.06.2014 n. 3057):
tale è l’avvalimento che abbia ad oggetto i requisiti di
carattere economico–finanziario e, in particolare, il
fatturato globale o specifico;
b) avvalimento c.d. tecnico od operativo,
che ricorre, per contro, nel caso in cui l’ausiliaria si
impegni a mettere a disposizione dell’ausiliata le proprie
risorse tecnico–organizzative indispensabili per
l’esecuzione del contratto di appalto: tale è l’avvalimento
che abbia ad oggetto i requisiti di capacità
tecnico–professionale tra i quali, ad esempio, la dotazione
di personale.
4.- La rilevanza della distinzione va
rinvenuta in ciò che,
nel primo caso (in cui l’impresa ausiliaria si limita a “mettere
a disposizione” il suo valore aggiunto in termini di
solidità finanziaria e di acclarata esperienza di settore),
non è, in via di principio, necessario che la
dichiarazione negoziale costitutiva dell’impegno
contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o ad
indici materiali atti ad esprimere una certa e determinata
consistenza patrimoniale e, dunque, alla messa a
disposizione di beni da descrivere ed individuare con
precisione, ma è sufficiente che dalla ridetta dichiarazione
emerga l’impegno contrattuale a prestare ed a mettere a
disposizione dell’ausiliata la complessiva solidità
finanziaria ed il patrimonio esperienziale, così garantendo
una determinata affidabilità e un concreto supplemento di
responsabilità
(cfr., ex permultis, Cons. Stato, sez. V, 30.10.2017,
n. 4973; Id., sez. III, 11.07.2017, n. 3422; Id., sez. V,
15.03.2016, n. 1032).
In proposito, importa precisare che Cons. Stato, ad. plen.,
04.11.2016, n. 23, ha formulato il principio di diritto
secondo cui l’art. 49 del d.lgs. n.
163/2006 e l’art. 88 del d.P.R. n. 207/2010, in relazione
all’art. 47, paragr. 2 della direttiva n. 2004/18/CE, vanno
interpretati nel senso che essi ostano a un’interpretazione
tale da configurare la nullità del contratto di avvalimento
nei casi in cui una parte dell’oggetto del contratto stesso,
pur non essendo puntualmente determinata, sia, tuttavia,
agevolmente determinabile dal tenore complessivo del
documento, e ciò anche in applicazione degli artt. 1346,
1363 e 1367 c.c.
In dette ipotesi, neppure sussistono i
presupposti per fare applicazione della teorica del “requisito
della forma/contenuto” (relativa alle fattispecie in cui
la forma non rappresenta soltanto il mezzo di manifestazione
della volontà contrattuale, ma reca anche l’incorporazione
di un contenuto minimo di informazioni, che, attraverso il
contratto, devono essere fornite): ciò, perché non viene in
rilievo l’esigenza, tipica dell’enucleazione di tale figura,
di assicurare una particolare tutela al contraente debole
tramite l’individuazione di una specifica forma di cd.
nullità di protezione.
La Plenaria ha aggiunto, ancora, che
nessuna variazione al principio di diritto sopra enunciato
può desumersi dalle sopravvenute disposizioni di cui al
d.lgs. 19.04.2016, n. 50 (di attuazione delle direttive nn.
2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE).
Pertanto, ai fini della determinazione del
contenuto necessario per il contratto di avvalimento,
allorché si tratti di “mettere a disposizione” (come,
appunto, nell’avvalimento di garanzia) requisiti generali
(di carattere economico, finanziario, tecnico-organizzativo,
ad es. il fatturato globale o la certificazione di qualità),
non sussiste l’esigenza di una indicazione puntuale e
specifica, non trattandosi di beni in senso
tecnico-giuridico (id est di “cose che possono
formare oggetto di diritti” ex art. 821 c.c.), per i
quali sussiste la necessitò di sufficiente determinazione
(cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 22.11.2017, n. 5429,
che pure –ad evitare il rischio, particolarmente
rilevante in tale sottogenere di avvalimento, che il
prestito dei requisiti rimanga soltanto su un piano astratto
e cartolare e l’impresa ausiliaria si trasformi in una
semplice cartiera produttiva di schemi contrattuali privi di
sostanza– ha ritenuto che, anche in tal caso, dalla
dichiarazione dell’ausiliaria debba emergere, con certezza
ed in modo circostanziato, l’impegno contrattuale a prestare
e mettere a disposizione dell’ausiliata la complessiva
solidità finanziaria e il patrimonio esperienziale della
prima, così garantendo una determinata affidabilità e un
concreto supplemento di responsabilità).
5.- Per contro, nel caso di avvalimento
c.d. tecnico od operativo (che ha ad oggetto requisiti
diversi rispetto a quelli di capacità economico-finanziaria)
sussiste sempre l’esigenza di una messa a disposizione in
modo specifico di risorse determinate: onde è imposto alle
parti di indicare con precisione i mezzi aziendali messi a
disposizione dell’ausiliata per eseguire l’appalto
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.12.2016, n. 5423).
6.- Ciò premesso, osserva il Collegio che nella vicenda in
esame il disciplinare di gara richiedeva, al paragrafo sui
requisiti di ammissione, in ordine alla capacità tecnico
professionale:
a) al punto 1), l’aver prestato con buon esito, negli ultimi dieci
anni dalla data di pubblicazione del bando, servizi analoghi
nel settore della distribuzione del gas naturale relativi ad
impianti aventi complessivamente un numero di PDR pari ad
almeno il 40% del totale dei PDR dell’ATEM Vicenza 3 (la
norma specificava, inoltre, cosa dovesse intendersi per
servizi analoghi, indicando alla lett. c) quelli di
vigilanza e controllo sull’esecuzione del contratto di
servizio);
b) al punto 2), una comprovata esperienza nel campo della
progettazione e direzione dei lavori di impianti di
distribuzione del gas metano ad uso civile, per avere
svolto, negli ultimi dieci anni dalla data di pubblicazione
del bando, servizi di progettazione e/o direzione lavori e/o
collaudo di impianti per una lunghezza totale almeno pari al
20% della lunghezza totale delle reti dell’ATEM Vicenza 3.
Quanto alla capacità economico-finanziaria, era richiesto
che l’impresa avesse maturato, nell’ultimo biennio, un
fatturato in servizi analoghi a quelli oggetto della gara
pari ad € 200.000,00 complessivi (anche qui la norma
specificava cosa intendere con la nozione di servizi
analoghi, indicando alla lett. c) la vigilanza ed il
controllo sull’esecuzione del contratto di servizio).
Il Consorzio appellato ha stipulato con il Co.It.Mo. S.c. a
r.l. un contratto di avvalimento avente ad oggetto il
requisito di capacità tecnico-professionale previsto dalla
citata lett. c) del punto 1) ed il requisito di capacità
economico-finanziaria di cui alla suesposta lett. c); ha,
poi, stipulato un secondo contratto di avvalimento con
l’ing. Ro. Lo Ca. concernente il requisito di capacità
tecnico-professionale previsto dal punto 2).
7.- Ritiene la Sezione –diversamente da quanto ha orientato
l’apprezzamento dei primi giudici– che i ridetti avvalimenti
fossero solo in parte di mera garanzia, ma in altra (e
decisiva) parte di carattere operativo: ciò deve dirsi, in
particolare, per la messa a disposizione dell’esperienza
professionale, nella specie, per giunta, correlata a servizi
di natura intellettuale, come tali ad esecuzione
necessariamente personale, quali la progettazione o la
direzione dei lavori, la vigilanza e controllo
sull’esecuzione del contratto di servizio (cfr., oggi, la
rigorosa previsione dell’art. 89, 1° comma d.lgs. n.
50/2016, non applicabile ratione temporis, ma
espressiva di un principio interpretativo generale già
immanente nel sistema, alla luce della illustrata
distinzione tipologica).
In relazione a questi ultimi era allora necessario, giusta
le esposte premesse, che nel contratto fossero puntualmente
indicati (e messi quindi, come tali, effettivamente e
concretamente a disposizione dell’impresa ausiliata) i
mezzi, gli strumenti e le competenze adeguati. E ciò anche
al fine di consentire alla stazione appaltante la puntuale
ed obiettiva verifica della effettività ed utilità
dell’impegno promesso.
In realtà, nei contratti di avvalimento per cui è causa
risulta omessa l’indicazione del professionista che aveva
maturato l’esperienza nei settori in questione (vigilanza e
controllo sull’esecuzione del contratto di servizio;
progettazione e direzione dei lavori) e che avrebbe fatto
parte del gruppo di professionisti incaricati di svolgere le
attività concretamente oggetto di appalto.
Sotto il profilo (unico ed assorbente, stante la mancata
riproposizione del ricorso incidentale escludente articolato
in prime cure dall’appellata) in questione, per tal via,
l’appello deve ritenersi fondato.
8.- Ne discende –con la riforma della impugnata statuizione–
l’annullamento della disposta aggiudicazione. |
EDILIZIA PRIVATA: Effetti
del venir meno dell’ordinanza cautelare sull’ordine di
demolizione.
La sentenza che rigetta il ricorso
contro un’ordinanza di demolizione non fa venir meno gli
effetti interinali prodotti dall’ordinanza cautelare di
accoglimento dell’istanza di sospensiva e il termine di
novanta giorni previsto dall’art. 31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 –considerata l’impossibilità di
frazionamento di tale termine in quanto funzionale
all’espletamento di una attività complessa– ricomincia a
decorrere per intero
(massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.it)
---------------
8. In proposito il Collegio osserva quanto segue.
9. Come rilevato dai ricorrenti, l’ordinanza di demolizione
n. 2713 del 28.03.2013 è stata da essi impugnata dinanzi
a questo TAR che, con sentenza n. 2261/2014, ha respinto
il ricorso. La sentenza è stata appellata dinanzi al
Consiglio di Stato il quale, con ordinanza n. 5783 del 17.122014, ne ha sospeso l’esecutività in ragione dei
danni che i provvedimenti impugnati avrebbero potuto
arrecare ai ricorrenti.
10. Sebbene la pronuncia cautelare del giudice d’appello
abbia come oggetto immediato la sentenza di primo grado, non
può negarsi che essa abbia esteso i propri effetti anche nei
confronti dell’ordinanza di demolizione, dovendosi
altrimenti negare qualsiasi utilità della stessa. Ne
consegue che, per effetto della pronuncia cautelare,
l’ordine di demolizione è stato sospeso e che, quindi, i
ricorrenti, dal giorno di pubblicazione dell’ordinanza del
Consiglio di Stato, potevano legittimamente astenersi dal
dare esecuzione al suddetto ordine in attesa della pronuncia
di merito.
11. Il giudizio d’appello è stato definito con sentenza n.
1774 del 05.05.2016 che, respingendolo, ha confermato la
validità ed efficacia dell’ordine di demolizione impartito
dal Comune in data 28.03.2013. La sentenza ha travolto,
con effetto ex tunc, gli effetti dell’ordinanza cautelare in
precedenza emessa la quale è stata quindi completamente
sostituita dalla prima divenuta unica fonte di regolazione
del rapporto sostanziale.
12. Si deve tuttavia ritenere che la sentenza non abbia
fatto venir meno gli effetti interinali prodotti
dall’ordinanza cautelare. Non si può difatti trascurare il
dato decisivo che –come anticipato– dal giorno di
emissione di quest’ultima i ricorrenti potevano
legittimamente astenersi dal dare esecuzione all’ordine di
demolizione, e ciò sino all’emissione della pronuncia di
merito.
13. Si deve quindi escludere che il suddetto periodo
temporale possa rilevare ai fini dell’apprezzamento del
rispetto dei termini per provvedere alla demolizione
ordinata dal Comune di Lentate sul Seveso.
14. Ragionare a contrario porterebbe peraltro all’assurda
conseguenza di azzerare quasi completamente l’utilità delle
ordinanze cautelari emesse dal giudice amministrativo aventi
ad oggetto le ordinanze di demolizione di opere ritenute
abusive: i beneficiari della pronuncia giudiziale sarebbero
comunque indotti a demolire al fine di scongiurare il
rischio di perdere la proprietà dell’area di sedime in caso
di esito sfavorevole del giudizio.
15. Ciò detto, deve rilevarsi che la sentenza con cui il
Consiglio di Stato ha respinto il giudizio d’appello è stata
pubblicata in data 05.05.2016, giorno da cui, per i
motivi anzidetti, ha cominciato nuovamente a decorrere il
termine di novanta giorni previsto dall’art. 31, terzo
comma, del d.P.R. n. 380 del 2001.
16. Si precisa peraltro che –considerata l’impossibilità di
frazionamento di tale termine in quanto funzionale
all’espletamento di una attività complessa– lo stesso ha
ricominciato a decorrere per intero (cfr. sul punto TAR
Sicilia Palermo, sez. II, 02.09.2016, n. 2094). In
questo quadro si deve ritenere che, nel caso concrete, le
demolizioni, avvenute prima dell’08.06.2016 (cfr. doc. 10
di parte ricorrente), non possono considerarsi tardive.
17. Ne consegue che, come anticipato, la censura in esame
merita condivisione.
18. In conclusione, per le ragioni illustrate, il ricorso
deve essere accolto e per l’effetto debbono essere annullati
l’atto prot. n. 12929 del 13.06.2016 (nella parte in cui
precisa che rimangono slavi gli effetti acquisitivi
dell’area di sedime) nonché l’ordinanza n. 65 del 29.07.2016 (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.02.2018 n. 573
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Calcolo
della sanzione pecuniaria ex art. 34 del D.P.R. n. 380/2001.
Con riguardo al calcolo della sanzione
pecuniaria ex art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, è corretta
le decisione del comune di ancorarla al momento attuale,
applicando le tariffe vigenti, e non a quello della
realizzazione dell’abuso, in quanto si è al cospetto di un
abuso di carattere permanente che non può consentire
all’autore dell’illecito edilizio di ottenere un lucro
legato al decorso del tempo.
La stima va effettuata in ogni
caso al momento in cui il Comune irroga la sanzione
pecuniaria, e non con riferimento alla data di accertamento
dell’infrazione o di ultimazione dell’opera abusiva; ciò
onde evitare che il responsabile dell’abuso possa ritrarre
un indebito arricchimento per effetto dell’incremento del
prezzo della costruzione successivo all’ultimazione
dell’abuso e che la sanzione pecuniaria si concreti in un
vantaggio economico rispetto all’alternativa costituita
dalla sanzione demolitoria.
---------------
2. Passando all’esame del ricorso per motivi aggiunti, lo stesso
non è fondato.
...
3.4. Infine, con riguardo al calcolo della sanzione
pecuniaria ex art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, appare
corretta le decisione del Comune di ancorarla al momento
attuale, applicando le tariffe vigenti, e non a quello della
realizzazione dell’abuso, in quanto si è al cospetto di un
abuso di carattere permanente che non può consentire
all’autore dell’illecito edilizio di ottenere un lucro
legato al decorso del tempo.
Secondo la giurisprudenza,
infatti, “la stima va effettuata in ogni caso al momento in
cui il Comune irroga la sanzione pecuniaria, e non con
riferimento alla data di accertamento dell’infrazione o di
ultimazione dell’opera abusiva. Ciò onde evitare che il
responsabile dell’abuso possa ritrarre un indebito
arricchimento per effetto dell’incremento del prezzo della
costruzione successivo all’ultimazione dell’abuso e che la
sanzione pecuniaria si concreti in un vantaggio economico
rispetto all’alternativa costituita dalla sanzione demolitoria” (TAR Puglia, Bari, III, 15.06.2015, n.
877; altresì, Consiglio di Stato, IV, 24.11.2016, n.
4943; TAR Veneto, II, 07.12.2017, n. 1114) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.02.2018 n. 568
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EDILIZIA PRIVATA:
Di regola, al fine di sanare un manufatto abusivo
è richiesta la sussistenza del requisito della c.d. doppia
conformità, ossia la garanzia del rispetto della disciplina
urbanistica ed edilizia sia al momento delle realizzazione
dell’intervento che al momento della sanatoria, in assenza
del quale l’opera conserva il suo carattere abusivo con
tutte le conseguenze che ne discendono.
---------------
2. Passando all’esame del ricorso per motivi aggiunti, lo stesso
non è fondato.
3. Con le censure contenute nel citato ricorso per motivi
aggiunti, da esaminare congiuntamente, si assume
l’illegittimità della sanzione pecuniaria in quanto non si
sostituirebbe, ma si aggiungerebbe a quella demolitoria, e
comunque riguarderebbe un abuso non più attuale, visto che
il nuovo strumento urbanistico comunale ha ridotto la fascia
di rispetto cimiteriale; in ogni caso, la repressione
dell’abuso sarebbe avvenuta a distanza di lungo tempo dalla
sua commissione, ascrivibile peraltro ad un altro soggetto
(il costruttore), in violazione dei principi di affidamento
e buona fede dei destinatari dell’atto, come pure il calcolo
della sanzione sostitutiva sarebbe stato effettuato
prendendo in considerazione, illegittimamente, le tariffe
attualmente in vigore, piuttosto che quelle vigenti
all’epoca del commesso abuso.
3.1. Le censure sono infondate.
In primo luogo, va ribadito che la sanzione pecuniaria
irrogata ai ricorrenti sostituisce quella demolitoria, come
emerge con evidenza dallo stesso testo dell’ordinanza n.
259/2014 che richiama l’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380
del 2001, che consente la conversione della misura
ripristinatoria in quella pecuniaria laddove vi sia un
pregiudizio per la parte eseguita in conformità in caso di
esecuzione della demolizione; ciò è stato altresì confermato
nella nota comunale, depositata in giudizio in data 03.04.2015 in esecuzione dell’ordinanza istruttoria n. 2988/2014.
3.2. Quanto all’intervenuta riduzione, attraverso
l’approvazione del nuovo strumento urbanistico comunale,
della fascia di rispetto cimiteriale e quindi alla
sopraggiunta attuale conformità del fabbricato, va
evidenziato che, di regola, al fine di sanare un manufatto
abusivo è richiesta la sussistenza del requisito della c.d.
doppia conformità, ossia la garanzia del rispetto della
disciplina urbanistica ed edilizia sia al momento delle
realizzazione dell’intervento che al momento della
sanatoria, in assenza del quale l’opera conserva il suo
carattere abusivo con tutte le conseguenze che ne discendono
(cfr. Consiglio di Stato, VI, 18.07.2016, n. 3194;
TAR Lombardia, Milano, II, 28.07.2017, n. 1706).
Trattandosi di fabbricato realizzato in violazione del
limite, allora vigente, della fascia di rispetto
cimiteriale, lo stesso non può essere oggetto di sanatoria (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.02.2018 n. 568
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EDILIZIA PRIVATA:
Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di
demolizione, da adottare a seguito della sola verifica
dell’abusività dell’intervento, non richiede una particolare
motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale
determinazione e nemmeno rispetto ad un ipotetico interesse
del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia o
alla necessità di tutelare il suo legittimo affidamento.
Inoltre, l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei
confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera,
indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso
responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato,
rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della
responsabilità penale, ma non certo ai fini della
legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di
demolizione di una costruzione abusiva, infatti, può
legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario
attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato
che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che
l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non
prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto
cui si imputa la trasgressione.
---------------
3.3. Nemmeno possono essere accolti i rilievi formulati in
relazione al lungo lasso di tempo trascorso tra l’abuso
commesso e l’adozione dell’ordinanza di demolizione, poi
convertita in sanzione pecuniaria, in violazione dei
principi di affidamento e buona fede dei destinatari, che
peraltro non hanno commesso direttamente l’abuso.
L’ordinanza di demolizione è stata motivata con l’avvenuta
realizzazione di opere difformi rispetto a quanto
autorizzato con i titoli edilizi e per la violazione della
disciplina edilizia e urbanistica, determinandosi in tal
modo la modifica dei parametri costruttivi, oltre che della
localizzazione dell’edificio rispetto all’area di
pertinenza.
Tale motivazione appare satisfattiva degli obblighi di
legge, atteso che il carattere del tutto vincolato
dell’ordine di demolizione, da adottare a seguito della sola
verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una
particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a
tale determinazione e nemmeno rispetto ad un ipotetico
interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera
edilizia o alla necessità di tutelare il suo legittimo
affidamento (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017,
n. 9; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2018, n.
267).
Inoltre, l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei
confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera,
indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso
responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato,
rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della
responsabilità penale, ma non certo ai fini della
legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di
demolizione di una costruzione abusiva, infatti, può
legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario
attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato
che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che
l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non
prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto
cui si imputa la trasgressione (TAR Lombardia, Milano, II,
03.11.2016, n. 2013; TAR Sicilia, Catania, I, 20.09.2016, n. 2261; TAR Lazio, Roma, I-quater,
24.02.2016, n. 2588) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.02.2018 n. 568
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URBANISTICA: Effetti
dell'approvazione del PTCP dopo la proposizione del ricorso
avverso il PGT.
L’approvazione, successivamente alla proposizione del
ricorso con il quale è stato impugnato un PGT, di
provvedimenti che, anche a prescindere dalle previsioni di
PGT, impediscono lo sfruttamento edilizio dell’area per cui
è causa determina la sopravvenuta carenza di interesse alla
decisione sul ricorso avverso il PGT (nella fattispecie,
successivamente alla proposizione del ricorso avverso la
destinazione agricola impressa dal PGT all’area di proprietà
del ricorrente, era intervenuto il PTCP, che aveva incluso
detta area negli ambiti destinati all’attività agricola di
interesse strategico di cui all’art. 15, comma 4, della
l.r. n. 12 del 2005)
(massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.it)
---------------
Con il ricorso in esame viene principalmente impugnata la delibera
di Consiglio comunale n. 5 del 16.03.2012 con la quale è
stato approvato il piano di governo del territorio del
Comune di Cerro Maggiore.
In particolare il ricorrente
lamenta che con detto piano è stata attribuita ad un’area di
sua proprietà –catastalmente identificata al foglio 16,
mappali 84, 85 e 447– una disciplina pregiudizievole:
l’area è stata ricompresa in zona agricola E2 all’interno
del PLIS “il Mughetto”, con preclusione di ogni possibilità
di sfruttamento edilizio (il ricorrente afferma di essere
interessato allo sviluppo residenziale/industriale del
sito).
...
Prima di passare all’esame del merito, occorre affrontare
l’eccezione sollevata dall’Amministrazione nella memoria
depositata in data 03.11.2017, nella quale si rileva
che, successivamente alla proposizione del ricorso, è
intervenuta l’approvazione, da parte della Provincia di
Varese e della Provincia di Milano, degli atti con i quali è
stato definitivamente istituito il PLIS “il Mughetto”.
Inoltre, rileva ancora l’Amministrazione che –a seguito
dell’approvazione del PTCP della Provincia di Milano,
avvenuta successivamente alla proposizione del ricorso–
l’area di proprietà del ricorrente medesimo è stata
classificata come area agricola di interesse strategico.
Secondo l’Amministrazione, la mancata impugnazione di questi
atti farebbe venir meno l’interesse del ricorrente ad
ottenere la decisione del ricorso, posto che anche a seguito
dell’annullamento del PGT impugnato, l’area di sua proprietà
non potrebbe comunque essere sfrutta a fini edificatori.
Ritiene il Collegio che l’eccezione sia fondata per le
ragioni di seguito esposte.
Come anticipato, con il ricorso in esame, il ricorrente
impugna il PGT del Comune di Cerro Maggiore lamentando che
lo strumento urbanistico ha dettato per la sua area una
disciplina ritenuta pregiudizievole in quanto preclusiva
dell’attuazione di interventi edilizi di natura residenziale
ed industriale.
Ciò posto, si deve ora rilevare che –come evidenziato
dall’Amministrazione resistente nelle proprie difese–
successivamente alla proposizione del ricorso sono stati
approvati provvedimenti che, comunque, anche a prescindere
dalle previsioni di PGT., impediscono lo sfruttamento
edilizio della suddetta area.
Non è invero contestato che il PTCP della Provincia di
Milano, approvato con deliberazione di Consiglio provinciale
n. 93 del 17.12.2013, ha incluso l’area di proprietà
del ricorrente negli ambiti destinati all’attività agricola
di interesse strategico di cui all’art. 15, comma 4, della
legge regionale n. 12 del 2005.
Tale statuizione ha efficacia prescrittiva e prevalente
sugli atti del PGT ai sensi dell’art. 18, comma 2, lett. c),
della legge regionale n. 12 del 2005. Ciò significa che la
disciplina riguardante l’area di cui è causa è dettata
direttamente dal PTCP e che, quindi, l’annullamento del PGT
comunale non arrecherebbe alcuna utilità al ricorrente:
anche in caso di accoglimento del ricorso la sua area
continuerebbe infatti a mantenere la vocazione agricola
prescritta dalla strumento provinciale non impugnato e
rimarrebbe dunque comunque preclusa ogni possibilità di
sfruttamento edificatorio della stessa.
Né si può ritenere che l’annullamento del PGT abbia effetto
caducante sul PTCP posto che trattasi di atti approvati da
enti diversi, non facenti parte del medesimo iter
procedimentale e non legati fra loro da un nesso di stretta
consequenzialità.
In questo quadro si deve ritenere che, come sostiene
correttamente l’Amministrazione, il ricorrente non possa
avere alcun interesse ad ottenere una pronuncia di merito.
Va per queste ragioni dichiarata l’improcedibilità del
ricorso per sopravvenuta carenza di interesse (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.02.2018 n. 562
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Raggruppamento
di tipo verticale.
Le imprese concorrenti possono
partecipare ad una gara pubblica utilizzando un
raggruppamento di tipo verticale soltanto se, a prescindere
dall’ambiguità della lex specialis di gara sul
punto, sia ravvisabile nella configurazione concreta del
servizio da svolgere una chiara suddivisione delle
prestazioni da eseguire in principali e accessorie, pena un
inammissibile indebolimento, stante la ripartizione rigida
di responsabilità tra le imprese partecipanti al
raggruppamento verticale in ordine alle rispettive
prestazioni offerte, delle garanzie ordinamentali poste a
tutela dell’amministrazione ai fini della corretta
esecuzione dell’appalto.
---------------
Nel merito, il primo motivo del ricorso principale è fondato.
Invero, dall’esame della lex specialis di gara non risulta
in alcun modo evincibile una suddivisione tra prestazioni
principali e prestazioni secondarie, risultando unitario
l’impegno contrattuale da assumere ad esito
dell’affidamento.
Ne consegue che, secondo quanto prescritto dall’art. 48,
comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, ultima parte (“le stazioni
appaltanti indicano nel bando di gara la prestazione
principale e quelle secondarie”), non essendovi stata tale
indicazione, non vi erano i presupposti legali per la
partecipazione alla gara tramite un raggruppamento di tipo
“verticale”, al di là della mancata preclusione esplicita o
implicita da parte della lex specialis di gara –anche con
riferimento alle possibilità documentali offerte– della
facoltà per le concorrenti di formulare concretamente la
domanda indicando una qualsiasi composizione del
raggruppamento scelto.
Invero, il Collegio aderisce all’orientamento
giurisprudenziale –recentemente ribadito anche dalla
Sezione con l’ordinanza n. 56 del 2018- secondo cui le
imprese concorrenti possono partecipare ad una gara pubblica
utilizzando un raggruppamento di tipo verticale soltanto se,
a prescindere dall’ambiguità della lex specialis di gara sul
punto, sia ravvisabile nella configurazione concreta del
servizio da svolgere una chiara suddivisione delle
prestazioni da eseguire in principali e accessorie, pena un
inammissibile indebolimento, stante la ripartizione rigida
di responsabilità tra le imprese partecipanti al
raggruppamento verticale in ordine alle rispettive
prestazioni offerte, delle garanzie ordinamentali poste a
tutela dell’amministrazione ai fini della corretta
esecuzione dell’appalto.
Nel caso di specie, come detto, il capitolato speciale
d’appalto reca solamente l’elencazione di tutte le attività
costituenti il servizio, per cui la ripartizione di tali
attività tra mandante e mandataria risulta del tutto
arbitraria.
Occorre infine specificare che non sussiste, come pare
suggerire la difesa dell’amministrazione resistente, una
questione di eventuale nullità della clausola che avrebbe
disposto l’esclusione della concorrente che ha partecipato
nell’ambito di un raggruppamento verticale di imprese, per
violazione del principio di tassatività di tale tipo di
clausole, in quanto, da un lato, tale clausola non è
rinvenibile nella lex specialis di gara, dall’altro,
l’essenzialità della corrispondenza tra suddivisione delle
prestazioni da parte della stazione e possibilità di
partecipazione di un raggruppamento di tipo verticale è
direttamente prevista dal codice dei contratti pubblici, con
disposizione che integra ex lege le regole di gara (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 27.02.2018 n. 551 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Principio
di segretezza delle offerte.
La scelta di aggiudicare una gara
(nella fattispecie gara per il servizio di noleggio pullman
con conducente) con il criterio ordinario dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, ai sensi dell’art. 95 del
d.lgs. n. 50/2016, comporta l’assoggettamento della
procedura concorsuale al principio di segretezza delle
offerte.
Il principio che impone la
segretezza delle offerte (a tutela dell'imparzialità delle
operazioni di gara e della par condicio dei concorrenti)
implica che —nei casi in cui la procedura di gara sia
caratterizzata da una netta separazione tra la fase della
valutazione dell'offerta tecnica e quella dell'offerta
economica— le offerte economiche devono restare segrete
fino alla conclusione della fase relativa alla valutazione
di quelle tecniche, a presidio della genuinità, della
trasparenza e della correttezza delle operazioni valutative,
che resterebbero irrimediabilmente compromesse e inquinate
da un'anticipata conoscenza del contenuto delle offerte
economiche (nella fattispecie in questione il TAR Milano ha
ritenuto violato il suddetto principio di segretezza delle
offerte, in quanto la presentazione dell’offerta della controinteressata è avvenuta in un unico plico, senza alcuna
separazione tra offerta tecnica ed economica; plico in cui
era, peraltro, contenuta una lettera accompagnatoria che
esplicitava lo sconto offerto) (massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
Il ricorso è fondato.
Come risulta dalla documentazione versata in atti, la
stazione appaltante, per l’affidamento del servizio di
specie, si è determinata ad indire una gara a cinque inviti,
adottando come criterio di aggiudicazione quello ordinario
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ai sensi
dell’art. 95 del d.lgs. n. 50/2016.
La scelta di tale criterio di aggiudicazione comporta,
dunque, l’assoggettamento della procedura concorsuale al
principio di segretezza delle offerte.
Ed invero, come si evince dal costante orientamento della
giurisprudenza amministrativa: “il principio che impone la
segretezza delle offerte (a tutela dell'imparzialità delle
operazioni di gara e della par condicio dei concorrenti)
implica che — nei casi in cui la procedura di gara sia
caratterizzata da una netta separazione tra la fase della
valutazione dell'offerta tecnica e quella dell'offerta
economica — le offerte economiche devono restare segrete
fino alla conclusione della fase relativa alla valutazione
di quelle tecniche, a presidio della genuinità, della
trasparenza e della correttezza delle operazioni valutative,
che resterebbero irrimediabilmente compromesse e inquinate
da un'anticipata conoscenza del contenuto delle offerte
economiche” (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. III,
03.04.2017, n. 1530).
Nella fattispecie in questione, la presentazione
dell’offerta della controinteressata è avvenuta in un unico
plico, senza alcuna separazione tra offerta tecnica ed
economica, plico in cui era, peraltro, contenuta una lettera
accompagnatoria che esplicitava uno sconto di € 2.300,00.
E’ stato, dunque, di certo reso conoscibile un elemento
dell’offerta economica prima dell’attribuzione del punteggio
tecnico, in violazione del succitato principio di segretezza
delle offerte.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
accolto e, per l’effetto, va disposto l’annullamento dei
provvedimenti impugnati, mentre non risulta che il contratto
sia stato ancora stipulato, rendendo così inammissibile per
difetto d’interesse la domanda proposta per la sua
dichiarazione d’inefficacia.
La richiesta risarcitoria va parimenti respinta, trovando la
ricorrente nella pronuncia d’annullamento degli atti di gara
– con la conseguente sua possibile rinnovazione – pieno
soddisfacimento del proprio interesse (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 26.02.2018 n. 531
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Ricorsi dopo 30 giorni dall'aggiudicazione. Tar
Piemonte.
Soltanto
la pubblicazione del provvedimento di aggiudicazione definitiva fa decorrere
i trenta giorni per l'impugnativa.
Lo ha stabilito il TAR Piemonte,
Sez. II, con la
sentenza 26.02.2018 n. 262 rispetto ad un bando per l'affidamento
di un contratto pubblico tramite procedura negoziata (dei 20 invitati le
offerte pervenite alla stazione appaltante sono state tre).
La questione è
stata affrontata con riguardo all'ammissibilità del ricorso: la stazione
appaltante sosteneva che il ricorso fosse tardivo nel presupposto che
fossero stati superati i 30 giorni previsto dall'articolo 120, comma 2-bis,
del codice del processo amministrativo.
La norma prevede che «il
provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e
le ammissioni a essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi,
economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di
trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del
committente della stazione appaltante, ai sensi dell'articolo 29, comma 1,
del codice dei contratti pubblici».
Ad avviso della stazione appaltante il
ricorso era tardivo perché ben avrebbe potuto l'impresa impugnare nei
termini utili essendo intervenuta nella seduta di gara in cui era stata resa
nota la lista dei concorrenti ammessi.
I giudici piemontesi smontano questa
tesi affermando che «secondo l'interpretazione preferibile, conforme ai
principi della Costituzione e del diritto comunitario, il termine per
l'impugnazione dell'ammissione di altri concorrenti non può decorrere dalla
data della seduta pubblica di gara, anche qualora risulti che il legale
rappresentante della società ricorrente sia stato ivi presente, poiché
l'art. 120, comma 2-bis, del codice di procedura amministrativa prevede
espressamente che il termine per l'impugnativa anticipata delle esclusioni e
delle ammissioni decorra dalla pubblicazione sul profilo della stazione
appaltante, effettuata ai sensi dell'art. 29 del dlgs n. 50 del 2016».
Pertanto, in difetto della pubblicità degli atti di cui si impone
l'immediata impugnazione, la relativa decadenza processuale non può operare
anche perché la natura derogatoria del rito «super accelerato non ammette
interpretazioni estensive» (articolo
ItaliaOggi del 09.03.2018).
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MASSIMA
L’eccezione non può essere accolta.
L’Amministrazione non ha mai deliberato l’aggiudicazione definitiva
dell’appalto. L’annullamento in autotutela della procedura di gara, infatti,
è intervenuto subito dopo la mera proposta di aggiudicazione.
Il citato art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm. prevede che “Il
provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e
le ammissioni ad essa all’esito della valutazione dei requisiti soggettivi,
economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di
trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del
committente della stazione appaltante, ai sensi dell’articolo 29, comma 1,
del codice dei contratti pubblici”.
Secondo l’interpretazione preferibile, conforme ai principi della
Costituzione e del diritto comunitario, il termine per l’impugnazione
dell’ammissione di altri concorrenti non può decorrere dalla data della
seduta pubblica di gara, anche qualora risulti che il legale rappresentante
della società ricorrente sia stato ivi presente, poiché l’art. 120, comma
2-bis, cod. proc. amm. prevede espressamente che il dies a quo per
l’impugnativa anticipata delle esclusioni e delle ammissioni decorra dalla
pubblicazione sul profilo della stazione appaltante, effettuata ai sensi
dell’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Il nuovo comma 2-bis dell’art. 120 è norma processuale di stretta
interpretazione, derogatoria dei principi tradizionalmente affermati nel
contenzioso sui pubblici appalti. Pertanto, in difetto del contestuale
funzionamento del meccanismo di pubblicità degli atti di cui si impone
l’immediata impugnazione, le relativa decadenza processuale non può operare,
a causa della carenza del presupposto adempimento pubblicitario che
garantisca la tempestiva informazione degli interessati circa l’identità
delle imprese ammesse e la decorrenza del termine accelerato per
l’impugnativa (così, tra molte: Cons. Stato, sez. III, 25.11.2016 n. 4994;
TAR Puglia, Bari, sez. I, 07.12.2016 n. 1367; TAR Lazio, sez. III-quater, 22.08.2017 n. 9379; TAR Campania, Napoli, sez. V,
06.10.2017 n. 4689).
In presenza di dubbi esegetici sull’applicabilità del più rigoroso regime
decadenziale, gli stessi devono essere risolti preferendo l’opzione meno
sfavorevole per l’esercizio del diritto di difesa e, quindi, maggiormente
conforme ai principi costituzionali espressi dagli artt. 24, 111 e 113
Cost., nonché al principio di effettività della tutela giurisdizionale nel
settore degli appalti pubblici secondo le direttive europee (si veda, in
proposito, TAR Piemonte, sez. I, 17.01.2018 n. 88, ove sono denunciati
i profili di possibile incompatibilità del nuovo rito speciale con la
direttiva 1989/665/CE e con l’art. 47 della Carta dei diritti UE).
Pertanto, una volta esclusa l’applicazione del nuovo rito accelerato di cui
all’art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm., non vi è che da richiamare
l’orientamento giurisprudenziale consolidato che ha sempre negato valore
provvedimentale autonomo all’atto di ammissione alla gara, consentendone
l’impugnazione solo unitamente al provvedimento finale di aggiudicazione
definitiva dell’appalto.
E ciò vale anche in presenza di quelle norme sostanziali e processuali di
recente introduzione (l’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016, l’art. 120 cod.
proc. amm.), che pretendono di qualificare alla stregua di “provvedimento”
l’ammissione alla gara dei concorrenti, a conclusione della fase di verifica
della documentazione amministrativa e dei requisiti di partecipazione.
Il
legislatore, nella sua discrezionalità, può sì perseguire la maggiore
celerità del procedimento di gara e prevedere più ristretti termini di
impugnazione, sempre che siano rispettati i principi del giusto processo e
dell’effettività della tutela. Ma il legislatore non può arbitrariamente
alterare la natura delle cose. L’ammissione alla gara, come l’ammissione a
qualsivoglia procedura concorsuale di evidenza pubblica, conserva il
carattere di atto endoprocedimentale, che non attribuisce alcuna immediata
utilità ai concorrenti ammessi e non arreca alcun pregiudizio immediato agli
altri concorrenti.
L’onere di immediata impugnazione delle ammissioni altrui previsto dall’art.
120 cod. proc. amm., anche qualora il nuovo rito speciale superi il vaglio
di legittimità comunitaria e costituzionale, non vale a conferire natura
provvedimentale all’atto di ammissione.
Ne consegue che, in assenza dell’adempimento pubblicitario
prescritto dall’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016, nessun onere di
impugnazione sorge in capo ai concorrenti fino al momento
dell’aggiudicazione definitiva dell’appalto, allorquando l’interesse ad
estromettere (in via principale o incidentale) altri concorrenti può invece
assumere consistenza reale, in vista del conseguimento dell’utilità
correlata all’aggiudicazione del contratto. |
APPALTI:
In tema di
valutazione dell’anomalia dell’offerta e del relativo
procedimento di verifica, sono da considerare acquisiti i
seguenti principi:
- il procedimento di verifica dell’anomalia non ha carattere
sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche
e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando
piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo
complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla
corretta esecuzione dell’appalto: esso mira, in generale, a
garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente
perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di
gara per la effettiva scelta del miglior contraente
possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che
l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della
sua offerta è l’effetto della valutazione (operata
dall’amministrazione appaltante) di complessiva
inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere;
- il corretto svolgimento del procedimento di verifica
presuppone l’effettività del contraddittorio (tra
amministrazione appaltante ed offerente), di cui
costituiscono necessari corollari: l’assenza di preclusioni
alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento
della scadenza del termine di presentazione delle offerte;
la immodificabilità dell’offerta ed al contempo la sicura
modificabilità delle giustificazioni, nonché l’ammissibilità
di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra
sottostime e sovrastime, purché l’offerta risulti nel suo
complesso affidabile al momento dell’aggiudicazione e a tale
momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto;
- il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta
costituisce espressione di discrezionalità tecnica,
sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di
erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità
complessiva dell’offerta;
- la valutazione di congruità deve essere,
perciò, globale e sintetica, senza concentrarsi
esclusivamente ed in modo parcellizzato sulle singole voci
di prezzo, dal momento che l’obiettivo dell’indagine è
l’accertamento dell’affidabilità dell’offerta nel suo
complesso e non già delle singole voci che lo compongono: il
che, beninteso, non impedisce all’amministrazione appaltante
e, per essa, alla commissione di gara di limitarsi a
chiedere le giustificazioni per le sole voci sospette di
anomalia e non per le altre, giacché il concorrente, per
illustrare la propria offerta e dimostrarne la congruità,
può fornire spiegazioni e giustificazioni su qualsiasi
elemento dell’offerta e quindi anche su voci non
direttamente indicate dall’amministrazione come incongrue,
così che se un concorrente non è in grado di dimostrare
l’equilibrio complessivo della propria offerta attraverso il
richiamo di voci ed elementi diversi da quelli individuati
nella richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò
non può essere ascritto a responsabilità della stazione
appaltante per erronea o inadeguata formulazione della
richiesta di giustificazioni.
---------------
Fermi tali principi, che integrano il precipitato
logico-assertivo del consolidamento giurisprudenziale in
ordine alla decifrabilità dell’alveo di corretto svolgimento
del (sub-) procedimento di verifica dell’anomalia, va
–ulteriormente- rammentata la presenza di un omogeneamente
costante insegnamento, secondo il quale il giudizio reso in
esito, ha carattere ampiamente discrezionale e costituisce
espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica,
sindacabile solo in caso di manifesta e macroscopica
erroneità e irragionevolezza.
Il giudice amministrativo può sì sindacare le valutazioni
sotto i profili suindicati, ma non può in alcun caso
procedere ad un’autonoma verifica della congruità
dell’offerta e delle sue singole voci, il che costituirebbe
un’indebita invasione della sfera propria
dell’amministrazione.
Tale giudizio e valutazione sull’offerta vale anche per le
eventuali giustificazioni di prezzo proposte dalla
concorrente, volte a fornire chiarimenti sulle offerte
ritenute anomale.
---------------
4.2 In tema di
valutazione dell’anomalia dell’offerta e del relativo
procedimento di verifica, sono da considerare acquisiti i
seguenti principi (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. V,
23.01.2018 n. 430 e 30.10.2017, n. 4978):
- il procedimento di verifica dell’anomalia non ha carattere
sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche
e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando
piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo
complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla
corretta esecuzione dell’appalto: esso mira, in generale, a
garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente
perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di
gara per la effettiva scelta del miglior contraente
possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che
l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della
sua offerta è l’effetto della valutazione (operata
dall’amministrazione appaltante) di complessiva
inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere;
- il corretto svolgimento del procedimento di verifica
presuppone l’effettività del contraddittorio (tra
amministrazione appaltante ed offerente), di cui
costituiscono necessari corollari: l’assenza di preclusioni
alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento
della scadenza del termine di presentazione delle offerte;
la immodificabilità dell’offerta ed al contempo la sicura
modificabilità delle giustificazioni, nonché l’ammissibilità
di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra
sottostime e sovrastime, purché l’offerta risulti nel suo
complesso affidabile al momento dell’aggiudicazione e a tale
momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto;
- il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta
costituisce espressione di discrezionalità tecnica,
sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di
erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità
complessiva dell’offerta;
- la valutazione di congruità deve essere, perciò, globale e
sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo
parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento che
l’obiettivo dell’indagine è l’accertamento dell’affidabilità
dell’offerta nel suo complesso e non già delle singole voci
che lo compongono: il che, beninteso, non impedisce
all’amministrazione appaltante e, per essa, alla commissione
di gara di limitarsi a chiedere le giustificazioni per le
sole voci sospette di anomalia e non per le altre, giacché
il concorrente, per illustrare la propria offerta e
dimostrarne la congruità, può fornire spiegazioni e
giustificazioni su qualsiasi elemento dell’offerta e quindi
anche su voci non direttamente indicate dall’amministrazione
come incongrue, così che se un concorrente non è in grado di
dimostrare l’equilibrio complessivo della propria offerta
attraverso il richiamo di voci ed elementi diversi da quelli
individuati nella richiesta di giustificazioni, in via di
principio ciò non può essere ascritto a responsabilità della
stazione appaltante per erronea o inadeguata formulazione
della richiesta di giustificazioni (cfr. Cons. Stato, sez.
V, 05.09.2014 n. 4516).
Fermi tali principi, che integrano il precipitato
logico-assertivo del consolidamento giurisprudenziale in
ordine alla decifrabilità dell’alveo di corretto svolgimento
del (sub-) procedimento di verifica dell’anomalia, va –ulteriormente- rammentata la presenza di un omogeneamente
costante insegnamento (ex plurimis, Cons. Stato, sez. V,
07.02.2018 n. 811), secondo il quale il giudizio reso in
esito, ha carattere ampiamente discrezionale e costituisce
espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica,
sindacabile solo in caso di manifesta e macroscopica
erroneità e irragionevolezza.
Il giudice amministrativo può sì sindacare le valutazioni
sotto i profili suindicati, ma non può in alcun caso
procedere ad un’autonoma verifica della congruità
dell’offerta e delle sue singole voci, il che costituirebbe
un’indebita invasione della sfera propria
dell’amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. III, 06.02.2017, n. 514).
Tale giudizio e valutazione sull’offerta vale anche per le
eventuali giustificazioni di prezzo proposte dalla
concorrente, volte a fornire chiarimenti sulle offerte
ritenute anomale
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.02.2018 n. 234 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Attività di demolizione edifici (o
strade) - Definizione di processo di produzione - Qualifica
di rifiuti e non di sottoprodotti - Presupposti normativi -
Art. 184-bis e 256 d.lgs. n. 152/2006..
L'attività di
demolizione edifici (o strade) non può essere definita un "processo
di produzione" quale quello indicato nell'art. 184-bis,
comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006, con la conseguenza che i
materiali che ne derivano vanno qualificati come rifiuti e
non come sottoprodotti (Sez. 3, n. 33028 del 01/07/2015,
Giulivi).
RIFIUTI - Raccolta e stoccaggio di rifiuti
speciali non pericolosi - Attività di demolizione di
manufatti da diversi cantieri - Regime giuridico più
favorevole - Qualifica di Sottoprodotti e sussistenza dei
presupposti - Necessità - Intenzioni del produttore e
osservanza delle disposizioni - Deposito temporaneo -
Gestione e smaltimento dei rifiuti - Fattispecie - Artt.
183, 184, 184-bis e 256 d.lgs. n. 152/2006.
I materiali stoccati su un terreno, divisi in tre cumuli a
seconda della natura (residui legnosi, rottami metallici e
macerie di demolizioni frammiste a residui bituminosi di
asfalto) -provenienti da demolizioni di fabbricati e strade-
sono da ricomprendere certamente nella corretta
qualificazione in termini di rifiuto, rientrando gli stessi
nella definizione di cui all'art. 183, comma 1, lett. a),
d.lgs. 152/2006 («qualsiasi sostanza od oggetto di cui il
detentore si disfi, o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo
di disfarsi») ed essendo gli stessi qualificabili come
rifiuti speciali a norma dell'art. 184, comma 3, lett. b),
d.lgs. 152/2006.
Al di là, delle intenzioni del produttore, scaturisce
l'obbligo di disfarsi di tali materiali con l'osservanza
delle disposizioni dettate in materia di gestione e
smaltimento dei rifiuti, salva la possibilità di dimostrare
la sussistenza dei presupposti per l'applicazione di un
regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al "deposito
temporaneo" o al "sottoprodotto" (Cass. Sez. 3,
n. 29084 del 14/05/2015, Favazzo e a.) (nella specie,
risultava pacifico che i materiali non furono prodotti nel
luogo in cui erano stoccati; pertanto, provenendo da diversi
altri cantieri, non ricorreva innanzitutto l'ipotesi del
deposito temporaneo, che, per l'art. 183, lett. bb) -a tacer
d'altro- richiede appunto che il raggruppamento avvenga nel
luogo in cui gli stessi sono prodotti. In secondo luogo, non
era neppure invocabile la categoria del "sottoprodotto",
che per l'art. 184-bis, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006
si ha -ricorrendo anche le altre condizioni previste dalla
disposizione- quando «la sostanza o l'oggetto è originato
da un processo di produzione, di cui costituisce parte
integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di
tale sostanza od oggetto») (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
23.02.2018 n. 8848
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Le attività di demolizione di manufatti possono originare
sottoprodotti?
Il sottoprodotto, come definito
dall’art. 184-bis del D.L.vo 152/2006, deve trarre origine,
quindi provenire direttamente, da un processo di produzione,
vale a dire da un'attività chiaramente finalizzata alla
realizzazione di un qualcosa, che viene ottenuto attraverso
la lavorazione o la trasformazione di altri materiali
(sebbene una simile descrizione non possa ritenersi
esaustiva, in considerazione delle molteplici possibilità
offerte dalla tecnologia).
Le attività di mera demolizione di manufatti (ad esempio, di
edifici o strade), non essendo sono finalizzate alla
produzione di alcunché, non possono, quindi, essere definite
un processo di produzione quale quello indicato dalla norma
citata: di conseguenza, i materiali che ne originano non
sono mai sottoprodotti, ma solo rifiuti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.02.2018 n. 8848
- massima tratta da
www.tuttoambiente.it).
---------------
I ricorsi sono manifestamente infondati.
1. Con riguardo al primo motivo, osserva la Corte
che, risultato pacifico che i materiali
stoccati nel terreno
di proprietà della G. Snc -quantificati in
circa 1.500 mc. e divisi in tre cumuli a seconda della
natura (residui legnosi, rottami metallici e macerie di
demolizioni frammiste a residui bituminosi di asfalto)-
provenivano da demolizioni di fabbricati e strade altrove
effettuate dalla società, risulta allora certamente corretta
la loro qualificazione in termini di rifiuto effettuata dal
giudice di merito, rientrando gli stessi nella definizione
di cui all'art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006 («qualsiasi
sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi, o abbia
l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi») ed essendo
gli stessi qualificabili come rifiuti speciali a norma
dell'art. 184, comma 3, lett. b), d.lgs. 152/2006.
Al di là, difatti, delle intenzioni del produttore,
è certo che G. Snc aveva l'obbligo di disfarsi di
tali materiali con l'osservanza delle disposizioni dettate
in materia di gestione e smaltimento dei rifiuti, salva la
possibilità di dimostrare la sussistenza dei presupposti per
l'applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale
quello relativo al "deposito temporaneo" o al "sottoprodotto"
(cfr. Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, Favazzo e a., Rv.
264121).
2. Nei ricorsi in esame, peraltro, non si prende posizione
sul regime giuridico -alternativo a quello dei rifiuti- che
sarebbe nella fattispecie applicabile, sicché gli stessi
difettano sul punto di specificità ed appaiono comunque
manifestamente infondati, emergendo dal non contestato
accertamento effettuato nella sentenza impugnata come
difettino i presupposti per una diversa qualificazione.
Ed invero, pacifico essendo che i materiali
non furono prodotti nel luogo in cui erano stoccati,
provenendo da diversi altri cantieri, non ricorre
innanzitutto l'ipotesi del deposito temporaneo, che, per
l'art. 183, lett. bb) -a tacer d'altro- richiede appunto che
il raggruppamento avvenga nel luogo in cui gli stessi sono
prodotti. In
secondo luogo, non è neppure invocabile la
categoria del "sottoprodotto", che per l'art.
184-bis, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006 si ha
-ricorrendo anche le altre condizioni previste dalla
disposizione- quando «la sostanza o l'oggetto è originato
da un processo di produzione, di cui costituisce parte
integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di
tale sostanza od oggetto».
Orbene, il Collegio condivide il principio, che va qui
ribadito, secondo cui l'attività di
demolizione edifici (o strade) non può essere definita un "processo
di produzione" quale quello indicato dalla menzionata
norma, con la conseguenza che i materiali che ne derivano
vanno qualificati come rifiuti e non come sottoprodotti
(Sez. 3, n. 33028 del 01/07/2015, Giulivi, Rv. 264203).
Per la citata disposizione, di fatti, il
sottoprodotto deve "trarre origine" -quindi provenire
direttamente- da un "processo di produzione", dunque
da un'attività chiaramente finalizzata alla realizzazione di
un qualcosa ottenuto attraverso la lavorazione o la
trasformazione di altri materiali (sebbene una simile
descrizione non possa ritenersi esaustiva, in considerazione
delle molteplici possibilità offerte dalla
tecnologia).
Le attività di mera demolizione di
manufatti -quali
effettuate dalla G. secondo l'accertamento, non contestato,
contenuto a pag. 1 della motivazione della sentenza
impugnata- non sono dunque finalizzate alla
produzione di alcunché e non originano mai sottoprodotti, ma
solo rifiuti. |
URBANISTICA: Imposizione
di obblighi aggiuntivi in una convenzione urbanistica.
Le amministrazioni comunali non
possono imporre ai privati, che intendano dare esecuzione
alle previsioni di piano, l’obbligo di corrispondere somme
aggiuntive rispetto a quanto da essi dovuto a titolo di
contributo di costruzione ai sensi dell'art. 16 del D.P.R.
n. 380/2001, ed in Regione Lombardia, dell'art. 43 L.R. n.
12/2005, ciò che contrasterebbe infatti con l'art. 23 Cost.,
che vieta l'imposizione di prestazioni personali o
patrimoniali che non siano previste dalla legge.
Detta
regola subisce tuttavia un’eccezione nell'ambito della
pianificazione attuativa, allorquando privato e Comune
stipulino una convenzione urbanistica che accede al piano,
atteso che, in questo caso, gli obblighi aggiuntivi di cui
il privato si fa carico non sono imposti unilateralmente, ma
da lui assunti liberamente, nell'esercizio della propria
autonomia negoziale (nella fattispecie il TAR ha ritenuto
legittimo il provvedimento con cui il Comune,
nell’autorizzare un progetto di riqualificazione di un
condominio, ha ritenuto di costituire una servitù onerosa di
veduta in favore di detto immobile, e a carico dell’area
adiacente, adibita a Parco Comunale, ha approvato la bozza
del relativo contratto e ne ha quantificato il
corrispettivo, essendo stato adottato su istanza del privato
e sulla base di presupposti dallo stesso condivisi) (massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
II.1) Quanto al merito, in via preliminare, osserva il Collegio
che, come correttamente evidenziato dai ricorrenti, le
amministrazioni comunali non possono imporre ai privati, che
intendano dare esecuzione alle previsioni di piano,
l’obbligo di corrispondere somme aggiuntive rispetto a
quanto da essi dovuto a titolo di contributo di costruzione
ai sensi dell'art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, ed in Regione
Lombardia, dell'art. 43 L.R. n. 12/2005, ciò che
contrasterebbe infatti con l'art. 23 Cost., che vieta
l'imposizione di prestazioni personali o patrimoniali che
non siano previste dalla legge (Cass. Civ., Sez. Un.,
13.06.2008, n. 15914, C.S., Sez. I, 21.03.2013, n. 5300).
Detta regola subisce tuttavia un’eccezione nell'ambito della
pianificazione attuativa, allorquando, come avvenuto nella
fattispecie, privato e Comune stipulino una convenzione
urbanistica che accede al piano, atteso che, in questo caso,
gli obblighi aggiuntivi di cui il privato si fa carico, non
sono imposti unilateralmente, ma da lui assunti liberamente,
nell'esercizio della propria autonomia negoziale (C.S., Sez.
IV, 28.07.2005, n. 4015, TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
26.04.2017, n. 946) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 23.02.2018 n. 519
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sanatoria e requisito della doppia conformità -
Permesso di costruire in sanatoria - Limiti - Asservimento
attraverso l’accorpamento di terreni adiacenti -
Fattispecie: piscina interrata e opere connesse - Artt. 31,
36, 44 e 45 d.P.R. 380/2001.
In materia urbanistica, la configurabilità del necessario
requisito della doppia conformità affinché il permesso di
costruire in sanatoria determini l'effetto estintivo del
reato, di cui all'art. 45, ultimo comma, del d.P.R. n. 380
del 2011, deve essere escluso non soltanto quando la
conformità delle opere consegua a una modifica della
disciplina di riferimento o degli strumenti urbanistici che
regolano l'assetto del territorio, ma anche quando essa
derivi da una modifica della sola situazione di fatto, come
nel caso dell'asservimento di una maggiore superficie alla
costruzione già realizzata, attraverso l'accorpamento di
terreni adiacenti.
Sanatoria degli abusi edilizi e
estinzione del reato - Doppia conformità delle opere alla
disciplina urbanistica - Limiti alla legittimazione postuma
di opere originariamente abusive - C.d. sanatoria
"giurisprudenziale" o "impropria" - Fattispecie:
asservimento della volumetria necessaria espressa da un
fondo limitrofo.
La sanatoria degli abusi edilizi idonea, ai sensi dell'art.
45 d.P.R. n. 380 del 2001, ad estinguere il reato di cui
all'art. 44 del d.P.R. d.P.R. 380/2001, non ammettendo
termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio
nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora
ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate
dall'art. 36 d.P.R. d.P.R. 380/2001 e, precisamente, la
doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica
vigente sia al momento della realizzazione del manufatto,
che al momento della presentazione della domanda di
sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una
legittimazione postuma di opere originariamente abusive che,
solo successivamente, in applicazione della cosiddetta
sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria",
siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli
strumenti di pianificazione urbanistica.
Deve, dunque, escludersi la possibilità di una
legittimazione postuma di opere originariamente abusive che,
successivamente, siano divenute conformi alle norme edilizie
ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (Sez. 3,
n. 7405 del 15/01/2015, Bonarota, resa in ipotesi di
illegittimo rilascio di un permesso di costruire in
sanatoria rilasciato per intervento eseguito su particella
catastale alla quale, successivamente all'abuso, era stata
asservita altra particella al fine di superare il limite di
cubatura stabilito dalle previsioni urbanistiche).
Tale considerazione discende dal rilievo che la sanatoria
prevista dall'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, già
disciplinata dall'art. 13 della L. n. 47 del 1985, è diretta
a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto
eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi
nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per
l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro
realizzazione sia in quello presentazione dell'istanza di
conformità.
Nella fattispecie, la conformità agli strumenti urbanistici,
che ha determinato il rilascio del permesso di costruire, è
stata ottenuta successivamente alla realizzazione delle
opere, mediante l'asservimento della volumetria espressa da
un fondo limitrofo al terreno su cui erano state edificate
le opere in assenza di permesso di costruire e in totale
difformità da quello ottenuto in precedenza, con il
conseguente aumento dell'area disponibile (da 10.040,00
metri quadrati a 18.220,00 metri quadrati) e il
raggiungimento dei limiti di superficie necessari per la
lecita realizzazione delle opere.
Doppia conformità alla disciplina
urbanistica ed edilizia - Criteri di verifica - Fattispecie:
asservimento di maggiori superfici a quelle originariamente
disponibili.
Il riferimento dell'art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 alla
conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente
al momento della realizzazione dell'opera non può che essere
inteso con riferimento alla situazione di fatto di tale
epoca, sulla base della quale dovrà, necessariamente, essere
verificata detta conformità, posto che tale indagine non può
non tenere conto dello stato di fatto esistente al momento
della realizzazione delle opere, sulla base del quale dovrà,
quindi, esserne verificata la conformità agli strumenti
urbanistici dell'epoca, nonché a quelli vigenti al momento
del rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
Sicché, il solo asservimento di maggiori superfici a quelle
originariamente disponibili non consente, pertanto, di
ritenere che le opere fossero assentibili anche al momento
della loro realizzazione in assenza di permesso di costruire
o in totale difformità da quello ottenuto, posto che la
situazione di fatto esistente in tale momento non lo
consentiva e che la sola modifica successiva di tale
situazione non consente di ritenere che anche in precedenza
dette opere fossero conformi agli strumenti urbanistici
vigenti.
Mancanza del requisito della doppia
conformità - Effetti della c.d. sanatoria impropria -
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Revoca dell'ordine di
demolizione - Giurisprudenza.
La cosiddetta sanatoria impropria, una volta ottenuta, pur
non determinando l'estinzione del reato ascritto a causa
della mancanza del requisito della doppia conformità
richiesto dall'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, comporta
l'attuale conformità urbanistica delle opere realizzate, con
la conseguente necessità di revocare il relativo ordine di
demolizione, in quanto sarebbe incongruo procedere alla
demolizione di un manufatto originariamente abusivo ma poi
assentito (Cass. Sez. 3, n. 14329 del 10/01/2008, Iacono
Ciulla; Sez. 3, n. 24273 del 24/03/2010, Petrone; Sez. 3, n.
24410 del 09/02/2016, Pezzuto) (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 22.02.2018 n. 8540 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Carattere della pertinenza - Presupposti per
l'esclusione del permesso di costruire - Oggettiva esigenza
funzionale dell'edificio principale - Sfornito di un
autonomo valore di mercato - Volume non superiore al 20% di
quello dell'edificio cui accede.
Affinché un manufatto presenti il carattere di pertinenza,
tale da non richiedere per la sua realizzazione il permesso
di costruire, è necessario che esso sia preordinato a
un'oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale,
sia sfornito di un autonomo valore di mercato, sia di volume
non superiore al 20% di quello dell'edificio cui accede, di
guisa da non consentire, rispetto a quest'ultimo e alle sue
caratteristiche, una destinazione autonoma e diversa (Cass.,
Sez. 3, n. 52835 del 14/07/2016, Fahrni; conf. Sez. 3, n.
25669 del 30/05/2012, Zeno; Sez. 3, n. 6593 del 24/11/2011,
Chiri; Sez. 3, n. 39067 del 21/05/2009, Vitti; Sez. 3, n.
37257 del 11/06/2008, Alexander) (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 22.02.2018 n. 8540 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce principio
consolidato nella
giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui la
sanatoria degli abusi edilizi
idonea, ai sensi dell'art. 45 d.P.R. n. 380 del 2001, ad
estinguere il reato di cui
all'art. 44 del d.P.R. cit., non ammettendo termini o
condizioni, deve riguardare
l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere
conseguita solo qualora
ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate
dall'art. 36 d.P.R. cit. e,
precisamente, la doppia conformità delle opere alla
disciplina urbanistica vigente
sia al momento della realizzazione del manufatto, che al
momento della
presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi
la possibilità di
una legittimazione postuma di opere originariamente abusive
che, solo
successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria
"giurisprudenziale" o
"impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie
ovvero agli strumenti di
pianificazione urbanistica.
Deve, dunque, escludersi la possibilità di una
legittimazione postuma di
opere originariamente abusive che, successivamente, siano
divenute conformi
alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione
urbanistica.
Tale considerazione discende dal rilievo che la sanatoria
prevista dall'art. 36
del d.P.R. n. 380 del 2001, già disciplinata dall'art. 13
della l. n. 47 del 1985, è
diretta a sanare le opere solo formalmente abusive, in
quanto eseguite senza il
previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla
disciplina urbanistica
applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al
momento della loro
realizzazione sia in quello presentazione dell'istanza di
conformità.
---------------
La cosiddetta sanatoria impropria ottenuta dalla ricorrente,
pur non
determinando l'estinzione del reato ascrittole, a causa
della mancanza del
requisito della doppia conformità richiesto dall'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001,
comporta l'attuale conformità urbanistica delle opere dalla
stessa realizzate, con
la conseguente necessità di revocare il relativo ordine di
demolizione, in quanto
sarebbe incongruo procedere alla demolizione di un manufatto
originariamente
abusivo ma poi assentito.
---------------
1. Il ricorso è fondato solamente in relazione al terzo motivo.
2. Il primo motivo, mediante il quale sono stati denunciati
violazione degli
artt. 36 e 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001 e vizio
della motivazione, per
l'errata considerazione della portata del permesso di
costruire in sanatoria
ottenuto dalla ricorrente, di cui sarebbe stato
indebitamente escluso l'effetto
estintivo del reato ascrittole, non è fondato.
Va al riguardo ricordato che
costituisce principio
consolidato nella
giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui la
sanatoria degli abusi edilizi
idonea, ai sensi dell'art. 45 d.P.R. n. 380 del 2001, ad
estinguere il reato di cui
all'art. 44 del d.P.R. cit., non ammettendo termini o
condizioni, deve riguardare
l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere
conseguita solo qualora
ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate
dall'art. 36 d.P.R. cit. e,
precisamente, la doppia conformità delle opere alla
disciplina urbanistica vigente
sia al momento della realizzazione del manufatto, che al
momento della
presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi
la possibilità di
una legittimazione postuma di opere originariamente abusive
che, solo
successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria
"giurisprudenziale" o
"impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie
ovvero agli strumenti di
pianificazione urbanistica
(Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260973;
conf. Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015, Carratù Rv. 266034;
Sez. 3, n. 24451
del 26/04/2007, Micolucci, Rv. 236912).
Deve, dunque, escludersi la possibilità di una
legittimazione postuma di
opere originariamente abusive che, successivamente, siano
divenute conformi
alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione
urbanistica
(Sez. 3, n.
7405 del 15/01/2015, Bonarota, Rv. 262422, resa in ipotesi
di illegittimo rilascio
di un permesso di costruire in sanatoria rilasciato per
intervento eseguito su
particella catastale alla quale, successivamente all'abuso,
era stata asservita
altra particella al fine di superare il limite di cubatura
stabilito dalle previsioni
urbanistiche).
Tale considerazione discende dal rilievo che
la sanatoria
prevista dall'art. 36
del d.P.R. n. 380 del 2001, già disciplinata dall'art. 13
della l. n. 47 del 1985, è
diretta a sanare le opere solo formalmente abusive, in
quanto eseguite senza il
previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla
disciplina urbanistica
applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al
momento della loro
realizzazione sia in quello presentazione dell'istanza di
conformità
(cfr. Tar
Campania, Sez. VIII, Sentenza 05.12.2016 n. 5611).
Nel caso in esame la conformità agli strumenti urbanistici,
che ha
determinato il rilascio del permesso di costruire, è stata
ottenuta
successivamente alla realizzazione delle opere, mediante
l'asservimento della
volumetria espressa da un fondo limitrofo al terreno su cui
erano state edificate
le opere in assenza di permesso di costruire e in totale
difformità da quello
ottenuto nel 2003, con il conseguente aumento dell'area
disponibile (da
10.040,00 metri quadrati a 18.220,00 metri quadrati) e il
raggiungimento dei
limiti di superficie necessari per la lecita realizzazione
delle opere.
Ciò, tuttavia, esclude la configurabilità del necessario
requisito della doppia
conformità richiesto affinché il permesso di costruire in
sanatoria determini
l'effetto estintivo del reato di cui all'art. 45, ultimo
comma, del d.P.R. n. 380 del
2011, giacché tale requisito deve essere escluso non
soltanto quando la
conformità delle opere consegua a una modifica della
disciplina di riferimento o
degli strumenti urbanistici che regolano l'assetto del
territorio, ma anche quando
essa derivi da una modifica della sola situazione di fatto,
come nel caso
dell'asservimento di una maggiore superficie alla
costruzione già realizzata,
attraverso l'accorpamento di terreni adiacenti.
Il riferimento dell'art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 alla
conformità alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della
realizzazione dell'opera
non può che essere inteso con riferimento alla situazione di
fatto di tale epoca,
sulla base della quale dovrà, dunque, necessariamente,
essere verificata detta
conformità, posto che tale indagine non può non tenere conto
dello stato di fatto
esistente al momento della realizzazione delle opere, sulla
base del quale dovrà,
quindi, esserne verificata la conformità agli strumenti
urbanistici dell'epoca,
nonché a quelli vigenti al momento del rilascio del permesso
di costruire in
sanatoria.
Il solo asservimento di maggiori superfici a quelle
originariamente disponibili
non consente, pertanto, di ritenere che le opere fossero
assentibili anche al
momento della loro realizzazione in assenza di permesso di
costruire o in totale
difformità da quello ottenuto, posto che la situazione di
fatto esistente in tale
momento non lo consentiva e che la sola modifica successiva
di tale situazione
non consente di ritenere che anche in precedenza dette opere
fossero conformi
agli strumenti urbanistici vigenti.
Correttamente, dunque, la Corte d'appello ha escluso
l'invocata portata
estintiva del reato ascritto alla ricorrente del permesso di
costruire in sanatoria
dalla stessa ottenuto, non sussistendo la conformità delle
opere al momento
della loro realizzazione, con la conseguente manifesta
infondatezza delle
doglianze di violazione di legge e vizio della motivazione
sollevate dalla Pe. con il primo motivo di ricorso.
...
4. Il terzo motivo, mediante il quale è stata lamentata
l'indebita
subordinazione della sospensione condizionale della pena
alla rimessione in
pristino dello stato dei luoghi, risulta, alla luce del
rilascio del permesso di
costruire in sanatoria, fondato.
La cosiddetta sanatoria impropria ottenuta dalla ricorrente,
pur non
determinando l'estinzione del reato ascrittole, a causa
della mancanza del
requisito della doppia conformità richiesto dall'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001,
comporta l'attuale conformità urbanistica delle opere dalla
stessa realizzate, con
la conseguente necessità di revocare il relativo ordine di
demolizione, in quanto
sarebbe incongruo procedere alla demolizione di un manufatto
originariamente
abusivo ma poi assentito
(cfr. Sez. 3, n. 14329 del
10/01/2008, Iacono Ciulla,
Rv. 239708; Sez. 3, n. 24273 del 24/03/2010, Petrone, Rv.
247791; Sez. 3, n.
24410 del 09/02/2016, Pezzuto, Rv. 267192)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.02.2018 n. 8540). |
EDILIZIA PRIVATA:
Una piscina non può essere considerata quale "pertinenza"
vista
l'idoneità ad un utilizzo autonomo della medesima, in
considerazione delle sue dimensioni, come pure dei manufatti
a essa accessori, trattandosi di una piscina interrata di
forma rettangolare, delle dimensioni di metri 7,70x13,35,
profonda circa metri 2,30, di un vano interrato delle
dimensioni di metri 2,00x2,00x2,70, di due docce in muratura
e di un bagno retrostante, delle dimensioni di metri
1,70x1,20, di cui, oltre a non emergere la destinazione a
una oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale.
Affinché un manufatto presenti il carattere di pertinenza,
tale da non
richiedere per la sua realizzazione il permesso di
costruire, è necessario che esso
sia preordinato a un'oggettiva esigenza funzionale
dell'edificio principale, sia
sfornito di un autonomo valore di mercato, sia di volume non
superiore al 20% di
quello dell'edificio cui accede, di guisa da non consentire,
rispetto a quest'ultimo
e alle sue caratteristiche, una destinazione autonoma e
diversa.
---------------
1. Il ricorso è fondato solamente in relazione al terzo motivo.
...
3. Il secondo motivo, mediante il quale sono stati
prospettati ulteriori vizi
delle motivazione e altre violazioni degli artt. 31 e 44 del
d.P.R. n. 380 del 2001,
in relazione alla affermazione della configurabilità di
illeciti urbanistici anche con
riferimento alla realizzazione di una piscina e dei relativi
manufatti di servizio,
stante il loro carattere pertinenziale, per effetto del
quale sarebbero realizzabili
mediante semplici denunzia di inizio attività o segnalazione
certificata di inizio
attività, e anche con riferimento alla modesta entità delle
altre difformità
contestate, è anch'esso infondato.
Affinché un manufatto presenti il carattere di pertinenza,
tale da non
richiedere per la sua realizzazione il permesso di
costruire, è necessario che esso
sia preordinato a un'oggettiva esigenza funzionale
dell'edificio principale, sia
sfornito di un autonomo valore di mercato, sia di volume non
superiore al 20% di
quello dell'edificio cui accede, di guisa da non consentire,
rispetto a quest'ultimo
e alle sue caratteristiche, una destinazione autonoma e
diversa
(così, da ultimo,
Sez. 3, n. 52835 del 14/07/2016, Fahrni, Rv. 268552; conf.
Sez. 3, n. 25669 del
30/05/2012, Zeno, Rv. 253064; Sez. 3, n. 6593 del
24/11/2011, Chiri, Rv.
252442; Sez. 3, n. 39067 del 21/05/2009, Vitti, Rv. 244903;
Sez. 3, n. 37257
del 11/06/2008, Alexander, Rv. 241278).
Una tale analisi è stata del tutto omessa dalla ricorrente,
che pure ne
sarebbe stata onerata alla luce della sua allegazione
difensiva,
non avendo
indicato alcunché circa il rapporto tra la piscina e il
fabbricato cui essa accede, ed
avendo, anzi, compiuto una valutazione parcellizzata delle
opere prive di
permesso di costruire o realizzate in totale difformità da
quello ottenuto, volta a
sminuirne l'incidenza, dovendo, invece, essere compiuta una
valutazione
complessiva dell'opera
(cfr., Sez. 3, n. 15442 del
26/11/2014, Prevosto, Rv.
263339; Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Casciato, Rv.
263473), onde
qualificarla, accertare il suo completamento, verificarne la
rispondenza agli
strumenti urbanistici e stabilirne anche il regime di
assentibilità.
Dalla sola descrizione delle opere contenuta nella
imputazione emerge,
comunque, l'idoneità a un utilizzo autonomo della piscina,
in considerazione delle
sue dimensioni, come pure dei manufatti a essa accessori,
trattandosi di una
piscina interrata di forma rettangolare, delle dimensioni di
metri 7,70x13,35,
profonda circa metri 2,30, di un vano interrato delle
dimensioni di metri 2,00x2,00x2,70, di due docce in muratura e di un bagno
retrostante, delle
dimensioni di metri 1,70x1,20, di cui, oltre a non
emergere la destinazione a
una oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale,
riguardo alla quale la
ricorrente non ha prospettato nulla di specifico (se non la
generica qualificabilità
di una piscina come pertinenza), si ricava senza necessità
di indagini tecniche
l'idoneità a un utilizzo autonomo.
L'incidenza delle altre opere realizzate in totale
difformità dal permesso di
costruire (costituite da una scala scoperta in posizione e
di dimensioni diverse
rispetto a quelle autorizzate, una maggiore profondità del
porticato, un
ampliamento dell'immobile e dalla modifica della sua
partizione interna) è stata
valutata, nel suo complesso, come determinante una
variazione essenziale, e si
tratta di valutazione unitaria e sintetica corretta dal
punto di vista metodologico
e non sindacabile sul piano del merito nel giudizio di
legittimità (cfr. Sez. 3, n.
40541 del 18/06/2014, Cínelli, Rv. 260652), posto che, come
emerge dalla
descrizione delle opere, non si tratta di mere difformità
esecutive o di diverse
modalità di realizzazione dell'opera, ma di opere incidenti
sulla struttura e sulla
conformazione dell'edificio.
Ne consegue, in definitiva, la manifesta infondatezza anche
del secondo motivo dì ricorso
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.02.2018 n. 8540). |
SEGRETARI COMUNALI:
Rogito del Segretario comunale e delitto di
falso.
Se la donazione è palesemente fasulla va esclusa la
ricorribilità della teoria del falso innocuo.
Il Segretario di un Comune del territorio comasco veniva
riconosciuto responsabile del delitto di falso in atto
pubblico fidefacente, di cui agli artt. 479 e 476, comma 2,
cod. pen., per avere, nella veste appunto di alto
funzionario pubblico, stipulato un contratto di donazione di
beni immobili, attestando falsamente la contestuale presenza
dei testimoni e delle parti al momento della sottoscrizione
dell'atto.
La Corte di Appello di Milano, nel luglio 2016, confermava
infatti la sentenza del G.i.p. del Tribunale di Como, che,
nel 2011, aveva riconosciuto colpevole il Segretario: il
quale ha proposto ricorso per cassazione, allegando un unico
–curioso– motivo di diritto: quello per il quale la radicale
inesistenza dell'atto di donazione derivante dal contrasto
con norme imperative (pacificamente violate nel caso in
esame, posto che era rimasto accertato che le parti non
erano presenti alla stipula dell'atto e che, diversamente da
quanto attestato dal pubblico ufficiale, non ne avevano
ricevuto lettura e non l'avevano sottoscritto al momento del
rogito), avrebbe reso lo strumento di liberalità privo di
giuridica rilevanza, con la conseguente necessità di
qualificare le attestazioni non rispondenti al vero del
pubblico ufficiale come mere falsità innocue.
La Corte di Cassazione ha smentito la tesi del ricorrente e
con
sentenza 20.02.2018 n. 8200
della V Sez. penale, ha confermato la condanna.
I giudici di legittimità hanno dapprima sottolineato che la
fonte della competenza per i Segretari comunali a stipulare
atti negoziali è da individuare nell'art 97, lett. c), del
D.L.vo 18.08.2000 n. 267 (T.U.E.L.), il quale ha statuito
che questi possono “rogare tutti i contratti nei quali
l'ente è parte ed autenticare scritture private ed atti
unilaterali nell'interesse dell'Ente”.
Sicché, alla stregua della disciplina richiamata, il
segretario comunale è l'ufficiale rogante del Comune, e cioè
il funzionario dell'Ente locale competente alla stipulazione
dei contratti in alternativa al notaio. Il contratto
stipulato con l'osservanza della “forma pubblica
amministrativa” -che è quella in cui l'ufficiale rogante
è proprio il Segretario comunale- è atto pubblico (art. 2699
Cod. civ.; art. 16, comma 3, R.D. 18.11.1923 n. 2440) dotato
dell'efficacia propria di questo (art. 2700 Cod. civ.),
trattandosi di documento ricevuto da pubblico ufficiale,
diverso da notaio, autorizzato per legge ad attribuirgli
pubblica fede.
Poiché non è dettata un'espressa disciplina sulle formalità
dei contratti stipulati in forma pubblica amministrativa,
limitandosi l'art. 96 del citato R.D. 23.05.1924 n. 827, a
stabilire che detti contratti "sono ricevuti con
l'osservanza delle norme prescritte dalla legge notarile per
gli atti notarili, in quanto applicabili", deve
inferirsi che trovi conferma la tradizionale impostazione
che considera l'atto notarile quale schema paradigmatico di
atto pubblico.
Da tali premesse la Corte ha fatto derivare il convincimento
in forza del quale la tesi difensiva -che vuole che l’atto
adottato non fosse suscettivo di falso, perché privo della
possibilità di generare nocumento del bene giuridico
tutelato dalla legge penale, cioè la fede pubblica, (secondo
il noto bocardo non datur falsum in scriptura quae non
est apta nocere)– non poteva dirsi fondata: da qui
l’ineluttabile conseguenza che le attestazioni contrarie al
vero contenute nell'atto pubblico di cui al caso esaminato
–ricadenti sulle circostanze che tutte le parti del
contratto fossero presenti; che dell'atto fosse stato data
lettura e che lo stesso fosse stato sottoscritto dai donanti
e dalla parte donataria al cospetto del pubblico ufficiale
rogante– tradiscono la funzione autenticativa e
certificativa che è propria del pubblico ufficiale
equiparato al notaio e sono, in sé, capaci di ledere il bene
giuridico della fede pubblica e dell'affidamento dei terzi,
poiché comprovano, con il crisma probatorio della verità,
l'esistenza di un fatto in realtà inesistente. E ciò è
sufficiente ai fini della configurazione del contestato
reato di falso ideologico.
Né a dire, ha sottolineato la Corte, che potessero ricavarsi
argomenti a favore della teoria del cosiddetto “falso
innocuo”, tenuto conto che, alla stregua di tale
elaborazione, il falso può dirsi inutile o superfluo, quando
la condotta, pur afferendo al significato letterale di un
atto, non incide sul suo significato comunicativo, nel senso
che l'infedele attestazione (nel falso ideologico) o
l'alterazione (nel falso di falso materiale) sono del tutto
irrilevanti ai fini del significato dell'atto, non
esplicando effetti sulla funzione documentale, dell'atto
stesso, di attestazione dei dati in esso indicati.
Dal che è agevole desumere che l'innocuità non deve essere
valutata con riferimento all'uso che dell'atto falso venga
fatto, ma deve emergere direttamente dall'atto stesso.
Poiché, nel caso scrutinato, la non conformità al vero delle
circostanze attestate dal pubblico ufficiale rogante non era
evincibile dall'atto-documento stesso, ma costituiva il
risultato di un'attività accertativa aliunde
eseguita, l'invocata innocuità del falso non è stata
ritenuta ricorrente
(commento tratto da www.gazzettaamministrativa.it).
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MASSIMA
Il ricorso è manifestamente infondato
1. Giova precisare che il codice civile, dopo avere fornito,
all'art. 769, la
definizione di donazione quale:
«contratto col quale, per
spirito di liberalità, una
parte arricchisce l'altra, disponendo a favore di questa di
un suo diritto o
assumendo verso la stessa un'obbligazione», stabilisce,
all'art.782, quale sia la
forma di tale contratto, disponendo che: «La donazione deve
essere fatta per
atto pubblico, sotto pena di nullità».
Donde, dal richiamo
degli evocati
parametri normativi, è evincibile l'errore nel quale è
caduta la ricorrente, la quale
ha confuso il negozio giuridico con il quale l'ordinamento
consente il
perseguimento degli scopi di liberalità, con la forma di
esso, che è quella dell'atto
pubblico ad substantiam.
2. Da tale premessa deriva che, al di là della validità del
negozio giuridico
che le parti intendevano porre in essere,
l'atto pubblico
rogato dal pubblico ufficiale, destinato a rivestire del
crisma della prova privilegiata la volontà
dispositiva delle parti, non può qualificarsi come
inesistente, dovendosi ritenere
tale solo quello che sia privo dei requisiti essenziali
previsti per la sua
riconoscibilità (Sez. 5, n. 11714 del 10/10/1997, Lipizer,
Rv. 209271+.
Al riguardo vale sottolineare che la fonte della competenza
per i segretari
comunali a stipulare atti negoziali è da individuare
nell'art 97, lett. c), del
d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (T.U. delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali), il
quale ha statuito che questi possono «rogare tutti i
contratti nei quali l'ente è
parte ed autenticare scritture private ed atti unilaterali
nell'interesse
dell'ente». Sicché, alla stregua della disciplina
richiamata, il segretario
comunale è l'ufficiale rogante del Comune, e cioè il
funzionario dell'ente locale
competente alla stipulazione dei contratti in alternativa al
notaio.
Il contratto stipulato con l'osservanza della 'forma
pubblica amministrativa'
-che è quella in cui l'ufficiale rogante è proprio il
segretario comunale- è atto
pubblico (art. 2699 cod. civ.; art. 16, comma 3, R.D. 18.11.1923 n. 2440)
dotato dell'efficacia propria di questo (art. 2700 cod.
civ.), trattandosi di
documento ricevuto da pubblico ufficiale diverso da notaio
autorizzato per legge
ad attribuirgli pubblica fede.
Poiché non è dettata
un'espressa disciplina sulle
formalità dei contratti stipulati in forma pubblica
amministrativa, limitandosi
l'art. 96 del R.D. 23.05.1924, n. 827 (Regolamento per
l'amministrazione
del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato),
a
stabilire che detti
contratti "sono ricevuti con l'osservanza delle norme
prescritte dalla legge
notarile per gli atti notarili, in quanto applicabili", deve
inferirsi che trovi
conferma la tradizionale impostazione che considera l'atto
notarile quale schema
paradigmatico di atto pubblico.
Da quanto sin qui riferito emerge che non può dubitarsi
della riconoscibilità
come atto pubblico del rogito della donazione tra le parti
contraenti compiuto dal
segretario comunale di Pianello del Lario, lo stesso essendo
annullabile -mancando della sottoscrizione del donatario, pur dato per
presente alla stipula
del contratto di donazione- o al più nullo, ove ritenuto
contrario a norme
imperative della legge notarile -perché, ad esempio, non
letto alle parti
comparenti-, ma, ciò nondimeno, capace di produrre
affidamento e di spiegare
effetti giuridici sino a quando non venga rimosso
dall'universo giuridico.
3. Posto, allora, che la tesi difensiva -che vuole che tale
atto non sia
suscettivo di falso, perché privo della possibilità di
generare nocumento del bene
giuridico tutelato dalla legge penale, cioè la fede
pubblica, (secondo il noto
bocardo non datur falsum in scriptura quae non est apta
nocere)- non può dirsi
fondata, deve riconoscersi che le attestazioni contrarie al
vero contenute nell'atto pubblico di cui al caso censito -ricadenti sulle circostanze che tutte le parti del
contratto fossero presenti; che dell'atto fosse stato data
lettura e che lo stesso
fosse stato sottoscritto dai donanti e dalla parte donataria
al cospetto del
pubblico ufficiale rogante- tradiscono la funzione autenticativa e certificativa che
è propria del pubblico ufficiale equiparato al notaio e
sono, in sé, capaci di ledere
il bene giuridico della fede pubblica e dell'affidamento dei
terzi, poiché
comprovano, con il crisma probatorio della verità,
l'esistenza di un fatto in realtà
inesistente. E ciò è sufficiente ai fini della
configurazione del contestato reato di
falso ideologico (Sez. 5, n. 12693 del 10/02/2006, Perna, Rv.
234706; Sez. 5, n.
45295 del 07/07/2005, Capuano, Rv. 232722).
4. A ben vedere le deduzioni della ricorrente non sono
neppure in linea con
la teoria del cosiddetto 'falso innocuo', tenuto conto che,
alla stregua di tale
elaborazione, il falso può dirsi inutile o superfluo, quando
la condotta, pur
incidendo sul significato letterale di un atto, non incide
sul suo significato
comunicativo (Sez. 5, n. 38720 del 19/06/2008, Rocca, Rv.
241936), nel senso
che l'infedele attestazione (nel falso ideologico)
o
l'alterazione (nel falso di falso
materiale) sono del tutto irrilevanti ai fini del
significato dell'atto, non esplicando
effetti sulla funzione documentale dell'atto stesso di
attestazione dei dati in esso
indicati (Sez. 5, n. 35076 del 21/04/2010, Immordino, Rv.
248395).
Dal che è
agevole desumere che l'innocuità non deve essere valutata
con, riferimento
all'uso che dell'atto falso venga fatto, ma deve emergere
dall'atto stesso (Sez. 5,
n. 2809 del 17/10/2013 - dep. 21/01/2014, Ventriglia, Rv.
258946).
Poiché, nel
caso scrutinato, la non conformità al vero delle circostanze
attestate dal pubblico
ufficiale rogante non è evincibile dall'atto-documento
stesso, ma costituisce il
risultato di un'attività accertativa aliunde eseguita,
l'invocata innocuità del falso
non ricorre. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Terre e rocce da scavo - Criteri per
qualificare le terre e rocce da scavo come sottoprodotti -
Evoluzione normativa e modifiche del regime giuridico -
Procedura semplificata - Redazione del Piano di Utilizzo -
Concetto di "rifiuto" - Opere sottoposte a VIA o ad AIA -
Fattispecie: Lavori di sbancamento, scavo e movimento terra
- D.P.R. 13/06/2017, n. 120 - Artt. 183, 184-bis, 186, 256 e
260 d.lgs. n. 152/2006.
L'art. 183, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 152 del 2006
definisce il concetto di "rifiuto" nei termini di "qualsiasi
sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia
l'intenzione ovvero l'obbligo di disfarsi".
Nel caso delle rocce e terre da scavo, tuttavia, il
legislatore ha adottato un regime speciale, onde attribuire,
anche, ai soggetti che svolgono attività edilizia una più
ampia possibilità di riutilizzo del materiale di risulta
delle operazioni di costruzione.
Nondimeno, nessun dubbio ricorre in ordine alla circostanza
che, pur dopo la recente modifica introdotta dal D.P.R. n.
120 del 2017 sia comunque obbligatorio che si proceda:
a) per le terre e rocce da scavo derivanti da opere sottoposte a
VIA o ad AIA con produzione maggiore di 6.000 m3 secondo un
regime simile a quello previsto dal D.M. n. 161/2012,
attraverso la redazione del Piano di Utilizzo che deve
comunque contenere l'autocertificazione dei requisiti di
sottoprodotto (all. 6);
b) per le terre e rocce da scavo da riutilizzare prodotte in misura
inferiore ai 6.000 m3, in cantieri riguardanti opere
sottoposte o meno a VIA o ad AIA, nonché in siti di grandi
dimensioni (con produzione superiore ai 6000 m3, non
sottoposti a VIA o AIA), è invece prevista una procedura
semplificata attraverso una dichiarazione di
autocertificazione attestante il rispetto dei requisiti di
cui all'art. 4 presentata dal produttore all'Arpa
territorialmente competente e al Comune del luogo di
produzione (autorità competente nel caso di "cantieri di
grandi dimensioni") utilizzando i modelli previsti dagli
allegati 678 del D.P.R..
RIFIUTI - Nuova disciplina della
gestione delle terre e rocce da scavo - Criteri e
presupposti - Qualifica di sottoprodotti - Esclusione dalla
disciplina dei rifiuti.
La nuova disciplina della gestione delle terre e rocce da
scavo prevede:
1) la gestione delle terre e rocce da scavo qualificate come
sottoprodotti, ai sensi dell'art. 184-bis, del d.lgs. n. 152
del 2006, provenienti da cantieri di piccole dimensioni, di
grandi dimensioni e di grandi dimensioni non assoggettati a
VIA o a AIA, compresi quelli finalizzati alla costruzione o
alla manutenzione di reti e infrastrutture;
2) la disciplina del deposito temporaneo delle terre e rocce da
scavo qualificate rifiuti;
3) l'utilizzo nel sito di produzione delle terre e rocce da scavo
escluse dalla disciplina dei rifiuti;
4) la gestione delle terre e rocce da scavo nei siti oggetto di
bonifica.
Inoltre, le terre e rocce da scavo per essere qualificate
come sottoprodotti devono soddisfare i seguenti requisiti:
a) sono generate durante la realizzazione di un'opera, di cui
costituiscono parte integrante e il cui scopo primario non è
la produzione di tale materiale;
b) il loro utilizzo è conforme alle disposizioni del piano di
utilizzo di cui all'articolo 9 o della dichiarazione di cui
all'articolo 21, e si realizza: 1) nel corso dell'esecuzione
della stessa opera nella quale è stato generato o di
un'opera diversa, per la realizzazione di reinterri,
riempimenti, rimodellazioni, rilevati, miglioramenti
fondiari o viari, recuperi ambientali oppure altre forme di
ripristini e miglioramenti ambientali; 2) in processi
produttivi, in sostituzione di materiali di cava;
c) sono idonee ad essere utilizzate direttamente, ossia senza alcun
ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica
industriale;
d) soddisfano i requisiti di qualità ambientale espressamente
previsti dal Capo Il o dal Capo III o dal Capo IV del
presente regolamento, per le modalità di utilizzo specifico
di cui alla lettera b) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.02.2018 n. 8026
- link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La riduzione della fascia di rispetto cimiteriale
eccezionalmente è ammissibile anche per edifici privati e
non solo per quelli pubblici.
Riguardo all’istanza di riduzione della fascia di
rispetto, va osservato che il limite ordinario della stessa
resta sempre 200 metri, essendo previsto “ex lege” non solo
per esigenze igienico sanitarie, ma anche per consentire
futuri ampliamenti cimiteriali; ampliamenti che sarebbero
invece preclusi se il centro abitato si avvicinasse
eccessivamente.
L’amministrazione comunale non ha quindi il potere di
stabilire, attraverso propri atti pianificatori, fasce di
rispetto ordinarie inferiori tale limite; fasce che
legittimerebbero così interventi edilizi indeterminati e
realizzabili “de futuro” entro la distanza compresa tra i 50
e 200 metri dal cimitero.
Possono solo essere concesse deroghe “una tantum” in
relazione agli specifici interventi contemplati dai commi 4
e 5 del citato art. 338 e qualora sussistano i relativi
presupposti.
---------------
Il Comune deve ancora pronunciarsi definitivamente
sull’istanza di condono edilizio valutando l’eventuale
possibilità di concedere la deroga “una tantum” in
applicazione dell’art. 338, comma 5, del Rd n. 1265/1934,
secondo cui: “Per dare esecuzione ad un'opera pubblica o
all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi
ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può
consentire, previo parere favorevole della competente
azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di
rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio
dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici
preesistenti o la costruzione di nuovi edifici”.
Al riguardo è pur vero che l’orientamento maggioritario
della giurisprudenza amministrativa ritiene, in via di
principio, applicabile tale deroga solo per interventi di
interesse pubblico, ma potrebbero tuttavia esistere anche
situazioni particolari e inidonee per interferire con le
esigenze di tutela cui la fascia di rispetto è preordinata;
situazioni che potrebbero quindi legittimare la deroga “una
tantum” anche in favore di interventi di edilizia privata.
Nel caso specifico potrebbero infatti assumere rilevanza non
solo l’insussistenza di problematiche igienico sanitarie, ma
anche la particolare conformazione dei luoghi che sembra
caratterizzata da forte pendenza forse incompatibile con
l’eventuale ampliamento del cimitero sul lato che qui
interessa.
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1. I ricorrenti allegano di essere comproprietari, in località
Fiorenzuola di Focara del comune di Pesaro, di una casetta
di civile abitazione ubicata a circa 60 metri dal locale
cimitero.
Allegano, inoltre, che l’immobile venne costruito nel 1975.
Nell’anno successivo venne realizzato un garage, con
ulteriore ampliamento della casa nel 1983.
Nell’anno 2013 il comune deliberava l’ampliamento del
cimitero in applicazione delle norme derogatorie di cui
all’art. 338, comma 4, del Rd n. 1265/1934, trattandosi di
opere da realizzare a meno di 200 metri dal centro abitato
ma comunque ad una distanza superiore a 50 metri dallo
stesso.
Collegandosi a tale circostanza, i ricorrenti, con istanza
acquisita dal comune in data 16.01.2015, chiedevano che anche
per il loro edificio fosse ridotta, da 200 a 50 metri, la
fascia di rispetto cimiteriale di cui al citato art. 338;
riduzione peraltro connessa con l’istanza di condono
edilizio presentata in data 20.10.1986 e non ancora
definita.
Con il provvedimento qui impugnato il comune riscontrava
negativamente detta richiesta evidenziando che la fascia
minima di 200 metri è prevista “ex lege” e non può essere
ridotta attraverso provvedimenti amministrativi. Possono
solo essere concesse deroghe per eventuali ampliamenti del
cimitero, trattandosi di opere di pubblica utilità.
Il provvedimento concludeva, inoltre, comunicando ai
ricorrenti che tali ragioni costituivano anche motivo
ostativo all’accoglimento dell’istanza di condono.
Si è costituito il comune di Pesaro per resistere al
gravame.
2. Con la prima censura viene dedotta violazione dell’art.
338, commi 4 e 5, del Rd n. 1265/1934, nonché eccesso di
potere sotto svariati profili. In particolare viene dedotto
che il comma 5 ammette la possibilità di ridurre la fascia
di rispetto cimiteriale per dare esecuzione anche ad
interventi urbanistici non meglio specificati (quindi
comprendenti anche quelli privati), purché non vi ostino
ragioni igienico sanitarie.
Di conseguenza, se il comune ha
accertato che non sussistono impedimenti di tale natura per
ampliare il cimitero verso il centro abitato, applicando
allora un principio di reciprocità, le stesse conclusioni
dovrebbero valere per l’ampliamento e la ristrutturazione di
edifici privati verso il cimitero nel rispetto della fascia
minima e assolutamente inderogabile di 50 metri.
Con il secondo e ultimo motivo vengono riproposte le
medesime doglianze avverso il preavviso di rigetto
dell’istanza di condono edilizio.
2.1 Entrambi i profili vanno disattesi.
2.2 Riguardo all’istanza di riduzione della fascia di
rispetto, va osservato che il limite ordinario della stessa
resta sempre 200 metri, essendo previsto “ex lege” non solo
per esigenze igienico sanitarie, ma anche per consentire
futuri ampliamenti cimiteriali; ampliamenti che sarebbero
invece preclusi se il centro abitato si avvicinasse
eccessivamente.
L’amministrazione comunale non ha quindi il potere di
stabilire, attraverso propri atti pianificatori, fasce di
rispetto ordinarie inferiori tale limite; fasce che
legittimerebbero così interventi edilizi indeterminati e
realizzabili “de futuro” entro la distanza compresa tra i 50
e 200 metri dal cimitero.
Possono solo essere concesse deroghe “una tantum” in
relazione agli specifici interventi contemplati dai commi 4
e 5 del citato art. 338 e qualora sussistano i relativi
presupposti.
Le ragioni di rigetto dell’istanza dei ricorrenti resistono
alle censure qui dedotte.
2.3 Riguardo invece all’affermazione (pure contenuta nel
provvedimento impugnato) secondo cui le medesime ragioni,
assunte a fondamento del diniego di riduzione della fascia
di rispetto, non avrebbero consentito l’accoglimento della
domanda di condono edilizio presentata in data 20.10.1986,
va osservato che tale precisazione non ha effetti
provvedimentali, ma ha natura di preavviso di rigetto ex
art. 10-bis della Legge n. 241/1990.
Tanto è vero che l’amministrazione comunale riferisce che il
relativo procedimento non si è ancora concluso. Di
conseguenza trova applicazione il divieto cognitivo di
questo giudice ex art. 34, comma 2, c.p.a., trattandosi di
poteri non ancora esercitati.
Il Comune dovrà quindi pronunciarsi definitivamente
sull’istanza di condono considerando le argomentazioni,
dedotte con l’odierno ricorso, al pari di memorie
procedimentali presentate dagli interessati, valutando
quindi l’eventuale possibilità di concedere la deroga “una
tantum” in applicazione dell’art. 338, comma 5, del Rd n.
1265/1934, secondo cui: “Per dare esecuzione ad un'opera
pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico,
purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il
consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole
della competente azienda sanitaria locale, la riduzione
della zona di rispetto tenendo conto degli elementi
ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento
di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici”.
Al riguardo è pur vero che l’orientamento maggioritario
della giurisprudenza amministrativa ritiene, in via di
principio, applicabile tale deroga solo per interventi di
interesse pubblico (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV,
13.12.2017, n. 5873), ma potrebbero tuttavia esistere anche
situazioni particolari e inidonee per interferire con le
esigenze di tutela cui la fascia di rispetto è preordinata;
situazioni che potrebbero quindi legittimare la deroga “una
tantum” anche in favore di interventi di edilizia privata.
Nel caso specifico potrebbero infatti assumere rilevanza non
solo l’insussistenza di problematiche igienico sanitarie, ma
anche la particolare conformazione dei luoghi che sembra
caratterizzata da forte pendenza forse incompatibile con
l’eventuale ampliamento del cimitero sul lato che qui
interessa.
Sotto quest’ultimo profilo i ricorrenti allegano
infatti che il loro edificio è ubicato ad una quota
inferiore, di circa 25 metri, alla quota altimetrica del
cimitero, nonostante si trovi ad una distanza planimetrica
di soli 60 metri (si tratterebbe, quindi, di una pendenza
superiore al 40%).
3. Il ricorso va pertanto conclusivamente respinto (TAR
Marche,
sentenza 19.02.2018 n. 125 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di tardiva adozione del provvedimento di
demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione
nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela
di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a
far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo)
è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare
un affidamento di carattere “legittimo” in capo al
proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto
amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa
giuridicamente qualificata.
Sicché, “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure
tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione
non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo
dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti
intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
Se dunque il decorso del tempo non può incidere
sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione,
deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di
demolizione di immobile abusivo (pur se tardivamente
adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata.
E’ dunque del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia
adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato
carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano
sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel
diverso ambito dell’autotutela decisoria.
---------------
1. I coniugi Pu.An. e Or.Ma., rappresentati e difesi
dall’avv. Ma.Gi., con atto del 04.02.2015, hanno proposto
ricorso straordinario per l’annullamento dell’ordinanza del
Comune di Misterbianco del 29.09.2014, n. 141, di
demolizione delle opere abusive indicate nelle premesse
della citata ordinanza nonché per l’annullamento di ogni
altro atto presupposto, connesso e consequenziale.
1.1. I ricorrenti premettono che i Vigili urbani del Comune
di Misterbianco nel verbale trasmesso il 25.11.2008
accertavano che gli stessi stavano realizzando, nell’ambito
di un proprio fabbricato, una struttura definita “precaria”
e consistente nell’accorpamento di una porzione di terrazza
a livello con preesistente vano deposito.
...
8. Nel merito, il ricorso è infondato.
...
10. La questione sollevata dai ricorrenti nel secondo
motivo di ricorso riguarda l’onere motivazionale che
grava in capo all’amministrazione in sede di adozione di
un’ingiunzione di demolizione e se in particolare, decorso
un considerevole lasso di tempo dalla realizzazione
dell’abuso, gravi in capo all’amministrazione un onere
motivazionale aggiuntivo, che non resti limitato al solo
richiamo alla normativa urbanistica violata e alla
conseguente necessità di ripristinare l’ordine giuridico
compromesso.
La questione è stata affrontata dall’adunanza plenaria del
Consiglio di Stato che con sentenza del 17/10/2017 n. 9 ha
statuito che nel caso di tardiva adozione del provvedimento
di demolizione, la mera inerzia da parte
dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere
finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse
pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che
(l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine
illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può
certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo”
in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di
un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare
un’aspettativa giuridicamente qualificata.
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato enuncia,
pertanto, il seguente principio di diritto: “Il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente,
la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente
ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di
pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione
dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe
neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione
intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione
dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi
dell’onere di ripristino”.
Se dunque il decorso del tempo non può incidere
sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione,
deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di
demolizione di immobile abusivo (pur se tardivamente
adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata.
E’ dunque del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia
adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato
carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano
sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel
diverso ambito dell’autotutela decisoria (in tal senso:
Cons. St., IV, 28.02.2017, n. 908).
In aderenza al superiore principio di diritto l’ordinanza di
demolizione non presenta i dedotti vizi di legittimità (C.G.A.R.S.,
SS.RR.,
parere 16.02.2018 n. 66 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non vi è alcuna disposizione di legge in forza
della quale la presentazione di una domanda di sanatoria,
ordinaria o straordinaria che sia, comporti l’inefficacia
del provvedimento sanzionatorio già emesso, in particolare
dell’ordine di demolizione, ma ne sospende l’esecutività,
precludendo all’Amministrazione di dare ulteriore corso al
procedimento, attraverso l’accertamento dell’inottemperanza
e l’acquisizione del bene al patrimonio comunale.
---------------
1. I coniugi Pu.An. e Or.Ma., rappresentati e difesi
dall’avv. Ma.Gi., con atto del 04.02.2015, hanno proposto
ricorso straordinario per l’annullamento dell’ordinanza del
Comune di Misterbianco del 29.09.2014, n. 141, di
demolizione delle opere abusive indicate nelle premesse
della citata ordinanza nonché per l’annullamento di ogni
altro atto presupposto, connesso e consequenziale.
1.1. I ricorrenti premettono che i Vigili urbani del Comune
di Misterbianco nel verbale trasmesso il 25.11.2008
accertavano che gli stessi stavano realizzando, nell’ambito
di un proprio fabbricato, una struttura definita “precaria”
e consistente nell’accorpamento di una porzione di terrazza
a livello con preesistente vano deposito.
...
8. Nel merito, il ricorso è infondato.
...
11. In ordine al terzo motivo di ricorso, con cui i
ricorrenti rilevano di avere presentato istanza ai sensi
dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 anche in relazione al
manufatto realizzato ex art. 20 l.r. n. 4/2003, premesso che
l’asserita sanabilità delle opere non esclude la legittimità
dell’ordinanza di demolizione attesa la sua natura
vincolata, va ribadito quanto già affermato nel parere
interlocutorio del 23.05.2017.
In tale parere il Consiglio ha statuito, riportandosi a
propria giurisprudenza, che non vi è alcuna disposizione di
legge in forza della quale la presentazione di una domanda
di sanatoria, ordinaria o straordinaria che sia, comporti
l’inefficacia del provvedimento sanzionatorio già emesso, in
particolare dell’ordine di demolizione, ma ne sospende
l’esecutività, precludendo all’Amministrazione di dare
ulteriore corso al procedimento, attraverso l’accertamento
dell’inottemperanza e l’acquisizione del bene al patrimonio
comunale (C.G.A, sez. riun., 13.06.2017, n. 803/2015) (C.G.A.R.S.,
SS.RR.,
parere 16.02.2018 n. 66 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Trasporto rifiuti: a quali condizioni è possibile usare
mezzi nuovi rispetto a quelli previsti nell’iscrizione
all’Albo Gestori?
In materia di gestione di rifiuti,
l'iscrizione all'Albo dei gestori ambientali (di cui
all’art. 212 del D.L.vo 152/2006) per le imprese che
effettuano trasporto di rifiuti abilita allo svolgimento
dell'attività soltanto con riferimento ai mezzi di trasporto
oggetto di specifica comunicazione, essendo necessario
accertare che i mezzi di trasporto siano idonei per la
tipologia di rifiuti oggetto dell'attività.
Secondo quanto stabilito dall’art. 18 del D.M. 140/2014,
infatti, nel caso di variazione dell’iscrizione per
incremento della dotazione dei veicoli, le imprese devono,
ai fini dell'immediata utilizzazione dei veicoli stessi,
allegare alla comunicazione di variazione una specifica
dichiarazione. Solamente in tal caso è, allora, consentito
l'immediato utilizzo dei nuovi veicoli prima che l'autorità
preposta deliberi sulla variazione.
Diversamente, in assenza di tale dichiarazione l’utilizzo di
un mezzo di trasporto diverso da quello comunicato in sede
di iscrizione, o di variazione, fa sì che l’attività risulti
esercitata in carenza dei requisiti e delle condizioni
richiesti per le iscrizioni o comunicazioni, integrando il
reato di cui all’art. 256, comma 4, del D.L.vo 152/2006.
Inoltre, lo specifico accertamento da compiersi ai fini
dell'iscrizione all'Albo dei gestori ambientali, con
riferimento all'idoneità dei mezzi al trasporto dei rifiuti,
vale a maggior ragione per i rimorchi, le cui
caratteristiche tecniche debbono essere valutate ai fini di
accertare che il trasporto possa svolgersi in condizioni di
sicurezza per l'ambiente
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.02.2018 n. 6739 - massima tratta da
www.tuttoambiente.it).
---------------
1. Il primo motivo del ricorso proposto dai signori
Ar. e Ri. è
infondato e l'impugnazione proposta sul punto deve pertanto
essere respinta.
L'art. 12, comma 3, d.m. 28.04.1998, n. 406 (Regolamento
recante norme di attuazione di direttive dell'Unione
europea, avente ad oggetto la disciplina dell'Albo nazionale
delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti),
vigente al momento dei fatti, prevedeva che nella domanda di
iscrizione all'Albo dei gestori ambientali, le imprese
intenzionate a svolgere attività di trasporto di rifiuti
allegassero, tra l'altro, copia autentica della carta di
circolazione dei mezzi di trasporto impiegati,
documentazione attestante la loro disponibilità da parte del
richiedente ed una perizia giurata, redatta da un
professionista iscritto all'albo (ingegnere, chimico o
medico igienista), attestante l'idoneità dei mezzi stessi in
relazione ai rifiuti da trasportare.
A norma del successivo art. 15, dopo l'iscrizione le imprese
avevano l'obbligo di comunicare alle sezioni regionali o
provinciali, entro trenta giorni, ogni variazione delle
specifiche tecniche inerenti l'iscrizione stessa, tra cui
certamente rientravano -per le imprese di trasporto rifiuti-
quelle relative ad eventuali nuovi mezzi di trasporto
utilizzati.
Sostituendo, con effetto dal 07.09.2014, il d.m. 406/1998,
il nuovo regolamento approvato con d.nn. 03.06.2014, n. 120
conferma sostanzialmente le previgenti statuizioni,
prevedendo, all'art. 15, comma 3, lett. a) e b), per le
imprese e gli enti che intendano effettuare attività di
raccolta e trasporto di rifiuti su strada, che la domanda di
iscrizione sia tra l'altro corredata da un'attestazione
-redatta non più da un professionista, ma dal responsabile
tecnico dell'impresa o dell'ente- circa l'idoneità dei mezzi
di trasporto in relazione ai tipi di rifiuti da trasportare
e della copia conforme all'originale della carta di
circolazione dei veicoli unitamente all'eventuale
documentazione che, in caso di intestatario della carta di
circolazione diverso dal richiedente l'iscrizione, attesti
la piena ed esclusiva disponibilità dei veicoli in capo a
quest'ultimo.
Il successivo art. 18 d.m. 140/2014 fissa alle imprese ed
agli enti il termine di trenta giorni per comunicare alla
sezione regionale o provinciale competente ogni atto o fatto
che comporti modifica dell'iscrizione all'Albo, specificando
che, nel . caso di variazione per incremento della dotazione
dei veicoli, le imprese, ai fini dell'immediata
utilizzazione dei veicoli stessi, alleghino alla
comunicazione di variazione una dichiarazione, sostitutiva
dell'atto di notorietà resa ai sensi del d.P.R. 28.12.2000,
n. 445, secondo il modello approvato con deliberazione del
Comitato nazionale.
Quest'ultima disposizione -non contemplata nel d.m.
406/1998- ha l'unico effetto di consentire l'immediato
utilizzo dei nuovi veicoli prima che l'autorità preposta
deliberi sulla variazione, precisando l'art. 18, comma 5,
d.m. 140/2014 che, altrimenti, prima della delibera, le
imprese continuano ad operare sulla base del provvedimento
d'iscrizione in loro possesso. Questa regola era già
esplicitata -senza eccezioni- nell'art. 15, comma 4, d.m.
406/1998, il quale prevedeva che «le iscrizioni restano
efficaci fino alla conclusione del procedimento di rinnovo».
Dalla disciplina regolamentare -vigente al momento dei fatti
e successivamente confermata- si ricava in modo chiaro,
pertanto, che l'iscrizione all'Albo dei gestori ambientali
per le imprese che effettuano trasporto di rifiuti abilita
allo svolgimento dell'attività soltanto con i mezzi di
trasporto oggetto di specifica comunicazione. La previsione,
del resto, non appare connotata da mero formalismo, essendo
necessario accertare che i mezzi di trasporto siano idonei
per la tipologia di rifiuti oggetto dell'attività.
Nel caso di impiego di un mezzo di trasporto diverso da
quello comunicato in sede di iscrizione o di variazione il
responsabile effettua dunque un'attività di gestione di
rifiuti in «carenza dei requisiti e delle condizioni
richiesti per le iscrizioni o comunicazioni» come
previsto dall'art. 256, comma 4, d.lgs. 152/2006, ipotesi di
reato che correttamente è stata ritenuta dal giudice di
merito derubricando l'originaria contestazione mossa ai
sensi del primo comma, lett. a), della stessa disposizione.
La sentenza impugnata, d'altronde, ha fatto applicazione di
un principio di diritto che era stato affermato con riguardo
all'analoga previsione di cui all'art. 51, comma 4, d.lgs.
05.02.1997, n. 22 (v. Sez. 3, n. 5342 del 19/12/2007,
Tanzarella e a., Rv. 238799).
Nessun dubbio, poi, che, ai fini della disciplina
richiamata, tra i mezzi di trasporto rientrino non soltanto
le motrici, ma anche i (semi)rimorchi. Per un verso, anche
questi sono classificati veicoli (v. art. 47, comma 1, lett.
i, cod. str.), definizione che appunto ricomprende «tutte
le macchine di qualsiasi specie, che circolano sulle strade
guidate dall'uomo» (art. 46 cod. str.); per altro verso,
lo specifico accertamento da compiersi ai fini
dell'iscrizione all'Albo dei gestori ambientali con
riferimento all'idoneità dei mezzi al trasporto dei rifiuti
vale a maggior ragione per i rimorchi, le cui
caratteristiche tecniche debbono essere appunto valutate ai
fini di accertare che il trasporto possa svolgersi in
condizioni di sicurezza per l'ambiente. Diversamente da
quanto si opina in ricorso, dunque, l'inosservanza è
tutt'altro che insignificante sul piano dell'offensività.
Del tutto inconferente, poi, è il richiamo fatto in ricorso
all'illecito, oggi depenalizzato, di cui all'art. 46, legge
06.06.1974, n. 298 (trasporti abusivi), riferito alla
violazione della disciplina relativa all'autotrasporto di
cose per conto di terzi, la quale ha oggettività giuridica
differente da quella che viene qui in rilievo con la
conseguenza che gli eventuali illeciti certamente
concorrono. |
APPALTI: Introduzione
di elementi valutativi di dettaglio dopo la visione delle
offerte tecniche.
Va censurata l’erronea condotta della
commissione di gara, la quale ha dapprima aperto i plichi
contenenti le offerte tecniche, prendendone visione del
contenuto e in seguito, senza neppure procedere alla
chiusura dei plichi, ha introdotto una serie di ulteriori
previsioni di dettaglio dei criteri di valutazione delle
stesse offerte tecniche indicati nella lettera di invito.
Tale modus procedendi, al di là della corretta
qualificazione dei criteri introdotti dalla commissione, si
pone comunque in contrasto con il principio della segretezza
delle offerte, posto che gli elementi valutativi di
dettaglio sono stati introdotti dopo che la commissione
aveva preso visione del contenuto integrale delle offerte
tecniche, senza che neppure risulti che i plichi siano stati
nuovamente sigillati in vista della prosecuzione
dell’attività della commissione;
Secondo pacifico insegnamento giurisprudenziale, perché sia
violato il principio della segretezza delle offerte non è
necessaria la dimostrazione dell’effettiva conoscenza delle
offerte da parte della commissione, ma è sufficiente
l’astratta conoscibilità delle stesse, quale effetto
dell’apertura delle relative buste e della potenziale
diffusione del loro contenuto
(massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.it)
---------------
2.1 In primo luogo, deve affermarsi l’esistenza
dell’interesse a ricorrere (ex art. 100 c.p.c., applicabile
in forza dell’art. 39 del c.p.a.), in capo alla società
esponente la quale, benché terza classificata, ha mosso una
serie di censure (si veda il motivo n. 1), volte ad ottenere
l’annullamento dell’intera procedura di gara, ai fini della
riedizione della medesima, sicché si configura senza dubbio
l’interesse a ricorrere nella forma dell’interesse
strumentale alla rinnovazione della procedura (cfr.
Consiglio di Stato, sez. V, 14.11.2017, n. 5246).
D’altronde, l’esponente ha anche censurato l’attribuzione
del punteggio tecnico da parte della commissione di gara,
rivendicando un punteggio maggiore che, se ottenuto, le
consentirebbe di essere prima in graduatoria, il che
conferma la sussistenza dell’interesse a ricorrere.
2.2 Nel merito il ricorso appare meritevole di accoglimento,
per la fondatezza del primo motivo, in cui si denuncia
l’erronea condotta della commissione di gara, la quale ha
dapprima aperto i plichi contenenti le offerte tecniche,
prendendone visione del contenuto e in seguito, senza
neppure procedere alla chiusura dei plichi, ha introdotto
una serie di ulteriori previsioni di dettaglio dei criteri
di valutazione delle stesse offerte tecniche, criteri
indicati nella lettera di invito (cfr. per il testo della
stessa, il doc. 12 della ricorrente).
Infatti, come risulta pacificamente per tabulas, in data
09.12.2016, la commissione ha aperto tutti i plichi delle
offerte tecniche ed ha verificato, per tutti i partecipanti,
il numero massimo di pagine del progetto tecnico previsto
dalla lettera di invito (venti facciate totali), la
suddivisione dei progetti tecnici in capitoli corrispondenti
ai criteri di valutazione (sempre come richiesto dalla lex
specialis, cfr. il doc. 12 della ricorrente, pag. 12), oltre
alla presenza di eventuali allegati ai citati progetti
tecnici (cfr. il doc. 5 della ricorrente, copia del verbale
n. 2 del 09.12.2016).
Nessun dubbio, quindi, che delle offerte tecniche sia stata
presa analitica visione in data 09.12.2016, mentre nel corso
della successiva seduta del 16.12.2016, la commissione ha
introdotto una serie di parametri di dettaglio per la
valutazione delle offerte (cfr. il doc. 7 della ricorrente,
copia del verbale n. 3 del 16.12.2016), parametri che a
detta della ricorrente hanno in ogni modo illegittimamente
modificato i criteri della legge di gara (circostanza,
questa, contestata decisamente dalla parte resistente).
Tale modus procedendi, al di là della corretta
qualificazione dei criteri introdotti dalla commissione, si
pone comunque in palese contrasto con il principio della
segretezza delle offerte, posto che gli elementi valutativi
di dettaglio sono stati introdotti dopo che la commissione
aveva preso visione, una settimana prima, del contenuto
integrale delle offerte tecniche, senza che neppure risulti
che i plichi siano stati nuovamente sigillati in vista della
prosecuzione dell’attività della commissione.
Sul punto preme evidenziare che, come noto, il principio di
segretezza delle offerte assume valenza centrale nella
disciplina dei contratti pubblici (essendo preposto alla
tutela dell’imparzialità nelle operazioni di gara e della
par condicio dei partecipanti), e che, secondo pacifico
insegnamento giurisprudenziale: <<Perché sia violato il
principio della segretezza delle offerte non è, infatti,
necessaria la dimostrazione dell’effettiva conoscenza delle
offerte da parte della nuova Commissione, ma è sufficiente
l’astratta conoscibilità delle stesse, quale effetto
dell’apertura delle relative buste e della potenziale
diffusione del loro contenuto>> (cfr. Consiglio di Stato,
sez. III, 24.11.2016, n. 4934 e TAR Puglia, Lecce, sez. II,
n. 1191/2017).
Nel caso di specie, dopo l’apertura dei plichi delle offerte
tecniche e l’integrale presa visione di queste ultime, la
commissione ha introdotto elementi valutativi di dettaglio,
fra l’altro non in un'unica occasione, ma in due distinte
sedute, dapprima in data 16.12.2016 e poi in data
21.12.2016, fra l’altro assegnando parte del punteggio
tecnico prima della seduta del 21.12.2016, quindi prima di
avere esplicitato tutti i parametri di dettaglio (cfr. i
documenti 7 e 9 della ricorrente), il che conferma
l’illegittimità dell’operato della commissione, considerato
che taluni parametri sono stati fissati non solo dopo la
presa visione delle offerte ma addirittura dopo la parziale
assegnazione del punteggio tecnico.
Ciò premesso, appare priva di pregio la tesi difensiva
secondo cui nella citata seduta del 09.12.2016 la
commissione si sarebbe limitata a prendere visione del
contenuto dei plichi senza effettuare alcuna valutazione,
giacché la semplice lettura del progetto tecnico –ai fini
del controllo del numero di pagine e della corretta
suddivisione in capitoli– già irrimediabilmente compromette
il principio di segretezza, viziando così l’intera procedura
di gara.
Il gravame in epigrafe deve quindi essere accolto, con
assorbimento di ogni altra doglianza e con conseguente
annullamento del provvedimento di aggiudicazione definitiva
e della relativa graduatoria (TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV,
sentenza 10.02.2018 n. 399
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Da
risarcire il danno per il ritiro dell'incarico dirigenziale.
Nel pubblico impiego privatizzato, l'atto di ritiro, equivalendo a revoca
del provvedimento di nomina, genera un inadempimento contrattuale
suscettibile, dinanzi al giudice ordinario, di produrre danno risarcibile.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza
02.02.2018 n. 2603.
La vicenda
Il ministero dei Beni culturali e paesaggistici aveva conferito l'incarico
di direttore generale con sottoscrizione del contratto individuale per la
durata di tre anni, ma a seguito del rifiuto della registrazione e del visto
da parte della Corte dei conti, ha proceduto al “ritiro” dell'atto di
conferimento in quanto non divenuto efficace.
Il ministero, tuttavia, a
pochi giorni di distanza dal contratto sciolto, ha indetto la selezione per
la copertura del posto dirigenziale vacante. Il Tribunale -e
successivamente la Corte di Appello- hanno considerato l'atto inefficace e
come tale, hanno giudicato legittimo il suo ritiro in coerenza con le
indicazioni dei giudici amministrativi.
Il dirigente ha impugnato la sentenza in Cassazione e ha evidenziato come la
sottoscrizione del contratto era di per se sola sufficiente a radicare il
rapporto di lavoro tanto che la Pa ha illegittimamente sciolto il contratto
mediante scelta unilaterale, non consentita dall'ordinamento in assenza
della dovuta partecipazione o consenso dell'interessato.
Le motivazioni della riforma della sentenza
Secondo la Cassazione, la Corte territoriale ha errato nel considerare il
provvedimento di nomina del dirigente inefficace, per mancanza del visto
della Corte dei conti e, come tale, scioglibile in via unilaterale dalla Pa.
A differenza, infatti, dell'ambito pubblicistico, il rapporto di lavoro
concluso con la Pa soggiace alle regole del diritto privato: si tratta di
atti negoziali cui sono collegate le sole norme di diritto privato.
In questo contesto, appare evidente che questi atti risultano esclusi da
procedimenti e atti amministrativi, con la conseguenza che agli stessi non
possono trovare applicazione ì principi e le regole proprie degli atti
pubblicistici della Pa e, in particolare, le disposizioni dettate dalla
legge 07.08.1990 n. 241.
Anche agli atti di conferimento di incarichi
dirigenziali, pertanto, devono trovare applicazione i principi di
imparzialità e di buon andamento, di cui all'articolo 97 della Costituzione,
dove la Pa è tenuta, fra l'altro, ad adottare adeguate forme di
partecipazione ai processi decisionali e a esternare le ragioni che
giustifichino le proprie scelte, sicché laddove questa regola non è stata
rispettata, è configurabile un inadempimento contrattuale della Pa,
suscettibile, dinanzi al giudice ordinario, di produrre danno risarcibile.
Nel caso di specie, pertanto, l'atto di conferimento dell'incarico
dirigenziale è stato assunto dalla Pa con i poteri del privato datore di
lavoro con la conseguenza che:
a) la Pa ha illegittimamente proceduto a dare esecuzione al
contratto prima della registrazione della Corte dei conti, assumendosi
quindi ogni responsabilità inerente e conseguente alla eventuale mancata
registrazione;
b) con la sottoscrizione del contratto di lavoro la Pa ha creato
una situazione idonea a ingenerare nel dirigente nominato il connesso
legittimo affidamento sulla prosecuzione del rapporto, essendo a esclusivo
carico della Pa l'onere di non mettere in esecuzione i provvedimenti
soggetti al controllo preventivo della Corte dei conti fino alla conclusione
del procedimento di controllo;
c) la Pa ha interrotto il rapporto di lavoro con il dirigente senza
l'obbligatoria partecipazione dello stesso alle decisioni prese in via
unilaterale, con ciò violando le regole dei principi di imparzialità e di
buon andamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
14.03.2018).
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MASSIMA
2. I tre motivi di ricorso -da esaminare insieme data la loro intima
connessione- sono
da accogliere, per le ragioni e nei limiti di seguito esposti, precisandosi,
con riferimento al terzo
motivo, che nella specie, ratione temporis, è applicabile l'art. 360, n. 5,
cod. proc. civ., nel
testo antecedente la sostituzione ad opera dell'art. 54 del decreto-legge 22.06.2012, n.
83, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 134.
3. Deve essere, in primo luogo, precisato che:
a) in ambito pubblicistico, è suscettibile di "mero ritiro" un atto
amministrativo che, per
sua natura, sia destinato ad essere superato dall'emanazione dell'atto
conclusivo del
procedimento, a differenza della revoca di un atto amministrativo, la quale
ha effetti durevoli
ed essendo idonea ad ingenerare il connesso legittimo affidamento,
presuppone, per legge,
l'instaurazione del contraddittorio procedimentale e la motivazione del
provvedimento stesso,
ai sensi dell'art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990 (vedi, per
tutte: Cons. Stato, Sez.
III, sent. 07.07.2017, n. 3359; TAR Lazio Roma, Sez. H-ter, sent. 21.06.2017, n. 7206);
b) d'altra parte, è pacifico che "il visto della Corte dei Conti non è un
elemento costitutivo
del provvedimento amministrativo, ma è un atto autonomo che produce
l'effetto di rendere
efficace il provvedimento il quale, fino alla conclusione del procedimento
di controllo, non può
essere posto in esecuzione", sicché che "l'eventuale esecuzione di un atto
prima della
registrazione comporta l'assunzione di ogni responsabilità inerente e
conseguente alla
eventuale mancata registrazione" (ex plurimis: Cass. SU 24.10.1990, n.
10323; Cass. SU
18.07.1980, n. 4690; Cass. 08.07.2005, n. 14362; Corte dei conti,
delibera n. 10/2009/P
del 19.06.2009, pronunciata nell'Adunanza del 21.05.2009).
4.- È jus receptum che, nel pubblico impiego contrattualizzato:
a) gli atti e procedimenti posti in essere dall'Amministrazione ai fini
della gestione dei
rapporti di lavoro subordinati dei dipendenti devono essere valutati secondo
gli stessi
parametri che si utilizzano per i privati datori di lavoro, in base ad una
precisa scelta legislativa
(nel senso dell'adozione di moduli privatistici dell'azione amministrativa)
che la Corte
costituzionale ha ritenuto conforme al principio di buon andamento
dell'Amministrazione di cui
all'art. 97 Cost. (sentenze n. 275 del 2001 e n. 11 del 2002), sicché,
esclusa la presenza di
procedimenti e atti amministrativi, non possono trovare applicazione ì
principi e le regole
proprie di questi e, in particolare, le disposizioni dettate dalla legge 07.08.1990, n. 241
(vedi, per tutte: Cass. SU 14.10.2009, n. 21744; Cass. 18.02.2005, n. 3360; Cass.
24.10.2008, n. 25761);
b) pure gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali -come quello di
cui qui si discute-
rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte dall'Amministrazione
con la capacità e i
poteri del privato datore di lavoro;
c) in tale ambito le norme contenute nell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del
2001, obbligano
l'Amministrazione datrice di lavoro al rispetto dei criteri di massima in
esse indicati, anche per
il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede di cui agli
artt. 1175 e 1375 cod.
civ., applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon
andamento di cui all'art. 97
Cost., restando la scelta rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro
(sia pure con il vincolo
del rispetto di determinati elementi sui quali la selezione deve fondarsi),
al quale non può sostituirsi il giudice, salvo che non si tratti di attività
vincolata e non discrezionale (Cass. 23.09.2013, n. 21700 e Cass. 30.09.2009, n. 20979);
d) ne deriva che, in base agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., applicabili alla
stregua dei
principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all'art. 97 Cost., la PA è tenuta -fra l'altro- ad adottare adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad
esternare le ragioni
giustificatrici delle proprie scelte, sicché laddove tale regola non è
rispettata, è configurabile un
inadempimento contrattuale della PA, suscettibile, dinanzi al giudice
ordinario, di produrre
danno risarcibile (Cass. SU 23.09.2013, n. 21671; Cass. 14.04.2008, n. 9814; Cass.
12.10.2010, n. 21088);
e) poiché gli atti inerenti al conferimento degli incarichi dirigenziali
sono da ascrivere alla
categoria degli atti negoziali (e non a quella degli atti amministrativi in
senso proprio), ad essi
si applicano le norme del codice civile in tema di esercizio dei poteri del
privato datore di
lavoro, con la conseguenza che le situazioni soggettive del dipendente
interessato possono
definirsi in termini di "interessi legittimi", ma di diritto privato, come
tali, pur sempre rientranti
nella categoria dei diritti di cui all'art. 2907 cod. civ. e quindi
suscettibili di tutela anche in
forma risarcitoria, non potendo, di regola, aversi un intervento sostitutivo
del giudice ordinario,
salvo i casi di attività vincolata e non discrezionale (vedi, fra le altre:
Cass. 24.09.2015,
n. 18972; Cass. 14.04.2015, n. 7495; Cass. 22.06.2007, n. 14624;
Cass. 22.12.2004, n. 23760; Cass. SU 19.10.1998, n. 10370).
5. Nella presente fattispecie il MIBAC, dopo aver dato esecuzione al
contratto concluso
con lo Za., consentendone la presa di possesso ancor prima di aver
ottenuto il visto della
Corte dei conti, ha, con nota del 10.07.2008, rimosso l'interessato
dall'incarico stesso,
limitandosi a richiamare la Circolare della Presidenza del Consiglio dei
Ministri n. 142/59222 del
25.01.2008, contenente i criteri da applicare da parte delle Pubbliche
Amministrazioni per
l'attribuzione di incarichi nel periodo di crisi, ma senza offrire alcuna
spiegazione in merito alla
scelta di revocare l'incarico così bruscamente senza neppure effettuare gli
approfondimenti
richiesti dalla Corte dei conti, offrendo così giustificazioni rispetto ai
profili di illegittimità
prospettati in sede di controllo preventivo di contabilità (Cass. SU 13.01.1994, n. 9386;
Cons. Stato, 27.10.2005, n. 6031).
6. Ne consegue che -qualunque sia, nell'ambito del diritto amministrativo,
la formale
qualificazione attribuibile alla suindicata nota di anticipata rimozione
dall'incarico- quel che è
certo è che:
a) la PA non solo ha illegittimamente proceduto a dare esecuzione al
suddetto contratto
prima della registrazione della Corte dei conti, assumendosi quindi ogni
responsabilità inerente
e conseguente alla eventuale mancata registrazione, come si è detto;
b) in tal modo la PA ha creato una situazione idonea ad ingenerare nello
Zampino il
connesso legittimo affidamento sulla prosecuzione del rapporto, essendo ad
esclusivo carico
della PA l'onere di non mettere in esecuzione i provvedimenti soggetti al
controllo preventivo
della Corte dei conti fino alla conclusione del procedimento di controllo;
c) senza che ne ricorressero le ragioni ai sensi della relativa disciplina
(art. 19 d.lgs. n.
165 del 2001 e normativa collegata) il MIBAC ha poi bruscamente interrotto
tale esecuzione
con un atto ad effetti durevoli, che non poteva che essere adottato con
adeguate forme di
partecipazione al relativo processo decisionale e con l'esternazione delle
ragioni giustificatrici
nei suindicati termini, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 cod. civ.,
applicabili alla stregua dei
principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all'art. 97 Cost.
7. Da tali osservazioni si desume che, diversamente da quanto si afferma
nella sentenza
impugnata, l'avvenuto inizio dell'esecuzione del contratto de quo prima
della conclusione del
procedimento di controllo, unitamente alla mancanza di una -necessaria-
chiara ed esplicita
esternazione delle ragioni giustificatrici poste a base della nota del 10
luglio 2008,
costituiscono violazioni dei criteri di cui agli artt. 1175 e 1375 cod.
civ., applicabili nei rapporti
di pubblico impiego contrattualizzato alla stregua dei principi di
imparzialità e di buon
andamento, di cui all'art. 97 Cost., e sono pertanto suscettibili, dinanzi
al giudice ordinario, di
produrre danno risarcibile per inadempimento contrattuale della PA.
8. A ciò va aggiunto, sempre nell'ottica privatistica propria del presente
giudizio, che non
vi è alcuno spazio per ipotizzare una motivazione "per relationem" della
nota anzidetta -secondo quanto, invece, si afferma nella parte finale della sentenza qui
impugnata- per tutte
la anzidette ragioni.
D'altra parte, va anche rilevato che la Corte territoriale, pur considerando
la nota
suddetta (implicitamente) giustificata dal rispetto delle misure assunzionali anti-crisi disposte
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, tuttavia si limita a riferire -senza alcun
approfondimento al riguardo- che solo quattro giorni dopo la suddetta nota,
con circolare del
14.07.2008, n. 745, venne disposto dal MIBAC che, a decorrere dall'01.09.2008,
l'incarico dirigenziale in oggetto sarebbe stato messo a concorso, previa
nomina ad interim di
altro funzionario.
Non risultano, pertanto, chiarite da parte della Corte territoriale, le
ragioni per le quali in
così poco tempo la PA abbia considerato sussistenti (con riferimento ad un
persona diversa
dallo Za.) le condizioni per rispettare le misure anti-crisi in oggetto,
quando poco prima lo
stesso MIBAC aveva ritenuto di non dare alcuna risposta sul punto alla Corte
dei conti (con
riguardo allo Za.).
Per come si è svolta la presente vicenda, sarebbe stato senz'altro
significativo avere
chiarimenti a tale ultimo riguardo al fine di una migliore ricostruzione del
complessivo
comportamento del MIBAC alla luce dei canoni costituzionali di imparzialità
e buon andamento
dell'amministrazione (art. 97 Cost.) e quindi degli artt. 1175 e 1375 cod.
civ.
IV - Conclusioni
8. In sintesi, il ricorso deve essere accolto, per le ragioni e nei limiti
dianzi indicati e con
assorbimento di ogni altro profilo di censura.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le
spese del
presente giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Salerno, in diversa
composizione, la
quale si atterrà, nell'ulteriore esame del merito della controversia, a
tutti i principi su affermati
e, quindi, anche al seguente:
"nell'ambito dell'impiego pubblico contrattualizzato, per gli atti di
conferimento di
incarichi dirigenziali -che rivestono la natura di determinazioni negoziali
assunte
dall'Amministrazione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro- in base agli artt.
1175 e 1375 cod. civ., applicabili alla stregua dei principi di imparzialità
e di buon andamento,
di cui all'art. 97 Cost., la PA è tenuta -fra l'altro- ad adottare
adeguate forme di
partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni
giustificatrici delle proprie scelte,
sicché laddove tale regola non venga rispettata, è configurabile un
inadempimento contrattuale
della PA, suscettibile, dinanzi al giudice ordinario, di produrre danno
risarcibile.
Ne consegue
che se, illegittimamente, una Pubblica Amministrazione da esecuzione al
contratto individuale
di lavoro di un dirigente prima della registrazione del decreto di
conferimento dell'incarico stesso da parte della Corte dei conti, si assume
ogni responsabilità inerente e conseguente alla
eventuale mancata registrazione.
Pertanto, secondo le suddette disposizioni,
qualora la PA
decida di procedere alla brusca revoca del suddetto incarico dirigenziale,
anziché controdedurre
ai rilievi formulati dalla Corte dei conti in sede di controllo preventivo,
deve farlo mettendo
l'interessato in condizione di intervenire nel relativo procedimento
decisionale e di conoscere
adeguatamente le ragioni poste a base della scelta operata.
Tale scelta,
infatti, con effetti
durevoli, risulta violativa del legittimo affidamento del destinatario
dell'atto revocato sulla
prosecuzione del rapporto, ingenerato dalla stessa PA, essendo ad esclusivo
carico della PA
l'onere di non mettere in esecuzione i provvedimenti soggetti al controllo
preventivo della
Corte dei conti fino alla conclusione del procedimento di controllo". |
APPALTI: Impugnativa
dell’esito della gara da parte di concorrente legittimamente
escluso.
E'
inammissibile, per difetto di legittimazione, l’impugnativa
dell’impresa che sia stata legittimamente esclusa dalla
gara, dato che tale soggetto, per effetto dell’esclusione,
rimane privo non soltanto del titolo a partecipare alla
gara, ma anche a contestare gli esiti e la legittimità della
scansioni procedimentali, dovendo il suo interesse protetto
essere qualificato quale interesse di “mero fatto”, non
dissimile da quello di qualsiasi operatore del settore che,
non avendo partecipato alla gara, non ha titolo ad
impugnarne gli atti
(massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.it)
---------------
2. Ne consegue che anche le ulteriori censure non possono trovare
accoglimento, per le ragioni che di seguito si espongono.
2.1. Innanzitutto, la prospettazione di parte appellante
presuppone un inammissibile rovesciamento dell’ordine di
trattazione dei motivi di censura come dedotti in primo
grado, in forza del quale si pretende di anteporre alle
altre censure, la doglianza preordinata all’annullamento
dell’intera procedura di gara (e riferita in particolare
alla composizione della Commissione), che nel ricorso di
primo grado era invece posposta e subordinata rispetto alle
censure riferite al provvedimento di esclusione.
2.2. Tale intendimento si pone in contrasto con il principio
che fa obbligo al Giudice di rispettare l’ordine di
graduazione dei motivi di gravame individuato dalla stessa
parte ricorrente (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 5/2015).
2.3. Attenendosi a tale canone procedurale, del tutto
correttamente il Giudice di prime cure ha esaminato e
delibato, in via prioritaria, il primo motivo di censura
prospettato dalla Ho.Se. S.r.l. (come integrato
con la proposizione dei motivi aggiunti), riguardante
l’asserita illegittima esclusione della predetta società
dalla gara per mancato raggiungimento della soglia di
sbarramento, posponendo ad esso le censure formulate contro
l’ammissione dell’aggiudicataria e della seconda graduata,
nonché quelle volte a comportare l’intera caducazione della
procedura di gara.
2.4. D’altra parte, ponendosi l’esclusione come causa della
perdita della legittimazione ad agire in giudizio, una
ragione di ordine logico impone come prioritaria la
contestazione dell’atto di esclusione, solo da essa potendo
il ricorrente conseguire quel titolo giuridico di
legittimazione all’azione (derivante da una valida
partecipazione alla gara), in difetto del quale ogni altra
doglianza non potrebbe essere avanzata.
2.5. La giurisprudenza è infatti ferma nel ritenere che, nel
caso in cui l'amministrazione abbia escluso dalla gara il
concorrente, questi non abbia la legittimazione ad impugnare
gli atti di gara, a meno che non ottenga una pronuncia di
accertamento della illegittimità dell'esclusione (cfr. Cons.
Stato, Ad. Plen. n. 4/2011).
2.6. Similmente, anche l'interesse strumentale alla
caducazione e riedizione della gara può assumere rilievo
solo dopo il positivo riscontro della legittimazione al
ricorso (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 4/2011).
3. Va peraltro respinta la tesi secondo la quale, essendo la
Ho.Se. S.r.l., al momento della nomina della
Commissione di gara, un legittimo concorrente all’incanto,
per ciò stesso essa può vantare la titolarità della
legittimazione e dell’interesse, anche strumentale, ad agire
in giudizio.
3.1. In dissenso da tale argomentazione e in aggiunta a
quanto già esposto, occorre innanzitutto osservare che la
legittimazione al ricorso va valutata all’atto della
proposizione dell’azione, e a quell’epoca l’esclusione della
ricorrente dalla gara era già intervenuta.
3.2. In secondo luogo, deve ribadirsi che nelle controversie
riguardanti l’affidamento dei contratti pubblici, è carente
di legittimazione ad agire il soggetto che non abbia mai
partecipato alla gara, o che vi abbia partecipato ma che ne
sia stato correttamente escluso (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen.
n. 9/2014).
3.3. Ciò posto, per poter delibare la carenza di
legittimazione, rileva ogni forma di estromissione dalla
gara, anche se disposta in fasi successive all’atto iniziale
di ammissione, ma comunque deputate (anche solo in senso
logico) all'accertamento della regolare partecipazione del
concorrente, anche sotto il profilo dei requisiti oggettivi
dell’offerta (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 9/2014).
3.4. Sulla base di tale impostazione è stata esclusa la
legittimazione ad agire di imprese escluse per inidoneità
della offerta tecnica (Cons. Stato, sez. IV, n. 57/1986,
richiamata da Cons. Stato, Ad. Plen. n. 4/2011), ipotesi
alla quale può essere equiparata quella dell’impresa esclusa
per mancato superamento della soglia di punteggio minimo
attribuibile all’offerta tecnica medesima (cfr., in termini,
Cons. Stato, 2852/2017).
3.5. Non vi è dunque margine, sotto questo aspetto, per
differenziare tra le cause di esclusione, e in particolare
tra quelle derivanti da carenze delle condizioni soggettive
e quelle originate da altre cause -quali le carenze
oggettive dell'offerta- poiché anche nel caso in cui l'atto
di ammissione alla gara sia viziato per ragioni oggettive,
riguardanti l'offerta in sé considerata, resta fermo il
difetto di legittimazione del ricorrente principale (Cons.
Stato, Ad. Plen. n. 4/2011).
3.6. Solo a valle della verifica sui titoli di
partecipazione alla gara -così complessivamente intesi- si
collocano quelle ulteriori valutazioni (finalizzate alla
attribuzione di punteggi piuttosto che alla verifica
dell’anomalia) che non incidono sulla legittimazione ad
agire, in quanto presuppongono il superamento di ogni
questione inerente la regolare presenza dell'impresa (o
della sua offerta) nella gara (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen.
n. 9/2014).
3.7. Tornando ai rilievi svolti dalla parte appellante,
occorre dunque ribadire che la sua mera partecipazione “di
fatto” alla gara -derivante da una iniziale ammissione poi
superata da un provvedimento di esclusione- non è
sufficiente ad attribuirle la legittimazione al ricorso,
atteso che detta situazione legittimante deriva da una
qualificazione di carattere normativo che postula il
positivo esito del sindacato della ritualità dell’ammissione
del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
3.8. Ne consegue che è inammissibile, per difetto di
legittimazione, l’impugnativa dell’impresa, quale è
l’appellante, che sia stata legittimamente esclusa dalla
gara, dato che tale soggetto, per effetto dell’esclusione,
rimane privo non soltanto del titolo a partecipare alla
gara, ma anche a contestare gli esiti e la legittimità della
scansioni procedimentali, dovendo il suo interesse protetto
essere qualificato quale interesse di “mero fatto”, non
dissimile da quello di qualsiasi operatore del settore che,
non avendo partecipato alla gara, non ha titolo ad
impugnarne gli atti (cfr., in particolare, Cons. Stato, sez. IV, n. 4180/2016; n. 3688/2016 e n. 1560/2016).
4. Per quanto esposto, deve ritenersi che la sentenza
appellata meriti conferma e che debbano essere respinti, per
le ragioni illustrate, tutti i motivi di impugnazione
dedotti in appello (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 26.01.2018 n. 570
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Avendo il ricorrente prestato acquiescenza al
provvedimento presupposto, secondo quanto si desume dalla
circostanza che è stata abbandonata la coltivazione del
ricorso giurisdizionale presupposto, avverso il diniego di
condono, il ricorso straordinario nei confronti del
provvedimento consequenziale, si palesa inammissibile.
---------------
Con il ricorso straordinario sopra indicato, il sig. Ro.Gu.
ha chiesto l’annullamento, previa sospensione,
dell’ordinanza di cui in epigrafe, di ingiunzione a demolire
un corpo di fabbrica ad elevazione f.t. in struttura
metallica e copertura in eternit, della superficie di mq.
280, destinato a magazzino, sito alla via ... n. 38/A di
quel Comune, in quanto costruito dopo il 09.05.1987, come
risulta dai rilievi aero-fotografici agli atti.
Il ricorrente premette in fatto di aver avanzato richiesta
di condono edilizio rispetto a due delle strutture del corpo
di fabbrica, rispettivamente di mq. 190 circa e mq. 280
circa.
Con ordinanza sindacale del 09.03.1994 n. 92, avverso la
quale ha proposto ricorso al Tar di Palermo, veniva disposto
il diniego parziale di sanatoria per il solo vano di piano
terra, in struttura metallica, destinato a magazzino.
...
Il ricorso in esame è da considerarsi ricevibile.
Essendo stata impugnata in sede giurisdizionale -avanti il
TAR Palermo, con ricorso del 05.05.1994, notificato il
06.05.1994- l’ordinanza sindacale di diniego parziale della
sanatoria, che costituisce l’atto presupposto del
provvedimento impugnato oggi in sede straordinaria, questo
Consesso ha ritenuto opportuno sospendere l’emissione del
richiesto parere, in attesa di notizie in ordine al ricorso
proposto davanti al Tar Palermo (parere n. 1093/1998 reso
nell’adunanza del 10.04.2000).
L’Ufficio legislativo e legale della Presidenza regionale ha
riferito che il ricorso giurisdizionale presupposto è stato
dichiarato perento con decreto n. 5164/2010.
Per l’effetto nessun interesse residua, in capo al
ricorrente, in ordine al presente gravame.
Invero, avendo sostanzialmente, il ricorrente, prestato
acquiescenza al provvedimento presupposto, secondo quanto si
desume dalla circostanza che è stata abbandonata la
coltivazione del ricorso giurisdizionale presupposto,
avverso il diniego di condono, il ricorso straordinario nei
confronti del provvedimento consequenziale, si palesa
inammissibile.
L’unico motivo autonomo di censura che residua, e cioè la
mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento
repressivo, non coglie nel segno, posto che secondo la
consolidata giurisprudenza non è necessario dare l’avviso di
avvio del procedimento che sfocia nell’adozione dell’ordine
di demolizione.
Peraltro, la conoscenza del diniego di sanatoria, ha
comunque consentito al ricorrente di acquisire conoscenza
della volontà sanzionatoria dell’Ente resistente (C.G.A.R.S.,
SS.RR.,
parere 25.01.2018 n. 24 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Violazione dei limiti: è necessaria la misurazione del
rumore di fondo?
In materia di inquinamento acustico ed
in applicazione del criterio differenziale tra rumore
ambientale e rumore residuo, in assenza di una misurazione
del rumore di fondo, effettuata nella fascia oraria nella
quale si lamenta la violazione dei limiti differenziali (di
cui ai DM 01.03.2001 e 14.11.1997), la prova dell’evento
dannoso non può considerarsi raggiunta, e non possono,
quindi, dirsi violati né i limiti legali assoluti, né quelli
differenziali
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 17.01.2018 n. 1025 - massima tratta da
www.tuttoambiente.it).
---------------
Il ricorso, pur
ammissibile, dovendosi rigettare la generica eccezione di
inammissibilità, va rigettato.
Come dedotto, la sentenza ha rigettato le domande
accogliendo la censura sull'impossibilità di misurare
contemporaneamente rumore ambientale e rumore di fondo ed,
in assenza di una misurazione del rumore di fondo, la prova
dell'evento dannoso non poteva dirsi raggiunta.
La sentenza, invero, riporta la motivazione del primo
giudice che, sulla base dell'esperita consulenza di ufficio,
ha sancito un effettivo superamento del limite di cui al
D.M. 01.03.1991, posto che, applicando il criterio
differenziale tra rumore ambientale e rumore residuo,
l'attività svolta dalla convenuta, era risultata
incompatibile con i limiti di cui alla predetta normativa.
Riferisce del gravame sulla contestazione della ctu,
considerate tardive dagli appellati, ma ritiene di
accogliere la censura sulla scorta di valutazioni tecniche.
Va precisato che è consentito al giudice,
peritus peritorum, dissentire motivatamente dalle
conclusioni del ctu, e nella specie si è argomentato che non
sia possibile prendere, a base della misurazione relativa
all'eventuale superamento dei limiti differenziali, un
valore del rumore misurato 32 minuti prima dell'inizio e 92
minuti prima della fine del periodo considerato.
Se durante altri periodi della giornata può supporsi che il
rumore di fondo rimanga relativamente costante, ciò
contrasta anche con la comune esperienza per quello che
riguarda l'orario tra le 5 e le 7 a.m., fascia durante la
quale riprende la maggior parte delle attività umane dopo la
pausa notturna né il valore assoluto delle immissioni sonore
sarebbe così elevato da rendere palese il superamento del
limite differenziale, posto che nei nove minuti intercorsi
tra la misurazione delle 4.52 e quella delle 5.01, il valore
di Leq del rumore ambientale aumenta di ben 7,60 punti e non
appare implausibile che nella successiva mezz'ora sia
aumentato di quegli ulteriori 4 punti che renderebbero del
tutto lecite le immissioni sonore della BL Color e si è
concluso che, in assenza di una misurazione
del rumore di fondo effettuata nella fascia oraria nella
quale si lamentava la violazione dei limiti differenziali,
la prova dell'evento dannoso non poteva dirsi raggiunta e
che non fossero stati violati i limiti legali assoluti né
quelli differenziali.
Trattasi di valutazione di fatto insindacabile, essendosi
spiegato perché le conclusioni del ctu non apparivano
attendibili e l'inutilità di disporre la rinnovazione della
ctu a causa del mutamento dei luoghi (pagina otto) per cui
era da escludere, in virtù dei poteri discrezionali
riconosciuti al giudice, un supplemento di indagine.
Le censure, pertanto, non sono risolutive, essendosi
motivatamente dissentito dalle conclusioni del ctu. |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Rifiuti provenienti da lavori di
ristrutturazione costituiti da asfalto e roccia da scavo -
Illecita gestione e concorso nel reato - Responsabilità
anche chi ha messo a disposizione il luogo in cui i rifiuti
sono scaricati - Unitarietà del fatto collettivo -
Contributo causale imprescindibile - Art. 256, cc. 1 e 2
d.lgs. n. 152/2006.
Anche in materia di rifiuti, affinché si configuri il
concorso nel reato è sufficiente rilevare l'unitarietà del
fatto collettivo realizzato (nella specie, in violazione del
precetto di cui all'art. 256 d.lgs. 152/2006 in concorso con
gli altri coimputati, concretizzatasi in un contributo
causale imprescindibile alla realizzazione del fatto
delittuoso finale, tale essendosi rivelata nell'economia
dell'intera operazione la messa a disposizione del luogo in
cui i rifiuti sono stati scaricati, legittimamente
iscrivibile nello schema di cui agli artt. 110 ss c.p.)
(fattispecie: trasporto ed abbandono abusivo all'interno di
una cava dismessa di rifiuti provenienti da lavori di
ristrutturazione costituiti da asfalto e roccia da scavo in
concorso, quale figlio della proprietaria della cava ed
esecutore dei lavori di messa in sicurezza delle scarpate,
con il conducente dell'autocarro adibito al trasporto ed il
proprietario di quest'ultimo, nonché titolare dell'omonima
ditta) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.01.2018 n. 1570
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Appaltatore o committente: chi è il produttore dei rifiuti?
Nel caso di un’attività di gestione di
rifiuti prodotti nell’ambito di un contratto di appalto, è
sempre l’appaltatore il titolare degli gli obblighi connessi
al corretto smaltimento degli stessi, sicché sarà lui a
rispondere dell’eventuale gestione non autorizzata di tali
rifiuti, di cui all’art. 256 del D.L.vo 152/2006.
Questo in quanto è l’appaltatore, che provvede al compimento
dell’opera o alla prestazione del servizio, al quale è
vincolato, organizzando i mezzi necessari e gestendo
l’intera attività a proprio rischio, il produttore dei
rifiuti derivanti dallo svolgimento della sua prestazione
contrattuale.
Tuttavia, nel caso in cui vi sia ingerenza, o controllo
diretto dei lavori, da parte del committente, i relativi
obblighi connessi alla gestione di tali rifiuti si estendono
anche a suo carico (nel caso di specie, l’assenza di un tale
diretto coinvolgimento da parte del committente nella
esecuzione delle opere appaltate ha condotto all’esclusione
della sua responsabilità)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.01.2018 n. 223 - massima tratta da
www.tuttoambiente.it).
---------------
Tanto premesso osserva il Collegio, quanto alla posizione
della Si., che il Tribunale di Locri ha argomentato la
responsabilità della medesima sulla sola base della qualità
di committente dei lavori edili in corso di esecuzione dal
parte del Ti. ed all'esito dei quali sono stati prodotti i
rifiuti che lo stesso stava trasportando al momento in cui è
stato sorpreso dagli agenti del Corpo forestale dello Stato;
posizione soggettiva, quella di committente dei lavori e,
pertanto, appaltante degli stessi, da cui il Tribunale ha
fatto discendere in termini di immediato automatismo, la
attribuzione della qualifica di soggetto produttore dei
rifiuti.
Siffatta ricostruzione è, però, palesemente in contrasto con
i consolidati orientamenti giurisprudenziali della Corte;
come è stato, infatti, in più circostanze da questa Corte
affermato e ribadito, in ipotesi di
esecuzione di lavori attraverso un contratto di appalto, è
l'appaltatore che -per la natura del rapporto contrattuale
da lui stipulato ed attraverso il quale egli è vincolato al
compimento di un'opera o alla prestazione di un servizio,
con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio
rischio dell'intera attività- riveste generalmente la
qualità di produttore del rifiuto; da ciò ne deriva che
gravano su di lui, ed in linea di principio esclusivamente
su dì lui, gli obblighi connessi al corretto smaltimento dei
rifiuti rivenienti dallo svolgimento della sua prestazione
contrattuale, salvo il caso in cui, per ingerenza o
controllo diretto del committente sullo svolgimento dei
lavori, i relativi obblighi si estendano anche a carico di
tale soggetto
(Corte di cassazione, Sezione III penale, 16.03.2015, n.
11029). |
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