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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di APRILE 2018

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aggiornamento al 27.04.2018

aggiornamento al 09.04.2018

aggiornamento al 03.04.2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 27.04.2018 (ore 23,59)

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Incentivo funzioni tecniche:
 non è (più) soggetto al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017 (ma con decorrenza dal 1° gennaio 2018, non prima!).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
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Sul piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici proprio in quanto vengono prescritte allocazioni contabili che possono apparire non compatibili con la natura delle spese da sostenere.

La ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure.
L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale.

Sulla questione è anche rilevante considerare che
la norma contiene un sistema di vincoli compiuto per l’erogazione degli incentivi che, infatti, sono soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente).
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Per l’erogazione degli incentivi l’ente deve munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo
e la sede idonea per circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi possono essere erogate.
Il comma 3 dell’art. 113 citato, infatti, fa obbligo all'amministrazione aggiudicatrice, di stabilire “i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi o dei costi”. Una condizione, dunque, che collega necessariamente l’erogazione dell’incentivo al completamento dell’opera o all’esecuzione della fornitura o del servizio oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi prestabiliti.
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L’allocazione in bilancio degli incentivi tecnici stabilita dal legislatore ha l’effetto di conformare in modo sostanziale la natura giuridica di tale posta, in quanto finalizzata a considerare globalmente la spesa complessiva per lavori, servizi o forniture, ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche le risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici.
Questi ultimi risultano previsti da una disposizione di legge speciale (l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016), valevole per i dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche, a differenza degli emolumenti accessori aventi fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto.

In altre parole,
con un intervento volto a tipizzare espressamente l’allocazione in bilancio degli incentivi per le funzioni tecniche, si deve ritenere che il legislatore (che, in tal modo, ha reso “ordinamentale” il disposto di cui all’art. 113 citato) abbia voluto dare maggiore risalto alla finalizzazione economica degli interventi cui accedono tali risorse, nonostante i possibili dubbi che ne potrebbero conseguire sul piano della gestione contabile.
Pur permanendo l’esigenza di chiarire le specifiche modalità operative di contabilizzazione,
la novella impone che l'impegno di spesa, ove si tratti di opere, vada assunto nel titolo II della spesa, mentre, nel caso di servizi e forniture, deve essere iscritto nel titolo I, ma con qualificazione coerente con quella del tipo di appalti di riferimento.
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PREMESSO
1. Il Sindaco del Comune di San Giovanni Rotondo (FG), dopo aver richiamato integralmente il tenore letterale dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016 in tema di incentivi per funzioni tecniche, ha evidenziato che l’art. 1, comma 526, della legge 27.12.2017, n. 205 (“Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020”) ha integrato la predetta norma con l’art. 5-bis, disponendo che tali incentivi “fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
Pertanto, ha richiesto un parere alla Sezione regionale di controllo per la Puglia al fine di pervenire alla corretta interpretazione della novella normativa, ritenendo che i predetti incentivi non possano ritenersi inclusi tra le risorse destinate al trattamento accessorio e quindi debbano essere esclusi dalla voce di spesa del personale per essere allocati al titolo II nell’ambito delle spese di investimento.
La Sezione pugliese interpellata, nel rilevare che, con la disposizione introdotta dall’art. 1, comma 526, della richiamata legge n. 205/2017, il legislatore ha espressamente previsto l’allocazione delle risorse per incentivare le funzioni tecniche nei capitoli di spesa previsti per le opere pubbliche determinandone, di fatto, l’allocazione nell’ambito della spesa per investimenti, ha sollevato, con deliberazione 09.02.2018 n. 9, una questione di massima ai fini dell’accertamento della natura giuridica della spesa per incentivi per funzioni tecniche e dell’inclusione, o meno, della stessa nell’ambito della spesa per il personale, con le relative conseguenze in ordine al rispetto dei vincoli normativi in tema di trattamento accessorio.
Ritiene, infatti, che tale questione assuma notevole rilevanza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 17, comma 31, del d.l. n. 78/2009 e dell’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012, al fine di garantire l’eventuale superamento di contrasti da parte delle Sezioni regionali di controllo ed un’interpretazione uniforme della disposizione recentemente introdotta dalla legge di bilancio 2018, che si inserisce in un contesto normativo per il quale risultano già intervenute la deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni Riunite in sede di controllo e da ultimo, la deliberazione 13.05.2016 n. 18, deliberazione 06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24 della Sezione delle autonomie.
2. Il Sindaco del Comune di Cisano Bergamasco (BG) ha posto alla Sezione di controllo per la Lombardia una richiesta di parere inerente la sottoposizione ai generali limiti posti al trattamento accessorio del personale dipendente anche degli emolumenti economici erogati a titolo di incentivi dall’art. 113 del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 50 del 2016.
La Sezione lombarda, con
deliberazione 16.02.2018 n. 40, ha sollevato una questione di massima principale e due questioni subordinate all’ipotesi in cui la prima venga definita nel senso dell’irrilevanza dei nuovi argomenti interpretativi prospettati nella deliberazione medesima. La questione principale è stata così formulata: “se debbano essere considerati nel vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio, dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, gli incentivi disciplinati dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. 50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che individua le autonome risorse finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi ed individuali, che devono essere osservati nell’erogazione”.
In via subordinata si è richiesto se debbano essere considerati nel vincolo generale di finanza pubblica, posto al complessivo trattamento economico accessorio, dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017, gli incentivi disciplinati dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, aventi fonte in una disposizione di legge speciale, che individua le autonome risorse finanziarie a cui devono essere imputati, nonché gli specifici tetti, complessivi ed individuali, che devono essere osservati nell’erogazione, in quanto sussistono i presupposti della destinazione a predeterminate categorie di dipendenti per prestazioni professionali che potrebbero essere affidate a personale esterno, con conseguente incremento di costi per le amministrazioni; e, in ulteriore subordine, quali siano le concrete modalità contabili che le amministrazioni aggiudicatrici devono adottare per osservare la regola dell’eventuale sottoposizione degli incentivi previsti dall’art. 113, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, al limite complessivo posto al trattamento economico accessorio dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
In considerazione del fatto che le questioni sollevate dalle Sezioni remittenti risultano attinenti all’interpretazione del medesimo dettato normativo, si ravvisa l’opportunità della trattazione congiunta ai fini della pronuncia del principio di diritto al quale tutte le Sezioni regionali di controllo dovranno conformarsi.
CONSIDERATO
1. La Sezione ritiene preliminarmente, per ragioni di connessione oggettiva, di riunire la trattazione delle questioni sollevate dalle Sezioni remittenti. Prima di affrontare l’esame nel merito è necessario premettere l’esposizione del quadro normativo di riferimento, caratterizzato dalle ripetute integrazioni di norme succedutesi nel tempo in modo non sempre organico.
L’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici), rubricato “incentivi per funzioni tecniche”, riproducendo analoghe disposizioni previgenti (art. 18 della legge n. 109 del 1994, e successive modifiche ed integrazioni, e art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, confluito in seguito nell’art. 93, commi 7-bis e seguenti, del medesimo decreto legislativo), consente, previa adozione di un regolamento interno e della stipula di un accordo di contrattazione decentrata, di erogare emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche e amministrative, nelle procedure di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture.
Ad integrazione della predetta norma è intervenuto l’art. 76 del d.lgs. n. 56 del 2017, il quale ha riferito l’imputazione degli oneri per le attività tecniche ai pertinenti stanziamenti degli stati di previsione della spesa, non solo con riguardo agli appalti di lavori (come da formulazione originaria della norma), ma anche a quelli di fornitura di beni e di servizi.
In particolare, il comma 2 dell’art. 113 in esame consente alle amministrazioni aggiudicatrici di destinare, a valere sugli stanziamenti di cui al precedente comma 1, “ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara”. Tale fondo può essere finalizzato a premiare esclusivamente le funzioni, amministrative e tecniche, svolte dai dipendenti interni: “attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico”.
Il successivo comma 3 della medesima disposizione estende la possibilità di erogare gli incentivi anche ai rispettivi “collaboratori”. Inoltre lo stesso comma 3 prevede che l’80% delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 possa essere ripartito, per ciascun lavoro, servizio, fornitura, “con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”, ai destinatari indicati al comma 2. Il restante 20%, invece, va destinato secondo quanto prescritto dal successivo comma 4 (acquisto di strumentazioni e tecnologie funzionali all’uso di metodi elettronici di modellazione per l'edilizia e le infrastrutture; attivazione di tirocini formativi; svolgimento di dottorati di ricerca; etc.).
Con riguardo ai provvedimenti che pongono limiti alle risorse indirizzate al trattamento accessorio del personale, va ricordato che l’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78 del 2010, convertito dalla legge n. 122 del 2010 disponeva che l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, non può superare il corrispondente importo dell'anno 2010 e che a decorrere dal 01.01.2015, le risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio sono decurtate di un importo pari alle riduzioni operate.
In seguito l'art. 23, comma 2, d.lgs. n. 75 del 2017, ha disposto, a decorrere dal 01.07.2017, che “l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016”.
Orbene, le questioni sollevate dalle Sezioni regionali remittenti richiedono di chiarire se i compensi erogati a carico del predetto fondo per gli incentivi tecnici debbano essere computati ai fini del rispetto dei limiti al trattamento accessorio disposti dal soprarichiamato articolo 23, comma 2, d.lgs. n. 75/2017.
2. Come è noto, l’argomento dei limiti di spesa per la erogazione degli incentivi per la progettazione e per funzioni tecniche in diverse occasioni è stato oggetto di pronunce da parte di questa Sezione.
Nella
deliberazione 13.11.2009 n. 16 di questa Sezione, che ha riconosciuto l’esclusione del vincolo per gli incentivi alla progettazione, è stata considerata rilevante la provenienza dei fondi, riconoscendo la natura di “spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di funzionamento”. Il medesimo percorso ermeneutico è stato condiviso dalle Sezioni Riunite con la deliberazione 04.10.2011 n. 51, che ha escluso dal rispetto del limite di spesa posto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, tutti quei compensi per prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti qualificati, tra i quali l’incentivo per la progettazione interna.
Sulla specifica questione degli incentivi per funzioni tecniche, nella deliberazione 06.04.2017 n. 7, è stato affermato che gli incentivi di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 “sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”. Il principio di diritto si impernia sulla distinzione tra gli incentivi c.d. “alla progettazione”, che erano previsti dal non più vigente articolo 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006, e gli incentivi per le funzioni tecniche, di cui al soprarichiamato art. 113.
Il medesimo orientamento è stato ribadito da questa Sezione nella deliberazione 10.10.2017 n. 24, con la quale si è ritenuta inammissibile la questione sottoposta dalla Sezione di controllo della Liguria con deliberazione 29.06.2017 n. 58, in quanto l’assenza di decisioni contrastanti nel frattempo assunte dalle Sezioni regionali e la mancanza di argomentazioni giuridiche e/o fattuali nuove e diverse da quelle già esaminate con la richiamata deliberazione 06.04.2017 n. 7, facevano sì che la rimessione si configurasse, nella sostanza, “come una mera richiesta di riesame della decisione già assunta, sulla base dei medesimi elementi di fatto e di diritto già considerati”.
In sostanza nelle pronunce della Sezione delle autonomie non è stata rinvenuta una specificità nei compensi previsti per le funzioni tecniche, tale da far ritenere non applicabile il limite stabilito per i trattamenti accessori. Ciò anche in funzione della rilevata difformità della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla progettazione, nonché per il fatto che tali emolumenti essendo erogabili anche per gli appalti di servizi e forniture, si configuravano, ai sensi delle disposizioni normative all’epoca vigenti, come spesa di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale).
È da notare che la stessa legge delega per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (art. 1, comma 1, lett. rr, l. n. 11/2016) ha precisato che gli incentivi per le funzioni tecniche vanno a remunerare specifiche e determinate attività di natura tecnica svolte dai dipendenti pubblici, tra cui quelle della programmazione, predisposizione e controllo delle procedure di gara e dell’esecuzione del contratto “escludendo l’applicazione degli incentivi alla progettazione”.
Si tratta nel complesso di compensi volti a remunerare prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili, direttamente correlati all’adempimento dello specifico compito affidato ai potenziali beneficiari dell’incentivo.
3. Successivamente ai menzionati approdi giurisprudenziali, è intervenuto l’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017 (legge di bilancio 2018) per specificare che il finanziamento del fondo per gli incentivi tecnici grava sul medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi o forniture. Il nuovo comma 5-bis dell’art. 113 in esame precisa, infatti, che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
La citata novella legislativa richiede un ulteriore intervento nomofilattico di questa Sezione, sia per la rilevanza dei dubbi interpretativi palesati dalle due Sezioni regionali remittenti, sia, soprattutto, in ossequio al principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: deliberazione 10.10.2017 n. 24), secondo il quale la proposizione di questioni di massima già precedentemente esaminate e risolte non è, in linea di principio, preclusa, pur soggiacendo a precise condizioni di ammissibilità, tra cui -ed è questo il caso di specie- la ricorrenza di mutamenti legislativi.
Va premesso che
la norma de qua si può prestare a interpretazioni divergenti, come si evince anche dalle deliberazioni delle Sezioni regionali remittenti. Infatti, potrebbe essere ritenuta di non chiara lettura, in quanto si limita a prescrivere che gli incentivi in esame vanno finanziati dai capitoli di spesa su cui gravano i costi dell'opera, ma non esplicita la loro esclusione dai tetti posti al salario accessorio. Diversamente l’intervento del legislatore potrebbe intendersi diretto ad affermare che gli incentivi per le funzioni tecniche espletate nelle procedure di aggiudicazione ed esecuzione dei contratti pubblici, non essendo finanziati dal fondo relativo alla contrattazione decentrata, non rientrino più nella spesa di personale soggetta ai limiti.
Anche se l’allocazione contabile degli incentivi di natura tecnica nell’ambito del “medesimo capitolo di spesa” previsto per i singoli lavori, servizi o forniture potrebbe non mutarne la natura di spesa corrente -trattandosi, in senso oggettivo, di emolumenti di tipo accessorio spettanti al personale-
la contabilizzazione prescritta ora dal legislatore sembra consentire di desumere l’esclusione di tali risorse dalla spesa del personale e dalla spesa per il trattamento accessorio.
Al riguardo è da considerare, come rilevato dalla Sezione remittente lombarda, che gli incentivi per le funzioni tecniche sono, per loro natura, estremamente variabili nel corso del tempo e, come tali, difficilmente assoggettabili a limiti di finanza pubblica a carattere generale, che hanno come parametro di riferimento un predeterminato anno base (qual è anche l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017). Il riferimento, infatti, ad un esercizio precedente diviene, in modo del tutto casuale, favorevole o penalizzante per i dipendenti dei vari enti pubblici.
In senso conforme si sono pronunciate di recente sia la Sezione regionale di controllo per il Friuli Venezia Giulia (parere 02.02.2018 n. 6), la quale ha ritenuto che dalla novella “
si evince che gli incentivi non fanno carico ai capitoli della spesa del personale ma devono essere ricompresi nel costo complessivo dell’opera”, sia la Sezione regionale di controllo per l’Umbria (
parere 05.02.2018 n. 14), la quale afferma che “il legislatore è intervenuto sulla questione della rilevanza degli incentivi tecnici ai fini del rispetto del tetto di spesa per il trattamento accessorio, escludendoli dal computo rilevante ai fini dall'articolo 23, comma 2, d.l.gs n. 75 del 2017. Il legislatore ha voluto, pertanto, chiarire come gli incentivi non confluiscono nel capitolo di spesa relativo al trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa previsti dalla normativa vigente), ma fanno capo al capitolo di spesa dell’appalto”.
Se è vero che sia il comma 1 che il comma 2 dell’art. 113 citato, già disponevano che tutte le spese afferenti gli appalti di lavori, servizi o forniture, debbano trovare imputazione sugli stanziamenti previsti per i predetti appalti, “il comma 5-bis rafforza tale intendimento e individua come determinante, ai fini dell’esclusione degli incentivi tecnici dai tetti di spesa sopra citati, l’imputazione della relativa spesa sul capitolo di spesa previsto per l’appalto”.
Su questa linea interpretativa, sostenuta da un’ampia e articolata motivazione, si colloca anche la Sezione remittente lombarda, secondo la quale “analizzando la lettera delle norme succedutesi nel tempo, traspare che l’incentivo previsto dal d.lgs. n. 163 del 2006 era già finalizzato a compensare, non la sola attività di progettazione, ma anche quella di RUP, direttore lavori, collaudatore e rispettivi collaboratori, anche amministrativi”. La medesima Sezione prosegue affermando che “anche nella vigenza della disposizione che ha dato luogo alla deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni Riunite gli emolumenti in discorso non erano qualificabili, nella maggior parte dei casi, come spesa di investimento, ma di funzionamento per il personale”.
4. Proprio alla luce dei suesposti orientamenti,
va considerato che, sul piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici proprio in quanto vengono prescritte allocazioni contabili che possono apparire non compatibili con la natura delle spese da sostenere.
La ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure.
L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale.

Sulla questione è anche rilevante considerare che
la norma contiene un sistema di vincoli compiuto per l’erogazione degli incentivi che, infatti, sono soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente).
Oltre alla esplicita afferenza della spesa per gli incentivi tecnici al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture è da rilevare che tali compensi non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori (in senso conforme: SRC Lombardia parere 16.11.2016 n. 333).
Si tratta, quindi di una platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge (in senso conforme: SRC Puglia parere 24.01.2017 n. 5 e parere 21.09.2017 n. 108).
Va rilevato, inoltre, che
per l’erogazione degli incentivi l’ente deve munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (in termini: SRC Veneto parere 07.09.2016 n. 353) e la sede idonea per circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi possono essere erogate. Il comma 3 dell’art. 113 citato, infatti, fa obbligo all'amministrazione aggiudicatrice, di stabilire “i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi o dei costi”. Una condizione, dunque, che collega necessariamente l’erogazione dell’incentivo al completamento dell’opera o all’esecuzione della fornitura o del servizio oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi prestabiliti.
Se tale risulta, dunque, il quadro della materia, come configurato a seguito delle ultime modifiche normative intervenute,
occorre prendere atto che l’allocazione in bilancio degli incentivi tecnici stabilita dal legislatore ha l’effetto di conformare in modo sostanziale la natura giuridica di tale posta, in quanto finalizzata a considerare globalmente la spesa complessiva per lavori, servizi o forniture, ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche le risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici. Questi ultimi risultano previsti da una disposizione di legge speciale (l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016), valevole per i dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche, a differenza degli emolumenti accessori aventi fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto.
In altre parole,
con un intervento volto a tipizzare espressamente l’allocazione in bilancio degli incentivi per le funzioni tecniche, si deve ritenere che il legislatore (che, in tal modo, ha reso “ordinamentale” il disposto di cui all’art. 113 citato) abbia voluto dare maggiore risalto alla finalizzazione economica degli interventi cui accedono tali risorse, nonostante i possibili dubbi che ne potrebbero conseguire sul piano della gestione contabile.
Pur permanendo l’esigenza di chiarire le specifiche modalità operative di contabilizzazione,
la novella impone che l'impegno di spesa, ove si tratti di opere, vada assunto nel titolo II della spesa, mentre, nel caso di servizi e forniture, deve essere iscritto nel titolo I, ma con qualificazione coerente con quella del tipo di appalti di riferimento.
Pertanto,
il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale. Gli incentivi per le funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
La predetta conclusione assorbe le ulteriori questioni poste in via subordinata dalla Sezione remittente lombarda.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulle questioni di massima poste dalla Sezione regionale di controllo per la Puglia con la deliberazione 09.02.2018 n. 9 e dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia con la
deliberazione 16.02.2018 n. 40, enuncia il seguente principio di diritto:
Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Le Sezioni regionali di controllo per la Puglia e per la Lombardia si atterranno al principio di diritto enunciato nel presente atto di orientamento, al quale si conformeranno tutte le Sezioni regionali di controllo ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito dalla legge 07.12.2012, n. 213 (Corte dei Conti, Sez. autonomie, deliberazione 26.04.2018 n. 6).

 
 

REGIONE LOMBARDIA:
l'ennesima possibile censura della Consulta -sulla l.r. n. 12/2005- si profila all'orizzonte.

     Per la cronaca, la Legge Urbanistica lombarda (L.R. 11.03.2005 n. 12) è passata al vaglio della Corte Costituzionale -ad oggi- ben 7 volte ed è stata bocciata qua e là (nei suoi 104 articoli) ben 4 volte e, segnatamente:

1- sentenza 23.03.2006 n. 129: LA CORTE COSTITUZIONALE
   - (omissis)
   - dichiara l'illegittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 9, comma 12, e dell'art. 11, comma 3, della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), nella parte in cui non prevede l'obbligo di procedure ad evidenza pubblica per tutti i lavori, da chiunque effettuati, di importo pari o superiore alla soglia comunitaria;
   - dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 27, comma 1, lettera e), numero 4, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005;
   - dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, lettera b), numero 2, e dell'art. 10, comma 1, lettera d), entrambi in relazione all'art. 55, comma 1, lettera b), e all'art. 57, comma 1, lettere a) e b), della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, promossa dal Governo in riferimento all'art. 117, terzo comma, della Costituzione;
   - dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 33 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, promossa dal Governo in riferimento all'art. 117, terzo comma, della Costituzione;
   - dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 13, della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, promossa dal Governo in riferimento all'art. 117, primo e terzo comma, della Costituzione.

2- sentenza 30.11.2007 n. 402: LA CORTE COSTITUZIONALE
   dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 36, comma 4, ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), come sostituito dall'art. 1, comma 1, lettera h), della legge della Regione Lombardia 14.07.2006, n. 12 (Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»), promossa, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

3- sentenza 22.10.2008 n. 350: LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
   a) dichiara la illegittimità costituzionale degli artt. 1, 4, 9, comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, della legge della Regione Lombardia 03.03.2006, n. 6 (Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa);
   b) dichiara, ai sensi dell'articolo 27 della legge 11.03.1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni della legge della Regione Lombardia n. 6 del 2006;
   c) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, in riferimento agli articoli 3, 15, 41 e 117 della Costituzione, con le ordinanze r.o. nn. 67 e 100 del 2008 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia nei confronti dell'art. 8, comma 1, lettere e), f), h) ed i), e comma 2, della legge della Regione Lombardia n. 6 del 2006;
   d) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia con le ordinanze r.o. nn. 2, 15, 65, 66, 101, 102, 103 e 127 del 2008.

4- ordinanza 19.05.2011 n. 173: LA CORTE COSTITUZIONALE
   dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 64, comma 2, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), come modificata dalla legge della Regione Lombardia 27.12.2005, n. 20 (Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 “Legge per il governo del territorio”, in materia di recupero abitativo dei sottotetti esistenti), sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 42 e 117, commi secondo, lettera l), e terzo, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Brescia, sezione terza civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

5- sentenza n. 23.11.2011 n. 309: LA CORTE COSTITUZIONALE
   1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 27, comma 1, lettera d), ultimo periodo, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), nella parte in cui esclude l’applicabilità del limite della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e ricostruzione;
   2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 103 della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui disapplica l’art. 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) (testo A);
   3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 22 della legge della Regione Lombardia 05.02.2010, n. 7 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica ed integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2010).

6-  sentenza 24.03.2016 n. 63: LA CORTE COSTITUZIONALE
   1) (omissis);
   2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis, limitatamente alle parole «che presentano i seguenti requisiti:» e alle lettere a) e b), e 2-quater, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lombardia 03.02.2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»;
   3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, commi 4, primo periodo, e 7, lettera e), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015;
   4) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 70, comma 2-ter, ultimo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in riferimento all’art. 19 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;
   5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa –in riferimento all’art. 117, commi primo e secondo, lettera a), Cost., in relazione agli artt. 10, 17 e 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, agli artt. 10, 21 e 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (proclamata a Nizza il 07.12.2000 e adattata a Strasburgo il 12.12.2007) ed all’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato a New York il 16.12.1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 25.10.1977, n. 881)– dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;
   6) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 4, ultimo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in riferimento all’art. 19 Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;
   7) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 7, lettera g), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in riferimento agli artt. 3, 8 e 19 Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;
   8) dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe.

7- ordinanza 16.06.2016 n. 150: LA CORTE COSTITUZIONALE
   dispone che nella sentenza n. 63 del 2016, nel numero 3) del dispositivo, le parole «commi 4 e 7» siano sostituite dalle parole «commi 4, primo periodo, e 7».

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: E' rilevante e non manifestamente infondata la questione, che si rimette alla Corte costituzionale, di legittimità costituzionale dell’articolo 103, comma 1-bis, della l.r. della Lombardia n. 12/2005 che recita:
"
1-bis. Ai fini dell’adeguamento, ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile all’interno di piani attuativi.".
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Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal signor Ni.Ca., nato a Treviso il ... e residente a Sondrio, per l’annullamento della deliberazione del Consiglio comunale di Sondrio 28.11.2014 n. 81, d’approvazione di variante del piano di governo del territorio.
...
Premesso:
Il Comune di Sondrio, già dotato del piano di governo del territorio approvato con deliberazione del Consiglio comunale 06.06.2011 n. 40, con deliberazione della giunta comunale del 29.09.2013 ha attivato un procedimento di variante del medesimo piano, comunicandolo alla cittadinanza. In merito sono state avanzate proposte da parte di alcuni cittadini.
L’ente territoriale ha introdotto, inoltre, modifiche alle norme tecniche d’attuazione, alcune delle quali su suggerimento dell’ufficio tecnico comunale.
Fra le modifiche della normativa, in particolare, una riguarda la disciplina delle distanze tra fabbricati “Distanza minima tra edifici”, come dettata dall’art. 3 – “Definizioni urbanistiche ed edilizie”, dell’elaborato “Definizioni e disposizioni generali del Piano di Governo del Territorio".
Nella formulazione originaria, essa stabiliva che “
Nelle aree comprese in ambiti di trasformazione e nelle aree comprese in ambiti del territorio consolidate {Piano delle Regole) la distanza minima tra edifici deve essere pari all’altezza dell'edificio più alto e comunque non inferiore a m 10, fatta eccezione per gli edifici nelle aree comprese in ambiti del territorio urbanizzato di antica formazione per i quali la distanza minima tra edifici non può essere inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale”.
A seguito della variante approvata, il testo della disposizione è stato così riformulato: “
Nelle aree comprese in ambiti di trasformazione e in ambiti del territorio consolidate {Piano delle Regole) la distanza minima tra edifici deve essere non inferiore a m 10, fatta eccezione per gli edifici compresi nei tessuti edificati di antica formazione (Taf) per i quali la distanza minima tra edifici non può essere inferiore a quella intercorrente tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale. Limitatamente alle aree comprese in ambiti di trasformazione, la distanza minima deve inoltre essere pari o superiore all’altezza dell’edificio più alto”.
Per effetto della variazione
è stata sottratta all’applicazione della disciplina più restrittiva (quella che impone una distanza minima pari all’altezza dell’edificio più alto), le aree di nuova edificazione comprese all’interno di un ambito territoriale che, secondo la disciplina dettata dalla legge regionale della Lombardia 11.05.2005 n. 12 viene definito “il tessuto urbano consolidato”.
In particolare, la riformulata disposizione è riferita agli ambiti territoriali previsti e disciplinati dagli articoli 18 e 19 delle norme di attuazione del piano delle regole.
Con l’art. 18 vengono definiti alcuni ambiti di espansione edificatoria che, pur compresi nel perimetro territoriale disegnato al fine d’individuare il cosiddetto “tessuto urbano consolidato”, e definiti “tessuti di completamento”, costituiscono vere e proprie aree di espansione edificatoria, dato che ai sensi del comma 1 del predetto art. 18 “Gli ambiti cosi classificati sono rappresentati da parti prevalentemente non edificate, intercluse all’interno del tessuto consolidate di fondovalle o di versante o ai suoi margini.. La loro individuazione sul territorio consente di affermare che si tratta di ambiti privi di edificazione, da assoggettare per la prima volta a processo urbanizzativo ed edificatorio.
Tale risulta la condizione dell’ambito n. 15, adiacente alla proprietà del ricorrente, individuato dall'art. l9, quale ambito assoggettato a piano attuativo obbligatorio. Tale ambito conferma una previsione già presente nel previgente piano regolatore generale approvato negli anni ‘90, laddove era individuata come zona “RT n. 17”, assoggettata a piano attuativo obbligatorio, coinvolgente il medesimo ambito territoriale, assolutamente privo di edificazione e destinato a nuovi insediamenti residenziali, ubicato ai margini estremi dell'aggregato urbano edificato, lungo la strada che introduce alla Valmalenco, caratterizzata da una elevata acclività.
Il citato ambito, individuato nel piano generale del territorio come ambito n. 15 nell’art. 19, conferma la delimitazione dello stesso ambito territoriale individuato nel precedente piano regolatore generale come “RT n. 17”, mai coinvolto in precedenza in processi di urbanizzazione di edificazione, atteso che è stata assoggettata in entrambi gli strumenti urbanistici a piano attuativo, com’è prescritto per tutte le zone che, secondo il decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, devono essere qualificate come zone di espansione.
L’Amministrazione, nella scelta di denominazioni e sigle delle zone territoriali omogenee differenti da quelle dettate nel D.M. n. 1444/1968 (prima RT ora ambito TAC), ad avviso del ricorrente sarebbero state sottratte alla disciplina che detto decreto ha fissato, specialmente per quanto riguarda il regime delle distanze tra fabbricati, che assumono valenza integrativa del codice civile, asseritamente non derogabili dalle norme locali con conseguente richiesta di disapplicazione delle disposizioni di strumenti urbanistici che fissino una distanza tra fabbricati inferiore a quella prevista nel citato DM.
Tutti gli ambiti “Tc” individuati dall’art. 19 del piano generale del territorio sono assoggettati o a piano urbanistico attuativo o a permesso di costruire convenzionato obbligatorio, in considerazione proprio della circostanza che si tratta di ambiti non edificati, da assoggettare per la prima volta ad un processo di urbanizzazione che richiede la preventiva pianificazione di dettaglio, o almeno, ove si tratti di un ambito di più limitata estensione, ad un permesso di costruire corredato da una convenzione obbligatoria, mediante la quale garantire gli stessi effetti del piano attuativo.
A conferma, il ricorrente richiama la circostanza che su 20 ambiti “Tc” individuati e disciplinati dall'art. 19 del piano generale del territorio ben 11 sono soggetti al piano attuativo obbligatorio. Fra essi vi è il n. 15, confinante con la sua proprietà, sulla quale insiste un edificio a destinazione residenziale (individuato in catasto al foglio 31, mappale 319, del Comune di Sondrio), a fronte del quale è in corso di realizzazione un complesso residenziale avente altezza largamente superiore a m 10, che non rispetterebbe la distanza pari all’altezza dell’edificio più alto, come prescritto per le zone omogenee C (parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi che risultino inedificate o nelle quali l’edificazione preesistente non raggiunga i limiti di superficie e densità delle zone, totalmente edificate) dall’art. 9, 1° comma, del DM n. 1444/1968.
Il ricorrente evidenzia, poi, che nelle stesse “Norme di Attuazione del Piano delle Regole a1 Capo 2 (articoli 14, 15, 16, 17)” vengono disciplinate le altre porzioni del tessuto urbano consolidato che presentano già una condizione di parziale o compiuta edificazione, per i quali vengono ammessi interventi diretti o perfino piani attuativi all’interno dei quali viene consentita una distanza tra gli edifici minore di quella minima di legge, evidentemente in applicazione di quanto disposto dall’ultimo comma dell'art. 9 del DM 1444/1968.
Tale circostanza fa emergere la presenza, all’interno del tessuto urbano consolidato, di ambiti territoriali molto diversificati fra loro, alcuni dei quali aventi le caratteristiche delle zone di completamento, altri quelle delle zone di espansione.
2. Il ricorrente lamenta che la profonda diversità di condizione oggettiva renda ingiustificata e illegittima la sottrazione al più incisivo regime delle distanze tra fabbricati fissato dall’art. 9 del DM n. 1444/1968 proprio per le zone di nuova edificazione ed urbanizzazione.
Di conseguenza egli impugna la variante del piano generale del territorio di Sondrio, segnatamente la parte mediante la quale ha modificato la disposizione dell’art. 3 relativa alla distanza tra fabbricati riducendo la misura della distanza tra immobili fronteggianti alla sola misura di ml. 10,00 ed escludendo dall’applicazione della maggiore distanza pari all’altezza dell’edificio più alto i nuovi insediamenti previsti nelle cosiddette “zone TAC”, e confermando tale disposizione solo per i nuovi insediamenti in ambiti di trasformazione, senza tener conto del fatto che, invece, per situazioni del genere doveva essere mantenuta la formulazione originaria conforme a1 dispositivo dell'art. 9 del DM n. 1444/1968, data l’identità di condizioni oggettive di ambiti non edificati da assoggettare, per la prima volta, ad un processo di nuova urbanizzazione soggetto a preventiva approvazione di piano attuativo.
A fondamento del ricorso il ricorrente deduce i seguenti motivi di violazione di legge ed eccesso di potere.
1. Violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, in quanto è stato espunto dall’ordinamento urbanistico locale l’obbligo del rispetto della distanza minima pari all’edificio più alto, in relazione ad interventi di nuova edificazione, in asserite “Zone di espansione edificatoria aventi le condizioni oggettive delle Zone C”.
2. Difetto di motivazione e contraddittorietà, perché l’originaria formulazione del PGT in materia di distanze dettava una disposizione univoca, in conformità alla disciplina prevista dal richiamato art. 9 del D.M. n. 1444/1968, avente valenza vincolante in sede di pianificazione. La decisione di modificare la norma generale sarebbe quindi arbitraria, oltre che carente di adeguata motivazione.
3. Difetto di motivazione, contraddittorietà, deviazione dalla funzione. Il ricorrente sostiene che il 29.09.2013, pur in presenza di un PGT approvato (deliberazione del Consiglio comunale n. 40/2011), la giunta comunale ha assunto la determinazione di avviare il procedimento di revisione del PGT con l’esplicita affermazione di aggiornare il piano senza alterarne l’impostazione complessiva originaria e al solo fine di correggere errori materiali riscontrati in fase applicativa. Quindi, la rilevante modifica sul regime delle distanze contestata avrebbe il carattere di norma elusiva di tassativi limiti di legge e foriera di ulteriori situazioni di contrasto con il vigente quadro giuridico di riferimento.
Considerato:
3. L’art. 2-bis del decreto del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001 n. 380 stabilisce che “…le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
La Regione Lombardia, con le modifiche introdotte alla legge urbanistica regionale 11.05.2005 n. 12 con la legge regionale 14.03.2008 n. 4, ha recepito tali indicazioni stabilendo, ai fini dell’adeguamento degli strumenti urbanistici, l’inapplicabilità del citato D.M. n. 1444/1968 fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima di dieci metri, derogabile all’interno dei piani attuativi.
L’art. 9 del D.M. 02.04.n. 1444/1968 dispone che “Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a m 12.
Le distanze minime tra fabbricati -tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti)- debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
   - m 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
   - m 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra m 7 e m 15;
   - ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15
”.
L’art. 1-bis della legge regione Lombardia 11.03.2005, n. 12, aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera xxx), L.R. 14.03.2008, n. 4, prevede che “Ai fini dell'adeguamento, ai sensi dell'articolo 26, commi 2 e 3, degli strumenti urbanistici vigenti, non si applicano le disposizioni del decreto ministeriale 02.04.1968 n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765, fatto salvo, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, il rispetto della distanza minima tra fabbricati pari a dieci metri, derogabile all'interno di piani attuativi”.
Il successivo comma 1-ter dispone che “Ferme restando le distanze minime di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile, fuori dai centri storici e dai nuclei di antica formazione la distanza minima tra pareti finestrate, di cui al comma 1-bis, è derogabile per lo stretto necessario alla realizzazione di sistemi elevatori a pertinenza di fabbricati esistenti che non assolvano al requisito di accessibilità ai vari livelli di piano”.
4.
In materia di distanza tra fabbricati, per costante giurisprudenza (da ultimo Consiglio di Stato, sez. IV, 23.06.2017 n. 3093; 08.05.2017 n. 2086; 29.02.2016 n. 856; Corte Cass. civ., sez. II, 14.11.2016 n. 23136), la disposizione contenuta nell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile poiché si tratta di norma imperativa la quale predetermina, in via generale ed astratta, le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza.
Tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
Occorre osservare, poi, che
la disposizione dell’art. 9, n. 2 del D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti o sopraelevazioni di essi: Consiglio di Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522) costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse. Tale affermazione trova riscontro in una pluralità di considerazioni.
Occorre, infatti, ricordare che,
ai sensi dell’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, avente per oggetto “Disciplina dell’attività urbanistica e suoi scopi” nella formulazione in vigore dal 30.06.2003, i limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati nonché i rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”, sono imposti ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti.
Ciò significa che essi sono previsti dalla norma primaria per la “nuova” pianificazione urbanistica e non già per intervenire sull’esistente, tanto meno se rappresentato da un singolo edificio (a meno che “l’esistente” non sia esso stesso complessivamente oggetto di pianificazione urbanistica).
Ed infatti, in coerenza con quanto ora affermato,
lo stesso art. 9 del D.M. n. 1444/1968 per le zone “A”, nel contemplare le distanze tra edifici già esistenti prevede che le distanze “non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti”.
Difatti,
il discrimine in tema di distanze (con l’introduzione del limite inderogabile di 10 m), nella ‘ratio’ dell’indicato art. 9, non è dato dalla differenza tra zona A ed altre zone, quanto tra costruzione del tutto nuova (ordinariamente non ipotizzabile in zona A) e ricostruzione di un immobile preesistente.
Se così non fosse, risalterebbe l’illogicità della disposizione, non potendosi evidenziare alcuna differenza, sotto il profilo che qui interessa, tra zona A e zona B totalmente edificata (ex art. 2 D.M. n. 1444/1968).
D’altra parte, a voler applicare il limite inderogabile di distanza ad un immobile prodotto da ricostruzione di un altro preesistente si otterrebbe che, da un lato, l’immobile considerato non potrebbe essere demolito e ricostruito, se non “arretrando” rispetto all’allineamento preesistente (con conseguente possibile perdita di volume e realizzandosi, quindi, un improprio “effetto espropriativo” del D.M. n. 1444/1968); dall’altro lato, esso non potrebbe in ogni caso beneficiare della deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, allorquando la demolizione e ricostruzione (ancorché per un solo fabbricato) non fosse prevista nell’ambito di uno strumento urbanistico attuativo con dettaglio piano volumetrico.
Anzi,
la stessa circostanza che la deroga di cui all’art. 9, u.c., sia prevista per il tramite di strumenti urbanistici attuativi conferma quanto innanzi affermato e cioè che le norme sulle distanze di cui al D.M. n. 1444/1968 si riferiscono alla nuova pianificazione del territorio e non già ad interventi specifici sull’esistente.
In conclusione,
in tema di distanze fra costruzioni, l’art. 9, comma 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, “poiché emanato su specifica delega contenuta nell'art. 41-quinquies della legge urbanistica fondamentale 17.08.1942, n. 1150, ha efficacia di legge dello Stato sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti edilizi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Cass. civ. sez. II, 12.02.2016, n. 2848).
5.
Le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi sono state, da tempo, ricondotte dalla Corte costituzionale nell’ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio (Corte costituzionale, sent. 23.11.2011, n. 309; 01.10.2003, n. 303).
In merito è stato chiarito che “
sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali.
L’intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall'altro.
La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato
”.
Con specifico riferimento al riparto di competenze in tema di distanze legali, la medesima Corte ha affermato che “
la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio.
Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio
" (Corte costituzionale, sentenze 03.11.2016 n. 231; 23.01.2013 n. 6; 21.05.2014 n. 134; ordinanza 19.05.2011 n. 173).
Si è affermato di conseguenza che “
nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia di “governo del territorio”−, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, ritenuto più volte dotato di “efficacia precettiva e inderogabile” (Corte costituzionale, sent. 10.05.2012, n. 114; ordinanza 19.05.2011, n. 173).
Con rifermento ad eventuali deroghe, la Corte ha ritenuto che tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
In definitiva,
le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.
Le richiamate conclusioni sono state ribadite anche a seguito dell’emanazione dell’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98 − e dell’art. 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001.
Ad avviso del giudice costituzionale, invero, la disposizione ha recepito l’orientamento della Corte “inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le regioni e le province autonome, delle distanze legali stabilite dal D.M. n. 1444/1968 e dell'ammissibilità di deroghe solo a condizione che esse siano inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (sentenze 20.07.2016 n. 175 e 21.09.2016 n. 178).
6.
L’art. 103, comma 1-bis, della legge della Regione Lombardia n. 12/2005, non affidando l’operatività dei suoi precetti a “strumenti urbanistici” e non essendo funzionale ad un “assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio”, riferisce la possibilità di deroga a qualsiasi ipotesi di intervento, quindi anche su singoli edifici, con la conseguenza che essa risulta assunta al di fuori dell’ambito della competenza regionale concorrente in materia di “governo del territorio”, in violazione del limite “dell’ordinamento civile” assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Sotto i delineati profili
la Sezione è dell’avviso che la questione di legittimità costituzionale di cui al comma 1-bis dell’articolo 103 della legge regionale della Lombardia 2005 n. 12, (comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, lettera xxx), della legge regionale Lombardia 14.03.2008, n. 4), non sia manifestamente infondata.
Non può dubitarsi, poi, della sua rilevanza atteso che, come emerge dall’esposizione fin qui svolta, la sua applicazione è decisiva ai fini della decisione della controversia in esame.
Dev’essere disposta, conseguentemente, la rimessione degli atti alla Corte costituzionale per la decisione della predetta questione di legittimità costituzionale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede consultiva (Sezione prima), visti gli articoli 134 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 09.02.1948 n. 1, 23 della legge 11.03.1953, n. 87 e l’art. 1, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale 07.10.2008:
   a)
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione, che rimette alla Corte costituzionale, di legittimità costituzionale dell’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005, nei sensi indicati in motivazione;
   b) dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il presente procedimento (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 22.01.2018 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 
 

Ancora in materia di denuncia (preventiva) dei cementi armati e zona sismica...

EDILIZIA PRIVATA: Edilizia in zone sismiche - Pericolo la pubblica incolumità e normativa antisismica - Variazione delle dimensioni dei pilastri di sostegno di un manufatto - Reati di pericolo - Rilascio postumo del parere favorevole da parte dell'Ufficio del Genio Civile - Ininfluenza.
L'art. 93, comma 1, d.P.R. 380/2001, prevede che nelle zone sismiche «chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico», non potendo iniziare i lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico regionale a norma del successivo art. 94, comma 1, d.P.R. 380/2001.
La disciplina penale in parola è applicabile a qualsiasi opera in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità (Sez. 3, n. 19185 del 14/01/2015, Garofano; Sez. 3, n. 24086 del 11/04/2012, Di Nicola e a.) e non v'è dubbio che ciò ricorra nella variazione delle dimensioni dei pilastri di sostegno di un manufatto di rilevanti dimensioni come quello di specie, nella costruzione di una rampa in cemento armato adibita al transito veicolare, addirittura nella sopraelevazione di un intero piano del fabbricato (tipologia di opera, quest'ultima, espressamente contemplata nell'art. 93, comma 1, d.P.R. 380/2001).
Essendo le ultime menzionate due opere nuove, non contemplate nell'originario progetto, non v'è dubbio che non possa riconoscersi alcuna rilevanza alla precedente denuncia dei lavori ed alla relativa autorizzazione, essendo fuori di luogo parlare di "varianti non sostanziali" ovvero -come pure fa la Corte d'appello- richiamare il concetto di variazione non essenziale ricavabile dall'art. 32 d.P.R. 380/2001, disposizione che riguarda esclusivamente la legittimità urbanistica dell'opera rispetto al contenuto del permesso di costruire.
Trattandosi di reati di pericolo, poi, nessun rilievo può riconoscersi alla verifica postuma della compatibilità dell'opera con le norme tecniche costruttive, essendo del pari pacifico il principio secondo cui, in tema di reati concernenti l'attività edificatoria in zone sismiche, l'eventuale rilascio postumo del parere favorevole da parte dell'Ufficio del Genio Civile competente, che attesta la rispondenza alla normativa antisismica delle opere realizzate, non elide l'antigiuridicità penale della condotta consistita nell'aver iniziato i relativi lavori senza preventiva autorizzazione scritta dal competente ufficio tecnico regionale (Sez. 3, n. 27876 del 16/06/2015, Pro, Rv. 264201) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2018 n. 6738 - link a
www.ambientediritto.it).
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MASSIMA
5. Del pari fondate sono le doglianze dei ricorrenti -e della parte civile specialmente- relative all'assoluzione dalle contravvenzioni in materia di vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche, quale pacificamente è il comune di Sant'Agata di Puglia, previste dagli artt. 93-95 e 94-95 d.P.R. 380/2001 rispettivamente contestati ai capi i) e l) della rubrica.
La Corte territoriale, invero, ha riconosciuto che gli elaborati progettuali per la realizzazione della rampa esterna di cui alla d.i.a. del 29.07.2008 e del piano sottotetto di cui al permesso di costruire in variante del 30.07.2009, nonché la variazione della dimensione di alcuni pilastri, non erano presenti tra gli atti a suo tempo depositati al Genio Civile e furono tardivamente presentati, dopo l'esecuzione delle opere, soltanto il 25.09.2009 ed approvati il 31.03.2010.
Il giudice d'appello, tuttavia, ha assolto l'imputato sul rilievo che l'Ufficio del Genio Civile aveva approvato i progetti osservando che i trattava di varianti "non sostanziali", sicché le stesse, non comportando un mutamento dell'impatto statico del manufatto, non sarebbero state soggette al deposito preventivo del progetto, potendo invece essere presentate successivamente prima della fine dei lavori.
Detto rilievo -in alcun modo motivato in diritto- è indubbiamente errato e contrario al chiaro principio espresso nell'art. 93, comma 1, d.P.R. 380/2001, secondo cui nelle zone sismiche «chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico», non potendo iniziare i lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico regionale a norma del successivo art. 94, comma 1, d.P.R. 380/2001.
La disciplina penale in parola, invero, è applicabile a qualsiasi opera in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità (Sez. 3, n. 19185 del 14/01/2015, Garofano, Rv. 263376; Sez. 3, n. 24086 del 11/04/2012, Di Nicola e a., Rv. 253056) e non v'è dubbio che ciò ricorra nella variazione delle dimensioni dei pilastri di sostegno di un manufatto di rilevanti dimensioni come quello di specie, nella costruzione di una rampa in cemento armato adibita al transito veicolare, addirittura nella sopraelevazione di un intero piano del fabbricato (tipologia di opera, quest'ultima, espressamente contemplata nell'art. 93, comma 1, d.P.R. 380/2001).
Essendo le ultime menzionate due opere nuove, non contemplate nell'originario progetto, non v'è dubbio che non possa riconoscersi alcuna rilevanza alla precedente denuncia dei lavori ed alla relativa autorizzazione, essendo fuori di luogo parlare di "varianti non sostanziali" ovvero -come pure fa la Corte d'appello- richiamare il concetto di variazione non essenziale ricavabile dall'art. 32 d.P.R. 380/2001, disposizione che riguarda esclusivamente la legittimità urbanistica dell'opera rispetto al contenuto del permesso di costruire.
Trattandosi di reati di pericolo, poi, nessun rilievo può riconoscersi alla verifica postuma della compatibilità dell'opera con le norme tecniche costruttive, essendo del pari pacifico il principio secondo cui,
in tema di reati concernenti l'attività edificatoria in zone sismiche, l'eventuale rilascio postumo del parere favorevole da parte dell'Ufficio del Genio Civile competente, che attesta la rispondenza alla normativa antisismica delle opere realizzate, non elide l'antigiuridicità penale della condotta consistita nell'aver iniziato i relativi lavori senza preventiva autorizzazione scritta dal competente ufficio tecnico regionale (Sez. 3, n. 27876 del 16/06/2015, Pro, Rv. 264201) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2018 n. 6738).

EDILIZIA PRIVATA: Attività edilizia in zona sismica - Opere edilizie con strutture in legno - Opere precarie - Applicabilità della disciplina per le costruzioni in zona sismica - Giurisprudenza - Artt. 44, 93, 94 e 95, d.P.R. n. 380/2001.
Anche le opere edilizie con strutture in legno, allorché realizzate in una zona dichiarata sismica, sono sottoposte alla disciplina di cui alla L. 02.02.1974 n. 64, in quanto l'utilizzo di elementi strutturali di minore solidità rende ancora più necessari i controlli e le cautele prescritte dalla citata legge in materia di costruzioni in zona sismica (Sez. 3, n. 10205 del 18/01/2006, Solis).
Ciò sul rilievo che ai fini della configurabilità dei reati previsti dalla disciplina in tema di costruzioni in zone sismiche, le norme dettate dagli artt. 93, 94 e 95, d.P.R. n. 380 del 2001 si riferiscono a tutte le costruzioni, sopraelevazioni e riparazioni edili, a prescindere dal materiale con cui vengono realizzate (Sez. 3, n. 9126 del 16/11/2016, Aliberti; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015, Baio; Sez. 3, n. 34604 del 17/06/2010, Todaro; Sez. 3, n. 28514 del 29/05/2007, Libonati).
Per tale ragione, non sono escluse dall'orbita applicativa della fattispecie in questione nemmeno le opere precarie (Sez. 3, n. 37322 del 03/07/2007, Borgia; Sez. 3, n. 24086 del 11/04/2012, Di Nicola, che ritenuto soggetta a regime autorizzatorio antisismico l'installazione di pannelli autostradali a messaggi variabili) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.01.2018 n. 4567 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche le opere edilizie con strutture in legno, allorché realizzate in una zona dichiarata sismica, sono sottoposte alla disciplina di cui alla L. 02.02.1974 n. 64, in quanto l'utilizzo di elementi strutturali di minore solidità rende ancora più necessari i controlli e le cautele prescritte dalla citata legge in materia di costruzioni in zona sismica.
Ciò sul rilievo che ai fini della configurabilità dei reati previsti dalla disciplina in tema di costruzioni in zone sismiche, le norme dettate dagli artt. 93, 94 e 95, d.P.R. n. 380 del 2001 si riferiscono a tutte le costruzioni, sopraelevazioni e riparazioni edili, a prescindere dal materiale con cui vengono realizzate.
Per tale ragione, non sono escluse dall'orbita applicativa della fattispecie in questione nemmeno le opere precarie.
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4. Il secondo motivo è manifestamente infondato, considerato che anche le opere edilizie con strutture in legno, allorché realizzate in una zona dichiarata sismica, sono sottoposte alla disciplina di cui alla L. 02.02.1974 n. 64, in quanto l'utilizzo di elementi strutturali di minore solidità rende ancora più necessari i controlli e le cautele prescritte dalla citata legge in materia di costruzioni in zona sismica (Sez. 3, n. 10205 del 18/01/2006, Solis, Rv. 233671).
Ciò sul rilievo che ai fini della configurabilità dei reati previsti dalla disciplina in tema di costruzioni in zone sismiche, le norme dettate dagli artt. 93, 94 e 95, d.P.R. n. 380 del 2001 si riferiscono a tutte le costruzioni, sopraelevazioni e riparazioni edili, a prescindere dal materiale con cui vengono realizzate (Sez. 3, n. 9126 del 16/11/2016, Aliberti, Rv. 269303; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015, Baio, Rv. 266033; Sez. 3, n. 34604 del 17/06/2010, Todaro, Rv. 248330; Sez. 3, n. 28514 del 29/05/2007, Libonati, Rv. 237656).
Per tale ragione, non sono escluse dall'orbita applicativa della fattispecie in questione nemmeno le opere precarie (Sez. 3, n. 37322 del 03/07/2007, Borgia, Rv. 237842; Sez. 3, n. 24086 del 11/04/2012, Di Nicola, Rv. 253056, che ritenuto soggetta a regime autorizzatorio antisismico l'installazione di pannelli autostradali a messaggi variabili) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.01.2018 n. 4567).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati antisismici, l'eventuale rilascio postumo del parere favorevole da parte dell'ufficio del Genio Civile competente che attesti la rispondenza alla normativa antisismica delle opere realizzate, non elide l'antigiuridicità penale della condotta consistente nell'aver iniziato i relativi lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione.
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1. I ricorsi sono manifestamente infondati.
2. Preliminarmente, giova soffermarsi sulla richiesta di declaratoria di estinzione del reato per avvenuto rilascio del permesso di costruire in sanatoria, formulata da Mo. e Sa. con il loro primo motivo di ricorso.
Secondo la previsione dell'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, l'estinzione del reato edilizio a seguito del perfezionamento della procedura amministrativa di accertamento di conformità presuppone "che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda", nonché il "pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall'articolo 16"; oblazione "calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso".
Peraltro, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il rilascio del titolo amministrativo non produce, ipso iure, il suddetto effetto estintivo, residuando, comunque, in capo al giudice penale, il potere-dovere di verificarne in concreto la legittimità, con particolare riguardo alla sua conformità agli strumenti urbanistici vigenti al momento del fatto ed a quello della richiesta (tra le tante, Sez. 3, n. 36366 del 16/06/2015, dep. 09/09/2015, Faiola, Rv. 265034).
Orbene, anche a prescindere dal fatto che
l'accertamento di conformità ai sensi del citato art. 36 comporta l'estinzione delle sole ipotesi contravvenzionali previste dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio (Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014, dep. 22/10/2014, Conforti, Rv. 261099), deve osservarsi che, al fine di verificare l'integrazione della fattispecie estintiva, è necessario operare una valutazione che involge, inevitabilmente, elementi fattuali della situazione concreta, il cui scrutinio è, tuttavia, assolutamente precluso al giudice di legittimità, tanto più che gli atti istruttori richiamati nel permesso di costruire in sanatoria non sono stati in alcun modo allegati, sicché non è possibile nemmeno effettuare un semplice riscontro cartolare circa l'effettivo adempimento delle condizioni poste con il provvedimento in data 22/09/2011 del comune di Vasto.
Ciò assume rilevanza, in particolare, ove si consideri che l'elemento qualificante del fatto contestato consisteva proprio nella totale difformità tra quanto assentito e l'opera effettivamente realizzata, atteso l'evidente mutamento di destinazione d'uso, dalla rimessa di attrezzi agricoli originariamente prevista al fabbricato destinato a civile abitazione, realmente costruito.
Ne consegue, pertanto, la manifesta infondatezza della relativa deduzione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2017 n. 43151).

EDILIZIA PRIVATA: Le contravvenzioni previste dalla normativa antisismica puniscono inosservanze formali, volte a presidiare il controllo preventivo della P.A. Ne deriva che l'effettiva pericolosità della costruzione realizzata senza i prescritti adempimenti è del tutto irrilevante ai fini della sussistenza del reato e la verifica postuma dell'assenza del pericolo ed il rilascio dei provvedimenti abilitativi non incide sulla illiceità della condotta, poiché gli illeciti sussistono in relazione al momento di inizio della attività.
Le disposizioni della normativa antisismica si applicano, invero, a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, a nulla rilevando la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate- a differenza della disciplina relativa alle opere in conglomerato cementizio armato- in quanto l'esigenza di maggior rigore nelle zone dichiarate sismiche rende ancor più necessari i controlli e le cautele prescritte, quando si impiegano elementi strutturali meno solidi e duraturi del cemento armato.

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4. Altrettanto ineccepibilmente i Giudici di merito hanno ritenuto che le contravvenzioni previste dalla normativa antisismica puniscono inosservanze formali, volte a presidiare il controllo preventivo della P.A. Ne deriva che l'effettiva pericolosità della costruzione realizzata senza i prescritti adempimenti è del tutto irrilevante ai fini della sussistenza del reato e la verifica postuma dell'assenza del pericolo ed il rilascio dei provvedimenti abilitativi non incide sulla illiceità della condotta, poiché gli illeciti sussistono in relazione al momento di inizio della attività (cfr. Cass. pen. sez. 3, 17/06/1997 n. 5738).
Le disposizioni della normativa antisismica si applicano, invero, a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, a nulla rilevando la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate- a differenza della disciplina relativa alle opere in conglomerato cementizio armato- in quanto l'esigenza di maggior rigore nelle zone dichiarate sismiche rende ancor più necessari i controlli e le cautele prescritte, quando si impiegano elementi strutturali meno solidi e duraturi del cemento armato (Cass. pen. sez. 3, 24/1012001 n. 38142).
Ugualmente irrilevante, infine, è che la costruzione si trovasse all'interno di una proprietà privata, tutelando la norma la pubblica incolumità (in tale concetto rientra anche il possibile danno al singolo individuo e quindi allo stesso proprietario del manufatto) dagli effetti delle azioni sismiche.
In ordine al reato di cui agli artt. 94 e 95 DPR 380/2001, ascritto all'originario capo c), il Tribunale aveva già mandato assolti gli imputati "perché il fatto non sussiste" proprio in considerazione del fatto che la zona in cui era stata realizzato il muro di recinzione era "a bassa sismicità" (livello 4) per cui non era necessaria la preventiva autorizzazione. 
5. Non era poi certamente maturata la prescrizione, non essendo decorso il termine massimo di anni cinque: la realizzazione del muro di recinzione fu accertata, infatti, in data 31.05.2012 ed i ricorrenti non hanno addotto alcun elemento da cui desumere, in contrasto con tale accertamento, che la permanenza sia invece cessata in epoca anteriore.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, invero, "...sempre restando a carico dell'accusa l'onere della prova della data di inizio della decorrenza del termine prescrittivo, non basta una mera e diversa affermazione da parte dell'imputato a far ritenere che il reato si sia realmente estinto per prescrizione e neppure a determinare l'incertezza sulla data di inizio della decorrenza del relativo termine con la conseguente applicazione del principio in dubio pro reo, atteso che, In base al principio generale per cui ciascuno deve dare dimostrazione di quanto afferma, grava sull'imputato che voglia giovarsi della causa estintiva, in contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, l'onere di allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a potere concretamente disporre, per determinare la data di inizio del decorso del termine di prescrizione, data che in tali ipotesi coincide con quella di esecuzione dell'opera incriminata" Cass. pen. n. 10562 dell'11/10/2000).
Anche la giurisprudenza successiva ha ribadito che "In tema di prescrizione, grava sull'imputato, che voglia giovarsi di tale causa estintiva del reato, l'onere di allegare gli elementi in suo possesso dai quali desumere la data di inizio del decorso del termine, diversa da quella risultante dagli atti" (Cass. pen. sez. 3 n. 19082 del 24/03/2009) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2017 n. 22336).

EDILIZIA PRIVATA: Il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio.
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4. Il terzo motivo è manifestamente infondato, considerata l'autonomia delle fattispecie contestate ai capi B), C), e D) dell'imputazione rispetto al reato di cui al capo A) e la assoluta irrilevanza, rispetto alle predette fattispecie contravvenzionali, del rilascio del permesso a costruire in sanatoria.
Costituisce principio consolidato, infatti, che il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio (Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014, dep. 22/10/2014, Conforti, Rv. 261099; nonché Sez. 3, n. 7764 del 04/05/1999, dep. 16/06/1999, P.M. in proc. Cosentino A ed altro, Rv. 214165 e Sez. 3, n. 2114 del 26/11/2002, dep. 17/01/2003, PG in proc. Frascani e altro, Rv. 223145, pronunciate con riferimento alla omologa disposizione, ratione temporis vigente, di cui all'art. 22 della legge 28.02.1985 n. 47) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.06.2017 n. 30654).

EDILIZIA PRIVATA: L'articolo 93 d.p.r. 380 del 2001, con il quale si intende assicurare la vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche, garantisce, prevedendo la denuncia allo sportello unico, la sinergia fra gli interessati e le amministrazioni coinvolte nel procedimento, imponendo a chi intende procedere agli interventi di costruzione nella zone sismiche di presentare un preavviso scritto (cd. denuncia allo sportello unico) e tale adempimento assume la funzione di informativa dell'attività intrapresa, mirando a rendere effettivo il controllo preventivo della P.A., a presidio del territorio.
L'articolo 83 d.p.r. 380 del 2001, cui l'articolo 93 rinvia, indica le opere disciplinate e i gradi di sismicità, mentre l'articolo 84 definisce il contenuto delle norme tecniche, che devono essere osservate.
L'articolo 94 d.p.r. 380 del 2001, infine, prevede la necessità di una preventiva autorizzazione del competente ufficio tecnico regionale, fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, ed impone che la direzione dei lavori sia assunta da un soggetto abilitato.
Si tratta dunque di una diversità di precetti la cui violazione implica il compimento di condotte plurime, tant'è che, mentre le violazioni della normativa tecnica hanno natura di reato permanente, i reati relativi all'omissione della presentazione della denuncia dei lavori e dell'avviso di inizio lavori hanno natura di reati istantanei, che si consumano nel luogo e nel momento in cui il soggetto intraprende l'attività di edificazione, avendo omesso gli adempimenti richiesti prima dell'esecuzione delle opere.
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1. Il ricorso è infondato.
2. Quanto al primo motivo, i reati contestati integrano l'ipotesi del concorso materiale e non del concorso formale di reati, come invece sostiene la ricorrente.
Per rendersene conto, è sufficiente considerare la struttura delle fattispecie incriminatrici.
L'articolo 93 d.p.r. 380 del 2001, con il quale si intende assicurare la vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche, garantisce, prevedendo la denuncia allo sportello unico, la sinergia fra gli interessati e le amministrazioni coinvolte nel procedimento, imponendo a chi intende procedere agli interventi di costruzione nella zone sismiche di presentare un preavviso scritto (cd. denuncia allo sportello unico) e tale adempimento assume la funzione di informativa dell'attività intrapresa, mirando a rendere effettivo il controllo preventivo della P.A., a presidio del territorio.
L'articolo 83 d.p.r. 380 del 2001, cui l'articolo 93 rinvia, indica le opere disciplinate e i gradi di sismicità, mentre l'articolo 84 definisce il contenuto delle norme tecniche, che devono essere osservate.
L'articolo 94 d.p.r. 380 del 2001, infine, prevede la necessità di una preventiva autorizzazione del competente ufficio tecnico regionale, fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, ed impone che la direzione dei lavori sia assunta da un soggetto abilitato.
Si tratta dunque di una diversità di precetti la cui violazione implica il compimento di condotte plurime, tant'è che, mentre le violazioni della normativa tecnica hanno natura di reato permanente, i reati relativi all'omissione della presentazione della denuncia dei lavori e dell'avviso di inizio lavori hanno natura di reati istantanei, che si consumano nel luogo e nel momento in cui il soggetto intraprende l'attività di edificazione, avendo omesso gli adempimenti richiesti prima dell'esecuzione delle opere.
Ne consegue che la pluralità delle condotte osta all'applicazione della causa di non punibilità reclamata, avendo questa Corte affermato che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, in quanto anche il reato continuato configura un'ipotesi di "comportamento abituale", ostativa al riconoscimento del beneficio (Sez. 3, n. 43816 del 01/07/2015, Amodeo, Rv. 265084) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.04.2017 n. 17908).

EDILIZIA PRIVATA: Il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico (in motivazione la Corte ha precisato che l'art. 83, comma secondo, del citato decreto, non pone alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone medesime).
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In tema di reati edilizi, il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio.

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3. Il ricorso è infondato e deve rigettarsi.
In tema di contestazione dell'accusa, si deve avere riguardo alla specificazione del fatto più che all'indicazione delle norme di legge violate, per cui ove il fatto sia precisato in modo puntuale, la mancata individuazione degli articoli di legge violati è irrilevante e non determina nullità, salvo che non si traduca in una compressione dell'esercizio del diritto di difesa (Sez. 3, n. 5469 del 05/12/2013 - dep. 04/02/2014, Russo, Rv. 258920; Sez. 6, n. 45289 del 08/11/2011 - dep. 05/12/2011, Floridia, Rv. 250991; Sez. 5, n. 44707 del 09/11/2005 - dep. 07/12/2005, Bombagi, Rv. 233069).
L'imputazione, quindi, deve leggersi nella sua esatta descrizione del fatto, ovvero le norme che vengono in considerazione sono l'art. 93 e l'art. 65 del d.P.R. n. 380 del 2001. Infatti nella descrizione della condotta si individua l'assenza dell'attestato di avvenuto deposito di cui all'art. 65, comma 5, del d.P.R. citato, e l'omessa denuncia dei lavori in zona sismica, ex art 93 del d.P.R. citato. Non è contestata pertanto la condotta prevista dall'art. 94 del d. P.R. n. 380 del 2001, inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione.
Per queste fattispecie dì reato, quindi, non opera la previsione dell'art. 94 del d.P.R. n. 380 del 2001, espressamente riferita alla sola preventiva autorizzazione. Prevede infatti la norma: "Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità all'uopo indicate nei decreti di cui all'art. 83, non si possono iniziare i lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione".
Per la fattispecie dell'art. 93 infatti la Corte di Cassazione ha sempre ritenuto irrilevante il grado di sismicità: "
Il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica (art. 93, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è configurabile anche in caso di esecuzione di lavori in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico (in motivazione la Corte ha precisato che l'art. 83, comma secondo, del citato decreto, non pone alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone medesime)" (Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011 - dep. 06/06/2011, Morini, Rv. 250369; nello stesso senso vedi anche Cassazione, sez. 3, n. 37385 del 2013, Cosmo).
Irrilevante, quindi, risulta il grado dì sismicità del Comune di Roseto degli Abruzzi.
Infondato è anche il motivo relativo alla sanatoria della Provincia di Teramo (attestato in sanatoria n. 225811 del 19.11.2011).
In tema di reati edilizi, il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio (Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014 - dep. 22/10/2014, Conforti, Rv. 261099) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.02.2016 n. 8175).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati antisismici, l'eventuale rilascio postumo del parere favorevole da parte dell'ufficio del Genio Civile competente che attesti la rispondenza alla normativa antisismica delle opere realizzate, non elide l'antigiuridicità penale della condotta consistente nell'aver iniziato i relativi lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione.
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4. Non miglior sorte merita il motivo di impugnazione nella parte in cui contesta l'asserito errore giuridico commesso dal giudice.
Ed invero, non merita censura la soluzione cui è pervenuto il giudice di merito laddove ha escluso l'effetto estintivo della sanatoria edilizia anche al reato antisismico.
E' infatti pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che in tema di reati edilizi, il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio (giurisprudenza costante; da ultimo, v.: Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014 - dep. 22/10/2014, Conforti, Rv. 261099)-
5. Quanto, poi, alla tesi sostenuta dalla difesa dell'impugnante, secondo cui dal parere dell'Ufficio del Genio Civile di Frosinone attestante la rispondenza alla normativa antisismica delle opere realizzate ne sarebbe derivata l'insussistenza del reato, la questione -oltre a comportare un apprezzamento di fatto sottratto all'ambito cognitivo di questa Corte- è comunque giuridicamente irrilevante, una volta accertata dal giudice la mancanza del preventivo rilascio del n.o. da parte del Genio Civile. Ed infatti,
la circostanza del rilascio del parere favorevole al mantenimento delle opere realizzate da parte del Genio Civile vale solo ad attestare la regolarità sotto il profilo antisismico di quanto eseguito, ma non elide l'antigiuridicità del fatto, consistito nell'aver omesso di chiedere (ed ottenere) dall'Ufficio del Genio Civile territorialmente competente il preventivo nulla osta alla loro esecuzione.
Non deve, infatti, essere dimenticato che la legislazione in materia antisismica, obbligando i costruttori (nonché il direttore dei lavori: Sez. 3, n. 33469 del 15/06/2006 - dep. 05/10/2006, Osso ed altri, Rv. 235122) a sottoporre al controllo ed all'autorizzazione del genio civile la realizzazione delle opere edilizie in zona soggetta a fenomeni sismici, ha riguardo ad una particolare situazione determinante un pericolo di pregiudizio per la pubblica incolumità. Tuttavia il concetto di pericolo nella materia in questione non è inteso in via assoluta ed astratta, come si evince dal fatto che, sia pure attraverso il particolare procedimento di cui si occupano gli artt. 83 e segg. del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, l'omissione degli anzidetti adempimenti formali non esclude una successiva sanatoria delle opere conformi alle prescrizioni tecniche e tipi di struttura specificatamente elencate dal legislatore. Pertanto, la violazione delle prescrizioni della citata legge costituisce un reato omissivo di natura formale per ciò che attiene all'omessa autorizzazione del genio civile per l'inizio dei lavori, ma non rappresenta ipso facto un pericolo presunto "juris et de jure" di pregiudizio alla pubblica incolumità, che escluda ogni indagine diretta ad accertare la possibilità del pericolo in concreto (v., sul punto: Sez. 3, n. 34 del 02/10/1981 - dep. 05/01/1982, Campisi, Rv. 151464).
Ciò, quindi, giustifica, come emerge dall'impugnata sentenza, la mancata irrogazione dell'ordine di demolizione, attesa proprio la presenza in atti del parere favorevole dell'Ufficio del Genio Civile competente, ma certamente non legittima l'accoglimento della tesi difensiva basata sull'erroneo assunto per il quale il rilascio del parere favorevole dell'ufficio del Genio Civile rende superfluo il preventivo rilascio del n.o..
Deve, conclusivamente, essere affermato il seguente principio di diritto: «
In tema di reati antisismici, l'eventuale rilascio postumo del parere favorevole da parte dell'ufficio del Genio Civile competente che attesti la rispondenza alla normativa antisismica delle opere realizzate, non elide l'antigiuridicità penale della condotta consistente nell'aver iniziato i relativi lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione" (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.07.2015 n. 27876).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussistono, nella fattispecie, elementi idonei ad affermare che l’abuso edilizio posto in essere dal ricorrente possa essere sanato con denunzia di inizio attività in sanatoria.
In primo luogo osta alla praticabilità di tale procedura la circostanza che l’abuso risulta essere stato consumato in zona sismica.
Al proposito si ricorda che gli artt. 17 e 18 L. 64/1974, il cui contenuto è oggi trasfuso negli artt. 93 e 94 del D.P.R. 380/2001, impongono a chiunque intenda procedere a costruzioni in zona sismica –eccettuate le zone a bassa sismicità – di darne avviso, tramite lo sportello unico, al competente ufficio regionale, al quale l’avviso deve essere trasmesso unitamente alla relativa progettazione: i lavori non possono iniziare senza la preventiva autorizzazione scritta dell’ufficio tecnico regionale, il quale deve provvedere entro sessanta giorni (art. 94, comma 1 e 2). Qualora entro il suddetto termine il responsabile dell’ufficio tecnico regionale non abbia provveduto o abbia provveduto in senso negativo, è data all’interessato la possibilità di ricorrere al presidente della giunta regionale, il quale entro i successivi sessanta giorni “decide con provvedimento definitivo” (art. 94, comma 3).
L’esame delle norme dianzi richiamate consente di affermare che la “denunzia di inizio lavori” di cui all’art. 93 D.P.R. 380/2001 altro non costituisce se non una richiesta di parere, o nulla-osta, relativo alla compatibilità dei lavori con la normativa antisismica. E’ altresì evidente che in base agli artt. 93 e 94 D.P.R. 380/2001 l’autorizzazione di competenza dell’ufficio tecnico regionale costituisce un parere vincolante, reso all’esito di un sub-procedimento che si inserisce nel procedimento principale volto al rilascio del titolo abilitativo edilizio, un parere dal quale non si può prescindere e che non è suscettibile di formarsi per silenzio-assenso, come denuncia la chiara inibitoria dei lavori in mancanza della preventiva autorizzazione scritta.
La sussistenza dell’obbligo di munirsi del parere preventivo di cui sopra, non competendo alla autorità comunale, determina la necessità, qualora esso non sia già allegato alla istanza di permesso di costruire o alla d.i.a., di attivare una conferenza di servizi ai sensi dell’art. 20, comma 6, o dell’art. 23, comma 4, D.P.R. 380/2001, questo ultimo applicabile anche alle zone sismiche, la cui individuazione dà luogo ad un vincolo equiparabile –per la funzione di protezione che esso è chiamato svolgere– ai vincoli di natura ambientale, paesaggistica o idrogeologica.
In difetto della autorizzazione dell’ufficio tecnico regionale, il silenzio della Amministrazione Comunale darà luogo a silenzio-rifiuto, se abbia ad oggetto una istanza di permesso di costruire; mentre ove segua ad una denunzia di inizio attività, questa sarà semplicemente inidonea a produrre effetti giuridici, così come chiaramente previsto dall’art. 23, comma 6, D.P.R. 380/2001.
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... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, dell’Ordinanza Dirigenziale n. 561 del 16.10.2008, notificata a Ma.Ma. il 20 successivo, a firma del Dirigente il Settore Pianificazione del Territorio-Servizio Atti Amministrativi del Comune di Andria, con cui gli si ingiunge di demolire delle travi in legno “poggiate tra il muro dei vani esistenti ed il muro di confine” ed una pensillina in legno poste in assenza del permesso di costruzione;
...
Con ricorso passato alla notifica il 18/12/2008 il ricorrente, premettendo di aver realizzato, senza preventiva autorizzazione, una tettoia in legno sul proprio lastrico solare, facilmente rimovibile; di aver ricevuto la comunicazione relativa all’avvio del procedimento sanzionatorio, e di aver infine presentato, il 01/12/2008, richiesta di accertamento di conformità, impugnava il provvedimento indicato in epigrafe con il quale la Amministrazione Comunale ha invitato il ricorrente a procedere alla demolizione del manufatto abusivo.
...
1. I ricorsi sono infondati: non sussistono, ad avviso del Collegio, elementi idonei ad affermare che l’abuso edilizio posto in essere dal ricorrente possa essere sanato con denunzia di inizio attività in sanatoria.
1.1. In primo luogo osta alla praticabilità di tale procedura la circostanza che l’abuso risulta essere stato consumato in zona sismica, come risulta chiaramente dalla ordinanza di demolizione gravata con il ricorso principale.
1.1.1. Al proposito si ricorda che gli artt. 17 e 18 L. 64/1974, il cui contenuto è oggi trasfuso negli artt. 93 e 94 del D.P.R. 380/2001, impongono a chiunque intenda procedere a costruzioni in zona sismica –eccettuate le zone a bassa sismicità – di darne avviso, tramite lo sportello unico, al competente ufficio regionale, al quale l’avviso deve essere trasmesso unitamente alla relativa progettazione: i lavori non possono iniziare senza la preventiva autorizzazione scritta dell’ufficio tecnico regionale, il quale deve provvedere entro sessanta giorni (art. 94, comma 1 e 2). Qualora entro il suddetto termine il responsabile dell’ufficio tecnico regionale non abbia provveduto o abbia provveduto in senso negativo, è data all’interessato la possibilità di ricorrere al presidente della giunta regionale, il quale entro i successivi sessanta giorni “decide con provvedimento definitivo” (art. 94, comma 3).
L’esame delle norme dianzi richiamate consente di affermare che la “denunzia di inizio lavori” di cui all’art. 93 D.P.R. 380/2001 altro non costituisce se non una richiesta di parere, o nulla-osta, relativo alla compatibilità dei lavori con la normativa antisismica. E’ altresì evidente che in base agli artt. 93 e 94 D.P.R. 380/2001 l’autorizzazione di competenza dell’ufficio tecnico regionale costituisce un parere vincolante, reso all’esito di un sub-procedimento che si inserisce nel procedimento principale volto al rilascio del titolo abilitativo edilizio, un parere dal quale non si può prescindere e che non è suscettibile di formarsi per silenzio-assenso, come denuncia la chiara inibitoria dei lavori in mancanza della preventiva autorizzazione scritta.
La sussistenza dell’obbligo di munirsi del parere preventivo di cui sopra, non competendo alla autorità comunale, determina la necessità, qualora esso non sia già allegato alla istanza di permesso di costruire o alla d.i.a., di attivare una conferenza di servizi ai sensi dell’art. 20, comma 6, o dell’art. 23, comma 4, D.P.R. 380/2001, questo ultimo applicabile anche alle zone sismiche, la cui individuazione dà luogo ad un vincolo equiparabile –per la funzione di protezione che esso è chiamato svolgere– ai vincoli di natura ambientale, paesaggistica o idrogeologica.
In difetto della autorizzazione dell’ufficio tecnico regionale, il silenzio della Amministrazione Comunale darà luogo a silenzio-rifiuto, se abbia ad oggetto una istanza di permesso di costruire; mentre ove segua ad una denunzia di inizio attività, questa sarà semplicemente inidonea a produrre effetti giuridici, così come chiaramente previsto dall’art. 23, comma 6, D.P.R. 380/2001 (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 03.04.2009 n. 801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere edili integranti un abuso commesso in zona sismica –nella fattispecie non “a bassa sismicità”– non possono essere assentite in sanatoria, né con permesso di costruire né con d.i.a. in sanatoria.
Al riguardo, invero, si deve osservare che né l’art. 36 né l’art. 37 del D.P.R. 380/2001 disciplinano l’ipotesi in cui l’accertamento di conformità sia richiesto relativamente ad immobile soggetto a vincolo: ciò non può evidentemente portare a ritenere che in sede di accertamento di conformità la presenza di un vincolo non possa mai essere ostativa al rilascio del titolo, ma, all’esatto opposto, deve condurre ad escludere l’ammissibilità dell’accertamento di conformità in presenza di vincolo, salvo che l’ordinamento non preveda che anche il parere della autorità preposta al vincolo possa essere rilasciato in sanatoria.
Così, ad esempio, nel caso di abuso in zona soggetta a vincolo paesaggistico, potendo il parere della Autorità preposta essere rilasciato in sanatoria ogni qual volta l’abuso edilizio non si sia tradotto in nuovi volumi, l’accertamento di conformità non è inammissibile quando non vengano in considerazione nuovi volumi.
Nel caso di specie, ci troviamo di fronte ad una normativa la quale espressamente fa divieto di iniziare i lavori senza la preventiva autorizzazione scritta dell’ufficio tecnico regionale: essa deve quindi essere intesa nel senso che tale autorizzazione non può essere rilasciata ex post, cioè “in sanatoria”.
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... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, dell’Ordinanza Dirigenziale n. 561 del 16.10.2008, notificata a Ma.Ma. il 20 successivo, a firma del Dirigente il Settore Pianificazione del Territorio-Servizio Atti Amministrativi del Comune di Andria, con cui gli si ingiunge di demolire delle travi in legno “poggiate tra il muro dei vani esistenti ed il muro di confine” ed una pensillina in legno poste in assenza del permesso di costruzione;
...
Con ricorso passato alla notifica il 18/12/2008 il ricorrente, premettendo di aver realizzato, senza preventiva autorizzazione, una tettoia in legno sul proprio lastrico solare, facilmente rimovibile; di aver ricevuto la comunicazione relativa all’avvio del procedimento sanzionatorio, e di aver infine presentato, il 01/12/2008, richiesta di accertamento di conformità, impugnava il provvedimento indicato in epigrafe con il quale la Amministrazione Comunale ha invitato il ricorrente a procedere alla demolizione del manufatto abusivo.
...
1.1.2. Tanto sopra premesso occorre ora verificare come si atteggia la situazione nel caso in cui opere edili siano state realizzate in zona sismica non solo in assenza di titolo edilizio, ma anche della autorizzazione regionale prevista dagli artt. 93 e 94 D.P.R. 380/2001: si deve cioè verificare la possibilità o meno che le stesse possano essere assentite in via di sanatoria.
Al riguardo si deve osservare che né l’art. 36 né l’art. 37 del D.P.R. 380/2001 disciplinano l’ipotesi in cui l’accertamento di conformità sia richiesto relativamente ad immobile soggetto a vincolo: ciò non può evidentemente portare a ritenere che in sede di accertamento di conformità la presenza di un vincolo non possa mai essere ostativa al rilascio del titolo, ma, all’esatto opposto, deve condurre ad escludere l’ammissibilità dell’accertamento di conformità in presenza di vincolo, salvo che l’ordinamento non preveda che anche il parere della autorità preposta al vincolo possa essere rilasciato in sanatoria.
Così, ad esempio, nel caso di abuso in zona soggetta a vincolo paesaggistico, potendo il parere della Autorità preposta essere rilasciato in sanatoria ogni qual volta l’abuso edilizio non si sia tradotto in nuovi volumi, l’accertamento di conformità non è inammissibile quando non vengano in considerazione nuovi volumi.
1.1.3. Nel caso di specie, ci troviamo di fronte ad una normativa la quale espressamente fa divieto di iniziare i lavori senza la preventiva autorizzazione scritta dell’ufficio tecnico regionale: essa deve quindi essere intesa nel senso che tale autorizzazione non può essere rilasciata ex post, cioè “in sanatoria”. In senso conforme, del resto, si veda anche TAR Campania-Napoli, VI, sentenza 09.10.2006 n. 8518.
1.1.4. Per le dianze esposte ragioni si deve ritenere che le opere edili sottoposte alla attenzione del Collegio, integrando un abuso commesso in zona sismica –la quale, si ribadisce, non consta essere una zona “a bassa sismicità”– non possono essere assentite in sanatoria, né con permesso di costruire né con d.i.a. in sanatoria: pertanto il Comune non avrebbe potuto assumere una diversa determinazione, da cui l’impossibilità -ex art. 21-octies- di annullare il silenzio-rigetto impugnato con il ricorso per motivi aggiunti (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 03.04.2009 n. 801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune, nel rilasciare il permesso di costruire, non è tenuto a verificare la conformità del titolo alla normativa antisismica dato che quest’ultima, quale normativa di carattere tecnico e non propriamente urbanistico-edilizio, non costituisce parametro di legittimità del titolo rilasciato.
Secondo la normativa vigente di cui al d.p.r. n. 380/2001, nella materia de qua, al Comune compete esclusivamente un compito di vigilanza preventiva e documentale nel senso che, ai sensi dell’art. 93 del d.p.r. n. 380/2001, lo sportello unico comunale è tenuto ad iscrivere la comunicazione dei lavori nell’apposito registro delle denunzie dei lavori nelle zone sismiche, ed a trasmettere tale comunicazione unitamente al progetto della costruzione al competente Ufficio della Regione. A quest’ultimo ufficio compete il rilascio del nulla osta antisismico. In particolare, per le zone che non siano classificate “a bassa sismicità” l’art. 94 d.p.r. stabilisce che, fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo, “non si possono iniziare i lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione”. Tale autorizzazione è quindi condizionante in senso assoluto nel senso che, in mancanza di essa, in alcun caso i lavori possono essere intrapresi, anche qualora il titolo edilizio sia stato già rilasciato.
La giurisprudenza amministrativa ha al riguardo puntualizzato la diversità esistente tra il controllo di conformità del progetto eseguito dal Comune e quello di spettanza del genio Civile in materia sismica, escludendo che la concessione edilizia possa configurarsi quale “atto complesso” in cui confluisce l’osservanza di entrambe le normative. Ciò in quanto, come noto, la normativa antisismica costituisce un apparato posto a presidio di interessi diversi da quelli tutelati dalla normativa urbanistico edilizia, posto che quest’ultima è rivolta essenzialmente a garantire l’ordinato assetto e sviluppo del territorio, mentre la normativa antisismica è un impianto di natura tecnica volto essenzialmente a salvaguardare la pubblica e privata sicurezza ed incolumità.
Sotto tale profilo il nulla osta del Genio Civile si configura quale atto del tutto separato rispetto al permesso di costruire, e non essendo un atto endoprocedimentale rispetto al rilascio del permesso di costruire, ha una valenza autonoma ed esterna, non condizionante l’approvazione del progetto, ma la concreta realizzabilità di un intervento edilizio. Nel chiarire la separazione esistente tra il permesso di costruire ed il nulla osta antisismico la giurisprudenza ha altresì affermato che deve ritenersi legittimo il rilascio di una concessione edilizia per una costruzione da realizzare in zona sismica anche ove, prima del rilascio della medesima, non sia stato ancora acquisto il nulla osta antisismico Ciò in quanto per le opere da realizzare in zone sismiche, il detto nulla osta non è presupposto di legittimità del permesso di costruire, ma costituisce “condizione d’efficacia” del titolo, trattandosi di un presupposto in assenza del quale è precluso lo stesso inizio dei lavori.
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Quanto alla necessità dell’autorizzazione “scritta”, va rimarcato che l’art. 20 della legge n. 741/1981 ha attribuito la facoltà alle Regioni di sostituire l’autorizzazione in origine contemplata dall’art. 18 della legge n. 64/1974 con una semplice “denuncia di inizio attività” purché corredata dal progetto e dall’asseverazione del progettista circa la conformità delle opere alla normativa antisismica.
Sicché, nella Regione Campania, l’articolo 2 della legge regionale 07.01.1983 n. 9 recante: “Norme per l'esercizio delle funzioni regionali in materia di difesa del territorio dal rischio sismico”, ha previsto, al comma 1 che: “Il committente o il costruttore che esegue in proprio devono depositare il progetto esecutivo delle opere di cui all'art. 1 presso l'Ufficio “Provinciale” del Genio civile o Sezione autonoma competente per territorio, prima dell'inizio dei lavori”, ed al comma 2 che: “Tale deposito, ricevuto ai fini di certificazione e, in deroga all'art. 17, L. 02.02.1974, n. 64, esonera dalle autorizzazioni di cui agli artt. 2 e 18 della medesima legge, fermo restando l'obbligo della concessione edilizia prevista dalle vigenti norme urbanistiche”.
Al medesimo ente competono i compiti di controllo e di repressione delle violazioni della disciplina antisismica come desumibile dagli artt. 96 e 97 del d.p.r. 380/2001, riproduttivi degli artt. 21 e 22 della legge n. 64/1974. Quanto alle competenze comunali, l’art. 5, comma 3, della stessa legge regionale n. 9/1983 stabilisce che il Sindaco del Comune nel cui territorio si eseguono le opere è tenuto ad accertare, a mezzo degli agenti e dei tecnici comunali, che: “chiunque inizi l'esecuzione delle opere di cui all'art. 1 sia in possesso dell'attestazione dell'Ufficio Provinciale del Genio civile dell'avvenuto deposito degli atti prescritti” ed aggiunge altresì che: “Tale accertamento sostituisce a tutti gli effetti il disposto del primo comma dell'art. 29 della L. n. 64 del 1974” che richiama l’autorizzazione scritta in origine richiesta ai sensi degli artt. 2 e 18.
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Analogamente, nella Regione Campania, le attribuzione in materia di repressione della normativa antisismica sono di competenza dell’Ufficio provinciale del genio Civile dal momento che, ai sensi dell’art. 6, comma 4, della predetta legge regionale Campania n. 9/1983, per la violazione dell'obbligo del deposito degli atti di cui all'art. 2 della presente legge e dell'art. 11 del D.L. n. 57 del 1982 convertito in L. 29.04.1982, n. 187, nonché, per la omessa denuncia dell'art. 17 della L. n. 64 del 1974, il Sindaco è tenuto a trasmettere il processo verbale compilato dagli agenti competenti per l’accertamento della violazione all'Ufficio provinciale del Genio civile o Sezione autonoma, che ordina la sospensione dei lavori, fissando nel relativo provvedimento un termine per il deposito degli atti nelle forme di cui all'art. 2 della stessa legge.
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Da tale quadro normativo di riferimento si ricava evidentemente che al Comune non è demandato, nel momento del rilascio del permesso di costruire, alcun compito di controllo sostanziale in ordine alla conformità del progetto presentato alla normativa antisismica.
Di qui consegue che l’osservanza della normativa antisismica, quale normativa di natura tecnica, non può costituire parametro di legittimità del permesso di costruire dato che il Comune, nel rilasciare il titolo abilitativo, è tenuto esclusivamente a verificare la conformità del progetto al rispetto della normativa urbanistico-edilizia.
Ogni sindacato in merito alla conformità del progetto rispetto alla normativa antisimica rientra nelle attribuzioni del competente Ufficio tecnico del Genio Civile in sede di rilascio del nulla osta antisismico che, per la regione Campania, è stato sostituito dalla legge regionale n. 9/1983 dal deposito di una denuncia di inizio lavori presso l’Ufficio Provinciale del genio Civile che sostituisce ad ogni effetto l’autorizzazione scritta prescritta dalla legge n. 64/1974.

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4.1. Sotto altro profilo i ricorrenti deducono la violazione dell’altezza massima del fabbricato per violazione della normativa antisismica, secondo quanto prescritto dal punto 4.1 dell’O.P.C.M. 20.03.2003 n. 3274, come integrata dall’O.P.C.M. n. 3431/2005, secondo cui, per i Comuni classificati a medio rischio simico S.9 come il Comune di casa giove (cfr. Delibera Giunta Regionale Campania n. 816/2004) l’altezza del fabbricato che prospetta sulla strada pubblica non può essere superiore alla minima distanza tra la proiezione del fronte dell’edificio ed il ciglio opposto della strada. Nella specie, sulla base dei rilievi eseguiti dal tecnico di parte ricorrente, tale criterio non sarebbe stato rispettato poiché la strada presenta una larghezza massima di metri 9,50, per cui l’altezza dell’erigendo fabbricato supererebbe in ogni caso il limite massimo consentito dalla normativa antisimica.
Il motivo si rivela inammissibile posto che il presente ricorso non è stato altresì notificato al competente Ufficio del Genio Civile nella cui cognizione esclusiva rientra la verifica della rispondenza del progetto alla normativa antisismica. Ed infatti, come correttamente osservato dall’amministrazione intimata, il Comune, nel rilasciare il permesso di costruire, non è tenuto a verificare la conformità del titolo alla normativa antisismica dato che quest’ultima, quale normativa di carattere tecnico e non propriamente urbanistico-edilizio, non costituisce parametro di legittimità del titolo rilasciato.
4.2 Secondo la normativa vigente di cui al d.p.r. n. 380/2001, nella materia de qua, al Comune compete esclusivamente un compito di vigilanza preventiva e documentale nel senso che, ai sensi dell’art. 93 del d.p.r. n. 380/2001, lo sportello unico comunale è tenuto ad iscrivere la comunicazione dei lavori nell’apposito registro delle denunzie dei lavori nelle zone sismiche, ed a trasmettere tale comunicazione unitamente al progetto della costruzione al competente Ufficio della Regione. A quest’ultimo ufficio compete il rilascio del nulla osta antisismico. In particolare, per le zone che non siano classificate “a bassa sismicità” l’art. 94 d.p.r. stabilisce che, fermo restando l’obbligo del titolo abilitativo, “non si possono iniziare i lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione”. Tale autorizzazione è quindi condizionante in senso assoluto nel senso che, in mancanza di essa, in alcun caso i lavori possono essere intrapresi, anche qualora il titolo edilizio sia stato già rilasciato.
4.3 La giurisprudenza amministrativa ha al riguardo puntualizzato la diversità esistente tra il controllo di conformità del progetto eseguito dal Comune e quello di spettanza del genio Civile in materia sismica, escludendo che la concessione edilizia possa configurarsi quale “atto complesso” in cui confluisce l’osservanza di entrambe le normative. Ciò in quanto, come noto, la normativa antisismica costituisce un apparato posto a presidio di interessi diversi da quelli tutelati dalla normativa urbanistico edilizia, posto che quest’ultima è rivolta essenzialmente a garantire l’ordinato assetto e sviluppo del territorio, mentre la normativa antisismica è un impianto di natura tecnica volto essenzialmente a salvaguardare la pubblica e privata sicurezza ed incolumità.
Sotto tale profilo il nulla osta del Genio Civile si configura quale atto del tutto separato rispetto al permesso di costruire, e non essendo un atto endoprocedimentale rispetto al rilascio del permesso di costruire, ha una valenza autonoma ed esterna, non condizionante l’approvazione del progetto, ma la concreta realizzabilità di un intervento edilizio. Nel chiarire la separazione esistente tra il permesso di costruire ed il nulla osta antisismico la giurisprudenza ha altresì affermato che deve ritenersi legittimo il rilascio di una concessione edilizia per una costruzione da realizzare in zona sismica anche ove, prima del rilascio della medesima, non sia stato ancora acquisto il nulla osta antisismico Ciò in quanto per le opere da realizzare in zone sismiche, il detto nulla osta non è presupposto di legittimità del permesso di costruire, ma costituisce “condizione d’efficacia” del titolo, trattandosi di un presupposto in assenza del quale è precluso lo stesso inizio dei lavori (cfr. C.d.S. sez. V, 06.08.1997 n. 875; C.d.S. sez. V, 02.02.1996, n. 117).
4.4 Quanto alla necessità dell’autorizzazione “scritta”, va rimarcato che l’art. 20 della legge n. 741/1981 ha attribuito la facoltà alle Regioni di sostituire l’autorizzazione in origine contemplata dall’art. 18 della legge n. 64/1974 con una semplice “denuncia di inizio attività” purché corredata dal progetto e dall’asseverazione del progettista circa la conformità delle opere alla normativa antisismica.
Sicché, nella Regione Campania, l’articolo 2 della legge regionale 07.01.1983 n. 9 recante: “Norme per l'esercizio delle funzioni regionali in materia di difesa del territorio dal rischio sismico”, ha previsto, al comma 1 che: “Il committente o il costruttore che esegue in proprio devono depositare il progetto esecutivo delle opere di cui all'art. 1 presso l'Ufficio “Provinciale” del Genio civile o Sezione autonoma competente per territorio, prima dell'inizio dei lavori”, ed al comma 2 che: “Tale deposito, ricevuto ai fini di certificazione e, in deroga all'art. 17, L. 02.02.1974, n. 64, esonera dalle autorizzazioni di cui agli artt. 2 e 18 della medesima legge, fermo restando l'obbligo della concessione edilizia prevista dalle vigenti norme urbanistiche”.
Al medesimo ente competono i compiti di controllo e di repressione delle violazioni della disciplina antisismica come desumibile dagli artt. 96 e 97 del d.p.r. 380/2001, riproduttivi degli artt. 21 e 22 della legge n. 64/1974. Quanto alle competenze comunali, l’art. 5, comma 3, della stessa legge regionale n. 9/1983 stabilisce che il Sindaco del Comune nel cui territorio si eseguono le opere è tenuto ad accertare, a mezzo degli agenti e dei tecnici comunali, che: “chiunque inizi l'esecuzione delle opere di cui all'art. 1 sia in possesso dell'attestazione dell'Ufficio Provinciale del Genio civile dell'avvenuto deposito degli atti prescritti” ed aggiunge altresì che: “Tale accertamento sostituisce a tutti gli effetti il disposto del primo comma dell'art. 29 della L. n. 64 del 1974” che richiama l’autorizzazione scritta in origine richiesta ai sensi degli artt. 2 e 18.
Analogamente, nella Regione Campania, le attribuzione in materia di repressione della normativa antisismica sono di competenza dell’Ufficio provinciale del genio Civile dal momento che, ai sensi dell’art. 6, comma 4, della predetta legge regionale Campania n. 9/1983, per la violazione dell'obbligo del deposito degli atti di cui all'art. 2 della presente legge e dell'art. 11 del D.L. n. 57 del 1982 convertito in L. 29.04.1982, n. 187, nonché, per la omessa denuncia dell'art. 17 della L. n. 64 del 1974, il Sindaco è tenuto a trasmettere il processo verbale compilato dagli agenti competenti per l’accertamento della violazione all'Ufficio provinciale del Genio civile o Sezione autonoma, che ordina la sospensione dei lavori, fissando nel relativo provvedimento un termine per il deposito degli atti nelle forme di cui all'art. 2 della stessa legge.
Da tale quadro normativo di riferimento si ricava evidentemente che al Comune non è demandato, nel momento del rilascio del permesso di costruire, alcun compito di controllo sostanziale in ordine alla conformità del progetto presentato alla normativa antisismica.
Di qui consegue che l’osservanza della normativa antisismica, quale normativa di natura tecnica, non può costituire parametro di legittimità del permesso di costruire dato che il Comune, nel rilasciare il titolo abilitativo, è tenuto esclusivamente a verificare la conformità del progetto al rispetto della normativa urbanistico-edilizia.
Ogni sindacato in merito alla conformità del progetto rispetto alla normativa antisimica rientra nelle attribuzioni del competente Ufficio tecnico del Genio Civile in sede di rilascio del nulla osta antisismico che, per la regione Campania, è stato sostituito dalla legge regionale n. 9/1983 dal deposito di una denuncia di inizio lavori presso l’Ufficio Provinciale del genio Civile che sostituisce ad ogni effetto l’autorizzazione scritta prescritta dalla legge n. 64/1974
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 08.07.2009 n. 3821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 
 

Il fabbricato accatastato come unità collabente F/2, ai fini ICI/IMU non può essere tassato quale fabbricato e neppure come area edificabile.

TRIBUTI: Se il fabbricato è accatastato come unità collabente F/2, ai fini ICI/IMU non può essere tassato quale fabbricato e neppure come area edificabile.
Il fabbricato accatastato come unità collabente (categoria F/2), oltre a non essere tassabile come fabbricato, in quanto privo di rendita, non è tassabile neppure come area edificabile, sino a quando l'eventuale demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che da allora è soggetta a imposizione come tale, fino al subentro della imposta sul fabbricato ricostruito.
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Considerato:
   - che il motivo di ricorso è fondato;
   - che infatti
un fabbricato "collabente" (cioè in rovina, dall'etimo latino collabi, collapsus, ossia in collasso) come quello di specie è privo di ogni potenzialità funzionale e reddituale;
   - che infatti
mentre un'area libera da cascami edilizi versa in condizione di pronta edificabilità, un'area impegnata da rovine come quella di specie esige interventi di demolizione e bonifica necessari a reintegrare in concreto le potenzialità edificatorie del suolo, non potendosi accostare le due fattispecie, divergenti anche sotto il profilo della capacità contributiva del proprietario;
   - che quindi
il fabbricato accatastato come unità collabente (categoria F/2), oltre a non essere tassabile come fabbricato, in quanto privo di rendita, non è tassabile neppure come area edificabile, sino a quando l'eventuale demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che da allora è soggetta a imposizione come tale, fino al subentro della imposta sul fabbricato ricostruito (art. 5, comma 6, d.lgs. n. 504 del 1992: Cass. 19.07.2017, n. 23801);
   - che inoltre
la sottrazione ad imposizione del fabbricato collabente, iscritto nella conforme categoria catastale F/2, in ragione dell'azzeramento della base imponibile, non può essere recuperata prendendo a riferimento la diversa base imponibile prevista per le aree edificabili, costituita dal valore venale del terreno sul quale il fabbricato insiste, atteso che la legge prevede l'imposizione ICI per le aree edificabili, e non per quelle già edificate (Cass. 19.07.2017, n. 17815);
   - che infine l'art. 5, comma 4, del d.lgs. 30.12.1992, n. 504 consente al contribuente, in presenza di variazioni permanenti intervenute sull'unità immobiliare ed aventi rilevanza sull'ammontare della rendita catastale, di determinare l'imponibile sulla base di una rendita presunta, costituita da quella dei fabbricati similari, fino a quando, su richiesta del contribuente medesimo, non sia intervenuto un nuovo accatastamento (Cass. 23.02.2010, n. 4308);
   - che pertanto,
nel caso di un fabbricato divenuto inagibile, l'imponibile, fino al nuovo accatastamento, non può essere determinato sulla base del valore dell'area edificabile, risultante dalla demolizione del rudere medesimo, essendo "area" e "fabbricato" distinte categorie (Cass. 23.02.2010, n. 4308);
   - che pertanto, assorbiti gli altri motivi di ricorso, il ricorso va accolto, entrambe le sentenze impugnate vanno cassate e, non essendo necessarie indagini di fatto, la causa deve essere decisa nel merito, con l'annullamento sia dell'avviso di accertamento relativo all'ICI per il 2005 (r.g.n. 3551/2014) che quello relativo all'ICI per il 2006 (r.g.n. 3548/2014);
   - che
solo in "tempi recenti si è consolidata una specifica giurisprudenza di legittimità sulle unità collabenti, per le quali si è appunto esclusa la tassazione sia del fabbricato perché improduttivo di reddito, sia dell'area d'insistenza perché già edificata" (Cass. 30.10.2017, n. 25774; Cass. 19.07.2017, n. 23801; Cass. 19.07.2017, n. 17815) e che pertanto ciò impone di compensare le spese processuali di ogni fase e grado (Corte di Cassazione, Sez. V civile, ordinanza 28.03.2018 n. 7653).

TRIBUTI: Niente prelievo sul collabente privo di rendita.
I fabbricati collabenti, iscritti in catasto con la categoria F2, senza attribuzione di rendita, non sono soggetti a Ici né come fabbricati né come area fabbricabile. Tanto, finché non si procede alla competa demolizione dell’unità in esame.

La precisazione è contenuta nella sentenza 11.10.2017 n. 23801 della Corte di Cassazione, Sez. V civile, che conferma il precedente in materia della sentenza 17815/2017.
Il comune aveva emesso un accertamento Ici nei riguardi di un immobile risultante in catasto nella categoria F2, privo di rendita. L’accertamento aveva ad oggetto, in realtà, non già il fabbricato bensì l’area di sedime dello stesso, qualificata come area fabbricabile alla luce delle previsioni dello strumento urbanistico.
La Suprema corte ha tuttavia annullato l’avviso di accertamento procedendo a una sintetica ricostruzione degli elementi strutturali dell’Ici, valevole anche per l’Imu, stante la sostanziale identità di disciplina.
Viene in primo luogo evidenziata la diversità concettuale tra fabbricato inagibile e fabbricato collabente. Nel primo caso, si è di fronte ad una unità che ha perso parte delle sue potenzialità funzionali per effetto di eventi sopravvenuti. Ad essa compete pertanto la riduzione a metà della base imponibile. Nella fattispecie di fabbricati collabenti, invece, si è a cospetto di immobili che sono privi di qualunque forma di potenziale utilizzabilità per il possessore, tant’è che gli stessi sono iscritti in catasto senza attribuzione di rendita.
In entrambe le situazioni, tuttavia, è configurabile una unità immobiliare riconducibile alla nozione di fabbricato, circostanza questa che esclude la possibilità di ravvisare sia l’area edificabile che quella di terreno agricolo. D’altra parte la tripartizione nell’applicazione dell’imposta (fabbricati, aree fabbricabili e terreni agricoli) è tassativamente tipizzata nella disciplina di riferimento, di tal che non appare ipotizzabile un quartum genus, nella forma dell’«area edificata».
La conclusione della Suprema corte è dunque nel senso che, sino a quando il fabbricato collabente risulterà così identificato in catasto, lo stesso non potrà in alcun modo essere assoggettato a imposizione, né come fabbricato, per totale mancanza di base imponibile, né come area edificabile. Tale situazione tuttavia cessa di esistere quando si provvede alla totale demolizione dei “resti” del fabbricato, poiché in questa eventualità l’area di risulta, ove potenzialmente edificabile, va considerata come suolo fabbricabile.
In proposito, si ricorda peraltro che l’area ove in concreto si svolgono lavori di edificazione è comunque qualificata come fabbricabile, anche in deroga a eventuali difformi previsioni urbanistiche (articolo 5, comma 6, del Dlgs 504/1992, richiamata anche nell’Imu).
Nella precedente sentenza 17815/2017 è stato, inoltre, segnalato che i Comuni possono reagire a eventuali comportamenti elusivi dei contribuenti, contestando l’accatastamento in F2. Ciò accade ad esempio quando l’unità non è individuale o perimetrabile (articolo Il Sole 24 Ore del 12.10.2017).
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MASSIMA
1. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione degli artt. 2 e 5 d.lgs. 504/1992, per aver il giudice d'appello ritenuto tassabile come area edificabile l'area d'insistenza di un fabbricato di categoria F/2 (c.d. unità collabenti).
2. Il motivo è fondato.
La Corte ha avuto modo di precisare che
non è tassabile come area edificabile l'area d'insistenza di un fabbricato diroccato e tuttavia non demolito, mentre è tassabile l'area di risulta della demolizione (Cass. 23.02.2010, n. 4308).
Ciò deve essere ribadito, poiché l'insistenza di un fabbricato riconoscibile per tale esclude che venga in autonomo rilievo l'area di sedime, come si evince dall'art. 2, comma 1, lett. a, d.lgs. 504/1992 («... considerandosi parte integrante del fabbricato l'area occupata dalla costruzione ...»).
Il regime tributario del fabbricato inagibile si diversifica poi in rapporto all'incidenza del deterioramento sulle potenzialità funzionali e reddituali del bene, le quali costituiscono indice di capacità contributiva:
   a) il fabbricato semplicemente inagibile ha una potenzialità marginale e pertanto sconta l'imposta con riduzione del 50% (art. 8, comma 1, d.lgs. 504/1992);
   b) il fabbricato collabente (cioè in rovina, dall'etimo latino collabi, collapsus) è privo di ogni potenzialità e va pertanto esente da imposta, sin quando l'eventuale demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che da allora va tassata come tale, fino al subentro della tassazione del fabbricato ricostruito (art. 5, comma 6, d.lgs. 504/1992).
3. Vale il seguente principio di diritto: «
in tema di imposta comunale sugli immobili, il fabbricato accatastato come unità collabente (categoria F/2), oltre a non essere tassabile come fabbricato in quanto privo di rendita, non è tassabile neppure come area edificabile, sino a quando l'eventuale demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che da allora è tassabile come tale, fino al subentro della tassazione del fabbricato ricostruito».
Discostatasi da questo principio attraverso il richiamo di un precedente non conferente (Cass. 01.03.2013, n. 5166, relativa alla c.d. edificabilità di fatto), la sentenza deve essere cassata in accoglimento del primo motivo di ricorso.
4. Non essendo necessarie indagini di fatto, la causa deve essere decisa nel merito, con l'annullamento dell'avviso di accertamento; restano assorbiti il secondo e terzo motivo di ricorso, entrambi concernenti il profilo accessorio delle sanzioni.
5.
Solo in tempi recenti si è formata una specifica giurisprudenza di legittimità sulle unità collabenti, per le quali si è appunto esclusa la tassazione sia del fabbricato perché improduttivo di reddito, sia dell'area d'insistenza perché già edificata (Cass. 19.07.2017, n. 17815): ciò impone di compensare le spese processuali di ogni fase e grado.
6. Nella discussione d'udienza, il Pubblico Ministero ha manifestato dissenso rispetto a questo orientamento di legittimità, assumendo che:
   i) l'unità collabente sia catastalmente irrilevante, perciò incapace di negare l'autonoma considerazione fiscale dell'area d'insistenza;
   ii) detta esegesi implichi il paradosso dell'integrale esonero impositivo dell'area edificata con fabbricato collabente, area invece tassata come edificabile se libera da tale fabbricato.
7. Ritiene il Collegio di poter assicurare continuità alla recente giurisprudenza della Corte, osservando che:
  
i) l'unità collabente ha una sua propria rilevanza catastale, seppur a fini meramente identificativi, cioè senza attribuzione di rendita (art. 3, comma 2, lett. b, d.m. 28/1998);
   ii) l'area libera da cascami edilizi versa in condizione di pronta edificabilità, mentre l'area impegnata da rovine esige interventi di demolizione e bonifica necessari a reintegrare in concreto le potenzialità edificatorie del suolo, non potendosi accostare le due fattispecie, divergenti anche sotto il profilo della capacità contributiva del proprietario
(Corte di Cassazione, Sez. V civile, sentenza 11.10.2017 n. 23801).

TRIBUTI: a. il fabbricato collabente iscritto in conforme categoria catastale F/2 si sottrae ad imposizione Ici; e ciò non per assenza del presupposto dell'imposta (art. 1 d.lgs. 504/1992), ma per azzeramento della base imponibile (art. 5 d.lgs. cit.), stante la mancata attribuzione di rendita e l'incapacità di produrre ordinariamente un reddito proprio;
   b. la mancata imposizione Ici del fabbricato collabente non può essere recuperata dall'amministrazione comunale prendendo a riferimento la base imponibile costituita dal valore venale dell'area sulla quale esso insiste, posto che la legge prevede l'imposizione Ici (oltre che dei fabbricati e dei terreni agricoli) dell'area edificabile, non anche di quella già edificata;
   c. anche ai fini Ici, come in materia di plusvalenze reddituali da cessione di area edificabile, non può essere considerata tale l'area inserita dallo strumento urbanistico in zona di risanamento conservativo per la quale la normativa comunale preveda solo interventi edilizi di recupero e risanamento delle costruzioni già esistenti, senza possibilità di incrementi volumetrici.

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§ 5. Si ravvisa invece la fondatezza delle doglianze concernenti la violazione o falsa applicazione, ex art. 360, 1° co., n. 3, cod. proc. civ., della normativa Ici di riferimento (quarto e quinto motivo di ricorso).
La tesi della società contribuente -secondo cui (ric. pag.7) "nulla risulta quindi dovuto ai fini Ici: i fabbricati sono collabenti e privi di rendita e quindi non soggetti all'imposta, e le aree sulle quali essi insistono non sono né agricole (stante la presenza su di esse degli ex opifici), né edificabili (stante il dettato dello strumento urbanistico)"- deve trovare accoglimento nei termini che seguono.
In forza dell'articolo 5 d.lgs. 504/1992, nel caso di area edificata la base imponibile Ici è determinata dal valore del fabbricato (1° co.); per í fabbricati iscritti in catasto, tale valore è stabilito applicando un determinato moltiplicatore alla rendita catastale vigente al 1° gennaio dell'anno di imposizione (2° co.); la base imponibile è invece costituita dal valore dell'area, considerata fabbricabile, allorquando nell'anno di imposizione vi sia utilizzazione edificatoria in corso dell'area stessa, demolizione di fabbricato ovvero realizzazione di interventi di recupero ai sensi dell'articolo 31, 1° co., legge 457/1978 lett. c), d) ed e) (6° co.).
L'applicazione di queste prescrizioni al caso di specie induce ad escludere la fondatezza dell'avviso di accertamento e liquidazione opposto; relativo a fabbricati in stato di rovina e, come tali, iscritti fin dal 1999 in categoria catastale F/2. L'attribuzione di questa categoria (prevista dal D.M. Finanze 28/1998) presuppone infatti che il fabbricato si trovi in uno stato di degrado tale da comportarne l'oggettiva incapacità di produrre ordinariamente un reddito proprio; per tale ragione l'iscrizione in catasto avviene senza attribuzione di rendita, ed al fine "della sola descrizione dei caratteri specifici e della destinazione d'uso" (art. 3, 2° co., D.M. cit.).
In assenza di rendita, viene meno -secondo la su richiamata disciplina istitutiva- la stessa materia determinativa della base imponibile.
Non varrebbe obiettare, con il Comune, che l'iscrizione in categoria catastale F/2 si presterebbe, secondo tale interpretazione, a facile elusione dell'imposta mediante qualificazione catastale come 'collabenti' di fabbricati invece ancora suscettibili di apprezzabile rilievo economico ed appetibilità commerciale.
In tale situazione, certamente possibile, sussisterebbero infatti i presupposti per impugnare tale classificazione, facendone emergere la sua difformità rispetto allo stato di fatto; e ciò tenendo anche presente quanto stabilito dalla nota 29439/2013 della Direzione Centrale Catasto e Cartografia dell'Agenzia delle Entrate, secondo la quale l'attribuzione della categoria in oggetto (tanto alle abitazioni quanto ai fabbricati produttivi) "non è ammissibile quando l'unità immobiliare è censibile in un'altra categoria, o quando l'unità non è individuabile o perimetrabile".
Ora, nel caso di specie non di questo si discute; dal momento che l'effettiva spettanza, agli immobili della ex-acciaieria, della classificazione catastale F/2 di collabenza da essi conseguita (con quanto ne deriva in ordine alla inesistenza di rendita ed alla inidoneità alla produzione di reddito imponibile) non è stata posta in discussione nemmeno dall'amministrazione comunale, così da costituire -quantomeno per l'annualità Ici di riferimento- un dato obiettivo e certo di causa.
Altro è a dire che, esclusa sul fabbricato, l'imposizione Ici dovrebbe colpire l'area di insistenza del fabbricato medesimo.
Si tratta di tesi che la commissione tributaria regionale ha ritenuto di accogliere osservando come, nella specie, vi fossero gli estremi per reputare "edificabile l'area già edificata"; e ciò in forza di un programma di fabbricazione e di un decreto assessoriale "che consentono per gli opifici industriali già esistenti interventi di manutenzione".
Questa soluzione non è giuridicamente corretta.
Va infatti considerato che gli elementi della fattispecie impositiva sono prestabiliti dalla legge secondo criteri di certezza e tassatività, e che -nel caso dell'Ici- la legge sottopone ad imposta (art.1 d.lgs. 504/1992) unicamente (il possesso di) queste tre ben definite tipologie di beni immobili: fabbricati, aree fabbricabili, terreni agricoli.
Come sì è detto,
il fabbricato iscritto in categoria catastale F/2 non cessa di essere tale sol perché collabente e privo di rendita; lo stato di collabenza ed improduttività di reddito, in altri termini, non fa venir meno in capo all'immobile -fino all'eventuale sua completa demolizione- la tipologia normativa dì 'fabbricato'. Tanto è vero che la mancata imposizione si giustifica, nella specie, non già per assenza di 'presupposto' ex arti cit., ma per assenza di 'base imponibile' (valore economico pari a zero) ex art. 5 cit..
Sennonché,
esclusa la rilevanza tassabile del fabbricato collabente, l'imposizione Ici non potrebbe essere 'recuperata' dall'amministrazione comunale facendo ricorso ad una base imponibile tutt'affatto diversa: quella attribuibile all'area di insistenza del fabbricato. Ciò perché quest'ultima non rientra in nessuno dei presupposti Ici, trattandosi all'evidenza di area già edificata, e dunque non di area edificabile.
L'inconciliabilità fra queste due ultime nozioni non è solo concettuale, ma anche giuridica; dal momento che, diversamente ragionando, si verrebbe inammissibilmente ad introdurre nell'ordinamento -in via interpretativa- un nuovo ed ulteriore presupposto d'imposta, costituito appunto dall'"area edificata".
In tal senso si è già pronunciata questa corte di cassazione (sent. n. 4308/2010) la quale -investita di una fattispecie analoga alla presente- ha ritenuto che la decisione del giudice di secondo grado, volta a consentire il ricalcolo dell'Ici sulla base del valore attribuito all'area edificabile sulla quale sussisteva un fabbricato fatiscente, non potesse ritenersi corretta; dal momento che "
non sono parificabili, per scelta del legislatore, l'ipotesi dell'area risultante dalla demolizione di un rudere e quella dell'immobile dichiarato inagibile ma non demolito; con la conseguenza che, in tale ultima ipotesi, il giudice di merito non può stabilire una categoria nuova ed ulteriore rispetto a quelle previste dal legislatore".
Osserva il Comune che, come rilevato dal giudice di appello, l'area già sede della ex-acciaieria può essere fatta oggetto di interventi edilizi di recupero e manutenzione straordinaria, sebbene limitati alla conformazione originaria ed alla volumetria esistente; e che, in ragione di ciò, essa mantiene una apprezzabile appetibilità commerciale, tanto da poter essere destinata ad impieghi edilizi speculativi mediante, appunto, ricostituzione dei fabbricati fatiscenti.
Nel caso di specie è in effetti pacifico che i terreni dov'era situato l'opificio dismesso, ancorché ricadenti in un più ampio ambito destinato a verde agricolo ('Zona E'), mantenevano, in base al PRG, la pregressa destinazione urbanistica di impiego produttivo- industriale, sebbene per la sola realizzazione di interventi di manutenzione; e tuttavia l'argomento dedotto dal Comune non può dirsi dirimente.
Va intanto considerato che la presente controversia ha ad oggetto, non già il valore commerciale ipoteticamente attribuibile all'area in questione nella prospettiva dinamica della sua futura valorizzazione edilizia ed urbanistica, ma soltanto i presupposti dell'imposizione Ici relativi ad una determinata annualità (2002).
Sicché non sembra che possa qui prescindersi dal dato oggettivo e pacifico in uso, secondo cui in tale annualità (ferma restando la riconsiderazione della fondatezza della pretesa impositiva del Comune con riguardo ad annualità successive, nel corso delle quali quella valorizzazione abbia, in ipotesi, trovato sbocco concreto), si verteva appunto e soltanto di un fabbricato collabente fatto oggetto di conforme ed incontestata iscrizione catastale; non dedotto in alcun intervento in corso, né in alcuna convenzione o pratica amministrativa pendente di recupero e valorizzazione edilizia (con conseguente esclusione altresì dell'ipotesi di cui al 6° co. dell'art. 5 d.lgs. 504/1992).
Oltre a ciò, deve comunque considerarsi errato lo stesso richiamo alla edificabilità dell'area di insistenza del fabbricato fatiscente.
Soccorre, in proposito, quanto già osservato -con riguardo ad immobili della Acciaieria di Sicilia spa e siti in Campofelíce di Roccella- da Cass. ord. nn. 20160-3/14 (Ici 2003-2006); secondo cui "
non può essere considerata edificabile l'area inserita dallo strumento urbanistico nella zona omogenea A 'residenziale storica di risanamento conservativo' ancorché per tale area la normativa comunale preveda solo interventi edilizi di recupero e risanamento delle costruzioni esistenti, senza possibilità di incrementi volumetrici".
Si tratta di conclusione armonica rispetto all'indirizzo di legittimità formatosi in materia di plusvalenze reddituali realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria, secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione stessa [art. 81, comma 1, lett. B), T.U.I.R., ora art. 67]: Cass. nn. 15631/2014; 4150/2014; 15321/2013.
I motivi di ricorso in esame vanno pertanto accolti, mediante affermazione del principio secondo cui:
 
  a. il fabbricato collabente iscritto in conforme categoria catastale F/2 si sottrae ad imposizione Ici; e ciò non per assenza del presupposto dell'imposta (art. 1 d.lgs. 504/1992), ma per azzeramento della base imponibile (art. 5 d.lgs. cit.), stante la mancata attribuzione di rendita e l'incapacità di produrre ordinariamente un reddito proprio;
   b. la mancata imposizione Ici del fabbricato collabente non può essere recuperata dall'amministrazione comunale prendendo a riferimento la base imponibile costituita dal valore venale dell'area sulla quale esso insiste, posto che la legge prevede l'imposizione Ici (oltre che dei fabbricati e dei terreni agricoli) dell'area edificabile, non anche di quella già edificata;
   c. anche ai fini Ici, come in materia di plusvalenze reddituali da cessione di area edificabile, non può essere considerata tale l'area inserita dallo strumento urbanistico in zona di risanamento conservativo per la quale la normativa comunale preveda solo interventi edilizi di recupero e risanamento delle costruzioni già esistenti, senza possibilità di incrementi volumetrici
(Corte di Cassazione, Sez. V civile, sentenza 19.07.2017 n. 17815).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIPer l’omissione di atti d’ufficio bastano 30 giorni di ritardo.
Perché possa dirsi consumato il delitto di omissione di atti d'ufficio disciplinato dall’articolo 328, comma 2, del codice penale, è sufficiente che siano trascorsi 30 giorni dalla diffida rivolta dal privato alla Pa affinché adotti l'atto richiesto, senza che il pubblico ufficiale competente gli abbia almeno esplicitato le ragioni del ritardo.
Non rileva, invece, che siano già scaduti i termini per la conclusione del procedimento amministrativo dal momento che l'illecito penale prescinde dalla consumazione di un illecito amministrativo.

È questo il principio di diritto enunciato dalla sesta sezione penale della Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 18.04.2018 n. 17536.
La vicenda
Il caso riguardava un cittadino di un Comune della provincia di Roma che aveva formalmente «messo in mora» la municipalità intimandola entro 30 giorni dalla propria richiesta a porre in essere quanto necessario per realizzare le opere di urbanizzazione (una strada).
L'ente locale non forniva nel termine indicato alcun riscontro, e il cittadino inviava al Comune un atto «di significazione e diffida». Veniva pertanto aperto un procedimento penale a carico del sindaco e del responsabile dell'ufficio tecnico.
Il Gup del Tribunale di Tivoli faceva però cadere l'accusa con la motivazione che non vi fossero gli estremi per ritenere integrato il delitto di omissione di atti d'ufficio in quanto all'attivazione del privato non poteva riconoscersi la natura di «diffida ad adempiere» ma quella di «originaria richiesta» inviata a un ente pubblico, sulla quale l'ente avrebbe dovuto provvedere nel termine previsto dall'articolo 2 della legge 241/1990 per la definizione dei procedimenti amministrativi, pari a 30 giorni salvo diverse disposizioni. Sempre ad avviso del Tribunale, decorso inutilmente il termine amministrativo, perché si perfezionasse il reato occorrevano poi l'ulteriore messa in mora della Pa e il suo persistente silenzio all'esito del decorso del termine supplementare di altri trenta giorni stabilito dalla legge penale.
La decisione
Tesi tuttavia sconfessata dai Giudici di Piazza Cavour secondo i quali i due termini (amministrativo e penale) sono pienamente sovrapponibili, sicché la mancata adozione del provvedimento da parte del funzionario pubblico entro il lasso temporale ordinario di 30 giorni sancito dalla legge 241/1990 implica sia il prodursi del silenzio-inadempimento della Pa, denunciabile al Tar, sia la consumazione della condotta omissiva penalmente rilevante secondo l’articolo 328, comma 2, del codice penale, laddove la Pa oltre a non adottare l'atto richiesto, neppure formuli una risposta negativa per spiegare le ragioni del ritardo.
Va detto che la ricostruzione della Cassazione può determinare effetti paradossali ove si consideri che la Pa, nella stragrande maggioranza dei casi, ha facoltà di concludere il procedimento in un termine superiore a trenta giorni, che a norma dell'articolo 2 della legge 241/1990 trova applicazione solo nei casi in cui l'Amministrazione interessata non abbia provveduto con regolamento a determinarne uno diverso, che normalmente è più lungo (di regola, in base alla stesso articolo 2, può raggiungere i 180 giorni).
Aderendo alla tesi della Corte di legittimità, potrebbe allora capitare che il funzionario responsabile rimasto silente a fronte di una richiesta del privato, trascorsi 30 giorni, possa essere chiamato a rispondere del reato di omissione di atti d'ufficio pur versando in una situazione assolutamente lecita sul piano amministrativo, disponendo di altro tempo per provvedere (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2018).
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RITENUTO IN FATTO
1. Lu.Ch., persona offesa costituita parte civile, ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe emessa dal G.u.p. di Tivoli con cui, all'esito dell'udienza preliminare, ha dichiarato non doversi procedere perché il fatto non sussiste nei confronti degli imputati Ri.Ma. e Ca.Lu., rispettivamente sindaco e responsabile dell'ufficio tecnico del comune di Riano, per non aver dato seguito, nel termine di trenta giorni, all'atto di «significazione e diffida» per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, nonché per l'adozione di misure ex art. 53 d.lgs. n. 267/2000, nella zona della via della Valle del Fiume di Ponte Sodo, in Riano nel novembre del 2013.
2. Il ricorrente, per il tramite del difensore, deduce vizi di motivazione e violazione dell'art. 328, secondo comma, cod. pen. a mente dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in ordine alla ritenuta insussistenza del reato di omissione di atti d'ufficio, in presenza di un obbligo di provvedere in capo all'amministrazione su cui si sia formato il silenzio-inadempimento, nonché in relazione alla portata del requisito strutturale della diffida ad adempiere. Si cesura quanto rilevato dalla motivazione della sentenza secondo cui, dopo la richiesta di adempiere, formatosi il silenzio-inadempimento al decorso dei 30 giorni, sarebbe dovuta seguire, ai fini dell'integrazione della fattispecie contestata, una ulteriore diffida, consumandosi il reato al decorrere di ulteriori 30 giorni senza che l'amministrazione avesse provveduto o fornito al privato i motivi del ritardo.
La decisione connessa alla formazione del silenzio-inadempimento conseguente all'omessa evasione della diffida, si osserva, è situazione affatto simile all'integrazione del reato che prescinde dalla tutela amministrativa, che nel caso di specie ha condotto alla declaratoria di annullamento del silenzio-inadempimento.
Sussistendo l'obbligo da parte dell'amministrazione di provvedere in quanto direttamente derivante dalla legge, obbligo anche enunciato in diffida con pedissequa riproduzione dei profili normativi di riferimento, non era neppure necessaria la previa apertura del procedimento, con conseguente immediata consumazione del reato al decorso dei 30 giorni, senza che l'amministrazione avesse provveduto sull'stanza o comunicato le ragioni del ritardo.
Né poteva porsi un problema connesso alla qualificazione dell'atto inviato che indicava la esplicita dizione di «atto di significazione e diffida alla realizzazione di opere di urbanizzazione», atto a cui l'amministrazione non ha fornito alcun riscontro.
La sentenza è anche illogica poiché tende a differenziare la richiesta di adozione di un atto indirizzata alla P.A. dalla diffida necessaria ai fini della integrazione, facendo espresso richiamo ad un precedente di questa Corte (Sez. 6, n. 40008 del 27/10/2010) che in realtà aveva escluso che l'atto potesse essere valutato come diffida, situazione non conforme a quella decisa.
...
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.
Il ricorso è fondato e la sentenza deve essere annullata.
2. Preliminarmente deve evidenziarsi, in ordine a quanto argomentato nella memoria dai due imputati, che l'art. 428, comma 2, cod. proc. pen., nella formulazione antecedente alla riforma intervenuta con la legge 23.06.2017, n. 103, che ha espunto la possibilità di ricorrere per cassazione avverso la sentenza di non luogo a procedere del giudice delle udienza preliminare, prevede che la persona offesa possa ricorrere (a condizione che sia anche costituita parte civile), sussistendo il suo interesse ad impugnare, trattandosi di impugnazione riguardante gli effetti penali (Sez. 5, n. 41350 del 10/07/2013, P.O. in proc. Cappellato e altro, Rv. 257934).
2.1. Da tanto discende che, per il tenore dell'art. 428, comma 2, cod. proc. pen., non pertinente è il riferimento all'art. 572 cod. proc. pen. che riguarda la richiesta rivolta al P.M. affinché impugni la sentenza, mentre l'art. 577 cod. proc. pen. concerne i capi della sentenza che riguardano i soli aspetti civili.
2.2. Quanto alla dedotta carenza di interesse anche prospettata nella memoria, si osserva come irrilevante sia in questa sede stabilire se, all'esito dei vari giudizi amministrativi ed alle azioni legali intraprese dal ricorrente, sia stato soddisfatto o meno quanto oggetto dell'atto inviato all'amministrazione comunale di Riano, dovendosi unicamente valutare il motivo di ricorso che contesta l'erronea applicazione e omessa motivazione in ordine all'elemento oggettivo dell'art. 328, secondo comma, cod. pen.
2.3. Così come non rileva se il ricorrente avesse o meno diritto a conseguire «il bene della vita» che ha formato oggetto dell'istanza, poiché, incontestata la riferibilità al medesimo di una posizione soggettiva qualificata al cospetto della pubblica amministrazione, deve unicamente provvedersi ad accertare se, all'esito dell'istanza, inviata agli uffici competenti dell'amministrazione comunale, sussistesse quantomeno un suo diritto a ricevere una risposta in merito alle ragioni del ritardo.
In tal senso
è erroneo ritenere che l'"obbligo di informazione" dovuto all'interessato sia ipotizzabile solo in caso di accertata sussistenza dell'obbligo principale di compiere l'atto, poiché ciò che viene in rilievo non è tanto l'omissione dell'atto, ma l'inerzia del soggetto attivo sia nel compiere l'atto richiesto sia nello esporre le ragioni del ritardo (Sez. 6, n. 7761 del 07/07/1997, Sabatino, Rv. 209749).
3. Deve rinviarsi al principio costantemente seguito da questa Corte, che il Collegio condivide, secondo cui
l'azione tipica del delitto di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., è integrata dal mancato compimento di un atto dell'ufficio da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ovvero dalla mancata esposizione delle ragioni del ritardo, entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi ha interesse; ne consegue che il reato, omissivo proprio e a consumazione istantanea, deve intendersi perfezionato con la scadenza del predetto termine (Sez. 6, n. 27044 del 19/02/2008, Mascia, Rv. 240979).
Ai fini dell'integrazione del delitto di omissione di atti d'ufficio, è infatti irrilevante il formarsi del silenzio-inadempimento entro la scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta del privato che, in quanto inadempimento, integra la condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie incriminatrice (Sez. 6, n. 45629 del 17/10/2013, P.G. in proc. Giuffrida, Rv. 257706; Cass. Sez. 6, n. 7348 del 24/11/2009, dep. 2010, Di Venere, Rv. 246025; Sez. 6, n. 5691 del 06/04/2000, Scorsone, Rv. 217339).
3.1. Il contrario precedente cui ha fatto riferimento il giudice di merito, in realtà non esprime un difforme principio in quanto, come rilevato dal ricorrente, avendo avuto ad oggetto un atto non qualificato quale diffida, sulla base di tanto ha potuto ritenere non sufficiente lo stesso che, mera richiesta di sollecito, avrebbe necessitato di una autonoma diffida o messa in mora, in quel caso inesistente.
3.2. Per rinvenire un precedente di segno opposto al pacifico orientamento cui sopra si è fatto cenno, occorre risalire alla decisione di questa sezione del 06/10/1998 Rv. 212311, secondo cui, attraverso la disciplina della legge sul procedimento amministrativo, sia pure per una presunzione legale, l'atto è da considerare compiuto, in tal modo realizzandosi una situazione "concettualmente incompatibile con la inerzia della pubblica amministrazione".
3.3. In realtà
è ormai costante l'orientamento opposto secondo cui l'integrazione della fattispecie penale non interferisce con i rimedi che l'ordinamento appresta avverso l'inerzia o l'inadempimento della pubblica amministrazione che seguono canoni ed intenti di tutela distinti, certamente non esaustivi degli strumenti a disposizione del privato che potrebbe, in ipotesi, non conseguire un'adeguata tutela sol che si pensi ai limiti posti all'impugnazione degli atti, alla deducibilità dei soli vizi di legittimità (escludendosi il merito), osservandosi inoltre che, nonostante gli sforzi in tal senso operati dalla giurisdizione amministrativa, la declaratoria di annullamento non sempre soddisfa il raggiungimento degli obbiettivi che il privato intende perseguire.
3.4.
La ratio della norma che prevede l'integrazione della fattispecie nell'ipotesi di inadempimento o omessa risposta decorsi i trenta giorni dalla richiesta di chi vi ha interesse, non può fondatamente essere ulteriormente compressa attraverso una duplicazione defaticante degli adempimenti necessari per conseguire (quantomeno) una risposta formulata per iscritto sulle ragioni del ritardo; circostanza che, qualora avallata, subirebbe poi le ulteriori implicazioni direttamente connesse alla disciplina amministrativa del procedimento, tanto da determinare interferenze tra le vicende penali e quelle amministrative; situazione che, attraverso la previsione del termine di trenta giorni contemporaneamente previsto dall'art. 2 L. 241/1990 e dal secondo comma dell'art. 328 cod. pen., il legislatore ha inteso chiaramente evitare.
4. Si rileva, quindi, che
la richiesta scritta di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., rilevante ai fini dell'integrazione della fattispecie, deve assumere la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono (Sez. 6, n. 40008 del 27/10/2010, brio, Rv. 248531; Sez. 6, n. 10002 del 08/06/2000, Spanò B, Rv. 218339; Sez. 6, n. 8263 del 17/05/2000, Visco, Rv. 216717).
4.1.
Ciò implica che la richiesta rivolta nei confronti della pubblica amministrazione deve atteggiarsi, seppure senza l'osservanza di particolari formalità, come una diffida o intimazione tale da costituire una messa in mora nei confronti della P.A. e del soggetto preposto al relativo procedimento in quanto responsabile.
4.2. Ne deriva che
il reato non è configurabile quando la richiesta non è qualificabile quale diffida ad adempiere, diretta alla messa in mora del destinatario e da quest'ultimo in tali termini valutabile, per il suo tenore letterale e per il suo contenuto.
Seppure, quindi, non siano necessarie frasi che riproducano pedissequamente la formulazione della legge in termini di «diffida» e «messa in mora», il contenuto della richiesta deve essere tesa a rappresentare quantomeno la cogenza delle richiesta e la sua necessità di un adempimento direttamente ricondotto alla disciplina del procedimento amministrativo, circa le conseguenze in ipotesi di non evasione o mancata risposta nei termini.
4.3.
Solo a tali condizioni può ritenersi immediatamente e chiaramente percepibile, quale diffida; atto che già a livello lessicale implica la necessità di rappresentare le conseguenze cui si incorre in caso di inadempimento, secondo la conformazione del reato, introdotto dall'art. 16 L. 26.04.1990, n. 86, che ha inteso rafforzare la tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, con la previsione di un paradigma legale che, attraverso la attivazione del diritto potestativo della istanza, conseguisse una più significativa tutela delle posizioni soggettive, la cui salvaguardia era in precedenza demandata ai soli strumenti procedimentali o giurisdizionali dinanzi al giudice amministrativo.
5. Nella sentenza impugnata si afferma che la richiesta del Ch. del 29.10.2013, non costituiva una diffida ad adempiere, ma fosse l'originaria richiesta inviata da un privato ad un ente pubblico, sulla quale l'ente avrebbe dovuto provvedere nel termine di cui all'art. 2 L. 241/1990 avverso la cui inerzia, in caso di decorso infruttuoso del termine di 30 giorni, è ammesso il ricorso al TAR, non integrando tale inadempimento gli estremi dell'art. 328, secondo comma, cod. pen., per la cui esistenza il privato avrebbe dovuto inviare una vera diffida ad adempiere con il decorso di 30 giorni senza che intervenisse l'atto richiesto o fosse stato esposto le ragioni del ritardo.
In tal modo si contesta la qualifica di diffida dell'atto ricevuto non perché non ne contenga i requisiti, quanto, piuttosto, poiché si reputa il primo atto quale meramente amministrativo utile ai soli fini della proposizione del ricorso in sede giurisdizionale per mezzo dell'impugnazione del silenzio-inadempimento, demandando al secondo atto, in tal caso qualificabile diffida, il successivo compito, al decorso degli infruttuosi 30 giorni, di integrare la fattispecie di cui all'art. 328, secondo comma, cod. pen. in caso di omessa risposta.
Da quanto sopra accennato circa i principi di diritto a cui questa Corte si riporta, in uno a quanto emerge dal provvedimento impugnato, se ne deduce la erronea applicazione della fattispecie dell'art. 328, secondo comma, cod. pen..
5.1.
Il ricorrente aveva presentato in data 29.10.2013 la diffida ad adempire con cui aveva richiesto all'amministrazione comunale di Riano di porre in essere quanto necessario al fine di realizzare le opere di urbanizzazione utili all'immobile dell'istante.
5.2.
Tale atto deve qualificarsi quale diffida in quanto contenente tutti gli elementi per ritenere cogente la richiesta sia perché si indicano le norme di legge che imponevano all'amministrazione di provvedere, sia poiché si fa riferimento al termine di trenta giorni entro il quale si sarebbe dovuta attivare la procedura, con specifica enunciazione delle conseguenze cui l'amministrazione ed i funzionari preposti sarebbero andati incontro in caso di inadempimento.
Allo scadere del termine di trenta giorni assegnato, l'amministrazione avrebbe dovuto quantomeno rispondere specificando le ragione del ritardo, risposta mai fornita neppure a seguito di impugnazione del silenzio-inadempimento in tal modo formatosi, con conseguente astratta integrazione della fattispecie prevista dall'art. 328, secondo comma, cod. pen., sotto il profilo meramente oggettivo.
6. Da quanto sopra
consegue l'annullamento della sentenza con rinvio al Tribunale di Tivoli, ufficio G.u.p. che, attenendosi ai principi di diritto sopra enunciati quanto a valenza di diffida dell'atto del 29.10.2013 e non necessità di ulteriori atti ai fini dell'integrazione del reato, valuterà se, nei limiti propri del giudizio in sede di udienza preliminare, sussistano elementi che consentano di imputare l'omissione, specie sotto il profilo del necessario elemento soggettivo, agli imputati.

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: L. Vergine, EFFETTI DELLA DOMANDA IN SANATORIA EX ART. 36 DEL DPR 380/2001 IN CASO DI PREGRESSA ADOZIONE DELL’ORDINANZA DI DEMOLIZIONE. Breve nota alla sentenza 22.03.2018 n. 468 del TAR Puglia–Lecce.
...
La sentenza 22.03.2018 n. 468 del TAR Puglia –Sez. I di Lecce– esamina il caso del ricorso proposto avverso l’ordinanza di demolizione con l’unico motivo della presentazione della domanda di sanatoria ex art. 36 del DPR 380/2001.
Tale disposizione espressamente prevede che decorsi 60 giorni dall’istanza senza che l’amministrazione si pronunci si formi il silenzio-rigetto (III comma), che, se non impugnato, rende definitivo il provvedimento implicito di diniego.
La novità dell’arresto giurisprudenziale del Tar è rappresentato dal principio secondo cui anche nel caso in cui la P.A. adotti, ai sensi dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990, il preavviso di rigetto, rappresentando le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza in sanatoria, alla quale il privato non ha dato seguito, il termine per il perfezionamento del silenzio-rigetto continua decorrere fino alla formazione del silenzio-rigetto.
In questo caso, il provvedimento implicito di rigetto non ha l’effetto di riavviare il procedimento sanzionatorio (ordinanza di demolizione) in quanto –precisa il TAR– la mancata impugnazione conduce a ”…consolidare l’ordine demolitorio inizialmente impartito, senza la necessità che l’Ente emetta una nuova ordinanza di demolizione”.
Questo indirizzo è conforme alla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui “La presentazione di una nuova istanza ex art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina l'improcedibilità, per sopravvenuta carenza d'interesse, dell'impugnazione proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma comporta, tutt'al più, un arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria. Sostenere che, nell'ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell'istanza di accertamento di conformità, l'Amministrazione debba riadottare l'ordinanza di demolizione, equivarrebbe a riconoscere in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento” (Cons. di Stato, sez. VI, 04.04.2017 n. 1565) (22.03.2018 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche nel caso in cui la P.A. adotti, ai sensi dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990, il preavviso di rigetto, rappresentando le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza in sanatoria, alla quale il privato non ha dato seguito, il termine per il perfezionamento del silenzio-rigetto continua decorrere fino alla formazione del silenzio-rigetto.
In questo caso, il provvedimento implicito di rigetto non ha l’effetto di riavviare il procedimento sanzionatorio (ordinanza di demolizione) in quanto la mancata impugnazione conduce a ”…consolidare l’ordine demolitorio inizialmente impartito, senza la necessità che l’Ente emetta una nuova ordinanza di demolizione”.
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La ricorrente ha impugnato l'ordinanza n. 25 del 25.11.2016 con la quale il Comune di Seclì le ha intimato la demolizione di un fabbricato in muratura della superficie di mq. 83,67, realizzato in assenza del previo rilascio del necessario titolo edilizio.
Nell’atto introduttivo la ricorrente ha allegato di avere presentato, in data 24.02.2017, istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 ed ha eccepito, come unico motivo di ricorso, la conseguente illegittimità sopravvenuta dell’atto impugnato.
Il Comune di Seclì si è costituito in giudizio e con memoria depositata in data 19.01.2018 ha evidenziato il formarsi del silenzio-rifiuto ex art. 36, comma 3°, D.P.R. n. 380 del 2001 sull’istanza presentata dalla ricorrente, essendo decorsi sessanta giorni dal deposito senza che l’Ente si sia espresso favorevolmente e non avendo, peraltro, la signora Mo. articolato alcuna osservazione dopo l’invio da parte del Comune del preavviso di diniego ex art. 10-bis della Legge n. 241 del 1990, né prodotto l’ulteriore documentazione preannunciata con mail del 18.05.2017.
Il Collegio all’esito del giudizio, sulla base delle difese assunte dalle parti, degli atti prodotti e dei principi applicabili alla materia, ritiene il ricorso infondato.
Invero, la ricorrente ha articolato quale unica doglianza l’illegittimità sopravvenuta del provvedimento impugnato, per effetto della presentazione della domanda ex art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001in relazione al fabbricato abusivo, ma su tale domanda, come dimostrato dall’Ente convenuto, si è formato il silenzio-rifiuto ex art. 36, comma 3°, D.P.R. n. 380 del 2001, provvedimento implicito che la signora Mo. non ha impugnato nei termini di legge, con conseguente consolidamento dell’ordine demolitorio inizialmente impartito, senza necessità che l’Ente emetta una nuova ordinanza di demolizione (Consiglio di Stato, sentenza n. 1565 del 2017) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 22.03.2018 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di una nuova istanza ex art. 36, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, recante il «Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia», non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione proposta avverso l’ordinanza di demolizione, ma comporta, tuttalpiù, un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria.
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I principi affermati in tema di condono edilizio non possono trovare applicazione al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini suddetti non può essere effettuata in via meramente interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni concezione sull’esercizio del potere, e richiede un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti del rapporto.
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5. Questo Collegio, sebbene la questione non sia strettamente rilevante per la decisione del ricorso in appello, non può non rilevare che l’affermazione contenuta nella sentenza appellata (secondo la quale l’istanza di permesso di costruire in sanatoria, presentata successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione, produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuto difetto di interesse) non può essere condivisa.
Questo Consiglio ha, al contrario, affermato: “La presentazione di una nuova istanza ex art. 36, d.p.r. 06.06.2001, n. 380, recante il « Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia », non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso e, quindi, non determina l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione proposta avverso l’ordinanza di demolizione, ma comporta, tutt'al più, un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria” (Consiglio di Stato, sez. VI, 08.04.2016, n. 1393).
I principi affermati in tema di condono edilizio non possono trovare applicazione al caso di specie, in cui il ricorrente ha formulato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ossia ai sensi di una norma che, prevedendo quella che, sinteticamente, si definisce doppia conformità, limita la valutazione dell’opera sulla base di una disciplina preesistente.
Sostenere, come affermato dalla sentenza impugnata, che, nell’ipotesi di rigetto, esplicito o implicito, dell’istanza di accertamento di conformità, l’amministrazione debba riadottare l’ordinanza di demolizione, equivale al riconoscimento in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
La ricostruzione dell’intero procedimento nei termini suddetti non può essere effettuata in via meramente interpretativa, ponendosi essa al di fuori di ogni concezione sull’esercizio del potere, e richiede un’esplicita scansione legislativa, allo stato assente, in ordine ai tempi e ai modi della partecipazione dei soggetti del rapporto
” (Consiglio di Stato, VI, 06.05.2014, n. 2307).
6. La censura dedotta è fondata e, consequenzialmente, va accolto il ricorso in appello e annullati i provvedimenti impugnati in primo grado in quanto viziati da eccesso di potere per difetto di istruttoria (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.04.2017 n. 1565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il permesso di costruire non può essere sottoposto a condizione, salvo che non sia previsto dalla legge.
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Edilizia – Permesso di costruire – Sottoposto a condizione sospensiva o risolutiva – Esclusione.
Il permesso di costruire non può essere sottoposto a condizione, sia essa sospensiva o risolutiva, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale del provvedimento, con la conseguenza che tale titolo, una volta riscontratane la conformità alla vigente disciplina urbanistica, deve essere rilasciata dal Comune senza condizioni che non siano espressamente previste da una norma di legge (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che solo con specifico e limitato riferimento all’ipotesi del permesso condizionato all’acquisizione di un atto da altra Pubblica amministrazione la modalità procedurale di rilasciare permessi di costruire condizionati deve considerarsi legittima, avuto riguardo alle esigenze generali di complessiva speditezza ed efficienza dell'azione amministrativa, nonché per l'effetto non neutro del passaggio del tempo per i destinatari dell'atto.
Infatti, in applicazione del generale principio di proporzionalità, implicante minimo possibile sacrificio degli interessi coinvolti, l'amministrazione pubblica deve responsabilmente scegliere, nell'esercizio delle proprie funzioni, il percorso -ove necessario coordinato con quello di altre amministrazioni- teso a non aggravare inutilmente la situazione dei destinatari dell'azione amministrativa, come prescritto anche dall'art. 1, comma 2, l. 07.08.1990, n. 241; mentre, costituisce inutile aggravio procedurale (perché non bilanciato da una sufficiente ragione di interesse pubblico) l'arresto di un procedimento, che può invece proseguire sotto la condizione sospensiva del perfezionamento di altra procedura presupposta (Cons. Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5615; id., sez. IV, 25.06.2013, n. 3447) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.04.2018 n. 2366 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
11. Nel merito, si osserva che con i restanti motivi di appello -che il Collegio ritiene di dover esaminare congiuntamente in quanto intimamente connessi- il Comune di Genova censura la sentenza impugnata per non avere correttamente interpretato, sotto vari profili, la prescrizione inserita nel permesso di costruire, oggetto di specifica impugnazione.
In particolare, l’appellante sostiene:
   a) che la prescrizione non è qualificabile in termini di “condizione” del permesso, in quanto attiene alle modalità esecutive dell’opera;
   b) che la prescrizione, piuttosto che riguardare il progetto architettonico, in realtà riguarda il progetto strutturale, quindi le modalità esecutive a tutela dell’interesse pubblico alla corretta realizzazione dell’opera;
   c) che la prescrizione non concreta una subordinazione dell’esecuzione delle opere al “consenso dei proprietari confinanti”, ma un’ulteriore verifica progettuale relativa, in particolare, all’aspetto strutturale;
   d) con la detta prescrizione non è stato concretizzato alcun aggravio del procedimento, essendo emersa nel corso di questo la necessità della stessa;
   e) che la prescrizione non è indeterminata, dovendosi ritenere, al contrario, sufficientemente individuati nel permesso impugnato gli intervenienti.
Tutti i motivi sono infondati.
11.1. In relazione alla questione oggetto del giudizio, si richiamano i principi elaborati da questo Consiglio in forza dei quali:
   a) “
in via di principio, e fatti salvi i casi espressamente stabiliti dalla legge, una condizione, sia essa sospensiva o risolutiva, non può essere apposta ad una concessione edilizia, stante la natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale del provvedimento; ne consegue che, a parte tali limitazioni, la concessione edilizia, una volta riscontratane la conformità alla vigente disciplina urbanistica, deve essere rilasciata dal comune senza condizioni che non siano espressamente previste da una norma di legge” (Cons. Stato, sez. V, 24.03.2001, n. 1702; conforme Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2014, n. 1891; sez. IV, 06.06.2011, n. 3382);
   b) con specifico e limitato riferimento all’ipotesi del permesso condizionato all’acquisizione di un atto da altra pubblica amministrazione, “
la modalità procedurale di rilasciare permessi di costruire condizionati deve considerarsi legittima, avuto riguardo alle esigenze generali di complessiva speditezza ed efficienza dell'azione amministrativa, nonché per l'effetto non neutro del passaggio del tempo per i destinatari dell'atto. Infatti, in applicazione del generale principio di proporzionalità, implicante minimo possibile sacrificio degli interessi coinvolti, l'amministrazione pubblica deve responsabilmente scegliere, nell'esercizio delle proprie funzioni, il percorso —ove necessario coordinato con quello di altre amministrazioni— teso a non aggravare inutilmente la situazione dei destinatari dell'azione amministrativa, come prescritto anche dall'art. 1, comma 2, l. 07.08.1990 n. 241; mentre, costituisce inutile aggravio procedurale (perché non bilanciato da una sufficiente ragione di interesse pubblico) l'arresto di un procedimento, che può invece proseguire sotto la condizione sospensiva del perfezionamento di altra procedura presupposta” (Cons. Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5615; conforme Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2013, n. 3447).
11.2. Con riferimento al caso di specie, occorre premettere che il titolo edilizio in esame prevede la prescrizione, secondo cui, prima dell’avvio dei lavori di costruzione dell’autorimessa interrata, sia predisposta "una relazione congiunta, a firma dello strutturista della società titolare del permesso di costruire e dello strutturista degli esponenti oppure del solo strutturista della società titolare del permesso di costruire con "visto" di quello degli esponenti o altra forma dalla quale risulti comunque l'accordo delle parti stesse che, dopo aver espletato le eventuali ulteriori verifiche del caso, riconosca la fattibilità dell'intervento sotto il profilo strutturale; tale accordo dovrà anche riguardare l'esecuzione dei lavori e consentire che venga svolta un'attività di controllo da parte del professionista incaricato dagli amministratori dei palazzi soprastanti. Nel caso di mancato accordo tra le parti, dovrà essere onere delle stesse affidare la soluzione dei punti controversi ad un terzo "arbitro" ed i lavori potranno iniziare solo nel caso di valutazione favorevole di questo ultimo".
11.3. Alla luce della previsione di dettaglio, e tenendo in debita considerazione le richiamate coordinate giurisprudenziali, risulta che:
   a)
non sussistono i presupposti per ritenere integrata una delle ipotesi eccezionali per le quali viene ammesso il rilascio condizionato del titolo (seppur subordinatamente alla permanenza del monitoraggio da parte del Comune, che, ad ogni modo, deve restare il titolare del procedimento autorizzatorio). Invero:
      a.1)
non si ravvisa nessuna finalità di risparmio procedimentale, non essendo necessario, ai fini del completamento dell’istruttoria procedimentale, acquisire atti da altra amministrazione, con conseguente attivazione di altra fase procedimentale o di subprocedimento;
      a.2)
non vi è neanche specifica necessità di conseguire effetti di economia procedimentale, essendo in realtà già stati acquisiti nel corso del procedimento, tenuto dal Comune, gli atti utili per ritenere satisfattivo l’approfondimento istruttorio (si vedano, al riguardo, i pareri favorevoli resi dai vari uffici, tra i quali, in particolare, quello dell’Ufficio geologico del Comune, nei quali non vengono indicate esigenze straordinarie che in ipotesi richiedono ulteriori adempimenti istruttori);
      a.3)
l’aver condizionato la produzione degli effetti del permesso di costruire alla conclusione di un futuro accordo si risolve, per converso, in un ingiustificato aggravamento del procedimento, in antitesi ai principi di efficienza ed economicità ex art. 97 Cost. e art. 1 legge n. 241/1990;
   b)
la prescrizione, nel caso di specie, subordina il permesso all’esecuzione di lavori da effettuarsi secondo modalità non determinate preventivamente (ipotesi al limite ammissibile, secondo quanto previsto da Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2013, n. 3447), ma, al contrario, determinabili solo in un momento successivo.
Tale decisione, peraltro non risulta essere stata rimessa all’Amministrazione titolare del procedimento, in quanto viene attribuita allo stesso istante unitamente ad altri soggetti controinteressati, mediante la conclusione di un accordo tra essi, tuttavia ancora non esistente al momento dell’adozione del provvedimento concessorio.
Pertanto:
   b.1)
l’Amministrazione sostanzialmente assegna il potere decisorio sulla concreta operatività del permesso a soggetti diversi da essa, finendo sostanzialmente per abdicare all’esercizio della funzione pubblica e, conseguentemente, per dismettere la titolarità del procedimento di cui è investita ex lege;
   b.2)
l’efficacia del permesso risulta in tal modo permeata da incertezza, essendo subordinata alla conclusione di un accordo futuro (ed eventuale) avente ad oggetto le modalità esecutive dell’intervento;
   b.3)
l’efficacia del permesso di costruire viene rimessa alla decisione, se non all’arbitrio, di soggetti terzi controinteressati, in quanto la conclusione dell’accordo dipende dal consenso dei proprietari confinanti in ordine alla fattibilità dell’intervento.
11.4. Conclusivamente, il Collegio riscontra che la produzione degli effetti del permesso impugnato risulta subordinata al verificarsi di una condizione, di carattere sospensivo, futura ed incerta, in quanto tale inammissibile nonché dimostrativa di una carente istruttoria procedimentale.
12. Le spese del grado seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, tenuto conto dei parametri di cui al regolamento n. 55 del 2014 e di cui all’art. 26, comma 1, c.p.a. ricorrendone nella specie i presupposti applicativi (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, 24.05.2016, n. 2200; Cass. civ., Sez. VI, 02.11.2016, n. 22150).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Non è possibile applicare la previsione di cui all’art. 16 della legge n. 689/1981 alle sanzioni pecuniarie irrogate ai sensi dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001.
L’oggetto del contendere riguarda la possibilità di applicare la previsione di cui all’art. 16 della legge n. 689/1981 alle sanzioni pecuniarie irrogate ai sensi dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001.
L
a questione va definita sulla base della natura (punitiva o ripristinatoria) riconosciuta alla sanzione di cui si controverte.
Se si aderisce alla tesi dei ricorrenti circa la natura punitiva della sanzione, si deve affermare che trova anche in questo caso applicazione l’art. 16 della legge n. 689/1981. Al contrario, se si ritiene che la sanzione presenta natura ripristinatoria, non si può operare alcuna riduzione dell’importo, perché ciò vanificherebbe la finalità prevista dal legislatore.
Ad avviso del Collegio questa seconda soluzione è preferibile.
Si condivide infatti quanto recentemente affermato in proposito dal TAR Napoli, sez. III, nella sentenza 28.08.2017 n. 4146, in cui si legge:
   - “la sanzione in questione è stata introdotta in sede di conversione del Decreto "Sblocca Italia" (D.L. 133/2014, convertito con modificazioni dalla L. 164/2014), allo scopo di tenere economicamente indenne l'Amministrazione comunale dalle spese di ripristino conseguenti alle ordinanze di demolizione non eseguite. La richiamata sanzione ha quindi lo scopo di fornire all'Amministrazione la provvista per procedere al ripristino, senza necessità di anticipare le relative somme, per poi rivalersi sul responsabile dell'abuso, semmai inutilmente nel caso di insolvenza dello stesso”;
   - “la sanzione pecuniaria ha lo scopo di tenere indenne l'amministrazione comunale dall'impegno economico derivante dall'abbattimento delle opere abusive. Non a caso, infatti, il comma 4-ter del menzionato art. 31 introduce un chiaro vincolo di destinazione stabilendo che: "I proventi delle sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al comune e sono destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in pristino delle opere abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico."”.
La natura ripristinatoria della sanzione di cui si controverte esclude che la stessa possa essere assoggettata a riduzione, in applicazione dell’art. 16 della legge n. 689/1981.

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4) L’oggetto del contendere riguarda la possibilità di applicare la previsione di cui all’art. 16 della legge n. 689/1981 alle sanzioni pecuniarie irrogate ai sensi dell’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001, possibilità negata dal Comune di Aramengo nel caso in esame, nonostante la richiesta in tal senso presentata dai ricorrenti.
4.1) Il citato art. 31 (“Interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”) così dispone al comma 4-bis, in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione: “L'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima…”.
Nel caso in esame la sanzione è stata irrogata nella misura massima in quanto gli abusi sono stati realizzati dai ricorrenti in area in cui “gli elementi di pericolosità geomorfologica sono tali da impedirne l’utilizzo”.
A sua volta l’art. 16 della legge n. 689/1981 così dispone al primo comma: “E' ammesso il pagamento di una somma in misura ridotta pari alla terza parte del massimo della sanzione prevista per la violazione commessa, o, se più favorevole e qualora sia stabilito il minimo della sanzione edittale, pari al doppio del relativo importo oltre alle spese del procedimento, entro il termine di sessanta giorni dalla contestazione immediata o, se questa non vi è stata, dalla notificazione degli estremi della violazione”.
4.2) I ricorrenti sostengono:
   a) che l’istituto della riduzione della sanzione ha portata generale, come risulta dall’art. 12 della stessa legge n. 689/1981, secondo cui: “Le disposizioni di questo Capo si osservano, in quanto applicabili e salvo che non sia diversamente stabilito, per tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro, anche quando questa sanzione non è prevista in sostituzione di una sanzione penale…”; tale istituto è applicabile anche alle sanzioni pecuniarie in materia edilizia, non essendovi disposizioni in senso contrario, né incompatibilità, posto che tali sanzioni presentano natura punitiva (e non ripristinatoria) avendo finalità repressive e preventive; e ciò vale anche per la sanzione di cui all’art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001;
   b) che il diniego opposto dall’Amministrazione alla richiesta di riduzione della sanzione è comunque illegittimo perché totalmente privo di motivazione.
4.3) Come emerge dalle stesse censure formulate nel ricorso, la questione va definita sulla base della natura (punitiva o ripristinatoria) riconosciuta alla sanzione di cui si controverte.
Se si aderisce alla tesi dei ricorrenti circa la natura punitiva della sanzione, si deve affermare che trova anche in questo caso applicazione l’art. 16 della legge n. 689/1981. Al contrario, se si ritiene che la sanzione presenta natura ripristinatoria, non si può operare alcuna riduzione dell’importo, perché ciò vanificherebbe la finalità prevista dal legislatore.
4.4) Ad avviso del Collegio questa seconda soluzione è preferibile.
Si condivide infatti quanto recentemente affermato in proposito dal TAR Napoli, sez. III, nella sentenza 28.08.2017 n. 4146, in cui si legge:
   - “la sanzione in questione è stata introdotta in sede di conversione del Decreto "Sblocca Italia" (D.L. 133/2014, convertito con modificazioni dalla L. 164/2014), allo scopo di tenere economicamente indenne l'Amministrazione comunale dalle spese di ripristino conseguenti alle ordinanze di demolizione non eseguite. La richiamata sanzione ha quindi lo scopo di fornire all'Amministrazione la provvista per procedere al ripristino, senza necessità di anticipare le relative somme, per poi rivalersi sul responsabile dell'abuso, semmai inutilmente nel caso di insolvenza dello stesso”;
   - “la sanzione pecuniaria ha lo scopo di tenere indenne l'amministrazione comunale dall'impegno economico derivante dall'abbattimento delle opere abusive. Non a caso, infatti, il comma 4-ter del menzionato art. 31 introduce un chiaro vincolo di destinazione stabilendo che: "I proventi delle sanzioni di cui al comma 4-bis spettano al comune e sono destinati esclusivamente alla demolizione e rimessione in pristino delle opere abusive e all'acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico."”.
4.5) La natura ripristinatoria della sanzione di cui si controverte esclude che la stessa possa essere assoggettata a riduzione, in applicazione dell’art. 16 della legge n. 689/1981. Perciò il Comune di Aramengo ha legittimamente opposto un diniego alla richiesta in tal senso formulata dai ricorrenti, senza che fosse necessaria una particolare, più dettagliata motivazione.
5) In conclusione, le censure formulate nel ricorso risultano infondate e il ricorso stesso va respinto. Lo stesso vale per i motivi aggiunti, in cui sono formulate censure di illegittimità derivata (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 20.03.2018 n 336 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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INCARICHI PROFESSIONALI: G.U. 26.04.2018 n. 96 "Regolamento recante modifiche al decreto 10.03.2014, n. 55, concernente la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31.12.2012, n. 247" (Ministero della Giustizia, decreto 08.03.2018 n. 37).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 20.04.2018 n. 92 "Testo unico in materia di foreste e filiere forestali" (D.Lgs. 03.04.2018 n. 34).

APPALTI: G.U. 16.04.2018 n. 88 "Determinazione della tariffa di iscrizione all’albo dei componenti delle commissioni giudicatrici e relativi compensi" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 12.02.2018).

APPALTI: G.U. 16.04.2018 n. 88 "Determinazione dei limiti dei compensi del Collegio arbitrale" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 31.01.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 del 12.04.2018 "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 31.03.2018, in attuazione della legge 26.10.1995, n. 447 e del decreto legislativo 17.02.2017, n. 42" (comunicato regionale 06.04.2018 n. 45).

APPALTI: G.U. 10.04.2018 n. 83 "Decreto 18.01.2008, n. 40, concernente: «Modalità di attuazione dell’articolo 48-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602, recante disposizioni in materia di pagamenti da parte delle Pubbliche Amministrazioni» - Chiarimenti aggiuntivi" (Ministero dell'Economia e delle Finanza, Ragioneria Generale dello Stato, circolare 21.03.2018 n. 13/RGS).

APPALTI: G.U. 10.04.2018 n. 83 "Regolamento con cui si adottano gli schemi di contratti tipo per le garanzie fideiussorie previste dagli articoli 103, comma 9 e 104, comma 9, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 19.01.2018 n. 31).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto : Disposizioni in materia di opere o di costruzioni. Procedure per la gestione informatica delle pratiche sismiche ai sensi della L.R. 33/2015, artt. 2 e 3, c. 2 (Regione Lombardia, nota 20.04.2018 n. 3717 di prot.).

APPALTI: Oggetto: Documento di gara unico europeo - DGUE - solo in formato elettronico (ANCE di Bergamo, circolare 20.04.2018 n. 114).

APPALTI: Oggetto: Pubblicato il decreto ministeriale riguardante gli schemi delle garanzie fideiussorie per gli appalti pubblici (ANCE di Bergamo, circolare 20.04.2018 n. 112).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Interoperabilità fra Sportello Unico per le Attività Produttive e Registro delle Imprese – nuove modalità di raccordo e scambio informativo per la trasmissione degli atti e dei documenti alla Camera di Commercio (CCIAA di Bergamo, nota 19.04.2018 n. 20537 di prot.).

ATTI AMMINISTRATIVI: Attestazione di conformità della copia informatica di documenti analogici. Nota congiunta relativa all’interpretazione dell’art. 22, co. 2, d.lgs. 07.03.2005, n. 82 (Codice dell’Amministrazione Digitale) a seguito delle modifiche apportate con il d.lgs. 13.12.2017 n. 217 (Segretariato Generale della Giustizia Amministrativa, nota 10.04.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Prime indicazioni per il coordinamento dei procedimenti sismico ed edilizio. Chiarimenti sull'entrata in vigore nelle nuove norme tecniche per le costruzioni (Regione Emilia Romagna, nota 30.03.2018 n. 226483 di prot.).

APPALTI: Oggetto: sentenza Corte Costituzionale n. 254 del 06.12.2017 – giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale – art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276/2013 (Ispettorato Nazionale del Lavoro, circolare 29.03.2018 n. 6/2018).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHELa liquidabilità degli incentivi tecnici di cui all’art. 113 del d.lgs. 50/2016:
  
è subordinata all’adozione da parte dell’Ente del previsto regolamento,
  
che può disporre anche la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche espletate dopo l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici e prima dell’adozione del regolamento stesso, utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel quadro economico riguardante la singola opera,
  
nonché criteri di quantificazione dei predetti incentivi -quale quella che tenga conto del ribasso d’asta conseguente all’aggiudicazione– che ne determinino un importo inferiore rispetto al tetto massimo legislativamente previsto.

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Il Sindaco del Comune di Nerviano (MI) chiede a questa Sezione di esprimere un parere in merito alla liquidabilità degli incentivi tecnici di cui all’art. 113 del d.lgs. 50/2016. In particolare, si chiede di sapere:
   1) se sia legittima la corresponsione degli incentivi di progettazione ai dipendenti dell’ufficio tecnico pur in assenza di regolamentazione aggiornata al nuovo codice degli appalti;
   2) se sia corretto attribuire efficacia retroattiva fin dal 2016 al regolamento che è in corso di predisposizione da parte del predetto responsabile;
   3) se sia possibile liquidare gli incentivi calcolati non sull’importo a base d’asta, ma con il ribasso d’asta conseguente all’aggiudicazione, determinati nel modo esplicitato in premesse nel periodo da aprile 2016 ad oggi.
...
2.1. Venendo al merito della richiesta di parere formulata, analoghe questioni interpretative sono state già affrontate di recente da questa Sezione, con valutazioni che non possono che confermarsi anche in questa sede.
2.2. In merito al quesito di cui al numero 1), nel parere 07.11.2017 n. 305, dopo aver ricordato che «la disciplina sugli incentivi tecnici prevista dal citato art. 113, comma 2, del nuovo codice dei contratti pubblici si applica alle procedure bandite successivamente all’entrata in vigore dello stesso, come fatto palese dall’art. 216, comma 1», ha affermato che «l’adozione del regolamento di cui al successivo comma 3 rimane “una condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo. Ciò, evidentemente, perché esso è destinato ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge” (Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 07.09.2016 n. 353)».
2.3. In riferimento al quesito sub 2), nella medesima deliberazione si è già ricordato che «non può aversi ripartizione del fondo tra gli aventi diritto se non dopo l’adozione del prescritto regolamento. Il che tuttavia non impedisce che quest’ultimo possa disporre anche la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche espletate dopo l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici e prima dell’adozione del regolamento stesso, utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel quadro economico riguardante la singola opera (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 09.06.2017 n. 185; Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 07.09.2016 n. 353)».
2.4. Infine, per quanto riguarda l’ultimo quesito, basti ricordare che il più volte richiamato art. 113, comma 2, del nuovo codice dei contratti pubblici pone, per gli incentivi in analisi, un tetto massimo pari al 2 per cento dell'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara.
Fatto salvo il rispetto di tale limite quantitativo, ben può l’Ente individuare, nell’esercizio del proprio autonomo potere regolamentare, una base di quantificazione –quale quella che tenga conto del ribasso d’asta conseguente all’aggiudicazione– che determini un importo inferiore dei predetti incentivi. Ciò in quanto, come chiarito già da questa Sezione (parere 09.06.2017 n. 185), «solo il regolamento, nella sistematica della legge è destinato ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge».
P.Q.M.
la Corte dei conti –Sezione regionale di controllo per la Regione Lombardia– ritiene che
la liquidabilità degli incentivi tecnici di cui all’art. 113 del d.lgs. 50/2016 è subordinata all’adozione da parte dell’Ente del previsto regolamento, che può disporre anche la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche espletate dopo l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici e prima dell’adozione del regolamento stesso, utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel quadro economico riguardante la singola opera, nonché criteri di quantificazione dei predetti incentivi -quale quella che tenga conto del ribasso d’asta conseguente all’aggiudicazione– che ne determinino un importo inferiore rispetto al tetto massimo legislativamente previsto (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 21.03.2018 n. 93).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: P. Malanetto, La disciplina speciale dei contratti pubblici: procedure di affidamento, contratto ed esecuzione del rapporto tra diritto civile e diritto amministrativo. Problematiche attuali (18.04.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Inquadramento generale. Il diritto processuale dell’evidenza pubblica nella cornice del diritto eurounitario; problemi di armonizzazione. 2. La responsabilità precontrattuale dell’amministrazione nell’ambito dell’evidenza pubblica. 2.1 La responsabilità precontrattuale nei contratti attivi dell’amministrazione. 2.2 La responsabilità dell’amministrazione nei confronti dei soggetti che vantavano interesse al mantenimento di una aggiudicazione illegittima. 2.3 La responsabilità dell’amministrazione in ipotesi di affidamenti diretti intervenuti in radicale violazione dell’evidenza pubblica. 2.4 La responsabilità precontrattuale del privato nei confronti della pubblica amministrazione. 3. La tutela del privato avverso il silenzio serbato dall’amministrazione tra l’aggiudicazione e la stipulazione del contratto. 4. L’inefficacia del contratto. 5. Epifanie dell’evidenza pubblica nella fase di esecuzione del contratto.

APPALTI: H. Simonetti, Il nuovo quadro normativo dei contratti pubblici. La dialettica tra diritto euro-unitario e nazionale, linee generali e singole tipologie (17.04.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Introduzione: una vicenda unitaria con al centro il contratto. 2. Il quadro normativo: il sistema della contabilità di stato. 3. segue. Le fonti del diritto europeo: le prime direttive. 4. Le ultime direttive del 2014 e il nuovo codice dei contratti e delle concessioni. 5. Ancora sul quadro normativo: tra modelli meccanici e negoziazioni. 6. Natura e tipologie degli appalti pubblici. 7. Tra regole e principi. 8. Le linee guida dell’ANAC.

APPALTI: R. Caponigro, Le prime criticità nell’applicazione del nuovo codice dei contratti pubblici da parte della giurisprudenza amministrativa (17.04.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Il “bene della vita” nell’appalto pubblico – 2. La ratio dell’evidenza pubblica – 3. L’onere di immediata impugnazione delle ammissioni – 4. La tutela della concorrenza e delle piccole e medie imprese – 5. La partecipazione alla gara di imprese controllate o collegate - 6. Note conclusive.

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: D. Perrotta, Il danno all’immagine della pubblica amministrazione, tra tendenze giurisprudenziali (espansive), scelte del legislatore (restrittive) e il nuovo codice di giustizia contabile (11.04.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa; 2. Tra l’essere e l’avere: la configurazione del problema teorico dell’individuazione della categoria dei diritti della personalità e dei relativi mezzi di tutela; 3. Il danno all’immagine della p.a. e l’evoluzione del la fattispecie di danno: dalla polverizzazione in species al recupero dell’unitarietà del genus del danno non patrimoniale; 4. Gli elementi strutturali del la fattispecie lesiva del danno all’immagine della p.a.: l’ambito soggettivo, le con dotte imputabili, il criterio di imputazione, il nesso di causalità e il clamor fori; 5. Il progressivo affermarsi della giurisdizione contabile e l’intervento “restrittivo” del legislatore nel 2009; 6. Le reazioni del giudice dei conti alla decisione della Consulta del 2010, tra interpretazione restrittiva ed estensiva; 7. L’intervento nomofilattico del giudice dei conti del 2015: genesi e contenuti; 8. Il nuovo codice di giustizia contabile del 2016 e la “riespansione” della competenza della Corte dei conti; 9. La determinazione del quantum del danno all’immagine: parametri utilizzati in sede pretoria, esercizio del potere riduttivo e l’intervento del legislatore nel 2012; 10. Osservazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Allena, La facoltatività dell’instaurazione del procedimento di annullamento d’ufficio: un “fossile vivente” nell’evoluzione dell’ordinamento amministrativo (11.04.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa e delimitazione del campo di indagine. – 2. La doverosità del procedere nei procedimenti d’ufficio: la non necessità, ma non anche irrilevanza, della denuncia di parte. – 3. L’evoluzione della giurisprudenza nei procedimenti d’ufficio: la ricerca di una posizione differenziata meritevole di tutela in capo al denunciante. – 4. I limiti tradizionalmente opposti alla ammissibilità dell’azione contro il silenzio inadempimento in materia di annullamento d’ufficio: considerazioni critiche. – 5. Conclusioni: l’annullamento d’ufficio da misura di autotutela a strumento di “tutela”.

ATTI AMMINISTRATIVI: S. Bucello, Riflessioni a margine della sentenza del Consiglio di Stato n. 5044/2016 per un corretto inquadramento della conferenza di servizi semplificata (11.04.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. La rinnovata centralità della sentenza n. 5044/2016 del Consiglio di Stato ai fini dell’indagine sulla natura della conferenza di servizi. 2. La conferenza di servizi quale modulo procedimentale. 3. Il valore della contestualità: l’inammissibilità del dissenso imperfetto. 4. Conclusioni: l’inquadramento della conferenza semplificata.

APPALTI: M. Lipari, La regolazione flessibile dei contratti pubblici e le linee guida dell’ANAC nei settori speciali (11.04.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario. - 1. Il sistema delle fonti nel mercato dei contratti pubblici e la regolazione flessibile. L’estensione dei poteri dell’ANAC ai settori speciali. - 2. L’autonomia normativa e organizzativa delle stazioni appaltanti operanti nei settori speciali. La compatibilità con il potere di regolazione dell’ANAC. - 3. La puntuale indicazione delle disposizioni applicabili ai settori speciali e il ruolo della regolazione flessibile. - 4. L’esercizio concreto dei poteri di regolazione flessibile. La scarsa incidenza quantitativa e qualitativa delle linee guida nei settori speciali. - 5. L’esperienza concreta dei bandi tipo. L’inapplicabilità diretta ai settori speciali e l’esortazione non vincolante dell’ANAC alla loro osservanza spontanea. - 6. L’oggettiva assenza di rilievo della regolazione flessibile nei settori speciali e le sue possibili ragioni. Le criticità degli strumenti innovativi previsti dal codice. - 7. La flessibilità nelle direttive del 2014: la duttilità degli istituti, la discrezionalità delle singole stazioni appaltanti e la chiarezza delle norme primarie. - 8. I principi della regolazione flessibile affermati dalla legge n. 16/2016. - 9. Dalla regolamentazione alla regolazione flessibile: le previsioni del codice n. 50/2016. - 10. Le regole generali riguardanti il procedimento di formazione della regolazione flessibile. La pubblicazione. - 11. L’ipotesi tipica dei bandi-tipo: la vincolatività condizionata delle prescrizioni stabilite dall’ANAC. - 12. Le linee guida nel sistema della regolazione flessibile: La riscontrata assenza di un modello unitario. Le principali ipotesi di classificazione e di qualificazione giuridica. - 13. Le LG approvate con decreto ministeriale. La loro natura regolamentare e le criticità aperte. La nozione sostanziale di “linee guida”. - 14. La tecnica linguistica di espressione delle linee guida: la Flessibilità e il carattere “aperto” della prescrizione. La struttura “discorsiva” della statuizione: la sua persuasività e la maggiore chiarezza analitica. - 15. La natura regolamentare delle linee guida vincolanti. L’efficacia delle linee guida non vincolanti. - 16. La natura giuridica delle linee guida in materia di affidamenti sottosoglia. - 17. Il ruolo effettivo della nozione di regolazione flessibile nel sistema delle fonti. - 18. La flessibilità delle regolazione in senso “diacronico” e l’adattabilità sincronica alle mutevoli circostanze. - 19. La flessibilità dei poteri dell’ANAC e il rispetto dell’autonomia normativa delle regioni, delle amministrazioni e delle stazioni appaltanti. I limiti costituzionali dell’art. 117. Il rapporto dell’ANAC con il Governo. - 20. Flessibilità e intensità del sindacato giurisdizionale. Il problema specifico delle linee guida non vincolanti. - 21. Un possibile ripensamento della espansione della regolamentazione flessibile: il ritorno alla tecnica normativa tradizionale?

APPALTI: M. Terrei, L’indagine di mercato nelle Linee Guida ANAC n. 4. Tra aggiornamenti, semplificazione e nuovi obblighi.
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SOMMARIO: 1 Premessa; 2) L’indagine di mercato nel “vecchio” Codice dei Contratti d.lgs. 163/2006; 3) Il nuovo Codice dei Contratti d.lgs. 50/2016; 4) Principi generali e comuni; 4.1) La Direttiva 2014/24/UE; 4.2) Linee Guida non vincolanti; 4.3) La motivazione; 4.4) Il ricorso alle procedure ordinarie; 5); La Procedura; 5.1) La determina a contrarre; 5.2) L’avviso e la pubblicità; 5.3) Modalità di selezione dei concorrenti da invitare; 5.3.1) L’invito dell’operatore uscente; 6) Indagine di mercato vs consultazione preliminare; 7) Osservazioni conclusive (09.04.2018 - tratto da www.ambientediritto.it).

APPALTI: V. Ferrara, Informativa antimafia, analisi delle svolte giurisprudenziali alla luce delle modifiche normative (De Iustitia n. 1/2018 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Analisi normativa della informativa antimafia: fonti, ratio e disciplina. 2. Modifiche dell’istituto. 3. La delimitazione dell’ambito discrezionale della P.A.: i poteri della Prefettura. 3.1. Segue. I doveri della Stazione Appaltante. 4. Profili processuali: giurisdizione, competenza e rischio di contrasto tra giudicati. 4.1. Recesso dal contratto a seguito di informativa antimafia ed applicabilità o meno della riduzione a metà dei termini. 5. Conclusioni.

ENTI LOCALI: A. Palma, La questione della benedizione pasquale nelle scuole pubbliche dopo la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.03.2017 n. 1388 (De Iustitia n. 1/2018 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive sul diritto di libertà religiosa e sulla recente questione dell’ammissibilità delle benedizioni pasquali negli istituti scolastici pubblici. 2. L’ammissibilità delle attività e delle iniziative di carattere religioso nella giurisprudenza del TAR dell’Umbria del 2005. 3. La diversa ricostruzione del Tar dell’Emilia Romagna del 2016 attraverso l’interpretazione del principio di laicità come limite assoluto e invalicabile alla libertà religiosa e alla stessa autonomia scolastica. 4. Attività di culto, libertà religiosa e scuola laica nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato. 5. Considerazioni conclusive.

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI: Le app per i cittadini.
DOMANDA:
Il nostro Ente ha acquistato una applicazione per smartphone e tablet (APP) per favorire canali informativi nei confronti della cittadinanza.
Questa APP permette anche l’invio di segnalazioni da parte dei cittadini che possono riguardare diversi ambiti tra cui la mancanza di illuminazioni, presenza di buche, mancata raccolta di rifiuti, ecc.. Tali segnalazioni si generano tramite invio di mail agli uffici comunali.
Ci chiediamo quale sia il valore legale di tali comunicazioni ed in particolare se le stesse debbano essere acquisite al protocollo generale oppure se è possibile configurarle come mere “segnalazioni informali”.
RISPOSTA:
La principale questione sottesa al quesito posto concerne la corretta qualificazione di alcune comunicazioni che pervengono al Comune da parte dei cittadini. In particolare, si tratta di valutare quale sia la natura e il valore di tali comunicazioni e se le stesse debbano essere acquisite al protocollo generale oppure se sia possibile configurarle come mere “segnalazioni informali”.
Il Comune, infatti, ha acquistato un’applicazione per smartphone e tablet, al fine di favorire canali informativi nei confronti della cittadinanza che permette l’invio di segnalazioni tramite mail agli uffici comunali da parte dei cittadini. Sulla base delle informazioni fornite, sembra che tali segnalazioni possano riguardare diversi ambiti (gli esempi proposti sono di segnalazioni relative alla mancanza di illuminazione, alla presenza di buche, alla mancata raccolta di rifiuti, ecc.).
Ebbene, in via generale, si ritiene che non sussista una soluzione univoca rispetto al quesito posto poiché il valore legale delle comunicazioni e l’eventuale necessità di protocollazione risultano legate, non tanto alla forma mediante la quale pervengono all'amministrazione, quanto al contenuto delle stesse e alla modalità con cui il Comune decide di darvi seguito.
In proposito, l’art. 53, comma 5, DPR n. 445/2000 prevede che "Sono oggetto di registrazione obbligatoria i documenti ricevuti e spediti dall'amministrazione e tutti i documenti informatici. Ne sono esclusi le gazzette ufficiali, i bollettini ufficiali e i notiziari della pubblica amministrazione, le note di ricezione delle circolari e altre disposizioni, i materiali statistici, gli atti preparatori interni, i giornali, le riviste, i libri, i materiali pubblicitari, gli inviti a manifestazioni e tutti i documenti già soggetti a registrazione particolare dell'amministrazione".
Di conseguenza, le comunicazioni potranno essere trattate come mere segnalazioni informali o come formali istanze/comunicazioni a seconda del contenuto, delle richieste rivolte all'amministrazione, della sussistenza o meno di un conseguente obbligo di attivarsi della stessa. In altre parole, alla luce di come verranno di volta in volta qualificate le comunicazioni, il Comune valuterà l’opportunità o meno della loro protocollazione. Com’è noto, d’altra parte, il protocollo è un servizio obbligatorio negli Enti pubblici che ha la funzione di gestire, sia in entrata che in uscita dall'organizzazione, tutte le scritture e documenti.
È uno strumento dal duplice valore, giuridico-probatorio e gestionale. Sotto il primo profilo, sul registro di protocollo vengono trascritti progressivamente i documenti e gli atti in entrata e in uscita di un ufficio pubblico, attribuendo certezza ai momenti di arrivo/spedizione degli stessi; il valore gestionale, invece, è determinato dall’attività di classificazione del documento che consente il suo inserimento nel contesto del procedimento. Alla luce di quanto appena esposto, non si ritiene necessario protocollare delle mere segnalazioni informali mentre la protocollazione risulta fondamentale in altri casi.
Fermo restando quanto appena esposto, è noto, comunque, che le istanze e le dichiarazioni presentate alle pubbliche amministrazioni e ai gestori di pubblici servizi per via telematica sono valide se rispettano le modalità e i crismi previsti dall’art. 65 D.Lgs. n. 82/2005 (CAD). Si consiglia, pertanto, i verificare anche il rispetto del sistema da voi utilizzato della disciplina di cui al comma 1, art. 65, CAD (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

PUBBLICO IMPIEGOFerie non godute.
Domanda
Mi potete dare delucidazioni in merito al possibile pagamento delle ferie non godute? Quando è ancora possibile? Se il dipendente fa ricorso e vince, di chi è la responsabilità?
Risposta
Il d.l. 95/2012, nell’ottica di contenere la spesa pubblica, ha introdotto il divieto di monetizzazione delle ferie.
Il legislatore lo descrive in maniera più appropriata declinandolo, in primis, attraverso l’obbligo di fruizione delle ferie nel rispetto delle indicazioni contrattuali di ciascun ordinamento e la conseguente impossibilità di dare luogo alla corresponsione di un trattamento economico sostitutivo, trattandosi di diritto inderogabile, finalizzato a reintegrare le energie psico-fisiche.
Nell’àmbito del lavoro pubblico, le ferie e i riposi vanno obbligatoriamente goduti secondo le previsioni dei rispettivi ordinamenti, e l’affermazione del legislatore per la quale si possano corrispondere «in nessun caso» trattamenti economici sostitutivi va correttamente interpretata secondo il principio dell’irrilevanza dell’imputabilità della causa al lavoratore.
La nuova disciplina contrattuale contenuta all’art. 28 ribadisce l’irrinunciabilità alle ferie e ne viete espressamente la monetizzazione.
È il dirigente a dover rispondere della corretta applicazioni delle disposizioni contrattuali, di tal ciò, ove il dipendente non le chieda, l’ente le pianifica, fino ad ordinarle, al fine di garantirne la fruizione nei termini previsti dalle disposizioni contrattuali.
Le ferie non fruite sono monetizzabili all’atto della cessazione solo nei casi in cui l’impossibilità di fruire delle stesse non è imputabile o riconducibile al dipendente come nelle ipotesi di decesso, malattia, infortunio, risoluzione del rapporto di lavoro per inidoneità fisica permanente e assoluta, congedo obbligatorio per maternità o paternità.
La violazione del divieto, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare e amministrativa per il dirigente responsabile.
I ricorsi dei lavoratori che non si sono visti monetizzare le ferie non godute hanno condotto i giudici di legittimità ad affermare che dal mancato godimento delle ferie deriva il diritto del lavoratore al pagamento dell’indennità sostitutiva, che ha natura retributiva, salvo che il datore di lavoro dimostri di avere offerto un adeguato tempo per il godimento delle ferie, di cui il lavoratore non abbia usufruito (26.04.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Pubblicazione dati sezione Bandi di Concorso.
Domanda
Che cosa si pubblica esattamente nella sotto sezione BANDI DI CONCORSO di Amministrazione Trasparente? Il nostro ente pubblica già tutto all’albo pretorio online. Non si può eliminare la duplicazione?
Risposta
Il decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, che ha notevolmente modificato il Decreto Trasparenza (d.lgs. 14.03.2013, n. 33), ha avuto ripercussioni anche sull’articolo che dispone gli obblighi di pubblicazione relativi ai bandi di concorso (articolo 19).
Da un lato, è stata introdotta una semplificazione: è stato rimosso l’obbligo di pubblicazione dell’elenco dei bandi di concorso espletati nel corso dell’ultimo triennio, con l’indicazione –per ciascuno di essi– del numero degli assunti e delle spese sostenute dall’ente per il concorso bandito (compenso commissari esterni; eventuale affitto locali; materiali e attrezzature). Tutto ciò, oggi, non è più soggetto ad obbligo di pubblicazione. E in questo caso, le informazioni e i dati, inseriti fino al 23.12.2016 –data di applicazione del d.lgs. 97/2016– vanno comunque mantenuti.
Dall’altro lato, è stato, invece, introdotto l’obbligo di pubblicare i criteri di valutazione della commissione (contenuti, in genere, nel regolamento dei concorsi e nei verbali della commissione) e le tracce delle prove scritte, ovviamente dal momento della conclusione della procedura di concorso, in aggiunta alla pubblicazione dell’elenco dei bandi in corso, da mantenere costantemente e tempestivamente aggiornato.
Va ricordato che l’obbligo non riguarda solo i bandi di concorso pubblico, ma anche le procedure di mobilità in entrata, ex articolo 30, comma 1 e comma 2-bis, del d.lgs. 165/2001, nonché le procedure selettive per le assunzioni a tempo determinato.
Pertanto, da tutto ciò discende che le pubblicazioni effettuate all’albo pretorio online (deliberazione, determinazioni dirigenziali, bandi, avvisi e comunicazioni inerenti la procedura concorsuale) non sono le medesime richieste dal decreto trasparenza. Si aggiunge, infine, che le pubblicazioni dei bandi su albo pretorio online e quelle su Amministrazione trasparente > Bandi di concorso, devono essere effettuate nel medesimo giorno, senza dare adito a possibili contenziosi circa il rispetto dei termini per la presentazione delle relative domande (24.04.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Gestione ribassi d’asta.
Domanda
L’ufficio tecnico comunale ha indetto una gara al termine dell’anno scorso, dalla quale abbiamo ottenuto un forte ribasso d’asta che ora vorremmo destinare ad un’opera complementare.
Dopo aver riportato con il riaccertamento ordinario la spesa sull’anno in corso finanziandola con l’FPV, ora come devo gestire contabilmente la partita?
Risposta
Il Principio Contabile Applicato concernente la Contabilità Finanziaria (allegato 4/2 al d.lgs. 118/2011), al punto 5.4, chiarisce come procedere alla contabilizzazione delle opere pubbliche a seguito dell’indizione di una gara.
In particolare, quanto alla previsione relativa ai ribassi d’asta, si evidenzia che lo stesso è stato modificato dall’art. 6-ter del d.l. 91/2017.
Nella formulazione attuale è previsto: “A seguito dell’aggiudicazione definitiva della gara, le spese contenute nel quadro economico dell’opera prenotate, ancorché’ non impegnate, continuano ad essere finanziate dal fondo pluriennale vincolato, mentre gli eventuali ribassi di asta costituiscono economie di bilancio e confluiscono nella quota vincolata del risultato di amministrazione se entro il secondo esercizio successivo all’aggiudicazione non sia intervenuta formale rideterminazione del quadro economico progettuale da parte dell’organo competente che incrementa le spese del quadro economico dell’opera stessa finanziandole con le economie registrate in sede di aggiudicazione e l’ente interessato rispetti i vincoli di bilancio definiti dalla legge 24.12.2012, n. 243. Quando l’opera è completata, o prima, in caso di svincolo da parte del Responsabile Unico del Progetto, le spese previste nel quadro economico dell’opera e non impegnate costituiscono economie di bilancio e confluiscono nel risultato di amministrazione coerente con la natura dei finanziamenti”.
Pertanto –ipotizzando che il Comune abbia rispettato i vincoli di finanza pubblica previsti dalla normativa sul Pareggio di Bilancio per l’anno 2017 (diversamente all’aggiudicazione l’importo dell’economia deve confluire in avanzo)– se l’Ente ha spostato con il riaccertamento ordinario la spesa sull’anno 2018 finanziandola con l’FPV, potrà ora mantenere prenotato l’FPV in entrata (ricordiamo infatti che l’FPV non si accerta/impegna ma si prenota) col quale continuare a finanziare una prenotazione di impegno pari all’importo dei ribassi d’asta fino all’anno 2020 (“secondo esercizio successivo all’aggiudicazione”).
Fino a tale anno potrà quindi:
   1. procedere alla formale rideterminazione del quadro economico progettuale inserendo l’opera complementare
   2. una volta aggiudicata anche di quest’ultima, trasformare la prenotazione di impegno in impegno (continuando, a quel punto, a finanziarla con l’FPV in entrata fino al suo completamento).
Ovviamente se ciò dovesse avvenire nel 2019 o nel 2020, con variazione di esigibilità o nei riaccertamenti ordinari che si renderanno necessari si dovrà provvedere a reimputare tale spesa all’anno in cui si prevede di realizzarla (23.04.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Permessi 104 a ore.
Domanda
I permessi ex art. 33, l.104/1992, per assistere un familiare disabile, possono essere fruiti sia a giorni che ad ore, nell’arco dello stesso mese?
Risposta
I tre giorni retribuiti al mese, finalizzati a dare tutela alla grave disabilità, trovano disciplina sia nella legge che nel contratto. La legge 104/1992 detta la precisa disciplina dell’istituto e ne indica i presupposti giustificativi, quantificando il permesso in tre giorni, su base mensile.
È il contratto collettivo, poi, che introduce la frazionabilità degli stessi. Lo fa all’art. 19, comma 6, del CCNL del 06.07.1995. Questa norma verrà disapplicata dal nuovo contratto e verrà sostituita dal nuovo articolo 33. La nuova disciplina, in verità, non porta con sé alcuna novità di rilievo, rimanendo invariata la formulazione letterale della stessa.
Il contratto prevedeva e così sarà anche per il futuro, che i permessi a giorni della Legge 104/1992, possano essere utilizzati anche ad ore, nel limite massimo delle 18 ore mensili.
Si tratta di capire come gestire due contatori che agiscono con due unità di misura diversa: l’uno con i giorni, l’altro con le ore.
Vale la pena osservare che non c’è una norma che legittima la pretesa di un datore di lavoro di chiedere al dipendente una modalità univoca di fruizione del permesso su base mensile: a giorni, oppure ad ore.
Le difficoltà del corretto computo dei giorni e delle ore, non legittimano una limitazione all’esercizio del diritto, di questa natura.
L’Aran, in molte occasioni, ha fornito gli strumenti per operare una corretta quantificazione del permesso, ove fruito in modo misto su base mensile.
Innumerevoli pareri dell’Agenzia ci confermano che il dipendente può fruire nello stesso mese sia dei permessi orari che dei permessi giornalieri.
Nel caso di fruizione mista su base mensile, per ogni periodo di 6 ore di permesso, va computata la corrispondente riduzione di una giornata di permesso e, coerentemente, solo un residuo non inferiore alle 6 ore (dal monte ore complessivo delle 18) può comportare la fruizione di un intero giorno di permesso, questo, anche nel caso in cui la richiesta sia fatta per una giornata in cui il debito orario è di 9 ore (19.04.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Codice CPV.
Domanda
È necessario individuare il codice CPV anche per le gare di importo inferiore ad € 40.000? Dove sono pubblicati i codici CPV da utilizzare nelle procedure di gara?
Risposta
Come si legge nella Giuda al Vocabolario Comune degli Appalti elaborata dalla Commissione Europa, il CPV (Common Procurement Vocabulary), è un codice numerico che mira a standardizzare, mediante un unico sistema di classificazione, gli appalti pubblici, offrendo così uno strumento adeguato ai potenziali utenti, (amministrazioni aggiudicatrici ed operatori), in ordine alla corretta individuazione dell’oggetto dell’affidamento.
Il Vocabolario comune per gli appalti in vigore è quello adottato dal regolamento CE n. 213/2008, scaricabile in formato pdf. accedendo al link https://simap.ted.europa.eu/it/web/simap/cpv.
La Stazione appaltante dovrà individuare il codice, o i codici nel caso di prestazioni principali e secondarie, più aderenti possibili alle prestazioni che si intendono acquisire.
La corretta individuazione del codice CPV è dunque fondamentale per consentire, in particolare, l’attuazione dell’accesso alle informazioni, nonché l’attività di controllo e monitoraggio in forma semplificata.
Si ritiene opportuno individuare il codice anche per le gare di importo inferiore ad € 40.000, in particolare quando vengono utilizzate delle procedure telematiche di acquisto.
Lo stesso sistema Mepa, ad esempio, individua le prestazioni che possono essere oggetto di procedura di acquisto nell’ambito della categoria di abilitazione di cui al corrispondente capitolato tecnico, mediante l’elencazione dei codici CPV (cfr. Allegati al capitolato d’oneri).
Nel caso specifico del Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione il CPV consente di verificare effettivamente se il bene o il servizio di cui ho la necessità è acquistabile sulla piattaforma telematica, e quindi di rispettare la normativa sulla spending, la cui violazione comporta procedimento disciplinare, responsabilità erariale, nullità del contratto (18.04.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nuovo GDPR (General Data Protection Regulation) e informative privacy.
Domanda
È vero che con l’entrata in vigore del GDPR 679/2016, dovremo cambiare tutte le informative privacy, ex art. 13 d.lgs. 196/2003, che si trovano sui nostri stampati e modulistica varia?
Risposta
Come previsto dall’art. 99 del Regolamento Europeo il materia di privacy n. 679/2016, lo stesso è in vigore dal 25.05.2016 e si applica –dispiegando tutti i suoi effetti– dal 25.05.2018, cioè esattamente due anni dopo.
Chiarito ciò, alla domanda può essere data risposta affermativa, nel senso che le informative privacy, con il nuovo regolamento, sono previste nell’art. 13 e riguardano le “Informazioni da fornire qualora i dati personali siano raccolti presso l’interessato”, che è la casistica più praticata negli enti locali. Per ulteriore approfondimento è consigliabile studiarsi tutto il Capo III del regolamento (artt. da 12 a 23), rubricato “Diritti dell’interessato”.
Nelle nuove informative, oltre che i riferimenti normativi del regolamento, andranno inseriti:
   a) l’identità e i dati di contatto del titolare del trattamento e, ove applicabile, del suo rappresentante (responsabile del trattamento);
   b) i dati di contatto del responsabile della protezione dei dati (figura nuova non prevista dalla legislazione nazionale precedente – d.lgs. 196/2003);
   c) le finalità del trattamento cui sono destinati i dati personali nonché la base giuridica del trattamento;
   d) gli eventuali destinatari o le eventuali categorie di destinatari dei dati personali.
Le altre informazioni che dovranno essere inserite nelle informative sono:
   a) il periodo di conservazione dei dati personali oppure, se non è possibile, i criteri utilizzati per determinare tale periodo;
   b) l’esistenza del diritto dell’interessato di chiedere al titolare del trattamento l’accesso ai dati personali e la rettifica o la cancellazione degli stessi o la limitazione del trattamento che lo riguardano o di opporsi al loro trattamento, oltre al diritto alla portabilità dei dati.
Sull’argomento –quanto mai importante, per tutte le P.A. in vista della imminente scadenza del 25.05.2018– sarebbe fortemente auspicabile l’emanazione di apposite Linee Guida da parte del Garante per la protezione dei dati personali italiano (Garante Privacy). Tale facoltà è espressamente prevista dall’art. 13, comma 3, lettera d), della legge 25.10.2017, n. 163. Disposizione normativa con la quale il Governo è stato delegato ad emanare uno o più decreti legislativi di attuazione.
Il Governo attualmente in carica, ha approvato, in esame preliminare, nella seduta del Consiglio dei Ministri del 21.03.2018, le “Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.04.2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento generale sulla protezione dei dati)”. Il testo del provvedimento, ad oggi, non è ancora disponibile (17.04.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Trasformazione tempo pieno e inquadramento.
Domanda
Il nostro comune ha trasformato il rapporto di lavoro di un dipendente inquadrato in cat. C1-C5 da tempo parziale in tempo pieno utilizzando capacità assunzionale che aveva a disposizione.
L’inquadramento economico del lavoratore deve rimanere nella posizione C5, oppure il nuovo contratto deve ripartire dalla posizione C1?
Risposta
Il dubbio dell’ente, probabilmente, dipende dal fatto che generalmente viene affermato che la trasformazione del rapporto a tempo parziale a tempo pieno equivale ad una nuova assunzione.
Tale indicazione è contenuta all’art. 3, comma 101, della l. 244/2007 che indica: “Per il personale assunto con contratto di lavoro a tempo parziale la trasformazione del rapporto a tempo pieno può avvenire nel rispetto delle modalità e dei limiti previsti dalle disposizioni vigenti in materia di assunzioni”.
Come si può vedere, la disposizione si limita a precisare che la trasformazione va svolta nel rispetto delle regole assunzionali, nello specifico a quelle del turn-over le cui percentuali sono di volta in volta individuate dal legislatore.
Si ritiene, pertanto, che la trasformazione pur essendo equiparata a “nuova assunzione” dal punto di vista delle facoltà assunzionali, non comporti un diverso inquadramento del dipendente rispetto alle posizioni economiche raggiunte durante la sua vita lavorativa a tempo parziale (12.04.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Regolamento interno per acquisizioni sotto soglia.
Domanda
Le nuove linee guida ANAC n. 4 adeguate al decreto legislativo 56/2017, come anche la versione precedente del 2016, fanno riferimento alla esigenza che la stazione appaltante si doti di un proprio regolamento interno per disciplinare anche l’applicazione del principio di rotazione.
E’ possibile fornire un chiarimento pratico anche sulla competenza sull’adozione del regolamento (se di giunta comunale o di consiglio) e se lo stesso possa essere sostituito da indirizzi di carattere generale ai responsabili di servizio?
Risposta
Secondo l’ANAC, la stazione appaltante potrebbe dotarsi –sarebbe opportuno– di uno specifico regolamento interno (o utilizzare all’uopo il regolamento di contabilità) per disciplinare alcuni aspetti del procedimento semplificato nel sottosoglia comunitario. In questo senso anche le recenti linee guida n. 4 che, non si ritenga superfluo rilevarlo, sono indicazioni comunque non vincolanti per la stazione appaltante. In generale, soprattutto nel caso di indicazioni specifiche, ogni scostamento deve risultare adeguatamente motivato da parte del RUP.
In relazione al regolamento, effettivamente, come anche già per le abrogate acquisizioni in economia (oggi sostituite dal nuovo modello normativo declinato nell’articolo 36 del codice dei contratti), la stazione appaltante potrebbe adottare uno specifico regolamento interno la cui funzione, più che altro considerato che le linee guida appaiono invero esaustive, di indirizzare i vari responsabili di servizio ed i RUP verso comportamenti omogenei.
In particolare andrebbero disciplinati con il regolamento l’atteggiarsi pratico del principio di rotazione (che potrebbe essere escluso in caso di successione di appalti anche per lo stesso oggetto o oggetto riconducibile alla stessa categoria merceologica ma per diversa fascia di importo) e quindi per la definizione delle fasce di importo. E’ infatti impensabile che questo aspetto venga rimesso a ciascun responsabile di procedimento.
Nello stesso regolamento, la stazione appaltante può disciplinar l’aspetto delle verifiche sulle dichiarazioni sui requisiti indicando “una quota significativa minima di controlli a campione da effettuarsi in ciascun anno solare […] nonché le modalità di assoggettamento al controllo e di effettuazione dello stesso”.
Nello stesso documento una disciplina ad hoc potrebbe essere dedicata ai micro acquisti, soprattutto rispetto all’atteggiarsi dell’affidamento diretto, che può essere sinteticamente motivato nell’ambito di acquisti entro i mille euro proprio con richiamo al regolamento.
Sempre nel regolamento interno, e, si ripete, per evitare l’adozione di una moltitudine di atti, le stazioni appaltanti possono disciplinare anche le dinamiche da adottare nell’avvio e svolgimento delle indagini di mercato “eventualmente distinte per fasce di importo, anche in considerazione della necessità di applicare il principio di rotazione”, le modalità di costituzione e le procedure di revisione dell’elenco degli operatori economici, distinti per categoria e fascia di importo ed i criteri di scelta dei soggetti da invitare “a presentare offerta a seguito di indagine di mercato o attingendo dall’elenco degli operatori economici propri o da quelli presenti nel Mercato”.
Il regolamento dovrà disciplinare anche le dinamiche di redazione dell’albo dei fornitori/prestatori.
Per quanto concerne la questione delle competenze. In primo luogo, coinvolgendo il regolamento tanto i lavori quanto i servizi e forniture, appare ovvio che ogni stazione appaltante assegni l’obiettivo della predisposizione del regolamento ai vari responsabili di servizio –ciascuno coinvolto pro quota– che avranno l’indirizzo/obiettivo di predisporre la proposta di regolamento.
L’organo competente –per l’approvazione del regolamento-, nel caso di un comune, non potrà che essere il consiglio comunale avendo l’atto chiara valenza esterna.
A sommesso parere, il regolamento potrà essere sostituito con un indirizzo di carattere generale, magari predisposto dal funzionario anticorruzione o attraverso una disposizione concertata in conferenza di responsabili di servizi approvati dalla giunta comunale. In questo caso, naturalmente, non si tratterebbe di un vero e proprio regolamento (11.04.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI: Articolo 22, comma 3-bis, del decreto legge 24.04.2017, n. 50, convertito in legge 21.06.2017, n. 96. Quesito in merito la possibilità di impiego della vigilanza privata addetta al servizio di sicurezza durante le sagre paesane.
La finalità della norma è quella di porre a carico dei privati oneri già previsti che altrimenti sarebbero ricaduti in capo alle amministrazioni locali, e non quella di introdurre nuove incombenze finalizzate alla sicurezza: ne deriva pertanto che non trova spazio, in questo contesto, l’ipotesi dell’affidamento di tali compiti ad un corpo di vigilanza privata.
Il Sindaco chiede un parere in merito alla possibilità d’impiego della vigilanza privata nell’espletamento del servizio di sicurezza, in luogo degli operatori della polizia locale, durante lo svolgimento di manifestazioni quali le sagre paesane, con riferimento alla disciplina introdotta dal comma 3-bis dell’articolo 22 del decreto legge 24.04.2017, n. 50, convertito in legge 21.06.2017, n. 96.
Chiede inoltre se il servizio di vigilanza privata debba essere previsto per ogni tipologia di manifestazione e, in mancanza di tale servizio, se l’Amministrazione debba emettere un provvedimento di diniego allo svolgimento della manifestazione stessa.
Sull’applicazione della norma in questione si è espressa l’ANCI, con nota del 23.11.2017 (prot. n. 273/SIPRICS/AR/mcc-17), allegata alla presente, ove si evidenzia che tale disposizione ha introdotto l’obbligo, per i privati organizzatori o promotori dell’evento, di “farsi interamente carico delle spese del personale della polizia locale
[1]”.
Tale obbligo presuppone che si tratti di eventi che “comportino servizi di sicurezza e polizia stradale necessari” a garantirne lo svolgimento, in quanto vanno ad incidere “sulla sicurezza e la fluidità della circolazione nel territorio dell’Ente”.
La finalità della norma in questione è quella di porre a carico dei privati oneri già previsti che altrimenti sarebbero ricaduti in capo alle amministrazioni locali, e non quella di introdurre nuove incombenze finalizzate alla sicurezza: ne deriva pertanto che non trova spazio, in questo contesto, l’ipotesi dell’affidamento di tali compiti ad un corpo di vigilanza privata, cui può essere affidata la vigilanza di beni mobili o immobili, nonché altre attività di sicurezza sussidiaria “per il cui espletamento non sia richiesto l’esercizio di pubbliche potestà o l’impiego di operatori appartenenti alle Forze di polizia
[2].
Con riferimento alla gestione delle manifestazioni pubbliche sotto il profilo della sicurezza si rammentano, infine, le recenti circolari del Ministero dell’Interno sul tema:
   - Dipartimento della pubblica sicurezza nr. 555/OP/0001991/2017/1 del 07.06.2017
[3];
   - Dipartimento dei Vigili del Fuoco 0011464 del 19.06.2017. “Manifestazioni pubbliche. Indicazioni di carattere tecnico in merito a misure di safety
[4]”;
   - Gabinetto del Ministro n. 11001/110(10) del 28.07.2017. Modelli organizzativi per garantire alti livelli di sicurezza in occasione di manifestazioni pubbliche. Direttiva.
Alla direttiva dello scorso luglio sono allegate le linee guida per i provvedimenti di safety da adottare nei processi di governo e gestione delle pubbliche manifestazioni
[5], in cui si sottolinea l’importanza che la valutazione del livello di rischio venga effettuata in fase di ideazione, al fine di ridurlo ad un “livello residuo considerato accettabile [6]”.
---------------
[1] Sono escluse, tra le altre, le prestazioni che rientrano nei servizi pubblici essenziali di cui all’art. 2 del CCNL 19.09.2002. Per il dettaglio si rinvia alla nota ANCI allegata.
[2] Per la disciplina di riferimento delle Guardie Giurate si rinvia agli articoli 133-141 del R.D. 18.06.1931, n. 733 (Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza – T.U.L.P.S.) e ai D.M. n. 154 del 15.09.2009 e n. 85 del 29.01.1999. In particolare, l’art. 139 T.U.L.P.S. prevede che “Gli uffici di vigilanza privata sono tenuti a prestare la loro opera a richiesta dell’autorità di pubblica sicurezza […]”. Con riferimento ai servizi di controllo delle attività di intrattenimento e di spettacolo in luoghi aperti al pubblico o in pubblici esercizi, si rinvia al D.M. 06.10.2009.
[3] In questo contesto il Ministero sottolinea l’importanza di prevedere un “adeguato numero di operatori, appositamente formati, con compiti di accoglienza, instradamento, regolamentazione dei flussi anche in caso di evacuazione, osservazione ed assistenza del pubblico”.
[4] Il Ministero dell’Interno evidenzia la possibilità di prevedere varchi di accesso presidiati con il ricorso al servizio di stewarding, qualora non siano disponibili apparecchiature conta persone.
[5] All’interno delle linee guida viene precisato che gli operatori di sicurezza debbano aver conseguito una formazione per rischio d’incendio elevato.
[6] Per gli aspetti procedurali si richiamano inoltre gli articoli 18 e 68 del T.U.L.P.S.
(11.04.2018 - link a
www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sindaco dipendente a tempo parziale. Collocamento in aspettativa ed esercizio attività professionale.
La Sezione di controllo della Corte dei conti della regione Friuli Venezia Giulia (cfr. deliberazione n. 21 del 2016) ha evidenziato che il legislatore regionale ha inteso prevedere in generale una applicazione della maggiorazione dell'indennità di funzione a tutti gli amministratori locali, ad eccezione dei casi in cui i beneficiari dell'indennità dispongano anche di redditi da lavoro dipendente o siano titolari di trattamento di quiescenza.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità, per un sindaco dipendente a tempo parziale al 50% di una pubblica amministrazione e libero professionista, di richiedere il collocamento in aspettativa presso l’ente di appartenenza, continuando in seguito a svolgere attività libero professionale (quesito sub 1.).
In caso di risposta affermativa, si è chiesto inoltre di conoscere se il sindaco libero professionista, che sia stato collocato in aspettativa come lavoratore dipendente a tempo parziale, ha diritto alla maggiorazione dell’indennità di funzione (quesito sub 2.).
Infine, si è posta la questione relativa al diritto alla predetta maggiorazione nel caso in cui l’interessato non opti per il collocamento in aspettativa e continui quindi a lavorare sia come dipendente pubblico a tempo parziale, che come libero professionista (quesito sub 3.).
In via preliminare, in relazione al collocamento in aspettativa, è doveroso sottolineare che la questione attiene a normativa statale, sulla cui applicazione ha esclusiva competenza ad esprimersi il Ministero dell’Interno, al quale si suggerisce eventualmente di rivolgersi, al fine di acquisire l’orientamento dello stesso. Pertanto, lo scrivente Ufficio ritiene di formulare le seguenti considerazioni in via meramente collaborativa.
Com’è noto, l’art. 81, comma 1, del d.lgs. 267/2000 dispone che i sindaci, i presidenti delle province, i presidenti dei consigli comunali e provinciali, i presidenti dei consigli circoscrizionali, i presidenti delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché i membri delle giunte di comuni e province, che siano lavoratori dipendenti, possono essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita per tutto il periodo di espletamento del mandato.
La ratio della citata norma consiste nella tutela espressamente riconosciuta dal legislatore all’amministratore locale, finalizzata a rendere concreto il precetto di cui all’art. 51, terzo comma della Costituzione, che fa salvo il diritto di chi è chiamato a svolgere funzioni pubbliche elettive di disporre del tempo necessario al loro ottimale adempimento, conservando al contempo il posto di lavoro.
La giurisprudenza civilistica ha affermato che l’aspettativa in argomento ha lo scopo di rendere compatibile, per i lavoratori chiamati a funzioni pubbliche, l’espletamento di tali funzioni con la condizione di prestatore di lavoro subordinato
[1].
A tal proposito si rappresenta che l’art. 86, comma 1, del d.lgs. 267/2000 dispone che l’amministrazione locale assuma a proprio carico il versamento degli oneri assistenziali, previdenziali e assicurativi per i sindaci lavoratori dipendenti che siano collocati in aspettativa.
Premesso un tanto, si osserva che il vigente ordinamento consente al lavoratore dipendente a tempo parziale al 50% di esercitare attività professionale.
Parimenti la disciplina attualmente in vigore riconosce al lavoratore dipendente/amministratore locale il diritto di richiedere il collocamento in aspettativa per tutta la durata del mandato elettivo.
Non si rinviene invece alcuna norma che vieti, in tal caso, lo svolgimento di attività professionale, né sono stati reperiti orientamenti giurisprudenziali che abbiano interpretato in maniera restrittiva la vigente disciplina.
Si segnala al riguardo un parere, pur risalente nel tempo
[2], nel quale il Ministero dell’Interno ha esaminato la situazione di un amministratore locale che, oltre ad essere pubblico dipendente in aspettativa, svolgeva anche attività autonoma, senza rilevare alcun profilo di criticità in relazione al contestuale collocamento in aspettativa e al permanere dell’esercizio dell’attività professionale.
Per quanto concerne infine i quesiti prospettati sub) 2. e 3., relativi alla spettanza della maggiorazione dell’indennità di funzione nelle diverse fattispecie, sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si espone quanto segue.
Al riguardo si ricorda che il punto 15 della deliberazione della Giunta regionale 24.06.2011 n. 1193, la quale determina la misura delle indennità degli amministratori locali ai sensi –per quanto qui rileva- dell’art. 3, comma 13, della legge regionale 13/2002, stabilisce che “per gli amministratori, ad eccezione dei lavoratori dipendenti non collocati in aspettativa, le indennità di funzione previste ai punti 1, 2, 3, 4, 5, 6, 11 - 1° alinea, 12, 13 e 14 sono aumentate in base” a determinate percentuali
[3].
Si rappresenta, a tal proposito, che la Sezione di controllo della Corte dei conti della regione Friuli Venezia Giulia, con deliberazione n. 21 del 2016, ha espressamente esaminato, alla luce della disciplina vigente, la problematica riguardante la compatibilità della maggiorazione dell’indennità di funzione per gli amministratori locali che dispongano anche di reddito da lavoro autonomo congiunto a reddito da lavoro dipendente.
I giudici contabili hanno evidenziato che la normativa vigente in Friuli Venezia Giulia delinea in maniera puntuale e completa l’ambito di operatività delle maggiorazioni previste per le indennità di funzione degli amministratori locali.
In tale contesto si sono richiamate nello specifico le disposizioni contenute nella deliberazione di Giunta regionale n. 1193/2011 e nella legge regionale n. 15/2014,
[4] che definiscono importi e maggiorazioni delle indennità spettanti agli amministratori degli enti locali della Regione Friuli Venezia Giulia.
In particolare –osservano i giudici contabili– l’intenzione del legislatore regionale è stata quella di prevedere in generale una applicazione della maggiorazione dell’indennità di funzione a tutti gli amministratori, ad eccezione dei casi in cui i beneficiari dell’indennità dispongano anche di redditi da lavoro dipendente
[5] o che siano titolari di trattamento di quiescenza.
In conclusione si è affermata un’interpretazione volta a limitare la maggiorazione dell’indennità di funzione a tutti gli amministratori che risultino privi di altre entrate mensili fisse, consentendo la percezione della sola indennità base agli amministratori che dispongano anche di redditi da lavoro dipendente (o da pensione)
[6].
Alla luce delle considerazioni suesposte, si ritiene pertanto che la maggiorazione dell’indennità in argomento competa soltanto nella fattispecie prospettata sub 2. di collocamento in aspettativa senza assegni.
---------------
[1] Cfr. Cass. Civile, sentenza n. 21396 del 05.10.2006.
[2] 25.05.2005.
[3] Tale disciplina continua a trovare applicazione in via transitoria fino all’adozione della deliberazione di cui all’art. 41, comma 2, della l.r. 18/2015, come previsto dall’art. 53, comma 1, della richiamata legge regionale.
[4] L’art. 14, comma 9, della l.r. 15/2014 dispone che “non si applica agli amministratori locali, dalla data di entrata in vigore della presente legge, la maggiorazione prevista al punto 15 della deliberazione della Giunta regionale 1193/2011, qualora risultino titolari di trattamento di quiescenza”.
[5] Condizione che viene meno nel caso in cui il lavoratore dipendente abbia esercitato l’opzione per il collocamento in aspettativa senza assegni.
[6] Per completezza, si osserva che precedentemente alla pronuncia della Corte dei conti, sez. reg. di controllo per il FVG, si era delineato un orientamento interpretativo che, ai fini del diritto o meno alla maggiorazione dell’indennità per l’amministratore contemporaneamente libero professionista e lavoratore dipendente, si basava sul concetto della prevalenza, in termini di redditività e di impegno, delle due attività svolte (cfr. pareri ANCI del 24.11.2008 e dell’08.01.2009)
(10.04.2018 - link a
www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Gestionale sezione Amministrazione Trasparente.
Domanda
Dobbiamo cambiare il nostro sistema di gestione della sezione web di Amministrazione Trasparente: quali sono le caratteristiche che deve avere un gestionale efficiente e rispettoso della normativa in materia?
Risposta
I sistemi gestionali attualmente in circolazione sono i più disparati. A meno che non si sia vincolati dall’esistenza di piattaforme che comprendono anche l’organizzazione della sezione Amministrazione Trasparente, scegliere un gestionale in questo ginepraio vuol dire identificare quello meglio che si adegua alle specifiche esigenze degli operatori, nel rispetto delle disposizioni normative in materia di Trasparenza.
La struttura di Amministrazione Trasparente è stata precisamente definita –e aggiornata– da ANAC con deliberazione n. 1310 del 28.12.2016. In particolare, l’allegato 1 riporta tutte le sotto sezioni da popolare con dati e informazioni, strutturate in sotto sezioni (n. 26) di primo e di secondo livello (n. 67).
Ciascun gestionale, prima di tutto, dovrebbe riprendere pedissequamente l’alberatura rappresentata nella citata deliberazione. Inoltre, un sistema gestionale ottimale, dovrebbe anche offrire la possibilità di:
   • inserire documenti organizzati in cartelle ed in sotto cartelle, per ogni sotto sezione. Tutto ciò permette di dettagliare con maggiore chiarezza –per il cittadino– le informazioni che necessariamente sono rintracciabili in diversi atti (es.: sotto sezione CONSULENTI E COLLABORATORI: per ogni professionista, oltre all’atto di incarico, occorre pubblicare il curriculum, la dichiarazione relativa ad altre cariche o incarichi assunti, assieme all’attestazione riguardante la verifica dell’insussistenza di conflitti di interesse);
   • inserire collegamenti ipertestuali (link), che permettano di evitare la duplicazione dei contenuti (es.: sotto sezione CONTROLLI E RILIEVI SULL’AMMINISTRAZIONE > sotto sezione ORGANISMI INDIPENDENTI DI VALUTAZIONE > per i contenuti riconducibili al documento dell’OIV di validazione della Relazione sulla Performance, è opportuno inserire un collegamento ipertestuale alla sotto sezione PERFORMANCE);
   • inserire apposite descrizioni / diciture che diano conto di situazioni particolari in cui non vi sono dati da pubblicare, in relazione alla situazione dell’ente (es: sotto sezione CONTROLLI E RILIEVI SULL’AMMINISTRAZIONE > sotto sezione CORTE DEI CONTI: è consigliabile inserire una dicitura che evidenzi –se caso– che l’ente non ha ricevuto rilievi riguardanti l’organizzazione e le attività dell’amministrazione).
Tutto ciò sta alla base di un sistema flessibile ed efficiente che, in mancanza di una piattaforma gestionale condivisa, può efficacemente incontrare le esigenze degli operatori del settore, nell’assolvimento degli obblighi previsti dalla normativa sulla Trasparenza (10.04.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGOVincolo del 15% al risultato per le posizioni organizzative. Incarichi. Alla premialità un tetto minimo dei compensi.
Finanziamento delle somme fuori del fondo delle risorse decentrate e revisione del sistema della retribuzione di risultato sono le due principali novità del contratto in fatto di posizioni organizzative.
La sempre più difficile fase della contrattazione integrativa ha imposto una nuova definizione economica dei compensi per i dipendenti incaricati di posizione organizzativa. Il meccanismo che inseriva le somme all’interno del fondo era ormai naufragato, sempre in bilico tra scelte organizzative e obbligo di trovare un accordo con i sindacati.
Ecco quindi l’idea: spostare le somme della retribuzione di posizione e di risultato fuori dal fondo, con imputazione diretta a bilancio, creando quindi l’esatta coincidenza operativa tra enti con o senza la dirigenza. La procedura, semplice, prevede, negli enti con la dotazione organica dirigenziale, di costituire il nuovo fondo del 2018 al netto di quanto destinato nel 2107 alle posizioni organizzative. Lo spostamento sul bilancio avrebbe dovuto semplificare le relazioni con i sindacati.
Purtroppo, le cose non sono così perché viene affermato che l’operazione va comunque effettuata nel rispetto dell’articolo 23, comma 2 del Dlgs 75/2017. Si tratta del vincolo che impedisce di superare il valore del trattamento accessorio complessivo del 2016, di cui entrambi gli aggregati –fondo e budget delle posizioni organizzative– fanno parte.
Un’unica torta, quindi, ma divisa in due fette. Se gli importi di partenza nel tempo non cambiano, non ci sarà alcun problema. Se però, ad esempio, l’ente volesse aumentare il valore o il numero delle posizioni organizzative con relativa riduzione della fetta del fondo delle risorse decentrate, si dovrà passare della contrattazione integrativa decentrata. Viceversa, in caso di diminuzione delle posizioni organizzative ci sarebbero i margini per aumentare il fondo, ma anche in questo caso sarà necessario il confronto con i sindacati.
L’altra spinta innovativa, che costringerà alla modifica dei sistemi di premialità, riguarda la retribuzione di risultato. I vecchi contratti nazionali prevedevano un range dal 10 al 25% della retribuzione di posizione attribuita a ciascun responsabile. Ogni incaricato, quindi, contava su un “tesoretto” calcolato sulla base dell’importo della posizione per la specifica area.
Non sarà più così, perché l’ipotesi di contratto prevede ora un unico budget per la retribuzione di risultato del complesso delle posizioni organizzative, dato da almeno il 15% delle somme prima destinate a retribuzione di posizione e di risultato. Il tesoretto quindi non è più per il singolo dipendente, ma per l’insieme degli incaricati, per cui occorre un’immediata ridefinizione dei criteri per i premi. Anche per questo, si dovrà passare dalla contrattazione integrativa decentrata (articolo Il Sole 24 Ore del 23.04.2018).

PUBBLICO IMPIEGOComuni, aumenti liberi ai funzionari.
Gli aumenti delle indennità per i funzionari degli enti locali si liberano dai tetti di spesa, e potranno quindi essere assicurati in tutte le amministrazioni senza inciampare in contestazioni.
E fra le materie oggetto del «confronto» con i sindacati (da oggi a giovedì si vota per le Rsu in tutto il pubblico impiego), cioè l’etichetta che nei contratti del pubblico impiego rimette in campo la vecchia concertazione, entrano anche i criteri generali per la mobilità fra le sedi di lavoro dell’amministrazione, tema che riguarda i Comuni più grandi oltre a Città metropolitane, Province e Regioni, e le linee di pianificazione delle attività formative.
Ma è ovviamente quella economica la novità più importante fra quelle spuntate nella versione riveduta e corretta dell’ipotesi di contratto per il personale degli enti territoriali, che deve ora andare alla Corte dei conti per l’ultimo esame prima della firma finale.
L’esclusione dai tetti di spesa per gli aumenti delle indennità arriva con la forma della «dichiarazione congiunta». La conseguenza pratica è che gli incrementi da 83,2 euro per l’indennità destinata ai titolari di «posizione organizzativa», cioè per chi pur non essendo dirigente ha incarichi di gestione e responsabilità, potrà essere assicurata in tutti gli enti a prescindere dalle condizioni in cui versa il bilancio. Si supera in questo modo uno degli scogli su cui rischiava di inciampare l’applicazione dei nuovi contratti.
Il problema, come spesso accade, nasce da un incrocio sfortunato fra le tante regole che provano a disciplinare la finanza pubblica. Le indennità di posizione organizzativa, e soprattutto le loro cifre in crescita dal prossimo anno, sono regolate dal contratto nazionale, ma finanziate dai fondi integrativi, quelli con cui ogni ente alimenta le voci aggiuntive della busta paga.
Ma questi fondi, come spiega il decreto attuativo della riforma Madia sul pubblico impiego (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017) non possono superare il livello raggiunto nel 2016 fino a quando non sarà completata la futuribile «armonizzazione» delle buste paga di tutti i dipendenti pubblici.
Senza il via libera interpretativo «congiunto» di datori di lavoro e sindacati, sul modello di quanto accade per gli statali, l’aumento delle indennità avrebbe finito per sottrarre risorse alle altre voci finanziate dai fondi integrativi (produttività, turni, disagio e così via) con il rischio di essere bloccati dalla mancanza di risorse nei casi più problematici.
Sempre con l’obiettivo di evitare regole troppo rigide che rischiano di mettere in difficoltà la gestione, con le correzioni al testo cambia il rapporto minimo obbligatorio fra le risorse da dedicare alla retribuzione di posizione e a quella di risultato dei funzionari: a quest’ultima voce, misurata in base alle «performance» dei diretti interessati, dovrà andare almeno il 15% delle somme, mentre nella versione originaria del testo il limite era al 20 per cento.
Resta invece da sciogliere il problema della retroattività «
lunga» degli incarichi prevista dal contratto, e contestata da ministero dell’Economia e Funzione pubblica (si veda Il Sole 24 Ore di ieri). Ma sarà la relazione tecnica che accompagna il contratto definitivo a dire l’ultima parola sul punto (articolo Il Sole 24Ore del 17.04.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl contratto inciampa sulla retroattività delle promozioni. Il governo chiede di rivedere la decorrenza. Regioni ed enti locali. Su progressioni e premi le obiezioni del Mef.
Sono ancora le promozioni a far inciampare l’ipotesi di contratto di Regioni ed enti locali.
Nelle «osservazioni» di ministero dell’Economia e Funzione pubblica che martedì hanno accompagnato il via libera del consiglio dei ministri (si veda Il Sole 24 Ore dell’11 aprile) è finita nel mirino la retroattività lunga prevista dal nuovo contratto per le progressioni economiche. Nessuna obiezione, invece, sugli aumenti tabellari, che «risultano contenuti entro i limiti delle risorse determinate nell’atto di indirizzo».
La decorrenza delle promozioni è al centro di un lungo dibattito fra l’Aran e la Ragioneria generale. L’ipotesi di contratto firmata a febbraio prova a risolverla (articoli 16 e 68) prevedendo che i benefici economici prodotti dalle progressioni economiche orizzontali (quelle che aumentano la busta paga ma non cambiano l’inquadramento) decorrano dal momento della sottoscrizione del contratto. I ministeri premono invece per una retroattività più breve, che si fermi al 1° gennaio dell’anno in cui arriva al traguardo il procedimento della progressione. Tradotto, significa per esempio che per una promozione che viene completata a febbraio del 2019 l’aumento dovrebbe decorrere dal mese prima, e non dal 2018, cioè dalla firma dei nuovi contratti integrativi.
Con la retroattività lunga, ragionano però Economia e Funzione pubblica, rischiano di essere cancellati ufficialmente gli obiettivi di «meritocrazia e selettività» che da anni le norme imporrebbero alle progressioni economiche, che dovrebbero «valorizzare le capacità reali dei dipendenti, selezionati in base alle loro effettive conoscenze evitando di considerare la mera anzianità di servizio e altri riconoscimenti puramente formali». Obiettivi impossibili da raggiungere se gli aumenti possono tornare indietro fino al momento della sottoscrizione degli integrativi, quando «non sono noti i vincitori della procedura».
L’inghippo secondo i ministeri potrebbe produrre poi «effetti onerosi derivanti anche dall’eventuale contenzioso» che si accenderebbe nell’incertezza delle regole. E per evitare il rischio, il governo indica due alternative: una clausola di salvaguardia che limiti la novità alle progressioni regolate dagli integrativi che arriveranno in seguito al nuovo contratto nazionale, oppure che la riservi ai casi in cui le risorse collegate alle progressioni non siano già state utilizzate per finanziare altri istituti contrattuali. Il governo, insomma, non sembrerebbe chiudere del tutto la porta alla retroattività lunga, anche se il richiamo al «consolidato orientamento» contrario e la sottolineatura che il meccanismo «non sembra pienamente in linea con le norme» non fanno presagire una strada semplice. Servono però almeno le clausole di salvaguardia, e la palla sul tema ripassa ad Aran e comitato di settore.
Sempre in fatto di promozioni, resta aperto il problema il problema degli aumenti delle indennità previsti dal nuovo contratto, che si incrociano male con il divieto di far crescere il fondo integrativo oltre ai livelli del 2016 fissato dall’articolo 23, comma 2, del Testo unico del pubblico impiego. Nel caso degli statali la questione è stata affrontata con una dichiarazione congiunta che esclude gli aumenti nazionali dalla base di calcolo per rispettare il tetto al 2016, ma nel contratto degli enti locali la dichiarazione non c’è.
C’è invece quella sull’esclusione dal vincolo per gli incentivi alle funzioni tecniche. Ma sul punto, rimarca il governo, bisogna aspettare le decisioni della Corte dei conti a sezioni Riunite (articolo Il Sole 24 Ore del 16.04.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOContratti, cade il divieto ai sindaci nella delegazione trattante.
Non è più esplicitamente vietato che gli amministratori locali facciano parte della delegazione trattante di parte pubblica per i contratti integrativi.

È uno degli effetti di maggiore rilievo contenuti nell’ipotesi di contratto collettivo nazionale del personale delle funzioni locali, che disciplina in modo stringente le procedure della contrattazione e, in modo altrettanto netto, individua i rappresentanti della parte pubblica e di quella sindacale.
Che cosa cambia
Il contratto impegna le amministrazioni a nominare la delegazione trattante di parte pubblica entro i 30 giorni successivi all’entrata in vigore del nuovo contratto. La competenza spetta alla giunta, che deve anche indicare il presidente, cui sono attribuiti compiti particolarmente rilevanti nella rappresentanza dell'ente. Il contratto del 01.04.1999, all'articolo 10, stabiliva esplicitamente che la delegazione trattante di parte pubblica fosse composta da dirigenti o, negli enti che ne sono sprovvisti, da funzionari individuati dall'ente.
Formulazione che ha spinto la giurisprudenza del lavoro in modo maggioritario a ritenere illegittima la presenza degli amministratori tra i componenti, con l'unica eccezione che l'Aran ha individuato negli amministratori dei Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti cui sono stati conferiti compiti di responsabili di uffici o servizi.
L’incognita che resta
Il nuovo contratto si limita a dire che l'ente nomina la delegazione trattante di parte pubblica, senza dettare regole per la sua composizione. E disapplica in modo formale tutte le disposizioni contenute nei precedenti contratti su questa materia. In realtà, la conclusione che gli amministratori possano fare parte della delegazione trattante di parte pubblica non è automatica, perché si deve chiarire se e quanto pesi la distinzione di carattere generale per cui ai componenti gli organi di governo spettano unicamente compiti di indirizzo e controllo, mentre ai dirigenti spettano i compiti di gestione.
La parte sindacale
Anche se non è più esplicitamente previsto dal contratto, si deve ritenere che i soggetti sindacali continuino a essere la Rsu e le organizzazioni firmatarie del contratto nazionale. A questa conclusione conducono le disposizioni del Dlgs 165/2001. Tra le organizzazioni sindacali si registra una diminuzione rispetto a quelle firmatarie dell'ultimo contratto di parte normativa, il contratto nazionale dell’11.04.2008.
Scompare infatti la Dicapp (Snalcc, Fenal, Sulpm), per cui rimangono solo Cgil Fp, Cisl Fp, Uil Fpl e Csa regioni ed autonomie locali. Tutte queste organizzazioni, anche se non presenti nell'ente, hanno diritto ad essere informate, e ad essere convocate per le riunioni. Senza la presenza della Rsu non può essere validamente stipulata alcuna intesa.
Le procedure per l’avvio
L’ipotesi di contratto conferma che l'avvio delle trattative debba concretizzarsi entro i 30 giorni successivi alla presentazione della piattaforma da parte dei soggetti sindacali, ma a differenza dei precedenti testi, stabilisce che comunque il loro concreto inizio è subordinato alla costituzione della delegazione trattante di parte pubblica.
Non viene infine chiarito, ma la materia sembra appartenere più alla competenza del legislatore, quali sono le regole da applicare nel caso di conflitto tra i soggetti sindacali, e cioè quali sono i presupposti per definire se l'intesa sottoscritta solo da alcuni possa essere considerata validamente firmata.
L'intesa si limita a riproporre il vincolo a utilizzare i canoni della buona fede, trasparenza, correttezza e responsabilità e a ricordare che lo scopo delle relazioni sindacali è la prevenzione dei conflitti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.03.2018).

PUBBLICO IMPIEGO: Un'unica area per le posizioni organizzative.
Dopo ben nove anni dall'ultimo contratto collettivo e ben quasi diciotto dalla sottoscrizione dell'ordinamento professionale, le organizzazioni sindacali e l'Aran hanno sottoscritto l'accordo preliminare per il rinnovo del contratto nazionale per il comparto delle funzioni locali. Uno degli aspetti sui quali s'incide in maniera importante è quello delle posizioni organizzative.
Nel contratto del 1999
All'epoca le posizioni organizzative hanno rappresentato una vera e propria novità nel comparto Regioni-Autonomie Locali, in ragione dello svolgimento di compiti specifici di particolare rilievo, a esse connessi, e delle relative modalità di definizione, rimesse al dirigente e non solo a disposizioni normative.
L'ordinamento professionale, introdotto dall'articolo 8 del contratto del personale non dirigente del Comparto Regioni – Autonomie Locali del 31.03.1999, infatti, istituendo l'area delle posizioni organizzative quale insieme delle “postazioni” di lavoro, con assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato, ipotizzava le seguenti tre tipologie di attività:
   a) direzione di unità organizzative di particolare complessità, caratterizzate da elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa;
   b) attività con contenuti di alta professionalità e specializzazione correlate a diplomi di laurea e/o scuole universitarie e/o alla iscrizione ad albi professionali;
   c) attività di staff e/o studio, ricerca, ispettive, di vigilanza e controllo caratterizzate da elevate autonomia ed esperienza.
Successivamente, l'articolo 10 del contratto del 22.01.2004, allo scopo di valorizzare le «alte professionalità» del personale di categoria D mediante il conferimento di incarichi a termine nell'ambito della disciplina stabilita d all'articolo 8, comma 1, lettere b) e c), del contratto 31.03.1999, con valori economici più ampi rispetto a quelli delle altre posizioni organizzative.
La nuova intesa
Con la nuova ipotesi di contratto molto cambia: in termini di semplificazione e imputazione dei costi, non più sul fondo delle risorse decentrate ma sul bilancio, pur nell'ambito di un'invarianza di spesa rispetto alla quale probabilmente molto si discuterà.
L'articolo 13, comma 1, prevede che: «Gli enti istituiscono posizioni di lavoro che richiedono, con assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato: a) lo svolgimento di funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità, caratterizzate da elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa; b) lo svolgimento di attività con contenuti di alta professionalità, comprese quelle comportanti anche l'iscrizione ad albi professionali, richiedenti elevata competenza specialistica acquisita attraverso titoli formali di livello universitario del sistema educativo e di istruzione oppure attraverso consolidate e rilevanti esperienze lavorative in posizioni ad elevata qualificazione professionale o di responsabilità, risultanti dal curriculum».
Seppure la fattispecie disciplinata dalla lettera b) continua a caratterizzarsi per una “limitata” presenza di funzioni organizzative, di direzione di strutture e di gestione e per la prevalenza data ai contenuti di carattere professionale, la novità sostanziale del nuovo assetto consiste nella previsione di un'unica area delle posizioni organizzative, con un importo della retribuzione di posizione variabile da un minimo di 5.000 euro a un massimo di 16.000 annui lordi per tredici mensilità (articolo 15, comma 2), sulla base della graduazione di ciascuna posizione organizzativa e senza distinzione tra le fattispecie di cui alle lettere a) e b) dell’articolo 13, comma 1.
La retribuzione di risultato
Altra novità, ancor più rilevante, espressione dei recenti principi contenuti nel nuovo assetto delle disposizioni generali sul tema della valorizzazione dei risultati, è quella per la quale, gli enti dovranno definire i criteri per la determinazione e per l'erogazione annuale della retribuzione di risultato delle posizioni organizzative, destinando a questa particolare voce retributiva una quota non inferiore al 20% delle risorse complessivamente finalizzate alla erogazione della retribuzione di posizione e di risultato di tutte le posizioni organizzative previste dal proprio ordinamento.
Viene meno, pertanto, la stretta correlazione tra retribuzione di posizione e retribuzione di risultato, in quanto la retribuzione di risultato non è più stabilita secondo una misura percentuale (variabile tra un minimo e un massimo) del valore della retribuzione di posizione presente nel precedente contratto. Con la nuova ipotesi di contratto, quindi, la retribuzione di risultato dovrà rappresentare una quota che ciascun ente avrà cura di stabilire. Ciò che rileva, inoltre, è che per detta quota non è stabilito un valore massimo, bensì un valore minimo (pari al 20%), a dimostrazione del fatto che gli enti, ora, potranno dare maggiore risalto alla componente retributiva legata al risultato.
E non solo. Nell'ipotesi di conferimento a un lavoratore, già titolare di posizione organizzativa, di un incarico ad interim relativo ad altra posizione organizzativa, per la durata dello stesso, al lavoratore, nell'ambito della retribuzione di risultato, sarà possibile attribuire un ulteriore importo con una misura variabile dal 15 al 25% del valore economico della retribuzione di posizione prevista per la posizione organizzativa oggetto dell'incarico ad interim. In definitiva, viene a delinearsi un diverso quadro delle posizioni organizzative, con un assetto simile alla dirigenza, quasi a voler sopperire contrattualmente a quella carenza legislativa in tema di vice dirigenza che pare oramai definitivamente abbandonata (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.03.2018).

EDILIZIA PRIVATAVia ai lavori senza code e attese. Niente permessi del comune per costruire o rinnovare. Pronto il glossario dell'edilizia libera. In lista (in aggiornamento) almeno 58 interventi.
Sono 58 (almeno) i casi di edilizia libera. Sono censiti, in una dettagliata tabella, dallo schema di decreto del ministro delle infrastrutture (si veda ItaliaOggi del 23.02.2018), che contiene il «glossario unico dell'edilizia», un elenco delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, ossia senza alcun titolo abilitativo.
Il glossario si propone di far parlare la stessa lingua tutti gli uffici tecnici comunali e a tutti i professionisti, alle prese con specificità locali, quanto a prescrizioni dei piani regolatori.
Si tratta, comunque, di un cantiere aperto, in quanto, come ha segnalato un comunicato del ministero delle infrastrutture, il completamento del glossario unico, in relazione alle opere edilizie realizzabili mediante Cila (Comunicazione inizio lavori asseverata), Scia (Segnalazione inizio lavori asseverata), permesso di costruire e Scia in alternativa al permesso di costruire, è demandato a successivi decreti da adottare con le stesse modalità.
Dedichiamoci, quindi, all'esame delle principali voci del glossario, alla scoperta di quello che si può fare senza dover aspettare un «sì» da parte del comune.
I primi 25 casi di attività edilizia libera riguardano le manutenzioni straordinarie.
Stanno alla libertà del proprietario la pavimentazione interna ed esterna, la messa a norma dell'impianto elettrico e degli altri impianti (gas, igienico e idro-sanitario), l'installazione di un impianto di climatizzazione).
Altrettanto per la realizzazione di intercapedini, locali tombati, vasche di raccolta acque.
Per l'importanza che hanno per il risparmio energetico, stanno nella casella della edilizia libera le opere relative a pannelli solari, fotovoltaici e generatori microeolici.
Arredo da giardino (dai barbecue alle fontane), gazebo non infissi al suolo, giochi per i bambini, pergolati, ripostigli per attrezzi, sbarre, manufatti per lo stallo di biciclette, tende ed elementi divisori riempiono la categoria delle aree ludiche.
Anche roulotte, camper, case mobili e imbarcazioni rientrano nell'attività edilizia libera, in quanto manufatti leggeri in strutture ricreative.
Stesso risultato, ma sotto etichetta diversa (opere contingenti temporanee) si evidenzia per gazebo, stand fieristici, servizi igienici mobili, tensostrutture e assimilabili, elementi espositivi e aree di parcheggio provvisorio (per tutti questi casi, il glossario in commento sottolinea la necessità della comunicazione di inizio lavori per le opere di installazione).
Un'altra categoria di attività edilizia libera è dedicata alla eliminazione delle barriere architettoniche: dalla installazione di ascensori e montacarichi, rampe, apparecchi sanitari e impianti igienici e idro-sanitari e dispositivi sensoriali.
La stessa appartenenza alle attività edilizia libera è registrata per i movimenti terra, come la manutenzione e gestione di terreni agricoli, vegetazione spontanea, e impianti di irrigazione e drenaggio finalizzati alla regimazione e uso dell'acqua in agricoltura.
Attività contigua (sempre libera) è quella della installazione di serre.
Seguono le attività relative a pompe di calore, i depositi di gas di petrolio liquefatti.
Carotaggi, perforazioni e simili riempiono la categoria delle attività di ricerca nel sottosuolo, accomunati alle altre ipotesi di edilizia libera.
Per tutti questi interventi la tabella riporta il regime giuridico (e cioè la qualifica di attività edilizia libera ai sensi dell'articolo 6, comma 1, lettere da a) a e-quinquies), del Testo unico per l'edilizia, dpr n. 380/2001); le categorie di intervento, alla luce delle specifiche previste dalla tabella A del dlgs n. 222/2016; le principali opere che possono essere realizzate per ciascun elemento edilizio come richiesto dall'articolo 1, comma 2 del dlgs n. 222/2016; i principali elementi oggetto di intervento, individuati per facilitare la lettura della tabella da cittadini, imprese e p.a.
(articolo ItaliaOggi Sette del 05.03.2018).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Principio della c.d. invarianza della soglia.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Principio della c.d. invarianza della soglia – Art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016 – Impugnazione delle ammissioni ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a. – Applicabilità - Esclusione.
Lo sbarramento dell’art. 95, comma 15, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (principio della c.d. invarianza della soglia) non si può applicare nel caso in cui il concorrente abbia tempestivamente impugnato l’atto di ammissione, nelle forme e nei termini di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., in assenza, al momento, di qualsivoglia “cristallizzazione” della soglia per effetto di una graduatoria formata sulla base di ammissioni o esclusioni divenute inoppugnabili e immodificabili –per il rapidissimo susseguirsi degli atti di gara– e, anzi, in pendenza di un subprocedimento per la verifica dell’anomalia dell’offerta risultata prima graduata ancora aperto (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che il coordinamento dell’art. 95, comma 15, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (che ha recepito l’analoga previsione dell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006 introdotta nel 2014) – secondo cui “Ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l'individuazione della soglia di anomalia delle offerte” – con la disposizione dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. esige anzitutto che il concorrente, il quale intenda contestare l’ammissione (o l’esclusione) di un altro concorrente –laddove ovviamente, come nel caso di specie, tale interesse sia attuale, immediato e concreto, per essere stata la determinazione della soglia immediatamente successiva all’ammissione dei concorrenti– debba farlo immediatamente, a nulla rilevando la finalità per la quale intenda farlo, come, appunto, per l’ipotesi in cui egli persegua, così facendo, l’interesse –in sé del tutto legittimo– di potere incidere sul calcolo delle medie e della soglia di anomalia, erroneamente determinato sulla base di una ammissione –o di una esclusione– illegittima.
Anzi, proprio in questa ipotesi, l’immediata impugnativa dell’ammissione appare necessaria, perché l’art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016 ha inteso evitare che, a soglia già cristallizzatasi (c.d. blocco della graduatoria), un concorrente possa insorgere contro l’ammissione di un altro non già principaliter per contestarne la legittima ammissione alla gara, in assenza di un valido requisito, ma solo per rimettere in discussione il calcolo delle medie e la soglia di anomalia effettuato sulla platea dei concorrenti, spesso molto ampia, ponendo i risultati della gara in una situazione di perenne incertezza e determinando, così, la caducazione, a distanza di molto tempo trascorso e in presenza di molte risorse impiegate, dell’aggiudicazione già intervenuta.
Proprio per questo l’art. 95, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016, infatti, ha previsto l’immutabilità o invarianza della soglia, una volta cristallizzatasi, e cioè –al pari del suo diretto antecedente storico, l’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006, di cui ricalca la formulazione– al fine di “scoraggiare impugnazioni sui provvedimenti di ammissione o esclusione che avessero come obiettivo soltanto quello di modificare la media delle offerte” (C.g.a. 26.06.2017, n. 316).
Ha aggiunto la Sezione che la fase di ammissione e di esclusione delle offerte non possa sicuramente dirsi conclusa, anche nel vigore del nuovo codice dei contratti pubblici, almeno finché non sia spirato il termine per impugnare le ammissioni e le esclusioni, in modo da consentire alle imprese partecipanti di potere contestare immediatamente dette ammissioni ed esclusioni, laddove esse immediatamente incidano sulla determinazione della soglia e siano, quindi, immediatamente lesive per il concorrente interessato (come è nel caso di specie per il brevissimo tempo intercorso tra la fase dell’ammissione e quella di determinazione della soglia), e comunque, laddove le ammissioni e le esclusioni di altri partecipanti non assumano immediata efficacia lesiva, ai fini della determinazione della soglia, con la conseguente impossibilità di impugnare un atto non immediatamente lesivo per il concorrente interessato (essendosi la soglia venuta a determinare, nel corso della gara, in un momento successivo a quello in cui è spirato il termine per impugnare le ammissioni e le esclusioni), finché la stessa stazione appaltante non possa esercitare il proprio potere di intervento di autotutela ed escludere “un operatore economico in qualunque momento della procedura” (art. 80, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016) e, quindi, sino all’aggiudicazione (esclusa, quindi, l’ipotesi di risoluzione “pubblicistica” di cui all’art. 108, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016, successiva alla stipula del contratto).
Un diverso orientamento, che non considerasse tale potere di intervento in autotutela a procedura ancora aperta, da parte dell’amministrazione, e di esclusione dei concorrenti in qualunque momento della gara (art. 80, comma 6, d.lgs. n. 50 del 2016), creerebbe un irrigidimento non conforme ai principî costituzionali ed europei, prima ancora che alle disposizioni del codice, determinando una cristallizzazione della soglia insensibile a qualsivoglia illegittimità riscontrata in corso di gara persino dalla stessa stazione appaltante, e, come ogni automatismo che non consenta alla stessa di valutare in concreto le offerte presentate, sarebbe “contrario all’interesse stesso delle amministrazioni aggiudicatrici, in quanto queste ultime non sono in grado di valutare le offerte loro presentate in condizioni di concorrenza effettiva e quindi di assegnare l’appalto in applicazione dei criteri, anch’essi stabiliti nell’interesse pubblico, del prezzo più basso o dell’offerta economicamente più vantaggiosa” (Corte giust. comm. ue 15.05.2008, in C. 147/06, § 29) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 27.04.2018 n. 2579 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
4. L’appello deve essere respinto.
5. La tesi dell’appellante, sostenuta anche dalla Residenza “Riviera del Brenta”, riposa sull’assunto secondo cui Ca.Di. non avrebbe potuto più impugnare l’ammissione di Po. alla gara, e tanto per il principio di cui all’art. 95, comma 15, del d.lgs. n. 50 del 2016, il quale stabilisce che «ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte».
5.1.
Come è noto, ampio è stato il dibattito giurisprudenziale, anche nel vigore del d.lgs. n. 163 del 2016 (che, come si dirà, conteneva analoga disposizione), sul momento in cui debba considerarsi conclusa la fase di ammissione, regolarizzazione od esclusione delle offerte.
5.2. Tale regola, secondo l’appellante, si sarebbe dovuta applicare anche al caso di specie, una volta “cristallizzatasi” la graduatoria nel corso della seduta del 21.07.2017, come sopra si è accennato in punto di fatto.
5.3. Il primo giudice ha ritenuto invece che, aderendo alla tesi sostenuta in primo grado dall’Amministrazione e da Eu. & Pr., secondo cui la disposizione dell’art. 95, comma 15, del d.lgs. n. 50 del 2016 cristallizzerebbe sempre e comunque i punteggi già attribuiti e la graduatoria redatta sulla base di questi punteggi, si dovrebbe concludere che la disposizione dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., introdotta per effetto delle nuove disposizioni sui contratti pubblici, «è stata partorita morta, si dovrebbe assumere che la predetta norma ha una esclusivamente virtuale e nessun effetto reale» (p. 9 della sentenza impugnata).
5.4. Se si vuole dare un senso al comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a. ed eliminare l’apparente antinomia esistente tra la predetta disposizione e quella dell’art. 95, comma 15, del d.lgs. n. 50 del 2016, ritiene il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto nella sentenza qui avversata, si deve interpretare quest’ultima nel senso che l’irrilevanza, ai fini del calcolo delle medie e della soglia di anomalia, di ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione ed esclusione delle offerte, valga non già per la tempestiva impugnazione, ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., dell’ammissione dei concorrenti privi dei requisiti di partecipazione, ma esclusivamente per l’impugnazione dell’ammissione dei concorrenti privi dei requisiti effettuata –per l’omessa impugnazione dell’ammissione nei termini di cui al richiamato comma 2-bis– contestualmente con l’impugnazione del provvedimento di aggiudicazione della gara, quale provvedimento conclusivo della procedura concorsuale e, comunque, per qualsiasi ulteriore esclusione di un concorrente disposta –dalla stazione appaltante o a seguito di apposito giudizio– successivamente alla sua espressa ammissione.
6.
La sentenza, seppure per le ragioni che seguono, merita conferma, condividendosi nella sostanza la conclusione, alla quale è pervenuto il primo giudice, secondo cui lo sbarramento dell’art. 95, comma 15, del d.lgs. n. 50 del 2016 (principio della c.d. invarianza della soglia) non si può applicare alla presente controversia.
6.1.
Il coordinamento dell’art. 95, comma 15, del d.lgs. n. 50 del 2016 –che ha recepito l’analoga previsione dell’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006 introdotta nel 2014– con la disposizione dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. esige anzitutto che il concorrente, il quale intenda contestare l’ammissione (o l’esclusione) di un altro concorrente –laddove ovviamente, come nel caso di specie, tale interesse sia attuale, immediato e concreto, per essere stata la determinazione della soglia immediatamente successiva all’ammissione dei concorrenti– debba farlo immediatamente, a nulla rilevando la finalità per la quale intenda farlo, come, appunto, per l’ipotesi in cui egli persegua, così facendo, l’interesse –in sé del tutto legittimo– di potere incidere sul calcolo delle medie e della soglia di anomalia, erroneamente determinato sulla base di una ammissione –o di una esclusione– illegittima.
6.2. Anzi, proprio in questa ipotesi,
l’immediata impugnativa dell’ammissione appare necessaria, perché l’art. 95, comma 15, del d.lgs. n. 50 del 2016 ha inteso evitare che, a soglia già cristallizzatasi (c.d. blocco della graduatoria), un concorrente possa insorgere contro l’ammissione di un altro non già principaliter per contestarne la legittima ammissione alla gara, in assenza di un valido requisito, ma solo per rimettere in discussione il calcolo delle medie e la soglia di anomalia effettuato sulla platea dei concorrenti, spesso molto ampia, ponendo i risultati della gara in una situazione di perenne incertezza e determinando, così, la caducazione, a distanza di molto tempo trascorso e in presenza di molte risorse impiegate, dell’aggiudicazione già intervenuta.
6.3. Proprio per questo l’art. 95, comma 15, del d.lgs. n. 50 del 2016, infatti, ha previsto l’immutabilità o invarianza della soglia, una volta cristallizzatasi, e cioè –al pari del suo diretto antecedente storico, l’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, di cui ricalca la formulazione– al fine di «scoraggiare impugnazioni sui provvedimenti di ammissione o esclusione che avessero come obiettivo soltanto quello di modificare la media delle offerte» (Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. giurisd., 26.06.2017, n. 316, ma. v. anche Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. giurisd., 22.12.2015, n. 740 e Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. giurisd., 10.07.2015, n. 456).
6.4.
La consapevole scelta effettuata dal legislatore nel 2014, allorché ha introdotto l’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, previsione poi recepita anche nel vigente codice dei contrati pubblici, è stata infatti quella di assicurare preminente interesse alla conservazione degli atti di gara, nonostante la successiva esclusione di taluno dei concorrenti e nonostante l’evidente rischio che, nelle more della partecipazione comunque avvenuta in punto di fatto, la permanenza in gara del concorrente in seguito escluso abbia sortito taluni effetti in punto di determinazione delle medie e delle soglie di anomalia (Cons. St., sez. V, 23.02.2017, n. 847).
7.
Questa ratio legis deve tenere conto, ora, dell’art. 29, comma 1, del vigente codice dei contratti pubblici e dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., con la conseguenza che l’immediata impugnativa dell’atto di ammissione, in una fase della gara nella quale l’ammissione non si è ancora stabilizzata per essere ancora sub iudice, non può non retroagire, una volta accolta, al momento della illegittima ammissione, tempestivamente impugnata, in quanto, diversamente ritenendo, la stabilizzazione della soglia sarebbe “sterilizzata” da ogni eventuale illegittimità di una ammissione o esclusione tempestivamente contestata.
7.1.
Il concorrente deve poter dunque impugnare immediatamente l’ammissione dell’altro, ove sia a conoscenza di una causa di illegittima ammissione alla stessa, senza attendere l’esito della gara e, in particolare, l’aggiudicazione (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 05.10.2016, n. 4107, Cons. Giust. Amm. Sic., sez. giurisd., 19.02.2018, n. 96), essendo il suo ricorso, in tale caso, inammissibile non solo per difetto di interesse secondo una valutazione già effettuata ope legis dal codice dei contratti pubblici, che vieta nell’art. 95, comma 15, la proposizione di azioni volte solo ad ottenere in modo strumentale, ed ex post, la modifica della soglia, ma anche per l’espressa previsione dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., nella parte in cui stabilisce che «l’omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale».
7.2.
Il principio della c.d. invarianza della soglia e la scelta del c.d. blocco della graduatoria, come si è accennato, sono stati recepiti consapevolmente anche nel nuovo codice dei contratti pubblici e, in particolare, nell’art. 95, comma 15, del d.lgs. n. 50 del 2016, che si applica al caso di specie.
8. Nella vicenda in esame, tuttavia, Ca.Di. si è attivata immediatamente per contestare l’illegittima ammissione della concorrente, nelle forme del rito superspeciale di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., avendo impugnato con un primo ricorso tale ammissione il 14.09.2017, entro i trenta giorni decorrenti, considerata la sospensione feriale, dall’adozione dell’atto di ammissione di Po., risalente al decreto dirigenziale n. 114 del 13.07.2017.
8.1. Né può sostenersi, come vorrebbe l’appellante, che la graduatoria si fosse “cristallizzata”, al momento in cui il ricorso fu proposto, non solo perché nessuna graduatoria era stata ancora “ufficializzata” dalla stazione appaltante, ma perché la fase di ammissione non poteva dirsi conclusa, in quel momento, anche per la rapida successione degli atti di gara, che avevano visto il 13 luglio l’ammissione delle concorrenti e, solo dopo 8 giorni, l’apertura delle offerte e la loro graduazione, nel verbale della seduta del 21.07.2017, atto endo-procedimentale, quest’ultimo, privo di immediata lesività, ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, ult. periodo, c.p.a. e non impugnabile autonomamente nelle forme del rito superspeciale.
8.2. La stessa Po., prima graduata, era stata dalla stazione appaltante, con detto verbale del 21.07.2017, assoggettata alla verifica dell’anomalia, conclusasi di lì a poco con l’esclusione del 19.09.2017 e lo scorrimento della graduatoria, di cui al decreto dirigenziale n. 149 del 19.09.2017, ritualmente impugnato da Ca.Di. con successivo ricorso, connesso al primo e riunito a questo dalla sentenza impugnata.
8.3. Per parte sua, va qui notato, Ca.Di., con l’istanza del 02.08.2017, ancora in pendenza del termine per impugnare l’ammissione di Po. aveva richiesto alla stazione appaltante di rideterminarsi in via di autotutela circa l’illegittima ammissione di Po., proprio rappresentando la sua situazione di irregolarità contributiva che avrebbe dovuto determinarne, in radice e ab origine, l’esclusione dalla gara, come ha statuito correttamente sul punto il primo giudice, con motivazione, peraltro, che non è stata oggetto di specifica impugnazione e sulla quale, conseguentemente, si è formato il giudicato.
8.4. Ma il sub-procedimento di verifica dell’anomalia, avviato dalla stazione appaltante il precedente 21.07.2017, era proseguito senza che di tale istanza essa avesse tenuto o dato alcun conto, concludendosi, appunto, con il menzionato decreto n. 149 del 19.09.2017, impugnato con successivo autonomo ricorso da Ca.Di..
8.5.
È evidente, dunque, che lo sbarramento, di cui all’art. 95, comma 15, del d. lgs. n. 50 del 2016, non può trovare applicazione ad un caso, come il presente, nel quale la concorrente ha tempestivamente impugnato l’atto di ammissione, nelle forme e nei termini di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., in assenza, al momento, di qualsivoglia “cristallizzazione” della soglia per effetto di una graduatoria formata sulla base di ammissioni o esclusioni divenute inoppugnabili e immodificabili – per il rapidissimo susseguirsi degli atti di gara – e, anzi, in pendenza di un subprocedimento per la verifica dell’anomalia dell’offerta risultata prima graduata ancora aperto, subprocedimento nel corso del quale la concorrente Carpe Diem, terza graduata, pendendo comunque ancora il termine per impugnare l’ammissione di Polima, ha sollecitato la stazione appaltante ad escludere in via di autotutela, evidentemente ai sensi dell’art. 80, comma 6, del d. lgs. n. 50 del 2016, la prima graduata proprio per un vizio originario – l’irregolarità contributiva – di tale offerta.
8.6.
Coerente con questa impostazione è, del resto, l’orientamento di Cons. St., sez. V, 13.02.2017, n. 590 (e della consolidata giurisprudenza da essa richiamata: v., in particolare, Cons. St., sez. V, 16.03.2016, n. 1052), riguardante la determinazione della soglia direttamente conseguente all’illegittima ammissione disposta in danno dell’impresa partecipante che, prima dell’aggiudicazione, solleciti –come è anche avvenuto nel caso di specie– la stazione appaltante all’esercizio del potere di autotutela, al fine di assicurare e garantire, oltre la correttezza del procedura concorrenziale, il buon andamento dell’azione amministrativa disposto dall’art. 97 Cost.
8.7.
Una diversa interpretazione, quale quella propugnata dall’appellante (e dalla Residenza “Riviera del Brenta”), si porrebbe in contrasto non solo con gli artt. 24 e 113 Cost., ma anche con l’appena richiamato art. 97 Cost., consentendo l’aggiudicazione di una gara sulla base di una determinazione della soglia ottenuta per l’effetto di una ammissione illegittima, tempestivamente impugnata dal concorrente interessato nelle forme e nei tempi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. e altrettanto tempestivamente annullata dal primo giudice.
8.8.
Inoltre tale diversa interpretazione, nel creare una riserva di amministrazione sottratta a qualsivoglia controllo di legalità, anche estrinseco, e nel precludere al giudice amministrativo la possibilità di “accedere” al fatto e di conoscere successive variazioni della soglia ancorché legittimamente contestate, in base al nuovo art. 120, comma 2-bis, c.p.a., con una rituale impugnazione dell’ammissione, si porrebbe in contrasto con il principio di full jurisdiction, costantemente affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (v., in tal senso, la sentenza del 07.06.2012, Segame SA c. France), ma anche con la costante giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, che ritiene in via generale non incompatibili con il diritto europeo criterî automatici di determinazione della soglia basati sulla media dell’insieme delle offerte ricevute, purché consentano di valutare in concreto l’anomalia dell’offerta (v., ex plurimis, Corte Giustizia delle Comunità europee, 15.05.2008, in C-147/06), ma al contempo precisa che debba trattarsi di offerte ricevute «valide».
8.9. Anche per questa ragione
il Collegio, nel condividere l’orientamento seguito dalla citata giurisprudenza nel vigore del precedente codice dei contratti pubblici (v., ex plurimis, Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 22.12.2015, n. 740), ritiene che la fase di ammissione e di esclusione delle offerte non possa sicuramente dirsi conclusa, anche nel vigore del nuovo codice dei contratti pubblici, almeno finché non sia spirato il termine per impugnare le ammissioni e le esclusioni, in modo da consentire alle imprese partecipanti di potere contestare immediatamente dette ammissioni ed esclusioni, laddove esse immediatamente incidano sulla determinazione della soglia e siano, quindi, immediatamente lesive per il concorrente interessato (come è nel caso di specie per il brevissimo tempo intercorso tra la fase dell’ammissione e quella di determinazione della soglia), e comunque, laddove le ammissioni e le esclusioni di altri partecipanti non assumano immediata efficacia lesiva, ai fini della determinazione della soglia, con la conseguente impossibilità di impugnare un atto non immediatamente lesivo per il concorrente interessato (essendosi la soglia venuta a determinare, nel corso della gara, in un momento successivo a quello in cui è spirato il termine per impugnare le ammissioni e le esclusioni), finché la stessa stazione appaltante non possa esercitare il proprio potere di intervento di autotutela ed escludere «un operatore economico in qualunque momento della procedura» (art. 80, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016) e, quindi, sino all’aggiudicazione (esclusa, quindi, l’ipotesi di risoluzione “pubblicistica” di cui all’art. 108, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016, successiva alla stipula del contratto).
8.10.
Un diverso orientamento, che non considerasse tale potere di intervento in autotutela a procedura ancora aperta, da parte dell’amministrazione, e di esclusione dei concorrenti in qualunque momento della gara (art. 80, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016), creerebbe un irrigidimento non conforme ai principî costituzionali ed europei, prima ancora che alle disposizioni del codice, determinando una cristallizzazione della soglia insensibile a qualsivoglia illegittimità riscontrata in corso di gara persino dalla stessa stazione appaltante, e, come ogni automatismo che non consenta alla stessa di valutare in concreto le offerte presentate, sarebbe «contrario all’interesse stesso delle amministrazioni aggiudicatrici, in quanto queste ultime non sono in grado di valutare le offerte loro presentate in condizioni di concorrenza effettiva e quindi di assegnare l’appalto in applicazione dei criteri, anch’essi stabiliti nell’interesse pubblico, del prezzo più basso o dell’offerta economicamente più vantaggiosa» (Corte di Giustizia delle Comunità europee, 15.05.2008, in C. 147/06, § 29).
9.
La ratio dell’art. 95, comma 15, del d.lgs. n. 50 del 2016 mira, invece, ad evitare impugnative strumentali, tendenti a sovvertire il calcolo delle medie o la determinazione della soglia dell’anomalia, ad aggiudicazione ormai avvenuta, sulla base di una platea di concorrenti ormai cristallizzatasi per effetto di ammissioni o esclusioni definitive, non fosse altro perché non impugnate nei termini di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. o, comunque, perché ormai esauritasi la fase amministrativa di riesame dei precedenti atti di ammissione, all’interno della procedura (v. il già citato art. 80, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016), con l’aggiudicazione, dopo un lungo iter e il dispendio di risorse ingenti da parte dell’amministrazione pubblica nel corso della gara.
9.1. Ma nel caso di specie, per le ragioni sin qui vedute, Ca.Di.ha impugnato tempestivamente in primo grado sia l’ammissione di Po., per la stessa Ca.Di. immediatamente lesiva, sia la successiva esclusione di Po. per (la sola) anomalia dell’offerta.

APPALTI: Omessa indicazione degli oneri di sicurezza nel nuovo Codice dei contratti.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Oneri di sicurezza – Omessa indicazione separata – Conseguenza – Art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 - Non comporta l’esclusione.
L’obbligo di considerare espressamente gli oneri per la sicurezza aziendale (cc.dd. oneri interni) nell’offerta economica, ora codificato dall’art. 95, comma 10, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, non comporta l’automatica esclusione dell’impresa concorrente che, pur senza evidenziarli separatamente nell’offerta, li abbia comunque considerati nel prezzo complessivo dell’offerta (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che la lettera dell’art. 95, comma 10, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 non autorizza in sé la conseguenza dell’esclusione dalla gara del concorrente che non ha indicato separatamente nell’offerta economica gli oneri di sicurezza, non essendo prevista alcuna sanzione di espressa esclusione nel cit. comma 10, che peraltro non prescrive più, a differenza degli abrogati artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, che i suddetti costi siano indicati “specificamente”.
Ad avviso della Sezione l’assenza di una “specifica” indicazione degli oneri per la sicurezza interna nel testo della nuova legge non è del resto causale, perché il legislatore nazionale, nell’attuare la Direttiva 2014/24/UE, non si è realmente discostato dall’orientamento sostanzialistico del diritto eurounitario che, da ultimo ed espressamente nell’art. 57 di tale Direttiva, non ha mai inteso comprendere l’inadempimento di questo mero obbligo formale –la mancata indicazione degli oneri per la sicurezza interna separatamente dalle altre voci dell’offerta– tra le cause di esclusione.
La soluzione automaticamente escludente si porrebbe, dunque, in contrasto con l’indirizzo del diritto UE quale consacrato del giudice eurounitario (v., per tutte, Corte giust. comm. ue, sez. VI, 10.11.2016, in C-162/16), secondo cui dal quadro della normativa eurounitaria –quello precedente della direttiva 2004/18/CE che, però, sul punto è stata “replicata” senza alcuna sostanziale modifica dalla direttiva 2014/14/UE– «non emerge che la mancanza di indicazioni, da parte degli offerenti, del rispetto di tali obblighi determini automaticamente l’esclusione dalla procedura di aggiudicazione», ma ora, e maggior ragione, anche con il divieto di goldplating, di cui all’art. 32, comma 1, lett. c), l. n. 234 del 2012 e di cui all’art. 14, commi 24-bis e 24-ter, l. n. 246 del 2005.
Ha infine aggiunto la Sezione che tale conclusione non si pone in violazione del principio del soccorso istruttorio ex art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, il quale esclude dal soccorso istruttorio le incompletezze afferenti all’offerta tecnica ed economica, quando la stazione appaltante consenta all’impresa di specificare la consistenza degli oneri per la sicurezza già inclusi (ma non distinti) nel prezzo complessivo dell’offerta, senza ovviamente manipolare o modificare in corso di gara l’offerta stessa in violazione della trasparenza e della parità di trattamento tra i concorrenti (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 27.04.2018 n. 2554 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
5. Tale motivazione non pare al Collegio condivisibile.
5.1.
L’obbligo di considerare espressamente gli oneri per la sicurezza aziendale (cc.dd. oneri interni) nell’offerta economica, ora codificato dall’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, non comporta l’automatica esclusione dell’impresa concorrente che, pur senza evidenziarli separatamente nell’offerta, li abbia comunque considerati nel prezzo complessivo dell’offerta.
5.2.
La lettera della legge non autorizza in sé questa drastica conclusione, non essendo prevista alcuna sanzione di espressa esclusione conseguente alla violazione dell’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, che peraltro non prescrive più, a differenza degli abrogati artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006, che i suddetti costi siano indicati «specificamente».
5.3.
L’assenza di una “specifica” indicazione degli oneri per la sicurezza interna nel testo della nuova legge, occorre qui notare, non è del resto causale, perché il legislatore nazionale, nell’attuare la Direttiva 2014/24/UE, non si è realmente discostato dall’orientamento sostanzialistico del diritto eurounitario che, da ultimo ed espressamente nell’art. 57 di tale Direttiva, non ha mai inteso comprendere l’inadempimento di questo mero obbligo formale –la mancata indicazione degli oneri per la sicurezza interna separatamente dalle altre voci dell’offerta– tra le cause di esclusione.
5.4.
Non solo dunque la formalistica soluzione escludente contrasta con la lettera dell’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, che non commina espressamente l’effetto espulsivo della concorrente per l’inadempimento di tale obbligo, ma anche con la sua finalità, che è quella di consentire la verifica della congruità dell’offerta economica anche sotto il profilo degli oneri aziendali «concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro», ritenuto dal codice di particolare importanza per la sicurezza dei lavoratori, in sede di verifica dell’anomalia, in coerenza con le previsioni del legislatore europeo nell’art. 18, par. 2, e nell’art. 69, par. 2, lett. d), della Direttiva 2014/24/UE e nel Considerando n. 37 della stessa Direttiva, il quale rimette agli Stati membri l’adozione di misure non predeterminate al fine di garantire il rispetto degli obblighi in materia di lavoro.
5.5.
La soluzione automaticamente escludente si pone, dunque, in contrasto con l’indirizzo del diritto UE quale consacrato del giudice eurounitario (v., per tutte, Corte di Giustizia UE, sez. VI, 10.11.2016, in C-162/16), secondo cui dal quadro della normativa eurounitaria –quello precedente della direttiva 2004/18/CE che, però, sul punto è stata “replicata” senza alcuna sostanziale modifica dalla direttiva 2014/14/UE– «non emerge che la mancanza di indicazioni, da parte degli offerenti, del rispetto di tali obblighi determini automaticamente l’esclusione dalla procedura di aggiudicazione», ma ora, e maggior ragione, anche con il divieto di goldplating, di cui all’art. 32, comma 1, lett. c), della l. n. 234 del 2012 e di cui all’art. 14, commi 24-bis e 24-ter, della l. n. 246 del 2005.
5.6. L’isolato esame dell’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016 non è, dunque, in sé decisivo, nemmeno sulla base dei principî contenuti nella sentenza n. 9 del 25.02.2014 dell’Adunanza plenaria, per affermare il suo carattere imperativo, a pena di esclusione, e l’effetto ipso iure espulsivo della mancata formale evidenziazione degli oneri per la sicurezza nel contesto dell’offerta economica, poiché esso deve essere letto insieme con l’art. 97, comma 5, lett. c), dello stesso codice, il quale prevede al contrario –e in coerenza con l’art. 69, par. 2, lett. d), della Direttiva 2014/24/UE e con tutto l’impianto della nuova normazione europea– che la stazione appaltante escluda il concorrente solo laddove, in sede di spiegazioni richieste dalla stazione appaltante, detti oneri risultino incongrui.
5.7.
Il Collegio, pur nella ovvia consapevolezza che sul punto sussistono nella giurisprudenza nazionale orientamenti non univoci (v. ad esempio, nella diversità dei singoli casi, nel senso dell’automatismo escludente questo stesso Cons. St., sez. V, 07.02.2018, n. 518, TAR per la Campania, sede di Napoli, 27.03.2018, n. 1952 e, in senso contrario, TAR per il Lazio, sede di Roma, 20.07.2017, n. 8819) e che la stessa Corte di Giustizia, investita della questione interpretativa delle nuove norme della Direttiva 2014/24/UE, ha dichiarato irricevibile la questione sollevata dal Tribunale amministrativo regionale della Basilicata per l’assenza di interessi transfrontalieri rilevanti in quel giudizio (Corte di Giustizia UE, sez. VI, 23.11.2017, in C-486/17), ritiene che l’esclusione automatica di una impresa concorrente, nel quadro della nuova legislazione eurounitaria e nazionale, sia illegittima, se l’impresa dimostri, almeno in sede di giustificazioni, che sostanzialmente la sua offerta comprenda gli oneri per la sicurezza e che tali oneri siano congrui, come è avvenuto nel caso in esame ove l’Azienda stessa, al di là della questione formale, mai ha contestato, anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 64, comma 2, c.p.a., che detti oneri nella sostanza non fossero congrui.
5.9. E ciò anche a prescindere, nel caso in esame, dalla dibattuta questione della legittimità del soccorso istruttorio, dovendosi comunque osservare che, in ogni caso, non è violato il disposto dell’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016, il quale esclude dal soccorso istruttorio le incompletezze afferenti all’offerta tecnica ed economica, quando la stazione appaltante consenta all’impresa di specificare la consistenza degli oneri per la sicurezza già inclusi (ma non distinti) nel prezzo complessivo dell’offerta, senza ovviamente manipolare o modificare in corso di gara l’offerta stessa in violazione della trasparenza e della parità di trattamento tra i concorrenti.
6. L’art. 56, par. 3, della Direttiva 2014/24/UE consente alle stazioni appaltanti, infatti e comunque, di chiedere chiarimenti sulle informazioni già presenti nella documentazione presentata dai concorrenti, informazioni che a pieno titolo rientrerebbero tra le giustificazioni di cui all’art. 69, par. 2, lett. d), della stessa Direttiva, sicché il divieto di ricorrere al soccorso istruttorio per gli elementi dell’offerta tecnica ed economica di cui all’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016, laddove si intendesse riferito anche ai chiarimenti sul rispetto degli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro, non potrebbe mai costituire quell’eccezione consentita al legislatore interno dall’art. 56, par. 3, della Direttiva in virtù di una «contraria disposizione del diritto nazionale che attua la presente direttiva», poiché il divieto di ammettere qualsivoglia chiarimento sul punto costituirebbe evidentemente una disposizione nazionale violativa e non applicativa di tale Direttiva e, in parte qua, da disapplicarsi.
6.1. Una diversa interpretazione della nuova normativa sui contratti pubblici, quale quella seguita dal primo giudice, si porrebbe insomma in contrasto con il quadro del diritto eurounitario, siccome interpretato costantemente dalla Corte di Giustizia UE, laddove, come detto, la Corte ha ribadito, proprio con riferimento agli oneri per la sicurezza, che non è legittimo escludere il concorrente solo per un vizio formale dell’offerta, laddove essa abbia sostanzialmente ricompreso nel prezzo dell’offerta detti oneri, pur senza inizialmente specificarli separatamente in essa, ciò che del resto non è espressamente richiesto a pena di esclusione, come si è detto, nemmeno dal vigente art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016.
6.2. Tale era del resto, anche nel vigore del d.lgs. n. 163 del 2006, il quadro interpretativo consolidatosi dopo la sentenza n. 19 del 27.07.2016 dell’Adunanza plenaria, poiché la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato era ormai costante nell’affermare che la mancata indicazione degli oneri per la sicurezza interna presenta i caratteri di un errore scusabile che non giustifica la sua immediata esclusione dalla gara o l’annullamento dell’aggiudicazione, quando non è contestato, sotto il profilo sostanziale, il rispetto dei costi minimi imposti dagli obblighi per la sicurezza sul lavoro (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 06.02.2017, n. 500, Cons. St., sez. III, 09.01.2017, n. 30, Cons. St., sez. V, 28.12.2016, n. 5475), come non è contestato nel caso di specie ove, come si è detto, mai tale profilo è stato contestato dall’Azienda.
6.3.
Il nuovo quadro normativo, per le ragioni vedute, non presenta dunque, ad un maggior approfondimento, reali e decisivi elementi di “rottura” rispetto al precedente né concretizza una soluzione di continuità rispetto all’assestamento giurisprudenziale, che si era convincentemente realizzato nel vigore dell’ora abrogato d.lgs. n. 163 del 2006.

APPALTI: L’Adunanza plenaria si pronuncia sulla possibilità di impugnare il bando da parte di chi non ha presentato domanda di partecipazione e sulla immediata impugnazione delle clausole del bando di gara che non rivestano portata escludente.
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Processo amministrativo – Appello – Eccezioni - Sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del ricorso di primo grado – Rilevabilità d’ufficio – Possibilità.
  
Processo amministrativo – Rito appalti – Bando di gara – Impugnazione – Operatore che non ha presentato domanda di gara – Esclusione.
  
Processo amministrativo – Rito appalti – Bando di gara – Impugnazione immediata clausole del bando - Solo quelle escludenti.
  
Sussiste il potere del Giudice di appello di rilevare ex officio la esistenza dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del ricorso di primo grado (con particolare riguardo alla condizione rappresentata dalla tempestività del ricorso medesimo), non potendo ritenersi che sul punto si possa formare un giudicato implicito, preclusivo alla deduzione officiosa della questione (1).
  
L’operatore del settore che non ha presentato domanda di partecipazione alla gara non è legittimato a contestare le clausole di un bando di gara che non rivestano nei suoi confronti portata escludente, precludendogli con certezza la possibilità di partecipazione (2).
  
Le clausole del bando di gara che non rivestano portata escludente devono essere impugnate unitamente al provvedimento lesivo e possono essere impugnate unicamente dall’operatore economico che abbia partecipato alla gara o manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura (3).
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   (1) Cons. St., sez. V, 06.09.2017, n. 4215; id., sez. VI, 21.07.2016, n. 3303.
Ha chiarito l’Alto Consesso che anche dopo l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo non può essere precluso al giudice di appello di rilevare ex officio la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del ricorso di primo grado né può ritenersi che, sul punto, si possa formare un giudicato implicito, preclusivo alla deduzione officiosa della questione; in sostanza il giudice amministrativo, in qualsiasi stato e grado, ha il potere e il dovere di verificare se ricorrono le condizioni cui la legge subordina la possibilità che egli emetta una decisione nel merito, né l'eventuale inerzia di una delle parti in causa, nel rilevare una questione rilevabile d'ufficio, lo priva dei relativi poteri-doveri officiosi, atteso che la legge non prevede che la mancata presentazione di parte di un'eccezione processuale degradi la sua rilevabilità d'ufficio in irrilevabilità, che equivarrebbe a privarlo dell'autonomo dovere di verifica dei presupposti processuali e delle condizioni dell'azione.
   (2) La questione era stata rimessa da Cons. St., sez. III, ord., 07.11.2017, n. 5138.
L’Alto Consesso ha ricordato le due pronunce della stessa Adunanza plenaria che erano intervenute sulla questione della immediata impugnabilità del bando di gara. Ci si riferisce all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 29.01.2003, n. 1 e all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 07.04.2011, n. 4 secondo cui:
   a) la regola generale è quella per cui soltanto colui che ha partecipato alla gara è legittimato ad impugnare l'esito della medesima, in quanto soltanto a quest’ultimo è riconoscibile una posizione differenziata; né quanto si afferma sulle regole di gara in via generale potrebbe essere in contrasto con l’assetto fondamentale della giustizia amministrativa;
   b) i bandi di gara e di concorso e le lettere di invito vanno normalmente impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento ed a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell'interessato;
   c) possono essere tuttavia enucleate alcune eccezioni a tale principio generale, individuandosi taluni casi in cui deve essere impugnato immediatamente il bando di gara, nonché particolari fattispecie in cui a tale impugnazione immediata deve ritenersi legittimato anche colui che non ha proposto la domanda di partecipazione.
La sentenza dell’Adunanza plenaria 25.02.2014, n. 9, dopo avere richiamato i propri precedenti, ha rilevato che, in materia di controversie aventi ad oggetto gare di appalto, il tema della legittimazione al ricorso (o titolo) è declinato nel senso che tale legittimazione "deve essere correlata ad una situazione differenziata e dunque meritevole di tutela, in modo certo, per effetto della partecipazione alla stessa procedura oggetto di contestazione" e che "chi volontariamente e liberamente si è astenuto dal partecipare ad una selezione non è dunque legittimato a chiederne l'annullamento ancorché vanti un interesse di fatto a che la competizione -per lui res inter alios acta- venga nuovamente bandita".
E’ stato poi ivi precisato che a tale regola generale può derogarsi, per esigenze di ampliamento della tutela della concorrenza, solamente in tre tassative ipotesi e, cioè, quando:
   a) si contesti in radice l'indizione della gara;
   b) all'inverso, si contesti che una gara sia mancata, avendo l'amministrazione disposto l'affidamento in via diretta del contratto;
   c) si impugnino direttamente le clausole del bando assumendo che le stesse siano immediatamente escludenti.
La giurisprudenza ha quindi a più riprese puntualizzato che vanno fatte rientrare nel genus delle “clausole immediatamente escludenti” le fattispecie di:
   a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale (Cons. St., sez. IV, 07.11.2012, n. 5671);
   b) regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile (Cons. St., A.P., n. 3 del 2001);
   c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta (Cons. St., sez. V, 24.02.2003, n. 980);
   d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente (Cons. St., sez. V, 21.11.2011, n. 6135; id., sez. III, 23.01.2015, n. 293);
   e) clausole impositive di obblighi contra ius (es. cauzione definitiva pari all'intero importo dell'appalto: Cons. St., sez. II, 19.02.2003, n. 2222);
   f) bandi contenenti gravi carenze nell'indicazione di dati essenziali per la formulazione dell'offerta (come ad esempio quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli retributivi e anzianità del personale destinato ad essere assorbiti dall'aggiudicatario), ovvero che presentino formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di "0" pt.); g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza "non soggetti a ribasso" (Cons. St., sez. III, 03.10.2011, n. 5421).
Le rimanenti clausole, in quanto non immediatamente lesive, devono essere impugnate insieme con l'atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva (Cons. St., sez. V, 27.10.2014, n. 5282) e postulano la preventiva partecipazione alla gara.
Passando ai quesiti sottoposti, l’Adunanza plenaria ritiene che non sussistano ragioni per ritenere che il soggetto che non abbia presentato la domanda di partecipazione alla gara sia legittimato ad impugnare clausole del bando che non siano “escludenti”. L’operatore del settore che non ha partecipato alla gara al più potrebbe essere portatore di un interesse di mero fatto alla caducazione dell'intera selezione (ciò, in tesi, al fine di poter presentare la propria offerta in ipotesi di riedizione della nuova gara), ma tale preteso interesse “strumentale” avrebbe consistenza meramente affermata, ed ipotetica: il predetto, infatti, non avrebbe provato e neppure dimostrato quell’“interesse” differenziato che ne avrebbe radicato la legittimazione, essendosi astenuto dal presentare la domanda, pur non trovandosi al cospetto di alcuna clausola “escludente” (nel senso ampliativo fatto proprio dalla giurisprudenza e prima illustrato); ed anzi, tale preteso interesse avrebbe già trovato smentita nella condotta omissiva tenuta dall’operatore del settore, in quanto questi, pur potendo presentare l’offerta si è astenuto dal farlo.
   (3) Quanto al dies a quo a partire dal quale l’offerente debba proporre l’impugnazione avverso le clausole del bando prive di immediata lesività in quanto non “escludenti”, e purtuttavia, in tesi, illegittime.
L’Adunanza ha premesso che l’esigenza di una trattazione unitaria e concentrata nelle controversie in materia di appalti trova conforto nell’art. 120, comma 7, c.p.a. che eccezionalmente, per le sole controversie disciplinate dal c.d. rito appalti, impone il ricorso ai motivi aggiunti c.d. impropri allorquando si debbano impugnare nuovi provvedimenti attinenti alla medesima procedura di gara (mentre sul piano generale l’art. 104, comma 3, circoscrive rigorosamente la proposizione dei motivi aggiunti in appello esclusivamente nei confronti del medesimo atto -o dei medesimi atti- che hanno costituito l'oggetto delle domande proposte in primo grado: si veda sul punto Cons. St., A.P., n. 5 del 17.04.2015, capo 6.1.2.).
Ha aggiunto che né il vecchio Codice dei contratti né il nuovo Codice consentono di rinvenire elementi per pervenire all’affermazione che debba imporsi all’offerente di impugnare immediatamente la clausola del bando che prevede il criterio di aggiudicazione, ove la ritenga errata: versandosi nello stato iniziale ed embrionale della procedura, non vi sarebbe infatti né prova né indizio della circostanza che l’impugnante certamente non sarebbe prescelto quale aggiudicatario; per tal via, si imporrebbe all’offerente di denunciare la clausola del bando sulla scorta della preconizzazione di una futura ed ipotetica lesione, al fine di tutelare un interesse (quello strumentale alla riedizione della gara), certamente subordinato rispetto all’interesse primario (quello a rendersi aggiudicatario), del quale non sarebbe certa la non realizzabilità.
Imporre l’immediata impugnazione di qualsiasi clausola del bando, in questo contesto, rischierebbe di produrre le seguenti conseguenze:
   a) tutte le offerenti che ritengano di potere prospettare critiche avverso prescrizioni del bando pur non rivestenti portata escludente sarebbero incentivate a proporre immediatamente l’impugnazione (nella certezza che non potrebbero proporla successivamente);
   b) al contempo, in vista del perseguimento del loro obiettivo primario (quello dell’aggiudicazione) esse sarebbero tentate di dilatare in ogni modo la tempistica processuale, (in primis omettendo di proporre la domanda cautelare), così consentendo alla stazione appaltante di proseguire nell’espletamento della gara, in quanto, laddove si rendessero aggiudicatarie prima che il ricorso proposto avverso il bando pervenga alla definitiva decisione, esse potrebbero rinunciare al detto ricorso proposto avverso il bando, avendo conseguito l’obiettivo primario dell’aggiudicazione;
   c) soltanto laddove non si rendessero aggiudicatarie, a quel punto, coltiverebbero l’interesse strumentale alla riedizione della procedura di gara incentrato sul ricorso già proposto avverso il bando.
Di converso, le stazioni appaltanti potrebbero ragionevolmente rallentare l’espletamento delle procedure di gara contestate, in attesa della decisione del ricorso proposto avverso il bando.
In ultima analisi, l’effetto pressoché certo dell’abbandono del criterio tradizionale è quello dell’(ulteriore) incremento del contenzioso: quantomeno a legislazione vigente, i possibili vantaggi sembrano del tutto ipotetici.
L’Adunanza plenaria ha quindi concluso nel senso che:
   a) non è possibile affermare che si possa trarre dalla disposizione di cui ai commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120 c.p.a. una tensione espressiva di un principio generale secondo cui tutti i vizi del bando dovrebbero essere immediatamente denunciati, ancorché non strutturantisi in prescrizioni immediatamente lesive in quanto escludenti;
   b) sembra invece che il legislatore abbia voluto perimetrare l’interesse procedimentale (cristallizzazione della platea dei concorrenti, ammissioni ed esclusioni) a di cui favorire l’immediata emersione, attraverso una puntuale e restrittiva indicazione dell’oggetto del giudizio da celebrarsi con il rito superaccelerato;
   c) e tanto ciò è vero che inizialmente, nello schema originario del codice dei contratti pubblici, sottoposto al parere del Consiglio di Stato, si prevedeva un’estensione del detto rito, ma limitata unicamente alla composizione della commissione (come è noto, il testo definitivo ha espunto tale indicazione, recependo i suggerimenti dell’organo consultivo, incentrate sul vincolo imposto dalla legge di delega, che non contemplava tali ipotesi);
   d) come già colto da questo Consiglio di Stato l’intento del legislatore è stato infatti quello di definire prontamente la platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento antecedente all’esame delle offerte (Cons. St., comm. spec., parere n. 885 dell’01.04.2016), creando un «nuovo modello complessivo di contenzioso a duplice sequenza, disgiunto per fasi successive del procedimento di gara, dove la raggiunta certezza preventiva circa la res controversa della prima è immaginata come presupposto di sicurezza della seconda» (Cons. St., sez. V, ord., n. 1059 del 15.03.2017);
   e) e ciò è avvenuto attraverso l’emersione anticipata di un distinto interesse di natura strumentale (sia pure di nuovo conio, come definito in dottrina) che, comunque, rimane proprio e personale del concorrente, e quindi distinto dall’interesse generale alla correttezza e trasparenza delle procedure di gara;
   f) né potrebbe sostenersi che la scelta “limitativa” del legislatore possa essere tacciata di illogicità, essendo sufficiente in proposito porre in luce che l’anticipata emersione di tale interesse procedimentale si giustifica in quanto la maggiore o minore estensione della platea dei concorrenti incide oggettivamente sulla chance di aggiudicazione (il che non avviene in riferimento a censure attingenti clausole non escludenti del bando che perseguono semmai la diversa -e subordinata- ottica della ripetizione della procedura).
In conclusione, ad avviso dell’Alto Consesso anche con riferimento al vigente quadro legislativo trova persistente applicazione l’orientamento secondo il quale le clausole non escludenti del bando vadano impugnate unitamente al provvedimento che rende attuale la lesione (id est: aggiudicazione a terzi), considerato altresì che la postergazione della tutela avverso le clausole non escludenti del bando, al momento successivo ed eventuale della denegata aggiudicazione, secondo quanto già stabilito dalla decisione dell’Adunanza plenaria n. 1 del 2003, non si pone certamente in contrasto con il principio di concorrenza di matrice europea, perché non lo oblitera, ma lo adatta alla realtà dell’incedere del procedimento nella sua connessione con i tempi del processo (
Consiglio di Stato, A.P., sentenza 26.04.2018 n. 4 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Revoca per ragioni di pubblica sicurezza di autorizzazioni.
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Autorizzazione amministrativa - Revoca – Per ragioni di pubblica sicurezza – Competenza – E’ del dirigente.
  
Autorizzazione amministrativa - Revoca – Per ragioni di pubblica sicurezza – Discrezionalità – Limiti.
  
Se è vero che il rilascio delle autorizzazioni espressione dell’esercizio delle funzioni di “polizia amministrativa” rientra, ai sensi dell’art. 19, d.P.R. 24.07.1977, n. 616 nella sfera di attribuzioni della Dirigenza, il ritiro delle stesse (sotto forma di annullamento o revoca) ovvero la sospensione della relativa efficacia - conseguenti alle vincolanti valutazioni espresse dalla Prefettura per ragioni di “pubblica sicurezza”- non può che essere di pertinenza della medesima Dirigenza, in base al noto principio del cd. contrarius actus (1).
  
Il potere che il comma 4 dell’art. 19, d.P.R. 24.07.1977, n. 616 attribuisce al Prefetto di richiedere, con efficacia vincolante, all’Amministrazione comunale l’annullamento, la revoca, la sospensione dell’efficacia di provvedimenti abilitativi relativi all’esercizio di attività che possano pregiudicare, ovvero anche soltanto esporre a pericolo, l’ordine pubblico o la sicurezza, è ampiamente discrezionale, funzionale a garantire, in un corretto bilanciamento degli interessi in gioco, una tutela avanzata dei preminenti valori da ultimo indicati, il cui esercizio, tuttavia, non sfugge al vaglio del giudice amministrativo sotto il profilo della logicità, ragionevolezza, congruità e proporzionalità (2).
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   (1) Cons. St., sez. V, 23.10.2014, n. 5251; Tar Catanzaro, sez. I, 20.12.2017, n. 2092.
Ha ricordato il Tar che il comma 4 dell’art. 19, d.P.R. 24.07.1977, n. 616 che taluni dei provvedimenti abilitativi elencati al precedente comma 1 -tra cui quello oggetto del ritiro oggetto del ricorso- “sono adottati previa comunicazione al prefetto e devono essere sospesi, annullati o revocati per motivata richiesta dello stesso”.
   (2) Ha chiarito il Tar che la Prefettura è gravata da uno stringente onere motivazionale, pacificamente assolvibile anche mediante il mero richiamo per ralationem alle relazioni informative delle forze dell’ordine, allorquando le risultanze della stessa appaiano autoevidenti.
La richiesta in questione deve, infatti, essere supportata dall’esistenza di elementi di fatto precisi, circostanziati ed attuali, dai quali poter inferire, secondo il consueto canone del “più probabile che non” -elaborato nell’ambito della sia pur differente misura di polizia di cui agli artt. 84 e ss., d.lgs. n. 159 del 2011- che l’esercizio dell’attività oggetto dell’autorizzazione di cui si chiede il ritiro ovvero la sospensione possa pregiudicare ovvero esporre a pericolo l’ordine pubblico o la sicurezza.
Sul punto la giurisprudenza amministrativa, richiamando anche l’analogo potere attribuito al Questore dall’art. 100 del Testo unico di pubblica sicurezza (r.d. n. 773 del 1931), ha più volte statuito che il Prefetto può validamente esercitare il potere di cui all’art. 19, comma 4, d.P.R. 24.07.1977, n. 616 cit. non soltanto ove l’attività autorizzata sia stata teatro di “tumulti o gravi disordini” ovvero costituisca “abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose” ma anche tutte le volte in cui la stessa, sulla base di un quadro indiziario qualificato, circostanziato ed attuale, possa ragionevolmente e logicamente costituire un pericolo per l'ordine pubblico ovvero per la sicurezza dei cittadini (
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 21.03.2018 n. 686 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Decadenza dell’impiego instaurato producendo fasi certificati e giurisdizione giudice amministrativo.
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Giurisdizione – Pubblico impiego privatizzato – Decadenza ex art. 127, comma 1, lett. d), n. 3 del 1957 – Per produzione falsa certificazione ai fini dell’assunzione – Impugnazione - Giurisdizione giudice amministrativo
Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto la decadenza dal servizio disposta dal Ministero delle politiche agricole nei confronti di un proprio dirigente ai sensi dell’art. 127, comma 1, lett. d), t.u. 10.01.1957, n. 3, con la contestuale risoluzione del rapporto individuale di lavoro di assunzione a tempo indeterminato, essendo stati accertato che il concorso era stato superato affermando il possesso di un titolo di studio in realtà non posseduto (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che la decadenza dall’impiego comminata dal Ministero ai sensi dell’art. 127, comma primo, lett. d), del d.P.R. n. 3 del 1957, “quando sia accertato che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile”, è tipica ed eccezionale espressione di una potestà pubblicistica, riconosciuta dalla legge alla pubblica amministrazione a fronte di condotte fraudolente o decettive aventi ad oggetto la documentazione, in apparenza attestante l’esistenza di tutti requisiti di partecipazione al concorso, grazie alle quali il pubblico dipendente ha conseguito il proprio impiego.
Ha chiarito la Corte costituzionale (27.07.2009, n. 327) che si tratta di una ipotesi che attiene ai “procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro e di avviamento al lavoro”, di cui all’art. 2, comma 1, lett. c), n. 4), l. n. 421 del 1992 e, in quanto tali, espressamente escluse dal processo di privatizzazione del pubblico impiego avviato da tale legge, avendo il citato articolo escluso dalla giurisdizione del giudice ordinario “le materie di cui ai numeri da 1) a 7) della presente lettera”.
Tali procedimenti sono non a caso richiamati dal successivo art. 69, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001 tra le materie di cui all’art. 2, comma 1, lett. c), l. n. 421 del 1992, come pure la Corte costituzionale ha ricordato nella citata sentenza, e cioè tra quelle che non costituiscono oggetto della contrattazione collettiva perché afferenti, appunto, alle procedure concorsuali per l’assunzione e alla verifica dei requisiti per l’accesso ai pubblici impieghi, la cui cognizione spetta al giudice amministrativo ai sensi dell’art. 63, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001.
Il potere di decadenza in esame è sul piano generale giustificato, per un verso, dal divieto di instaurare o proseguire rapporti di pubblico impiego con soggetti che abbiano agito in violazione del principio di lealtà, che costituisce uno dei cardini dello stesso rapporto (art. 98 Cost.), e per altro dall’esigenza di tutelare l’eguaglianza dei concorrenti, pregiudicati dalla sleale competizione con chi abbia partecipato alla selezione con documenti falsi e/o viziati (art. 97 Cost.).
Se tale è la ratio di questo potere, quale delineata dalla sentenza n. 327 del 2009 della Corte costituzionale, non vi è dubbio che a fronte del suo esercizio, inteso a sanzionare ex post, una volta che sia emersa, la slealtà e la scorrettezza delle gravi condotte che hanno falsato la selezione, vi sia una situazione di interesse legittimo del pubblico dipendente al corretto esercizio di un simile potere connesso, in modo più o meno diretto, al procedimento di selezione, potere che radica la giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 63, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001 e, comunque, ai sensi dell’art. 7, comma 1, c.p.a. (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 20.04.2018 n. 2399 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
3. L’appello è fondato e va accolto.
3.1.
La decadenza dall’impiego comminata dal Ministero nei confronti dell’odierna appellante ai sensi dell’art. 127, comma primo, lett. d), del d.P.R. n. 3 del 1957, «quando sia accertato che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile», è tipica ed eccezionale espressione di una potestà pubblicistica, riconosciuta dalla legge alla pubblica amministrazione a fronte di condotte fraudolente o decettive aventi ad oggetto la documentazione, in apparenza attestante l’esistenza di tutti requisiti di partecipazione al concorso, grazie alle quali il pubblico dipendente ha conseguito il proprio impiego.
3.2.
Si tratta di una ipotesi che, come ha a chiare lettere riconosciuto la Corte costituzionale nella sentenza n. 327 del 27.07.2009, attiene ai «procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro e di avviamento al lavoro», di cui all’art. 2, comma 1, lett. c), n. 4), della l. n. 421 del 1992 e, in quanto tali, espressamente escluse dal processo di privatizzazione del pubblico impiego avviato da tale legge, avendo il citato articolo escluso dalla giurisdizione del giudice ordinario «le materie di cui ai numeri da 1) a 7) della presente lettera».
3.3. Tali procedimenti sono non a caso richiamati dal successivo art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 tra le materie di cui all’art. 2, comma 1, lett. c), della l. n. 421 del 1992, come pure la Corte costituzionale ha ricordato nella citata sentenza, e cioè tra quelle che non costituiscono oggetto della contrattazione collettiva perché afferenti, appunto, alle procedure concorsuali per l’assunzione e alla verifica dei requisiti per l’accesso ai pubblici impieghi, la cui cognizione spetta al giudice amministrativo ai sensi dell’art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001.
3.4.
Il potere di decadenza in esame è sul piano generale giustificato, per un verso, dal divieto di instaurare o proseguire rapporti di pubblico impiego con soggetti che abbiano agito in violazione del principio di lealtà, che costituisce uno dei cardini dello stesso rapporto (art. 98 Cost.), e per altro dall’esigenza di tutelare l’eguaglianza dei concorrenti, pregiudicati dalla sleale competizione con chi abbia partecipato alla selezione con documenti falsi e/o viziati (art. 97 Cost.).
3.5.
Se tale è la ratio di questo potere, quale delineata dalla sentenza n. 327 del 2009 della Corte costituzionale (e non solo, come erroneamente assume il TAR, con riferimento alla fattispecie dell’art. 128, comma secondo, del d.P.R. n. 3 del 1957, che disciplina gli effetti della decadenza, ma anche e anzitutto all’inscindibile presupposto dell’art. 127, comma primo, lett. d), dello stesso d.P.R., che regola la decadenza stessa), non vi è dubbio che a fronte del suo esercizio, inteso a sanzionare ex post, una volta che sia emersa, la slealtà e la scorrettezza delle gravi condotte che hanno falsato la selezione, vi sia una situazione di interesse legittimo del pubblico dipendente al corretto esercizio di un simile potere connesso, in modo più o meno diretto, al procedimento di selezione, potere che radica la giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 e, comunque, ai sensi dell’art. 7, comma 1, c.p.a.
3.6.
Né rileva, in senso ostativo all’affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo, il mero dato cronologico e, cioè, il momento in cui tale provvedimento di decadenza è intervenuto, potendo esso sopraggiungere, come spesso accade, anche quando il rapporto di impiego sia da tempo avviato, perché, a differenza dell’annullamento in autotutela che, ordinariamente, soggiace a inevitabili limiti temporali (art. 21-nonies, comma 1,della l. n. 241 del 1990, siccome modificato dalla l. n. 124 del 2015), la decadenza ex nunc non implica quella rivalutazione dell’interesse pubblico, tipica dell’autotutela, sulla quale di necessità influisce il decorso di un tempo non irragionevole (v., sul punto, Cons. St., sez. III, 10.07.2013, n. 3707), ma costituisce una sanzione discendente dall’accertamento, anche a distanza di tanti anni, di condotte gravemente scorrette o addirittura fraudolente, che hanno consentito o favorito l’attestazione documentale di requisiti inesistenti e, con ciò, l’instaurazione, ab origine insanabilmente viziata, del rapporto di pubblico impiego.
3.7.
La circostanza che, in tal modo, il provvedimento di decadenza incida inevitabilmente sul rapporto di impiego, risolvendolo, costituisce l’effetto necessitato di tale provvedimento e non già la sua causa, sicché non può affermarsi, come invece ha ritenuto il primo giudice, che qui si controverta di una risoluzione del rapporto di lavoro anche solo, in ipotesi, “mascherata” dalla formale adozione del provvedimento di decadenza.
3.8. Ne segue che
a fronte di tale potere autoritativo, ai sensi dell’art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001 e, comunque, ai sensi dell’art. 7, comma 1, c.p.a., debba affermarsi la giurisdizione del giudice amministrativo, con la conseguente rimessione della causa, prevista dall’art. 105, comma 1, c.p.a., al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma.

APPALTI: Il tardivo pagamento del contributo all’Anac non comporta la revoca dell’aggiudicazione.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Contributo Anac – Revoca aggiudicazione – Illegittimità.
E’ illegittima la revoca dell’aggiudicazione disposta a causa del tardivo pagamento –in data successiva a quella di scadenza delle offerte- del contributo ex art. 1, comma 67, l. 23.12.2005, n. 266 a favore dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che la Corte di giustizia UE (02.06.2016, C 27/15) ha affermato che i principi di tutela del legittimo affidamento, certezza del diritto e proporzionalità ostano ad una regola dell’ordinamento di uno Stato membro che consenta di escludere da una procedura di affidamento di un contratto pubblico l’operatore economico non avvedutosi di una simile conseguenza, perché non espressamente indicata dagli atti di gara. Il giudice europeo ha in particolare ritenuto contrario ai principi dallo stesso posti a base della propria pronuncia l’operazione attraverso cui la causa di esclusione dalla gara è ricavata sulla base di un’interpretazione estensiva di talune previsioni dell’ordinamento positivo dello stesso Stato membro e, poi, di una etero-integrazione sotto questo profilo degli atti di gara.
Ad avviso della Sezione il caso esaminato dalla Corte di giustizia appare dunque in termini con quello oggetto del presente giudizio, dal momento che, in primo luogo, esso verte appunto sul medesimo contributo di cui all’art. 1, comma 67, l. 23.12.2005, n. 266, e in secondo luogo che la lettera di invito con cui la procedura di affidamento è stata indetta non prevedeva in modo espresso l’esclusione per il caso di mancato versamento di tale somma.
Quanto al ricorso al c.d. soccorso istruttorio la Sezione ha ricordato che il giudice europeo (28.02.2018, C 523/16 e C 536/16) ha ritenuto conforme ai principi di parità di trattamento e di trasparenza nella materia dei contratti pubblici un meccanismo di soccorso istruttorio (allora previsto dall’art. 38, comma 2 bis, del previgente Codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 12.04.2006, n. 163) inteso a salvaguardare la partecipazione alla procedura di affidamento in caso di irregolarità essenziali, purché ciò non avvenga in caso di carenze documentali sanzionate in modo espresso con l’esclusione o sia così consentito all’operatore economico di formulare nella sostanza una nuova offerta.
Ebbene, simili evenienze non sono configurabili nel caso di mancato versamento del contributo ai favore dell’Anac, laddove non richiesto a pena di esclusione dalla normativa di gara, dal momento che tale adempimento non inerisce “all’offerta economica e all’offerta tecnica”, per il quale la regolarizzazione della domanda di partecipazione alla gara ai sensi dell’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 è preclusa (nella versione risultante dalle modifiche introdotte con il correttivo al Codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. 19.04.2017, n. 56, con funzione di chiarificazione rispetto alla versione originaria) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.04.2018 n. 2386 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
5. Deve innanzitutto sottolinearsi che
proprio con riguardo al caso dell’omesso versamento del contributo per il funzionamento dell’Autorità nazionale anticorruzione odierna appellante la Corte di giustizia ha affermato che i principi di tutela del legittimo affidamento, certezza del diritto e proporzionalità ostano ad una regola dell’ordinamento di uno Stato membro che consenta di escludere da una procedura di affidamento di un contratto pubblico l’operatore economico non avvedutosi di una simile conseguenza, perché non espressamente indicata dagli atti di gara (sentenza della Corte di giustizia UE, 02.06.2016, C 27/15, sopra citata, e posta dall’originaria ricorrente a fondamento delle proprie censure).
Il giudice europeo ha in particolare ritenuto contrario ai principi dallo stesso posti a base della propria pronuncia l’operazione attraverso cui la causa di esclusione dalla gara è ricavata sulla base di un’interpretazione estensiva di talune previsioni dell’ordinamento positivo dello stesso Stato membro e, poi, di una etero-integrazione sotto questo profilo degli atti di gara.
6. Il caso esaminato dalla Corte di giustizia appare dunque in termini con quello oggetto del presente giudizio, dal momento che, in primo luogo, esso verte appunto sul medesimo contributo di cui all’art. 1, comma 67, l. n. 266 del 2005, e in secondo luogo che la lettera di invito con cui la procedura di affidamento è stata indetta non prevedeva in modo espresso l’esclusione per il caso di mancato versamento di tale somma.
Inoltre, come evidenziato dal Tribunale amministrativo, conduce a rafforzare questo convincimento la circostanza, non contestata nel presente appello, che l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare non aveva richiesto alla società originaria ricorrente di provvedere al pagamento del contributo allorché la stessa stazione appaltante si era avveduta del mancato versamento ad iniziativa di quest’ultima.
7. Non giova poi alle appellanti richiamare i limiti all’esercizio del potere di soccorso istruttorio previsti dall’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016.
Infatti, sul punto va ancora una volta richiamata in senso contrario la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Con una recente pronuncia
il giudice europeo ha infatti ritenuto conforme ai principi di parità di trattamento e di trasparenza nella materia dei contratti pubblici un meccanismo di soccorso istruttorio (allora previsto dall’art. 38, comma 2-bis, del previgente codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163) inteso a salvaguardare la partecipazione alla procedura di affidamento in caso di irregolarità essenziali, purché ciò non avvenga in caso di carenze documentali sanzionate in modo espresso con l’esclusione o sia così consentito all’operatore economico di formulare nella sostanza una nuova offerta (cfr. Corte di giustizia UE, sentenza 28.02.2018, C 523/16 e C 536/16 - MA.T.I. SUD s.p.a.).
Ebbene, simili evenienze non sono configurabili nel caso di mancato versamento del contributo ai favore dell’ANAC, laddove non richiesto a pena di esclusione dalla normativa di gara, dal momento che tale adempimento non inerisce «all’offerta economica e all’offerta tecnica», per il quale la regolarizzazione della domanda di partecipazione alla gara ai sensi dell’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 è preclusa (nella versione risultante dalle modifiche introdotte con il correttivo al codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, con funzione di chiarificazione rispetto alla versione originaria).
9. Per le ragioni finora esposte l’appello deve pertanto respinto, ma la peculiarità delle questioni controverse giustifica la compensazione integrale delle spese del grado di giudizio.

EDILIZIA PRIVATA: Secondo l’orientamento “granitico” della giurisprudenza amministrativa “Va chiarito che in materia di contributi derivanti dal rilascio di concessione edilizia sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e tale giurisdizione sussiste anche quando attiene alla richiesta di pagamento del contributo per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni.
Sebbene, infatti, l’art. 16 della l. 28.01.1977 n. 10 sia stato abrogato dall’art. 136, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell’art. 3, d.l. 20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l. 01.08.2002, n. 185, le controversie in materia di oneri di urbanizzazione devono ritenersi tuttora attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica e di edilizia… non avendo tra l’altro detti oneri natura tributaria, bensì natura di corrispettivo di diritto pubblico avente la funzione di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione.
Invero, atteso che le controversie che hanno ad oggetto la legittimità o meno del contributo relativo a concessione edilizia vertono sull’esistenza o sulla misura di una obbligazione direttamente stabilita dalla legge, l’atto con cui l’Amministrazione comunale provvede in merito alla determinazione del contributo concessorio non ha natura autoritativa e la posizione del soggetto nei cui confronti è richiesto il pagamento, è di diritto soggettivo e non di interesse legittimo.
Conseguentemente la giurisdizione del giudice amministrativo in materia ha per oggetto tutte le controversie inerenti all’an e al quantum della pretesa contributiva del comune, (mentre la competenza dell’a.g.o. è limitata alle sole questioni inerenti il recupero in executivis del credito contributivo)”.
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Il Comune ricorrente adiva l’intestata Sezione chiedendo che venisse ingiunta sia al resistente Co.An., sia al fiudeiussore di quest’ultimo UNIPOLSAI Assicurazioni s.p.a., il pagamento della somma di euro 41.405,09, oltre interessi, a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di costruzione nonché sanzioni, dovuti a seguito del rilascio della concessione edilizia n. 39/2012 prot. 3840, non corrisposti alle scadenze formalizzate.
Con decreto ingiuntivo n. 3898/2016 del 20.07.2016 veniva accolta la domanda proposta nei confronti di entrambi (id est, resistente e fideiussore).
Quindi, con ricorso in opposizione, parte resistente impugnava il citato decreto ingiuntivo deducendo, ex adverso, il difetto di giurisdizione del giudice adito sia perché in via generale la materia in discussione non rientrava nell’ambito della giurisdizione esclusiva ex art. 118 c.p.a. in tema di urbanistica ed edilizia; sia perché in ogni caso la cognizione della domanda rivolta al fideiussore apparteneva alla cognizione del giudice ordinario.
Con successiva memoria il Comune ricorrente evidenziava che il fideiussore aveva medio tempore provveduto ad effettuare il pagamento di quanto dovuto con conseguente cessazione della materia del contendere.
...
Il ricorso deve essere in parte rigettato e in parte dichiararsi estinto per intervenuta cessazione della materia del contendere.
Quanto al debitore principale deve rilevarsi quanto segue:
   - in primo luogo, sul piano processuale, che secondo l’orientamento “granitico” della giurisprudenza amministrativa (ex multis TAR Milano sentenza n. 389/2014) “Va chiarito che in materia di contributi derivanti dal rilascio di concessione edilizia sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e tale giurisdizione sussiste anche quando attiene alla richiesta di pagamento del contributo per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni; sebbene, infatti, l’art. 16 della l. 28.01.1977 n. 10 sia stato abrogato dall’art. 136, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell’art. 3, d.l. 20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l. 01.08.2002, n. 185, le controversie in materia di oneri di urbanizzazione devono ritenersi tuttora attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica e di edilizia… non avendo tra l’altro detti oneri natura tributaria, bensì natura di corrispettivo di diritto pubblico avente la funzione di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione; invero, atteso che le controversie che hanno ad oggetto la legittimità o meno del contributo relativo a concessione edilizia vertono sull’esistenza o sulla misura di una obbligazione direttamente stabilita dalla legge, l’atto con cui l’Amministrazione comunale provvede in merito alla determinazione del contributo concessorio non ha natura autoritativa e la posizione del soggetto nei cui confronti è richiesto il pagamento, è di diritto soggettivo e non di interesse legittimo; conseguentemente la giurisdizione del giudice amministrativo in materia ha per oggetto tutte le controversie inerenti all’an e al quantum della pretesa contributiva del comune, (mentre la competenza dell’a.g.o. è limitata alle sole questioni inerenti il recupero in executivis del credito contributivo)” (in terminis, Cass. SS.UU. 12114/2009 e 22904/2005);
   - in secondo luogo, quanto al merito della pretesa, che -stante l’onere della prova della pretesa creditoria in capo all’opposto, quale “attore sostanziale”- dagli atti del giudizio è emersa la sussistenza del titolo giuridico da cui trae origine quest’ultima, ossia il rilascio della concessione edilizia n. 39/2012 (elemento peraltro non in contestazione), con conseguente debenza dei relativi oneri concessori in discussione.
Ne consegue, quindi, che l’opposizione al decreto ingiuntivo proposta deve essere in parte qua rigettata.
Per quanto concerne, viceversa, la posizione del fideiussore, deve rilevarsi che la materia del contendere è effettivamente cessata a seguito dell’intervenuto pagamento della pretesa da parte di quest’ultimo, il che -stante anche la mancata costituzione in giudizio dello stesso– prevale su qualsiasi altra questione giurisdizionale pregiudiziale.
In definitiva, in ragione di quanto esposto, il decreto ingiuntivo deve essere confermato rispetto al debitore principale mentre per il resto la materia del contendere deve dichiararsi cessata (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 19.04.2018 n. 794 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rientra nella giurisdizione del g.o. e non in quella esclusiva del g.a. in materia di urbanistica ed edilizia la controversia avente ad oggetto l'escussione, da parte del Comune, di una polizza fideiussoria concessa a garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di penali, pattuite in una convenzione di lottizzazione, attesa l'autonomia tra i rapporti in questione, nonché la circostanza che, nella specie, la p.a. agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri.
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Va chiarito che in materia di contributi derivanti dal rilascio di concessione edilizia sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e tale giurisdizione sussiste anche quando attiene alla richiesta di pagamento del contributo per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni.
Sebbene, infatti, l’art. 16 della l. 28.01.1977 n. 10 sia stato abrogato dall’art. 136, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell’art. 3, d.l. 20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l. 01.08.2002, n. 185, le controversie in materia di oneri di urbanizzazione devono ritenersi tuttora attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica e di edilizia… non avendo tra l’altro detti oneri natura tributaria, bensì natura di corrispettivo di diritto pubblico avente la funzione di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione.
Invero, atteso che le controversie che hanno ad oggetto la legittimità o meno del contributo relativo a concessione edilizia vertono sull’esistenza o sulla misura di una obbligazione direttamente stabilita dalla legge, l’atto con cui l’Amministrazione comunale provvede in merito alla determinazione del contributo concessorio non ha natura autoritativa e la posizione del soggetto nei cui confronti è richiesto il pagamento, è di diritto soggettivo e non di interesse legittimo.
Conseguentemente la giurisdizione del giudice amministrativo in materia ha per oggetto tutte le controversie inerenti all’an e al quantum della pretesa contributiva del comune, (mentre la competenza dell’a.g.o. è limitata alle sole questioni inerenti il recupero in executivis del credito contributivo).
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Quanto al merito e all’an degli oneri in discussione, ivi compresi i costi di costruzione, questi sono dovuti dal momento del rilascio della concessione edilizia, come statuito da Consiglio di Stato, secondo cui “Fatto costitutivo di detta obbligazione è il rilascio del permesso di costruire ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione dell'entità del contributo”.
Tant’è che il citato art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 prevede che la quota di contributo è corrisposta in corso d'opera mentre i sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione costituiscono solo termine finale dell’adempimento.
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L'ingiunzione della sanzione per ritardato versamento contributo di costruzione (in forma rateizzata) è illegittima laddove risulta decorso il termine (prescrizionale) di 5 anni previsto dall’art. 28 della legge n. 689/1981.

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Il Comune ricorrente adiva l’intestata Sezione chiedendo che venisse ingiunta alla società resistente il pagamento della somma di euro 216.419,20, oltre interessi, a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di costruzione nonché sanzioni, entrambi garantiti medianti polizza fideiussoria rilasciata da UNIONCREDIT Finanziaria s.p.a., dovuti a seguito del rilascio della concessione edilizia n. 19/1998 prot. 4098, non corrisposti alle scadenze formalizzate.
Con decreto ingiuntivo n. 3899/2016 del 20.07.2016 veniva accolta la domanda proposta.
Quindi, con ricorso in opposizione, la società resistente impugnava il citato decreto ingiuntivo deducendo, ex adverso, quanto segue:
   - in via preliminare, che andava chiamato in causa, ex art. 28, comma terzo c.p.a., anche il terzo fideiussore;
   - il difetto di giurisdizione del giudice adito non rientrando la materia in discussione nell’ambito della giurisdizione esclusiva ex art. 118 c.p.a. in tema di urbanistica ed edilizia;
   - nel merito, la non debenza di quanto ingiunto a titolo di costi di costruzione (per complessivi euro 49.846,10) atteso che questi erano viceversa dovuti, ex art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 (secondo cui “La quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio, è corrisposta in corso d'opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione”) solo dal momento del completamento dell’opera essendo componente economica compensativa della compartecipazione comunale all’incremento di valore della proprietà immobiliare;
   - nel merito, la non debenza di quanto ingiunto a titolo di sanzioni ex L.R. n. 71/1978 (per complessivi euro 54.102,55) per intervenuta prescrizione della relativa pretesa creditoria attesa, da un lato, la decorrenza del termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 28 della legge n. 689/1981 -decorrente dalla scadenza di ciascun singolo rateo (nello specifico, le sanzioni afferenti: quanto agli oneri di urbanizzazione, la seconda rata con data di scadenza 20.12.2008, la terza rata con data di scadenza 20.08.2009 e, infine, la quarta rata con scadenza 20.04.2010; quanto al costo di costruzione, la prima rata con scadenza 30.10.2008)– e, dall’altro, che il primo atto interruttivo risaliva alla data del 04.05.2015.
Con successiva memoria il Comune ricorrente evidenziava, per un verso, che il pagamento dei costi di costruzione non poteva essere postergato oltre la scadenza della efficacia della concessione edilizia; per altro verso, che il termine di prescrizione delle sanzioni era decennale e non già quinquennale e che ogni caso alcune rate non si erano ancora prescritte alla citata data del 04.05.2015 pur assumendo quest’ultimo come termine prescrizionale.
...
Il ricorso deve parzialmente accolto nei limiti che seguono.
A tal fine, seguendo l’ordine delle deduzioni offerte dalla parte opponente, deve rilevarsi quanto segue:
   - che non può essere accolta la domanda di chiamata in causa del terzo fideiussore tenuto conto che la giurisdizione riguardo ai rapporti tra quest’ultimo e il creditore appartiene, essendo distinto da quello garantito, al giudice ordinario avendo natura esclusivamente privata (cfr. ex multis, Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 15666/2016, secondo cui “rientra nella giurisdizione del g.o. e non in quella esclusiva del g.a. in materia di urbanistica ed edilizia la controversia avente ad oggetto l'escussione, da parte del Comune, di una polizza fideiussoria concessa a garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di penali, pattuite in una convenzione di lottizzazione, attesa l'autonomia tra i rapporti in questione, nonché la circostanza che, nella specie, la p.a. agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri”);
   - che infondata risulta altresì l’eccezione di difetto di giurisdizione quanto al rapporto principale tra debitore e creditore, tenuto conto del “granitico” orientamento giurisprudenziale secondo cui (ex multis TAR Lombardia, Milano, sentenza n. 389/2014) “Va chiarito che in materia di contributi derivanti dal rilascio di concessione edilizia sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e tale giurisdizione sussiste anche quando attiene alla richiesta di pagamento del contributo per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni; sebbene, infatti, l’art. 16 della l. 28.01.1977 n. 10 sia stato abrogato dall’art. 136, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell’art. 3, d.l. 20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l. 01.08.2002, n. 185, le controversie in materia di oneri di urbanizzazione devono ritenersi tuttora attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica e di edilizia… non avendo tra l’altro detti oneri natura tributaria, bensì natura di corrispettivo di diritto pubblico avente la funzione di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione; invero, atteso che le controversie che hanno ad oggetto la legittimità o meno del contributo relativo a concessione edilizia vertono sull’esistenza o sulla misura di una obbligazione direttamente stabilita dalla legge, l’atto con cui l’Amministrazione comunale provvede in merito alla determinazione del contributo concessorio non ha natura autoritativa e la posizione del soggetto nei cui confronti è richiesto il pagamento, è di diritto soggettivo e non di interesse legittimo; conseguentemente la giurisdizione del giudice amministrativo in materia ha per oggetto tutte le controversie inerenti all’an e al quantum della pretesa contributiva del comune, (mentre la competenza dell’a.g.o. è limitata alle sole questioni inerenti il recupero in executivis del credito contributivo)” (in terminis, Cass. SS.UU. 12114/2009 e 22904/2005);
   - quanto al merito e all’an degli oneri in discussione, ivi compresi i costi di costruzione, che questi sono dovuti dal momento del rilascio della concessione edilizia, come statuito da Consiglio di Stato, sez. IV, 13/06/2017, (ud. 23/02/2017, dep. 13/06/2017), n. 2881, secondo cui “Fatto costitutivo di detta obbligazione è il rilascio del permesso di costruire ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione dell'entità del contributo”. Tant’è che il citato art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 prevede che la quota di contributo è corrisposta in corso d'opera mentre i sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione costituiscono solo termine finale dell’adempimento;
   - che fondato in parte risulta invece l’ultimo profilo di gravame sollevato, avente ad oggetto la prescrizione di parte del credito ingiunto, tenuto conto che risulta decorso il termine di 5 anni previsto dall’art. 28 della legge n. 689/1981 con riferimento alle seguenti voci sanzionatorie: euro 10.649,58 a titolo di sanzioni per prima rata oneri di urbanizzazione; euro 10.649,58 a titolo di sanzioni per seconda rata oneri di urbanizzazione; e infine euro 5.538,46 a titolo di sanzioni prima rata per costi di costruzione (totale euro 26.837,62).
Ne consegue, in definitiva, che il decreto ingiuntivo opposto deve essere riformato unicamente sotto il profilo del quantum debeatur essendo dovuti unicamente (euro 216.419,20 – euro 26.837,62 =) euro 189.581,58, oltre interessi (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 19.04.2018 n. 793 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In linea di principio, la giurisprudenza ritiene che l’edificazione in una zona totalmente urbanizzata non richieda obbligatoriamente uno strumento urbanistico di attuazione.
Il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, peraltro, rimette all’amministrazione la valutazione circa la congruità del progetto di costruzione con il grado di urbanizzazione dell’area, alla stregua della normativa sugli standard urbanistici.
In sostanza, sebbene sarebbe possibile derogare alle prescrizioni urbanistiche che subordinano l’edificazione all’esistenza di uno strumento attuativo, nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, trattandosi di lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata, affinché sia rilasciato legittimamente il permesso di costruire sul lotto intercluso è necessario che l’amministrazione valuti l’adeguatezza degli standard urbanistici con riferimento all’ambito territoriale entro il quale dovrebbe essere realizzata la costruzione progettata.
È necessario, quindi, un giudizio tecnico-discrezionale dell’amministrazione sul carico urbanistico derivante dalla costruzione richiesta in rapporto agli standard urbanistici prescritti, provvedendo ad assentire oppure a negare il permesso di costruire coerentemente con tale valutazione.

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In linea di principio, la giurisprudenza ritiene che l’edificazione in una zona totalmente urbanizzata non richieda obbligatoriamente uno strumento urbanistico di attuazione.
Tra le numerose pronunce si richiamano, a titolo esemplificativo, le seguenti: Consiglio di Stato numero 7735 del 2009; Consiglio di Stato numero 5756 del 2000; Consiglio di Stato numero 2449 del 2003; da ultimo Consiglio di Stato, Sez. IV, 08.02.2018, n. 825.
Il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, peraltro, rimette all’amministrazione la valutazione circa la congruità del progetto di costruzione con il grado di urbanizzazione dell’area, alla stregua della normativa sugli standard urbanistici.
In sostanza, sebbene sarebbe possibile derogare alle prescrizioni urbanistiche che subordinano l’edificazione all’esistenza di uno strumento attuativo, nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, trattandosi di lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata, affinché sia rilasciato legittimamente il permesso di costruire sul lotto intercluso è necessario che l’amministrazione valuti l’adeguatezza degli standard urbanistici con riferimento all’ambito territoriale entro il quale dovrebbe essere realizzata la costruzione progettata.
È necessario, quindi, un giudizio tecnico-discrezionale dell’amministrazione sul carico urbanistico derivante dalla costruzione richiesta in rapporto agli standard urbanistici prescritti, provvedendo ad assentire oppure a negare il permesso di costruire coerentemente con tale valutazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 18.04.2018 n. 4319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Risarcimento danni per illegittima interruzione dal servizio.
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Risarcimento danni - Pubblico impiego privatizzato - Illegittima interruzione del servizio – Quantificazione - Criterio.
Va riconosciuto al lavoratore il diritto al risarcimento del danno patrimoniale subito per effetto della mancata percezione della retribuzione per l’intero periodo di interruzione del servizio, commisurato all'effettivo importo mensile della retribuzione, ad eccezione di quei compensi solo eventuali e dei quali non sia certa la percezione, nonché di quelli legati a particolari modalità di svolgimento della prestazione stessa (1).
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   (1) Cass. civ., s.l., 17.07.2015, n. 15066; id. 20.06.2015, n. 11691.
Ha affermato il Tar che solo in questo modo si consegue il risultato di neutralizzare gli effetti del licenziamento illegittimo, mentre, ove fosse ipotizzabile per il lavoratore un trattamento economico minore di quello che avrebbe ottenuto se avesse continuato a svolgere le sue consuete prestazioni, si finirebbe per addossargli le conseguenze economiche negative di un illecito altrui (Cass. civ., s.l., 16.09.2009, n. 19956; id. 24.08.2006, n. 18441) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 18.04.2018 n. 901 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Il ricorso merita accoglimento, nei limiti appresso specificati, rinvenendosi, nel caso di specie, tutti i presupposti fondanti la responsabilità extracontrattuale della P.A. per danno da illegittima attività provvedimentale, secondo il paradigma normativo di cui agli artt. 2043 c.c. e 30 c.p.a.
2.
L'accertata illegittimità del provvedimento gravato integra l'elemento oggettivo dell'illecito aquiliano (al cui paradigma, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale cui questo Tribunale aderisce, si ascrive la responsabilità dell’amministrazione per atto illegittimo) e non sussistono dubbi, nel caso in esame, sulla ricorrenza del nesso eziologico tra condotta illecita e lesione arrecata alla posizione giuridica soggettiva tutelata né, sul versante soggettivo, sulla configurabilità della colpa in capo all’amministrazione agente, tutti elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale della P.A. (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 06.09.2017, n. 4226; Consiglio di Stato, sez. V, 25.05.2017, n. 2446; TAR Umbria, Perugia, sez. I, 17.01.2017, n. 94; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 14.01.2017, n. 53).
3.
Con riguardo al nesso eziologico è pacifico ed emerge ex actis, in particolare, che per effetto del decreto del Prefetto che ha respinto l’approvazione del rinnovo della nomina a guardia giurata particolare, il ricorrente è stato dapprima sospeso dalle proprie mansioni e successivamente licenziato dall’istituto “Co.Vi.no. s.r.l.” presso il quale era impiegato da circa un anno. Indubbia, pertanto, l’incidenza causale, materiale e giuridica, in termini di lesività, dell’illegittima azione dell’amministrazione rispetto all’interesse al bene della vita del ricorrente, il mantenimento, vale a dire, dell’impiego di vigilante notturno.
4. Analogamente
sussiste il danno risarcibile, senz’altro ravvisabile nella mancata percezione di varie annualità di retribuzione (pregiudizio patrimoniale) a seguito del licenziamento determinato dal venir meno di quella condizione soggettiva indefettibile per lo svolgimento delle mansioni di “guardia particolare giurata” costituita, ai sensi dell’art. 138, comma 3, T.U.L.P.S., dal rilascio dell’approvazione prefettizia della relativa nomina.
5.
Quanto al profilo dell’imputabilità soggettiva, l’acclarata illegittimità del provvedimento prefettizio integra il fatto costitutivo di una presunzione semplice ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c. in ordine alla sussistenza della colpa in capo all’amministrazione (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 05.03.2015, n. 1099; Consiglio di Stato, sez. IV, 06.12.2013, n. 5832; Consiglio di Stato, sez. IV, 13.06.2013, n. 3266) da valutarsi congiuntamente ad altri fattori e cioè alla luce dei vizi che hanno inficiato il provvedimento e della gravità delle violazioni imputabili all’ente pubblico, tenuto conto, peraltro, dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all’organo amministrativo (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 10.01.2014, n. 45; Tar Lazio, Roma, sez. I, 26.05.2014, n. 5570).
5.1. A tale fine
assume rilievo la circostanza che l’adozione (e l’esecuzione) dell'atto amministrativo illegittimo che si assume lesivo sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona fede, alle quali l’esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi, cosicché la responsabilità della P.A. può essere affermata solamente quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giurisprudenziale tali da palesare negligenza e imperizia nell’assunzione del provvedimento viziato; al contrario, essa va esclusa laddove sia ravvisabile un errore scusabile per via di un contrasto giurisprudenziale, oppure della complessità della vicenda fattuale, o ancora per l'incertezza o la novità della normativa da applicarsi (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. III, 11.03.2015, n. 1272).
5.2. Venendo al caso di specie appare evidente come lo scrutinio compiuto dalla Prefettura di Crotone in occasione dell’esame dell’istanza del sig. Sp. sia frutto di un’attività istruttoria sbrigativa e affatto superficiale, quindi insufficiente, e risulti inoltre connotato da irragionevole severità valutativa, come evincibile dalla decisione del Consiglio di Stato sopra cit., nella quale è sostanzialmente “ribaltata” la valutazione prefettizia, in chiave ostativa all’accoglimento dell’istanza, degli episodi concreti, di cui all’informativa del Comando dei Carabinieri, posti a fondamento del provvedimento di diniego perché (erroneamente) ritenuti idonei a elidere il “requisito dell’affidabilità di non abusare di autorizzazioni di polizia”.
5.3. La ricostruzione fattuale della vicenda lascia invero trasparire un certo livello di approssimazione nella condotta serbata dalla Prefettura, che ha adottato un provvedimento gravemente pregiudizievole per il destinatario, incidente sull’attività lavorativa del medesimo e, quindi, sulla sua fonte di sostentamento, senza svolgere una attività istruttoria congrua e adeguata al caso, eventualmente disponendo gli approfondimenti e gli accertamenti ritenuti necessari.
5.4. In conclusione,
anche il requisito della colpa della P.A., al pari degli altri elementi costitutivi dell'illecito aquiliano, risulta integrato nel caso di specie.
6. Circa la quantificazione del danno, sono agli atti le risultanze della C.T.U. disposta dal Tribunale civile per la “ricostruzione” degli emolumenti spettanti “nel periodo oggetto di vertenza”, dalle quali emerge che al ricorrente spetterebbe la somma complessiva di € 70.040,47, ottenuta prendendo a riferimento l’arco temporale “ottobre 2005-luglio 2009” e la retribuzione prevista dal CCNL all’epoca applicabile, con esclusione dell’indennità di rischio e di lavoro notturno, in quanto collegate all’effettiva presenza in servizio.
6.1. Il Collegio non ha motivo di discostarsi dalla metodologia e dalle risultanze peritali, che appaiono in linea con le acquisizioni della giurisprudenza formatasi sul licenziamento dichiarato illegittimo (e sulla consistenza della correlativa indennità risarcitoria ex art. 18 L. 300/1970), orientata a riconoscere una piena reintegrazione giuridica ed economica del dipendente nell’ipotesi di illegittima interruzione di un rapporto di impiego in atto e a differenziare tale fattispecie, ai fini del quantum debeatur, da quella della illegittima, mancata (o ritardata) costituzione ex novo del rapporto di impiego (cfr., sul principio, Cassazione civile, SS.UU., 14.12.2007, n. 6282; id. 21.12.2000, n. 1324), che non dà diritto alla retribuzione in quanto la fictio iuris della retrodatazione non può far considerare come avvenuta la prestazione del servizio cui l’ordinamento ricollega il diritto alla retribuzione.
6.2. Al ricorrente va pertanto riconosciuto il diritto al risarcimento del danno patrimoniale subito per effetto della mancata percezione della retribuzione per l’intero periodo di interruzione del servizio, commisurato sotto tale profilo all'effettivo importo mensile della retribuzione, ad eccezione di quei compensi solo eventuali e dei quali non sia certa la percezione, nonché di quelli legati a particolari modalità di svolgimento della prestazione stessa (cfr. Cassazione civile, sez. lavoro, 17.07.2015, n. 15066; Cassazione civile, sez. lavoro, 20.06.2015, n. 11691).
Solo in questo modo si consegue il risultato di neutralizzare gli effetti del licenziamento illegittimo, mentre, ove fosse ipotizzabile per il lavoratore un trattamento economico minore di quello che avrebbe ottenuto se avesse continuato a svolgere le sue consuete prestazioni, si finirebbe per addossargli le conseguenze economiche negative di un illecito altrui (Cassazione civile, sez. lavoro, 16.09.2009, n. 19956; Cassazione civile, sez. lavoro, 24.08.2006, n. 18441).
6.3. Nella quantificazione del danno patrimoniale, per altro verso, deve pure tenersi conto del fatto che il ricorrente, durante il periodo interruzione dell’impiego alle dipendenze dell’istituto di vigilanza, non ha subito alcuna usura lavorativa e non ha provato che la condizione d’inattività sia stata, a sua volta, causa di danno. Egli non ha dovuto impegnare le proprie energie lavorative nell'esclusivo interesse dell’ente datoriale, ma ha potuto rivolgerle alla cura d’ogni altro interesse, sia sul piano lavorativo, che del perfezionamento culturale e professionale (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 29.10.2008, n. 5413; Consiglio di Stato, sez. V, 25.07.2006, n. 4645; C.G.A., 20.04.2007, n. 361).
6.4. Va poi considerato, sempre sotto il profilo del quantum debeatur, che è agli atti la nota dell’ente datoriale, datata 17.11.2008, con cui quest’ultimo ha informato la Prefettura, nel frattempo appositamente attivatasi, della piena adeguatezza delle dotazioni organiche dell’epoca, conseguentemente dichiarando l’insussistenza dei presupposti per la riassunzione in servizio del sig. Sp..
La certificazione, da parte del datore di lavoro del ricorrente, dell’indisponibilità in organico di “spazi” idonei a consentirne la riassunzione non pare possa essere considerata ininfluente, non sembrando corretto, da tale momento e sino alla riassunzione in servizio, ascrivere alla condotta della Prefettura –quanto meno in via esclusiva– la persistenza dello stato di disoccupazione del ricorrente e quindi, in definitiva, il protrarsi delle conseguenze pregiudizievoli dell’illecito.
6.5. Da ultimo va pure osservato che i il ricorrente non era alle dipendenze del Ministero dell’Interno, bensì di un soggetto privato e che non appare verosimile che il medesimo ricorrente in un arco temporale che va dal 02.11.2005 (data della nota con cui è comunicato il licenziamento) al 29.07.2009 (data di riassunzione in servizio) non abbia svolto alcuna attività lavorativa (Consiglio di Stato, sez. V, 25.07.2006, n. 4639; sez. V, 02.10.2002, n. 5174).
6.6. Le considerazioni che precedono inducono il Collegio a ritenere che il danno patrimoniale debba essere determinato, in via equitativa, applicando alla somma indicata in perizia una riduzione pari a un terzo e, quindi, previo arrotondamento, che debba quantificarsi nella cifra tonda di € 47.000,00 oltre interessi e rivalutazione, trattandosi di debito di valore.
La somma rivalutata all’attualità, calcolata con decorrenza 29.07.2008 e in applicazione dell'indice operante al momento della presente decisione, ammonta a € 51.794,00. Gli interessi legali vanno calcolati dalla data deposito della sentenza fino all’effettivo pagamento.

EDILIZIA PRIVATA: Agli effetti della valutazione del reato, se contravvenzione o delitto di cui all'art. 181-bis, d.lgs. 42/2004, come risultante dall'intervento della Corte Costituzionale 23.03.2016 n. 56, l'analisi della volumetria deve essere individuata prescindendo dai criteri applicabili per la disciplina urbanistica e considerando l'impatto dell'intervento sull'originario assetto paesaggistico del territorio.
Ovvero, se sul terreno era preesistente una costruzione (anche se demolita del tutto, come nel caso di specie) deve considerarsi se la superficie abbia comportato un aumento dei manufatti superiori al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore ai settecentocinquanta metri cubi, mentre per le nuove costruzioni (nuove da zero, ovvero su terreni in precedenza senza nessuna costruzione) deve considerarsi se abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi
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4. Deve rilevarsi che la Corte di appello, in sede di procedimento di esecuzione, ha adeguatamente motivato, senza contraddizioni e senza manifeste illogicità, con la corretta applicazione dei principi in materia espressi da questa corte di Cassazione come il reato configurabile sia il delitto di cui all'art. 181, comma 1-bis, d.lgs., 42/2004, come originariamente contestato, anche dopo l'intervento della Corte Costituzionale, 11 gennaio-23.03.2016 n. 56, che ha dichiarato incostituzionale parte dell'art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. 42 del 2004 - (jus superveniens, vedi Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014 - dep. 14/10/2014, P.M. in proc. Gatto, Rv. 260695);
l'art. 181, comma 1-bis, dopo l'intervento della Corte Costituzionale risulta applicabile ora solo per i lavori "che abbiano comportato un aumento dei manufatti superiori al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore ai settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi".
4. 1. L'ordinanza impugnata con motivazione completa e logica evidenziava come, nel caso in esame, il volume realizzato oltre al consentito, era superiore del 30%, come richiede il nuovo assetto normativo, dopo la decisione della Corte Costituzionale. Il ricorrente contesta la definizione del volume rilevante ai fini paesaggistici, contenuto nel provvedimento impugnato, ma del tutto genericamente.
Inoltre
il volume, e la stessa nozione di superficie, ai fini paesaggistici, come esattamente ritenuto nell'ordinanza della corte di appello impugnata, prescinde dai criteri applicabili per la disciplina urbanistica e si deve considerare l'impatto dell'intervento edilizio sull'assetto paesaggistico originario del territorio, e quindi qualsiasi volume, o superficie, viene certamente in rilievo: "Agli effetti della valutazione di compatibilità paesaggistica, il cui esito positivo determina la non applicabilità delle sanzioni penali previste per i reati paesaggistici dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, la nozione di superficie utile di cui al comma primo-ter, lett. a), della richiamata disposizione, dev'essere individuata prescindendo dai criteri applicabili per la disciplina urbanistica e considerando l'impatto dell'intervento sull'originario assetto paesaggistico del territorio. (In motivazione la Corte, in una fattispecie relativa all'abusiva realizzazione in zona vincolata di una veranda, di due locali seminterrati e delle scale necessarie per raggiungerli, ha precisato che la "sanatoria" paesaggistica va esclusa in tutti i casi in cui la creazione di superfici utili o di volumi, ovvero l'aumento di quelli legittimamente realizzati, sia idonea a determinare una compromissione ambientale)" (Sez. 3, n. 889 del 29/11/2011 - dep. 13/01/2012, Falconi e altri, Rv. 25164101).
Per il ricorrente la demolizione del fabbricato e la ricostruzione del nuovo corpo di fabbrica con sagome diverse e materiali diversi dovrebbe ritenersi nuova costruzione e non ampliamento, con l'applicazione del criterio valido per le nuove costruzioni (una volumetria superiore ai mille metri cubi).
L'impatto sul territorio precedente (con la demolizione del fabbricato) e quello successivo (con la costruzione di un organismo edilizio in luogo del vecchio fabbricato) sono diversi e deve valutarsi ai fini della considerazione del reato (delitto o contravvenzione) se i lavori abbiano comportato un aumento dei manufatti superiori al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore ai settecentocinquanta metri cubi, e non già di mille metri cubi.
I mille metri cubi sono esclusivamente per i nuovi (nuovi da zero) fabbricati, ovvero per le costruzioni non esistenti sul terreno in precedenza.
Può conseguentemente affermarsi il seguente principio di diritto: «
Agli effetti della valutazione del reato, se contravvenzione o delitto di cui all'art. 181-bis, d.lgs. 42/2004, come risultante dall'intervento della Corte Costituzionale, 11 gennaio-23.03.2016 n. 56, l'analisi della volumetria deve essere individuata prescindendo dai criteri applicabili per la disciplina urbanistica e considerando l'impatto dell'intervento sull'originario assetto paesaggistico del territorio; ovvero se sul terreno era preesistente una costruzione (anche se demolita del tutto, come nel caso di specie) deve considerarsi se la superficie abbia comportato un aumento dei manufatti superiori al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore ai settecentocinquanta metri cubi, mentre per le nuove costruzioni (nuove da zero, ovvero su terreni in precedenza senza nessuna costruzione) deve considerarsi se abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.04.2018 n. 16697).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone - Configurabilità del reato di cui all'art. 659 cod. pen. - Giurisprudenza - Rumori con attitudine a propagarsi per una potenziale pluralità indeterminata di persone - Fattispecie: omissione di custodia adeguata su tre cani.
Il reato di cui all'art. 659, comma primo, cod. pen. è reato solo eventualmente permanente, che si può consumare anche con un'unica condotta rumorosa o di schiamazzo, ove la stessa sia oggettivamente tale da recare, in determinate circostanze, un effettivo disturbo alle occupazioni o al riposo delle persone (Corte di cassazione, Sezione III penale, 25/02/2015, n. 8351).
Inoltre, ai fini della configurabilità della contravvenzione prevista nell'art. 659 cod. pen. è necessario che i lamentati rumori abbiano la attitudine a propagarsi ed a costituire fonte di disturbo - per la loro intensità e per la ubicazione spaziale della loro fonte - per una potenziale pluralità indeterminata di persone, sebbene non sia poi necessaria la dimostrazione che poi tutte costoro siano state effettivamente disturbate (Corte di cassazione, Sezione I penale, 4/02/2000, n. 1394).
Fattispecie: omissione di custodia adeguata su tre cani lasciati da soli nel terrazzo dell'appartamento ubicato all'interno di un edificio condominiale, gli stessi abbaiando per buona parte della notte impedivano, coi loro latrati, il riposo e la quiete di due abitanti del limitrofo appartamento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.04.2018 n. 16677 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Installazione di infrastruttura per rete mobile di telecomunicazione e limiti di distanze dal confine.
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Edilizia – Impianti rete mobile di telecomunicazione – Installazione - limite della distanza dai confini – Deroga – Condizione.
La speciale disciplina che regola l’installazione di infrastruttura per rete mobile di telecomunicazione ne consenta il posizionamento anche in deroga al limite della distanza dai confini, ma non in contrasto con la previsione del Piano regolatore generale relativa alla nuova viabilità (1).
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   (1) Ha ricordato il Trga Trento che gli impianti di telecomunicazione rivestono carattere di pubblica utilità e sono assimilati alle opere di urbanizzazione primaria, potendo trovare collocazione su proprietà pubbliche e private secondo la legislazione nazionale (artt. 86 e 90, d.lgs. 01.08.2003, n. 259) di matrice comunitaria, e costituiscono in ogni caso, secondo la disciplina urbanistica provinciale di Trento, opere di infrastrutturazione del territorio (art. 11 del regolamento approvato con d.P.P. 19.05.2017, n. 8-61/Leg.; in precedenza art. 36 del regolamento approvato con d.P.P. 13.07.2010, n. 18-50/leg.).
A fronte di tale quadro normativo il Trga Trento ha ritenuto illegittime le disposizioni regolamentari che, senza giustificazione, pretendono fissare per detti impianti limiti di distanze dal confine tali da poter rappresentare un indebito impedimento alla realizzazione della completa rete di telecomunicazioni (Cons. St., sez. VI, 06.09.2010, n. 6473) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 16.04.2018 n. 87 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Interdittiva antimafia e vicinanza ad ambienti mafiosi.
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Informativa antimafia – Presupposti – Vicinanza di soggetto immune a pregiudizi penali con ambienti mafiosi – Sufficienza.
E’ legittima l’interdittiva antimafia adottata sul rilievo che il titolare di impresa individuale immune da pregiudizi penali, ha significativi legami con una famiglia vicina alla cosca mafiosa, operante in zona in cui è particolarmente presente il fenomeno mafioso (1).
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   (1) La Sezione ha richiamato il recente arresto dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 06.04.2018, n. 3, secondo il quale all’interdittiva antimafia deve essere riconosciuta natura cautelare e preventiva, in un’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost.; costituisce una misura volta –ad un tempo– alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione.
Tale provvedimento, infatti, mira a prevenire tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese, volti a condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica amministrazione e si pone in funzione di tutela sia dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, riconosciuti dall’art. 97 Cost., sia dello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra le stesse imprese nel mercato, sia, infine, del corretto utilizzo delle risorse pubbliche.
La Sezione ha poi ricordato che –pur essendo necessario che siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la Pubblica amministrazione- non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo.
Ha aggiunto la Sezione, richiamando i numerosi precedenti in termini della stessa Sezione, che nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione.
Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza –su un’area più o meno estesa– del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito).
La Sezione ha, infine, concluso ricordando che l'ampia discrezionalità di apprezzamento del Prefetto in tema di tentativo di infiltrazione mafiosa comporta che la sua valutazione sia sindacabile in sede giurisdizionale in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 13.04.2018 n. 2231 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
3. Al fine del decidere il Collegio ritiene necessario richiamare i principi, ormai consolidati, individuati dalla Sezione nella materia delle interdittive antimafia, perché utili a smentire, in fatto e in diritto, i motivi dedotti in appello.
La Sezione (30.03.2018, n. 2031; 07.02.2018, n. 820; 20.12.2017, n. 5978; 12.09.2017, n. 4295) ha chiarito che l’interdittiva antimafia costituisce una misura preventiva, volta a colpire l’azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti con la Pubblica amministrazione, che prescinde dall’accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con l’Amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente.
Come chiarito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 06.04.2018, n. 3, si tratta di provvedimento amministrativo al quale deve essere riconosciuta natura cautelare e preventiva, in un’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost.; costituisce una misura volta –ad un tempo– alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione.
Tale provvedimento, infatti, mira a prevenire tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese, volti a condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica amministrazione e si pone in funzione di tutela sia dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, riconosciuti dall’art. 97 Cost., sia dello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra le stesse imprese nel mercato, sia, infine, del corretto utilizzo delle risorse pubbliche.
L’interdittiva esclude, dunque, che un imprenditore, persona fisica o giuridica, pur dotato di adeguati mezzi economici e di una altrettanto adeguata organizzazione, meriti la fiducia delle istituzioni (sia cioè da queste da considerarsi come “affidabile”) e possa essere, di conseguenza, titolare di rapporti contrattuali con le predette amministrazioni, ovvero destinatario di titoli abilitativi da queste rilasciati, come individuati dalla legge, ovvero ancora (come ricorre nel caso di specie) essere destinatario di “contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”.
Ciò preliminarmente chiarito, va aggiunto che la misura interdittiva, essendo il potere esercitato espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull’esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell’attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificare il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata.
Ha aggiunto la Sezione terza che –pur essendo necessario che siano individuati (ed indicati) idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la Pubblica amministrazione- non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo.
Il rischio di inquinamento mafioso deve essere valutato in base al criterio del più “probabile che non”, alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, quale è, anzitutto, anche quello mafioso (13.11.2017, n. 5214; 09.05.2016, n. 1743). Pertanto, gli elementi posti a base dell’informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione.
Gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente, dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata.
La Sezione (07.02.2018, n. 820) ha ancora chiarito che -quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose- l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto.
Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione.
Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza –su un’area più o meno estesa– del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito).
...
5. Tutti gli elementi sopra indicati sono dunque tali da giustificare l’impugnata informativa (senza che sia necessario disporre l’istruttoria richiesta dall’appellante), alla luce del principio, ampiamente argomentato, secondo cui
i fatti che l’autorità prefettizia deve valorizzare prescindono dall’atteggiamento antigiuridico della volontà mostrato dai singoli e finanche da condotte penalmente rilevanti, non necessarie per la sua emissione, ma sono rilevanti nel loro valore oggettivo, storico, sintomatico, perché rivelatori del condizionamento che l’organizzazione mafiosa può esercitare sull’impresa, anche al di là e persino contro la volontà del singolo (Cons. St., sez. III, 10.01.2018, n. 97).
Giova aggiungere che
la valutazione del pericolo di infiltrazioni mafiose, di competenza del Prefetto, è connotata, per la specifica natura del giudizio formulato, dall'utilizzo di peculiari cognizioni di tecnica investigativa e poliziesca, che esclude la possibilità per il giudice amministrativo di sostituirvi la propria, ma non impedisce ad esso di rilevare se i fatti riferiti dal Prefetto configurino o meno la fattispecie prevista dalla legge e di formulare un giudizio di logicità e congruità con riguardo sia alle informazioni acquisite, sia alle valutazioni che il Prefetto ne abbia tratto (Cons. St., sez. III, n. 820 del 2018; n. 5130 del 2011; n. 2783 del 2004 e n. 4135 del 2006).
L'ampia discrezionalità di apprezzamento del Prefetto in tema di tentativo di infiltrazione mafiosa comporta che la sua valutazione sia sindacabile in sede giurisdizionale in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (Cons. St. n. 4724 del 2001).
Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati (Cons. St. n. 7260 del 2010).

APPALTI: Non è possibile ricorrere al soccorso istruttorio per la durata del Piano economico finanziario diversa da quella prevista dalla lex specialis di gara.
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Contatti della pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio - Piano economico finanziario – Durata diversa da quella richiesta dalla lex specialis di gara – Impossibilità di ricorrere al soccorso istruttorio.
Il Piano economico finanziario (PEF), che ha un riferimento temporale diverso da quello stabilito dalla lex specialis di gara, non configura una mera irregolarità formale o un errore materiale e non è, dunque, sanabile mediante il soccorso istruttorio, che finirebbe per colmare sostanziali carenze dell’offerta (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che il Piano economico finanziario (PEF) è volto a dimostrare la concreta capacità del concorrente di correttamente eseguire la prestazione per l’intero arco temporale prescelto attraverso la responsabile prospettazione di un equilibrio economico–finanziario di investimenti e connessa gestione, nonché il rendimento per l’intero periodo: il che consente all’amministrazione concedente di valutare l’adeguatezza dell’offerta e l’effettiva realizzabilità dell’oggetto della concessione stessa (Cons. Stato, V, 26.09.2013, n. 4760; id., III, 22.11.2011, n. 6144).
È un documento che giustifica la sostenibilità dell’offerta e non si sostituisce a questa ma ne rappresenta un supporto per la valutazione di congruità, per provare che l’impresa va a trarre utili tali da consentire la gestione proficua dell’attività (Cons. Stato, V, 10.02.2010, n. 653).
Dalla funzione del PEF consegue che esso non può essere tenuto separato dall’offerta in senso stretto. Esso rappresenta un elemento significativo della proposta contrattuale perché dà modo all’amministrazione, che ha invitato ad offrire, di apprezzare la congruenza e dunque l’affidabilità della sintesi finanziaria contenuta nell’offerta in senso stretto: sicché un vizio intrinseco del PEF –come quello di un riferimento temporale diverso dallo stabilito- si riflette fatalmente sulla qualità dell’offerta medesima e la inficia (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.04.2018 n. 2214 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
3. Per vagliare la prima questione, accanto alle comunque opinabili argomentazioni fondate sul tenore testuale della lex specialis (il tenore letterale del n. 8.3 della lettera di invito parrebbe deporre a favore della integrale pertinenza del PEF all’offerta) e della formulazione dell’offerta,
occorre considerare la funzione del PEF, quale scolpita dalla chiara giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, secondo la quale esso è volto a dimostrare la concreta capacità del concorrente di correttamente eseguire la prestazione per l’intero arco temporale prescelto attraverso la responsabile prospettazione di un equilibrio economico–finanziario di investimenti e connessa gestione, nonché il rendimento per l’intero periodo: il che consente all’amministrazione concedente di valutare l’adeguatezza dell’offerta e l’effettiva realizzabilità dell’oggetto della concessione stessa (cfr. Cons. Stato, V, 26.09.2013, n. 4760; III, 22.11.2011, n. 6144).
È un documento che giustifica la sostenibilità dell’offerta e non si sostituisce a questa ma ne rappresenta un supporto per la valutazione di congruità, per provare che l’impresa va a trarre utili tali da consentire la gestione proficua dell’attività (Cons. Stato, V, 10.02.2010, n. 653).
Sicché il PEF non può essere tenuto separato dall’offerta in senso stretto come vorrebbe l’appellante, il quale lo vorrebbe un mero supporto dimostrativo della semplice fondatezza dell’offerta stessa (sì che un’eventuale sua imprecisione non inficerebbe quella e sarebbe sanabile con il soccorso istruttorio).
In realtà, invece, il PEF rappresenta un elemento significativo della proposta contrattuale perché dà modo all’amministrazione, che ha invitato ad offrire, di apprezzare la congruenza e dunque l’affidabilità della sintesi finanziaria contenuta nell’offerta in senso stretto: sicché un vizio intrinseco del PEF –come quello di un riferimento temporale diverso dallo stabilito- si riflette fatalmente sulla qualità dell’offerta medesima e la inficia.
Questa conclusione può essere confermata dalla considerazione che -come ricorda la resistente- nel corso dell’esercizio della concessione, l’eventuale alterazione degli indicatori del PEF derivante da circostanze sopravvenute può determinare la modifica di elementi essenziali della concessione, quali l’entità del canone o la durata del rapporto; del resto, ciò è richiamato anche dallo schema di contratto attuativo allegato agli atti di gara.
4. Tanto premesso, va condiviso l’assunto della sentenza appellata, che il ricordato vizio del PEF non configuri una mera irregolarità formale o un errore materiale e che dunque non sia sanabile mediante il soccorso istruttorio, come ha dapprima auspicato e poi erroneamente messo in pratica la Provincia.
Muovendo dall’assunto sopra riportato al n. 3, vale il fatto che l’appellante ha elaborato e sottoposto un nuovo PEF, su base quindici anni, nel quale vari significativi parametri sono stati ricalcolati, derivandone una naturale minore remuneratività per Bosch della propria offerta.
Se si considera che invece il soccorso istruttorio può solo, per consolidata giurisprudenza, consentire la sanatoria di difformità e carenze formali e facilmente riconoscibili, ma non supplire a sostanziali carenze dell’offerta (come era quella dell’aver indicato quel diverso arco temporale), diviene evidente che l’Amministrazione ha fatto illegittimo uso di tale strumento; e si conclude che l’ammissione di Bo. al soccorso istruttorio –nel senso di consentirle di sostituire il PEF originariamente presentato con altro- resta comunque un’indebita violazione del fondamentale principio di parità di trattamento dei concorrenti: anche se in ipotesi il nuovo PEF riuscisse, con il ricalcolo di taluni elementi, a sostenere la perdurante convenienza dell’offerta.

EDILIZIA PRIVATA: L’intervento di cui è causa consiste nella ristrutturazione edilizia di un fabbricato ad uso familiare e nel suo ampliamento contenuto entro il limite del 20 per cento, così come prescrive l’art. 17, terzo comma, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Va poi rilevato che –contrariamente da quanto sostenuto dal Comune– l’edificio interessato dai lavori deve essere considerato alla stregua di edificio unifamiliare.
Invero, per stabilire se un edificio possa essere considerato unifamiliare occorre aver riguardo alle sue caratteristiche strutturali e funzionali verificando se esso sia nel concreto destinato ad ospitare uno o più nuclei familiari.

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... per l'annullamento dell'ordine di non effettuare l'intervento, emesso dal Comune di Appiano Gentile in data 15.09.2014 - prot. 11973 VI/3/14, relativo alla DIA del 10.07.2014 - prot. 9322 e integrata in data 10.09.2014 - prot. 11745 e per l’accertamento della non debenza del contributo di concessione.
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Con il ricorso in esame, viene impugnato il provvedimento in data 15.09.2014 - prot. 11973 VI/3/14 emesso dal Comune di Appiano Gentile con il quale è stato ordinato ai ricorrenti di non effettuare l’intervento relativo alla DIA del 10.07.2014 - prot. 9322 (integrata in data 10.09.2014 - prot. 11745). L’ordine è stato disposto in ragione del mancato versamento del contributo di costruzione.
Oltre alla domanda di annullamento, gli interessati propongono domanda di accertamento della non debenza del contributo di costruzione nonché domanda di condanna del Comune alla restituzione della somma da loro comunque versata (euro 7.875,00) oltre interessi e rivalutazione.
...
Con l’unico motivo di ricorso viene dedotta la violazione dell’art. 17, terzo comma, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato.
Stabilisce l’art. 17, terzo comma, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001 che il contributo di costruzione non è dovuto <<per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari>>.
Per dare soluzione alla presente controversia occorre quindi stabilire se nella fattispecie concreta tale norma sia applicabile.
La risposta al quesito deve essere positiva.
Va invero osservato, innanzitutto, che l’intervento di cui è causa consiste nella ristrutturazione edilizia di un fabbricato ad uso familiare e nel suo ampliamento contenuto entro il limite del 20 per cento, così come prescrive la citata norma.
Va poi rilevato che –contrariamente da quanto sostenuto dal Comune nella relazione depositata a seguito dell’ordinanza istruttoria– l’edificio interessato dai lavori deve essere considerato alla stregua di edificio unifamiliare.
Il Comune nega tale conclusione applicando alla fattispecie le norme (contenute nell’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968, nella legge regionale, oggi abrogata, n. 51 del 1975, nella legge regionale n. 12 del 2005 e nell’art. 11 delle n.t.a. del PGT) che, ai fini della quantificazione degli standard urbanistici, indicano il rapporto teorico fra metri cubi delle abitazioni (s.l.p.) e popolazione insediata e/o insediabile.
L’Amministrazione rileva in particolare che, nella fattispecie concreta, il rapporto mc/abitante (calcolato dividendo i mc totali dell’edificio interessato dai lavori con il numero delle persone ivi insediate) è superiore a quello fissato dall’art. 11 delle n.t.a. del PGT (150 mc/ab); per questo motivo l’abitazione oggetto dell’intervento non potrebbe considerarsi alla stregua di “edificio unifamiliare”.
Ritiene il Collegio, discostandosi da una precedente pronuncia della Sezione (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, sent. n. 1062 del 2006), che questa argomentazione non possa essere condivisa, e ciò in quanto le norme invocate dal Comune sono, come detto, funzionali alla determinazione teorica della popolazione complessivamente insediata od insediabile nell’ambito del territorio comunale; determinazione a sua volta finalizzata alla quantificazione, in sede di elaborazione dei piani urbanistici, della superficie complessiva da destinare a servizi pubblici. Tali norme non danno quindi la definizione di “edificio unifamiliare”.
Inoltre, l’accoglimento dell’argomentazione del Comune porterebbe a conseguenze poco accettabili giacché lo stesso edificio potrebbe essere considerato unifamiliare o meno a seconda del numero delle persone che vi abitano ovvero, posto che la determinazione del rapporto di cui si discute non è più rimessa alla normativa statale, a seconda del luogo in cui esso insiste.
Si deve pertanto ritenere che, per stabilire se un edificio possa essere considerato unifamiliare, occorra aver riguardo alle sue caratteristiche strutturali e funzionali verificando se esso sia nel concreto destinato ad ospitare uno o più nuclei familiari.
Per queste ragioni il ricorso deve essere accolto; pertanto deve essere annullato il provvedimento impugnato e il Comune di Appiano Gentile deve essere condannato a restituire ai ricorrenti la somma di euro 7.875,00 oltre interessi sino al soddisfo (trattandosi di debito di valuta la rivalutazione non è invece dovuta).
La non univocità della giurisprudenza giustifica la compensazione delle spese di giudizio (TAR Lombardia-Milano Sez. II, sentenza 13.04.2018 n. 1000 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Rinvio pregiudiziale – Ambiente – Direttiva 92/43/CEE – Conservazione degli habitat naturali – Zone speciali di conservazione – Articolo 6, paragrafo 3 – Preesame volto a determinare la necessità di procedere o meno a una valutazione dell’incidenza di un piano o progetto su una zona speciale di conservazione – Misure che possono essere prese in considerazione a tal fine.
Per questi motivi, la Corte (Settima Sezione) dichiara:
L’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21.05.1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, dev’essere interpretato nel senso che, al fine di determinare se sia necessario procedere successivamente a un’opportuna valutazione delle incidenze di un piano o di un progetto su un sito interessato, non occorre, nella fase di preesame, prendere in considerazione le misure intese a evitare o a ridurre gli effetti negativi di tale piano o progetto su questo sito (Corte di Giustizia UE, Sez. VII, sentenza 12.04.2018 - causa C-323/17).

APPALTI SERVIZI: Abrogazione tacita, ad opera del nuovo Codice dei contratti pubblici, delle disposizioni incompatibili in materia di concessioni di servizi.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Concessione - Concessione servizi – Disposizioni incompatibili extra Codice dei contratti – Sono state tacitamente abrogate dal Codice dei contratti.
Le disposizioni del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con d.lgs. 18.04.2018, n. 50, in materia di concessioni di servizi abrogano tacitamente tutte le altre disposizioni con esse incompatibili che disciplinano la materia (1).
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   (1) Ha chiarito il C.g.a. che il Codice dei contratti pubblici non ha riordinato le discipline settoriali in materia di concessioni di servizi (non attuando il principio di delega che imponeva il riordino e la semplificazione) ma questo non significa che non si imponga una verifica se esse sopravvivano in tutto o in parte al codice e che non si debba verificare se vi siano state tacite abrogazioni delle disposizioni previgenti: segnatamente, per quel che qui rileva, quanto a requisiti soggettivi, relativi a condanne penali, più severi di quelli previsti dal nuovo Codice.
Tanto più quando i requisiti sono posti da fonte regolamentare anteriore al codice, sicché le disposizioni del codice sembrano determinare abrogazione tacita in base al triplice canone della legge generale, cronologicamente successiva, e di rango superiore nella gerarchia delle fonti.
Sicché, ove così fosse, il bando sarebbe nullo perché prevede cause di esclusione non previste dal Codice dei contratti pubblici (donde la non necessità di impugnare il bando in via immediata e la rilevabilità d’ufficio della nullità del bando), e sarebbe non applicabile, pertanto, in parte qua  (CGARS, sentenza 12.04.2018 n. 217 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esclusione per inadempimento contrattuale e risoluzione disposta da altra amministrazione sub judice.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Inadempimenti contrattuali – Art. 80, comma 5, lett. c, d.lgs. n. 50 del 2018 – Risoluzione disposta da altra Amministrazione – Impugnazione pendente – Legittimità dell’esclusione
E’ legittima l’esclusione dalla gara ex art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, disposta perché la concorrente è iscritta al casellario informatico dell’ANAC per essersi resa colpevole di violazioni in tema in inadempimento contrattuale, a nulla rilevando che la risoluzione, disposta da altra stazione appaltante per fatto ritenuto grave, sia stata giudizialmente contestata innanzi al Tribunale con giudizio ancora pendente (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che ad essere dirimente della questione, attualmente oggetto di discussione in giurisprudenza (Cons. St., sez. V, 02.03.2018, n. 1299; id. 27.04.2017, n. 1955) è la portata meramente esemplificativa delle ipotesi di grave illecito professionale, contemplate nel secondo periodo della disposizione citata; ne consegue la piena autonomia della fattispecie contemplata nel periodo precedente, che, nell’assumere una portata generale, si affranca dai requisiti specifici richiamati nei predicati casi esemplificativi.
In particolare, il legame esistente tra ipotesi generale e fattispecie tipizzate è rintracciabile nella «dimostrazione con mezzi adeguati» che la norma impone alla stazione appaltante, onere che, nell’ipotesi generale, non risente di alcuna conformazione particolare, restando, di conseguenza, verificabile, pro caso, alla stregua dei consueti parametri di imparzialità dal punto di vista della non manifesta irragionevolezza e proporzionalità della valutazione compiuta; invece, nel secondo caso, per effetto della naturale differenziazione, propria della tecnica redazionale di esemplificazione, l’esistenza di presunzioni sulla formazione della prova del grave illecito professionale restringe l’ambito di valutazione della stazione appaltante.
Tale maggiore intensità descrittiva della fattispecie trova un punto di equilibrio tra l’alleggerimento dell’onere probatorio che grava sulla stazione appaltante –compito che si risolve nella sola acquisizione di una sentenza che abbia qualificato grave l’illecito professionale, magari con statuizione di condanna dell’impresa– e la possibilità per il contraente di neutralizzare tale effetto vincolante, avvalendosi di una giudiziale contestazione con cui gli venga consentito di opporsi ad un contestato inadempimento contrattuale.
Tuttavia, l’esistenza di una contestazione giudiziale della risoluzione non implica che la fattispecie concreta ricada esclusivamente nell’ipotesi esemplificativa, con applicazione del relativo regime operativo; difatti, il “fatto” in sé di inadempimento resta pur sempre un presupposto rilevante ai fini dell’individuazione di un grave illecito professionale, secondo l’ipotesi generale (Cons. St., sez. V, 02.03.2018, n. 1299); invero, come visto tra le due fattispecie esiste un rapporto di parziale sovrapponibilità, sussistendo una relazione di genus ad speciem; a differenza della seconda ipotesi, nel caso generale, la stazione appaltante non può avvalersi dell’effetto presuntivo assoluto di gravità derivante dalla sentenza pronunciata in giudizio, né, per converso, l’impresa può opporne la pendenza per porre nell’irrilevante giuridico il comportamento contrattuale indiziato.
In altri termini, scomponendo la fattispecie concreta, ben può la stazione appaltante qualificare il fatto, inteso come comportamento contrattuale del concorrente, quale grave illecito professionale, dovendo tuttavia dimostrarne l’incidenza in punto di inaffidabilità, e quindi prescindendo dalla pendenza di un giudizio che viene a collocarsi all’esterno della fattispecie normativa utilizzata (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 11.04.2018 n. 2390 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Nodo centrale della controversia è costituto dalla portata applicativa dell’art. 80, comma 5, lettera c), del d.lgs. 18.04.2016 n. 50 che qualifica come causa di esclusione l’ipotesi in cui «c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione».
Rileva il Collegio che
ad essere dirimente della questione, attualmente oggetto di discussione in giurisprudenza (Consiglio di Stato V Sezione 02.03.2018 n. 1299; Consiglio di Stato 27.04.2017 n. 1955), è la portata meramente esemplificativa delle ipotesi di grave illecito professionale, contemplate nel secondo periodo della disposizione citata; ne consegue la piena autonomia della fattispecie contemplata nel periodo precedente, che, nell’assumere una portata generale, si affranca dai requisiti specifici richiamati nei predicati casi esemplificativi.
In particolare,
il legame esistente tra ipotesi generale e fattispecie tipizzate è rintracciabile nella «dimostrazione con mezzi adeguati» che la norma impone alla stazione appaltante, onere che, nell’ipotesi generale, non risente di alcuna conformazione particolare, restando, di conseguenza, verificabile, pro caso, alla stregua dei consueti parametri di imparzialità dal punto di vista della non manifesta irragionevolezza e proporzionalità della valutazione compiuta; invece, nel secondo caso, per effetto della naturale differenziazione, propria della tecnica redazionale di esemplificazione, l’esistenza di presunzioni sulla formazione della prova del grave illecito professionale restringe l’ambito di valutazione della stazione appaltante.
Tale maggiore intensità descrittiva della fattispecie trova un punto di equilibrio tra l’alleggerimento dell’onere probatorio che grava sulla stazione appaltante –compito che si risolve nella sola acquisizione di una sentenza che abbia qualificato grave l’illecito professionale, magari con statuizione di condanna dell’impresa– e la possibilità per il contraente di neutralizzare tale effetto vincolante, avvalendosi di una giudiziale contestazione con cui gli venga consentito di opporsi ad un contestato inadempimento contrattuale.

Tuttavia,
l’esistenza di una contestazione giudiziale della risoluzione non implica che la fattispecie concreta ricada esclusivamente nell’ipotesi esemplificativa, con applicazione del relativo regime operativo; difatti, il “fatto” in sé di inadempimento resta pur sempre un presupposto rilevante ai fini dell’individuazione di un grave illecito professionale, secondo l’ipotesi generale (Consiglio di Stato V Sezione 02.03.2018 n. 1299); invero, come visto tra le due fattispecie esiste un rapporto di parziale sovrapponibilità, sussistendo una relazione di genus ad speciem; a differenza della seconda ipotesi, nel caso generale, la stazione appaltante non può avvalersi dell’effetto presuntivo assoluto di gravità derivante dalla sentenza pronunciata in giudizio, né, per converso, l’impresa può opporne la pendenza per porre nell’irrilevante giuridico il comportamento contrattuale indiziato.
In altri termini, scomponendo la fattispecie concreta,
ben può la stazione appaltante qualificare il fatto, inteso come comportamento contrattuale del concorrente, quale grave illecito professionale, dovendo tuttavia dimostrarne l’incidenza in punto di inaffidabilità, e quindi prescindendo dalla pendenza di un giudizio che viene a collocarsi all’esterno della fattispecie normativa utilizzata.
Tale soluzione trova conforto, a giudizio del Collegio, oltre che nella formulazione letterale della norma, anche nella ratio legis; in proposito, accettare la tesi propugnata dalla società ricorrente implicherebbe che, rispetto a fatti ugualmente costituenti grave illecito professionale, di certuni sarebbe sufficiente neutralizzare gli effetti ostativi della partecipazione mediante la semplice proposizione di una domanda giudiziale ed avvalersi della mera pendenza del relativo giudizio; tale idea renderebbe la norma, di fatto, di difficile applicazione concreta, poiché la stessa resterebbe soggetta ad una sorta di condizione potestativa in favore di chi dovrebbe invece subirla, vanificando, nel contempo, la funzione di tutela dell’interesse pubblico di estromettere concorrenti che la disposizione codicistica in scrutinio consente alla stazione appaltante, come ipotesi generale, di qualificare non affidabili, a prescindere da una presupposta verifica giudiziale.
Va aggiunto che nel caso in esame, quanto opinato dalla stazione appaltante, che non richiama in alcun modo possibili effetti vincolanti riconducibili ad una sentenza che abbia statuito sui fatti di risoluzione, non desta perplessità in punto di fatto, né connotazioni di irragionevolezza o di assenza di proporzionalità, aspetti che, tra l’altro, non risultano aver costituito oggetto di specifica contestazione nel presente giudizio.
L’adesione del Collegio alla superiore opzione interpretativa consente di ritenere non rilevante e vincolante l’orientamento espresso dalla Sezione quarta di questo Tribunale con l’ordinanza n. 5893/2017, richiamata da parte ricorrente.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto, con integrale compensazione tra le parti delle spese processuali, in ragione della novità della questione esaminata.

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Gestione illecita di rifiuti - Attività raccolta, trasporto, recupero e smaltimento dei rifiuti - Operazioni collegate o di controllo - Fattispecie: Partecipazione come commerciante o intermediario.
L'attività di gestione illecita di rifiuti, include, secondo la descrizione che ne è data dall'art. 183, comma 1, lett. n), d.lgs. 152/2006, la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compresi il controllo di tali operazioni e gli interventi successivi alla chiusura dei siti di smaltimento, nonché le operazioni effettuate in qualità di commerciante o intermediario, in quanto lo smaltimento (cioè qualsiasi operazione diversa dal recupero) è una delle condotte che concorrono a configurare la gestione illecita di rifiuti, anche qualora vi si partecipi come commerciante o intermediario, come avvenuto nel caso di specie, nel quale l'imputato, dopo aver raccolto, trasportato e accumulato i rifiuti (tra l'altro rinvenuti in cumuli insistenti su tre diverse aree all'interno del fondo di cui l'imputato è usufruttuario, della superficie, rispettivamente, di 50, 30 e 20 metri quadrati), li trasportava in discarica.
RIFIUTI - Nozione di deposito temporaneo di rifiuti - Presupposti e requisiti per la qualifica di: deposito preliminare, messa in riserva, discarica abusiva e abbandono - Art. 183, c. 1, lett. m), d.lgs. n.152/2006.
Per deposito controllato o temporaneo si intende ogni raggruppamento di rifiuti, effettuato prima della raccolta, nel luogo in cui sono stati prodotti, nel rispetto delle condizioni dettate dall'art. 183, comma 1, lett. bb), d.lgs. n. 152 del 2006, cosicché, in difetto anche di uno dei requisiti normativi, il deposito non può ritenersi temporaneo, ma deve essere qualificato, a seconda dei casi, come "deposito preliminare" (se il collocamento di rifiuti è prodromico ad un'operazione di smaltimento), come "messa in riserva" (se il materiale è in attesa di un'operazione di recupero), come "abbandono" (quando non sono destinati ad operazioni di smaltimento o recupero) o come "discarica abusiva" (nell'ipotesi di abbandono d rifiuti reiterato nel tempo e rilevante in termini spaziali e quantitativi).
RIFIUTI - Attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti - Assenza dell'autorizzazione o iscrizione o comunicazione prescritte dalla normativa vigente - Concorso integrato e non alternato - Art. 6, c. 1, lett. d), d.l. n.172/2008.
In tema di rifiuti, le condotte descritte dall'art. 6, comma 1, lett. d), d.l. n. 172 del 2008, e cioè le attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti in mancanza dell'autorizzazione, iscrizione comunicazione prescritte dalla normativa vigente, non sono tra loro alternative, non essendo descritte nel senso che la commissione di una escluda la verificazione o la ipotizzabilità dell'altra, cosicché è ben possibile che alcune o tutte di esse, in concreto, concorrano, posto che esse non sono tra loro ontologicamente incompatibili, essendo, anzi, tra loro logicamente concatenate, cosicché la contestazione che le contempli tutte non risulta né illogica né indeterminata (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.04.2018 n. 15771 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: La giurisprudenza del Consiglio di Stato, in materia di efficacia del piano di attuazione dopo la scadenza del termine previsto per la sua esecuzione, si è soffermata sul significato del principio generale contenuto nell'art. 17, primo comma, della legge n. 1150 del 1942, per il quale, «decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso».
È stato affermato che da tale comma, debbono trarsi i seguenti principi (di per sé applicabili anche al piano di lottizzazione, equiparato al piano particolareggiato di iniziativa pubblica):
   a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi dell’art. 869 del codice civile);
   b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
   c) col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con quelle del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli (e determinano ciò che è consentito e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano attuativo delle determinazioni sulle specifiche conformazioni delle proprietà), le previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale stabilità, perché specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l’attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina l'assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito.
In considerazione della stabilità delle previsioni del piano attuativo, va affermato dunque il principio per il quale le previsioni urbanistiche di un piano attuativo rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza.

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1.‒ Con il primo motivo di gravame, l’appellante lamenta la violazione degli artt. 16 e 17 della legge. n. 1150 del 1942 e dell’art. 20 della legge regionale n. 11 del 2004, in quanto il limite alla trasformabilità degli edifici monumentali previsto dall’art. 9 delle NTA del Piano Particolareggiato era già decaduto al momento dell’adozione dell’atto.
La società sostiene che la natura di vincolo apposto su singole proprietà escluderebbe all’evidenza la possibilità di qualificare la previsione dell’art. 9 di cui si discute come una ‘prescrizione di zona’, che di per sé mantiene la sua efficacia pure una volta scaduto il piano particolareggiato.
1.1.‒ Il motivo non può essere accolto.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, in materia di efficacia del piano di attuazione dopo la scadenza del termine previsto per la sua esecuzione, si è soffermata sul significato del principio generale contenuto nell'art. 17, primo comma, della legge n. 1150 del 1942, per il quale, «decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso».
È stato affermato (Sez. IV, 04.12.2007, n. 6170) che da tale comma, debbono trarsi i seguenti principi (di per sé applicabili anche al piano di lottizzazione, equiparato al piano particolareggiato di iniziativa pubblica):
   a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi dell’art. 869 del codice civile);
   b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
   c) col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con quelle del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al principio secondo cui, mentre le previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli (e determinano ciò che è consentito e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano attuativo delle determinazioni sulle specifiche conformazioni delle proprietà), le previsioni dello strumento attuativo hanno carattere di tendenziale stabilità, perché specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l’attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina l'assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito.
In considerazione della stabilità delle previsioni del piano attuativo, va affermato dunque il principio per il quale le previsioni urbanistiche di un piano attuativo rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza (Consiglio di Stato, sez. V, 30.04.2009, n. 2768).
In continuità con il citato orientamento giurisprudenziale, ritiene il Collegio che la citata previsione dell’art. 9 del piano particolareggiato sia “ultrattiva”, trattandosi di una misura conformativa della proprietà, che disciplina i limiti alla trasformabilità di una peculiare tipologia di edifici del centro storico (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.04.2018 n. 2154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il parere reso dalla commissione edilizia sulla domanda di condono è un atto endoprocedimentale inidoneo, in quanto tale, ad essere oggetto di una autonoma impugnazione.
Laddove non acquisito, la sua mancanza non è idonea a viziare l’adozione di atti repressivi di abusi edilizi, né ai fini del rigetto di istanze di condono o sanatoria, non essendone atto presupposto ai fini dell’adozione.

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3.‒ Va respinto anche il terzo motivo, con il quale l’appellante lamenta la mancata acquisizione del parere della commissione edilizia.
3.1.‒ Va richiamata la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, secondo cui il parere reso dalla commissione edilizia sulla domanda di condono è un atto endoprocedimentale inidoneo, in quanto tale, ad essere oggetto di una autonoma impugnazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 12.10.2016, n. 4208). Laddove non acquisito, la sua mancanza non è idonea a viziare l’adozione di atti repressivi di abusi edilizi, né ai fini del rigetto di istanze di condono o sanatoria, non essendone atto presupposto ai fini dell’adozione (Consiglio di Stato, sez. IV, 11.10.2017, n. 4703; Consiglio di Stato, sez. IV, 25.11.2016, n. 4962) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.04.2018 n. 2154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Condanna alle spese di lite dell’Amministrazione formalmente vittoriosa per comportamento scorretto.
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Processo amministrativo – Spese di giudizio – A carico della parte vittoriosa – Art. 88 c.p.c. – Condizione.
L’Amministrazione, pur formalmente vittoriosa nel doppio grado, è stata condannata a pagare le spese di lite ex art. 88 c.p.c. perché ha taciuto una circostanza che se rilevata subito non solo non avrebbe fatto iniziare la causa ma non la avrebbe fatta durare per molti anni (1).
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   (1) La Sezione ha condannato l’ente locale che ha violato il canone di lealtà processuale sancito dall’art. 88, comma 1, c.p.c. –sub specie di inosservanza del divieto di non ostacolare la sollecita definizione del giudizio (Cass. civ., sez. III, ord. 18.12.2009, n. 26773; arg. anche dall’art. 2, comma 2, c.p.a.)– consentendo che la causa si dilungasse su due gradi di giudizio e per ben dieci anni.
Da ciò discende l’applicazione della norma sancita dall’art. 92, comma 1, c.p.c., secondo cui il giudice “….può indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’art. 88, essa ha causato all’altra parte” (sul carattere indeterminato del precetto di cui all’art. 88 cit., sulla possibilità che esso venga individuato ex post dal giudice e sulla applicabilità di tale disposizione al processo amministrativo, cfr. Cons. St., sez. V, 25.02.2015, n. 930) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.04.2018 n. 2142 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
12. Le spese del doppio grado di giudizio gravano sul Comune e possono liquidarsi come in dispositivo, tenuto conto dei parametri di cui al regolamento n. 55 del 2014 e di cui agli artt. 26, comma 1, c.p.a. e 96, comma 3, c.p.c. ricorrendone i presupposti applicativi (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 27.02.2018, n. 1186; 22.02.2018, n. 1117; 24.05.2016, n. 2200; v. anche Cass. civ., Sez. VI, 02.11.2016, n. 22150).
12.1. E’, infatti, evidente che, nella specie, l’ente locale ha violato il canone di lealtà processuale sancito dall’art. 88, comma 1, c.p.c. –sub specie di inosservanza del divieto di non ostacolare la sollecita definizione del giudizio (cfr., sul punto, Cass. civ., sez. III, ord. 18.12.2009, n. 26773; arg. anche dall’art. 2, comma 2, c.p.a.)– consentendo che la causa si dilungasse su due gradi di giudizio e per ben dieci anni.
12.2. Da ciò discende l’applicazione della norma sancita dall’art. 92, comma 1, c.p.c., secondo cui il giudice <<….può indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’art. 88, essa ha causato all’altra parte>> (sul carattere indeterminato del precetto di cui all’art. 88 cit., sulla possibilità che esso venga individuato ex post dal giudice e sulla applicabilità di tale disposizione al processo amministrativo, cfr. Cons. Stato, sez. V, 25.02.2015, n. 930, cui si rinvia a mente dell’art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a.).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Bar rumoroso: il Comune può intervenire, ma con i piedi di piombo.
Se un locale disturba il vicinato con rumori molesti notturni il sindaco può intervenire ma con cautela. L'ordinanza di limitazione dell'orario di apertura dell'esercizio rumoroso deve infatti essere adeguatamente documentata e giustificata. Diversamente diventa un boomerang per l'ente locale (massima tratta da www.dirittoegiustizia.it).
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Ciò chiarito, il ricorso, volto ad ottenere l’annullamento del provvedimento con cui il Sindaco ha ordinato la riduzione dell’orario di apertura del locale condotto dall’odierno ricorrente, per una durata di sessanta giorni, merita positivo apprezzamento per le ragioni che seguono.
Deve preliminarmente essere precisato che il provvedimento impugnato risulta riconducibile, per riferimenti ivi presenti e per il suo stesso contenuto, alla previsione di cui al comma 7-bis dell’art. 50 del TUEL, così come modificato dall’art. 8 del D.L. 14/2017, convertito con la legge 48/2017, non essendo stata rappresentata, dal Comune, alcuna particolare condizione di urgenza e necessità tra quelle descritte nei commi precedenti, la quale avrebbe determinato l’applicazione delle diverse disposizioni ivi contenute.
L’art. 50 (dedicato alle competenze del Sindaco “quale autorità locale nelle materie previste da specifiche disposizioni di legge”) prevede, infatti, per quanto qui rileva, che:
   - comma 5: “In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale. Le medesime ordinanze sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale, in relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche. Negli altri casi l’adozione dei provvedimenti d'urgenza ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle regioni in ragione della dimensione dell’emergenza e dell'eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali”;
   - comma 7: “Il sindaco, altresì, coordina e riorganizza, sulla base degli indirizzi espressi dal consiglio comunale e nell'ambito dei criteri eventualmente indicati dalla regione, gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, nonché, d'intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio, al fine di armonizzare l'espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti”.
   - comma 7-bis. “Il Sindaco, al fine di assicurare il soddisfacimento delle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti nonché dell’ambiente e del patrimonio culturale in determinate aree delle città interessate da afflusso particolarmente rilevante di persone, anche in relazione allo svolgimento di specifici eventi, nel rispetto dell’articolo 7 della legge 07.08.1990, n. 241, può disporre, per un periodo comunque non superiore a trenta giorni, con ordinanza non contingibile e urgente, limitazioni in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche”.
I fatti richiamati nel provvedimento come eventi che hanno determinato l’intervento del Sindaco risalgono a giugno e luglio, mentre l’ordinanza in questione è stata adottata solo in ottobre 2017. Inoltre, non è stata rappresentata alcuna situazione di urgenza che avrebbe giustificato non solo l’adozione di un’ordinanza contingibile e urgente, ma anche l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento.
Deve, dunque, ritenersi che il provvedimento sia riconducibile all’ipotesi descritta dal comma 7-bis e, conseguentemente, il Comune avrebbe dovuto garantire all’odierno ricorrente un’adeguata partecipazione al procedimento preordinato alla nuova regolazione dell’orario d’apertura, che invece, è stata omessa.
Inoltre, poiché la norma di riferimento sopra ricordata ammette una riduzione dell’orario di apertura per un periodo massimo di trenta giorni, mentre, nel caso di specie, è stata ordinata la chiusura anticipata per sessanta giorni, non può che constatarsi un eccesso di potere. Il provvedimento in esame, infatti, ha inciso sulla situazione giuridica soggettiva del ricorrente oltre i limiti consentiti dalla legge e, dunque, adottando una disposizione priva di copertura normativa che la legittimasse.
Per tali ragioni, deve essere disposto l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 09.04.2018 n. 407 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Ai fini della configurazione del reato di falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cod. pen.) costituisce atto pubblico non solo quello destinato ad assolvere alla funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti e immediati nei rapporti tra privati e pubbliche amministrazioni, ma anche gli atti interni, ovvero quelli che sono destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, o quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequenza procedimentale, anche non conforme allo schema tipico, ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi.
In altri termini, il reato di falso ideologico in atto pubblico è configurabile in relazione a qualsiasi documento che, benché non imposto dalla legge, è compilato da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni per documentare, sia pure nell'ambito interno dell'amministrazione di appartenenza, la regolarità degli adempimenti ai quali è obbligato ovvero circostanze di fatto cadute sotto la sua percezione diretta o, comunque, ricollegabili a tali adempimenti e si inserisce nell' iter procedimentale prodromico all'adozione di un atto finale.

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4.3. - La doglianza sub 2.7. -con cui si contesta l'omessa riqualificazione del reato di falso ai sensi dell'art. 481 cod. pen.- è manifestamente infondata.
Come ben evidenziato dalla Corte d'appello, ai fini della configurazione del reato di falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cod. pen.) costituisce atto pubblico non solo quello destinato ad assolvere alla funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti e immediati nei rapporti tra privati e pubbliche amministrazioni, ma anche gli atti interni, ovvero quelli che sono destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, o quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequenza procedimentale, anche non conforme allo schema tipico, ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi.
In altri termini, il reato di falso ideologico in atto pubblico è configurabile in relazione a qualsiasi documento che, benché non imposto dalla legge, è compilato da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni per documentare, sia pure nell'ambito interno dell'amministrazione di appartenenza, la regolarità degli adempimenti ai quali è obbligato ovvero circostanze di fatto cadute sotto la sua percezione diretta o, comunque, ricollegabili a tali adempimenti e si inserisce nell' iter procedimentale prodromico all'adozione di un atto finale (ex multis, Sez. 5, n. 9368 del 19/11/2013, dep. 26/02/2014, Rv. 258952; Sez. 6, n. 11425 del 20/11/2012, dep. 11/03/2013, Rv. 254866).
Del tutto correttamente, dunque, la Corte distrettuale ha ritenuto sussistente il reato di cui all'art. 479 e non quello di cui all'art. 481 cod. pen. E non meritano considerazione le generiche affermazioni difensive secondo cui la mancanza di una perizia circa la situazione del fabbricato preesistente rende incerta la falsità degli atti oggetto dell'imputazione, in presenza -come visto- di ampia e univoca documentazione dalla quale tale situazione emerge con chiarezza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2018 n. 15416).

EDILIZIA PRIVATA: Come emerge dall'art. 338 del regio decreto n. 1265 del 1934 il vincolo cimiteriale produce una inedificabilità assoluta.
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4.4. - La censura sub 2.8., con cui si contesta la ritenuta sussistenza del vincolo cimiteriale, è manifestamente infondata, perché si basa sul presupposto, smentito dagli atti, che l'intervento in oggetto non sia l'edificazione di una nuova costruzione in zona di vincolo cimiteriale, ma un intervento di demolizione e ricostruzione di un immobile già esistente.
Le considerazioni svolte della difesa circa l'effettiva distanza dell'immobile e circa l'ampiezza del vincolo cimiteriale risultano, dunque, irrilevanti, perché, come emerge dall'art. 338 del regio decreto n. 1265 del 1934 il vincolo cimiteriale produce una inedificabilità assoluta.
E risulta pacifico che l'edificio si trovasse a una distanza dal cimitero di molto inferiore ai 100 metri e fosse, dunque, sottoposto a tale vincolo (pagg. 23 e 24 della sentenza impugnata)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2018 n. 15416).

EDILIZIA PRIVATA: Risulta manifestamente infondata, in punto di diritto, l'affermazione difensiva secondo cui la realizzazione di piani interrati non costituirebbe nuova costruzione.
È sufficiente richiamare, sul punto, la costante giurisprudenza della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato la quale qualifica come nuova costruzione tali interventi e richiede per gli stessi, in via generale, il permesso di costruire.

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4.5. - I motivi sub 2.9., 2.10., 2.11. -che possono essere trattati congiuntamente perché attengono a supposti problemi idrogeologici che avrebbero giustificato lo spostamento dell'area di sedime e la realizzazione di piani interrati- sono formulati in modo non specifico e, comunque, manifestamenti infondati.
Si tratta, ancora una volta, di una mera prospettazione difensiva diretta ad attribuire veridicità ad accertamenti tecnici sostanzialmente provenienti dagli imputati e di portata del tutto generica. Infatti i ricorrenti non spiegano in modo sufficientemente chiaro quale sarebbe il rapporto di causalità fra tali problemi idrogeologici, lo spostamento dell'area di sedime e la realizzazione di piani interrati. In ogni caso, la presenza di tali problemi, anche se accertata, non autorizza a ritenere quale ristrutturazione una costruzione del tutto nuova e del tutto priva di corrispondenza rispetto a quanto già esistente.
Né risulta plausibile, sul piano logico ancor prima che sul piano giuridico, che la situazione idrogeologica richieda un ampliamento anziché una riduzione della superficie e del volume edificato. Più in generale, risulta manifestamente infondata, in punto di diritto, l'affermazione difensiva secondo cui la realizzazione di piani interrati non costituirebbe nuova costruzione.
È sufficiente richiamare, sul punto, la costante giurisprudenza della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato la quale qualifica come nuova costruzione tali interventi e richiede per gli stessi, in via generale, il permesso di costruire (ex multis, Cass., Sez. 3, n. 28840 del 09/07/2008, Rv. 240836; Sez. 3, n. 24464 del 10/05/2007, Rv. 236885; Consiglio di Stato, Sez. 4, del 21/07/2010, n. 4801)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2018 n. 15416).

EDILIZIA PRIVATA: Se è vero che l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. dalla legge n. 98 del 2013), consente di qualificare come "ristrutturazione edilizia", l'intervento di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, anche in caso di modifica della sagoma degli stessi, e del pari vero che è necessario che sia accertata la preesistente consistenza dell'immobile, intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili.
Con la conseguenza che la mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che la citata disposizione richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire.
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4.9. - Priva di specificità e, comunque, ripetitiva di una doglianza già motivatamente rigettata dalla Corte d'appello è la censura sub 2.15.
Essa si riferisce al verbale redatto in contraddittorio l'08.11.2005, in cui il precedente fabbricato viene descritto soltanto in larghezza e lunghezza, senza volumi, altezza e vani interrati. La difesa si limita, però, ad affermare che tale verbale non è stato redatto in contraddittorio con la ditta S.P.M.I., perché questa ha acquistato l'immobile in un momento successivo e a formulare generiche considerazioni circa l'erroneità dei dati di larghezza e lunghezza presi in considerazione dal giudice.
Valgono sul punto, dunque, le considerazioni già svolte sub 4.1., trovando applicazione il principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, se è vero che l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. dalla legge n. 98 del 2013), consente di qualificare come "ristrutturazione edilizia", l'intervento di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, anche in caso di modifica della sagoma degli stessi, e del pari vero che è necessario che sia accertata la preesistente consistenza dell'immobile, intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili (Sez. 3, n. 5912 del 22/01/2014, Rv. 258597); con la conseguenza che la mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che la citata disposizione richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire (Sez. 3, n. 45147 del 08/10/2015, Rv. 265444)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2018 n. 15416).

PUBBLICO IMPIEGO: La fattispecie di abuso d'ufficio può essere integrata anche in riferimento ad un atto interno al procedimento amministrativo, non rilevando la circostanza che il provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico ufficiale.
E, in tema, di abuso di ufficio, può integrare la condotta del reato anche la formulazione di un parere consultivo, se espresso contra legem, nel caso in cui il giudice abbia accertato che il provvedimento finale sia stato frutto di accordo tra gli operanti, con la conseguenza che il predetto parere si inserisce nell'iter criminis come elemento diretto ad agevolare la formazione di un atto illegittimo ed in grado di far conseguire un ingiusto vantaggio.
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Inammissibile è il motivo con cui la difesa contesta la motivazione della sentenza impugnata circa il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Come ben evidenziato dalla Corte d'appello, la condotta dell'imputato presenta una rilevante gravità, perché l'assoluta evidenza degli abusi commessi denota una particolare pervicacia oltre a un totale dispregio della funzione pubblica esercitata.
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4.13. - I motivi sub 2.30., 2.33., 3.2. -che possono essere trattati congiuntamente, perché attengono alla sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi del reato di abuso d'ufficio- sono inammissibili, perché meramente ripetitivi di doglianze già motivatamente disattese dalla Corte d'appello.
Sul piano giuridico, deve permettersi che -contrariamente a quanto ritenuto dalle difese- il rilascio, da parte dell'imputato Ce., del parere favorevole è pienamente idoneo a integrare il reato di abuso d'ufficio.
Infatti, la fattispecie di abuso d'ufficio può essere integrata anche in riferimento ad un atto interno al procedimento amministrativo, non rilevando la circostanza che il provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico ufficiale (ex plurimis, Sez. 3, n. 16449 del 13/12/2016, dep. 31/03/2017, Rv. 269820).
E, in tema, di abuso di ufficio, può integrare la condotta del reato anche la formulazione di un parere consultivo, se espresso contra legem, nel caso in cui il giudice abbia accertato che il provvedimento finale sia stato frutto di accordo tra gli operanti, con la conseguenza che il predetto parere si inserisce nell'iter criminis come elemento diretto ad agevolare la formazione di un atto illegittimo ed in grado di far conseguire un ingiusto vantaggio (Sez. 2, n. 5546 del 11/12/2013, dep. 04/02/2014, Rv. 258206).
Quanto, poi, al concorso dei privati nel caso concreto, lo stesso è stato ben delineato nella sentenza impugnata (pagg. 51-52), laddove si fa riferimento all'accordo tra gli imputati che emerge dall'assoluta macroscopicità dell'abuso edilizio, evidenziata dalla stessa linea difensiva degli imputati, che si basa, da un lato, sull'affermata incertezza della effettiva consistenza dell'immobile preesistente e, dall'altro, sulla sostanziale ammissione della non corrispondenza dell'immobile oggetto dell'imputazione anche rispetto alla consistenza dell'immobile preesistente quale prospettata dalla stessa difesa.
Si è trattato, in sintesi, di un'operazione che ha visto la piena partecipazione di tutti i soggetti interessati allo scopo di realizzare un rilevante intervento di nuova costruzione. E tali considerazioni risultano pienamente idonee anche i fini della ritenuta sussistenza del dolo in capo agli imputati.
4.14. - La doglianza sub 3.1. -riferita alla ritenuta sussistenza del dolo del reato di falso in capo a Ce.- è anche essa inammissibile. La difesa nega l'evidenza laddove afferma che il pubblico ufficiale imputato avrebbe sottoscritto la documentazione di cui al capo di imputazione sul presupposto della veridicità della produzione del richiedente, senza considerare l'assoluta insufficienza di tale produzione al fine di accertare l'esistenza dei presupposti per qualificare l'intervento edilizio come di ristrutturazione anziché di nuova costruzione.
E anzi -come già ampiamente evidenziato- la totale difformità tra l'immobile preesistente e quello da realizzare emergeva in modo sufficientemente chiaro dalla documentazione di parte.
4.15. - Analoghe considerazioni valgono in relazione alla sussistenza dell'elemento soggettivo della contravvenzione edilizia, oggetto della doglianza sub 3.3., in presenza dei macroscopici elementi già delineati, che inducono a ritenere l'esistenza di un accordo fra gli imputati per la realizzazione dell'operazione edilizia abusiva.
4.16. - Inammissibile è anche il motivo sub 3.4., con cui la difesa di Ce. contesta la motivazione della sentenza impugnata circa il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Come ben evidenziato dalla Corte d'appello, la condotta dell'imputato presenta una rilevante gravità, perché l'assoluta evidenza degli abusi commessi denota una particolare pervicacia oltre a un totale dispregio della funzione pubblica esercitata; elementi a fronte dei quali l'incensuratezza non può assumere alcun rilievo, visto anche il disposto dell'art. 62-bis, terzo comma, cod. pen.
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2018 n. 15416).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia - Criteri per l'individuazione - Intervento edilizio qualificato come di ristrutturazione anziché di nuova costruzione - Necessità di preventivo permesso di costruire - Art. 30 d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98/2013).
In materia urbanistica, se è vero che l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. dalla legge n. 98 del 2013), consente di qualificare come "ristrutturazione edilizia", l'intervento di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, anche in caso di modifica della sagoma degli stessi, e del pari vero che è necessario che sia accertata la preesistente consistenza dell'immobile, intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili (Sez. 3, n. 5912 del 22/01/2014); con la conseguenza che la mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che la citata disposizione richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire (Sez. 3, n. 45147 del 08/10/2015) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2018 n. 15416 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di piani interrati - Permesso di costruire - Necessità - Art. 44, c. 1, lett. e), d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In via generale, la realizzazione di piani interrati costituisce nuova costruzione e richiede il permesso di costruire. Pertanto, è sufficiente richiamare, sul punto, la costante giurisprudenza della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato la quale qualifica come nuova costruzione tali interventi e richiede per gli stessi, in via generale, il permesso di costruire (ex multis, Cass., Sez. 3, n. 28840 del 09/07/2008; Sez. 3, n. 24464 del 10/05/2007; Consiglio di Stato, Sez. 4, del 21/07/2010, n. 4801) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2018 n. 15416 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Abuso d'ufficio in riferimento ad un atto interno al procedimento amministrativo - Formulazione di un parere consultivo espresso contra legem - Fattispecie: Concorso dei privati nell'iter criminis.
La fattispecie di abuso d'ufficio può essere integrata anche in riferimento ad un atto interno al procedimento amministrativo, non rilevando la circostanza che il provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico ufficiale (ex plurimis, Sez. 3, n. 16449 del 13/12/2016, dep. 31/03/2017).
Sicché, in tema, di abuso di ufficio, può integrare la condotta del reato anche la formulazione di un parere consultivo, se espresso contra legem, nel caso in cui il giudice abbia accertato che il provvedimento finale sia stato frutto di accordo tra gli operanti, con la conseguenza che il predetto parere si inserisce nell'iter criminis come elemento diretto ad agevolare la formazione di un atto illegittimo ed in grado di far conseguire un ingiusto vantaggio (Cass. Sez. 2, n. 5546 del 11/12/2013, dep. 04/02/2014).
Fattispecie: concorso dei privati, laddove si fa riferimento all'accordo tra gli imputati che emerge dall'assoluta macroscopicità dell'abuso edilizio, evidenziata dalla stessa linea difensiva degli imputati, che si basa, da un lato, sull'affermata incertezza della effettiva consistenza dell'immobile preesistente e, dall'altro, sulla sostanziale ammissione della non corrispondenza dell'immobile oggetto dell'imputazione anche rispetto alla consistenza dell'immobile preesistente quale prospettata dalla stessa difesa.
Si è trattato, in sintesi, di un'operazione che ha visto la piena partecipazione di tutti i soggetti interessati allo scopo di realizzare un rilevante intervento di nuova costruzione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2018 n. 15416 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cod. pen.) - Rapporti tra privati e pubbliche amministrazioni - Configurabilità in relazione a qualsiasi documento - Funzione attestativa o probatoria esterna o interna - PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO - Atti interni destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo - Complessa sequenza procedimentale - Prodromico all'adozione di un atto finale - Giurisprudenza.
Ai fini della configurazione del reato di falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cod. pen.) costituisce atto pubblico non solo quello destinato ad assolvere alla funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti e immediati nei rapporti tra privati e pubbliche amministrazioni, ma anche gli atti interni, ovvero quelli che sono destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, o quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequenza procedimentale, anche non conforme allo schema tipico, ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi.
In altri termini, il reato di falso ideologico in atto pubblico è configurabile in relazione a qualsiasi documento che, benché non imposto dalla legge, è compilato da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni per documentare, sia pure nell'ambito interno dell'amministrazione di appartenenza, la regolarità degli adempimenti ai quali è obbligato ovvero circostanze di fatto cadute sotto la sua percezione diretta o, comunque, ricollegabili a tali adempimenti e si inserisce nell'iter procedimentale prodromico all'adozione di un atto finale (Cass., Sez. 5, n. 9368 del 19/11/2013, dep. 26/02/2014; Sez. 6, n. 11425 del 20/11/2012, dep. 11/03/2013) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2018 n. 15416 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Domande di sanatoria a fini edilizi (realizzazione di tettoie e sopraelevazione di un muro) - Disciplina antisismica e sicurezza statica degli edifici - Deroga della legislazione regionale alla disciplina nazionale - Esclusione - Competenza esclusiva dello Stato - Giurisprudenza in materia antisismica - Procedimenti autorizzativi - Necessità - Artt. 81, 2° c., 93, 94, 95 del d.P.R. n. 380/2001 - Legge Regione Siciliana, art. 7 n. 26/1986 e art. 35 n. 37/1985 - Art. 117, c. 2°, Cost..
Le condizioni di proponibilità delle domande di sanatoria a fini edilizi, non possono essere interpretate nel senso che operino deroghe alla disciplina antisismica generale e agli obblighi e ai procedimenti autorizzativi da questa previsti. Tali deroghe non emergono, infatti, dal richiamato art. 35 della legge statale n. 47 del 1985 e ss.mm., né possono essere desunte in via interpretativa dalla legislazione regionale, perché questa non può recare previsioni innovative in materia antisismica. In conclusione, la deroga della legislazione regionale alla disciplina nazionale in materia urbanistica non può essere estesa alle previsioni che dispongono precauzioni antisismiche, attenendo tale materia alla sicurezza statica degli edifici, come tale rientrante nella competenza esclusiva dello Stato anche dopo la modifica dell'art. 117, comma secondo, Cost. (Sez. 3, n. 37375 del 20/06/2013; Sez. 3, n. 16182 del 28/02/2013).
Fattispecie: realizzazione di tettoie e sopraelevazione di un muro in zona a rischio sismico senza preventivo avviso alle autorità competenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2018 n. 15414 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deroga alla legislazione nazionale in materia antisismica.
La deroga della legislazione regionale alla disciplina nazionale in materia urbanistica non può essere estesa alle previsioni che dispongono precauzioni antisismiche, attenendo tale materia alla sicurezza statica degli edifici, come tale rientrante nella competenza esclusiva dello Stato anche dopo la modifica dell'art. 117, comma secondo, Cost..
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MASSIMA
Il ricorso è inammissibile.
La difesa non nega la circostanza che la dichiarazione di mancanza di pregiudizio statico sia stata redatta dal consulente tecnico dell'imputato il 14.03.2013, ovvero in epoca ampiamente successiva all'esecuzione delle opere abusive. Quanto alla natura delle opere stesse, si limita, poi, a richiamare genericamente la deposizione testimoniale del suo consulente di parte, secondo cui queste rientrerebbero nell'ambito di applicazione dell'art. 7 della legge reg. n. 26 del 1986. E del pari generiche, perché prive di puntuali riferimenti al compendio istruttorio, risultano le affermazioni difensive cerca la modesta entità delle opere e i materiali utilizzati.
Quanto all'allegazione della dichiarazione di mancanza di pregiudizio statico, deve rilevarsi che la stessa può al più assumere rilievo ai fini della sanatoria edilizia ai sensi della legislazione regionale in materia (leggi della Regione Siciliana n. 26 del 1986, art. 7 e n. 37 del 1985, art. 35).
In particolare, la prima di tali disposizioni prevede la possibilità di allegare alla domanda di condono la certificazione redatta da un tecnico abilitato all'esercizio della professione, attestante l'idoneità statica delle opere eseguite. Prevede altresì, per le opere che costituiscono corpi aggiunti in edifici preesistenti, che tale attestazione sia sostituita dalla dichiarazione di mancanza di pregiudizio determinato dalla nuova costruzione alla struttura preesistente e che essa sostituisca qualsiasi controllo, parere, o approvazione tecnica di uffici statali o regionali, a condizione che l'ampliamento riguardi locali non abitabili di volume inferiore al 10% del volume preesistente o locali abitabili di volume inferiore a 30 m3 e comunque inferiore al 5% del volume preesistente. La seconda delle disposizioni richiamate disciplina anch'essa il procedimento per la presentazione della domanda di sanatoria, richiedendo la presentazione di una certificazione redatta da un tecnico abilitato attestante l'idoneità statica delle opere eseguite.
La legislazione statale (legge n. 47 del 1985, art. 35), cui quella regionale si richiama, prevede, a sua volta, che la certificazione di idoneità sismica da parte di un professionista abilitato sostituisca tutti gli effetti il certificato prescritto dalle disposizioni vigenti in materia sismica. Prevede altresì che tale certificazione debba essere presentata al Comune entro 30 giorni dalla data di ultimazione dell'intervento. La sanatoria è espressamente subordinata, per quanto riguarda il vincolo sismico, al deposito presso l'amministrazione competente sia dell'eventuale progetto di adeguamento prima dell'inizio dei lavori sia della predetta certificazione di idoneità sismica entro 30 giorni dalla data di ultimazione dei lavori stessi.
E, come già evidenziato, la difesa non afferma -neanche in via di mera prospettazione- che il termine di 30 giorni previsto dalla legislazione statale, richiamata dalla legislazione regionale di settore, sia stato rispettato nel caso di specie; con la conseguenza che non emergono elementi sufficienti a far ritenere applicabili nel caso di specie le disposizioni di cui sopra.
Anche a prescindere da tali assorbenti considerazioni,
deve comunque ribadirsi che tali disposizioni riguardano le condizioni di proponibilità delle domande di sanatoria a fini edilizi, con la conseguenza che esse non possono essere interpretate nel senso che operino deroghe alla disciplina antisismica generale e agli obblighi e ai procedimenti autorizzativi da questa previsti.
Tali deroghe non emergono, infatti, dal richiamato art. 35 della legge statale n. 47 del 1985, né possono essere desunte in via interpretativa dalla legislazione regionale, perché questa non può recare previsioni innovative in materia antisismica
, come chiarito dalla costante giurisprudenza di questa Corte.
Si è affermato, sul punto, che
la deroga della legislazione regionale alla disciplina nazionale in materia urbanistica non può essere estesa alle previsioni che dispongono precauzioni antisismiche, attenendo tale materia alla sicurezza statica degli edifici, come tale rientrante nella competenza esclusiva dello Stato anche dopo la modifica dell'art. 117, comma secondo, Cost. (Sez. 3, n. 37375 del 20/06/2013, Rv. 257594; Sez. 3, n. 16182 del 28/02/2013, Rv. 255254) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2018 n. 15414).

APPALTIFuori gara tutte le partecipate dell’ente che lancia l’appalto. Tar Campania. Lettura estensiva sui conflitti d’interesse.
Le partecipate dirette e indirette degli enti locali non possono partecipare a gare indette dalle amministrazioni socie perché si trovano in conflitto di interesse.

Il Tar Campania–Salerno, ha affermato questo innovativo principio nella sentenza 06.04.2018 n. 524, analizzando il caso di un appalto indetto da un Comune per l’installazione di luci in cui è risultata affidataria (in Rti con altri operatori) una partecipata indiretta dallo stesso ente.
I giudici rilevano la sussistenza delle condizioni delineate dall’articolo 42 del Codice appalti, che al comma 2 stabilisce che si ha conflitto d’interesse quando il personale di una stazione appaltante o di un prestatore di servizi che interviene nell’aggiudicazione degli appalti e delle concessioni o può influenzarne il risultato, ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità.
In questo quadro normativo assumono rilevanza tutte le ipotesi di contaminazione della posizione dei dipendenti, o di coloro che in base a un qualunque titolo giuridico siano in grado di impegnare l’amministrazione nei confronti dei terzi, o di coloro che comunque rivestano (di fatto o di diritto) un ruolo tale da poter influenzare l’attività esterna della stazione appaltante (o degli organi di amministrazione e controllo).
È quindi necessario che le cautele previste dalla norma e sintetizzate nell’obbligo di astensione siano poste in atto ogni qualvolta un conflitto di interessi tale da mettere in pericolo la concorrenzialità della procedura e l’imparzialità dell’azione amministrativa sia rilevabile immediatamente in capo alla stazione appaltante.
I giudici rilevano che questa situazione ricorre quando la stazione appaltante abbia collegamenti societari con un concorrente. Questi elementi sono rilevabili nella partecipazione (diretta o indiretta) alla società che partecipa alla gara, e nella capacità dell’ente di influenzare le decisioni strategiche dell’azienda con direttive agli amministratori.
Quando sono rilevabili questi elementi c’è una cointeressenza di fatto, che deve essere dichiarata dalla partecipata concorrente e che comunque attiva la causa di esclusione prevista dall’articolo 80, comma 5, lettera d), del Codice.
In tal caso, tra il Comune appaltante e la partecipata concorrente c’è una relazione che determina l’esclusione dalla gara, perché non si può escludere il rischio di distorsioni nell’azione amministrativa e nei poteri esercitati.
Il Tar precisa che sotto questo profilo non rileva l’articolo 2325 del Codice civile, in quanto questa norma attiene al dato formale dell’autonomia patrimoniale delle società, ma non ha nulla a che vedere con il profilo sostanziale del possibile difetto di imparzialità dell’amministrazione nella duplice veste di socio (anche di minoranza) della concorrente e di stazione appaltante.
In termini operativi, la sentenza ha riflessi sulle gare per servizi pubblici (nelle quali la stazione appaltante dovrà avere ruolo terzo, come gli enti di governo degli Ato nei servizi a rete) e sui numerosi affidamenti di attività strumentali, effettuati dagli enti locali al di fuori del modello in house e in base alle regole del Codice dei contratti pubblici (articolo Il Sole 24 Ore 16.04.2018).
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MASSIMA
Ciò premesso, con motivo assorbente, la ricorrente si duole della violazione dell’art. 42, d.lgs. n. 50/2016, il quale prevede che: «1. Le stazioni appaltanti prevedono misure adeguate per contrastare le frodi e la corruzione nonché per individuare, prevenire e risolvere in modo efficace ogni ipotesi di conflitto di interesse nello svolgimento delle procedure di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni, in modo da evitare qualsiasi distorsione della concorrenza e garantire la parità di trattamento di tutti gli operatori economici.
2. Si ha conflitto d’interesse quando il personale di una stazione appaltante o di un prestatore di servizi che, anche per conto della stazione appaltante, interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni o può influenzarne, in qualsiasi modo, il risultato, ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura di appalto o di concessione. In particolare, costituiscono situazione di conflitto di interesse quelle che determinano l’obbligo di astensione previste dall’articolo 7 del decreto del Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62 …
».
Quanto alle conseguenze della sussistenza del conflitto di interessi così declinato, il successivo art. 80, co. 5, stabilisce che: «Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all’articolo 105, comma 6, qualora: … d) la partecipazione dell’operatore economico determini una situazione di conflitto di interesse ai sensi dell’articolo 42, comma 2, non diversamente risolvibile; …».
Le richiamate disposizioni del codice attuano l’art. 24, direttiva 2014/24/UE, secondo cui: «Gli Stati membri provvedono affinché le Amministrazioni aggiudicatrici adottino misure adeguate per prevenire, individuare e porre rimedio in modo efficace a conflitti di interesse nello svolgimento delle procedure di aggiudicazione degli appalti in modo da evitare qualsiasi distorsione della concorrenza e garantire la parità di trattamento di tutti gli operatori economici.
Il concetto di conflitti di interesse copre almeno i casi in cui il personale di un’Amministrazione aggiudicatrice o di un prestatore di servizi che per conto dell’amministrazione aggiudicatrice interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione degli appalti o può influenzare il risultato di tale procedura ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura di appalto
».
Si tratta di una norma di portata estremamente ampia e atipica, destinata a colorarsi in funzione della finalità di tutela della concorrenza e della imparzialità, sicché sulla nozione di “conflitto di interessi” disegnata dal nuovo codice dei contratti pubblici il Consiglio di Stato ha affermato che: «
l’art. 24 della direttiva 2014/24/UE (cui il predetto art. 42, comma 2 del d.lgs. n. 50 del 2016 dà attuazione), non sembra dettare una disciplina univoca del “conflitto di interesse”, ma indica solamente una soglia minima di contenuto e tutela …
La fattispecie descritta dall’art. 42, comma 2, del d.lgs. 50 del 2016 ha portata generale, come emerge dall’uso della locuzione “in particolare”, riferita alla casistica di cui al richiamato art. 7 d.P.R. n. 62 del 2013, avente dunque mero carattere esemplificativo.
Ritiene il Collegio -considerate anche le finalità generali di presidio della trasparenza e dell’imparzialità dell’azione amministrativa- che bene il primo giudice abbia ritenuto che l’espressione “personale” di cui alla norma in questione vada riferita non solo ai dipendenti in senso stretto (ossia, i lavoratori subordinati) dei soggetti giuridici ivi richiamati, ma anche a quanti, in base ad un valido titolo giuridico (legislativo o contrattuale), siano in grado di validamente impegnare, nei confronti dei terzi, i propri danti causa o comunque rivestano, di fatto o di diritto, un ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare l’attività esterna.
Diversamente, si entrerebbe nella contraddizione di escludere dalla portata della norma -dalla manifesta funzione preventiva- proprio quei soggetti che più di altri sono in grado di condizionare l’operato dei vari operatori del settore (pubblici e privati) e dunque si darebbe vita a situazioni di conflitto che la norma vuol prevenire, ossia i componenti degli organi di amministrazione e controllo.
Invero, se la norma sul conflitto di interessi si applica sicuramente ai dipendenti “operativi”, a maggior ragione andrà applicata anche agli organi ed uffici direttivi e di vertice (nonché ai dirigenti e amministratori pubblici), come si evince proprio dal richiamo all’art. 7 del d.P.R. n. 62 del 2013, per indicare le ampie categorie di soggetti cui fare riferimento …
Seppur sia riferito al previgente sistema normativo in materia di contratti pubblici, costituito dal d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e dal d.P.R. 10.12.2010, n. 207, dove non vi era una specifica disciplina del conflitto di interessi, il Collegio ritiene di poter fare applicazione, in quanto non contraddetto dalla disciplina attualmente vigente, del costante orientamento giurisprudenzial
e (ex multis, Cons. Stato, V, 19.09.2006, n. 5444) per cui “le situazioni di conflitto di interessi, nell’ambito dell’ordinamento pubblicistico non sono tassative, ma possono essere rinvenute volta per volta, in relazione alla violazione dei principi di imparzialità e buon andamento sanciti dall’art. 97 Cost., quando esistano contrasto ed incompatibilità, anche solo potenziali, fra il soggetto e le funzioni che gli vengono attribuite”.
Per l’effetto, al di là delle singole disposizioni normative, ogni situazione che determini un contrasto, anche solo potenziale, tra il soggetto e le funzioni attribuitegli, deve comunque ritenersi rilevante a tal fine: invero, secondo consolidata giurisprudenza, “ogni Pubblica Amministrazione deve conformare la propria immagine, prima ancora che la propria azione, al principio generale di imparzialità e di trasparenza ex art. 97 Cost.
(Cons. Stato, sez. IV, 07.10.1998, n. 1291; Cons. Giust. Amm. Sic., sez. giur., 26.04.1996, n. 83; Cons. Stato, sez. IV, 25.09.1995, n. 775), tanto che le regole sull’incompatibilità, oltre ad assicurare l’imparzialità dell’azione amministrativa, sono rivolte ad assicurare il prestigio della Pubblica Amministrazione ponendola al di sopra di ogni sospetto, indipendentemente dal fatto che la situazione incompatibile abbia in concreto creato o non un risultato illegittimo (Cons. Stato, sez. VI, 13.02.2004, n. 563)”.
Ritiene il Collegio che in quest’ottica si collochi, senza soluzione di continuità, il principio adesso normativamente espresso dall’art. 42, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016.
In effetti, le ipotesi ivi previste (in termini generali ed astratti) si riferiscono a situazioni in grado di compromettere, anche solo potenzialmente, l’imparzialità richiesta nell’esercizio del potere decisionale. Si verificano quando il “dipendente” pubblico (ad esempio, il Rup ed i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali ed il provvedimento finale, esecuzione contratto e collaudi) ovvero colui (anche un soggetto privato) che sia chiamato a svolgere una funzione strumentale alla conduzione della gara d’appalto, è portatore di interessi della propria o dell’altrui sfera privata, che potrebbero influenzare negativamente l’esercizio imparziale ed obiettivo delle sue funzioni.
La definizione normativa, del resto, appare coerente con lo ius receptum per cui le regole sull’incompatibilità, oltre ad assicurare l’imparzialità dell’azione amministrativa, sono rivolte ad assicurare il prestigio della pubblica amministrazione, ponendola al di sopra di ogni sospetto, indipendentemente dal fatto che la situazione incompatibile abbia in concreto creato o meno un risultato illegittimo
(Cons. Stato, VI, 13.02.2004, n. 563) … la nozione di “conflitto di interesse” delineata all’art. 24 della direttiva 2014/24/UE (che, come già anticipato, prevede solamente un livello minimo ed essenziale di tutela, lasciando agli Stati membri la possibilità di predisporre forme più anticipate ed estese di protezione) ha … una portata più indiretta ed ipotetica, essendo integrata allorché il soggetto interveniente -su cui si discute- può già solo “influenzare il risultato di tale procedura o ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità”
» (sez. V, sent. n. 3415/2017).
Ancora, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato che «
un conflitto d’interessi comporta il rischio che l’amministrazione aggiudicatrice pubblica si lasci guidare da considerazioni estranee all’appalto in oggetto e che sia accordata una preferenza a un offerente unicamente per tale motivo. Un conflitto d’interessi del genere è pertanto idoneo a costituire una violazione dell’articolo 2 della direttiva 2004/18 [ora art. 18, Direttiva 2014/24/UE] … Per quanto riguarda il regime probatorio a tale riguardo, si deve rilevare che, conformemente all’articolo 2 della direttiva 2004/18, le Amministrazioni aggiudicatrici devono trattare gli operatori economici su un piano di parità, in modo non discriminatorio e agire con trasparenza. Ne discende che ad esse è attribuito un ruolo attivo nell’applicazione dei menzionati principi di aggiudicazione degli appalti pubblici.
Poiché tale dovere corrisponde all’essenza stessa delle direttive relative alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici
(v. sentenza Michaniki, C-213/07, EU:C:2008:731, punto 45), ne risulta che l’Amministrazione aggiudicatrice è, in ogni caso, tenuta a verificare la sussistenza di eventuali conflitti di interessi e ad adottare le misure adeguate al fine di prevenire, di individuare i conflitti di interesse e di porvi rimedio. Orbene, sarebbe incompatibile con siffatto ruolo attivo far gravare sulla ricorrente l’onere di provare, nell’ambito del procedimento di ricorso, la parzialità concreta degli esperti nominati dall’Amministrazione aggiudicatrice. Una soluzione del genere sarebbe del pari contraria al principio di effettività e al requisito di un ricorso efficace di cui all’articolo 1, paragrafo 1, terzo comma, della direttiva 89/665, tenuto conto della circostanza che, segnatamente, un offerente, di norma, non è in grado di avere accesso a informazioni e a elementi di prova tali da consentirgli di dimostrare una siffatta parzialità.
Quindi, se l’offerente escluso presenta elementi oggettivi che mettono in dubbio l’imparzialità di un esperto dell’Amministrazione aggiudicatrice, spetta a detta Amministrazione aggiudicatrice esaminare tutte le circostanze rilevanti che hanno condotto all’adozione della decisione relativa all’aggiudicazione dell’appalto al fine di prevenire, di individuare i conflitti di interesse e di porvi rimedio, anche, eventualmente, chiedendo alle parti di fornire talune informazioni e elementi probatori … l’articolo 1, paragrafo 1, terzo comma, della direttiva 89/665 e gli articoli 2, 44, paragrafo 1, e 53, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2004/18, devono essere interpretati nel senso che non ostano, in linea di principio, a che l’illegittimità della valutazione delle offerte degli offerenti sia constatata sulla base della sola circostanza che l’aggiudicatario dell’appalto ha avuto legami significativi con esperti nominati dall’Amministrazione aggiudicatrice che hanno valutato le offerte.
L’Amministrazione aggiudicatrice, in ogni caso, è tenuta a verificare la sussistenza di eventuali conflitti di interessi e ad adottare le misure adeguate al fine di prevenire, di individuare i conflitti di interesse e di porvi rimedio. Nell’ambito dell’esame di un ricorso diretto all’annullamento della decisione di aggiudicazione a causa della parzialità degli esperti non si può richiedere all’offerente escluso di provare concretamente la parzialità del comportamento degli esperti. Spetta, in via di principio, al diritto nazionale determinare se ed in quale misura le Autorità amministrative e giurisdizionali competenti debbano tenere conto della circostanza che un’eventuale parzialità degli esperti abbia avuto o meno un impatto su una decisione di aggiudicazione dell’appalto …
» (sez. V, sent., 12.02.2015, C538/13, cit.)
Sono, dunque, le dichiarate finalità della norma che mira a sterilizzare le ipotesi di conflitto di interesse -i.e. a evitare il pericolo di distorsioni della concorrenza e/o di violazioni della parità di trattamento di tutti gli operatori economici- a riempire di significato la nozione stessa.
Sicché se acquistano rilevanza tutte le ipotesi di “contaminazione” della posizione dei dipendenti, o di coloro che in base a un qualunque titolo giuridico (di fonte normativa o contrattuale) siano in grado di impegnare validamente l’Amministrazione nei confronti dei terzi, o di coloro che comunque rivestano (di fatto o di diritto) un ruolo tale da poter obiettivamente influenzare l’attività esterna della Stazione appaltante, o dei componenti degli organi di amministrazione e controllo -vale a dire dei soggetti che in qualunque modo contribuiscano a formare la volontà dell’Ente e/o ne siano legittimi portatori, in quanto legati allo stesso da un rapporto di identificazione organica- non vi è modo di negare che le medesime cautele debbano essere poste in atto ogni qualvolta un “conflitto di interessi” tale da mettere in pericolo la perfetta concorrenzialità della procedura e l’imparzialità dell’azione amministrativa si appunti immediatamente in capo al soggetto giuridico che riveste il ruolo di Stazione appaltante.

APPALTI: L’Adunanza plenaria esclude che chi è colpito da informativa antimafia possa ricevere il risarcimento del danno riconosciuto da giudicato formatosi dopo l’informativa.
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Informativa antimafia – Effetti - Incapacità ex lege parziale e temporanea.
  
Informativa antimafia – Contributi e finanziamenti – Elargizione – Art. 67, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 159 del 2011 – Divieto a soggetti ai quali è stata applicata con provvedimento definitivo una misura di prevenzione prevista dal libro I, titolo I, capo II – Estensione del divieto a somme dovute a titolo risarcitorio per effetto di giudicato – Giudicato formatosi dopo l’informativa interdittiva antimafia – Irrilevanza ex se.
  
Il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina una particolare forma di incapacità ex lege, parziale -in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la Pubblica amministrazione- e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto –persona fisica o giuridica– è precluso avere con la Pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall’art. 67, d.lgs. 06.09.2011, n. 159 (1).
  
L’art. 67, comma 1, lett. g), d.lgs. 06.09.2011, n. 159, nella parte in cui prevede il divieto di ottenere, da parte del soggetto colpito dall’interdittiva antimafia, “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”, ricomprende anche l’impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa, riconosciutigli da una sentenza passata in giudicato (2).
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   (1) La questione era stata rimessa all’Adunanza plenaria da Cons. St., sez. V, ord., 28.08.2017, n. 4078.
L’Alto Consesso ha preliminarmente ricostruito la natura e la ratio dell’istituto dell’interdittiva antimafia richiamando la copiosa giurisprudenza della Sezione terza del Consiglio di Stato.
Ha chiarito che l’interdittiva antimafia è provvedimento amministrativo al quale deve essere riconosciuta natura cautelare e preventiva, in un’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost.; costituisce “una misura volta –ad un tempo– alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione" (Cons. St., sez. III, 03.05.2016, n. 1743).
Tale provvedimento, infatti, mira a prevenire tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese, volti a condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica amministrazione e si pone in funzione di tutela sia dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, riconosciuti dall’art. 97 Cost., sia dello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra le stesse imprese nel mercato, sia, infine, del corretto utilizzo delle risorse pubbliche.
L’interdittiva esclude, dunque, che un imprenditore, persona fisica o giuridica, pur dotato di adeguati mezzi economici e di una altrettanto adeguata organizzazione, meriti la fiducia delle istituzioni (sia cioè da queste da considerarsi come “affidabile”) e possa essere, di conseguenza, titolare di rapporti contrattuali con le predette amministrazioni, ovvero destinatario di titoli abilitativi da queste rilasciati, come individuati dalla legge, ovvero ancora (come ricorre nel caso di specie) essere destinatario di “contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”.
Il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina una particolare forma di incapacità giuridica, e dunque la insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che determinino (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica amministrazione (Cons. St. sez. IV, 20.07.2016, n. 3247).
Si tratta di una incapacità giuridica prevista dalla legge a garanzia di valori costituzionalmente garantiti e conseguente all’adozione di un provvedimento adottato all’esito di un procedimento normativamente tipizzato e nei confronti del quale vi è previsione delle indispensabili garanzie di tutela giurisdizionale del soggetto di esso destinatario. Essa è:
   a) parziale, in quanto limitata ai rapporti giuridici con la Pubblica amministrazione, ed anche nei confronti di questa limitatamente a quelli di natura contrattuale, ovvero intercorrenti con esercizio di poteri provvedimentali, e comunque ai precisi casi espressamente indicati dalla legge (art. 67, d.lgs. n. 159 del 2011);
   b) tendenzialmente temporanea, potendo venire meno per il tramite di un successivo provvedimento dell’autorità amministrativa competente (il Prefetto).
   (2) Ha chiarito l'Adunanza plenaria che in relazione al riconosciuto carattere “parziale” dell’incapacità, l’art. 67, d.lgs. 06.09.2011, n. 159 ne circoscrive il “perimetro”, definendo le tipologie di rapporti giuridici in ordine ai quali il soggetto, colpito della misura, non può acquistare o perde la titolarità di posizioni giuridiche soggettive e, dunque, l’esercizio delle facoltà e dei poteri ad esse connessi.
Tutto ciò chiarito, l’Adunanza plenaria ha ritenuto che il cit. art. 67 debba essere inteso nel senso di precludere all’imprenditore (persona fisica o giuridica) la titolarità della posizione soggettiva che lo renderebbe idoneo a ricevere somme dovutegli dalla Pubblica amministrazione a titolo risarcitorio in relazione (come nel caso di specie) ad una vicenda sorta dall’affidamento (o dal mancato affidamento) di un appalto.
Ad avviso dell’Adunanza –anche sulla scorta della propria precedente decisione n. 9 del 2012- l’espressione usata dal legislatore nell’art. 67, d.lgs. n. 159 del 2011 e concernente il divieto di ottenere (o meglio, l’incapacità a poter ottenere) , da parte del soggetto colpito dall’interdittiva antimafia, “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”, ricomprenda anche l’impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa.
Come già affermato dalla richiamata sentenza n. 9 del 2012, “l’ampia clausola di salvaguardia contenuta nella citata prescrizione è idonea a ricomprendervi quelle ... in cui la matrice indennitaria sia più immediatamente percepibile rispetto a quella compensativa sottesa ad ogni altra tipologia di erogazione”. D’altra parte, “non si vede perché nella suddetta ratio dovrebbero rientrare unicamente le erogazioni dirette ad arricchirlo (l’imprenditore colpito da interdittiva) e non anche quelle dirette a parzialmente compensarlo di una perdita subita sussistendo per entrambe il pericolo che l’esborso di matrice pubblicistica giovi ad un’impresa soggetta ad infiltrazioni criminali”.
In sostanza –ed è questa la ratio della norma– il legislatore intende impedire ogni attribuzione patrimoniale da parte della Pubblica amministrazione in favore di tali soggetti, di modo che l’art. 67, comma 1, lett. g), del Codice delle leggi antimafia non può che essere interpretato se non nel senso di riferirsi a qualunque tipo di esborso proveniente dalla P.A..
E tale finalità –in linea con quanto innanzi affermato in ordine agli effetti della interdittiva antimafia– è perseguita dal legislatore per il tramite di una tendenzialmente (temporanea) perdita, per l’imprenditore, della possibilità di essere titolare, nei confronti della Pubblica amministrazione, delle posizioni giuridiche riferite alle ipotesi puntualmente indicate nell’art. 67 cit..
Viceversa, una volta che venga meno l’incapacità determinata dall’interdittiva, quel diritto di credito, riconosciuto dalla sentenza passata in giudicato, “rientra” pienamente nel patrimonio giuridico del soggetto, con tutte le facoltà ed i poteri allo stesso connessi, ivi compresa l’actio iudicati dal quale era temporaneamente uscito, e ciò non in quanto una “causa esterna” (il provvedimento di interdittiva antimafia) ha inciso sul giudicato, ma in quanto il soggetto che è stato da questo identificato come il titolare dei diritti ivi accertati torna ad essere idoneo alla titolarità dei medesimi.
Né la titolarità del diritto ovvero la concreta possibilità di farlo valere, una volta “recuperata” la piena capacità giuridica, potrebbero risultare compromessi, posto che, come è noto, ai sensi dell’art. 2935 c.c. “la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” (Consiglio di Stato, A.P., sentenza 06.04.2018 n. 3 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso di ufficio - Adozione di permessi di costruire in violazione del PRG - Responsabilità del funzionario responsabile dell'Area Urbanistica del Comune - Cambio di destinazione d'uso dell'edificio - Art. 323 cod. pen. Giurisprudenza.
L'adozione di permessi di costruire in violazione delle disposizioni contenute nel piano regolatore integra violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 323 cod. pen. (Cass. Sez. 6, n. 16241 del 02/04/2001 Ud., Ruggeri; Sez. 6, n. 6247 del 14/03/2000, Sisti e a.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.04.2018 n. 15166 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO - URBANISTICA: Opere di edilizia scolastica - Iter amministrativo - Violazione delle Norme Tecniche di Attuazione (N.T.A.) - Piano Regolatore Generale Comunale (P.R.G.C.) - Fattispecie: Cambio di destinazione d'uso dell'edificio - Contrasto con le prescrizioni dello strumento urbanistico - Abuso di ufficio.
In conformità al d.m. 02.04.1968, n. 1444 -che stabilisce i parametri urbanistici inderogabili da osservarsi per l'edificazione nelle zone territoriali omogenee di cui all'art. 41-quinquies, legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica fondamentale), quale introdotto dall'art. 17, legge 06.08.1967, n. 675 (c.d. legge ponte)- il P.R.G.C. può stabilire che gli istituti di istruzione superiore siano collocati in zona F1, vale a dire nella zona territoriale del comune specificamente destinata ad ospitare gli impianti di interesse generale.
Questa previsione è aderente al disposto di cui all'art. 4, sub n. 5, d.m. 1444 del 1968 e rinviene la propria ratio nella circostanza che gli istituti superiori, avendo com'è noto indirizzi diversi, soprattutto in cittadine di non grandissime dimensioni, sono destinati ad essere frequentati da ragazzi che risiedono in differenti zone della città (e spesso in comuni limitrofi), sicché, da un lato, non v'è ragione di collocarli in particolari zone residenziali, servendo essi ad un'utenza vasta e variamente dislocata sul territorio, e, d'altro lato, vi è invece necessità di prevedere adeguate infrastrutture anche per i trasporti.
Sicché, l'ordinamento si fa carico di prevedere speciali e più agili procedure che consentano di risolvere i problemi dell'edilizia scolastica, se del caso derogando alle previsioni del piano regolatore, anche in assenza dell'approvazione di varianti al medesimo, laddove la rigidità delle relative disposizioni si riveli in contrasto con l'interesse pubblico connesso alle scelte legate al settore dell'istruzione.
Difatti, l'art. 10, legge 05.08.1975, n. 412 -richiamato e "stabilizzato", al di là dell'originario contesto che ne aveva visto l'approvazione, dall'art 88, d.lgs. 16.04.1994, n. 297- dopo aver affermato il principio secondo cui le aree necessarie per l'esecuzione delle opere di edilizia scolastica sono prescelte secondo le previsioni degli strumenti urbanistici approvati o adottati, stabilisce che «la individuazione delle aree in zone genericamente destinate dagli strumenti urbanistici a servizi pubblici, ovvero la scelta di aree non conformi, per sopravvenuta inidoneità di quelle già indicate, alle previsioni degli strumenti urbanistici, ovvero la scelta di aree in comuni i cui strumenti urbanistici non contengono la indicazione di aree per edilizia scolastica, ovvero in comuni sprovvisti di ogni strumento urbanistico, sono disposte con deliberazione del consiglio comunale, previo parere di una commissione composta dal provveditore regionale alle opere pubbliche, dall'ingegnere capo dell'ufficio del genio civile, dal provveditore agli studi della provincia, dal medico provinciale, dal sindaco, che la presiede, o da loro delegati [ ... ]. Nel caso di scelta di aree non conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici la deliberazione costituisce, in deroga alle norme vigenti, variante al piano regolatore generale ed agli altri strumenti urbanistici, a norma della legge 17.08.1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.04.2018 n. 15166 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Manufatto destinato a stalla - Natura precaria - Elementi - Obiettive esigenze contingenti e temporanee - Limiti alla sottrazione del permesso di costruire - Artt. 6, 44, lett. b e c, d.P.R. n. 380/2001.
Al fine di ritenere sottratta al preventivo rilascio del permesso di costruire la realizzazione di un manufatto, l'asserita precarietà dello stesso deve ricollegarsi ­a mente di quanto previsto dall'art. 6, comma secondo, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, come emendato dall'art. 5, comma primo, D.L. 25.03.2010, n. 40 (convertito, con modificazioni, nella l. n. 73 del 2010)- alla circostanza che l'opera sia intrinsecamente destinata a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee, e ad essere immediatamente rimossa al venir meno di tale funzione, sicché non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l'agevole rimovibilità, ma le esigenze temporanee alle quali l'opera eventualmente assolva (ex plurimis, Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni; Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, Manfredini, secondo cui al fine di ritenere sottratta al preventivo rilascio del permesso di costruire la realizzazione di un manufatto per la sua asserita natura precaria, la stessa non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo; Sez. 3, n. 22054 del 25/02/20091 Frank) (Corte di Cassazione, Sez. VII penale, ordinanza 05.04.2018 n. 15025 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Abbandono o deposito di rifiuti - Qualifica soggettiva dell'autore della condotta (titolari di impresa o responsabili di enti) - Specifica attività di impresa Artt. 255 e 256 d.lgs. n. 152 del 2006.
Ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 256, comma 2, d.lgs. n, 152 del 2006, è necessaria e sufficiente la qualifica soggettiva dell'autore della condotta, non essendo altresì richiesto che i rifiuti abbandonati derivino dalla specifica attività di impresa (si veda, in motivazione, Sez. 3, n. 47662 del 08/10/2014, Pelizzari, secondo cui il reato in esame può essere commesso dai titolari di impresa o responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato non solo i rifiuti di propria produzione, ma anche quelli di diversa provenienza e ciò in quanto il collegamento tra le fattispecie previste dal primo e dal secondo comma dell'art. 256, comma 2, riguarda il solo trattamento sanzionatorio e non anche la parte precettiva. Nello stesso senso, Sez. 3 n. 35710 del 22.6.2004, Carbone) (Corte di Cassazione, Sez. VII penale, ordinanza 05.04.2018 n. 15025 - link a www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ripetizione del maggior valore indebitamente attribuito ai buoni pasto.
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Pubblico impiego privatizzato – Ripetizione emolumenti non dovuti – Obbligo - Limiti.
  
Pubblico impiego privatizzato – Buoni pasto – Ripetizione maggior valore indebitamente attribuito – Esclusione.
  
L’Amministrazione è tenuta a ripetere le somme indebitamente corrisposte ai pubblici dipendenti; la ripetizione dell’indebito deve essere valutata tenendo conto dell’imputabilità alla sola Amministrazione dell’errore originario, del lungo lasso di tempo tra la data di corresponsione e quella di emanazione del provvedimento di recupero, della tenuità delle somme corrisposte anche in riferimento ai servizi resi, della eventuale complessità della macchina burocratica dalla quale è scaturito l'errore di conteggio (1).
  
L’Amministrazione non può recuperare il maggior valore indebitamente attribuito ai buoni pasto erogati ai propri dipendenti, trattandosi di benefici destinati a soddisfare esigenze di vita primarie e fondamentali dei dipendenti medesimi, di valenza costituzionale, a fronte dei quali non è configurabile una pretesa restitutoria, per equivalente monetario (2).
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   (1) Cons. St., sez. V, 15.10.2003, n. 6291.
Ha ricordato la Sezione che
   a) l'azione di ripetizione di indebito ha come suo fondamento l'inesistenza dell'obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto o perché è venuto meno successivamente, ad esempio a seguito di annullamento (Cons. St., sez. IV, 03.11.2015, n. 5010);
   b) il recupero delle somme erogate e non dovute costituisce il risultato di attività amministrativa di verifica e di controllo, priva di valenza provvedimentale;
   c) in tali ipotesi l'interesse pubblico è in re ipsa e non richiede specifica motivazione in quanto, a prescindere dal tempo trascorso, l'oggetto del recupero produce di per sé un danno all'Amministrazione, consistente nell'esborso di denaro pubblico senza titolo ed un vantaggio ingiustificato per il dipendente (sulla “autoevidenza” delle ragioni che impongono l’esercizio dell’autotutela, a protezione di interessi sensibili dell’Amministrazione, Cons. St., A.P., 17.10.2017, n. 8);
   d) si tratta, dunque, di un atto dovuto che non lascia all'Amministrazione alcuna discrezionale facoltà di agire e, anzi, configura il mancato recupero delle somme illegittimamente erogate come danno erariale;
   e) il solo temperamento ammesso è costituito dalla regola per cui le modalità di recupero non devono essere eccessivamente onerose, in relazione alle condizioni di vita del debitore;
   f) l'affidamento del pubblico dipendente e la stessa buona fede non sono di ostacolo all'esercizio del potere-dovere di recupero, nel senso che l'Amministrazione non è tenuta a fornire un'ulteriore motivazione sull'elemento soggettivo riconducibile all'interessato (Cons. St., sez. III, 12.09.2013, n. 4519; id., sez. V, 30.09.2013, n. 4849);
   g) rimane recessivo il richiamo ai principi in materia di autotutela amministrativa sotto il profilo della considerazione del tempo trascorso e dell'affidamento maturato in capo agli interessati (Cons. St., sez. III, 10.12.2012, n. 11548; id. 31.05.2013, n. 2986; id. 04.09.2013, n. 4429).
   (2) La Sezione ha richiamato i principi espressi dalla Corte di cassazione (sez. lav., 14.07.2016, n. 14388), secondo cui l'attribuzione dei buoni pasto rappresenta un’agevolazione di carattere assistenziale.
I buoni pasto sono titoli non monetizzabili destinati esclusivamente a esigenze alimentari in sostituzione del servizio mensa e, per tale causale, pacificamente spesi nel periodo di riferimento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.04.2018 n. 2115 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Rimozione dell'autovettura abbandonata in area privata e smaltimento in un centro autorizzato - Inottemperanza a ordinanza del sindaco - Artt. 192 e 255 D.Lgs. n. 152/2006.
Integra il reato di cui all'art. 255, comma 3, in relazione all'art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006 l'inottemperanza all'ordinanza del sindaco con la quale impone la rimozione di un'autovettura abbandonata in area privata e il suo smaltimento mediante un centro autorizzato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.04.2018 n. 14808 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE ECOLOGIA: RIFIUTI - Rottami ferrosi - Applicazione e deroga della disciplina dei rifiuti - Regolamento n. 333/2011/UE - Artt. 184-bis e 256 D.Lgs. n. 152/2006.
I rottami ferrosi, anche a seguito dell'entrata in vigore del regolamento UE del 31.03.2011, n. 333, rientrano nel campo d'applicazione della disciplina dei rifiuti, salvo che gli stessi provengano da un centro autorizzato di gestione e trattamento di rifiuti e presentino caratteristiche rispondenti a quelle previste dai decreti ministeriali sul recupero agevolato di rifiuti pericolosi e non pericolosi, assumendo in tal caso la qualificazione di materia prima secondaria.
Infatti, i predetti materiali non si sottraggono alla qualificazione di rifiuto non rilevando la loro riutilizzazione da parte dei terzi acquirenti, né gli stessi sono classificabili come materie prime secondarie ovvero sottoprodotti, essendosi il detentore disfatto di tali materiali avviandoli alle operazioni di recupero.
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti in assenza del prescritto titolo abilitativo - Attività di raccolta e trasporto in forma ambulante dei rifiuti prodotti da terzi - Deroga ex art. 266, c. 5, d.lgs. n. 152/2006 - Condizioni - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Speciale tenuità ex art. 131-bis cod. pen. - Reato continuato - Esclusione.
La condotta sanzionata dall'art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
La deroga prevista dall'art. 266, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006 per l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114 e, dall'altro, che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio.
Inoltre, il reato continuato, è incompatibile con la speciale tenuità ex art. 131-bis cod. pen in relazione in particolare al parametro normativamente richiesto della non abitualità del comportamento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.04.2018 n. 14806 - link a www.ambientediritto.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Esercizio della professione subordinato per legge all'iscrizione in apposito albo o ad abilitazione - Prestazione d'opera professionale di natura intellettuale - Mancanza d'iscrizione all'albo - Nullità assoluta - TUTELA DEI CONSUMATORI - Rapporto tra professionista non iscritto albo e cliente - Il professionista non iscritto all'albo non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione - Artt. 1418 e 2231 cod. civ..
L'esecuzione di una prestazione d'opera professionale di natura intellettuale effettuata da chi non sia iscritto nell'apposito albo previsto dalla legge dà luogo, ai sensi degli artt. 1418 e 2231 cod. civ., a nullità assoluta del rapporto tra professionista e cliente, privando il contratto di qualsiasi effetto, con la conseguenza che il professionista non iscritto all'albo non ha alcuna azione per il pagamento della retribuzione, sempreché la prestazione espletata dal professionista rientri in quelle attività che sono riservate in via esclusiva a una determinata categoria professionale, essendo l'esercizio della professione subordinato per legge all'iscrizione in apposito albo o ad abilitazione (Cass. n. 6402 del 2011; Cass. n. 14085 del 2010; Cass. n. 8543 del 2009) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 04.04.2018 n. 8234 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'annullamento giurisdizionale del piano per l'edilizia economica e popolare in sede giurisdizionale ha effetti solo fra le parti in causa.
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Processo amministrativo – Azione di annullamento – Accoglimento del ricorso – Effetti – Solo tra le parti – Effetti erga omnes – Limiti - Atti a contenuto normativo, secondari (regolamenti) o amministrativi generali, rivolti a destinatari indeterminati ed indeterminabili a priori.
  
Processo amministrativo – Azione di annullamento – Accoglimento del ricorso – Effetti – Annullamento Piano di edilizia economica e popolare - Effetti solo tra le parti.
  
La decisione di annullamento –che per i limiti soggettivi del giudicato esplica in via ordinaria effetti solo fra le parti in causa– acquista efficacia erga omnes nei casi di atti a contenuto inscindibile, ovvero di atti a contenuto normativo, secondari (regolamenti) o amministrativi generali, rivolti a destinatari indeterminati ed indeterminabili a priori, in relazione ai quali gli effetti dell’annullamento non sono circoscrivibili ai soli ricorrenti, essendosi in presenza di un atto a contenuto generale sostanzialmente e strutturalmente unitario, il quale non può esistere per taluni e non esistere per altri (1).
  
L’annullamento giurisdizionale del Piano di edilizia economica e popolare ha effetti solo fra le parti in causa, non avendo il Piano carattere generale, unitario e inscindibile (2).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che tali principi sono stati da ultimo ribaditi dall’Adunanza Plenaria n. 11 del 2017, la quale -in una fattispecie in cui veniva in rilievo il termine per proporre ricorso e la sua decorrenza e veniva assunta come rilevante la conoscenza dell’accertamento dell’illegittimità- ha affermato che il sopravvenuto annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo non può giovare ai cointeressati che non abbiano tempestivamente proposto il gravame e per i quali, pertanto, si è già verificata una situazione di inoppugnabilità, con conseguente esaurimento del relativo rapporto giuridico, fatta eccezione per l’ipotesi degli atti ad effetti inscindibili.
   (2) Alle stesse conclusione della sez. IV è pervenuta anche la giurisprudenza civile, secondo la quale il soggetto che non ha partecipato al giudizio amministrativo non può avvalersi del giudicato relativo all’annullamento di un piano di zona per l’edilizia economica e popolare al fine di ottenere dal giudice ordinario la cancellazione della trascrizione del decreto di espropriazione e il risarcimento dei danni, in quanto la dichiarazione di pubblica utilità, implicita nell’approvazione del piano di zona, non è un atto collettivo, ma deve essere inquadrato nella categoria degli atti plurimi, caratterizzati dall’efficacia soggettivamente limitata ai destinatari individuabili in relazione alla titolarità delle singole porzioni immobiliari oggetto della potestà ablatoria, con la conseguenza che il suo annullamento non spiega efficacia erga omnes (Cass. civ., sez. I, n. 11920 del 2009; n. 7253 del 2004; n. 2038 del 1996).
La correttezza della scelta di limitare gli effetti soggettivi del giudicato di annullamento del PEEP trova giustificazione anche nella evoluzione giurisprudenziale tendente a limitare l’estensione soggettiva degli effetti del giudicato in riferimento agli strumenti urbanistici in generale.
Da un lato si è affermato che la sentenza che conduce all’annullamento di un atto generale non sempre ha efficacia erga omnes, il che accade facilmente nel caso dell’annullamento di un piano regolatore, in cui l’interesse fatto valere nel ricorso resta circoscritto alle aree individuate o a parti specifiche del territorio comunale, pertinenti alle posizioni dell’istante (Cons. St., sez. IV, n. 7771 del 2003).
Dall’altro, che le prescrizioni contenute in una variante al piano regolatore generale vanno considerate scindibili, ai fini del loro eventuale annullamento in sede giurisdizionale, con la conseguenza che, nel caso in cui il ricorso prospetti vizi relativi solo ad alcune determinazioni, l’annullamento del provvedimento non può essere che parziale, stante il principio generale della specificità dei motivi proponibili nei ricorsi davanti al giudice amministrativo (Cons. St., sez. IV, n. 8146 del 2003).
Ed ancora, si è messo in collegamento tale orientamento con il principio giurisprudenziale, secondo cui sono inammissibili per carenza di interesse le censure concernenti la disciplina urbanistica di aree estranee a quelle di proprietà del ricorrente, giacché le prescrizioni dello strumento urbanistico vanno considerate scindibili ai fini del loro eventuale annullamento in sede giurisdizionale, salva la possibilità di proporre impugnativa allorquando la nuova destinazione urbanistica, pur concernendo un'area non appartenente al ricorrente, incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato dell'area stessa, o comunque su interessi propri e specifici del medesimo esponente (Cons. St., sez. IV, n. 6619 del 2007; id. n. 4977 del 2003)  (
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.04.2018 n. 2097 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALINecessario l'avviso pubblico se il sindaco non garantisce le quote di genere in giunta
È illegittima la nomina della giunta comunale, composta da due soli assessori di sesso maschile, in violazione delle “quote rosa”.

Lo ha affermato il TAR Basilicata con la sentenza 04.04.2018 n. 237.
Il caso
Un’elettrice di un Comune sotto i 3mila abitanti e la Consigliera regionale di parità hanno impugnato il decreto con cui il sindaco ha nominato i due componenti della Giunta, entrambi di sesso maschile. Deducono la violazione del principio della parità di genere e/o della rappresentanza di genere, tutelato dalla Costituzione, dagli articoli 6, comma 3, e 46, comma 2, del Tuel, dall'articolo 1, comma 4, del Dlgs 198/2006 e dall'articolo 1, comma 137, della legge 56/2014, oltre che da norme di diritto internazionale e comunitario.
Contestano anche l’insufficienza delle comunicazioni di indisponibilità a ricoprire la carica di assessore inviate al sindaco dalle consigliere elette, che avevano però accettato altre cariche offerte dal sindaco stesso, e dalla candidata prima dei non eletti, in quanto il primo cittadino avrebbe dovuto ricercare figure femminili anche al di fuori del gruppo che lo aveva sostenuto in campagna elettorale.
I riferimenti normativi
Avendo il Comune in questione una popolazione inferiore a 3mila abitanti, i giudici rilevano la non applicazione del comma 137 della legge 56/2014, riferito alle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nelle quali nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40%. La disciplina è dunque da rinvenire nell'art. 46, comma 2, del Tuel, che impone al sindaco di garantire la presenza di entrambi i sessi nella nomina dei componenti della Giunta.
Questo comporta un impegno di carattere politico che non esclude l'effettiva impossibilità di assicurare la presenza dei due generi, purché –afferma il Tar– venga “adeguatamente provata sia mediante la effettuazione di un'accurata e approfondita istruttoria, sia con una puntuale motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori, che specifichi le ragioni che hanno impedito il rispetto della suddetta normativa in materia di parità di genere nella composizione delle Giunte”.
Le quote rosa
Il sindaco avrebbe dunque dovuto svolgere un'adeguata istruttoria finalizzata a verificare la disponibilità di idonee personalità di sesso femminile nell'ambito di tutti i cittadini residenti o che abbiano un significativo legame col comune, non essendo sufficienti le comunicazioni delle consigliere elette e della candidata prima dei non eletti di rinuncia alla carica di assessore. Né lo sono i provvedimenti con i quali ha conferito loro funzioni inerenti alcune materie, di tutt'altro genere rispetto alle nomine assessorili.
La soluzione –a dir poco singolare– suggerita dai giudici amministrativi è quella di indire un apposito avviso pubblico finalizzato all'acquisizione dell'interesse di donne, appartenenti al partito politico o alla coalizione di partiti che hanno vinto le elezioni comunali, a ricoprire la carica di assessore, le quali condividano il programma della lista capeggiata dal sindaco (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.04.2018).
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MASSIMA
E’ opportuna una premessa normativa.
La Costituzione della Repubblica italiana all’art. 3 sancisce il principio di eguaglianza formale e sostanziale con riferimento al sesso, mentre all’art. 51, comma 1, stabilisce che “tutti i cittadini dell’uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”, precisando che “a tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
Tali principi costituzionali sono stati attuati dalla normativa in materia di composizione delle Giunte degli Enti Locali.
Infatti, il D.Lg.vo n. 267/2000 prevede: all’art. 6, comma 3 (come modificato dall’art. 1 L. n. 215/2012) che “
gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della L. n. 125/1991 e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte”; all’art. 46, comma 2 (come modificato dall’art. 2, comma 1, lett. b, L. n. 215/2012) che “il sindaco e il presidente della provincia nominano, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della giunta”; ed all’art. 47, commi 3 e 4, che “nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti e nelle province gli assessori sono nominati dal sindaco o dal presidente della provincia, anche al di fuori dei componenti del consiglio, fra i cittadini in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere”, e che “nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti lo statuto può prevedere la nomina ad assessore di cittadini non facenti parte del consiglio ed in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere”.
Ciò si verifica nel Comune di Vietri di Potenza, il cui Statuto all’art. 39, comma 6, stabilisce che possono far parte della Giunta anche “cittadini non facenti parte del Consiglio Comunale”.
Poiché, nella specie, il Comune di Vietri di Potenza, ha una popolazione inferiore a 3.000 abitanti, non ricade nella sfera di applicazione dell’art. 1, comma 137, L. n. 56/2014, emanato per colmare la lacuna della precedente normativa, nella parte in cui non precisava la percentuale minima del sesso sottorappresentato, dalla cui applicazione erano sorti contrasti su quale fosse la misura necessaria che garantisse il rispetto dei principi della parità di genere e/o della rappresentanza di genere, che ha stabilito che “nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico”.
Pertanto, la fattispecie in esame risulta disciplinata dal suddetto art. 46, comma 2, D.Lg.vo n. 267/2000, il quale statuisce che,
in attuazione del principio di pari opportunità tra donne e uomini, il Sindaco deve garantire la presenza di entrambi i sessi nella nomina dei componenti della Giunta, tenuto pure conto della circostanza che lo Statuto del Comune di Vietri di Potenza ha utilizzato l’opzione, prevista dall’art. 47, comma 4, D.Lg.vo n. 267/2000, stabilendo all’art. 39, comma 6, che possono far parte della Giunta anche “cittadini non facenti parte del Consiglio Comunale” (sul punto cfr. TAR Brescia Sent. n. 1595 del 26.11.2015; TAR Catanzaro Sez. II Sentenze n. 278 del 12.02.2015 e n. 3 del 09.01.2015).
Al riguardo, va, però, rilevato che secondo la V Sezione del Consiglio di Stato (sentenza n. 406 del 3.2.2016, richiamata dalle ricorrenti),
non può escludersi a priori l’effettiva impossibilità di assicurare nella composizione della Giunta comunale la presenza dei due generi, ma tale impossibilità deve essere adeguatamente provata sia mediante la effettuazione di un’accurata e approfondita istruttoria, sia con una puntuale motivazione del provvedimento sindacale di nomina degli assessori, che specifichi le ragioni che hanno impedito il rispetto della suddetta normativa in materia di parità di genere nella composizione delle Giunte.
Alla luce di tali norme
il Sindaco del Comune di Vietri di Potenza avrebbe dovuto svolgere un’adeguata istruttoria (sul punto cfr. TAR Basilicata Sent. n. 631 del 17.06.2016; TAR Salerno Sez. I Sent. n. 1746 del 12.12.217; TAR Catanzaro Sez. II Sentenze n. 867 del 29.05.2017, n. 651 del 10.04.2015, n. 278 del 12.02.2015 e nn. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 del 09.01.2015; TAR Pescara Sent. n. 357 del 17.11.2016; TAR Napoli Sez. I Sent. n. 2655 del 13.5.2015; TAR Brescia Sent. n. 1595 del 26.11.2015), volta a reperire, per la nomina di Assessori, la disponibilità di idonee personalità di sesso femminile nell’ambito di tutti i cittadini residenti o che abbiano un significativo legame con Vietri di Potenza, come per esempio l’indizione di un apposito avviso pubblico, finalizzato all’acquisizione dell’interesse di donne, appartenenti al partito politico o alla coalizione di partiti che hanno vinto le elezioni comunali, a ricoprire la carica di Assessore, le quali condividano il programma della Lista, capeggiata dal Sindaco (cfr. TAR Veneto Sez. I Sent. n. 282 del 06.03.2015).

EDILIZIA PRIVATA: L'invaso agricolo trasformato in piscina paga dazio.
Chi realizza una piscina naturale sfruttando un'area di raccolta delle acque piovane realizza una trasformazione dello stato dei luoghi che risulta rilevante sotto il profilo urbanistico.
Quindi senza una segnalazione certificata di inizio di attività questa attività risulta illegittima e comporta una sanzione pecuniaria che risulta anche correlata all'aumento del valore dell'immobile
(massima tratta da www.dirittoegiustizia.it).
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3. Con il secondo motivo di gravame, l’appellante ha censurato la ratio decidendi della sentenza impugnata, secondo cui l’impermeabilizzazione dell’invaso naturale e la creazione di un vano protettivo per l’impianto di sollevamento dell’acqua hanno comportato l’incremento del valore dell’immobile.
In realtà, ad avviso dell’appellante, quanto dedotto dal TAR non corrisponderebbe alle effettive condizioni delle opere in esame.
In primo luogo, il terreno in questione corrisponderebbe ad un invaso naturale esistente da tempo immemorabile, nel quale l’acqua piovana già naturalmente si accumulava all’interno. Non corrisponderebbe, poi, al vero che, senza il telo impermeabile, l’acqua non si sarebbe accumulata, il telo, invero, permetterebbe soltanto una maggiore permanenza dell’acqua.
Peraltro, l’appellante non avrebbe modificato la porzione di terreno su cui insiste la “piscina”, né tanto meno avrebbe realizzato opere murarie o di contenimento o di stabilizzazione intorno all’invaso naturale. Sarebbe irrealistico ritenere che fosse stata realizzata una “piscina”, dal momento che l’invaso avrebbe solamente la funzione di recipiente dell’acqua piovana.
Sul punto, il TAR non avrebbe considerato in maniera corretta la preventiva esistenza dell’invaso, oltre al fatto che quest’ultimo conteneva acqua anche prima che fosse apposto il telo impermeabile. Inoltre, non sarebbe stato preso in considerazione il fatto che l’appellante non avrebbe modificato in alcun modo (quindi neppure con opere) il terreno, di conseguenza non si potrebbe parlare di una “piscina”, come intesa dall’art. 37, co. 4, del D.P.R. 380/2001, non avendo l’apposizione del telo precario ed impermeabile modificato l’aspetto, la funzione ed il valore dell’immobile, ovvero le condizioni del terreno.
Nemmeno per quanto riguarda il piccolo manufatto presente in prossimità dell’invaso naturale, poi, potrebbe ritenersi che questo abbia portato ad un incremento del valore dell’immobile. Oltretutto, l’impianto -a protezione del quale il manufatto è stato eretto- non sarebbe mai stato utilizzato. La stessa asserzione del giudice di prime cure secondo cui l’impianto avrebbe richiesto maggiori interventi di manutenzione senza il vano protettivo non potrebbe essere condivisa, dal momento che non esisterebbe alcuna connessione tra la maggiore manutenzione dell’impianto ed il valore del bene. La consistenza del manufatto come la sua mancata utilizzazione e la presunta inferiore manutenzione sarebbero in ogni caso talmente modeste ed irrilevanti da far ritenere impossibile qualsiasi aumento del valore.
Per tutto quanto esposto, sarebbe evidente che le opere di cui si tratta non potrebbero essere considerate illegittime, per cui la sanzione dovrebbe essere annullata e, in ogni caso, il valore dell’immobile non potrebbe ritenersi aumentato, per cui si dovrebbe applicare la sanzione minima prevista per legge e, comunque, l’importo della sanzione dovrebbe essere ridotto.
4. L’articolato motivo di gravame non risulta fondato.
In primo luogo, va respinta la tesi dell’appellante, secondo la quale l’Amministrazione ed il TAR avrebbero disconosciuto le vere caratteristiche delle opere, non potendosi parlare, nella specie, di una “piscina”.
Nella relazione integrativa del 22.05.2012 dell’Agenzia del Territorio, si legge, infatti, che “le opere in oggetto consistono nella sistemazione di una piscina naturale senza opere murarie, ma con la posa di un telo in polietilene impermeabilizzante su un invaso preesistente” ed anche nella sentenza impugnata si dà atto che l’Amministrazione non ha travisato in alcun modo l’effettiva natura ed entità degli abusi contestati, poiché ha calcolato l’incremento del valore del bene non avendo riguardo alla creazione (ex novo), ma valutando le sole opere che hanno determinato la sua trasformazione attraverso l’impermeabilizzazione di fondo e pareti.
Il fatto che l’invaso così creato venga definito “piscina naturale” e non “invaso per la raccolta delle acque piovane” risulta irrilevante, in quanto la diversa denominazione non muta la consistenza e le caratteristiche delle opere, che sono state correttamente apprezzate sia dall’Amministrazione che dal TAR.
Nella specie, poi, non può nemmeno essere messo in dubbio che l’impermeabilizzazione del fondo e delle pareti dell’invaso aumenti in maniera considerevole le capacità dell’invaso di trattenere l’acqua, per cui è ininfluente che l’invaso fosse preesistente.
L’opera, così come apprezzata dall’Amministrazione e dal TAR, ha comportato, anche in assenza di opere murarie, la trasformazione dell’aspetto e della funzione dell’invaso naturale, come tale necessitante di un titolo abilitativo ex art. 37, D.P.R. n. 380/2001.
Lo stesso discorso vale, poi, per il vano protettivo della pompa idraulica, in assenza del quale, effettivamente l’impianto sarebbe rimasto esposto alle intemperie, richiedendo quindi interventi manutentivi più frequenti ed onerosi.
Anche in questo caso ci si trova di fronte ad un intervento di trasformazione dello stato dei luoghi, rilevante sotto il profilo della normativa edilizia, e che l’opera avrebbe quindi necessitato di una previa segnalazione certificata di inizio attività (SCIA).
Accertata l’illegittimità delle opere oggetto di causa, il Collegio ritiene, poi, altresì, che le opere, nel loro complesso, per quanto modeste, abbiano comunque comportato in ogni caso un aumento del valore dell’immobile, dal momento che attraverso le stesse l’interessato ha a disposizione un efficace impianto per la gestione delle acque piovane ed il fondo circostante può essere considerato conseguentemente senz’altro in termini di terreno irriguo, avente un valore maggiore della stessa tipologia di terreno che non gode di tale beneficio, considerate la possibilità di praticare colture più redditizie, grazie alla maggiore disponibilità di acqua.
Per quanto riguarda il quantum della sanzione, il Collegio ritiene che l’importo sia stato determinato correttamente, avendo l’Agenzia del Territorio valutato in maniera coerente la miglioria conseguita alle opere nel loro complesso, consistente nell’opportunità di avere a disposizione un impianto di gestione delle acque piovane per vari utilizzi a beneficio del fondo circostante, per cui ha ben potuto prendere in considerazione la differenza di valore tra un seminativo arborato e un seminativo arborato irriguo.
5. Conclusivamente, l’appello va respinto e la sentenza impugnata va confermata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.04.2018 n. 2064 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’omissione della comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento non risulta idonea ad incidere sulla legittimità del provvedimento finale, risolvendosi piuttosto in una mera irregolarità priva di carattere viziante, alla cui mancanza si supplisce con l’individuazione ex lege del responsabile del procedimento, che si identifica con il funzionario preposto alla competente unità organizzativa.
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Quanto alla eccepita violazione dei termini di cui all’art. 38, comma 5, della l.R. Lombardia n. 12/2005, ossia al superamento dei quindici giorni dalla presentazione della domanda per richiedere integrazioni istruttorie, ne va evidenziata l’infondatezza, in ragione della natura ordinatoria dei termini procedimentali sia intermedi che finali, in assenza di una specifica qualificazione degli stessi come perentori.
Ciò appare in linea con la consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, secondo la quale la violazione dei termini che scandiscono lo svolgimento di un procedimento amministrativo non determina “l’illegittimità dell’atto tardivo –salvo che il termine sia qualificato perentorio dalla legge–, trattandosi di una regola di comportamento e non di validità. L’art. 2-bis della legge sul procedimento, infatti, correla all’inosservanza del termine (…) conseguenze significative sul piano della responsabilità dell’Amministrazione, ma non include, tra le conseguenze giuridiche del ritardo, profili afferenti la stessa legittimità dell’atto tardivamente adottato. Il ritardo, in definitiva, non è quindi un vizio in sé dell’atto ma è un presupposto che può determinare, in concorso con altre condizioni, una possibile forma di responsabilità risarcitoria dell’Amministrazione”.
Inoltre, secondo l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, le violazioni procedimentali non determinano l’annullamento dell’atto finale qualora –come verrà dimostrato in prosieguo– lo stesso non poteva avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato.
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1. Il ricorso non è meritevole di accoglimento.
2. Con la prima censura si assume l’illegittimità del diniego di permesso di costruire per mancata comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento e per la richiesta, peraltro tardiva, di una integrazione istruttoria affatto necessaria e del tutto strumentale, essendo gli Uffici comunali in possesso della documentazione utile per determinarsi sull’istanza della ricorrente.
2.1. La doglianza è infondata.
Il comma 2 dell’art. 38 della legge regionale n. 12 del 2005 prevede che lo Sportello unico comunichi entro dieci giorni al richiedente il permesso di costruire il nominativo del responsabile del procedimento, ai sensi degli articoli 4 e 5 della legge 07.08.1990, n. 241; l’art. 5, comma 2, della legge n. 241 del 1990, a sua volta, stabilisce che fino a quando non sia effettuata l’assegnazione della responsabilità dell’istruttoria, è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto all’unità organizzativa competente.
Dal combinato disposto delle norme sopra individuate emerge che l’omissione della comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento non risulta idonea ad incidere sulla legittimità del provvedimento finale, risolvendosi piuttosto in una mera irregolarità priva di carattere viziante, alla cui mancanza si supplisce con l’individuazione ex lege del responsabile del procedimento, che si identifica con il funzionario preposto alla competente unità organizzativa (da ultimo, TAR Campania, Napoli, II, 27.02.2017, n. 1145).
2.2. Quanto alla eccepita violazione dei termini di cui all’art. 38, comma 5, della legge regionale n. 12 del 2005, ossia al superamento dei quindici giorni dalla presentazione della domanda per richiedere integrazioni istruttorie, ne va evidenziata l’infondatezza, in ragione della natura ordinatoria dei termini procedimentali sia intermedi che finali, in assenza di una specifica qualificazione degli stessi come perentori.
Ciò appare in linea con la consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio, secondo la quale la violazione dei termini che scandiscono lo svolgimento di un procedimento amministrativo non determina “l’illegittimità dell’atto tardivo –salvo che il termine sia qualificato perentorio dalla legge–, trattandosi di una regola di comportamento e non di validità. L’art. 2-bis della legge sul procedimento, infatti, correla all’inosservanza del termine (…) conseguenze significative sul piano della responsabilità dell’Amministrazione, ma non include, tra le conseguenze giuridiche del ritardo, profili afferenti la stessa legittimità dell’atto tardivamente adottato. Il ritardo, in definitiva, non è quindi un vizio in sé dell’atto ma è un presupposto che può determinare, in concorso con altre condizioni, una possibile forma di responsabilità risarcitoria dell’Amministrazione” (Consiglio di Stato, VI, 09.03.2018, n. 1519; in precedenza, V, 11.10.2013, n. 4980).
Inoltre, secondo l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, le violazioni procedimentali non determinano l’annullamento dell’atto finale qualora –come verrà dimostrato in prosieguo– lo stesso non poteva avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato (cfr. Consiglio di Stato, V, 21.06.2013, n. 3402; TAR Lombardia, Milano, II, 20.12.2017, n. 2410) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.04.2018 n. 882 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lo strumento urbanistico, proprio per le sue caratteristiche di strumento di pianificazione e delle sua possibilità di utilizzo, nel disporre le future conformazioni del territorio, considera le sole “aree libere”, tali dovendosi ritenere quelle “disponibili” al momento della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale (cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti), valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di edificazione, in quanto non ostacolata da presenze materiali, e non già come un bene da conformare per il migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso vivono ed operano.
Quanto sin qui esposto, comporta che l’eventuale modificazione del piano regolatore, che prevede nuovi e più favorevoli indici di fabbricazione, non può che interessare, nell’ambito della zona del territorio considerata dallo strumento urbanistico, se non le sole aree libere, nel senso sopra precisato, con esclusione, quindi, di tutte le aree comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le stesse si presentino “fisicamente” libere da immobili.

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3. Con la seconda censura si assume l’illegittimità del diniego di permesso di costruire, in quanto il vigente strumento urbanistico attribuirebbe all’area interessata dall’intervento edilizio, qualificata come lotto libero, un proprio indice edificatorio privo di limiti e vincoli, peraltro nemmeno risultanti da atti formali.
3.1. La doglianza è infondata.
Il compendio immobiliare cui si riferisce la richiesta di permesso di costruire della società ricorrente è stato in passato interessato da alcuni interventi edilizi che ne hanno saturato la volumetria, come sottolineato anche dalla sentenza n. 844 del 21.06.1995 di questa Sezione.
Infatti, nei primi anni sessanta veniva realizzato un edificio residenziale di sette piani, oggetto di successivi ampliamenti con varianti, e nel 1989 veniva realizzato un nuovo edificio residenziale (cfr. all. 3 e 4 del Comune); il titolo edilizio relativo a tale secondo manufatto –pratica edilizia n. 183/1989– è stato annullato in autotutela dal Comune con il provvedimento prot. n. 21246 del 06.10.1992 (all. 5 del Comune), in ragione dell’attribuzione di volumetria in misura superiore a quella ancora disponibile: con la citata sentenza n. 844 del 1995, questa Sezione ha in effetti riconosciuto l’avvenuta realizzazione sul lotto di un intervento edilizio avente una volumetria superiore a quella disponibile, in quanto una buona parte della stessa risultava essere già stata sfruttata in occasione delle pregresse attività edilizie (il titolo edilizio tuttavia è stato confermato dal Tribunale per altre ragioni, disponendosi l’annullamento dell’atto di autotutela comunale).
Il Comune ha correttamente ritenuto che, anche sulla scorta della conclusioni contenute nella citata sentenza, attualmente, il compendio non disponga di alcuna volumetria residua tale da consentire la realizzazione di quanto prospettato dalla parte ricorrente.
3.2. Non appare idonea ad infirmare la conclusione raggiunta dagli Uffici comunali la circostanza, evidenziata dalla difesa attorea, secondo cui le previsioni contenute nel P.G.T. vigente avrebbero, in ragione del loro carattere novativo, attribuito al lotto una nuova ed autonoma capacità edificatoria; difatti, secondo la più recente giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ‘lo strumento urbanistico, proprio per le sue caratteristiche di strumento di pianificazione e delle sua possibilità di utilizzo, nel disporre le future conformazioni del territorio, considera le sole “aree libere”, tali dovendosi ritenere quelle “disponibili” al momento della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale (cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti), valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di edificazione, in quanto non ostacolata da presenze materiali, e non già come un bene da conformare per il migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso vivono ed operano.
Quanto sin qui esposto, comporta che l’eventuale modificazione del piano regolatore, che prevede nuovi e più favorevoli indici di fabbricazione, non può che interessare, nell’ambito della zona del territorio considerata dallo strumento urbanistico, se non le sole aree libere, nel senso sopra precisato, con esclusione, quindi, di tutte le aree comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le stesse si presentino “fisicamente” libere da immobili
’ (Consiglio di Stato, IV, 22.11.2017, n. 5419).
3.3. Nemmeno appare rilevante la mancanza di un formale atto di asservimento dell’area interessata dal progettato intervento edilizio ad altre aree già oggetto di passata edificazione, come richiesto dalla vigente normativa edilizia laddove ci si trovi al cospetto di lotti distinti, in quanto si tratta di un unico compendio che, solo con il passare del tempo, è stato oggetto di frazionamento; del resto, da un punto di vista edilizio, l’intero complesso, originariamente appartenente alla Im.La.Mi. S.p.a., è stato sempre considerato unitariamente (cfr. punto 6 del diritto della sentenza di questo Tribunale n. 844 del 1995).
3.4. Ciò determina il rigetto anche della predetta doglianza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.04.2018 n. 882 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire postula che l’istanza sia assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, giacché in assenza della documentazione prescritta dalle norme o di uno dei presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio, alcun titolo tacito può formarsi, considerato che l’eventuale inerzia dell’Amministrazione non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso, trattandosi non di una deroga al regime autorizzatorio, ma di modalità semplificata di conseguimento dell’autorizzazione.
Ciò appare in perfetta aderenza al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale il silenzio assenso non si forma in presenza di lacune documentali essenziali o incompletezze della pratica sottoposta all’esame dell’Amministrazione.
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4. Con la terza censura di ricorso si assume l’illegittimità del diniego impugnato, in quanto sulla domanda della ricorrente si sarebbe formato il silenzio assenso, stante l’avvenuto decorso dei termini previsti dai commi 3 e 7 dell’art. 38 della legge regionale n. 12 del 2005.
4.1. La doglianza è infondata.
Va evidenziato che la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire postula che l’istanza sia assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, giacché in assenza della documentazione prescritta dalle norme o di uno dei presupposti per la realizzazione dell’intervento edilizio, alcun titolo tacito può formarsi, considerato che l’eventuale inerzia dell’Amministrazione non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso, trattandosi non di una deroga al regime autorizzatorio, ma di modalità semplificata di conseguimento dell’autorizzazione (TAR Puglia, Bari, III, 12.05.2017, n. 492; 14.01.2016, n. 37).
Ciò appare in perfetta aderenza al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale il silenzio-assenso non si forma in presenza di lacune documentali essenziali o incompletezze della pratica sottoposta all’esame dell’Amministrazione (ex multis, TAR Lombardia, Milano, II, 08.03.2017, n. 556; 12.10.2016, n. 1855).
Nella fattispecie de qua, come è emerso in precedenza, l’assenza di volumetria disponibile sul lotto interessato dall’intervento costruttivo proposto dalla ricorrente, quale presupposto indispensabile per ottenere il titolo edilizio, non avrebbe giammai potuto dar luogo alla formazione del silenzio assenso sull’istanza di rilascio del permesso di costruire (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.04.2018 n. 882 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La vexata quaestio dell’annullamento dei titoli edilizi in autotutela è stata di recente risolta, in maniera definitiva, con la sentenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2017.
In base a tale decisione “Nella vigenza dell'art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 —per come introdotto dalla l. n. 15 del 2005— l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro, anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
   i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole' per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'Amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro;
   ii) che l'onere motivazionale gravante sull'Amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi);
   iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale gravante sull'Amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte”.
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Preliminarmente, si deve precisare anche come risulti incontestato tra le parti che il provvedimento oggetto di impugnazione (ordinanza n. 5 del 21/5/2012) costituisca -non un provvedimento di reiezione della domanda di rilascio della concessione edilizia, ma- un provvedimento di annullamento in autotutela della concessione formatasi in modo tacito, secondo il meccanismo previsto dall’art. 2 della L.R. 17/1994.
Sulla base di tale premessa deve essere respinta la prima censura contenuta nel primo motivo di ricorso –concernente la violazione dell’articolo 10-bis della legge 241/1990, a causa dell’omessa adozione del preavviso di rigetto dell’istanza- poiché nella vicenda in esame la stessa amministratore resistente riconosce che il titolo edilizio (ora annullato) si era regolarmente formato.
Il sindacato giurisdizionale, quindi, deve concentrarsi sul contestato esercizio del potere di annullamento in autotutela, che ha portato alla rimozione di una concessione edilizia formatasi circa due anni prima dell’adozione del provvedimento ora impugnato.
A tal proposito, deve ricordarsi come la vexata quaestio dell’annullamento dei titoli edilizi in autotutela sia stata di recente risolta, in maniera definitiva, con la sentenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2017.
In base a tale decisione “Nella vigenza dell'art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 —per come introdotto dalla l. n. 15 del 2005— l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro, anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
   i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole' per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'Amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro;
   ii) che l'onere motivazionale gravante sull'Amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi);
   iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale gravante sull'Amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte
”.
Nel caso in esame si deve sottolineare come l’amministrazione, nell’atto impugnato, abbia motivato la decisione di annullare in autotutela la concessione edilizia già assentita in favore del ricorrente in base al rilievo della “assenza della chiara dimostrata preesistenza dei ruderi nella consistenza volumetrica e planimetrica indicata in progetto”.
Ciò consente di affermare che non ricorre quella ipotesi peculiare contemplata nella citata decisione dell’adunanza plenaria, e che impedirebbe il nascere di un legittimo affidamento in capo al titolare della concessione, rappresentata dalla “non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole”.
Al contrario, l’amministrazione non ha mai dichiarato che gli elementi di fatto forniti dal ricorrente a sostegno della domanda di concessione edilizia siano non veritieri, ma si è limitata a dire che non siano stati sufficientemente provati nella loro consistenza. Peraltro, deve aggiungersi che la documentazione versata in giudizio dal ricorrente (in particolare, rilievi fotografici) consente di affermare che il rudere da ricostruire era effettivamente esistente, sebbene qualche incertezza avrebbe potuto sorgere in ordine alla sua effettiva consistenza.
Per tale motivo, l’amministrazione avrebbe potuto e dovuto nel corso del procedimento approfondire in via istruttoria tale aspetto, prima di lasciare che il titolo edilizio richiesto si formasse per silentium. Risulta, invece, che l’attività istruttoria sia stata svolta solo in un momento ampiamente successivo al formarsi del titolo.
Sulla base di queste premesse, risulta fondata la censura contenuta nel primo motivo di ricorso con la quale viene lamentato l’illegittimo esercizio dell’attività di annullamento in autotutela, a causa della mancata esternazione dell’interesse pubblico perseguito con un provvedimento di secondo grado, e della mancata considerazione dell’incolpevole affidamento radicatosi in capo al privato, che ha nel corso del biennio portato avanti i lavori.
Si richiama, in proposito, la già citata decisione dell’adunanza plenaria nella parte in cui stabilisce che “l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro, anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole”.
L’annullamento dell’ordinanza n. 5 del 21/5/2012 determina la caducazione dell’ordinanza n. 69 del 2/7/2012 che su quella trovava fondamento.
In conclusione, assorbite le ulteriori censure il ricorso va accolto.
Le spese processuali possono essere compensate in ragione dei contrasti giurisprudenziali esistenti in tema di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi, risolti solo di recente con la citata sentenza A.P. 8/2017 (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 03.04.2018 n. 680 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sono atti pubblici ai sensi degli artt. 476-479 cp gli atti del Sindaco o degli organi collegiali comunali che manifestano la volontà dell'Ente verso l'esterno e sono destinati per previsione di legge a determinare conseguenze giuridiche.
Tale principio è, del resto, coerente con quanto in generale ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, per la quale l'atto pubblico contemplato dagli artt. 476, 479 cp è quello caratterizzato dalla produttività di effetti costitutivi, traslativi, dispositivi, modificativi od estintivi rispetto a situazioni giuridiche di rilevanza pubblicistica.
Più recentemente nella nozione di atto pubblico oggetto del delitto di falso ideologico ex art. 479 cod. pen. è stato ricompreso ogni atto redatto dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, giacché ciò che rileva è la provenienza dell'atto dal medesimo ed il contributo dallo stesso fornito, in termini di conoscenza o di determinazione, ad un procedimento della pubblica amministrazione.

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Deve considerasi che la deliberazione consiliare, già definibile atto pubblico quanto all'organo collegiale di provenienza ed all'esercizio di pubbliche funzioni dei soggetti che l'hanno adottata, è idonea a rappresentare la volontà dell'Ente (nella fattispecie circa l'approvazione del bilancio consuntivo), è inserita in un più ampio procedimento amministrativo ed è destinata per legge a determinare conseguenze giuridiche, produttive degli specifici effetti costitutivi, traslativi, dispositivi, modificativi od estintivi di situazioni giuridiche di rilevanza pubblicistica, sotto ogni aspetto della complessa attività e del funzionamento dell'amministrazione comunale, sia verso il  suo interno che verso l'esterno.
Il provvedimento, pertanto, è qualificabile come atto pubblico ex art. 479 c.p.
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Il terzo motivo di ricorso, nel quale è stata sollevata la questione della qualificazione giuridica degli atti pubblici di cui ai capi di imputazione 1) e 3), è infondato.
12. Deve puntualizzarsi che al Sindaco Fa. è stato contestato al capo 1) di aver concorso moralmente e materialmente con le condotte già ben descritte nelle sentenze dei Giudici di merito ed innanzi sintetizzate -tra le quali la firma per conto della Giunta all'autorizzazione del 29.01.2011- alla falsa formazione della delibera di approvazione del rendiconto di gestione economico- finanziaria del Comune da parte dei consiglieri comunali, indotti in errore -come si legge in sentenza alla pagina 39- dall'intervento in aula dell'assessore Va., che aveva agito in pieno concorso col Sindaco e col direttore di ragioneria; costui, professore universitario in materie economiche, della cui competenza i consiglieri si erano fidati, li aveva convinti che essi, non approvandolo, avrebbero leso le prerogative della Giunta e si sarebbero opposti ad un percorso di risanamento finanziario efficacemente iniziato. Al capo 3) è stato contestato di aver formato, sottoscrivendolo, in concorso con Va. e Ra., il prospetto previsto dall'art 77-bis/15 DL 112/2008, in cui falsamente era attestato il rispetto del patto di stabilità da parte del Comune di Alessandria.
12.1 Il ricorrente ha sostenuto che entrambi gli atti erano da qualificarsi ai sensi dell'art. 480 cp -e non 479 cp come erroneamente aveva ritenuto la Corte- poiché il Sindaco si sarebbe limitato ad attestare la veridicità di dati relativi alla gestione economico- finanziaria del 2010, ma non aveva formato gli atti in base ad attività da egli stesso compiuta.
13. In proposito,
quanto alla delibera consiliare di approvazione del rendiconto di gestione economico-finanziaria del Comune, occorre ricordare una antica ma chiara pronunzia di questa Corte, che ha ritenuto atti pubblici ai sensi degli artt. 476-479 cp gli atti del Sindaco o degli organi collegiali comunali che manifestano la volontà dell'Ente verso l'esterno e sono destinati per previsione di legge a determinare conseguenze giuridiche (Sez. 5, Sentenza n. 10883 del 01/10/1996 Ud. (dep. 20/12/1996) Rv. 206537).
Tale principio è, del resto, coerente con quanto in generale ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, per la quale l'atto pubblico contemplato dagli artt. 476, 479 cp è quello caratterizzato dalla produttività di effetti costitutivi, traslativi, dispositivi, modificativi od estintivi rispetto a situazioni giuridiche di rilevanza pubblicistica (Cass. SU n. 10929/1981; conformi Cass. 5 n. 10149 del 1984; Cass. 17.06.1987, Iorio).
13.1
Più recentemente nella nozione di atto pubblico oggetto del delitto di falso ideologico ex art. 479 cod. pen. è stato ricompreso ogni atto redatto dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, giacché ciò che rileva è la provenienza dell'atto dal medesimo ed il contributo dallo stesso fornito, in termini di conoscenza o di determinazione, ad un procedimento della pubblica amministrazione (Sez. 5, Sentenza n. 44383 del 29/05/2015 Ud. (dep. 03/11/2015) rv. 266401). In senso conforme: Sez. 5, Sentenza n. 43737 del 27/09/2012 Ud. (dep. 09/11/2012) Rv. 254520.
13.2 Applicando tali consolidati principi alla fattispecie concreta deve considerasi che
la delibera consiliare in discussione, già definibile atto pubblico quanto all'organo collegiale di provenienza ed all'esercizio di pubbliche funzioni dei soggetti che l'hanno adottata, è idonea a rappresentare la volontà dell'Ente circa l'approvazione del bilancio consuntivo, è inserita in un più ampio procedimento amministrativo -di cui vi è chiaro riscontro nelle sentenze di merito- ed è destinata per legge a determinare conseguenze giuridiche, produttive degli specifici effetti costitutivi, traslativi, dispositivi, modificativi od estintivi di situazioni giuridiche di rilevanza pubblicistica, sotto ogni aspetto della complessa attività e del funzionamento dell'amministrazione comunale, sia verso il  suo interno che verso l'esterno.
Il provvedimento, pertanto, è qualificabile come atto pubblico ex art. 479 c.p.
(Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 30.03.2018 n. 14617).

EDILIZIA PRIVATA: Servitù di veduta, ci sono dei vincoli per opporsi. Servitù di veduta opponibili soltanto se risultano dalla nota di trascrizione dell'atto di acquisto e a condizione che dalla stessa sia possibile desumere l'indicazione del fondo dominante e di quello servente, la volontà delle parti di costituire una servitù, nonché l'oggetto e la portata del diritto, oltre che eventuali termini o condizioni.
Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con l'ordinanza 30.03.2018 n. 8000.
Il caso concreto. Nella specie, nella controversia avviata da un condominio nei confronti dei proprietari di un fabbricato limitrofo, il tribunale aveva accertato la mancanza di conformità di una finestra esistente sul retro dell'immobile di proprietà dei convenuti e del sottostante foro di aerazione, ordinando ai medesimi di tamponarli secondo quanto indicato nella consulenza tecnica d'ufficio espletata nel corso del procedimento.
Allo stesso tempo il giudice di primo grado aveva altresì accertato che la sopraelevazione condotta dai predetti convenuti rispetto alla quota originaria del tetto del proprio edificio aveva determinato una riduzione di luce nella misura del 15% a danno del cortile del condominio attore, ordinandone quindi la riduzione in pristino.
La sentenza, impugnata dinanzi alla Corte di appello, era stata integralmente confermata. I giudici di secondo grado avevano a loro volta ritenuto che la sussistenza di una condizione pattizia risolutiva delle due servitù (di gronda e di veduta) risultasse da un atto di divisione immobiliare giudicato opponibile agli appellanti, pur non risultando che detta condizione fosse stata menzionata nelle note di trascrizione risultanti dai registri immobiliari.
La Corte aveva infatti ritenuto di poter presumere che il notaio che aveva provveduto alla redazione dell'atto di divisione si fosse anche occupato di curarne conformemente la trascrizione nei pubblici registri, trattandosi di obbligo di legge e dovendosi quindi ritenere che il professionista vi avesse a suo tempo ottemperato. Inoltre i giudici di secondo grado avevano ulteriormente osservato, a sostegno della propria decisione, che, essendovi la prova della trascrizione, il relativo contenuto avrebbe potuto essere accertato altrimenti e, ove necessario, anche giudizialmente. Di qui la decisione dei proprietari dell'edificio confinante con quello condominiale di presentare ricorso in Cassazione.
La decisione della Suprema corte. Nella vicenda in questione le parti in causa avevano effettivamente richiamato il contenuto di un atto divisionale risalente nel tempo e in base al quale, «in caso di innovazione di fabbrica», e cioè di modifica dell'edificio, le predette servitù sarebbero cessate e i proprietari del fondo in precedenza dominante avrebbero dovuto eliminare lo scolo di gronda e la finestra.
Tuttavia i proprietari originariamente convenuti in giudizio e ricorrenti in Cassazione avevano contestato la sentenza impugnata proprio nella parte in cui con essa era stata sancita l'opponibilità nei loro confronti della menzionata condizione risolutiva della servitù di veduta e di scolo prevista in favore del fondo di cui i medesimi erano successivamente divenuti titolari e in danno del fondo confinante condominiale, in quanto detta condizione non risultava menzionata nelle note di trascrizione degli atti di acquisto dei loro danti causa.
La Corte di appello aveva infatti ritenuto irrilevante, ai fini della contestata opponibilità, la circostanza del mancato rinvenimento del supporto cartaceo relativo alla nota di trascrizione del suddetto atto originario, presumendo che il notaio rogante avesse provveduto a tale adempimento in conformità a un obbligo di legge e che, in ogni caso, fosse sufficiente che nella specie si fosse proceduto effettivamente all'adempimento della trascrizione, ritenendo che il relativo contenuto potesse essere accertato altrimenti e, ove necessario, anche giudizialmente.
I giudici di legittimità hanno però smontato la ricostruzione normativa della fattispecie operata dal tribunale e confermata dalla Corte di appello, in quanto contraria al principio generale recepito nell'ordinamento e in base al quale, in tema di trascrizione, al fine di stabilire se e in quali limiti un determinato atto sia opponibile ai terzi, deve aversi riguardo esclusivo al contenuto della nota di trascrizione, unico strumento funzionale alla conoscenza, per gli interessati, del contenuto, dell'oggetto e del destinatario dell'atto.
Come già evidenziato in precedenza dalla medesima Suprema corte, la pubblicità immobiliare, che si attua con il sistema della trascrizione, è infatti imperniata su principi formali, in forza dei quali il terzo che è rimasto estraneo all'atto trascritto, per individuare l'oggetto cui l'atto si riferisce attraverso la notizia che ne dà la pubblicità stessa, deve esclusivamente fare affidamento sul contenuto con cui la notizia dell'intervento dell'atto è riferita nei registri immobiliari.
La corretta individuazione di detto contenuto è affidata, a sua volta, all'esclusiva responsabilità del soggetto che richiede la trascrizione, sul quale incombe quindi l'onere di procedervi redigendo la nota di trascrizione. Una volta redatta la nota, e avvenuta la trascrizione sulla sua base, il contenuto della conseguente pubblicità-notizia è quindi solo quello da essa desumibile e ai soggetti che se ne avvalgono non incombe alcun onere di controllo ulteriore.
La seconda sezione civile della Cassazione ha quindi chiarito come per stabilire se e in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, dovendo la stessa consentire di individuare, senza margini di incertezza, gli estremi essenziali del negozio, i beni ai quali esso si riferisce, nonché l'essenza, la natura e i dati caratterizzanti del diritto trasferito o costituito, restando esclusa ogni possibilità di attingere aliunde i predetti elementi, né dai titoli presentati e depositati con la medesima nota né, tanto meno, da altri atti o dati a questa estranei.
La sentenza impugnata è quindi stata cassata e la causa rinviata alla Corte di appello, perché la stessa provveda nuovamente a valutare la controversia attenendosi al principio di diritto per il quale l'indagine sull'opponibilità della servitù ai terzi successivi acquirenti deve essere condotta con esclusivo riguardo al contenuto della nota di trascrizione del contratto che della servitù integra il titolo, sicché detta opponibilità può essere ritenuta solo quando dalla predetta nota sia possibile desumere l'indicazione del fondo dominante e di quello servente, la volontà delle parti di costituire una servitù, nonché l'oggetto e la portata del diritto, anche quindi con riguardo all'eventuale sottoposizione della modifica o dell'estinzione di tale diritto a termine o condizione, come imposto dall'ultimo comma dell'art. 2659 c.c.
Del resto già in passato la Suprema corte aveva avuto modo di osservare che per stabilire se e in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, poiché le indicazioni riportate nella nota stessa devono essere di per sé sufficienti a consentire di individuare, senza margini di equivoci e di incertezza, gli estremi essenziali del negozio, i beni ai quali esso si riferisce, nonché l'essenza, la natura e i dati caratterizzanti del diritto trasferito o costituito, restando esclusa ogni possibilità di attingere elementi dai titoli presentati e depositati con la nota anzidetta o, tanto meno, da altri atti o dati a questa estranei.
Nella specie, al contrario, era circostanza pacifica tra le parti in causa che non fosse stata rinvenuta la nota di trascrizione dell'atto originario comprendente il contestato patto istitutivo della condizione a cui era stata risolutivamente subordinata la costituzione e la successiva permanenza del diritto di servitù.
Quindi, secondo la Suprema corte, non potendosi applicare in casi del genere in via suppletiva alcuna presunzione riconducibile all'espletamento dell'attività in generale del notaio rogante e non risultando, comunque, alcuna menzione specifica di essa nelle note di trascrizione, doveva concludersi che la predetta condizione risolutiva comportante l'estinzione del diritto di servitù di veduta e di scolo non fosse opponibile agli attuali proprietari dell'immobile confinante con il condominio
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.04.2018).
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MASSIMA
Con riferimento alla prima dedotta censura i ricorrenti hanno debitamente inteso confutare la sentenza impugnata nella parte in cui con essa era stata sancita l'opponibilità, nei loro confronti, della condizione risolutiva della servitù di veduta e di scolo prevista (nel senso che "in caso di innovazione di fabbrica", e cioè della modifica dell'edificio ricompreso nel II lotto, le servitù sarebbero cessate ed i proprietari del fondo in precedenza dominante avrebbero dovuto eliminare lo scolo di gronda e la finestra) nell'atto costitutivo consistente nel richiamato atto divisionale del 1891 per notar Giani, a favore del fondo di cui essi erano successivamente divenuti titolari ed in danno del fondo confinante di proprietà del Condominio di viale ... 8 di Milano, malgrado la stessa condizione non fosse risultata menzionata nelle note di trascrizione degli atti di acquisto dei loro danti causa.
In particolare, la doglianza attinge la decisione di appello (confermativa, sul punto, di quella di primo grado) nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto priva di rilevanza -ai fini della contestata opponibilità- la circostanza del mancato rinvenimento del supporto cartaceo relativo alla nota di trascrizione del suddetto atto originario, sul presupposto dell'operatività della presunzione che il notaio rogante del 1891 avesse provveduto a tanto in conformità ad un obbligo di legge e che, in ogni caso, risultava sufficiente che si fosse proceduto effettivamente all'adempimento della trascrizione, potendo il relativo contenuto essere accertato altrimenti e, ove necessario, anche giudizialmente.
Sennonché, osserva il collegio, tale ricostruzione incorre nella violazione delle richiamate norme codicistiche, poiché collide con il principio generale recepito nel nostro ordinamento in base al quale,
in tema di trascrizione, al fine di stabilire se ed in quali limiti un determinato atto sia opponibile ai terzi, deve aversi riguardo esclusivo al contenuto della nota di trascrizione, unico strumento funzionale, "ex lege", alla conoscenza, per gli interessati, del contenuto, dell'oggetto e del destinatario dell'atto (cfr. Cass. n. 5002/2005 e Cass. n. 21758/2012).
In altri termini,
per stabilire se, ed in quali limiti, un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, dovendo le indicazioni riportate nella nota stessa consentire di individuare, senza margini di equivoci e di incertezza, gli estremi essenziali del negozio, i beni ai quali esso si riferisce, nonché l'essenza, la natura ed i dati caratterizzanti del diritto trasferito o costituito, restando esclusa ogni possibilità di attingere elementi dai titoli presentati e depositati con la nota anzidetta, o, tanto meno, da altri atti o dati a questa estranei.
In particolare,
in tema di servitù convenzionali, va affermato il principio di diritto (al quale dovrà, perciò, conformarsi il giudice di rinvio) secondo cui l'indagine sull'opponibilità della servitù ai terzi successivi acquirenti va condotta con esclusivo riguardo al contenuto della nota di trascrizione del contratto che della servitù integra il titolo, sicché detta opponibilità può essere ritenuta solo quando dalla nota cennata è possibile desumere l'indicazione del fondo dominante e di quello servente, la volontà delle parti di costituire una servitù, nonché l'oggetto e la portata del diritto, anche, quindi, con riguardo all'eventuale sottoposizione della modifica o dell'estinzione del relativo diritto a termine o condizione, come imposto dall'ultimo comma dell'art. 2659 c.c. (v. Cass. n. 3590/1993; Cass. n. 8448/1998 e Cass. n. 18892/2009).

EDILIZIA PRIVATA: Il muro comune divisorio può essere sopraelevato senza necessità di consenso dell'altro comproprietario perché la relativa facoltà, esercitabile ai sensi dell'art. 885 c.c., è svincolata dal regime normale della comunione e non trova alcuna restrizione nel citato art. 1102 c.c.
In altre parole,
deve, in questa sede, in relazione alla prima censura, statuirsi (e ribadirsi) il principio di diritto
secondo cui il citato art. 885 c.c., che riconosce ad ogni comproprietario la facoltà di alzare il muro comune, introduce una deroga (e vale, quindi, come "ex specialis") sia al normale regime della comunione che a quello dell'accessione perché consente -senza essere subordinata al consenso dell'altro comproprietario del muro- la formazione di una proprietà separata ed esclusiva della sopraelevazione, la quale appartiene al comproprietario che per primo abbia innalzato il muro comune, il quale può, altresì, giovarsi, nella prosecuzione in altezza dello stesso principio di prevenzione adottato sulla base della costruzione, fatta salva la possibilità per il vicino comproprietario del muro di chiedere la comunione del muro sopraelevato.
Sotto altro profilo,
deve anche rammentarsi che la disposizione dello stesso art. 885 c.c., che consente al comproprietario di alzare il muro comune, non interferisce con la disciplina in materia di distanze legali, né deroga alla stessa, questa perseguendo la funzione di evitare intercapedini dannose tra fabbricati (normativa codicistica) e anche di tutelare l'assetto urbanistico di una data zona e la densità degli edifici in relazione all'ambiente (disciplina regolamentare, richiamata dall'art. 873 c.c.).
Del resto,
in materia di distanze legali, sono da ritenere integrative delle norme del codice civile solo le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela di interessi generali urbanistici, disciplinano solo l'altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi, tutelano, nell'ambito degli interessi privati, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini; ne consegue che, mentre nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, nel secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria.
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Come anticipato, anche il secondo motivo formulato dai ricorrenti è fondato per essere incorsa la Corte di appello di Milano, nella sentenza qui impugnata, nella prospettata violazione degli artt. 1102, 885 e 872 c.c.
La domanda originariamente dedotta sul punto dal Condominio oggi controricorrente tendeva ad ottenere la dichiarazione di illegittimità della sopraelevazione per circa mt. 0,95 del manufatto di proprietà degli attuali ricorrenti rispetto alla quota originaria del tetto, in quanto comportante una limitazione ingiustificata del diritto del predetto Condominio di godere dell'aria e della luce garantite dal cortile interno fino alla realizzazione sopravvenuta del contestato innalzamento della falda.
La Corte di appello ambrosiana ha confermando anche su tale aspetto la statuizione del giudice di prime cure, con la quale, sulla scorta delle risultanze della c.t.u., era stato ritenuto che, per effetto della eseguita sopraelevazione del tetto, si era venuto a determinare un superamento della quota di prospetto della facciata attigua che aveva implicato, per il cortile condominiale, una riduzione della luce quantificabile nell'ordine del 15% rispetto alla situazione precedente, in considerazione dell'entità delle superfici concretamente interessate e dell'incidenza oraria e stagionale del fenomeno.
Il giudice di secondo grado è giunto a tale conclusione ravvisando, nella condotta degli appellanti (oggi ricorrenti) Ug.-Ba. la violazione dell'art. 1102 c.c., sul presupposto che questi ultimi avevano, in parte, alterato la pregressa destinazione e le precedenti modalità di fruizione del suddetto bene comune. Anche questa ricostruzione non risulta correttamente svolta in punto di diritto.
Premessi i dati pacifici in fatto che la sopraelevazione del muro a confine del Condominio di viale ... 8 era stata autorizzata dal Comune di Milano senza presentare difformità rispetto ai regolamenti di rilevanza pubblicistica e che i due ricorrenti non rivestivano la qualità di condomini del menzionato Condominio né che tra gli stessi e il Condominio medesimo fosse stata conclusa una convenzione contemplante una "servitus altius non tollendi", deve ritenersi che l'opera di innalzamento del muro comune (comunque rimasto, su tale fronte, cieco) sia stata realizzata dai ricorrenti nell'esercizio del diritto riconosciuto dall'art. 885 c.c., di cui si sono avvalsi a loro spese, senza che, perciò, nella fattispecie, potesse venire in rilievo l'applicabilità della recessiva norma generale di cui all'art. 1102 c.c. nonché dell'art. 872 c.c. (non versandosi propriamente in tema di violazione di distanze legali che, se accertata, avrebbe potuto determinare la legittima emissione dell'ordine di condanna alla riduzione in pristino).
Infatti,
secondo la concorde giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 6627/1993 e Cass. n. 237/1997), il muro comune divisorio può essere sopraelevato senza necessità di consenso dell'altro comproprietario perché la relativa facoltà, esercitabile ai sensi dell'art. 885 c.c., è svincolata dal regime normale della comunione e non trova alcuna restrizione nel citato art. 1102 c.c.
In altre parole,
deve, in questa sede, in relazione alla prima censura, statuirsi (e ribadirsi) il principio di diritto (al quale pure dovrà, ulteriormente, conformarsi il giudice di rinvio) secondo cui il citato art. 885 c.c., che riconosce ad ogni comproprietario la facoltà di alzare il muro comune, introduce una deroga (e vale, quindi, come "ex specialis") sia al normale regime della comunione che a quello dell'accessione perché consente -senza essere subordinata al consenso dell'altro comproprietario del muro- la formazione di una proprietà separata ed esclusiva della sopraelevazione, la quale appartiene al comproprietario che per primo abbia innalzato il muro comune, il quale può, altresì, giovarsi, nella prosecuzione in altezza dello stesso principio di prevenzione adottato sulla base della costruzione, fatta salva la possibilità per il vicino comproprietario del muro di chiedere la comunione del muro sopraelevato.
Sotto altro profilo,
deve anche rammentarsi (cfr. Cass. n. 19142/2013) che la disposizione dello stesso art. 885 c.c., che consente al comproprietario di alzare il muro comune, non interferisce con la disciplina in materia di distanze legali, né deroga alla stessa, questa perseguendo la funzione di evitare intercapedini dannose tra fabbricati (normativa codicistica) e anche di tutelare l'assetto urbanistico di una data zona e la densità degli edifici in relazione all'ambiente (disciplina regolamentare, richiamata dall'art. 873 c.c.).
Del resto,
in materia di distanze legali, sono da ritenere integrative delle norme del codice civile solo le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela di interessi generali urbanistici, disciplinano solo l'altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi, tutelano, nell'ambito degli interessi privati, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini (v. Cass. n. 1073/2009 e, più di recente, Cass. n. 10264/2016); ne consegue che, mentre nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, nel secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria (che, tuttavia, non ha costituito propriamente, nella vicenda processuale dedotta in ricorso, oggetto del "thema decidendum" né di alcun motivo di doglianza in sede di legittimità) (Corte di Cassazione,
Sez. II civile, ordinanza 30.03.2018 n. 8000).

URBANISTICA: Il sindacato giurisdizionale sulle scelte pianificatorie della P.A. è circoscritto alle sole ipotesi di palese erroneità o di manifesta irrazionalità di valutazioni, non potendo il giudice sovrapporre le proprie opinioni a quelle di merito di competenza dell’Amministrazione, onde non travalicare il limite esterno della sua giurisdizione di legittimità; di norma, peraltro, si tratta di profili non facilmente apprezzabili sotto il profilo della legittimità se non nei limiti della verifica del corretto esercizio dei poteri affidati alla P.A., con riguardo, ad es., alla completezza dell’istruttoria, alla sussistenza dei presupposti, all’osservanza di criteri di proporzionalità.
In particolare, si ritiene che le scelte pianificatorie della P.A., per quanto concerne sia la destinazione delle singole aree, sia l’indice di edificabilità, costituiscano valutazioni discrezionali espressione di scelte di merito, dunque sottratte al sindacato giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di fatto o da abnormi illogicità, non essendo peraltro necessaria una specifica motivazione concernente le singole aree o i singoli comparti.
A ciò va aggiunto che, ai sensi dell’art. 10, secondo comma, lett. c), della l. n. 1150/1942 (Legge urbanistica), alla Regione è consentito, all’atto di approvazione dello strumento urbanistico, apportare modifiche, tra l’altro, al fine di assicurare la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici: modifiche che, in quanto indispensabili per detta tutela, si atteggiano come obbligatorie per la stessa autorità regionale.

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Considerato, infatti, che:
   - in ordine alle censure dedotte dalla ricorrente, va richiamato il costante indirizzo giurisprudenziale, per cui il sindacato giurisdizionale sulle scelte pianificatorie della P.A. è circoscritto alle sole ipotesi di palese erroneità o di manifesta irrazionalità di valutazioni, non potendo il giudice sovrapporre le proprie opinioni a quelle di merito di competenza dell’Amministrazione, onde non travalicare il limite esterno della sua giurisdizione di legittimità (C.d.S., Sez. IV, 18.11.2014, n. 5661); di norma, peraltro, si tratta di profili non facilmente apprezzabili sotto il profilo della legittimità se non nei limiti della verifica del corretto esercizio dei poteri affidati alla P.A., con riguardo, ad es., alla completezza dell’istruttoria, alla sussistenza dei presupposti, all’osservanza di criteri di proporzionalità (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 24.08.2017, n. 1764);
   - in particolare, si ritiene che le scelte pianificatorie della P.A., per quanto concerne sia la destinazione delle singole aree, sia l’indice di edificabilità, costituiscano valutazioni discrezionali espressione di scelte di merito, dunque sottratte al sindacato giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di fatto o da abnormi illogicità, non essendo peraltro necessaria una specifica motivazione concernente le singole aree o i singoli comparti (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 1764/2017, cit.; TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 22.01.2015, n. 34; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 23.07.2012, n. 3506);
   - a ciò va aggiunto che, ai sensi dell’art. 10, secondo comma, lett. c), della l. n. 1150/1942 (Legge urbanistica), alla Regione è consentito, all’atto di approvazione dello strumento urbanistico, apportare modifiche, tra l’altro, al fine di assicurare la tutela del paesaggio e dei complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici (cfr. C.d.S., Sez. IV, 17.09.2013, n. 4614; id., 01.12.2011, n. 6349): modifiche che, in quanto indispensabili per detta tutela, si atteggiano come obbligatorie per la stessa autorità regionale (cfr. C.d.S., Sez. IV, 26.02.2013, n. 1182);
   - il riflesso, sul piano della legislazione regionale, del potere di modifica d’ufficio previsto dall’art. 10, secondo comma, lett. c), della l. n. 1150/1942 si rinviene, per il Veneto, nell’art. 45, primo comma, n. 4, della l.r. n. 61/1985 (applicabile ratione temporis): e nel caso di specie la deliberazione gravata adduce, a fondamento della modifica d’ufficio da essa introdotta e di cui l’Im.Se. S.r.l. chiede l’annullamento, proprio l’art. 45, primo comma, n. 4, cit.;
   - tanto premesso, nel caso di specie le censure dedotte dalla ricorrente si rivelano non solo sprovviste di fondamento, ma al limite dell’inammissibilità, in quanto rivolte a censurare il merito delle scelte discrezionali della P.A.: scelte che, per quanto si dirà subito, non sono inficiate da quei vizi di palese erroneità, manifesta irrazionalità delle valutazioni, abnorme illogicità, che, in base all’insegnamento sopra riportano, consentono –soli– il sindacato giurisdizionale;
   - da un lato, infatti, rientra totalmente nel merito delle scelte discrezionali della P.A. e non si configura per nulla come irragionevole o illogica la decisione della Regione di tutelare non soltanto la facciata principale, ma anche quella retrostante, del complesso monumentale di Villa Albuzio, predisponendo uno “sfondo scenografico” della stessa che certamente non si arresta –come pretenderebbe la società ricorrente– alla riva del fiume, ma ben può oltrepassarla e coinvolgere i terreni di sua proprietà: ciò, indipendentemente da un rapporto pertinenziale di detti terreni con la Villa, il cui richiamo appare, in questa sede, non del tutto conferente;
   - alla luce di tali riflessioni, non appare sproporzionato o eccessivo il pur rilevante sacrificio imposto ai terreni della ricorrente con la destinazione a “verde privato”, che mira espressamente –come dice la deliberazione impugnata– a garantire lo sfondo scenografico del complesso monumentale. E del resto non è chi non veda come consentire l’edificazione su tali terreni avrebbe molto verosimilmente compromesso la visuale scenografica della Villa, che, indubbiamente, si apprezza da tutti i lati e non solo da quello della facciata principale;
   - il punto, insomma, non è che dalla Villa neppure si vedrebbero i terreni della ricorrente, come da questa asserito, quanto piuttosto il fatto che eventuali costruzioni su detti terreni possano pregiudicare irreparabilmente la visuale complessiva della Villa medesima;
   - da ultimo, la relazione difensiva versata in atti dalla Regione osserva come la destinazione a verde privato dell’area (che magari sarebbe stato più appropriato classificare quale zona agricola) non possa intendersi come imposizione di un vincolo preordinato all’esproprio, soggetto a decadenza decorso un quinquennio, con obbligo di indennizzo, nonché di specifica motivazione in caso di reiterazione. Invero –prosegue condivisibilmente la Regione– detta destinazione, pur implicando l’inedificabilità dell’area e pur impedendo al proprietario di utilizzarla, rappresenta la mera espressione del potere di pianificazione del territorio, in funzione del suo ordinato sviluppo, nonché –c’è da aggiungere– della conservazione dei suoi valori e significati più importanti;
   - donde, in definitiva, l’infondatezza sia delle censure contenute nel primo motivo di gravame, sia di quelle dedotte con il secondo motivo;
Ritenuto in definitiva, alla luce di tutto ciò che si è esposto, di dover respingere il ricorso, in quanto nel suo complesso infondato;
Ritenuto, per conseguenza, di dover respingere altresì la domanda di risarcimento del danno proposta dalla ricorrente, difettando essa del presupposto dell’illegittimità del provvedimento amministrativo da cui sarebbe derivata la lesione (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 26.03.2018 n. 349 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Terra e rocce da scavo - Area di stoccaggio di rifiuti - Omesso controllo delle autorizzazioni - Responsabilità del rappresentante legale per colpa - Attribuzione di un fatto altrui (dipendenti) - Assenza di delega di funzioni idonea a scriminare - Fattispecie: Attività di raccolta, trasporto e smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi in assenza di apposita autorizzazione - Art. 256 d.lgs. n.152/2006.
In tema di rifiuti, l'omissione dell'accertamento della presenza dell'autorizzazione, può integrare il reato colposo, quando non può comunque ritenersi un errore di fatto, ma abbia un profilo di colpa.
Sicché, la responsabilità in capo al legale rappresentante della ditta, non rileva, per l'attribuzione di un fatto altrui -dei dipendenti dell'azienda di cui è il legale rappresentante-, ma per la sua condotta di capo dell'impresa che non ha controllato la sussistenza dell'autorizzazione; e comunque non è stata fornita, in sede di merito, una effettiva e concreta delega di funzioni idonea a scriminare.
Nella specie, la mole di terra e rocce che era stata depositata consentiva di ritenere la realizzazione di una vasta area di stoccaggio di rifiuti, in difetto delle prescritte autorizzazioni, e/o omettendo di verificare l'esistenza delle autorizzazioni come avrebbe dovuto fare qualsivoglia operatore professionale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.03.2018 n. 13729 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività di gestione dei rifiuti - Mancanza dell'autorizzazione, iscrizione o comunicazione - Configurabilità del reato di cui all'art. 256, c. 1°, d.lgs. n. 152/2006 - Raccolta e trasporto esercitate in forma ambulante - Categorie di rifiuti autonomamente disciplinate - Esclusione dell'operatività della deroga - Artt. 208, 209, 211, 212, 214, 215, 216 e 266 d.lgs. 152/2006.
Il reato di cui all'art. 256, comma primo, del d.lgs. n.152/2006, sanziona le attività di gestione dei rifiuti compiute in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli artt. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo d.lgs. è configurabile nei confronti di chiunque svolga tali attività anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
Allo stesso tempo, la fattispecie di cui all'art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 (la quale sanziona appunto le attività di gestione compiute in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli artt. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo d.lgs.), è configurabile anche con riferimento alle condotte di raccolta e di trasporto esercitate in forma ambulante e con una minima organizzazione, salva l'applicabilità della deroga di cui al comma quinto dell'art. 266 del d.lgs. 152 del 2006, per la cui operatività occorre che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114, e che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio (Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, Lazzaro), ma non riconducibili, per le loro peculiarità, a categorie autonomamente disciplinate (è stata così esclusa l'operatività della deroga in relazione ad elettrodomestici in disuso, parti meccaniche di autovetture, pile ed accumulatori, trattandosi di rifiuti specificamente regolamentati) (Cass. Sez. 3, n. 34917 del 09/07/2015, Caccamo; Cass. Sez. 3, n. 19209 del 16/03/2017, Tutone e altri).
RIFIUTI - Gestione di rifiuti e profilo della assoluta occasionalità - Questione probatoria - Accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto - Valutazione del fatto - Giudice del merito - Natura di illecito istantaneo - Insindacabilità in sede di legittimità - Giurisprudenza - Artt. 183 e 256 d.L.vo n. 152/2006.
In tema di gestione di rifiuti il profilo della assoluta occasionalità sarà oggetto precipuo della valutazione di fatto rimessa al giudice del merito, e dunque questione essenzialmente probatoria, e, ove congruamente motivata, non sarà suscettibile di censura in sede di legittimità (Cass., Sez. 3, n. 5716 del 07/01/2016, Isoardi).
Pertanto, l'accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto, ai sensi dell'art. 183 d.lgs. 03.04.2006, n. 152 costituisce una quaestio facti, come tale demandata al giudice di merito, ed insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione esente da vizi logici o giuridici.
Tuttavia, trattandosi di illecito istantaneo, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 256, comma 1 cit. è sufficiente anche una sola condotta integrante una delle ipotesi alternative tipizzate dalla fattispecie penale (Sez. 3, n. 8979 del 2/10/2014, dep. 2015, Cristinzio; Sez. 3, n. 45306 del 17/10/2013, Carlino; Sez. 3, n. 24428 del 25/05/2011, D'Andrea; Sez. 3, n. 21655 del 13/04/2010, Hrustic), purché costituisca una "attività" e non sia, appunto, assolutamente occasionale, laddove è la stessa descrizione normativa ad escludere dall'area di rilevanza penale le condotte di assoluta occasionalità (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.03.2018 n. 13741 - link a www.ambientediritto.it).

INCARICHI PROFESSIONALISugli onorari impossibile risparmiare.
Anche se la parte chiamata in causa assume un atteggiamento «non oppositivo» non si può risparmiare sugli onorari degli avvocati. Non basta quindi compensare le spese di lite ma vanno liquidate per intero tutte le somme, quindi anche il cachet dei legali.

Lo chiarisce la II Sez. civile della Corte di Cassazione, nell'ordinanza 23.03.2018 n. 7292, che ha ascoltato le lamentele di un avvocato che, ammesso al patrocinio gratuito, ha intascato solo il rimborso per le spese di dibattito. Questo perché, secondo il legale, «era stato applicato il dm 140 del 2012 in luogo del dm 127 del 2004, vigente all'epoca di cessazione del mandato», si legge nel dispositivo, «nonché l'omessa liquidazione delle spese generali e delle spese documentate».
Nell'aprile del 2013 la Corte territoriale di Bologna ammetteva l'opposizione al decreto di liquidazione, ma «liquidava in favore del difensore del ricorrente le sole spese vive sostenute per l'opposizione». Questo perché i giudici del Riesame decisero di non erogare «i compensi spettanti al difensore, in ragione della «posizione processuale non oppositiva assunta» dall'amministrazione interessata».
Ma gli ermellini di piazza Cavour, constatando la vicenda, hanno ritenuto fondata l'opposizione sollevata dall'avvocato perché «l'obbligo del pagamento è regolato dalle disposizioni del codice di procedura civile relative alla responsabilità delle parti per le spese». Così i porporati del Palazzaccio hanno bacchettato in sordina l'incauta decisione della Corte bolognese che, «pur non esprimendosi in maniera esplicita, ha operato una compensazione parziale delle spese di lite», violando l'articolo 91 e 92 del codice di procedura civile.
Quindi le alte toghe hanno sentenziato che «in tema di spese giudiziali, le gravi ed eccezionali ragioni, che giustificano la compensazione in assenza di reciproca soccombenza», chiosano i supremi giudici, «devono trovare riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa da indicare esplicitamente nella motivazione della sentenza, senza che possa darsi meramente rilievo alla contumacia della controparte», concludono i porporati, «permanendo in questa circostanza la sostanziale soccombenza della parte»
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.04.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 24 del D.P.R. n. 380/2001, il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente.
Esso, dunque, non può essere prefigurato come un atto meramente formale, ma rappresenta il presupposto del regolare uso dell’edificio in coerenza alla destinazione dello stesso.

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La conformità dei manufatti alle norme urbanistico/edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, in quanto, ancor prima della logica giuridica, è la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico/edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela degli interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata.
Ciò trova fonte normativa nella lettera dell’art. 25, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001 che richiede, da parte del richiedente, una dichiarazione di conformità dell’opera rispetto al progetto approvato.
Infatti, se in linea generale il tacito accoglimento di una domanda si differenzia dalla decisione esplicita solo per l'aspetto formale, è necessario tuttavia che sussistano tutti gli elementi soggettivi e oggettivi che rappresentano gli elementi costitutivi della fattispecie di cui si invoca il perfezionamento.
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Giova rammentare, in via generale, che la formazione del silenzio-assenso sulle istanze dei privati postula che l'istanza sia assistita da tutti i presupposti di legge, non determinandosi ope legis l'accoglimento della richiesta ogni qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma.
Difatti, il provvedimento di assenso tacito non può formarsi in assenza della documentazione completa prescritta dalle norme di settore, in quanto l'eventuale inerzia dell'amministrazione nel provvedere sull’istanza di avvio del procedimento non può far conseguire agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso; al riguardo, va precisato che il silenzio equivale al provvedimento amministrativo ma non incide in senso abrogativo sull'esistenza del regime autorizzatorio, che rimane inalterato, trattandosi di una modalità semplificata di conseguimento dell'autorizzazione.
La produzione di tale documentazione è indispensabile proprio al fine del riscontro dei requisiti soggettivi ed oggettivi, la cui incompletezza preclude la formazione del titolo abilitativo in forma tacita.
Peraltro, della presenza di tutta la documentazione deve essere data prova, alla stregua degli ordinari principi processuali (art. 64 c.p.a.), dalla parte ricorrente, poiché si presume che la copia sia nella sua disponibilità oppure che sia virtualmente accessibile mediante l'impiego degli strumenti procedimentali o processuali previsti dall'ordinamento.
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Il ricorso è infondato.
Come noto, ai sensi dell'art. 24 del D.P.R. n. 380/2001, il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente.
Esso, dunque, non può essere prefigurato come un atto meramente formale, ma rappresenta il presupposto del regolare uso dell’edificio in coerenza alla destinazione dello stesso.
Il successivo art. 25, comma 3, prevede che "Entro trenta giorni dalla ricezione della domanda di cui al comma 1, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, previa eventuale ispezione dell'edificio, rilascia il certificato di agibilità verificata la seguente documentazione (...)".
Il comma 4 stabilisce ancora che "Trascorso inutilmente il termine di cui al comma 3, l'agibilità si intende attestata nel caso sia stato rilasciato il parere dell'A.S.L. di cui all'articolo 5, comma 3, lettera a). In caso di autodichiarazione, il termine per la formazione del silenzio-assenso è di sessanta giorni”.
Secondo consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa, la conformità dei manufatti alle norme urbanistico/edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, in quanto, ancor prima della logica giuridica, è la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico/edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela degli interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata. Ciò trova fonte normativa nella lettera dell’art. 25, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001 che richiede, da parte del richiedente, una dichiarazione di conformità dell’opera rispetto al progetto approvato.
Infatti, se in linea generale il tacito accoglimento di una domanda si differenzia dalla decisione esplicita solo per l'aspetto formale, è necessario tuttavia che sussistano tutti gli elementi soggettivi e oggettivi che rappresentano gli elementi costitutivi della fattispecie di cui si invoca il perfezionamento (cfr. TAR Napoli, n. 1767/2016 e n. 2191/2014; TAR Salerno, n. 1325/2013).
Ebbene, dalla documentazione esibita in giudizio dal Comune di Pastorano emergono i seguenti profili ostativi al rilascio per silentium dell’agibilità.
Sotto un primo profilo, mette conto evidenziare che, come rilevato dalla difesa dell’ente locale (cfr. nota del Comune di Pastorano prot. n. 7065 del 12.10.2012) il manufatto di cui si controverte venne autorizzato con concessione edilizia n. 31/98 dell’11.01.1999 e successiva variante in sanatoria n. 47/2000 del 27.11.2000, titoli che riguardavano la realizzazione di un capannone industriale da adibire alla lavorazione del ferro con annessa palazzina destinata ad uffici e alloggio custode.
Viceversa, la domanda di agibilità dell’08.06.2010 è stata avanzata per una difforme destinazione, segnatamente quella di recupero e messa in riserva di rifiuti speciali non pericolosi che, ovviamente, presenta differenti esigenze igienico-edilizie derivanti dal diverso uso dei locali.
Ciò collide con l’art. 25, comma 1 lett. b), del Testo Unico dell’Edilizia che richiede la presentazione di una dichiarazione sottoscritta dallo stesso richiedente “di conformità dell'opera rispetto al progetto approvato”.
In secondo luogo, l’intervento contrasta con la destinazione urbanistica visto che, sulle aree de quibus (ricadenti in zona industriale) con delibere del 10.01.2008, 27.05.2008 e 05.08.2008, il Consiglio Comunale di Pastorano ha inibito lo svolgimento di attività di stoccaggio e trattamento di rifiuti pericolosi e, altresì, di quelli non pericolosi che presentano potenziali nocività per la salubrità dell’ambiente e per la salute dei cittadini.
Sussiste poi una ulteriore ragione a sostegno della legittimità dell’azione amministrativa, costituita dalla carenza dei presupposti di legge, con specifico riferimento alla omessa allegazione della documentazione prescritta dall’art. 25 del D.P.R. n. 380/2001.
Al riguardo, giova infatti rammentare, in via generale, che la formazione del silenzio-assenso sulle istanze dei privati postula che l'istanza sia assistita da tutti i presupposti di legge, non determinandosi ope legis l'accoglimento della richiesta ogni qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma. Difatti, il provvedimento di assenso tacito non può formarsi in assenza della documentazione completa prescritta dalle norme di settore, in quanto l'eventuale inerzia dell'amministrazione nel provvedere sull’istanza di avvio del procedimento non può far conseguire agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso; al riguardo, va precisato che il silenzio equivale al provvedimento amministrativo ma non incide in senso abrogativo sull'esistenza del regime autorizzatorio, che rimane inalterato, trattandosi di una modalità semplificata di conseguimento dell'autorizzazione.
La produzione di tale documentazione è indispensabile proprio al fine del riscontro dei requisiti soggettivi ed oggettivi, la cui incompletezza preclude la formazione del titolo abilitativo in forma tacita (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, n. 1100/2016).
Peraltro, della presenza di tutta la documentazione deve essere data prova, alla stregua degli ordinari principi processuali (art. 64 c.p.a.), dalla parte ricorrente, poiché si presume che la copia sia nella sua disponibilità oppure che sia virtualmente accessibile mediante l'impiego degli strumenti procedimentali o processuali previsti dall'ordinamento (cfr. TAR Lazio, Roma, n. 9267/2016).
Applicando tali coordinate ermeneutiche alla fattispecie in esame deve allora ritenersi che non sussistano in atti gli elementi sufficienti per la pronuncia, allo stato degli atti di causa, di una declaratoria di formazione del silenzio-assenso.
In particolare, dalla nota del Comune di Pastorano prot. n. 7065 del 12.10.2012 si evince che, contrariamente a quanto riportato nell’atto di diffida della società istante, non risultano acquisiti al protocollo dell’amministrazione locale l’autocertificazione dell’agibilità a firma dell’arch. An.Ce. -asseritamente prodotta in data 20.10.2010- e la relativa documentazione. Benché richiesti dall’ente locale, tali atti non sono stati esibiti dalla società ricorrente, con la conseguenza che l’incompletezza documentale impedisce la formazione del titolo per silentium.
Si aggiunga infine che, come sottolineato dalla difesa dell’amministrazione comunale, non vi è neppure prova del rilascio del parere dell’A.S.L., atto richiesto espressamente dall’art. 25, comma 4, del D.P.R. n. 380/2001 per la formazione del provvedimento tacito di assenso (“Trascorso inutilmente il termine di cui al comma 3, l'agibilità si intende attestata nel caso sia stato rilasciato il parere dell'A.S.L. di cui all'all'articolo 5, comma 3, lettera ‘a’. In caso di autodichiarazione, il termine per la formazione del silenzio-assenso è di sessanta giorni”).
Le considerazioni illustrate ostano alla piena operatività del silenzio-assenso sulla richiesta di agibilità avanzata dalla società ricorrente, con la conseguenza che gli atti impugnati si appalesano legittimamente adottati dalle amministrazioni intimate.
Per l’effetto, il ricorso ed i motivi aggiunti vanno respinti con conseguente condanna della società ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore del Comune di Pastorano (TAR Calabria-Napoli, Sez. I, sentenza 21.03.2018 n. 1773 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La società concessionaria della distribuzione dell’energia elettrica non sconta il pagamento del contributo di costruzione.
L’art. 17, comma 3, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001 recita che il contributo di costruzione non è dovuto: “c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Secondo pacifica giurisprudenza, dal punto di vista soggettivo, può beneficiare dell’esenzione anche un soggetto privato.
Invero, "Lo sgravio dal contributo di costruzione per le opere pubbliche o di interesse generale, ex art. 17, comma 3, lett. c), D.P.R. n. 380/2001, esige il concorso di due presupposti: uno oggettivo, l'ascrivibilità del manufatto oggetto di concessione edilizia alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale, e l'altro soggettivo, l'esecuzione delle opere da parte di enti istituzionalmente competenti, vale a dire da parte di soggetti cui sia demandata in via istituzionale la realizzazione di opere di interesse generale, ovvero da parte di privati concessionari dell'ente pubblico, purché le opere siano inerenti all'esercizio del rapporto concessorio.”

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... per l'annullamento del permesso di costruire n. 32/2012 del 01.10.2012, notificato ad Enel Distribuzione S.p.A. il 04.10.2012, rilasciato per i lavori di realizzazione di un fabbricato MT e lavori vari in Corso Sempione n. 50 nel territorio comunale, nella parte in cui ha "dato atto che l'opera di cui al presente permesso di costruire non ricade nei casi di esonero dal contributo di costruzione ai sensi dell'art. 17 del D.P.R. n. 380/2001" e disposto per il suo rilascio a carico della medesima società ricorrente la corresponsione della somma di Euro 2.558,88 a titolo di contributo relativo agli oneri di urbanizzazione di cui all'art. 16, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001;
- nonché per la condanna della medesima amministrazione comunale alla restituzione della somma di Euro 2.258,88 già versata da Enel Distribuzione S.p.A. a titolo di pagamento del contributo relativo agli oneri di urbanizzazione.
...
La società ricorrente ha impugnato il permesso di costruire n. 32/2012 limitatamente alla parte in cui ha affermato che l’intervento assentito (realizzazione di una nuova sezione della cabina MT di una cabina primaria di distribuzione dell’energia elettrica) non ricade nell’esonero del contributo previsto dall’art. 17 del d.p.r. n. 380/2001.
Deduce di essere concessionaria del servizio di distribuzione dell’energia elettrica in forza del DM 13.10.2003 e, in tale ruolo, di svolgere attività di manutenzione degli impianti elettrici ad Alta, Media e Bassa tensione; l’intervento autorizzato è stato posto in essere per far fronte all’obsolescenza di talune sezioni MT a giorno della cabina primaria che, in caso di guasto, comporterebbero il rischio di un black-out elettrico; l’intervento è anche finalizzato a migliorare la sicurezza degli operatori.
Il comune di Santhià ha quantificato gli oneri di urbanizzazione in € 2.258,88, che la ricorrente ha versato per la necessità di eseguire i lavori, contestando tuttavia che la fattispecie sarebbe esente dal contributo.
La ricorrente lamenta quindi: la violazione e falsa applicazione dell’art. 16, co. 2, del d.p.r. n. 380/2001 e dell’art. 8, co. 2, della l.r. Piemonte n. 23/1984; la falsa applicazione dell’art. 17 del d.p.r. n. 380/2001, il travisamento e la carenza di presupposti di fatto e diritto. La fattispecie presenterebbe i requisiti soggettivi ed oggettivi per l’esonero dal contributo.
Ha pertanto chiesto annullarsi il provvedimento impugnato in parte qua e condannarsi l’amministrazione resistente alla rifusione della somma versata, pari ad € 2.258,88, oltre interessi e rivalutazione.
...
L’art. 17, comma 3, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001 recita che il contributo di costruzione non è dovuto: “c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Secondo pacifica giurisprudenza, dal punto di vista soggettivo, può beneficiare dell’esenzione anche un soggetto privato; da ultimo si veda, ex pluribus, Cons. St. sez. IV. n. 5356/2017, secondo cui: “Lo sgravio dal contributo di costruzione per le opere pubbliche o di interesse generale, ex art. 17, comma 3, lett. c), D.P.R. n. 380/2001, esige il concorso di due presupposti: uno oggettivo, l'ascrivibilità del manufatto oggetto di concessione edilizia alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale, e l'altro soggettivo, l'esecuzione delle opere da parte di enti istituzionalmente competenti, vale a dire da parte di soggetti cui sia demandata in via istituzionale la realizzazione di opere di interesse generale, ovvero da parte di privati concessionari dell'ente pubblico, purché le opere siano inerenti all'esercizio del rapporto concessorio.”
Nel caso di specie è indubbio che la società sia concessionaria della distribuzione dell’energia elettrica e che la manutenzione delle cabine di distribuzione dell’energia con interventi che ne prevengano l’obsolescenza e garantiscano la sicurezza sia funzionale al corretto esercizio del rapporto concessorio di distribuzione dell’energia.
Ritiene quindi il collegio che ricorrano i presupposti soggettivi ed oggettivi per l’esenzione dal versamento del contributo.
Il ricorso deve dunque essere accolto con annullamento in parte qua del provvedimento impugnato e condanna di parte resistente a rifondere a parte ricorrente quanto indebitamente versato, oltre interessi dal giorno del versamento (19.09.2012, cfr. doc. 9 di parte ricorrente) al saldo; non sono invece dovute somme ulteriori a titolo di rivalutazione, non avendo la ricorrente allegato né dimostrato alcun maggior danno subito per l’indebito esborso (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 21.03.2018 n. 346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissioni e mezzi di prova esperibili - Rumori fastidiosi udibili nell'immobile sottostante anche in orario notturno - Superamento della normale tollerabilità ex art. 844 c.c. - Poteri del giudice di merito - Accorgimenti idonei a limitare le immissioni - Rivalutazione delle prove in Cassazione - Esclusione.
In tema di immissioni, i mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità ex art. 844 c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica che, di regola, vengono compiuti mediante apposita consulenza d'ufficio con funzione "percipiente", in quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone, l'intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone, potendosi in tale materia tuttavia ricorrere alla prova testimoniale quando essa verta su fatti caduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti e non si riveli espressione di giudizi valutativi (Cass. Sez. 2, 20/01/2017, n. 1606).
Spetta, in ogni modo, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito della stessa, supponendo tale accertamento un'indagine di fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di cassazione di prendere direttamente in esame l'intensità, la durata, o la frequenza dei suoni o delle emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di sopportabilità (Cass. Sez. 2, 05/08/2011, n. 17051; Cass. Sez. 2, 12/02/2010, n. 3438; Cass. Sez. 2, 25/08/2005, n. 17281) (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 20.03.2018 n. 6867 - link a www.ambientediritto.it).

INCARICHI PROFESSIONALINo a scorciatoie sulla parcella. Il legale non può trattenere soldi da debitori del cliente.
L'avvocato non può trattenere soldi dai debitori del suo cliente per il suo onorario.

Lo conferma la Corte di Cassazione - Sez. II penale, nella sentenza 12.03.2018 n. 10977, sul caso di un avvocato condannato per appropriazione indebita nel 2015 e pena confermata, nel 2017, dalla Corte territoriale di Bologna.
Essendo il patrocinatore legale di una società ha provveduto a riscuotere dall'azienda debitrice circa 10 mila euro, senza più restituirli. L'avvocato ha impugnato la sentenza della Corte d'appello bolognese «per essere insussistente la dimostrazione della presenza dell'elemento soggettivo del reato e dell'animus possidenti», si legge nel dispositivo, «e infatti, nella fattispecie non vi è stata, prima della proposizione della querela, alcuna richiesta di restituzione delle somme incassate. L'imputato era semplicemente in attesa delle istruzioni degli amministratori della propria cliente», spiega il legale, «tra i quali, a seguito degli avvicendamenti che si sono verificati, sono evidentemente insorte incomprensioni al riguardo».
Infine il legale portava, a difesa della sua condotta, l'autorizzazione verbale a trattenere quella somma dall'amministratore del suo cliente, in attesa che i vertici societari verificassero i conti. Anche se questa linea difensiva è stata smentita dalle alte sfere aziendali. Inoltre, si legge nella sentenza, «il pagamento era stato richiesto con lettera nella quale si invitava al pagamento «direttamente allo scrivente Studio» indicando allo scopo i dati dell'Iban, che trattavasi di procedura del tutto anomala rispetto alla prassi corrente per casi analoghi».
E i porporati di piazza Cavour hanno respinto il ricorso «inammissibile, in quanto basato su motivi manifestamente infondati o comunque non consentiti. Né dubbi possono giustificarsi in relazione alla eventuale presenza di crediti professionali del difensore. Infatti, quand'anche sussistessero eventuali crediti professionali, nel reato di appropriazione indebita non opera il principio della compensazione con credito preesistente, allorché si tratti di crediti non certi, né liquidi ed esigibili. E i crediti, di cui nella fattispecie si è vagamente parlato, erano tutti incerti, illiquidi e contestati»
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.04.2018).

ATTI AMMINISTRATIVISe la PA blocca l’impresa danni da liquidare in base ai mancati utili.
La pubblica amministrazione che ostacola l’attività di un imprenditore paga i danni, quantificati in relazione agli utili che risultano dai bilanci depositati.

Questo è l’innovativo principio posto dal Consiglio di Stato nella sentenza 06.03.2018 n. 1457.
La novità consiste nel collegamento tra l’ingiusto ritardo e l’attività economica danneggiata: nel caso deciso si discuteva di due anni di attività turistico balneare, paralizzata dal ministero per i Beni e le attività culturali.
La vicenda
In un Comune alle porte del Salento, un imprenditore aveva investito risorse su circa 40mila metri quadrati, ristrutturando alcuni trulli e collocando opere accessorie ad un’iniziativa balneare. Per due volte la Soprintendenza per i beni archeologici aveva fermato l’iniziativa, subendo peraltro due annullamenti dal locale Tar. Riattivata l’iniziativa, l’imprenditore ha chiesto al ministero un congruo risarcimento, sottolineando l’accanimento dell’amministrazione, nonché la sproporzione tra la paralisi imposta ed i presunti valori archeologici che si intendevano tutelare.
La decisione
La novità della pronuncia n. 1457/2018 consiste nel ragionamento utilizzato per quantificare il risarcimento: senza ricorrere a consulenze esterne, i giudici hanno accordato fiducia ai bilanci dell’impresa, quantificando gli utili perduti. Applicando princìpi posti dalla Corte di cassazione (sentenza 500/1999) e le norme del processo amministrativo, il risarcimento mitiga l’impatto dell’amministrazione sui cittadini. Utilizzando per la prima volta, a quanto è dato leggere nelle sentenze amministrative, il principio di accountability , cioè la resa del conto delle proprie azioni.
Resa del conto significa anche quantificazione dei danni, che il Consiglio di Stato ha effettuato utilizzando strumenti economici, senza ricorrere a parametri di equità o riduzione forfettaria in nome di un «interesse pubblico asseritamente prevalente». Superando quindi precedenti orientamenti (Consiglio di Stato 1271/2011) che avevano riconosciuto importi forfettari (15mila euro per un biennio di ritardo in edilizia, indennizzando sette punti di invalidità e la perdita dei capelli), la sentenza del 2018 valuta il mancato funzionamento dell’impianto produttivo, l’ostacolo all’attività di impresa e la carenza di guadagni.
I giudici hanno quindi indagato su ciò che sarebbe potuto avvenire senza gli ostacoli del ministero, ipotizzando ciò che sarebbe stato probabile che avvenisse («più probabile che non»): ne è scaturito il calcolo del tempo imprenditoriale perso (due anni), convertito poi in utili non percepiti. All’impresa danneggiata spetteranno due anni di utili (detratte le imposte), con riferimento al periodo in cui la struttura ha operato a regime (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.03.2018).
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MASSIMA
13 – Come si è detto, sotto il profilo del negato riconoscimento del danno da mancato guadagno commisurato all’impossibilità di svolgere la propria attività imprenditoriale l’appello merita di essere accolto, con le precisazioni che seguono.
Al riguardo, a supporto della domanda, i ricorrenti hanno depositato in giudizio perizia recante un’analitica quantificazione del presumibile utile annuale derivante dall’esercizio dell’attività di stabilimento balneare, in tale stima il lucro cessante veniva quantificato in circa € 400.000,00 per ogni anno di piena attività dello stabilimento balneare.
13.1 - Il Giudice di prime cure ha ritenuto che tale voce di danno non sarebbe sufficientemente provata; ciò perché il “potenziale pieno funzionamento della struttura risulta del tutto indimostrato”, considerato che “l’area in questione si trova tuttora allo stato incolto ... risultando realizzata solo la ristrutturazione del trullo”. In altre parole, ad avviso del Giudice, la mancata realizzazione della iniziativa imprenditoriale “nel periodo successivo all’annullamento degli atti impeditivi pone fondati dubbi sull’effettività dell’impedimento costituito da questi ultimi”.
Come anticipato la valutazione del primo giudice non risulta condivisibile.
13.2 – A tal fine
è utile ricordare il criterio che deve governare la materia in questione desumibile dalla norma di cui all’art. 1223 c.c., in base al quale è risarcibile il danno “conseguenza immediata e diretta” dell’illecito.
Secondo l’orientamento dominante tale formula sarebbe espressione del criterio della c.d. causalità adeguata, in base al quale devono ritenersi risarcibili anche le conseguenze indirette e mediate dell’illecito, purché normali, prevedibili e non anomale. In questo ambito, la giurisprudenza civile (Cass. 26042/2010) ha chiarito che la regola dell’art. 1223 cod. civ. “riguarda la determinazione dell’intero danno cagionato oggetto dell’obbligazione risarcitoria, attribuendosi rilievo, all’interno delle serie causali così individuate, a quelle che, nel momento in cui si produce l’evento, non appaiono del tutto inverosimili, come richiesto dalla cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, fondata su un giudizio formulato in termini ipotetici”.
Più in generale,
l’orientamento prevalente della Corte di Cassazione impone di considerare danni-conseguenza risarcibili quelli riconducibili al fatto illecito secondo principi di regolarità causale che fanno applicazione del criterio dell’id quod plerumque accidit.
In questa ottica,
la giurisprudenza ritiene risarcibile anche il danno mediato o indiretto, purché sia prodotto da una sequela normale di eventi che traggono origine dal fatto originario secondo la regola probatoria del “più probabile che non (Cass. civ., sez. III, n. 29.02.2016, 3893; id., sez. II, 24.04.2012, n. 6474; id., sez. III, 04.07.2006, n. 15274; id., sez. III, 19.08.2003, n. 12124; Cass. civ., sez. III, 17.09.2013, n. 21255).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Tutela dei beni paesaggistici - Esecuzione di interventi (anche non edilizi) potenzialmente idonei ad arrecare nocumento alle zone vincolate - Assenza autorizzazione - Alterazione, danneggiamento o deturpamento del paesaggio - Reato formale e di pericolo - Art. 181 d.lgs. n. 42/2004.
In tema di tutela dei beni paesaggistici, il reato formale e di pericolo previsto dall'art. 181 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 si perfeziona mediante l'esecuzione di interventi (anche non edilizi) potenzialmente idonei ad arrecare nocumento alle zone vincolate in assenza della preventiva autorizzazione e senza che sia necessario l'accertamento dell'intervenuta alterazione, danneggiamento o deturpamento del paesaggio, in quanto per la sua configurabilità, è sufficiente -come accertato nella specie- che l'agente faccia del bene protetto dal vincolo un uso diverso da quello a cui è destinato, essendo il vincolo imposto prodromico al governo del territorio stesso (Sez. 3, n. 34764 del 21/06/2011; Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013; Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2018 n. 9870 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Gestione non autorizzata - Trasporto e smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi - Rifiuti da demolizioni/lavori edili senza la prescritta autorizzazione - Responsabilità del rappresentante legale per il trasporto illecito effettuato dal dipendente - Albo Nazionale Gestori Ambientali - Iscrizione dei mezzi di trasporto - Necessità - Artt. 192 e 256 d.lgs. n.152/2006 - Giurisprudenza.
Si configurano i reati, ex artt. 192 e 256 d.lgs. n.152/2006, per il trasporto e smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi senza la prescritta autorizzazione.
Nella specie, si trasportava a mezzo autocarro, non ricompreso tra i mezzi di cui all'iscrizione Albo Nazionale Gestori Ambientali, rifiuti speciali provenienti da attività edile (circa otto/nove metri cubi, costituiti da parte di tegole, mattoni, cemento) depositandoli come sottofondo di una strada di cantiere (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.02.2018 n. 9056 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Con la notifica a mano scatta il termine breve.
La notifica della sentenza all'ente locale o all'ufficio fiscale può essere effettuata con consegna a mano all'impiegato addetto, che ne rilascia ricevuta, facendo decorrere il termine breve per l'impugnazione.

È quanto si legge nell'ordinanza 28.02.2018 n. 4616 della Corte di Cassazione, Sez. V civile.
Il collegio di legittimità era chiamato a pronunciarsi in merito a un ricorso proposto da un comune della provincia di Reggio Emilia, contro una sentenza della Ctr di Bologna, sfavorevole alla parte pubblica, avente a oggetto la tassazione di alcuni terreni, ritenti non edificabili dai giudici regionali. Costituendosi nel giudizio, il contribuente muoveva un'eccezione preliminare di tardività del ricorso per cassazione, proposto oltre il termine breve dalla notifica della sentenza. Il ricorso, infatti, era stato proposto il 25.11.2011, dunque oltre i 60 giorni dalla consegna della pronuncia, eseguita in data 03.12.2010.
Di contro, l'ente comunale sosteneva che la sentenza in questione era stata consegnata a mano presso l'ufficio tributi e tale modalità non era idonea a far decorrere il termine breve. All'uopo, richiamava il pensiero della Suprema corte secondo cui la conoscenza della sentenza da parte del soccombente non determina di per sé la decorrenza del termine breve, essendo necessario che la stessa avvenga secondo le modalità tipiche. Per questa ragione, la proposizione del ricorso doveva ritenersi tempestiva, avendo riguardano al termine lungo d'impugnazione.
La Cassazione ha ritenuto fondata l'eccezione di inammissibilità, compensando le spese di giudizio in ragione della novità dell'orientamento seguito, formatosi in epoca successiva alla proposizione del ricorso.
Piazza Cavour ha ricordato la modifica all'articolo 38, comma 2, del dlgs n. 546/1992, apportata dal dl 40/2010, secondo cui le notifiche delle sentenze tributarie si eseguono ai sensi della disciplina speciale contenuta nell'articolo 16 del citato dlgs n. 546. Tale norma, al comma 3, prevede che le notificazioni all'ufficio o all'ente locale possano essere effettuate «mediante consegna dell'atto all'impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia».
Questa modalità di notificazione, peculiarità del procedimento tributario, è certamente applicabile anche in relazione alla notifica della sentenza, risultando quindi idonea a far decorrere il termine breve per l'impugnazione.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
F.B. srl impugnava gli avvisi di accertamento con i quali il comune di Gattatico procedeva al recupero dell'Ici. La Ctr per l'Emilia Romagna, confermando la sentenza di primo grado, recepiva la tesi del contribuente, secondo cui i terreni di sua proprietà non erano assoggettabili a Ici in quanto non edificabili; il comune di Gattatico propone ricorso per Cassazione ( ).
La preliminare eccezione di tardività del ricorso per cassazione è fondata. Sostiene la controricorrente che è decorso il termine breve per impugnare la sentenza della Ctr, assumendo l'esistenza di una valida notifica della sentenza di secondo grado, secondo i modi previsti dal novellato art. 38, dlgs n. 542 del 1992. Nel caso di specie la parte controricorrente ha documentato di avere proceduto alla notifica mediante consegna diretta della sentenza della Ctr (depositata il 13/10/2010) al comune di Gattatico in data 03/12/2010, sicché il termine di 60 giorni per proporre ricorso in cassazione scadeva in data 03/02/2011, mentre il ricorso risulta notificato solo il 25/11/2011.
A fronte di tale deduzione, il comune ricorrente ha eccepito che la consegna a mani della sentenza non integra una forma di notifica idonea a far decorrere il termine breve per l'impugnazione ( ). Pur condividendosi tale orientamento, deve rilevarsi la non applicabilità nell'ambito del processo tributario, stante la specialità della disciplina prevista per tale giudizio; l'art. 38, comma 2, del dlgs 546/1992, è stato modificato dall'art.3 dl n. 40/2010 (conv. legge n. 73/2010) ( ).
La modifica normativa appena ricordata ha consentito alle parti private di procedere alla notificazione della sentenza con consegna diretta ai sensi del dlgs n. 546 del 1992, art. 16, comma 3, in base al quale le notificazioni all'ufficio del Ministero delle finanze e all'ente locale, possono essere effettuate «mediante consegna dell'atto all'impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia»; la peculiarità del regime della notifica valida in ambito tributario è sicuramente applicabile anche in relazione alla notifica della sentenza, come implicitamente riconosciuto da questa Corte, allorché si è affermato il principio secondo cui in tema di contenzioso tributario ( ) opera solo a partire dall'entrata in vigore della disposizione novellatrice, sicché, per l'epoca precedente, la notifica della sentenza deve effettuarsi ai sensi degli artt. 137 e ss. c.p.c. e non già ex art. 16 del dlgs n. 546 del 1992. ( ) sulla base di tali principi, il ricorso per cassazione proposto dal comune di Gattatico va dichiarato inammissibile, stante l'intervenuto decorso del termine per impugnare ( )
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.04.2018).

EDILIZIA PRIVATA: L’abrogato art. 3, l. 10/1977 individuava quale parametro l'incidenza delle spese di urbanizzazione. La giurisprudenza di questo Consiglio ha da sempre ritenuto che le modalità concrete di computo del detto contributo in relazione alle distinte tipologie di intervento edilizio fossero rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, deputata a definire il rapporto tra l’intervento edilizio e l’incidenza delle spese di urbanizzazione.
Così, ad esempio, si è affermato che "Il contributo di urbanizzazione e costruzione, richiesto dall'art. 3, l. 28.01.1977, n. 10 per il rilascio della concessione edilizia, trova la sua giustificazione nel concreto esercizio della facoltà di edificare, ed è commisurato all'incidenza delle relative spese.
Peraltro nessuna disposizione stabilisce che l'anzidetto contributo in caso di ristrutturazione del patrimonio edilizio non possa essere maggiore a quello dovuto per la realizzazione di nuove costruzioni.
Conseguentemente deve ritenersi legittima la deliberazione regionale con la quale l'intervento di ristrutturazione, che comporti un aumento delle abitazioni, sia assoggettato ad un maggior pagamento a titolo di oneri di urbanizzazione rispetto ad una nuova edificazione, tenuto conto che il costo delle opere di urbanizzazione può essere maggiore nel primo caso".
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Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere stesse.
Gli oneri di urbanizzazione sono dovuti sia per le nuove costruzioni sia nei casi di ristrutturazione e/o cambio di destinazione d'uso. Tanto in forza del principio contenuto nel detto art. 16, secondo il quale ogni qual volta l'Amministrazione rilascia un titolo edilizio in relazione ad un intervento, sia pure in variante, allo scopo di realizzare un mutamento della destinazione d'uso anche soltanto di tipo funzionale, il richiedente titolo è comunque tenuto a corrispondere gli oneri d'urbanizzazione ed il costo di costruzione connessi con l'intervento.
Non è consentito scorporare il criterio di quantificazione degli oneri di urbanizzazione dalla effettiva zonizzazione prevista dallo strumento urbanistico generale. Nel senso che:
   a) non può considerarsi legittima una quantificazione degli oneri di urbanizzazione che applichi le tariffe di una tipologia zona ad un intervento edilizio da realizzarsi su di una zona connotata da differente vocazione;
   b) solo in via sussidiaria, e comunque per il perseguimento di preminenti interessi pubblici, l’ente locale può valorizzare ulteriori parametri per la determinazione degli oneri di urbanizzazione, fermo restando il loro aggancio con il carico urbanistico individuabile per la relativa zona.
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L’elemento del “carico urbanistico”, introdotto dall’art. 3 della legge n. 10/1977, deve costituire il fondamentale criterio di riferimento per la determinazione del contributo di urbanizzazione, ma ciò non toglie che il Comune, nell’interesse pubblico, ben possa valorizzare a tali fini ulteriori parametri senza però poter permettere che situazioni di vantaggio di parte dei consociati vengano ingiustificatamente a gravare su altra parte della collettività locale.
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Se è vero che non può predicarsi una stretta inerenza tra il costo degli oneri di urbanizzazione e le opere da realizzare nella specifica area in questione è anche vero che la trasformazione edilizia in una zona di completamento o nuovo impianto va accompagnata fisiologicamente dalla realizzazione di un maggior numero di opere di urbanizzazione anche se le stesse possono non ricadere per ragioni programmatiche all’interno della stessa zona, rispetto all’intervento edilizio realizzato all’interno di un’area interamente urbanizzata quale il centro storico.
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6. L’appello è infondato e non può essere accolto.
La disamina delle censure sottoposte al Collegio deve essere preceduta dalla ricostruzione della disciplina di riferimento e dalla individuazione del decisum contenuto nella sentenza n. 6834/2007, la cui violazione viene invocata con l’odierno gravame.
6.1. Quanto alla disciplina relativa alle modalità di calcolo degli oneri di urbanizzazione va rammentato che l’abrogato art. 3, l. 10/1977 individuava quale parametro l'incidenza delle spese di urbanizzazione. La giurisprudenza di questo Consiglio ha da sempre ritenuto che le modalità concrete di computo del detto contributo in relazione alle distinte tipologie di intervento edilizio fossero rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, deputata a definire il rapporto tra l’intervento edilizio e l’incidenza delle spese di urbanizzazione.
Così, ad esempio, si è affermato che: “Il contributo di urbanizzazione e costruzione, richiesto dall'art. 3, l. 28.01.1977, n. 10 per il rilascio della concessione edilizia, trova la sua giustificazione nel concreto esercizio della facoltà di edificare, ed è commisurato all'incidenza delle relative spese; peraltro nessuna disposizione stabilisce che l'anzidetto contributo in caso di ristrutturazione del patrimonio edilizio non possa essere maggiore a quello dovuto per la realizzazione di nuove costruzioni; conseguentemente deve ritenersi legittima la deliberazione regionale con la quale l'intervento di ristrutturazione, che comporti un aumento delle abitazioni, sia assoggettato ad un maggior pagamento a titolo di oneri di urbanizzazione rispetto ad una nuova edificazione, tenuto conto che il costo delle opere di urbanizzazione può essere maggiore nel primo caso” (Cons. St., Sez. V, 27.09.1990, n. 692).
Il vigente art. 16, comma 4, d.P.R. n. 380/2001, invece, detta una disciplina secondo la quale: “L'incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la regione definisce per classi di comuni in relazione:
   a) all'ampiezza ed all'andamento demografico dei comuni;
   b) alle caratteristiche geografiche dei comuni;
   c) alle destinazioni di zona previste negli strumenti urbanistici vigenti;
   d) ai limiti e rapporti minimi inderogabili fissati in applicazione dall'articolo 41-quinquies, penultimo e ultimo comma, della legge 17.08.1942, n. 1150, e successive modifiche e integrazioni, nonché delle leggi regionali;
   d-bis) alla differenziazione tra gli interventi al fine di incentivare, in modo particolare nelle aree a maggiore densità del costruito, quelli di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3, comma 1, lettera d), anziché quelli di nuova costruzione;
   d-ter) alla valutazione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d'uso. Tale maggior valore, calcolato dall'amministrazione comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata ed è erogato da quest'ultima al comune stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l'interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l'intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche .
4-bis. Con riferimento a quanto previsto dal secondo periodo della lettera d-ter) del comma 4, sono fatte salve le diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici generali comunali
”.
Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall'ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere stesse (Cons. St., Sez. IV, 16.03.2017, n. 2881).
Secondo l’interpretazione fatta propria da questo Consiglio (ex plurimis Cons. St., Sez. IV, 28.06.2016, n. 2915), gli oneri di urbanizzazione sono dovuti sia per le nuove costruzioni sia nei casi di ristrutturazione e/o cambio di destinazione d'uso. Tanto in forza del principio contenuto nel detto art. 16, secondo il quale ogni qual volta l'Amministrazione rilascia un titolo edilizio in relazione ad un intervento, sia pure in variante, allo scopo di realizzare un mutamento della destinazione d'uso anche soltanto di tipo funzionale, il richiedente titolo è comunque tenuto a corrispondere gli oneri d'urbanizzazione ed il costo di costruzione connessi con l'intervento (Cons. St., Sez. IV, 15.09.2015, n. 4296).
Sempre la giurisprudenza di questo Consiglio ha stabilito che non è consentito scorporare il criterio di quantificazione degli oneri di urbanizzazione dalla effettiva zonizzazione prevista dallo strumento urbanistico generale. Nel senso che:
   a) non può considerarsi legittima una quantificazione degli oneri di urbanizzazione che applichi le tariffe di una tipologia zona ad un intervento edilizio da realizzarsi su di una zona connotata da differente vocazione;
   b) solo in via sussidiaria, e comunque per il perseguimento di preminenti interessi pubblici, l’ente locale può valorizzare ulteriori parametri per la determinazione degli oneri di urbanizzazione, fermo restando il loro aggancio con il carico urbanistico individuabile per la relativa zona.
 6.2. Tanto premesso sulla disciplina di riferimento occorre individuare l’esatta delimitazione della regula juris contenuta nella sentenza n. 6834/2007 di questo Consiglio. La citata pronuncia ha accolto il primo motivo di appello avente ad oggetto: “violazione dei principi generali sulla determinazione degli oneri di urbanizzazione e, in particolare, dell’art. 3 della legge 10/1977. Eccesso di potere per irragionevolezza e per manifesta ingiustizia”.
Secondo il Consiglio l’elemento del “carico urbanistico”, introdotto dall’art. 3 della legge n. 10/1977, deve costituire il fondamentale criterio di riferimento per la determinazione del contributo di urbanizzazione, ma ciò non toglie che il Comune, nell’interesse pubblico, ben possa valorizzare a tali fini ulteriori parametri senza però poter permettere che situazioni di vantaggio di parte dei consociati vengano ingiustificatamente a gravare su altra parte della collettività locale.
Nella fattispecie la pronuncia n. 6834/2007 ha ritenuto legittimo l’interesse pubblico, dato dalla ritenuta esigenza di favorire interventi di recupero del centro storico, posto a base della deliberazione del Consiglio comunale n. 119 del 23.12.1999 nella parte concernente la determinazione dei detti oneri per il centro storico e per le zone B e C. Ma, al contempo, ha stigmatizzato il meccanismo di utilizzare lo strumento delle agevolazioni previsto dall’art. 52, ultimo comma, della legge regionale Piemonte 05.12.1977 n. 56, e di compensarlo in assenza di adeguate risorse finanziarie mediante maggiorazione degli oneri sugli interventi relativi alle zone B e C.
Dalla ritenuta illegittimità della deliberazione di aggiornamento degli oneri concessori consegue, quindi, secondo la sentenza n. 6834/2007 l’obbligo dell’Amministrazione di provvedere nuovamente nella materia di cui trattasi, con conseguente rinnovo della valutazione del rapporto in causa.
7. Nell’esame delle doglianze contenute nell’odierno gravame deve ribadirsi come il sindacato del g.a. nella fattispecie debba limitarsi alla verifica della logicità dell’azione amministrativa e dell’assenza di vizi funzionali.
7.1. Quanto alla prima doglianza deve rilevarsi che la pronuncia n. 6834/2007 onera nuovamente l’amministrazione di riesercitare quel potere urbanistico illegittimamente cristallizzatosi nel provvedimento caducato in via giurisdizionale. Nel fare ciò l’amministrazione ben poteva perseguire l’interesse pubblico sotteso alla tutela del centro storico e, del pari, ben poteva affiancare al criterio del carico urbanistico ulteriori parametri, avendo cura di evitare un meccanismo meramente finanziario di aggravamento della situazione dei titolari delle aree B e C a favore dei proprietari di aree site nel centro storico.
La soluzione prescelta dall’amministrazione comunale, nel rispetto della disciplina di riferimento come del giudicato rappresentato dalla sentenza n. 6834/2007, mantiene fermo il criterio del carico urbanistico, quale elemento centrale, e giunge a prevedere una maggiorazione, rispetto alle aree del centro storico, degli oneri di urbanizzazione per le aree B e C, in forza della logica considerazione che queste ultime a differenza delle prime necessitano di un numero maggiore di opere di urbanizzazione.
In questo modo non vi è stata alcuna violazione o elusione della regula juris contenuta nel giudicato amministrativo, che non imponeva di provvedere diversamente quanto agli effetti di un’eventuale differenza dei parametri da utilizzare per il calcolo degli oneri di urbanizzazione in ragione delle diverse tipologie di aree, lasciando ampia discrezionalità sul punto all’amministrazione con i limiti sopra tratteggiati.
7.2. Del pari destituita di fondamento è la seconda doglianza, dal momento che gli interventi edilizi si differenziano quanto ad incidenza antropica ontologicamente in ragione della tipologia di area in cui vengano realizzati.
Pertanto, se è vero che non può predicarsi una stretta inerenza tra il costo degli oneri di urbanizzazione e le opere da realizzare nella specifica area in questione è anche vero che la trasformazione edilizia in una zona di completamento o nuovo impianto va accompagnata fisiologicamente dalla realizzazione di un maggior numero di opere di urbanizzazione anche se le stesse possono non ricadere per ragioni programmatiche all’interno della stessa zona, rispetto all’intervento edilizio realizzato all’interno di un’area interamente urbanizzata quale il centro storico.
Quanto, invece, all’affermazione secondo la quale le opere di urbanizzazione realizzate all’interno del centro storico sconterebbero costi maggiori, la stessa nella sua genericità non è assistita dalla logica, atteso il minor costo che in genere si riconosce alla mera manutenzione a fronte della realizzazione ex novo di un’opera di urbanizzazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.02.2018 n. 1187 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALIIl comune taglia la mensa causa genitori morosi Il Tar: ok, il servizio non ha valore educativo. Il giudice di Milano: La refezione non è un diritto, al massimo un interesse.
Non hanno funzione educativa né la refezione scolastica né il servizio di trasporto degli alunni.
Di questo avviso è il TAR Lombardia-Milano (Sez. III - sentenza 27.02.2018 n. 556) che ha rigettato un ricorso contro il comune di Corsico di genitori che contestavano l'esclusione dalla ristorazione di alcuni bambini.
La questione si incentrava nelle scuole dell'infanzia, primaria e secondaria di primo grado ove la refezione era in parte a carico dell'ente locale ed in parte degli utenti. Il Comune sul finire dell'anno 2015 denunciava una situazione di diffusa inadempienza dei fruitori del servizio (che pur avendo chiesto una rateizzazione, non l'avevano poi rispettata) che si contavano in più di 100 famiglie per un credito erariale di oltre un milione di euro. I figli dei genitori morosi sono stati prima sospesi e poi esclusi dal servizio.
I genitori non morosi che hanno promosso azione giudiziaria hanno lamentato che tale situazione si riverberava anche sui loro figli, i quali si trovavano a consumare il pasto senza i propri compagni, in una situazione altamente diseducativa. Invece, secondo il Tar l'azione dei genitori non morosi è inammissibile, poco o nulla rilevando la supposta violazione del diritto all'istruzione anche dei loro figli nella misura in cui costoro non consumando il pasto con i compagni morosi sarebbero privati della funzione socializzante della scuola e del servizio.
Tale motivo corrisponde tutt'al più a un interesse di mero fatto, come tale non tutelabile e da cui non scaturisce alcuna posizione legittimante: non da diritti, insomma. I servizi quali la refezione scolastica (o il viaggio nello scuolabus) non sono riconducibili al diritto all'istruzione, essendo semmai strumentali all'attività scolastica.
Infatti, la contestazione che i genitori non morosi non avessero titolo per promuovere la causa era già stata sollevata dal Comune di Corsico nel giudizio cautelare durante il quale i ricorrenti avevano chiesto la sospensiva della esclusione onde consentire a tutti i bambini di accedere alla mensa; tuttavia il Tar aveva rigettato (ordinanza n. 1595/2016) proprio perché il ricorso appariva già inammissibile sotto il profilo della legittimazione ad agire: nessuno dei ricorrenti era inciso dalla disposizione comunale. L'appello cautelare veniva poi accolto dal Consiglio di stato (ordinanza n. 1564/2017) pur se ai soli fini di sollecitare una tempestiva udienza di merito che, difatti, sopravveniva dopo qualche mese, ma non con l'esito sperato dai ricorrenti.
L'ente locale non ha alcun obbligo di organizzare il servizio, ma se decide di istituirlo è tenuto ad individuare il costo ed a stabilire la misura percentuale finanziabile con risorse comunali e quella da coprire per contribuzione degli utenti.
Il servizio di mensa scolastica è, infatti, un servizio pubblico locale e «a domanda individuale» così che non rientra tra quelli maggiormente garantiti dalla Direttiva (Dpcm) del 27/01/1994: essi riguardano il godimento dei diritti della persona alla salute, all'assistenza e previdenza sociale, alla istruzione e alla libertà di comunicazione, alla libertà e alla sicurezza della persona, e alla libertà di circolazione
(articolo ItaliaOggi del 06.03.2018).

EDILIZIA PRIVATA: La controversia attiene alla spettanza e alla liquidazione del contributo di costruzione riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ha ad oggetto l'accertamento di un rapporto di credito a prescindere dall'esistenza di atti dell’Amministrazione e non è soggetta alle regole delle azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi né ai rispettivi termini di decadenza.
Ne consegue l’inconfigurabilità dell'istituto dell'acquiescenza rispetto alla liquidazione del contributo e alla sua corresponsione in funzione del rilascio del titolo edilizio, non potendosi ritenere precluso all’interessato, dopo la sottoscrizione della polizza o dopo il pagamento, il ricorso alla tutela giurisdizionale per l’accertamento del diritto a non pagare ciò che ritiene eccedente rispetto a quanto è dovuto per legge.

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L’argomento del Comune secondo il quale non dovrebbero trovare applicazione tutte le norme della legge 24.03.1989, n. 122, perché la convenzione urbanistica richiama solo l’art. 2 di tale legge, è infondato.
Infatti, la convenzione ha natura negoziale ed è riconducibile all'autonomia privata disciplinata dal codice civile, con la conseguenza che gli obblighi a cui è soggetta tale autonomia non sono solo quelli che le parti si impongono liberamente e trovano espressione nell’accordo intervenuto tra le parti, ma, ai sensi dell'art. 1374 c.c., anche quelli che derivano dalla legge.
E’ pertanto necessario verificare se le norme della legge 24.03.1989, n. 122 debbano essere interpretate nel senso della gratuità o meno dei parcheggi pertinenziali.
Sul punto, benché la questione in giurisprudenza sia controversia, il Collegio condivide l’orientamento maggioritario secondo il quale la gratuità vale per tutti i parcheggi pertinenziali sia di edifici esistenti, che di edifici nuovi.
E’ infatti necessario considerare che, benché i parcheggi pertinenziali (nel rapporto di 1mq/10 mc) a servizio di edifici privati previsti dalla legge Tognoli non possano propriamente essere definiti come standard perché privi della destinazione pubblica, gli stessi sono espressamente equiparati a questi ai fini dell’esenzione del pagamento del costo di costruzione dall’art. 11, comma 1, della legge 24.03.1989, n. 122, secondo il quale “le opere e gli interventi previsti dalla presente legge costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell'articolo 9, primo comma, lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10”, e il citato art. 11 a questi fini non distingue tra parcheggi da realizzare in deroga ai parametri urbanistici ed edilizi a servizio di edifici esistenti, o parcheggi da realizzare su edifici nuovi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione ai sensi dell’art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150.
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Le Società ricorrenti nel Comune di Vicenza hanno realizzato degli interventi edilizi in attuazione del programma integrato di riqualificazione urbanistica, edilizia e ambientale denominato “Piruea Vetri” nel periodo compreso tra il 2000 e il 2011.
Nel calcolare l’importo della quota del contributo concessorio relativa al costo di costruzione il Comune ha incluso anche le superfici destinate a parcheggi pertinenziali obbligatori e le ricorrenti riferiscono di aver versato le relative somme al solo fine di ottenere celermente il rilascio dell’agibilità.
Tuttavia ritenendo erroneo il pagamento esteso anche alla superficie destinata a parcheggi obbligatori, ne hanno chiesto la restituzione con interessi calcolati dalla data di ciascun pagamento sino al saldo e la rivalutazione monetaria, per una somma in linea capitale di € 34.947,20 per Co. Spa e di € 31.667,68, per In.It. Spa, dapprima in via stragiudiziale ed in seguito con il ricorso in epigrafe.
Le ricorrenti a fondamento della propria pretesa pongono la previsione di cui all’art. 11, comma 1, della legge 24.03.1989, n. 122, secondo la quale “le opere e gli interventi previsti dalla presente legge costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell'articolo 9, primo comma, lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10”, per il rilievo che tale legge con l’art. 2, ha modificato l’art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, che ha imposto che “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”, con la conseguenza che i parcheggi obbligatori a servizio delle unità immobiliari residenziali devono ritenersi esenti dall’obbligo di pagamento del contributo di costruzione.
Si è costituito in giudizio il Comune di Vicenza eccependo in rito l’inammissibilità del ricorso per acquiescenza in quanto i ricorrenti, nel sottoscrivere le polizze fideiussorie a garanzia del pagamento del contributo di costruzione, non hanno sollevato alcuna riserva in ordine alla quantificazione degli importi.
Nel merito il Comune ha eccepito che la restituzione delle somme non è dovuta in quanto la costruzione degli edifici nel caso di specie è disciplinata da apposita convenzione che richiama solo l’art. 2 della legge 24.03.1989, n. 122 ed inoltre, contrariamente a quanto dedotto, la disciplina di favore che esonera dal pagamento del contributo di costruzione, riguarda solo gli interventi realizzati su edifici esistenti, e non quelli realizzati su edifici nuovi, per i quali non si applicano norme di deroga essendovi l’obbligo di realizzarli ai sensi dell’art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150.
Alla pubblica udienza del 17.01.2018, la causa è stata trattenuta in decisione.
L’eccezione di inammissibilità del ricorso deve essere respinta.
Infatti la controversia attiene alla spettanza e alla liquidazione del contributo di costruzione riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ha ad oggetto l'accertamento di un rapporto di credito a prescindere dall'esistenza di atti dell’Amministrazione e non è soggetta alle regole delle azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi né ai rispettivi termini di decadenza.
Ne consegue l’inconfigurabilità dell'istituto dell'acquiescenza rispetto alla liquidazione del contributo e alla sua corresponsione in funzione del rilascio del titolo edilizio, non potendosi ritenere precluso all’interessato, dopo la sottoscrizione della polizza o dopo il pagamento, il ricorso alla tutela giurisdizionale per l’accertamento del diritto a non pagare ciò che ritiene eccedente rispetto a quanto è dovuto per legge (cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 09.12.2015, n. 2580; Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.05.2015, n. 2294).
L’argomento del Comune secondo il quale non dovrebbero trovare applicazione tutte le norme della legge 24.03.1989, n. 122, perché la convenzione richiama solo l’art. 2 di tale legge, è infondato.
Infatti la convenzione ha natura negoziale ed è riconducibile all'autonomia privata disciplinata dal codice civile, con la conseguenza che gli obblighi a cui è soggetta tale autonomia non sono solo quelli che le parti si impongono liberamente e trovano espressione nell’accordo intervenuto tra le parti, ma, ai sensi dell'art. 1374 c.c., anche quelli che derivano dalla legge (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 04.05.2004, n. 2687; id. 10.01.2003, n. 33).
E’ pertanto necessario verificare se le norme della legge 24.03.1989, n. 122 debbano essere interpretate nel senso della gratuità o meno dei parcheggi pertinenziali.
Sul punto, benché la questione in giurisprudenza sia controversia, il Collegio condivide l’orientamento maggioritario secondo il quale la gratuità vale per tutti i parcheggi pertinenziali sia di edifici esistenti, che di edifici nuovi.
E’ infatti necessario considerare che, benché i parcheggi pertinenziali a servizio di edifici privati previsti dalla legge Tognoli non possano propriamente essere definiti come standard perché privi della destinazione pubblica, gli stessi sono espressamente equiparati a questi ai fini dell’esenzione del pagamento del costo di costruzione dall’art. 11, comma 1, della legge 24.03.1989, n. 122, secondo il quale “le opere e gli interventi previsti dalla presente legge costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell'articolo 9, primo comma, lettera f), della legge 28.01.1977, n. 10”, e il citato art. 11 a questi fini non distingue tra parcheggi da realizzare in deroga ai parametri urbanistici ed edilizi a servizio di edifici esistenti, o parcheggi da realizzare su edifici nuovi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione ai sensi dell’art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150 (cfr. Tar Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 20.11.2017, n. 751; Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, 11.09.2017, n. 1087; Tar Campania, Napoli, Sez. II, 11.04.2017, n. 1977; Consiglio di Stato, Sez. IV, 24.11.2016, n. 4937; Consiglio di Stato, sez. IV, 08.01.2013, n. 32; Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.11.2012, n. 6033; Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.11.2011, n. 6154; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 17.04.2007, n. 1779; Tar Campania, Napoli, Sez. IV, 16.07.2004, n. 10364).
Ne consegue che la pretesa azionata è fondata e il ricorso deve essere accolto con la precisazione tuttavia che la gratuità non va invece estesa ai parcheggi che eccedono la misura minima di legge.
Nel caso di specie pertanto, il Comune di Vicenza sarà tenuto a restituire le somme corrisposte per il costo di costruzione con riguardo ai soli parcheggi pertinenziali realizzati nella misura minima di legge maggiorate degli interessi legali dalla data delle domande (dovendosi presumere la buona fede dell'amministrazione percipiente; nel caso di specie le domande possono essere individuate nelle richieste di restituzione del 27.09.2012: cfr. doc. 40 allegato al ricorso) ovvero calcolati dalle date di ciascun pagamento, ove successive alle domande, sino all’effettivo soddisfo ai sensi dell’art. 2033 del codice civile, con esclusione della rivalutazione monetaria (rispetto all’esclusione della rivalutazione cfr. Tar Toscana, Sez. III, 27.11.2014, n. 1902; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 18.09.2013, n. 2172; Consiglio di Stato, Sez. V, 17.10.2013, n. 5045; Tar Friuli Venezia Giulia, 12.12.2013, n. 649).
La mancanza di univocità degli orientamenti giurisprudenziali sulla questione oggetto della controversia giustifica tuttavia l’integrale compensazione delle spese di giudizio tra le parti (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 21.02.2018 n. 209 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTIBocciato il «pdf» allegato alla Pec. Per i giudici è inesistente anche l’atto cartaceo con la dicitura «firmato digitalmente».
Notifiche. Cresce il filone delle pronunce che impongono la sottoscrizione «elettronica» con le modalità del Dpcm 13.11.2014.
Sono sempre più numerose le pronunce di merito che censurano le modalità digitali utilizzate dal Fisco per la formazione e la notificazione degli atti impositivi.
Così, la Ctr Liguria (sentenza 1745/3/2017, presidente Canepa e relatore D’Avanzo) e la Ctp Treviso (sentenza 93/1/2018, presidente Chiarelli e relatore Fadel) ribadiscono ancora una volta che è inesistente la notifica di un atto impositivo se avviene tramite messaggio Pec contenente in allegato il file dell’atto non firmato digitalmente.
E ancora, per la stessa Ctp Treviso (sentenza 15.01.2018 n. 55/1/2018, presidente Bazzotti, relatore Fadel - tratta da www.studiolegalesances.it) è inesistente l’avviso di accertamento notificato al contribuente in formato cartaceo, ma che non reca alcuna sottoscrizione autografa del dirigente dell’ufficio (o di un suo delegato) ma la sola dicitura «firmato digitalmente».
La notifica tramite Pec
Le prime due sentenze riguardano il caso di cartelle di pagamento notificate al contribuente in formato “pdf” allegato a un messaggio Pec. I contribuenti impugnano le cartelle di pagamento sotto svariati profili, evidenziando tra l’altro che il formato “pdf” del file allegato alla Pec non garantisce l’immodificabilità e l’integrità del documento informatico.
I giudici condividono questa tesi difensiva, in particolare richiamando l’articolo 21, comma 1-bis, del Dlgs 82/2005 (Codice dell’amministrazione digitale, Cad), secondo cui «l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità».
Da questa disposizione i giudici traggono il convincimento che, in base al Cad, solamente il documento informatico su cui è apposta la firma digitale, formato secondo le specifiche tecniche di cui al Dpcm 13.11.2014 (recante «Regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici» in attuazione del Cad), è munito delle oggettive caratteristiche di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità, oltre a consentire l’identificazione della paternità dell’atto, tali da renderne valida la notifica a Pec.
In mancanza di tali requisiti, non c’è nessuna certezza legale che l’atto inviato telematicamente sia identico al provvedimento in originale e che esso sia giunto integro al suo destinatario. Pertanto, l’atto non è idoneo a manifestare la volontà dell’amministrazione di incidere nella sfera del destinatario (come anticipato, questa linea è stata sposata da molte altre pronunce di merito; solo per citarne alcune: Ctr Campania 9464/11/2017, Ctp Milano 1023/1/2017, Ctp La Spezia 420/1/2017, Ctp Vicenza 615/2/2017).
Atto cartaceo e firma digitale
La terza sentenza citata riguarda il caso di un avviso di accertamento notificato al contribuente in forma cartacea, ma recante la sola stampigliatura del nominativo del funzionario dell’ufficio seguita dalla dicitura «firmato digitalmente».
Anche in questo caso, a fronte di una specifica doglianza avanzata dal contribuente, i giudici hanno annullato l’atto, sottolineando che la normativa rilevante (articolo 15, comma 7, Dl 78/2010 e provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate del 02.11.2010) consente di sostituire la firma autografa con l’indicazione a stampa del nominativo del responsabile nei soli casi in cui l’atto:
   - sia prodotto da sistemi informativi automatizzati;
   - e sia il risultato di attività a carattere seriale effettuate con modalità di lavorazione accentrata (è il caso degli accertamenti delle tasse automobilistiche, delle concessioni governative, dell’imposta di registro annuale sui canoni di locazione pluriennali).
Ne consegue che per gli accertamenti ordinari notificati in formato cartaceo, la firma deve essere autografa. Anche in questo caso, in difetto di tale elemento, non può ritenersi formata alcuna volontà del Fisco idonea ad incidere nella sfera del contribuente (articolo Il Sole 24 Ore 16.04.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell'accertamento della avvenuta ultimazione dei lavori è necessario verificare se l'opera presenti le finiture interne ed esterne quali, in particolare, gli intonaci e gli infissi.
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3. Venendo, poi, al primo motivo di ricorso presentato da Mi.Ru. (secondo motivo di impugnazione per Mo. e Sa.), i ricorrenti deducono l'avvenuta maturazione della prescrizione in relazione ai reati contestati ai capi e), f) e g) dell'imputazione: ciò sul presupposto che il fabbricato fosse stato ultimato ad agosto/settembre 2007 o che, comunque, a tale data, i lavori fossero stati sospesi volontariamente.
Sul punto, va nondimeno rilevato che la Corte territoriale ha puntualmente posto in luce come, alla stregua della consolidata elaborazione della giurisprudenza di legittimità, ai fini dell'accertamento della avvenuta ultimazione dei lavori, sia necessario verificare se l'opera presenti le finiture interne ed esterne quali, in particolare, gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, dep. 20/11/2014, Surano, Rv. 261153). Ciò che, tuttavia, nel caso di specie è stato motivatamente escluso, avendo l'istruttoria dimostrato, alla stregua della documentazione fotografica in atti, che il fabbricato era, al momento dell'accertamento, assolutamente incompleto, presentandosi "al grezzo e privo di ogni rifinitura interna".
In proposito, manifestamente inconferente è la tesi difensiva, espressa in sede di appello e ribadita in occasione del ricorso introduttivo del presente giudizio, secondo la quale le finiture sarebbero state superflue in quanto il fabbricato sarebbe stato destinato a rimessa agricola, avendo, in proposito, i giudici di merito correttamente sottolineato come il manufatto fosse stato, al contrario, destinato ad uso abitativo.
Pertanto, anche la presente censura si palesa come manifestamente infondata
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2017 n. 43151).

EDILIZIA PRIVATA: L'ultimazione dei lavori coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi, di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato.
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1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Muovendo dal primo motivo di impugnazione, giova premettere che
l'ultimazione dei lavori, secondo l'orientamento accolto da questo Collegio, coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011, Ventura, Rv. 251424), di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato (Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261153).
Tanto premesso, osserva il Collegio che, diversamente da quanto opinato dalla ricorrente, la sentenza ha adeguatamente specificato come al momento del sopralluogo il manufatto si presentasse come lungi dall'essere ultimato, atteso che secondo quanto dichiarato dal teste An.Pe. in occasione dell'udienza del 03.07.2012 e riportato nel verbale di sopralluogo in atti, il manufatto era completo nella sua struttura, ma mancava delle rifiniture.
Ne consegue, pertanto, l'infondatezza delle censure difensive svolte con il primo motivo di ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.06.2017 n. 30654).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, in relazione all’impugnazione dei titoli edilizi, “il rapporto di vicinitas, ossia di stabile collegamento con l’area interessata dall’intervento contestato, è idoneo e sufficiente a fondare tanto la legittimazione (ossia la titolarità di una posizione giuridica qualificata e differenziata rispetto a quella di quisque de populo) quanto l’interesse a ricorrere (ossia la sussistenza di una lesione concreta e attuale alla detta situazione giuridica per effetto del provvedimento amministrativo impugnato)”.
Nel caso oggetto del presente giudizio, il rapporto di vicinitas sussiste indubitabilmente, perché l’impugnazione viene proposta dal proprietario di un’unità immobiliare sita nella palazzina posta in aderenza a quella cui si riferisce il titolo edilizio gravato.
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2.3 Infine, si eccepisce che il sig. Co. non avrebbe dimostrato di essere effettivamente residente nella palazzina adiacente, né un titolo di proprietà dal quale possa desumersi la vicinitas rispetto all’immobile cui si riferisce il permesso di costruire impugnato. Inoltre, il ricorrente non avrebbe provato di essere titolare di un interesse meritevole di tutela all’annullamento del permesso di costruire.
2.3.1 Al riguardo, deve però rilevarsi che il ricorrente ha poi comprovato quanto allegato nel ricorso, mediante il deposito agli atti del giudizio di copia del certificato di residenza e dell’atto di assegnazione dell’unità immobiliare da parte della Cooperativa edilizia “Il Bosco”.
2.3.2 Quanto alla prova dell’interesse all’annullamento, è sufficiente richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale per il quale, in relazione all’impugnazione dei titoli edilizi, “il rapporto di vicinitas, ossia di stabile collegamento con l’area interessata dall’intervento contestato, è idoneo e sufficiente a fondare tanto la legittimazione (ossia la titolarità di una posizione giuridica qualificata e differenziata rispetto a quella di quisque de populo) quanto l’interesse a ricorrere (ossia la sussistenza di una lesione concreta e attuale alla detta situazione giuridica per effetto del provvedimento amministrativo impugnato)” (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 12.05.2014, n. 2403).
Nel caso oggetto del presente giudizio, il rapporto di vicinitas sussiste indubitabilmente, perché l’impugnazione viene proposta dal proprietario di un’unità immobiliare sita nella palazzina posta in aderenza a quella cui si riferisce il titolo edilizio gravato.
2.3.3 Anche questa eccezione va quindi respinta.
2.4 In definitiva, le eccezioni in rito vanno rigettate (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.05.2017 n. 1211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come è noto, il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, ai sensi del predetto articolo 36, richiede la c.d. doppia conformità, requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie.
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3. Nel merito, il ricorso R.G. 2573 del 2013 è fondato, poiché deve trovare accoglimento il primo motivo di impugnazione.
3.1 Come detto, il permesso di costruire ha disposto la sanatoria della realizzazione di un “locale tecnico sopra la copertura piana”. Tale era, infatti, lo stato dei luoghi, poiché, nonostante nella pratica edilizia si descrivesse il manufatto come sito nel “piano sottotetto”, esso –in base agli elaborati grafici della stessa pratica– risulta innalzato sulla superficie che avrebbe dovuto costituire il piano di calpestio del sottotetto, ma che costituisce, di fatto, la copertura dell’edificio.
3.2 Tuttavia, come esattamente evidenziato dal ricorrente, l’articolo 5.5 delle NTA del PEEP stabilisce che “per gli edifici da realizzare sono, altresì, vincolanti i seguenti elementi compositivi, decorativi e di finitura, come indicati alla TAV. n. 11 – Abaco elementi architettonici vincolanti:
- copertura del tetto in coppi, a falde inclinate...
”.
La previsione, nel suo chiaro tenore, esclude quindi la possibilità di realizzare una copertura piana con un ulteriore vano tecnico, in elevazione su di essa, destinato anche a svolgere funzione “di supporto ai pannelli solari”, secondo quanto risulta dalle tavole allegate alla pratica edilizia (v. doc. 7 della ricorrente).
Né può assumere alcun rilievo, in senso contrario, la previsione dell’articolo 27 dell’allegato energetico al Regolamento edilizio di Lodi del 2008, richiamato dal Condominio interveniente.
La previsione normativa si limita infatti a consigliare che, per le coperture piane, almeno l’80 per cento della superficie di falda sia realizzata come “tetti verdi”, ovvero che, per la stessa superficie, siano adottati altri accorgimenti indicati dalla medesima disposizione. La norma ora richiamata non reca, quindi, una prescrizione vincolante e, comunque, essa si riferisce al solo caso in cui sia legittimamente realizzabile una copertura piana, ma non impone (e neppure suggerisce) di costruire unicamente coperture piane.
Pertanto, anche senza approfondire il rapporto tra le previsioni delle NTA del PEEP e quelle generali contenute nel Regolamento edilizio comunale, deve escludersi che dall’articolo 27 dell’Allegato energetico al predetto Regolamento possa trarsi una prescrizione che legittimi, di per sé, la costruzione di coperture piane.
3.3 La sanatoria rilasciata dal Comune è, quindi, incompatibile con la disciplina urbanistica vigente al tempo della realizzazione dell’abuso, poiché ha ad oggetto una conformazione della copertura dell’edificio del tutto diversa rispetto a quella prevista dalla disciplina vincolante stabilita dal PEEP.
Ciò di per sé comporta l’illegittimità del titolo edilizio, senza che possa assumere alcun rilievo, in senso contrario, l’eventuale conformità rispetto alla disciplina sopravvenuta contenuta nel Piano di Governo del Territorio, allegata dal Comune nelle sue difese.
Come è noto, infatti, il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, ai sensi del predetto articolo 36, richiede la c.d. doppia conformità, requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 18.07.2016, n. 3194; Id., Sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
3.4 In conclusione, il permesso di costruire è affetto dal vizio denunciato dal ricorrente nel primo motivo di impugnazione, per cui il ricorso R.G. 2573 del 2013 va accolto, con assorbimento delle rimanenti censure (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.05.2017 n. 1211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve ricordarsi che la denuncia d’inizio attività, secondo quanto autorevolmente chiarito, ormai da tempo, dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, “non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge”.
Affermazione, questa, che ha poi trovato piena conferma da parte del legislatore, posto che l’attuale articolo 19, comma 6-ter, primo periodo della legge n. 241 del 1990 –introdotto dall'articolo 6, comma 1, lett. c) del decreto legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148– stabilisce espressamente che “La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili”.
Nessun provvedimento si forma, dunque, per silenzio-assenso a seguito della presentazione della denuncia di inizio attività, né –del resto– quest’ultima costituisce un atto direttamente impugnabile dal privato, secondo quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza della Sezione.
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L’unico rimedio previsto dall’ordinamento a favore del terzo che si ritenga leso da una denuncia o segnalazione certificata di inizio attività è costituito dall’azione prevista dall’articolo 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, il quale dispone che “Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”, ossia agire avverso il silenzio dell’amministrazione.
La suddetta previsione impone all’amministrazione di riscontrare motivatamente, in ogni caso, l’istanza con cui un terzo, titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata, abbia sollecitato l’intervento della stessa amministrazione in relazione a una denuncia o segnalazione certificata di inizio attività.
In particolare, laddove l’istanza pervenga entro sessanta giorni dal momento in cui tale soggetto risulta aver avuto conoscenza dei profili lesivi dell’intervento, l’amministrazione sarà tenuta a esercitare, sussistendone i presupposti, pieni poteri inibitori, poiché –in difetto– il terzo subirebbe una diminuzione della tutela accordatagli rispetto a chi sia leso da un permesso di costruire.
Superati i sessanta giorni, l’amministrazione dovrà comunque a verificare, dandone conto motivatamente, unicamente la sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’autotutela.
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L’iter che prende avvio con la presentazione dell’istanza dell’interessato il quale chiede all’amministrazione l’esercizio dei poteri inibitori (avverso una presentata d.i.a.) costituisce una fase procedimentale necessaria e un passaggio obbligato per l’accesso alla tutela giurisdizionale. E, in questa prospettiva, l’identità del soggetto che presenta l’istanza e la posizione legittimante che questi vanta è rilevante, per diverse ragioni.
Anzitutto, perché l’obbligo per l’amministrazione di pronunciarsi in ogni caso sull’istanza, secondo quanto si è detto, sussiste soltanto rispetto ai terzi che siano titolari di una posizione qualificata e differenziata, ossia nei confronti di quei soggetti che potrebbero impugnare il titolo edilizio, ove questo consistesse in un provvedimento espresso.
In secondo luogo, perché –come sopra detto– il potere che l’amministrazione è chiamata a esercitare varia in relazione al momento in cui il terzo che presenta l’istanza ha avuto conoscenza della denuncia o segnalazione di inizio attività. Se, infatti, questi ha atteso più di sessanta giorni dalla conoscenza della denuncia o segnalazione per sollecitare l’esercizio dei poteri inibitori, l’amministrazione potrà esercitare tali poteri solo in presenza dei presupposti per l’autotutela.
La successiva azione avverso il silenzio è diretta, poi, a dare tutela al soggetto, titolare di una posizione qualificata e differenziata, che ha presentato l’istanza di esercizio dei poteri inibitori. E nella sede giurisdizionale va verificata anche la latitudine dei poteri spettanti all’amministrazione in relazione a quell’istanza. Conseguentemente, lo stretto rapporto che lega la fase procedimentale necessaria prevista dall’articolo 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990 con la successiva eventuale azione giurisdizionale contro il silenzio dell’amministrazione comporta che il soggetto legittimato ad agire contro il silenzio dell’amministrazione debba necessariamente coincidere con quello che ha presentato l’istanza con la quale è stato sollecitato l’esercizio dei poteri inibitori.
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4. Venendo, quindi, all’esame del ricorso R.G. 28 del 2014, il Collegio deve constatare che tutte le domande proposte sono inammissibili.
4.1 Come sopra detto, la parte ha chiesto, anzitutto, l’annullamento del silenzio-assenso che si sarebbe formato sulla denuncia di inizio attività presentata dalla Cooperativa “Lodi in fiore” in data 11.07.2013, e –occorrendo– l’annullamento della stessa d.i.a. e del titolo edilizio perfezionatosi in merito alla stessa.
Al riguardo, deve ricordarsi che la denuncia d’inizio attività, secondo quanto autorevolmente chiarito, ormai da tempo, dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, “non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge” (Ad. Plen. n. 15 del 2011).
Affermazione, questa, che ha poi trovato piena conferma da parte del legislatore, posto che l’attuale articolo 19, comma 6-ter, primo periodo della legge n. 241 del 1990 –introdotto dall'articolo 6, comma 1, lett. c) del decreto legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148– stabilisce espressamente che “La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili”.
Nessun provvedimento si forma, dunque, per silenzio-assenso a seguito della presentazione della denuncia di inizio attività, né –del resto– quest’ultima costituisce un atto direttamente impugnabile dal privato, secondo quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza della Sezione (v., tra le ultime, TAR Lombardia, Milano, Sezione II, 15.02.2017, n. 389; Id., 29.11.2016, n. 2251; Id., 14.01.2016, n. 80; v. inoltre, tra le meno recenti: Id., 11.11.2008, n. 5294; Id., 15.11.2007, n. 6361; Id., 10.05.2007, n. 2894; Id., 17.10.2005, n. 3819).
Per questa ragione, le domande di annullamento sopra indicate sono inammissibili.
4.2 Il ricorrente ha poi chiesto, “in ogni caso”, l’accertamento del mancato esercizio del potere inibitorio in merito alla d.i.a. da parte del Comune di Lodi.
4.2.1 Al riguardo, deve richiamarsi la giurisprudenza di questa Sezione (v. in particolare TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.04.2016, n. 735, alle cui motivazioni si rinvia), la quale ha già avuto modo di affermare che l’unico rimedio previsto dall’ordinamento a favore del terzo che si ritenga leso da una denuncia o segnalazione certificata di inizio attività è costituito dall’azione prevista dall’articolo 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, il quale dispone che “Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”, ossia agire avverso il silenzio dell’amministrazione.
La suddetta previsione impone all’amministrazione di riscontrare motivatamente, in ogni caso, l’istanza con cui un terzo, titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata, abbia sollecitato l’intervento della stessa amministrazione in relazione a una denuncia o segnalazione certificata di inizio attività.
In particolare, laddove l’istanza pervenga entro sessanta giorni dal momento in cui tale soggetto risulta aver avuto conoscenza dei profili lesivi dell’intervento, l’amministrazione sarà tenuta a esercitare, sussistendone i presupposti, pieni poteri inibitori, poiché –in difetto– il terzo subirebbe una diminuzione della tutela accordatagli rispetto a chi sia leso da un permesso di costruire.
Superati i sessanta giorni, l’amministrazione dovrà comunque a verificare, dandone conto motivatamente, unicamente la sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’autotutela.
4.2.2 Nel caso oggetto del presente giudizio, anche a voler ritenere che –nonostante la formulazione testuale– la domanda del ricorrente possa essere riqualificata come diretta a ottenere tutela avverso il silenzio dell’amministrazione sull’istanza di esercizio dei poteri inibitori, essa risulta comunque inammissibile. E ciò in quanto –come correttamente eccepito dalla difesa del Condominio interveniente– risulta agli atti del giudizio che l’esposto all’amministrazione al quale fa riferimento il ricorrente è stato presentato non dal sig. Co., bensì dalla Cooperativa edilizia “Il Bosco”.
E’ solo quest’ultimo soggetto giuridico, pertanto, che avrebbe potuto eventualmente agire contro il silenzio serbato sull’istanza dall’amministrazione.
Questa conclusione è imposta dalla circostanza che –come già chiarito dalla Sezione nella sentenza n. 735 del 2016– l’iter che prende avvio con la presentazione dell’istanza dell’interessato il quale chiede all’amministrazione l’esercizio dei poteri inibitori costituisce una fase procedimentale necessaria e un passaggio obbligato per l’accesso alla tutela giurisdizionale. E, in questa prospettiva, l’identità del soggetto che presenta l’istanza e la posizione legittimante che questi vanta è rilevante, per diverse ragioni.
Anzitutto, perché l’obbligo per l’amministrazione di pronunciarsi in ogni caso sull’istanza, secondo quanto si è detto, sussiste soltanto rispetto ai terzi che siano titolari di una posizione qualificata e differenziata, ossia nei confronti di quei soggetti che potrebbero impugnare il titolo edilizio, ove questo consistesse in un provvedimento espresso.
In secondo luogo, perché –come sopra detto– il potere che l’amministrazione è chiamata a esercitare varia in relazione al momento in cui il terzo che presenta l’istanza ha avuto conoscenza della denuncia o segnalazione di inizio attività. Se, infatti, questi ha atteso più di sessanta giorni dalla conoscenza della denuncia o segnalazione per sollecitare l’esercizio dei poteri inibitori, l’amministrazione potrà esercitare tali poteri solo in presenza dei presupposti per l’autotutela.
La successiva azione avverso il silenzio è diretta, poi, a dare tutela al soggetto, titolare di una posizione qualificata e differenziata, che ha presentato l’istanza di esercizio dei poteri inibitori. E nella sede giurisdizionale va verificata anche la latitudine dei poteri spettanti all’amministrazione in relazione a quell’istanza. Conseguentemente, lo stretto rapporto che lega la fase procedimentale necessaria prevista dall’articolo 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990 con la successiva eventuale azione giurisdizionale contro il silenzio dell’amministrazione comporta che il soggetto legittimato ad agire contro il silenzio dell’amministrazione debba necessariamente coincidere con quello che ha presentato l’istanza con la quale è stato sollecitato l’esercizio dei poteri inibitori.
Nel caso oggetto del presente giudizio, come rilevato, questa coincidenza non sussiste.
Da ciò l’inammissibilità della domanda proposta dal ricorrente (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.05.2017 n. 1211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo giurisprudenza di questa Corte, ormai consolidata, non può essere attribuito ad un soggetto per il solo fatto di essere proprietario di un'area, un dovere di controllo dalla cui violazione derivi una responsabilità penale per costruzione abusiva.
Il semplice fatto dì essere proprietario o comproprietario del terreno sul quale vengono svolti lavori edilizi illeciti, pur potendo costituire un indizio grave, non è sufficiente da solo ad affermare la responsabilità penale, essendo necessario a tal fine, rinvenire elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che egli abbia in qualche modo concorso anche solo moralmente con il committente o l'esecutore dei lavori.
Occorre considerare, 'in sostanza, la situazione concreta in cui si è svolta l'attività incriminata, tenendo conto non soltanto della piena disponibilità, giuridica o di fatto, del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare una costruzione (principio del "cui prodest"), bensì pure di rapporti di parentela ed affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario, dell'eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo, dello svolgimento di attività di materiale vigilanza dell'esecuzione dei lavori, della richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; del regime patrimoniale tra coniugi e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione anche morale all'esecuzione delle opere".
La giurisprudenza successiva ha ribadito che in materia edilizia può essere attribuita al proprietario, non formalmente committente dell'opera, la responsabilità per la violazione dell'art. 44 DPR 380/2001, sulla base di valutazioni fattuali, quali l'accertamento che questi abiti nello stesso territorio comunale ove è stata eretta la costruzione abusiva, che sia stato individuato sul luogo, che sia destinatario finale dell'opera, che abbia presentato richieste di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria.
Più di recente questa Corte, nel richiamare tutti tali principi, ha sottolineato che "grava inoltre sull'interessato l'onere di allegare circostanze utili a convalidare la tesi che, nella specie, si tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà".

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1. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
2. In ordine al primo motivo, va rilevato che, secondo giurisprudenza di questa Corte, ormai consolidata, non può essere attribuito ad un soggetto per il solo fatto di essere proprietario di un'area, un dovere di controllo dalla cui violazione derivi una responsabilità penale per costruzione abusiva. Il semplice fatto dì essere proprietario o comproprietario del terreno sul quale vengono svolti lavori edilizi illeciti, pur potendo costituire un indizio grave, non è sufficiente da solo ad affermare la responsabilità penale, essendo necessario a tal fine, rinvenire elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che egli abbia in qualche modo concorso anche solo moralmente con il committente o l'esecutore dei lavori (v. Cass. Sez. 3, 29/03/2001-Bertin).
Occorre considerare, 'in sostanza, la situazione concreta in cui si è svolta l'attività incriminata, tenendo conto non soltanto della piena disponibilità, giuridica o di fatto, del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare una costruzione (principio del "cui prodest"), bensì pure di rapporti di parentela ed affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario, dell'eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo, dello svolgimento di attività di materiale vigilanza dell'esecuzione dei lavori, della richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; del regime patrimoniale tra coniugi e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione anche morale all'esecuzione delle opere" (così Cass. pen. Sez. 3 n. 216 del 08/10/2004; conf. Cass. Sez. 3 n. 5476 del 29/04/1999, Zarbo; Cass. Sez. 3 n. 31130 del 10/08/2001, Gagliardi; Cass. Sez. 3, 25/02/2003, Cafasso ed altro).
La giurisprudenza successiva ha ribadito che in materia edilizia può essere attribuita al proprietario, non formalmente committente dell'opera, la responsabilità per la violazione dell'art. 44 DPR 380/2001, sulla base di valutazioni fattuali, quali l'accertamento che questi abiti nello stesso territorio comunale ove è stata eretta la costruzione abusiva, che sia stato individuato sul luogo, che sia destinatario finale dell'opera, che abbia presentato richieste di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria (cfr. ex multis cass. pen. sez. 3 n. 9536 del 20/01/2004; Cass. sez. 3, 14/02/2005,Di Marino; Cass. sez. 3 n. 32856 del 13/072005, Farzone).
Più di recente questa Corte, nel richiamare tutti tali principi, ha sottolineato che "grava inoltre sull'interessato l'onere di allegare circostanze utili a convalidare la tesi che, nella specie, si tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà" (Cass. pen. Sez. 3 n. 25669 del 30/05/2012 che richiama anche Cass. Sez. 3 n. 35907 del 19/09/2008 e tutte le precedenti pronunce).
2.1. La Corte distrettuale ha fatto corretta applicazione di tali principi, rilevando, sulla base di una serie di elementi, che gli imputati fossero committenti dell'opera realizzata. Che fossero proprietari del terreno emerge pacificamente, avendo già il primo giudice accertato che essi avevano acquistato la titolarità della particella n. 263, su cui era stata realizzata l'opera, in forza di contratto di compravendita del 28/07/2004.
Ma, oltre che dalla qualifica formale di proprietari, la riferibilità dell'opera realizzata è stata desunta dalla testimonianza Al.Sa. (il quale riferiva che gli imputati avevano iniziato a scaricare, sul suolo di loro proprietà, materiale di risulta, proseguendo nonostante la emissione di tre ordinanze di rimessione in pristino), dall'autorizzazione comunale n. 73/2005, rilasciata ai medesimi imputati, dalla testimonianza dell'ing. Co., dirigente del settore urbanistica del Comune, secondo cui il manufatto realizzato era difforme da quello per cui gli imputati medesimi erano stati autorizzati.
Non vi è stata, quindi, alcuna inversione dell'onere della prova, essendosi la Corte territoriale limitata ad affermare che a, fronte di tali non equivoci elementi, valutati complessivamente, gli imputati non avevano neppure negato di avere la disponibilità di fatto del terreno e neppure ipotizzato che altri potessero avere a loro insaputa realizzato l'opera (cfr. la già richiamata sentenza n. 35907 del 19/09/2008) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2017 n. 22336).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di un muro di recinzione necessita del previo rilascio del permesso di costruire allorquando, avuto riguardo alla sua struttura ed all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto del territorio, così rientrando nel novero degli interventi di nuova costruzione di cui all'art. 3, lett. e), DPR 380 del 2001.
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3. La Corte territoriale ha poi correttamente ritenuto che, per le dimensioni e caratteristiche del muro di recinzione (lungo circa 70 metri ed alto circa metri 2,60) fosse necessario il permesso di costruire.
Infatti la realizzazione di un muro di recinzione necessita del previo rilascio del permesso di costruire allorquando, avuto riguardo alla sua struttura ed all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto del territorio, così rientrando nel novero degli interventi di nuova costruzione di cui all'art. 3, lett. e), DPR 380 del 2001 (la fattispecie esaminata riguardava la realizzazione di un muro alto m. 2,50, con struttura in blocchi di lapillo e pilastri, in cemento armato di sostegno, relativo ad un'area di circa mq. 1200)- cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 4755 del 13112/2007) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2017 n. 22336).

COMPETENZE GESTIONALI: Compete al sindaco, e non alla Giunta Comunale, conferire al difensore del Comune la procura alle liti.
Nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, competente a conferire al difensore del Comune la procura alle liti è il Sindaco; la delibera della Giunta comunale è un atto meramente gestionale e tecnico, privo di valenza esterna (Cass., Sez. I, 17.05.2007, n. 11516) (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 23.03.2016 n. 5802).

EDILIZIA PRIVATA: In mancanza di una prova ragionevolmente sicura circa la realizzazione degli abusi dopo l’entrata in vigore della legge 06.08.1967 n. 765 (01.09.1967), deve essere preferita la tesi più favorevole ai privati.
All’epoca il titolo edilizio non era necessario, trattandosi di area posta all’esterno del centro abitato, e dunque era ammissibile anche un’edificazione in parte basata su un titolo edilizio e in parte priva di titolo.
Conseguentemente, non essendovi la possibilità di individuare un abuso edilizio nel senso attuale del termine, non è neppure necessaria la procedura di accertamento di conformità. È invece sufficiente che la DIA sia integrata con degli elaborati indicanti in modo separato il progetto assentito dalla licenza edilizia e lo stato di fatto al termine della prima edificazione. Una volta prodotti questi elaborati, che hanno lo scopo di completare la documentazione, gli uffici sono tenuti a riprendere senza ritardo l’esame del progetto dei nuovi lavori.

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... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, del provvedimento del responsabile dell’Area Gestione Territorio prot. n. 7919 dell’11.06.2015, con il quale è stato interrotto il termine di esame della DIA in attesa della regolarizzazione ex art. 36 del DPR 06.06.2001 n. 380 delle opere realizzate in difformità dalla licenza edilizia del 24.08.1964;
...
Considerato a un sommario esame:
1. La società ricorrente ha presentato in data 15.05.2015 una DIA per la realizzazione di opere edilizie in un edificio residenziale situato in via S. Maurizio nel Comune di Lovere. L’intervento è descritto come manutenzione straordinaria con frazionamento in due unità immobiliari (in realtà, si tratta di ristrutturazione).
2. Il Comune, con provvedimento del responsabile dell’Area Gestione Territorio dell’11.06.2015, ha interrotto il termine di esame della DIA, in quanto nello stato di fatto sono presenti opere eseguire in difformità dalla licenza edilizia del 24.08.1964. Per la prosecuzione della procedura la ricorrente è stata invitata a chiedere l’accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 06.06.2001 n. 380.
3. La decisione del Comune non appare condivisibile. In mancanza di una prova ragionevolmente sicura circa la realizzazione degli abusi dopo l’entrata in vigore della legge 06.08.1967 n. 765 (01.09.1967), deve essere preferita la tesi più favorevole ai privati (v. TAR Brescia Sez. II 10.05.2012 n. 825). Nello specifico, è verosimile che i lavori in difformità siano stati realizzati nel contesto della prima edificazione, dunque anteriormente alla data che ha segnato il cambio di regime normativo.
4. All’epoca il titolo edilizio non era necessario, trattandosi di area posta all’esterno del centro abitato, e dunque era ammissibile anche un’edificazione in parte basata su un titolo edilizio e in parte priva di titolo.
5. Conseguentemente, non essendovi la possibilità di individuare un abuso edilizio nel senso attuale del termine, non è neppure necessaria la procedura di accertamento di conformità. È invece sufficiente che la DIA sia integrata con degli elaborati indicanti in modo separato il progetto assentito dalla licenza edilizia e lo stato di fatto al termine della prima edificazione. Una volta prodotti questi elaborati, che hanno lo scopo di completare la documentazione, gli uffici sono tenuti a riprendere senza ritardo l’esame del progetto dei nuovi lavori.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
   (a) accoglie la domanda cautelare, come precisato in motivazione;
   (b) fissa la trattazione del merito alla prima udienza pubblica di dicembre 2017;
   (c) compensa le spese della fase cautelare (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, ordinanza 23.10.2015 n. 1960 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il d.m. n. 1444/1968 è stato emanato sulla base della delega contenuta negli ultimi due commi dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, aggiunto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765: “In tutti i Comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, debbono essere osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi. I limiti e i rapporti previsti dal precedente comma sono definiti per zone territoriali omogenee, con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per l’interno, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici. In sede di prima applicazione della presente legge, tale decreto viene emanato entro sei mesi dall’entrata in vigore della medesima”.
In coerenza con tali direttive, l’art. 1 del d.m. n. 1444/1968 stabilisce: “Le disposizioni che seguono si applicano ai nuovi piani regolatori generali e relativi piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate; ai nuovi regolamenti edilizi con annesso programma di fabbricazione e relative lottizzazioni convenzionate; alle revisioni degli strumenti urbanistici esistenti”.
La giurisprudenza amministrativa, in passato, ha privilegiato un’interpretazione del citato art. 1 che, aderendo rigorosamente aderente al suo dato letterale, conduceva ad escludere che le successive disposizioni dello stesso d.m. n. 1444 si applicassero direttamente e con immediata forza precettiva, in assenza della necessaria mediazione rappresentata dal loro recepimento in uno strumento urbanistico o in un regolamento edilizio.
Tale impostazione è stata successivamente abbandonata: il giudice amministrativo d’appello ha precisato che le disposizioni del d.m. n. 1444 in tema di distanze tra costruzioni non vincolano solo i Comuni, tenuti ad adeguarvisi nell’approvazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, ma sono immediatamente operanti nei confronti dei proprietari frontisti; tale conclusione vale, analogamente, per le altezze, poiché “scopo delle norme regolamentari concernenti l’altezza degli edifici non è soltanto la tutela dell’igiene pubblica, ma, insieme, quella del decoro e dell’indirizzo urbanistico dell’abitato”.
Le pronunce della Cassazione sono da tempo orientate in modo univoco ad affermare che il decreto ministeriale in questione (ascrivibile all’atipica categoria dei regolamenti delegati o liberi) ha efficacia di legge, cosicché le sue disposizioni, anche in tema di limiti inderogabili di altezza dei fabbricati, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra privati (tale orientamento si è formato sulla scorta della sentenza delle sezioni unite n. 5889 del 01.07.1997 ed è stato ribadito con numerose pronunce successive.

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Ritiene il Collegio che le previsioni del d.m. n. 1444 in tema di altezza massima degli edifici, essendo intese a definire l’assetto urbanistico dell’abitato secondo canoni di sostenibilità, esprimano norme di principio cui la legislazione regionale non può consentire deroghe.
Costituisce una sorta di dimostrazione postuma di tale assunto l’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, inserito dall’art. 30, comma 1, lett. Oa), del d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, secondo cui, “ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
La disposizione citata è rubricata “deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati” e, sebbene la rubrica non abbia pacificamente forza cogente per l’interprete, non si può tuttavia ritenere che essa sia priva di valore e significato.
Se ne desume che il legislatore statale ha voluto attribuire il potere di deroga con esclusivo riguardo ai limiti di distanze tra fabbricati e non a tutti gli standard urbanistici, in particolare non con riferimento ai limiti di altezza dei fabbricati.
Significativa in tal senso è anche la previsione di cui all’art. 14 del d.P.R. n. 380/2001 che, per gli edifici e impianti pubblici o di interesse pubblico, prevede che possa essere rilasciato il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali, “fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444”: se la regola relativa all’assoluta intangibilità dei limiti massimi di altezza si impone nel caso degli edifici di proprietà pubblica o di interesse pubblico, sarebbe ben difficile sostenere che essa possa essere derogata nel caso di interventi unicamente riferibili all’iniziativa privata.
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Ha recentemente precisato la giurisprudenza amministrativa che, laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva che, in una certa zona di piano, l’altezza massima degli edifici di nuova costruzione non può superare la media dell’altezza di quelli preesistenti circostanti, logica vuole che tale media non può che limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze marcatamente differenti, considerato, peraltro, che l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione.
Stante l’identità della ratio e della terminologia utilizzata (“edifici preesistenti e circostanti”), tale conclusione deve ovviamente ritenersi valida anche nel caso in cui, come si verifica nella fattispecie, il limite di altezza degli edifici di una determinata zona di piano non sia stato direttamente fissato dallo strumento urbanistico, ma discenda dalla previsione normativa primaria.
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Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, le previsioni contenute nel secondo e nel terzo comma dell'art. 9 DM 1444/1968 (distanza minima tra fabbricati) si riferiscono esclusivamente alle zone urbanistiche contrassegnate come zone C), fattispecie pertanto estranea all’edificio in esame che rientra nell’ambito della zona classificata come B).
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2) Con il primo motivo di ricorso, le esponenti denunciano la violazione del limite di altezza dei fabbricati previsto dall’art. 8 del d.m. 02.04.1968, n. 1444.
2.1) Tale disposizione prevede che l’altezza massima dei nuovi edifici compresi nelle zone B) “non può superare l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti, con la eccezione di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità fondiaria di cui all’art. 7”.
E’ incontestato che il costruendo edificio non forma oggetto di alcun piano particolareggiato o lottizzazione convenzionata.
Esso avrà un’altezza di gronda pari a 24,85 metri, contro i 13 metri circa dell’edificio preesistente; tutti gli edifici circostanti, compreso quello delle ricorrenti, non supererebbero i 12 metri di altezza.
Tale elemento, ad avviso delle esponenti, sarebbe sufficiente ad inficiare radicalmente l’avversato titolo edificatorio.
2.2) Le controparti eccepiscono che:
   - l’art. 8 del d.m. n. 1444/1968 non detta norme di diretta applicazione;
   - il limite di altezza ivi previsto deve ritenersi comunque derogato per effetto delle previsioni della legge regionale ligure sul piano casa;
   - la censura è infondata anche sul piano fattuale, poiché esisterebbe un edificio frontistante (in corso di ultimazione, ma da ritenersi già esistente in senso sia giuridico sia materiale) che si svilupperà in altezza per circa 25 metri.
2.3) Il primo argomento difensivo è volto a dimostrare l’irrilevanza del citato art. 8 che, ad avviso delle parti resistenti, detterebbe unicamente norme di indirizzo per la formazione dei piani urbanistici, quindi non suscettibili di diretta applicazione qualora non recepite dal pianificatore comunale, a differenza del successivo art. 9, in tema di distanze tra edifici, le cui disposizioni sono intangibili (recte: erano intangibili prima del d.l. n. 60 del 2013) per effetto del rinvio dinamico operato dall’art. 873 cod. civ. e dell’attinenza alla materia di legislazione esclusiva statale dell’ordinamento civile.
Tale prospettazione non pare condivisibile.
Occorre premettere che il d.m. n. 1444/1968 è stato emanato sulla base della delega contenuta negli ultimi due commi dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, aggiunto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765: “In tutti i Comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, debbono essere osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi. I limiti e i rapporti previsti dal precedente comma sono definiti per zone territoriali omogenee, con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per l’interno, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici. In sede di prima applicazione della presente legge, tale decreto viene emanato entro sei mesi dall’entrata in vigore della medesima”.
In coerenza con tali direttive, l’art. 1 del d.m. n. 1444/1968 stabilisce: “Le disposizioni che seguono si applicano ai nuovi piani regolatori generali e relativi piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate; ai nuovi regolamenti edilizi con annesso programma di fabbricazione e relative lottizzazioni convenzionate; alle revisioni degli strumenti urbanistici esistenti”.
La giurisprudenza amministrativa, in passato, ha privilegiato un’interpretazione del citato art. 1 che, aderendo rigorosamente aderente al suo dato letterale, conduceva ad escludere che le successive disposizioni dello stesso d.m. n. 1444 si applicassero direttamente e con immediata forza precettiva, in assenza della necessaria mediazione rappresentata dal loro recepimento in uno strumento urbanistico o in un regolamento edilizio (Cons. Stato, sez. V, 05.11.1999, n. 1841).
Tale impostazione è stata successivamente abbandonata: il giudice amministrativo d’appello ha precisato che le disposizioni del d.m. n. 1444 in tema di distanze tra costruzioni non vincolano solo i Comuni, tenuti ad adeguarvisi nell’approvazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, ma sono immediatamente operanti nei confronti dei proprietari frontisti; tale conclusione vale, analogamente, per le altezze, poiché “scopo delle norme regolamentari concernenti l’altezza degli edifici non è soltanto la tutela dell’igiene pubblica, ma, insieme, quella del decoro e dell’indirizzo urbanistico dell’abitato” (Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3931).
Le pronunce della Cassazione sono da tempo orientate in modo univoco ad affermare che il decreto ministeriale in questione (ascrivibile all’atipica categoria dei regolamenti delegati o liberi) ha efficacia di legge, cosicché le sue disposizioni, anche in tema di limiti inderogabili di altezza dei fabbricati, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra privati (tale orientamento si è formato sulla scorta della sentenza delle sezioni unite n. 5889 del 01.07.1997 ed è stato ribadito con numerose pronunce successive: cfr., tra le più recenti, Cass., sez. II, 14.03.2012, n. 4076 e Cass., sez. un., 07.07.2011, n. 14953).
Il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi da tale consolidato orientamento giurisprudenziale, cosicché va disattesa l’argomentazione inerente alla natura non immediatamente precettiva e vincolante delle disposizioni dettate dall’art. 8 del d.m. n. 1444/1968.
2.4) In secondo luogo, le parti resistenti sostengono che le previsioni del d.m. n. 1444 in tema di altezza massima degli edifici sarebbero state derogate, in ogni caso, dalla legge regionale sul piano casa, trattandosi di fonte normativa che opera nell’ambito della legislazione concorrente e che consente anche di realizzare interventi edificatori in deroga alla disciplina dei piani urbanistici vigenti.
Tale percorso argomentativo può essere così sintetizzato: poiché la legge regionale n. 49 del 2009 consente di assentire interventi in deroga alla disciplina degli strumenti urbanistici vigenti, la deroga riguarderebbe anche le prescrizioni in tema di altezza degli edifici che, pur essendo dettate da una norma primaria, eterointegrano in modo automatico la disciplina di piano.
La ricostruzione suddetta, pur pregevole sul piano logico, non può tuttavia essere condivisa.
Innanzitutto, i due fenomeni si pongono su piani distinti: la facoltà di realizzare interventi edificatori in deroga alle previsioni dei piani regolatori, riconosciuta a determinate condizioni dalla l.r. n. 49/2009, non implica che la legge regionale abbia inteso derogare alle disposizioni statali in tema di standard urbanistici.
In ogni caso, ritiene il Collegio che le previsioni del d.m. n. 1444 in tema di altezza massima degli edifici, essendo intese a definire l’assetto urbanistico dell’abitato secondo canoni di sostenibilità, esprimano norme di principio cui la legislazione regionale non può consentire deroghe.
Costituisce una sorta di dimostrazione postuma di tale assunto l’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, inserito dall’art. 30, comma 1, lett. Oa), del d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, secondo cui, “ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
La disposizione citata è rubricata “deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati” e, sebbene la rubrica non abbia pacificamente forza cogente per l’interprete, non si può tuttavia ritenere che essa sia priva di valore e significato.
Se ne desume che il legislatore statale ha voluto attribuire il potere di deroga con esclusivo riguardo ai limiti di distanze tra fabbricati e non a tutti gli standard urbanistici, in particolare non con riferimento ai limiti di altezza dei fabbricati.
Significativa in tal senso è anche la previsione di cui all’art. 14 del d.P.R. n. 380/2001 che, per gli edifici e impianti pubblici o di interesse pubblico, prevede che possa essere rilasciato il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali, “fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444”: se la regola relativa all’assoluta intangibilità dei limiti massimi di altezza si impone nel caso degli edifici di proprietà pubblica o di interesse pubblico, sarebbe ben difficile sostenere che essa possa essere derogata nel caso di interventi unicamente riferibili all’iniziativa privata.
Infine, occorre anche sottolineare come la legge regionale ligure sul piano casa, qualora interpretata nel senso suggerito dalle parti resistenti, si esporrebbe a rilevanti sospetti di illegittimità costituzionale, consentendo ai Comuni di derogare ai limiti di altezza previsti dalla fonte primaria statale, non in funzione di una conformazione omogenea dell’assetto urbanistico di una specifica zona del proprio territorio, ma con riferimento ai singoli edifici che versino nelle condizioni per beneficiare delle possibilità straordinarie di intervento accordate dalla stessa legge regionale.
L’interpretazione costituzionalmente orientata della legge regionale induce ad escludere, pertanto, che essa possa condurre all’attuazione di soluzioni derogatorie ex se non idonee a garantire l’ordinato assetto del territorio.
2.5) La terza e ultima eccezione si colloca sul piano fattuale: la difesa del controinteressato nega che l’edificio in progetto avrà un’altezza superiore a quella degli stabili circostanti, poiché in prossimità dello stesso si sta ultimando la costruzione di un altro immobile, appartenente alla G.S. Costruzioni S.r.l., che si svilupperà su otto piani fuori terra, con un’altezza complessiva di circa 25 metri.
La parte ricorrente contrasta tale rilievo con variegati argomenti, tra cui assume particolare rilievo quello inerente alla reale natura del menzionato fabbricato di G.S.Co. che, a suo avviso, non sarebbe affatto unitaria, essendo lo stesso costituito da due distinti corpi di fabbrica aventi diversa altezza: poiché il corpo di fabbrica più vicino all’edificio in progetto ha un’altezza di soli 15 metri circa, esso non varrebbe, pertanto, a “legittimare” la contestata iniziativa edificatoria.
Si impone un chiarimento.
Ha recentemente precisato la giurisprudenza amministrativa che, laddove lo strumento urbanistico comunale prescriva che, in una certa zona di piano, l’altezza massima degli edifici di nuova costruzione non può superare la media dell’altezza di quelli preesistenti circostanti, logica vuole che tale media non può che limitarsi ai soli edifici limitrofi a quello costruendo, a rischio altrimenti di svuotare la norma urbanistica di qualunque significato, mentre essa è appunto preordinata ad evitare che fabbricati contigui o vicini presentino altezze marcatamente differenti, considerato, peraltro, che l'assetto edilizio mira a rendere omogenei gli assetti costruttivi rientranti in zone di limitata estensione (Cons. Stato, sez. IV, 09.02.2014, n. 4553).
Stante l’identità della ratio e della terminologia utilizzata (“edifici preesistenti e circostanti”), tale conclusione deve ovviamente ritenersi valida anche nel caso in cui, come si verifica nella fattispecie, il limite di altezza degli edifici di una determinata zona di piano non sia stato direttamente fissato dallo strumento urbanistico, ma discenda dalla previsione normativa primaria.
Tanto precisato, si tratta quindi di accertare se l’edificio di G.S.Co., effettivamente assentito prima di quello del controinteressato e prossimo all’ultimazione, debba o meno essere considerato limitrofo a quest’ultimo (potendo solo nel primo caso essere validamente assunto quale parametro di riferimento per la determinazione dell’altezza massima).
Come già accennato, la parte ricorrente sostiene che si tratti, in realtà, di due edifici o corpi di fabbrica distinti, il più alto dei quali non può essere considerato limitrofo o immediatamente circostante il fabbricato in progetto, poiché tra di esso e l’edificio del controinteressato si interpone l’edificio o corpo di fabbrica più basso.
La difesa di controparte sostiene, invece, che lo stabile di G.S.Co. costituisce un edificio unico dal punto di vista formale (poiché assentito con un solo permesso di costruire) e sostanziale (stante l’unitarietà della struttura fondazionale e l’assenza di divisioni interne ed esterne).
Si rileva, innanzitutto, che anche la struttura o corpo di fabbrica più alto del fabbricato di G.S.Co. sarebbe pur sempre meno elevato di quello in contestazione (24,25 metri contro 24,85 metri).
A prescindere da tale rilievo, la documentazione acquisita in sede istruttoria conferma che la ricostruzione di parte ricorrente è conforme alla realtà fattuale.
L’intervento di ristrutturazione edilizia mediante demolizione, ricostruzione e ampliamento del preesistente fabbricato di proprietà della G.S.Co. S.r.l., infatti, è stato assentito mediante permesso di costruire prot. n. 1.476 del 03.02.2011 (prat. ed. n. 137/2010), in atti, la cui rubrica fa riferimento alla “realizzazione di numero due nuovi fabbricati ad uso residenziale”.
Nel preambolo e nel dispositivo dello stesso titolo abilitativo, si ribadisce che l’intervento edificatorio riguarda la “realizzazione di due nuovi fabbricati ad uso residenziale denominati rispettivamente ‘casa A’, articolata su n. 6 livelli oltre al piano terra ad uso commerciale e comprendente n. 34 alloggi, e ‘casa B’, articolata su n. 8 livelli comprendente n. 16 alloggi”.
Posto che la dimensione dell’intervento è stata successivamente ridefinita in diminuzione con permesso di costruire in variante n. 2 del 2013 (riducendo il numero dei piani e l’altezza della “casa A”), si rileva come la stessa formulazione testuale del titolo edilizio rilasciato dal Comune di Loano confermi che il progetto di G.S.Co. avesse ad oggetto la realizzazione di due distinti edifici.
Per la determinazione dell’altezza massima dei nuovi edifici realizzabili nella zona urbanistica di riferimento, si deve prendere in considerazione il fabbricato denominato “casa A”, interposto fra l’edificio di proprietà del signor Mu. e la “casa B”, che, essendo certamente più basso dell’edificio in progetto, non può quindi valere a legittimare l’iniziativa edificatoria in contestazione.
2.6) In definitiva, il primo motivo di ricorso è fondato, poiché l’edificio in progetto avrà un’altezza assai maggiore di tutti gli edifici immediatamente circostanti, compreso quello limitrofo di G.S.Co.: tale circostanza concreta la violazione dei limiti di altezza fissati dall’art. 8 del d.m. n. 1444/1968 per i nuovi edifici ricadenti nelle zone urbanistiche di tipo B).
3) E’ infondato, invece, il secondo motivo di ricorso, relativo alla violazione delle distanze minime tra fabbricati previste dall’art. 9, secondo e terzo comma, del d.m. n. 1444/1968.
Il nuovo permesso di costruire rilasciato a seguito dell’annullamento giurisdizionale del precedente, infatti, è conforme al limite di distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, previsto dal primo comma del citato art. 9, ma non rispetterebbe le distanze minime previste dai commi successivi i quali stabiliscono: “Le distanze minime tra fabbricati -tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti)- debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
- ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
- ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
- ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche
”.
Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, le previsioni contenute nel secondo e nel terzo comma del citato art. 9 si riferiscono esclusivamente, però, alle zone urbanistiche contrassegnate come zone C), fattispecie pertanto estranea all’edificio in esame che rientra nell’ambito della zona classificata come B) (cfr., fra le più recenti, TAR Veneto, sez. II, 20.03.2014, n. 364 e TAR Piemonte, sez. I, 12.01.2012, n. 17)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 17.09.2015 n. 743 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per le costruzioni eseguite in epoca antecedente al 1942, la libertà di costruire è stata affermata dalla giurisprudenza amministrativa limitatamente alle “zone agricole”.
Diversamente l’edificabilità nei centri abitati è stata assoggettata a strumenti di pianificazione e/o disposizioni regolamentari sin dalla legislazione unitaria fondamentale del 1865, sicché da quell’epoca in poi, all’interno dei centri abitati, lo jus aedificandi non poteva certo considerarsi libero ed illimitato ma doveva pur sempre trovare esplicazione entro i limiti imposti dagli strumenti conformativi esistenti. Si è altresì chiarito che, in seguito alla introduzione con d.m. 02.04.1968 degli standards di edificabilità delle aree, le costruzioni preesistenti al 1942 -erette senza il titolo abilitativo successivamente prescritto- concorrono senza dubbio a formare la “densità territoriale” omogenea di zona ed il carico di edificazione che può gravare sulla stessa zona.
Diversamente, ai fini del calcolo della “densità fondiaria” ossia del volume massimo consentito all’interno di un’area edificatoria secondo l’indice di fabbricabilità applicabile, la volumetria massima assentibile va computata tenendo conto del dato reale, ossia della condizione in cui versano gli immobili preesistenti e delle “relazioni che intrattengono con l’ambiente circostante in virtù del complesso di effetti riconducibili ad atti di soggetti pubblici e privati nonché a fatti della più varia natura, ma idonei, in ogni caso, ad incidere sull’edificabilità” .
Di qui consegue che, sebbene la tecnica dell’asservimento abbia trovato la propria ragion d’essere e si sia sviluppata dopo l’introduzione di limiti inderogabili di densità edilizia di cui alla legge n. 765/1967, ciò non toglie che, per le fattispecie perfezionatesi anteriormente, possano comunque individuarsi delle fattispecie negoziali atipiche ad effetti obbligatori in tutto equiparabili ad un asservimento, in quanto idonee a realizzare una specie particolare di relazione pertinenziale nella quale la qualità edificatoria di un fondo viene posta durevolmente a servizio di un altro fondo.
E per questa ragione l’Adunanza Plenaria conclude nel senso che relazioni pertinenziali rilevanti, ai fini del calcolo della volumetria assentibile, possano essersi determinate anche prima della entrata in vigore della normativa di cui alla legge n. 765/1967 e del d.m. n. 1444/1968, introduttivi di limiti inderogabili di densità edilizia, “in ragione della obiettiva destinazione e configurazione dei fondi effettuata da chi ne aveva la disponibilità”.
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1.2 L’assunto fatto proprio dal comune e dal controinteressato non può ritenersi condivisibile ad avviso del Collegio.
La questione di diritto sottesa al presente giudizio relativa alla computabilità, ai fini della volumetria assentibile con il rilascio di un nuovo permesso di costruire, dei fabbricati preesistenti, in specie edificati prima della legge n. 1150/1942, deve essere risolta alla luce della più recente pronuncia n. 3 del 23.04.2009 della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato chiamata a pronunciarsi su un caso analogo al presente.
Ivi la questione della computabilità, ai fini del rilascio di un nuovo permesso di costruire, dei fabbricati preesistenti alla legge n. 1150 cit., è stata esaminata e risolta prescindendo dal dato cronologico relativo all’epoca di edificazione dell’edificio, ma valorizzando la situazione reale dell’immobile preesistente e dell’area ad esso annessa nella sua complessità con riferimento alle vicende giuridiche che nel tempo l’hanno caratterizzata. Ciò in ogni caso partendo dal presupposto della non decisività ai fini della questione sottoposta, del mero dato cronologico della preesistenza di un fabbricato rispetto alla normativa che nel 1942 ha imposto l’obbligo di dotarsi di licenza di costruzione.
1.3 L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha innanzitutto chiarito che, per le costruzioni eseguite in epoca antecedente al 1942, la libertà di costruire è stata affermata dalla giurisprudenza amministrativa limitatamente alle “zone agricole”.
Diversamente l’edificabilità nei centri abitati è stata assoggettata a strumenti di pianificazione e/o disposizioni regolamentari sin dalla legislazione unitaria fondamentale del 1865, sicché da quell’epoca in poi, all’interno dei centri abitati, lo jus aedificandi non poteva certo considerarsi libero ed illimitato ma doveva pur sempre trovare esplicazione entro i limiti imposti dagli strumenti conformativi esistenti. Si è altresì chiarito che, in seguito alla introduzione con d.m. 02.04.1968 degli standards di edificabilità delle aree, le costruzioni preesistenti al 1942 -erette senza il titolo abilitativo successivamente prescritto- concorrono senza dubbio a formare la “densità territoriale” omogenea di zona ed il carico di edificazione che può gravare sulla stessa zona.
Diversamente, ai fini del calcolo della “densità fondiaria” ossia del volume massimo consentito all’interno di un’area edificatoria secondo l’indice di fabbricabilità applicabile, la volumetria massima assentibile va computata tenendo conto del dato reale, ossia della condizione in cui versano gli immobili preesistenti e delle “relazioni che intrattengono con l’ambiente circostante in virtù del complesso di effetti riconducibili ad atti di soggetti pubblici e privati nonché a fatti della più varia natura, ma idonei, in ogni caso, ad incidere sull’edificabilità” .
Di qui consegue che, sebbene la tecnica dell’asservimento abbia trovato la propria ragion d’essere e si sia sviluppata dopo l’introduzione di limiti inderogabili di densità edilizia di cui alla legge n. 765/1967, ciò non toglie che, per le fattispecie perfezionatesi anteriormente, possano comunque individuarsi delle fattispecie negoziali atipiche ad effetti obbligatori in tutto equiparabili ad un asservimento, in quanto idonee a realizzare una specie particolare di relazione pertinenziale nella quale la qualità edificatoria di un fondo viene posta durevolmente a servizio di un altro fondo.
E per questa ragione l’Adunanza Plenaria conclude nel senso che relazioni pertinenziali rilevanti, ai fini del calcolo della volumetria assentibile, possano essersi determinate anche prima della entrata in vigore della normativa di cui alla legge n. 765/1967 e del d.m. n. 1444/1968, introduttivi di limiti inderogabili di densità edilizia, “in ragione della obiettiva destinazione e configurazione dei fondi effettuata da chi ne aveva la disponibilità
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 08.07.2009 n. 3821 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 09.04.2018

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GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

LAVORI PUBBLICI: G.U. 07.04.2018 n. 81 "Rilevazione dei prezzi medi per l’anno 2016 e delle variazioni percentuali annuali, in aumento o in diminuzione, superiori al dieci per cento, relative all’anno 2017, ai fini della determinazione delle compensazioni dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 27.03.2018).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 07.04.2018 n. 81 "Approvazione del glossario contenente l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 25.11.2016, n. 222" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 02.03.2018).
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Per una migliore intelligibilità delle n. 58 opere elencate nel suddetto DM, si leggano gli artt. 6 e 3 del DPR n. 380/2001 integrati con le medesime.

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: V. Neri, Note minime sulla disapplicazione delle linee guida ANAC da parte del giudice amministrativo e sulla rilevanza penale della loro violazione (06.04.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: C. Contessa, L’autotutela amministrativa all’indomani della ‘legge Madia’ (04.04.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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SOMMARIO: 1. Inquadramento della questione - 2. Le forme e i modi dell’autotutela - 3. Le ipotesi normative di riesame in autotutela con esito demolitorio: l’annullamento d’ufficio e la revoca - 4. L’autotutela e i rapporti con la SCIA e la nuova conferenza di servizi - 5. Questioni ancora aperte e nuovi profili problematici – 6. La questione dell’autotutela in materia edilizia: l’Ad. Plen. 8 del 2017.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: OGGETTO: Trasporto dei rifiuti non pericolosi di metalli ferrosi e non ferrosi (Ministero dell'Interno, nota 30.03.2018 n. 300/A/2667/18/105/14/2 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: Le nuove Norme Tecniche per le Costruzioni (NTC 2018) e gli edifici scolastici (ANCI, 28.03.2018).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Pagamento fornitori fatture sopra soglia.
Domanda
Abbiamo un dubbio relativi alle verifiche da effettuare prima di procedere al pagamento di fornitori per fatture di importo superiore a 5.000 €: un fornitore (risultato inadempiente) ci ha contestato una verifica fatta su un totale fattura di 5.490 € in quanto da lui ritenuta sotto soglia; oltre a ciò lo stesso lamenta che per la sanzione per cui è risultato inadempiente gli fosse già stato imposto il fermo amministrativo su un mezzo.
Quale sarebbe stato il comportamento corretto da tenere in questo caso?
Risposta
L’abbassamento da 10.000 € a 5.000 € della soglia per la verifica (prevista dall’articolo 48-bis del d.p.r. 602/1973) di eventuali inadempienze all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento da parte di fornitori a decorrere dal 1 marzo scorso sta notevolmente incrementando le situazioni particolari da affrontare. Ad entrambi i dubbi dell’ente, in ogni caso, ha dato risposta la recente circolare della Ragioneria Generale dello Stato n. 13 del 21.03.2018.
Quanto alla prima parte del quesito la citata circolare ha previsto che, allorquando soggette al regime della scissione dei pagamenti, ai fini dell’individuazione della soglia le amministrazioni non dovranno considerare l’IVA, bensì dovranno tener conto soltanto di quanto effettivamente spettante in via diretta al proprio fornitore, ovvero dell’importo al netto dell’IVA. Nel quesito il comune rappresenta che il totale fattura ammonta a 5.490 €, pertanto –ipotizzando un’aliquota IVA del 22%– la stessa è composta da un imponibile (ovvero dell’importo spettante al fornitore) di € 4.500 ed un’IVA soggetta a Split Payment di 990 €. Ciò detto si ritiene che il pagamento non fosse da assoggettare a verifica.
Quanto invece alla seconda parte a nulla rileva che, per il recupero della medesima sanzione, fosse già stato disposto anche il fermo amministrativo su un mezzo del fornitore. La circolare chiarisce infatti che fermo amministrativo e verifica disciplinata dall’articolo 48-bis del D.P.R. n. 602/1973 costituiscono … istituti aventi un diverso raggio d’azione e diversi presupposti e finalità, benché possano risultare, in qualche misura, complementari tra loro (Cassazione, sez. 5, ordinanza n. 15017 del 16.06.2017).
Ovviamente una volta saldato l’intero debito per cui è stato iscritto il fermo (ad esempio attraverso versamento fatto dall’Ente), il fornitore potrà richiedere la cancellazione del fermo (09.04.2018 - link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: permesso di costruire in sanatoria – immobile in comproprietà – necessità del consenso di tutti i comproprietari per il rilascio del titolo abilitativo richiesto – parere (Legali Associati per Celva, nota 06.04.2018 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Il Comune di Ayas ha ricevuto una domanda di Permesso di Costruire in sanatoria per opere di risanamento e rimodellazione di giardino a servizio di edificio esistente, in seguito all’esecuzione di opere di sostituzione della fognatura gravemente danneggiata. Le opere erano state eseguite senza alcun titolo autorizzativo.
A seguito dell’istruttoria eseguita dall’Ufficio tecnico comunale si è verificato che detto terreno non appartiene in modo esclusivo al richiedente ma anche ad altri intestatari che non risultano presenti nella richiesta.
Al fine del rilascio del provvedimento , quindi, è stato richiesto di integrare la domanda con la firma di tutti i comproprietari.
In data 22/01/2018 è pervenuta una lettera da parte di un comproprietario non richiedente la sanatoria che specifica che “...declina ogni responsabilità riguardo alle opere eseguite su detta corte in quanto del tutto estranea ai lavori per i quali è stata richiesta sanatoria. Ella , non ha conoscenza degli interventi effettivamente eseguiti sulla corte in questione , non li ha autorizzati e non ha incaricato né un professionista né un impresa ad eseguirli. E’ stata inoltre avvisata delle richiesta di sanatoria solo a posteriori ….. Si riserva di adire le vie legali nel caso se ne presentasse l’esigenza.”
Riferimenti normativi: Codice civile; Art. 1102 del codice civile; Ordinanza della Cassazione Sez. VI n. 5729 del 23/03/2015; Sentenza TAR Molise n. 101 del 19/03/2008, Sentenza del Consiglio di Stato Sez. IV n. 3823 del 07/09/2016
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Nessuna
Quesiti: Con la presente si richiede se il Comune sia tenuto a richiedere la condivisione della domanda da parte di tutti i comproprietari oppure possa rilasciare il titolo abilitativo in sanatoria al solo richiedente comproprietario.

PUBBLICO IMPIEGO: Conviventi di fatto e permessi legge 104-1992.
Domanda
Una coppia di residenti del nostro comune iscritti in anagrafe come “conviventi di fatto”, ci chiede se in questo caso c’è la possibilità di usufruire dei permessi previsti dalla l. 104/1992, essendo una delle parti affetta da disabilità grave.
Risposta
La questione è stata prevista dalla Circolare INPS n. 38 del 27.02.2017, avente ad oggetto “Unioni civili e convivenze di fatto. Legge 20.05.2016, n. 76 e Sentenza della Corte Costituzionale n. 213 del 05.07.2016. Effetti sulla concessione dei permessi ex lege n. 104/92 e del congedo straordinario ex art. 42, comma 5, D.Lgs.151/2001 ai lavoratori dipendenti del settore privato“.
La l. 76/2016 ha disciplinato le unioni civili tra persone dello stesso sesso e le convivenze di fatto prevedendo, tra l’altro, che “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 213 del 05.07.2016, inoltre, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della l. 104/1992 nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire dei permessi ex art. 33, comma 3, della l. 104/1992.
Secondo tale circolare, pertanto, i permessi previsti dalla l. 104/1992 sono da estendere anche al componente dell’unione civile e al convivente di fatto.
In particolare, la circolare evidenzia che:
   1. la parte di una unione civile, che presti assistenza all’altra parte, può usufruire di:
– permessi previsti dalla l. 104/1992;
– congedo straordinario ex art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001.
   2. il convivente di fatto di cui ai commi 36 e 37, dell’art. 1, della l. 76/2016, che presti assistenza all’altro convivente, può usufruire unicamente dei permessi previsti dalla l. 104/1992.
Per la definizione del concetto di “convivente” è necessario fare riferimento alla “convivenza di fatto” prevista dal comma 36, dell’art. 1, della l. 76/2016 in base al quale “per convivenza di fatto si intendono due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile” e accertata ai sensi del comma 37, il quale prevede che, ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l’accertamento della stabile convivenza deve farsi riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4 e alla lett. b) del comma 1 art. 13 del regolamento anagrafico di cui al d.p.r. 223/1989 (quindi, il riferimento è al convivente di fatto registrato in anagrafe) (06.04.2018 - link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Nuovo CCNL e permessi per lutto convivente.
Domanda
I permessi per lutto potranno ancora essere chiesti per il convivente inteso in senso ampio?
Risposta
L’art. 31 del contratto in arrivo contiene le nuove regole e, dal giorno successivo alla data della stipulazione definitiva, saranno disapplicati sia l’art. 19 del CCNL del 06.07.1995, che l’art. 18 del CCNL del 14.09.2000, norme che ad oggi contengono la disciplina dei permessi per lutto.
In particolare, va osservato che l’art. 18 del CCNL del 14.09.2000 aveva esteso la previsione anche al convivente, che poteva quindi chiedere di fruire dei tre giorni di permesso nel caso in cui incorresse nella sfortunata ipotesi di vedere passare a miglior vita il proprio convivente appunto.
Il contratto aveva precisato che la stabile convivenza doveva essere accertata sulla base della certificazione anagrafica presentata dal dipendente.
A conferma che l’accezione del termine convivente doveva essere intesa nel senso più ampio, è arrivato anche un parere dell’ARAN nel maggio 2016, dove l’Agenzia ha precisato che il termine convivente non doveva essere inteso in senso stretto, come concernente cioè la sola fattispecie del compagno/compagna conviventi more uxorio con il dipendete, ma in senso ampio, nel senso di ricomprendervi anche i casi di convivenza di un qualsiasi componente la famiglia anagrafica del dipendente stesso, a prescindere quindi dalla relazione affettiva intercorrente tra i soggetti.
La nuova disciplina invece, indica quale soggetto legittimato, il convivente ai sensi dell’art. 1, commi 36 e 50 della l. 76/2016.
Il riferimento è alla legge di disciplina delle unioni civili e delle convivenze e, nello specifico, il comma 36 dell’art. 1, declina i “conviventi di fatto” come due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.
La relazione affettiva di coppia sembra evidentemente prevalere sull’ambito della famiglia anagrafica, escludendo in questo modo dalla previsione contrattuale, le convivenze intese in senso ampio come in precedenza declinate.
Dunque, i riferimenti contenuti nella nuova disciplina contrattuale fanno propendere per una risposta negativa al quesito, anche se l’art. 1, comma 50, della l. 76/2016, ripreso dal contratto, rinvia alla possibilità, esercitabile dai conviventi di fatto, di disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune, attraverso la sottoscrizione di un contratto di convivenza (05.04.2018 - link a www.publika.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Raggruppamento e servizi svolti.
Domanda
Nel caso di gare di progettazione come possono essere richiesti i requisiti di partecipazione, in particolare quelli che attengono all’avvenuto espletamento dei servizi svolti, anche di “punta” nel caso di raggruppamenti?
Risposta
Le linee guida n. 1 di attuazione del d.lgs. 18.04.2016 n. 50 “Indirizzi generali sull’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria” approvate dal Consiglio dell’Autorità con delibera n. 973 del 14.09.2016 e aggiornate al d.lgs. 56/2017 con delibera del Consiglio dell’Autorità n. 138 del 21.02.2018 definiscono al paragrafo 2.2.2 i requisiti di partecipazione, tra cui rientrano i servizi svolti, anche c.d. “di punta”.
Preliminarmente occorre individuare l’oggetto dell’affidamento. Sul punto l’ANAC è più volte intervenuta affermando che nei bandi ed avvisi per l’affidamento di servizi di architettura ed ingegneria, all’onere di specificazione dell’attività principale e delle attività secondarie può assolversi anche mediante la mera individuazione delle classi e categorie di progettazione, con i relativi importi (delibera n. 431 del 24.04.2017). All’art. 5 delle sopra citate linee guida, rubricato “Classi, categorie e tariffe professionali” l’Autorità fornisce delle indicazioni sulla classificazione delle prestazioni, e sull’elasticità nella valutazione del possesso dei requisiti.
Con riferimento alla partecipazione dei raggruppamenti le linee guida si limitano ad affermare che i requisiti finanziari e tecnici di cui al paragrafo 2.2.2 devono essere posseduti cumulativamente dal raggruppamento, senza specificare se il possesso del requisito debba essere limitato ai lavori della classificazione prevalente per importo, o estesa a tutte le lavorazioni.
In particolare, si ritiene che il requisito di partecipazione di cui al sopra citato quesito, debba essere differentemente disciplinato a seconda che si faccia riferimento a raggruppamenti di tipo orizzontale, oppure verticale. Pertanto:
   1. nel caso di raggruppamenti di tipo orizzontale:
• requisito di cui al punto 2.2.2.1 lett. b): Il requisito deve essere posseduto dal raggruppamento nel suo complesso. Tutti gli operatori riuniti devono essere qualificati in ognuna delle prestazioni previste (principale e secondarie). Il mandatario in ogni classe e categoria deve possedere ed eseguire il rispettivo requisito in misura percentuale superiore ed il o i mandanti in ogni classe e categoria devono possedere cumulativamente il rispettivo requisito nella restante percentuale;
• requisito di cui al punto 2.2.2.1 lett. c): deve essere posseduto per intero dalla mandataria che esegue in misura maggioritaria (requisito non frazionabile);
   2. nel caso di raggruppamento di tipo verticale:
• requisiti di cui al punto 2.2.2.1 lett. b e c): devono essere posseduti dal raggruppamento nel suo complesso. Il mandatario deve possedere il requisito nella percentuale del 100% con riferimento alla prestazione principale ed ogni mandante deve possedere i requisiti nella percentuale del 100% con riferimento alla classe e categoria della prestazione secondaria (04.04.2018 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Straordinari elettorali e adempimenti trasparenza.
Domanda
Il nostro ente deve procedere alla liquidazione dei compensi per lavoro straordinario per consultazione elettorale. Quali obblighi di pubblicazione dobbiamo rispettare, ai sensi del d.lgs. 33/2013?
Risposta
Il decreto Trasparenza (d.lgs. 33/2013) non prevede nessun obbligo di pubblicazione nella sezione Amministrazione trasparente per ciò che concerne la liquidazione del trattamento accessorio dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, tra cui figura anche il lavoro straordinario. Gli obblighi per la pubblicazione dei dati sui trattamenti economici riguardano altre categorie di soggetti tra i quali compaiono gli amministratori dell’ente (art. 14, comma 1), i collaboratori e consulenti (art. 15, comma 1), i dipendenti per gli incarichi extra-istituzionali conferiti o autorizzati dalla propria amministrazione (art. 18).
Per i dirigenti apicali, i dirigenti non apicali e le posizioni organizzative, titolari di funzioni dirigenziali, l’iniziale obbligo –previsto dal riscritto art. 14 del d.lgs. 33/2013– risulta attualmente sospeso, in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale, come da delibere ANAC n. 241 del 08.03.2017 e n. 382 del 12.04.2017, nonché Comunicato del Presidente del 07.03.2018.
Escluse queste figure, il trattamento economico del personale dipendente viene menzionato nell’art. 20, del d.lgs. 33/2013, specificando che vanno pubblicati (comma 1) “i dati relativi all’ammontare complessivo dei premi collegati alla performance stanziati e l’ammontare dei premi effettivamente distribuiti” e (comma 2) “i criteri definiti nei sistemi di misurazione e valutazione della performance per l’assegnazione del trattamento accessorio e i dati relativi alla sua distribuzione, in forma aggregata, al fine di dare conto del livello di selettività utilizzato nella distribuzione dei premi e degli incentivi”.
Chiarito che, per le norme sulla trasparenza, non si ravvisa alcun obbligo, resta da capire come deve essere redatto l’atto per poter liquidare l’importo dovuto a ciascun dipendente per il lavoro straordinario, svolto in occasione delle consultazioni elettorali.
Ipotizzando che si debba procedere con una determinazione dirigenziale –adottata dal responsabile del servizio elettorale– da pubblicare su Albo pretorio online, è consigliabile che, nel testo dell’atto, venga inserita solamente la cifra complessiva da liquidare, dando atto che l’elenco dei singoli dipendenti, le ore di lavoro straordinario da ciascuno effettuate, le relative tariffe orarie e il totale della somma dovuta da ciascun dipendente, sia riportato in un documento collegato alla determinazione dirigenziale depositato (e non allegato) presso l’ufficio elettorale e l’ufficio personale.
In sede di rendicontazione delle spese sostenute, da trasmettere alla Prefettura territorialmente competente, per la parte che riguarda il personale dipendente comunale, dovrà essere trasmessa la seguente documentazione:
   • determinazione di costituzione dell’ufficio elettorale e autorizzazione allo svolgimento di lavoro straordinario;
   • determinazione di liquidazione dei compensi (con la sola somma complessiva);
   • elenco dettagliato, collegato alla determina di liquidazione, depositato presso la competente struttura comunale con la distinta dei singoli dati (tabella) (03.04.2018 - link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito al rapporto tra agibilità e conformità edilizia di un immobile – Comune di Fara in Sabina (Regione Lazio, nota 29.03.2018 n. 186215 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: immobile realizzato in area sottoposta a vincolo paesaggistico in assenza di titolo – accertamento positivo di compatibilità – istanza di rilascio concessione in sanatoria con mutamento della destinazione d’uso – provvedimenti consequenziali in capo all’Ente locale – parere (Legali Associati per Celva, nota 28.03.2018 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: In data 21.03.1986 il proprietario di un immobile rurale, realizzato abusivamente in area sottoposta a vincolo paesaggistico, presenta una richiesta di condono ai sensi della legge n. 47 del 28.02.1985. L’amministrazione comunale non rilascia il condono poiché la Soprintendenza si esprime con parere negativo con provvedimento n. 9923/TP del 20.05.2002 (in allegato).
I nuovi proprietari dell’immobile, in data 13.07.2017, presentano presso la Soprintendenza domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica proponendo, questa volta, sulla base delle motivazioni del provvedimento di diniego del 2002, il recupero del fabbricato con intervento di adeguamento e rimozione delle superfetazioni. Tuttavia il recupero del fabbricato prevede la demolizione, la ricostruzione e il contestuale cambio di destinazione d’uso (da agro-silvo-pastorale ad abitazione temporanea).
La struttura regionale preposta alla tutela del vincolo, riesaminato il caso in questione, si esprime ‘con parere favorevole al mantenimento in opera di quanto realizzato e dispone la realizzazione degli interventi di adeguamento e rimozione delle superfetazioni di cui agli allegati elaborati progettuali, da ultimarsi nel termine di otto mesi dalla data di notifica” (nota n. 825/TP del 07.08.2018 in allegato).
Riferimenti normativi: .
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: .
Quesiti: L’Amministrazione comunale chiede come procedere al fine di consentire la realizzazione delle disposizioni impartite dalla Soprintendenza, tenuto conto che le stesse si inseriscono nel procedimento di condono edilizio del 1986 col quale si chiedeva solo di regolarizzare un manufatto rurale abusivo, e come consentire il contestuale cambio di destinazione d’uso, tenuto conto dell’imprescindibile unitarietà dell’intervento proposto e dell’onerosità dello stesso.

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: permesso di costruire – ristrutturazione e aumento volumetrico – zona Ba17 del PRGC – l.r. n. 24/2009 (cd. Piano casa) – distanze legali tra costruzioni – parere (Legali Associati per Celva, nota 28.03.2018 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Al protocollo del comune è pervenuta una pratica edilizia, tendente al rilascio del permesso di costruire per ristrutturazione di fabbricato con cambio d’uso ed aumento volumetrico, ai sensi della L.R. 24/2009 – piano casa.
Il fabbricato di cui trattasi è ubicato in zona Ba17, si trova immediatamente adiacente alla perimetrazione della zona A, con un muro perimetrale costituente confine tra la zona Ba17 e la zona A ed è fronteggiante un fabbricato ivi ubicato, il tutto come illustrato nelle planimetrie di PRG e catastale allegate.
Ai fini dell’aumento volumetrico del fabbricato, essendo questo dovuto a sopraelevazione, si fa riferimento alla DGR n. 514/2012, attuativa della L.R. 24/2009, in particolare all’ All. A– paragrafo 3.1 che stabilisce la distanza minima tra le costruzioni
La situazione del fabbricato trattato non è chiaramente inquadrabile nelle condizioni previste dalla predetta normativa, in quanto:
1. non è in zona A (punto 1 del DM 1444/1968), ma, come detto sopra, un muro perimetrale costituisce confine di zona tra le zone Ba17 e A;
2. è preesistente allo strumento urbanistico comunale ma – pur essendo inserito in zona Ba, non è un “nuovo edificio ricadente in altre zone (punto 2 del DM 1444/1968).
Riferimenti normativi: DGR n. 514/2012, attuativa della L.R. 24/2009, in particolare all’ All. A– paragrafo 3.1 che stabilisce:
"DISTANZA MINIMA TRA LE COSTRUZIONI
Le distanze tra le costruzioni definite inderogabili dalla l.r. 24/2009 sono quelle stabilite nei singoli PRG o RE, in coerenza con le norme nazionali vigenti.
Tali distanze minime sono inderogabili anche nel caso in cui ci sia l’assenso del proprietario dell’edificio fronteggiante.
Nel riquadro seguente sono richiamate le norme relative alla definizione della distanza minima tra le costruzioni, di cui al Codice Civile e al DM 1444/1968.
   • Codice Civile
Art. 873 - Distanze nelle costruzioni.
Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.
   • D.M. 1444/1968 - art. 9. Limiti di distanza tra i fabbricati
Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale.
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto; la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml 12.
Le distanze minime tra fabbricati - tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) – debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
- ml. 5,00 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7.
- ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
- ml. 10,000 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all’altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all’altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche."
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Si chiede se sia corretto, nel caso di specie, applicare, per analogia, la predetta DGR 514/2012 con riferimento alle distanze tra costruzioni, in zone A, anche in considerazione del fatto che il prospiciente edificio in zona A –qualora divenisse oggetto di analogo intervento– potrebbe beneficiare delle condizioni di cui alla citata DGR 514/2012 in ordine alle distanze per i fabbricati in zone A e creando, di fatto, una disparità di trattamento tra due fabbricati fronteggianti.
Quesiti: Si chiede la Vs. consulenza, finalizzata ad un’interpretazione univoca della norma applicabile al caso di specie, nonché ad analoghe situazioni che possano manifestarsi, vista la particolarità degli agglomerati residenziali di antica e/o vetusta formazione del territorio comunale.

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito alla definizione di area di sedime di un fabbricato - Comune di Bracciano (Regione Lazio, nota 14.03.2018 n. 142239 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Parere in merito all’opportunità di eliminare gli estremi del certificato di agibilità dei locali dal procedimento per l’avvio di un’attività commerciale o produttiva (Legali Associati per Celva, nota 07.02.2018 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Lo Sportello unico degli enti locali ha messo in atto un processo di revisione dei procedimenti di propria competenza nell’ottica della semplificazione per il richiedente.
Il processo, inoltre, persegue l’obiettivo di adeguare i procedimenti telematici del SUEL alla modulistica approvata in sede di Conferenza Unificata, in accordo tra Governo, Regioni ed enti locali.
Tra le diverse novità introdotte dalla modulisitica unificata, vi è l’eliminazione di alcuni dati e adempimenti, tra i quali l’indicazione degli estremi relativi all’agibilità dei locali, per l’avvio di un’attività commerciale o produttiva.
Il sito www.italiasemplice.gov.it, curato dal Dipartimento della Funzione pubblica, illustra tali premesse: "(…) Con l'accordo tra Governo, Regioni ed enti locali siglato in Conferenza Unificata il 04.05.2017, è stata raggiunta l’intesa su moduli unificati e standardizzati per comunicazioni e istanze nei settori dell'edilizia e delle attività commerciali e assimilate.
L’accordo è stato pubblicato sul Supplemento ordinario n. 26 della Gazzetta Ufficiale n. 128 del 05.06.2017.
Con l’arrivo dei moduli unici nazionali i cittadini e le imprese che vogliono aprire, ad esempio, un negozio, un bar, o un esercizio commerciale (comprese le attività di e-commerce e di vendita a domicilio) o avviare interventi edilizi, come i lavori di ristrutturazione della propria casa, avranno tempi e regole certi e una riduzione dei costi e degli adempimenti, con una modulistica più semplice e valida su tutto il territorio nazionale.
Tra le novità più importanti:
Non possono più essere richiesti dati e adempimenti che derivano da prassi amministrative, ma non sono espressamente previsti dalla legge. Ad esempio, non è più richiesto il certificato di agibilità dei locali per l’avvio di un’attività commerciale o produttiva. (…)”.
Riferimenti normativi: legge regionale 06.041998, n. 11
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: -
Quesiti: Si richiede pertanto un parere con riferimento all’opportunità di eliminare gli estremi del certificato di agibilità dei locali per l’avvio di un’attività commerciale o produttiva, considerando anche quanto previsto dalla legge regionale 06.04.1998, n. 11 “Normativa urbanistica e di pianificazione territoriale della Valle d'Aosta”.

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Comune di Montjovet – Scia per la realizzazione di un’autorimessa – Abuso edilizio – Richiesta di sanatoria – Parere (Legali Associati per Celva, nota 29.12.2017 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Un cittadino ha presentato una SCIA per la realizzazione di un’autorimessa a servizio del proprio edificio residenziale.
A distanza di anni dalla conclusione dei lavori, su segnalazione del confinante, è stato effettuato sopralluogo per rilevare il segnalato abuso edilizio. Dal sopralluogo è emerso che parte dell’autorimessa era stata adibita a servizio igienico e a taverna, quest’ultimo locale così definito in quanto all’interno dello stesso era presente un cucinino (fornelli, lavandino), un forno, una stufa a legna, un divano, un tavolo con panche e sedie e vari suppellettili.
Il proprietario dell’edificio ha presentato richiesta di rilascio di permesso di costruire in sanatoria definendo cantina quel locale che nel corso del sopralluogo era stato identificato quale taverna e che lui stesso aveva così definito in documenti presentati in precedenza all’ufficio tecnico; non di poco conto il fatto che tale difformità d’uso sia stata di recente evidenziata al Comune anche dal vicino di casa sulla base della propria conoscenza diretta, con il quale il proprietario ha in essere contenzioso edilizio riguardante la costruzione in parola che ad oggi lo ha visto soccombere con obbligo di demolizione di una parte dell’autorimessa oltreché di altre opere pertinenziali.
Il progetto di sanatoria non evidenzia l’esecuzione di opere successive al sopralluogo effettuato dal Comune e nulla menziona in merito al fatto che la taverna sia poi diventata cantina.
Si ipotizza che il locale non possedendo i requisiti igienico-sanitari (luce e aerazione diretta dall’esterno) non potesse essere definito taverna e per questa ragione sia stato rinominato in cantina.
Si chiede se il Comune possa procedere al rilascio del permesso di costruire in sanatoria del locale cantina, sebbene in sede di sopralluogo sia stato accertato che il medesimo fosse invece destinato a taverna, e , in caso affermativo, se e quali ulteriori sanzioni debbano essere applicate.
Riferimenti normativi: LR 11/1998
Quesiti: Si chiede se il Comune possa procedere al rilascio del permesso di costruire in sanatoria del locale cantina, sebbene in sede di sopralluogo sia stato accertato che il medesimo fosse invece destinato a taverna, e , in caso affermativo, se e quali ulteriori sanzioni debbano essere applicate.

PATRIMONIOOGGETTO: Richiesta di installazione di un lampione di pubblica illuminazione in strada extraurbana locale – obbligatorietà – parere (Legali Associati per Celva, nota 29.12.2017 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Il Comune di Rhêmes-Notre-Dame ha ricevuto un’istanza volta a ottenere dal Comune stesso l’installazione di un lampione di pubblica illuminazione di fronte a un fabbricato posto ai margini di un abitato isolato.
Riferimenti normativi: PRGC
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Non accogliere la richiesta
Quesiti: Tenuto conto che si tratta di una località di alta montagna dove il passaggio sia veicolare che pedonale notturno è molto limitato se non quasi nullo, e di una strada percorribile solo in periodo estivo, quando le ore di luce sono maggiori;
- tenuto conto, altresì, del fatto che non vi sono in loco attraversamenti pedonali, né imbocchi di strade pubbliche, né ostacoli (cunette, scale, pali) sulla strada comunale;
- tenuto conto, infine, che il minimo inquinamento luminoso ben si confà alla caratteristica del luogo;
con la presente si chiede se ci siano fondamenti normativi o giurisprudenziali alla richiesta che pongano a carico dell’Amministrazione l’obbligo di provvedere.

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Richiesta di accesso civico generalizzato ex art. 5, c. 2, del d.lgs. 33/2013 - accesso a documentazione edilizia - limiti - parere (Legali Associati per Celva, nota 05.12.2017 - tratto da www.celva.it).
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Quesiti: Un privato cittadino richiede copia di tutta la documentazione edilizia (senza specificare i periodi) riguardante una struttura del territorio (nel caso specifico un residence/condominio) ritenendo di avvalersi del diritto di accesso civico generalizzato.
L’amministrazione risponde, anche avvalendosi di un recente parere del garante della privacy, qualificando la richiesta di cui trattasi quale accesso documentale e richiedendo sia di documentare l’interesse diretto del cittadino a richiedere la documentazione sia di specificare di quale documentazione edilizia egli necessiti. Il cittadino si rivolge al difensore civico il qual e dispone il diritto dello stesso ad avere la documentazione richiesta e ritenendo la stessa un accesso civico generalizzato.
A seguito di breve analisi presso l’archivio viene verificata l’esistenza di circa 15 pratiche edilizie inerenti la struttura di cui trattasi nell’arco degli ultimi 15 anni. Si richiede:
   - è sufficiente rilasciare la copia dei titoli edilizi (permesso edilizio, SCIA, ecc.) o vanno rilasciate anche le copie degli elaborati progettuali allegati?
   - vanno sentiti i controinteressati? (i titolari dei permessi edilizi)
   - è possibile addebitare al richiedente i costi di riproduzione?

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: Comune di Ayas – Regolarità edilizia di manufatti realizzati prima del 1967 fuori dai centri abitati – Parere (Legali Associati per Celva, nota 04.12.2017 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Il Comune di Ayas ha approvato, in data 09/08/1940 con Deliberazione del Commissario Prefettizio, il Regolamento edilizio che richiedeva la preventiva autorizzazione del Podestà per eseguire attività edilizie.
La Legge n. 1150/1942 ha disciplinato la materia edilizia a livello nazionale introducendo l'obbligo di preventivo titolo abilitativo esclusivamente nei centri abitati e nelle zone di espansione previste nei PRGC. Considerato che il Comune di Ayas tra il 1942 e il 1967 non era dotato di PRGC né adottato né approvato, ai sensi della Legge specificata necessitava di titolo abilitativo esclusivamente l'attività edilizia all'interno dei centri abitati.
Si rileva, quindi, che il Regolamento comunale specificato risultava in contrasto con la Legge urbanistica.
La prima perimetrazione dei centri abitati è stata approvata dal Consiglio comunale il 20/03/1969 con Deliberazione n. 23. Di conseguenza, per semplificazione, i centri abitati tra il 1942 e il 1967 vengono fatti coincidere con i centri storici dei piani regolatori attualmente approvati.
Agli atti del Comune esistono pratiche edilizie anteriori al 1967 e relative ad immobili esterni agli attuali centri storici che presentano regolari Permessi edilizi rilasciati dal Comune con relativi progetti approvati e talvolta anche dichiarazioni di abitabilità, si presume rilasciati in ottemperanza al Regolamento Edilizio.
Il TAR Toscana, Sez. III, con Sentenza del 29.05.2014, n. 899 esprime il principio che: "Ai fini dell'accertamento della regolarità edilizia di manufatti realizzati al di fuori dei centri abitati in epoca anteriore alla entrata in vigore della L. 765 del 1967, assume rilevanza esclusiva la norma primaria sopravvenuta di cui all'art. 31 della L. 1150 del 1942 che ha introdotto, a livello nazionale, l'obbligo di preventivo titolo abilitativo limitatamente agli immobili ricadenti nei centri abitati; cosicché essa deve considerarsi prevalente rispetto alla disciplina regolamentare locale preesistente atteso che, come ha sancito la Corte Costituzionale nella sentenza 303 del 2003, la disciplina dei titoli abilitativi rientra nell'ambito dei principi fondamentali della materia edilizia che la Costituzione (anche prima della riforma del Titolo V) riservava e ancora oggi riserva allo Stato al fine di garantire uno standard uniforme di trattamento del diritto di proprietà su tutto il territorio nazionale anche in coerenza con la riserva di legge prevista dall'art. 42 ....".
Riferimenti normativi: Regolamento edilizio approvato con Deliberazione del Commissario prefettizio in data 09/08/1940
Legge Urbanistica 1150 del 17/08/1942
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Nessuna
Quesiti: Con la presente si richiede quindi, se in fase di accertamento della regolarità edilizia il Comune sia tenuto a considerare i progetti edilizi autorizzati anteriormente al 06/08/1967, rilasciati ai sensi del Regolamento edilizio del 1940, e che riguardano immobili edificati esternamente agli attuali centri storici.

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: realizzazione di una scala esterna ad un fabbricato – affaccio su strada comunale – incidenza sulla fascia di rispetto stradale – deroghe di cui alla L.R. n. 24/2009 - parere (Legali Associati per Celva, nota 28.03.2017 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: La scrivente amministrazione intende chiedere chiarimenti circa la possibilità di realizzare una scala esterna ad un fabbricato per l’accesso al piano primo (oggi sottotetto non abitabile, ma nel quale il proprietario intende realizzare una nuova unità abitativa con la L.R. 24/2009 e smi).
Per la precisione la scala esterna sarebbe su una porzione di proprietà privata adiacente alla strada comunale, ma di fatto inglobata nella strada stessa da tempo. Tale porzione, infatti, è completamente asfaltata e costituisce un tutt’uno con la strada comunale a meno di due gradini in pietra che servono per accedere all’abitazione al piano terra. La scala in progetto partirebbe da tali gradini e salirebbe al piano primo lungo il fianco del fabbricato. Una parte della scala, quindi, sarebbe all’interno dell’ingombro dei 2 gradini preesistenti, il resto sarebbe sulla succitata porzione di terreno di proprietà privata che di fatto costituisce un tutt’uno con la strada comunale.
Su tale porzione di terreno, non risulta che siano mai stati fatti atti di qualunque tipo che ne indichino l’uso pubblico, è solo negli anni stata asfaltata ed in parte usata come se fosse parte della strada comunale.
Il fabbricato ricade in zona urbanistica “A” di P.R.G.C.
La nuova scala in progetto, per la presenza dei due gradini preesistenti a terra, non andrebbe a restringere la sede della strada comunale, ma, essendo posta ad un incrocio, ridurrebbe leggermente la visibilità e renderebbe più ardua la svolta.
Riferimenti normativi: Codice civile - DM 1444/1968 - Codice della Strada - LR 24/2009 - LR 11/1998
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: L’utenza ha prodotto un proprio parere ma che lascia forti dubbi quindi non esprimiamo possibile soluzione
Quesiti: Sulla base delle sopra citate premesse, la scrivente amministrazione vorrebbe sapere se:
   • la scala è un manufatto che può essere o meno realizzato all’interno della fascia dei 5m di rispetto della strada comunale;
   • se, all’interno di un procedimento di ampliamento volumetrico ex L.R. 24/2009 dell’unità immobiliare al piano primo, dato che tale legge prevede la possibilità di costruire all’interno della fascia di rispetto della strada comunale mantenendo gli allineamenti preesistenti, la scala potrebbe essere considerata come parte dell’ampliamento (anche se non costituisce il volume di ampliamento) e se, in caso affermativo, i due gradini preesistenti possano essere considerati come allineamento preesistente e quindi la scala in progetto all’interno degli allineamenti preesistenti e quindi realizzabile.

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: costruzione di un fabbricato lungo una strada privata – qualificazione della strada – assoggettamento ad uso pubblico – non sussiste – fasce di rispetto stradale – inapplicabilità codice della strada – applicazione norme PRGC – parere (Legali Associati per Celva, nota 23.03.2017 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Distanze da rispettare nel caso di costruzioni in lotti adiacenti a strade private.
Riferimenti normativi: art. 25 N.T.A. del PRG
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: Stante l’assenza di classificazione, consentire le costruzioni senza imporre fasce di rispetto nei confronti della "strada" di accesso ai fondi privati.
Quesiti: 1) come classificare una strada privata in assenza di una sua definizione nel Regolamento edilizio; 2) necessità o meno di disciplinare le fasce di rispetto delle costruzioni in relazione alle strade private.

EDILIZIA PRIVATAOGGETTO: N.T.A. del P.R.G.C. di Ayas - nozione di “proprietario a titolo esclusivo” – interpretazione – casi concreti (nudo proprietario; comproprietario; proprietà della persona giuridica) – parere (Legali Associati per Celva, nota 01.02.2017 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: interpretazione della norma art. 51 N.T.A. di P.R.G.C. circa la dicitura "proprietario a titolo esclusivo"
Riferimenti normativi: art. 51 N.T.A. di P.R.G.C.
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: persona che risulta esclusivamente nuda proprietaria persona che risulta comproprietaria persona che risulta socio o legale rappresentante
Quesiti: Si chiede un chiarimento circa l’interpretazione della prescrizione "proprietario a titolo esclusivo" in merito a possibilità di realizzare abitazione permanente e principale ai sensi art. 51 N.T.A. di P.R.G.C.

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIOOGGETTO: servitù di uso pubblico a parcheggio autoveicoli – costituzione in via convenzionale – modalità di estinzione – parere (Legali Associati per Celva, nota 12.12.2016 - tratto da www.celva.it).
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Problema riscontrato: Il Comune di La Salle dispone di area pubblica che è stata dismessa dai privati ai fini dell’ottenimento di concessione edilizia (anno 1985).
Il Consiglio Comunale nel 1986 delibera a favore dell’acquisizione (o meglio dell’intenzione di acquisire) l’area. La successiva convenzione che prevede l’istituzione del parcheggio pubblico consiste in una scrittura privata registrata (anno 1992) di servitù permanente gratuita di parcheggio ad uso pubblico. L’area si compone di solaio in cemento armato che sovrasta autorimessa.
I privati ora chiedono di essere rimmessi nel possesso privato dell’area che ad oggi è parcheggio ed è stato mantenuto (asfalto, cartelli, strisce, sgombero neve,...) ad opera del Comune. Il Comune ad oggi utilizza detta area come parcheggio pubblico e vuole porlo parzialmente a pagamento (zone blu).
Riferimenti normativi: D.P.R. n. 327 del 2001
Ipotesi di risoluzione da parte dell'ente: - possibile applicare art. 42-bis
Quesiti: Si chiede se i proprietari dell'area hanno diritto alla reimmissione in possesso del parcheggio come da loro richiesta.

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Interventi consentiti in assenza di piano attuativo - Art. 59, c. 3, l.r. Umbria n. 1/2015 - Contrasto con le previsioni di cui all’art. 9, c. 2, d.P.R. n. 380/2001 - Illegittimità costituzionale.
L’art. 59, comma 3, della l.r. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui consente la realizzazione, in assenza del piano attuativo, quando quest’ultimo sia obbligatorio, di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e risanamento conservativo, nonché di ristrutturazione edilizia, senza limitazioni, prevedendo che tali interventi possano «comportare anche la modifica della destinazione d’uso in atto in un edificio esistente nell’ambito dell’insediamento, purché la nuova destinazione d’uso risulti compatibile con le previsioni dello strumento urbanistico generale», si pone in contrasto con le previsioni di cui all’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, che costituiscono principi fondamentali della materia.
Deve, pertanto, esserne dichiarata l’illegittimità costituzionale, in quanto non limita gli interventi edilizi consentiti in assenza di piano attuativo a quelli individuati dall’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 (Corte Costituzionale, sentenza 05.04.2018 n. 68 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere interne - Art. 118, c. 1, lett. e), l.r. Umbria n. 1/2015 - Inclusione tra gli interventi di edilizia libera - Contrasto con l’art. 7, c. 1, d.P.R. n. 380/2001 - Illegittimità costituzionale.
L’art. 118, comma 1, lettera e), della legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui annovera tra gli interventi di attività edilizia libera le «opere interne alle unità immobiliari di cui all’art. 7, comma 1, lettera g)», escludendo la sottoposizione di esse alla CILA, contrasta con i principi fondamentali della materia fissati dal legislatore statale. Infatti, le Regioni non possono «differenziarne il regime giuridico, dislocando diversamente gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate, soggette a CIL e CILA» (sentenza n. 231 del 2016).
L’«omogeneità funzionale della comunicazione preventiva […] rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di costruire, DIA, SCIA) deve indurre a riconoscere alla norma che la prescrive –al pari di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi– la natura di principio fondamentale della materia del governo del territorio», in quanto volto a garantire l’interesse unitario ad un corretto uso del territorio (sentenza n. 231 del 2016).
Deve, pertanto, esserne dichiarata l’illegittimità costituzionale (Corte Costituzionale, sentenza 05.04.2018 n. 68 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Artt. 147, 155 e 118, c. 2, lett. h), l.r. Umbria n. 1/2015 - Disciplina dei mutamenti di destinazione d’uso degli edifici - Definizione delle diverse categorie di interventi - Contrasto con le definizioni contenute nel d.P.R. n. 380/2001 - Illegittimità costituzionale.
Gli artt. 147, 155 e 118, comma 2, lettera h), della l.r. Umbria n. 1 del 2015 dettano la disciplina dei mutamenti di destinazione d’uso degli edifici e delle unità immobiliari, identificandone le tipologie, individuando i relativi titoli abilitativi richiesti e le connesse sanzioni. Una simile operazione è assimilabile alla classificazione delle categorie di interventi edilizi o urbanistici; tuttavia, «sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali, sicché la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato» (sentenza n. 259 del 2014).
Lo spazio di intervento che residua al legislatore regionale è quello di «esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali», a condizione, però, che tale esemplificazione sia «coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia» (sentenza n. 49 del 2016).
L’esame congiunto delle normative –statale e regionale– evidenzia che la normativa regionale impugnata, non solo non si rivela coerente con le definizioni contenute nel d.P.R. n. 380 del 2001, ma si pone in contrasto con le stesse e quindi con i principi fondamentali espressi da quest’ultimo: mentre il legislatore statale individua cinque categorie funzionali e stabilisce che il passaggio dall’una all’altra costituisce mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante, il legislatore regionale umbro ne individua solo tre, che risultano dall’accorpamento di alcune di quelle individuate dal legislatore statale.
Ciò comporta l’esclusione della “rilevanza urbanistica” dei mutamenti di destinazione d’uso interni alle categorie funzionali accorpate e, quindi, della loro assoggettabilità a titoli abilitativi, in contrasto con la normativa statale di principio e con conseguente incisione dell’ambito di applicazione delle sanzioni previste dal legislatore statale nell’esercizio della competenza esclusiva in materia di «ordinamento civile e penale», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. (Corte Costituzionale, sentenza 05.04.2018 n. 68 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rischio sismico - Art. 250 l.r. Umbria n. 1/2015 - Introduzione di categorie di interventi edilizi ignote alla legislazione statale - Sottrazione alla vigilanza sul rischio sismico - Illegittimità costituzionale.
L’art. 250 della legge regionale n. 1 del 2015, al comma 1, lettere a), b) e c), attribuisce alla Giunta regionale il potere di individuare categorie di interventi «privi di rilevanza ai fini della pubblica incolumità» (lettera a), «di minore rilevanza ai fini della pubblica incolumità» (lettera b), nonché varianti di parti strutturali prive di carattere sostanziale (lettera c), interventi questi rispetto ai quali si esclude o si delimita l’applicazione delle norme tecniche corrispondenti a quelle previste dal Capo IV della Parte II del d.P.R. n. 380 del 2001 (art. 201, commi 3 e 4, ed art. 202, comma 1, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015) e detta una disciplina derogatoria (art. 208 della medesima legge regionale).
Una simile normativa, poiché introduce categorie di interventi edilizi ignote alla legislazione statale e le esclude dall’applicazione di norme improntate al principio fondamentale della vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo al rischio sismico, si pone in contrasto con i principi fondamentali fissati dal legislatore statale in materia di «protezione civile» e di «governo del territorio» e deve, pertanto, essere dichiarata costituzionalmente illegittima (Corte Costituzionale, sentenza 05.04.2018 n. 68 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rischio sismico - Art. 258 l.r. Umbria n. 1/2015 - Introduzione di un condono edilizio straordinario - Illegittimità costituzionale.
L’art. 258, della l.r. Umbria n. 1/2015, nella parte in cui mira a sanare opere non conformi, in tutto o in parte, agli strumenti urbanistici, finisce per introdurre un condono edilizio straordinario.
Si tratta, infatti, di una fattispecie non riconducibile all’accertamento di conformità di cui all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che prescrive, ai fini del rilascio del permesso in sanatoria per interventi edilizi realizzati in assenza di titolo o in difformità da esso, l’accertamento della conformità degli stessi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione degli stessi, sia al momento della presentazione della domanda.
L’art. 258 della legge reg. Umbria n. 1 del 2015 ha, invece, a oggetto edifici «realizzati prima del 31.12.2000» espressamente riconosciuti come «non conformi, in tutto o in parte, agli strumenti urbanistici» (comma 1) vigenti al momento della loro realizzazione, e dispone che, ai fini del rilascio del titolo abilitativo in sanatoria, è sufficiente l’«accertamento della conformità alle previsioni della variante approvata ai sensi del presente articolo» (comma 8).
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 258 e del connesso art. 264, comma 13, della legge regionale n. 1 del 2015, in quanto disciplinano una ipotesi di condono edilizio straordinario, da cui discende la cessazione degli effetti penali dell’abuso, non previsto dalla legge statale, in contrasto con i principi fondamentali in materia di governo del territorio di cui al d.P.R. n. 380 del 2001 (in particolare con l’art. 36) e con conseguente invasione della sfera di competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile e penale.
Art. 264, c. 14, l.r. Umbria n. 1/2015 - Contrasto con il principio dell’accertamento di doppia conformità di cui all’art. 36 d.P.R. n. 380/2001 - Illegittimità costituzionale.
L’art. 264, c. 14, della l.r. Umbria n. 1/2015, nella versione antecedente le modifiche introdotte dalla l.r. Umbria n. 13/2016, prevedeva il rilascio del permesso in sanatoria relativo a interventi riguardanti l’area di pertinenza degli edifici dell’impresa agricola, già esistenti alla data del 30.06.2014, realizzati in assenza del titolo.
Tale sanatoria veniva condizionata all’accertamento della conformità dei predetti interventi alla disciplina urbanistica ed edilizia e agli strumenti urbanistici vigenti al momento della domanda, nonché al non contrasto con quelli adottati alla data del 30.06.2014, data nella quale i predetti interventi erano già esistenti, come espressamente indicato nella stessa norma.
Una simile previsione contrasta apertamente con l’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, configurandosi un’ipotesi di condono edilizio, che ha «quale effetto la sanatoria non solo formale ma anche sostanziale dell’abuso, a prescindere dalla conformità delle opere realizzate alla disciplina urbanistica ed edilizia (sentenza n. 50 del 2017)» (sentenza n. 232 del 2017), in contrasto con il principio fondamentale dell’accertamento di doppia conformità di cui al citato art. 36 del d.P.R n. 380 del 2001.
Deve pertanto esserne dichiarata l’illegittimità costituzionale (Corte Costituzionale, sentenza 05.04.2018 n. 68 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Comuni siti in zone sismiche - Artt. 28, c. 10, e 56, c. 3, l.r. Umbria n. 1/2015 - Attribuzione del compito di rendere il parere sugli strumenti urbanistici ai Comuni - Illegittimità costituzionale.
Le disposizioni di cui agli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3, della legge della Regione Umbria 21.01.2015, n. 1, nella parte in cui assegnano ai Comuni –piuttosto che al competente ufficio tecnico regionale‒ il compito di rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali ed attuativi dei Comuni siti in zone sismiche, si pongono in contrasto con il principio fondamentale posto dall’art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Deve, pertanto, esserne dichiarata l’illegittimità costituzionale (Corte Costituzionale, sentenza 05.04.2018 n. 68 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui stabiliscono che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche.
Questa Corte ha avuto più volte occasione di affermare che l'art. 89 del d.lgs. n. 380/2001 è norma di principio in materia non solo di «governo del territorio», ma anche di «protezione civile», in quanto volta ad assicurare la tutela dell’incolumità pubblica.
Essa, pertanto, si impone al legislatore regionale nella parte in cui in cui: prescrive a tutti i Comuni, per la realizzazione degli interventi edilizi in zone sismiche, di richiedere il parere del competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati, nonché sulle loro varianti ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio (comma 1); disciplina le modalità e i tempi entro cui deve pronunciarsi detto ufficio (comma 2); infine prevede che, in caso di mancato riscontro, il parere deve intendersi reso in senso negativo (comma 3).
Tale norma, al pari di altre ritenute di principio dalla giurisprudenza di questa Corte, anche in specifico riferimento a funzioni ascritte agli uffici tecnici della Regione analoghe a quella in esame, «riveste una posizione “fondante” […] attesa la rilevanza del bene protetto, che involge i valori di tutela dell’incolumità pubblica, i quali non tollerano alcuna differenziazione collegata ad ambiti territoriali».

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7.‒ Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna, inoltre, l’art. 28, comma 10, e l’art. 56, comma 3, della citata legge regionale nella parte in cui, rispettivamente, il primo attribuisce al Comune, in sede di adozione del PRG, il compito di esprimere il parere sugli strumenti urbanistici generali dei comuni siti in zone sismiche o in abitati da consolidare, di cui all’art. 89 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A); il secondo stabilisce che lo sportello unico delle attività produttive ed edilizie (SUAPE) acquisisca direttamente «i pareri che debbono essere resi dagli uffici comunali, necessari ai fini dell’approvazione del piano attuativo compreso il parere in materia sismica, idraulica ed idrogeologica, da esprimere con le modalità di cui all’articolo 112, comma 4, lettera d)».
Tali disposizioni si porrebbero in contrasto con i principi fondamentali in materia di «governo del territorio» e di «protezione civile» contenuti nel citato art. 89 del d.lgs. n. 380 del 2001. Secondo quest’ultimo, infatti, il parere sugli strumenti urbanistici generali dei comuni siti in zone sismiche o in abitati da consolidare deve essere richiesto al «competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati prima della delibera di adozione nonché sulle lottizzazioni convenzionate prima della delibera di approvazione, e loro varianti, ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio» (comma 1).
7.1.‒ La questione è fondata.
Questa Corte ha avuto più volte occasione di affermare che il citato art. 89 è norma di principio in materia non solo di «governo del territorio», ma anche di «protezione civile», in quanto volta ad assicurare la tutela dell’incolumità pubblica (fra le altre, sentenza n. 167 del 2014).
Essa, pertanto, si impone al legislatore regionale nella parte in cui in cui: prescrive a tutti i Comuni, per la realizzazione degli interventi edilizi in zone sismiche, di richiedere il parere del competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati, nonché sulle loro varianti ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio (comma 1); disciplina le modalità e i tempi entro cui deve pronunciarsi detto ufficio (comma 2); infine prevede che, in caso di mancato riscontro, il parere deve intendersi reso in senso negativo (comma 3).
Tale norma, al pari di altre ritenute di principio dalla giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, le sentenze n. 167 del 2014, n. 300, n. 101 e n. 64 del 2013, n. 201 del 2012, n. 254 del 2010), anche in specifico riferimento a funzioni ascritte agli uffici tecnici della Regione analoghe a quella in esame (sentenze n. 64 del 2013 e n. 182 del 2006), «riveste una posizione “fondante” […] attesa la rilevanza del bene protetto, che involge i valori di tutela dell’incolumità pubblica, i quali non tollerano alcuna differenziazione collegata ad ambiti territoriali» (sentenza n. 167 del 2014).
Le disposizioni regionali impugnate di cui agli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3, pertanto, nella parte in cui assegnano ai Comuni –piuttosto che al competente ufficio tecnico regionale‒ il compito di rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali ed attuativi dei Comuni siti in zone sismiche, si pongono in contrasto con il principio fondamentale posto dall’art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Nessun rilievo riveste, peraltro, la circostanza –richiamata dalla difesa regionale‒ che l’art. 20 della legge 10.12.1981, n. 741 (Ulteriori norme per l'accelerazione delle procedure per l'esecuzione di opere pubbliche) ha consentito alle Regioni di prevedere uno snellimento delle procedure e di introdurre norme per l’adeguamento degli strumenti urbanistici generali e particolareggiati vigenti, nonché sui criteri per la formazione degli strumenti urbanistici ai fini della prevenzione del rischio sismico.
Questa Corte ha già chiarito che «l’intera materia è stata oggetto di una più recente completa regolazione, che si è tradotta nelle vigenti disposizioni di cui al d.P.R. n. 380 del 2001 […] il quale ha fatto venire meno –anche in mancanza di formale abrogazione– le possibilità di deroga di cui all’art. 20 della legge n. 741 del 1981» (sentenza n. 64 del 2013; nello stesso senso, sentenza n. 182 del 2006).
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui stabiliscono che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche (Corte Costituzionale, sentenza 05.04.2018 n. 68).

URBANISTICA: Deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 59, comma 3, della legge regionale n. 1 del 2015, in quanto non limita gli interventi edilizi consentiti in assenza di piano attuativo a quelli individuati dall’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001.
L’art. 9 del d.P.R. n. 380/2001, dopo aver individuato, al comma 1, gli interventi edilizi consentiti «nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici», «[s]alvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali» e comunque nel rispetto delle norme di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, provvede ad identificare, al comma 2, quelli che possono essere realizzati in assenza di piani attuativi, quando questi ultimi siano indicati dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l’edificazione.
Fra questi annovera: gli interventi di manutenzione ordinaria, di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo (art. 9, comma 1, lettera a) e quelli di ristrutturazione edilizia (art. 3, comma 1, lettera d) «che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse» o che «riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell'interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo».
Questa Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi sul citato art. 9, anche se con specifico riguardo al comma 1, e ha ritenuto che esso, pur dettando specifici e puntuali limiti alla possibilità di realizzare interventi edilizi in assenza di strumenti urbanistici, «non può qualificarsi come norma di dettaglio, esprimendo piuttosto un principio fondamentale della materia».
Ciò ha ritenuto in ragione della sua peculiare funzione, che consiste nell’«impedire, tramite l’applicazione di standard legali, una incontrollata espansione edilizia in caso di “vuoti urbanistici”, suscettibile di compromettere l’ordinato (futuro) governo del territorio e di determinare la totale consumazione del suolo nazionale, a garanzia di valori di chiaro rilievo costituzionale».
La medesima funzione –e quindi la medesima natura di norma di principio– deve essere ascritta anche al comma 2 del citato art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001, là dove individua e delimita la tipologia di interventi edilizi realizzabili in assenza di piani attuativi, che siano qualificati dagli strumenti urbanistici generali come presupposto necessario per l’edificazione.
Anche in tal caso la norma in esame mira a salvaguardare la funzione di pianificazione urbanistica intesa nel suo complesso, evitando che, nelle more del procedimento di approvazione del piano attuativo, siano realizzati interventi incoerenti con gli strumenti urbanistici generali e comunque tali da compromettere l’ordinato uso del territorio.
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9.– Ulteriore norma denunciata è l’art. 59, comma 3, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui consente gli interventi edilizi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e risanamento conservativo, nonché di ristrutturazione edilizia, nelle aree in cui non siano state attuate le previsioni degli strumenti urbanistici generali, anche a mezzo di piano attuativo, presupposto per l’edificazione, e stabilisce che tali interventi possano comportare anche la modifica della destinazione d’uso in atto in un edificio esistente, purché la nuova destinazione risulti compatibile con le previsioni dello strumento urbanistico generale.
Tale norma si porrebbe in contrasto con la normativa statale di principio contenuta nell’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001, che limita la possibilità di mutare la destinazione d’uso e, in ogni caso, non consentirebbe gli interventi previsti dalla norma regionale impugnata.
9.1.– La questione è fondata.
La disposizione regionale impugnata disciplina gli interventi edilizi consentiti in assenza del piano attuativo, quando quest’ultimo sia obbligatorio, poiché qualificato come «presupposto per l’edificazione».
A tal proposito, considerato l’insegnamento costante di questa Corte secondo cui l’urbanistica e l’edilizia vanno ricondotte alla materia «governo del territorio», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., viene in rilievo –come indicato dal ricorrente– l’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Quest’ultimo, dopo aver individuato, al comma 1, gli interventi edilizi consentiti «nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici», «[s]alvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali» e comunque nel rispetto delle norme di cui al d.lgs. n. 42 del 2004, provvede ad identificare, al comma 2, quelli che possono essere realizzati in assenza di piani attuativi, quando questi ultimi siano indicati dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l’edificazione.
Fra questi annovera: gli interventi di manutenzione ordinaria, di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo (art. 9, comma 1, lettera a) e quelli di ristrutturazione edilizia (art. 3, comma 1, lettera d) «che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse» o che «riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell'interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo».
Questa Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi sul citato art. 9, anche se con specifico riguardo al comma 1, e ha ritenuto che esso, pur dettando specifici e puntuali limiti alla possibilità di realizzare interventi edilizi in assenza di strumenti urbanistici, «non può qualificarsi come norma di dettaglio, esprimendo piuttosto un principio fondamentale della materia» (sentenza n. 87 del 2017). Ciò ha ritenuto in ragione della sua peculiare funzione, che consiste nell’«impedire, tramite l’applicazione di standard legali, una incontrollata espansione edilizia in caso di “vuoti urbanistici”, suscettibile di compromettere l’ordinato (futuro) governo del territorio e di determinare la totale consumazione del suolo nazionale, a garanzia di valori di chiaro rilievo costituzionale» (sentenza n. 87 del 2017).
La medesima funzione –e quindi la medesima natura di norma di principio– deve essere ascritta anche al comma 2 del citato art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001, là dove individua e delimita la tipologia di interventi edilizi realizzabili in assenza di piani attuativi, che siano qualificati dagli strumenti urbanistici generali come presupposto necessario per l’edificazione. Anche in tal caso la norma in esame mira a salvaguardare la funzione di pianificazione urbanistica intesa nel suo complesso, evitando che, nelle more del procedimento di approvazione del piano attuativo, siano realizzati interventi incoerenti con gli strumenti urbanistici generali e comunque tali da compromettere l’ordinato uso del territorio.
L’art. 59, comma 3, della legge regionale n. 1 del 2015, nella parte in cui consente la realizzazione, in assenza del piano attuativo, quando quest’ultimo sia obbligatorio, di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e risanamento conservativo, nonché di ristrutturazione edilizia, senza limitazioni, prevedendo che tali interventi possano «comportare anche la modifica della destinazione d’uso in atto in un edificio esistente nell’ambito dell’insediamento, purché la nuova destinazione d’uso risulti compatibile con le previsioni dello strumento urbanistico generale», si pone in contrasto con le previsioni di cui al citato art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, che costituiscono principi fondamentali della materia.
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 59, comma 3, della legge regionale n. 1 del 2015, in quanto non limita gli interventi edilizi consentiti in assenza di piano attuativo a quelli individuati dall’art. 9, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 (Corte Costituzionale, sentenza 05.04.2018 n. 68).

APPALTI: Determinabilità ovvero possibilità di ricostruire, attraverso una lettura complessiva del contratto di avvalimento, gli impegni assunti dall’impresa ausiliaria.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento – Contenuto – Individuazione.
In tema di avvalimento, gli impegni assunti dall’impresa ausiliaria, al fine di corroborare sul piano sostanziale il prestito del requisito (ed evitare che lo stesso si riduca ad una dichiarazione di impegno meramente formale ed inidonea a garantire la stazione appaltante in ordine alla solidità economico-finanziaria del concorrente ausiliato), devono essere, se non determinati, quantomeno determinabili, ovvero ricostruibili attraverso una lettura complessiva del contratto di avvalimento (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione -nel richiamare i principi espressi da Cons. St., A.P., 04.11.2016, n. 23- che si presta allo scopo il contratto che contenga clausole atte univocamente a fondare il “trasferimento”, in capo all’impresa ausiliata (e quindi, di riflesso, a vantaggio della stazione appaltante, a soddisfacimento delle sue esigenze di garanzia in ordine alla affidabilità economico-finanziaria dell’esecutore del servizio), degli elementi che costituiscono il sostrato sostanziale ed, insieme, la ratio del requisito in discorso, quali il richiamo alla responsabilità solidale assunta dall’impresa ausiliaria e da quella ausiliata “in relazione alle prestazioni oggetto dell’appalto”, a garanzia della quale sovviene, appunto, la solidità finanziaria “cumulata” delle medesime imprese, così come attestata, pro quota, dal fatturato specifico di cui esse hanno il rispettivo possesso.
Ha aggiunto la Sezione che non rileva, da questo punto di vista, che la responsabilità solidale delle imprese sottoscrittrici del contratto di avvalimento costituisca l’effetto tipico dell’istituto, ai sensi dell’art. 89, comma 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (“il concorrente e l’impresa ausiliaria sono responsabili in solido nei confronti della stazione appaltante in relazione alle prestazioni oggetto del contratto”), con il conseguente carattere apparentemente ridondante della clausola suindicata.
La responsabilità solidale delle due imprese viene infatti in rilievo, per i presenti fini, quale strumento di realizzazione della “comunione” delle risorse finanziarie di cui è in possesso l’impresa ausiliaria e della quale il requisito del fatturato è espressione, appartenendo quindi al piano della fattispecie, prima ancora che a quello degli effetti, dell’avvalimento, ergo alla sfera dei presupposti costitutivi dell’istituto.
Ha osservato infine la Sezione che quanto invece alla componente “curriculare” del requisito in discorso, ovvero alla sua capacità espressiva dell’esperienza che l’impresa ha maturato nel settore, deve osservarsi che essa non si presta ad essere tradotta in impegni specifici alla prestazione di determinate risorse, come il “patrimonio esperenziale” menzionato dalla parte appellante: patrimonio che, in quanto intrinseco all’impresa, non può esserne tout court estrapolato per essere messo a disposizione dell’impresa ausiliata.
Da questo punto di vista, la garanzia che riceve l’Amministrazione dall’avvalimento si correla all’affiancamento, all’impresa concorrente e priva (in parte) dell’esperienza necessaria a garantire la piena affidabilità in ordine alla corretta esecuzione delle prestazioni contrattuali, di altra impresa, in possesso del fatturato specifico (quindi dell’esperienza) di cui quella concorrente è manchevole, la quale, mediante la stipulazione del contratto di avvalimento, si obbliga ad assicurare all’impresa ausiliata l’assistenza e la cooperazione necessarie a garantire il buon esito dell’appalto: obblighi che, anche se non esplicitati in una clausola ad hoc, si ricavano agevolmente dai doveri di buona fede e cooperazione che innervano qualunque rapporto contrattuale, tanto più in presenza della responsabilità solidale in ordine all’esecuzione delle prestazioni contrattuali che le due imprese hanno espressamente assunto con la stipulazione del contratto di avvalimento  (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 04.04.2018 n. 2102 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
L’appello non è meritevole di accoglimento.
Deve premettersi che l’impresa ausiliaria Va. Di Va. s.r.l. ha prestato all’impresa ausiliata Se.In.Sa. s.r.l. il requisito relativo al fatturato specifico, concernente i servizi analoghi a quelli oggetto di gara, in via integrativa di quello da essa posseduto: in particolare, mentre il fatturato necessario al fine di consentire all’impresa ausiliata di concorrere all’aggiudicazione dei tre lotti (2, 4 e 7) per i quali ha presentato domanda di partecipazione era pari ad € 7.648.509,54, essa ha dichiarato il possesso di un fatturato specifico pari ad € 6.000.000, al quale sommare quello messo a disposizione della ausiliaria, pari ad € 2.500.000.
Deve altresì precisarsi che,
secondo l’orientamento giurisprudenziale dominante, gli impegni assunti dall’impresa ausiliaria, al fine di corroborare sul piano sostanziale il prestito del requisito (ed evitare che lo stesso si riduca ad una dichiarazione di impegno meramente formale ed inidonea a garantire la stazione appaltante in ordine alla solidità economico-finanziaria del concorrente ausiliato), devono essere (se non determinati, quantomeno) determinabili, ovvero ricostruibili attraverso una lettura complessiva del contratto di avvalimento (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n. 23 del 04.11.2016).
Ebbene, deve ritenersi che il contratto de quo contenga clausole atte univocamente a fondare il “trasferimento”, in capo all’impresa ausiliata (e quindi, di riflesso, a vantaggio della stazione appaltante, a soddisfacimento delle sue esigenze di garanzia in ordine alla affidabilità economico-finanziaria dell’esecutore del servizio), degli elementi che costituiscono il sostrato sostanziale ed, insieme, la ratio del requisito in discorso: basti all’uopo richiamare la responsabilità solidale assunta dall’impresa ausiliaria e da quella ausiliata “in relazione alle prestazioni oggetto dell’appalto” (cfr. punto 5 del contratto di avvalimento), a garanzia della quale sovviene, appunto, la solidità finanziaria “cumulata” delle medesime imprese, così come attestata, pro quota, dal fatturato specifico di cui esse hanno il rispettivo possesso.
Non rileva, da questo punto di vista, che la responsabilità solidale delle imprese sottoscrittrici del contratto di avvalimento costituisca l’effetto tipico dell’istituto, ai sensi dell’art. 89, comma 5, d.lvo n. 50/2016 (“il concorrente e l’impresa ausiliaria sono responsabili in solido nei confronti della stazione appaltante in relazione alle prestazioni oggetto del contratto”), con il conseguente carattere apparentemente ridondante della clausola suindicata.
La responsabilità solidale delle due imprese viene infatti in rilievo, per i presenti fini, quale strumento di realizzazione della “comunione” delle risorse finanziarie di cui è in possesso l’impresa ausiliaria e della quale il requisito del fatturato è espressione, appartenendo quindi al piano della fattispecie, prima ancora che a quello degli effetti, dell’avvalimento, ergo alla sfera dei presupposti costitutivi dell’istituto.
Quanto invece alla componente “curriculare” del requisito in discorso, ovvero alla sua capacità espressiva dell’esperienza che l’impresa ha maturato nel settore, deve osservarsi che essa non si presta ad essere tradotta in impegni specifici alla prestazione di determinate risorse, come il “patrimonio esperenziale” menzionato dalla parte appellante: patrimonio che, in quanto intrinseco all’impresa, non può esserne tout court estrapolato per essere messo a disposizione dell’impresa ausiliata.
Da questo punto di vista,
la garanzia che riceve l’Amministrazione dall’avvalimento si correla all’affiancamento, all’impresa concorrente e priva (in parte) dell’esperienza necessaria a garantire la piena affidabilità in ordine alla corretta esecuzione delle prestazioni contrattuali, di altra impresa, in possesso del fatturato specifico (quindi dell’esperienza) di cui quella concorrente è manchevole, la quale, mediante la stipulazione del contratto di avvalimento, si obbliga ad assicurare all’impresa ausiliata l’assistenza e la cooperazione necessarie a garantire il buon esito dell’appalto: obblighi che, anche se non esplicitati in una clausola ad hoc, si ricavano agevolmente dai doveri di buona fede e cooperazione che innervano qualunque rapporto contrattuale, tanto più in presenza della responsabilità solidale in ordine all’esecuzione delle prestazioni contrattuali che le due imprese hanno espressamente assunto con la stipulazione del contratto di avvalimento.
Deve solo aggiungersi che la conclusione esposta e fatta propria dal TAR non implica la dedotta “disapplicazione” dell’art. 88 d.P.R. n. 207/2010 né, a rigore, l’annullamento dell’art. 9 del disciplinare di gara (sebbene disposto dal TAR in accoglimento del ricorso incidentale proposto dalle imprese controinteressate), in quanto costituisce il frutto, non demolitorio ma meramente interpretativo, della corretta esegesi delle norme suindicate e della esigenza di adattarne il significato dispositivo allo specifico requisito (economico-finanziario) oggetto di avvalimento.
Per finire, dallo stesso panorama giurisprudenziale possono ricavarsi significative indicazioni a sostegno della esposta conclusione interpretativa.
In primo luogo, non assume carattere decisivo il precedente citato dalla parte appellante (Cons. St., V, 22.11.2017, n. 5429), concernente una fattispecie in cui, come si desume dalla motivazione della sentenza, faceva difetto “il contestuale vincolante impegno finanziario nei confronti della stazione appaltante” (impegno nella specie individuabile nella menzionata responsabilità solidale assunta dalle imprese stipulanti il contratto di avvalimento).
In ogni caso,
sussiste un consolidato filone giurisprudenziale a mente del quale per l’avvalimento dei requisiti di capacità economica e finanziaria, ed in particolare del fatturato globale o specifico, non è richiesta l’indicazione dei mezzi e delle risorse aziendali messe a disposizione dall’ausiliaria per l’esecuzione dell’appalto, perché l’impegno assunto da quest'ultima riguarda la complessiva solidità patrimoniale e finanziaria, la quale è riferibile all’azienda nel suo complesso (cfr., da ultimo, Cons. Stato, V, 30.10.2017, n. 4973; Cons. Stato, III, 11.07.2017, n. 3422, 17.11.2015, n. 5703, 04.11.2015, nn. 5038 e 5041, 02.03.2015, n. 1020, 06.02.2014, n. 584; IV, 29.02.2016, n. 812; V, 22.12.2016, n. 5423).
Con diretto riferimento ad una fattispecie analoga a quella oggetto del presente giudizio, inoltre, questa stessa Sezione (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 11.07.2017, n. 3422) ha affermato che “
nelle gare pubbliche, in caso di avvalimento avente ad oggetto il requisito di capacità economica finanziaria, rappresentato dal fatturato sia globale che specifico, la prestazione oggetto specifico dell’obbligazione è costituita non già dalla messa a disposizione da parte dell’impresa ausiliaria di strutture organizzative e mezzi materiali, ma dal suo impegno a garantire con le proprie complessive risorse economiche, il cui indice è costituito dal fatturato, l’impresa ausiliata; in sostanza, ciò che la impresa ausiliaria mette a disposizione della impresa ausiliata è il suo valore aggiunto in termini di solidità finanziaria e di acclarata esperienza di settore, dei quali il fatturato costituisce indice significativo; ne consegue che non occorre che la dichiarazione negoziale costitutiva dell’impegno contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o ad indici materiali atti ad esprimere una determinata consistenza patrimoniale e, dunque, alla messa a disposizione di beni da descrivere ed individuare con precisione, essendo sufficiente che da essa dichiarazione emerga l’impegno contrattuale della società ausiliaria a mettere a disposizione la sua complessiva solidità finanziaria ed il suo patrimonio esperienziale, garantendo con essi una determinata affidabilità ed un concreto supplemento di responsabilità (cfr. Cons. Stato, III, n. 2952/2016; n. 5038/2015; n. 5041/2015; vedi anche, in senso analogo, V, n. 1032/2016). Tali elementi minimi risultano soddisfatti dal contratto di avvalimento in esame, che indica puntualmente il fatturato messo a disposizione e prevede la responsabilità solidale con l’ausiliata nei confronti della stazione appaltante, e non può quindi configurarsi alla stregua di un prestito di un valore puramente cartolare ed astratto, tale da soddisfare su di un piano meramente formale il requisito di partecipazione (ciò che, effettivamente, renderebbe l’avvalimento illegittimo - cfr. CGUE, 07.04.2016, in C-324/14)”.
Il rigetto dell’appello, derivante dalle considerazioni svolte, consente di prescindere dalla disamina delle eccezioni di inammissibilità dello stesso, formulate dalle parti resistenti.

APPALTI: Il principio della suddivisione in lotti di un appalto è derogabile.
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Contratti della pubblica amministrazione – Lotti – Suddivisione dell’appalto in lotti – Art. 51, d.lgs. n. 50 del 2016 – Derogabilità – Sindacabilità – Limiti.
Il principio della suddivisione in lotti di un appalto, previsto dall’art. 51, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, può essere derogato, seppur attraverso una decisione che deve essere adeguatamente motivata ed è espressione di scelta discrezionale, sindacabile soltanto nei limiti della ragionevolezza e proporzionalità, oltre che dell’adeguatezza dell’istruttoria, in ordine alla decisone di frazionare o meno un appalto “di grosse dimensioni” in lotti (1)
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   (1) Cons. St., sez. VI, 12 settembre 2014, n. 4669; id., sez. V, 16.03.2016, n. 1081.
Ha chiarito la Sezione che se è vero che l’art. 51, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 ha mantenuto il principio della suddivisione in lotti, al fine di favorire l’accesso delle microimprese, piccole e medie imprese alle gare pubbliche, già previsto dall’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, tuttavia, nel nuovo regime, il principio non risulta posto in termini assoluti ed inderogabili, giacché il medesimo art. 51, comma 1, secondo periodo afferma che “le stazioni appaltanti motivano la mancata suddivisione dell’appalto in lotti nel bando di gara o nella lettera di invito o nella relazione unica di cui agli artt. 99 e 139” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.04.2018 n. 2044 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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3. Basandosi sull’“assoluta disomogeneità” dei servizi oggetto di affidamento unitario, il TAR ha inoltre affermato la necessità di un’unica gara suddivisa in lotti, al fine di garantire l’accesso alla selezione da parte delle micro-imprese, piccole e medie imprese, le quali, “diversamente, si vedrebbero estromesse in caso di accorpamento di prestazioni disomogenee”, alla luce della disciplina normativa di cui agli artt. 30, 51 e 81 d.lgs. n. 50-2016.
Nel caso in esame tuttavia può ragionevolmente escludersi che la disciplina di gara contestata possa produrre effetti restrittivi della concorrenza in danno alle micro-piccole e medie imprese, stante il valore economico oggettivamente modesto dell’appalto (€ 344.265,00 nel triennio).
Peraltro, è pur vero che l’art. 51 d.lgs. n. 50-2016 ha mantenuto il principio della suddivisione in lotti, al fine di favorire l’accesso delle microimprese, piccole e medie imprese alle gare pubbliche, già previsto dall’art. 2, comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006; tuttavia, nel nuovo regime, il principio non risulta posto in termini assoluti ed inderogabili, giacché il medesimo art. 51, comma 1, secondo periodo afferma che “le stazioni appaltanti motivano la mancata suddivisione dell’appalto in lotti nel bando di gara o nella lettera di invito o nella relazione unica di cui agli articoli 99 e 139”.
Il principio della suddivisione in lotti può dunque essere derogato, seppur attraverso una decisione che deve essere adeguatamente motivata (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.09.2014, n. 4669) ed è espressione di scelta discrezionale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 16.03.2016, n. 1081), sindacabile soltanto nei limiti della ragionevolezza e proporzionalità, oltre che dell’adeguatezza dell’istruttoria, in ordine alla decisone di frazionare o meno un appalto “di grosse dimensioni” in lotti, mentre, come detto, l’appalto in esame non è di elevato importo economico e la scelta del Comune di Orvieto è motivata, come sarà meglio esplicitato ai punti nn. 4 e 5 della presente decisione, in modo del tutto ragionevole e, perciò, sottratta al sindacato del giudice di legittimità, non ravvisandosi manifesta illogicità, irragionevolezza o arbitrarietà nel tenore della medesima.
4. In particolare, ad avviso della Sezione, l’adozione dell’opzione del lotto unico risulta ragionevole perché la commessa riveste carattere unitario, in quanto sia il servizio di gestione e controllo sia il servizio complementare di pulizia hanno ad oggetto le medesime aree di parcheggio e i medesimi impianti di risalita.
Inoltre, si tratta di servizi che rispondono alla medesima finalità di garantire il corretto funzionamento e la migliore fruibilità del sistema integrato composto da parcheggi e impianti di mobilità alternativa.
La scelta di non frazionare l’appalto in lotti, nel caso in cui l'unitarietà sia imposta dall'oggetto dell'appalto e dalle modalità esecutive scaturenti dalla situazione materiale e giuridica dei luoghi entro cui operare può ritenersi ragionevole e non illogica o arbitraria: non può sottacersi infatti, sotto altro concorrente profilo, che le attività prestazionali oggetto dei suddetti servizi non esigono specializzazioni, né qualifiche particolari che impongano, giustificano o rendano anche solo opportuna una suddivisione in lotti.

EDILIZIA PRIVATA: All’Adunanza plenaria la questione della natura giuridica, pubblicistica o privatistica, della rideterminazione degli oneri concessori.
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana rimette all’Adunanza plenaria la questione della natura giuridica, pubblicistica o privatistica, dell’atto mediante il quale sono rideterminati gli oneri concessori in occasione del rilascio del titolo edilizio ai sensi dell’art. 16, d.P.R. n. 380 del 2001.
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Edilizia – Contributo per il rilascio del permesso di costruire – Rideterminazione – Estrinsecazione di potere autoritativo o facoltà nell’ambito del rapporto paritetico di natura creditizia – Deferimento all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
Vanno rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le seguenti questioni:
   a) se la rideterminazione degli oneri concessori in occasione del rilascio del titolo edilizio ai sensi dell’art. 16, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 sia estrinsecazione di potere autoritativo da parte dell’amministrazione comunale, nell’ambito dell’autotutela pubblicistica soggetta ai presupposti e requisiti dell’art. 21-novies, l. 07.08.1990, n. 241, ovvero sia espressione di una sua legittima facoltà, nell’ambito del rapporto paritetico di natura creditizia, conseguente al rilascio del titolo edilizio a carattere oneroso, sottoposto nelle sue forme di esercizio al termine prescrizionale ordinario;
   b) ove dovesse prevalere la prima opzione interpretativa, se la rideterminazione dei suddetti oneri sia da ascrivere all’ambito dei rapporti di diritto pubblico quali che siano le ragioni che l’abbiano ispirata, ovvero solo nei casi in cui la stessa dipenda dalla applicazione di parametri o coefficienti determinativi diversi (originari o sopravvenuti) da quelli in precedenza applicati, con esclusione quindi dei casi di errore materiale di calcolo delle somme dovute sulla base dei medesimi parametri normativi;
   c) in alternativa ed a prescindere dall’inquadramento giuridico della fattispecie secondo le richiamate categorie, e quale che sia la natura giuridica da riconnettere al provvedimento rideterminativo degli oneri concessori, se vi sia spazio, ed in quali limiti, perché possa trovare applicazione nella fattispecie in esame il principio del legittimo affidamento del privato, da ricostruire vuoi sulla base della disciplina pubblicistica dell’autotutela, vuoi su quella privatistica della lealtà e della buona fede nell’esecuzione delle prestazioni contrattuali, ovvero sulla base dei principi desumibili dai limiti posti dall’ordinamento civile per l’annullamento del contratto per errore o per altra causa (1).

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   (1) I. - Con l’ordinanza in epigrafe, il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana rimette all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione della natura giuridica dell’atto mediante il quale l’autorità comunale provvede alla rideterminazione degli oneri concessori previsti dall’art. 16 del t.u. edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001).
Nel caso esaminato dal Collegio, l’amministrazione ha rideterminato, in malam partem, gli oneri concessori dovuti dal soggetto beneficiario del titolo edilizio, a notevole distanza temporale dal rilascio del titolo e dalla originaria determinazione degli oneri.
L’esame dei motivi di ricorso richiede, secondo l’ordinanza, la qualificazione giuridica della fattispecie, dovendosi stabilire se debba farsi applicazione di istituti di natura pubblicistica, qualificando la rideterminazione come una forma di autotutela, ovvero di istituti di diritto privato. In entrambi i casi, si pone il problema della tutela della posizione del privato che, medio tempore, abbia ritirato il provvedimento assentivo e iniziato o completato i lavori, facendo, in sostanza, affidamento su un determinato preventivo di spesa del programmato intervento edilizio.
   II. - Il Collegio premette che, nel caso esaminato, non si è trattato di errore di calcolo, che si riscontra in caso di svolgimento del conteggio sulla base di criteri corretti ma applicati in modo inesatto, ma di errore di impostazione dei criteri di calcolo, in quanto:
      a) è stata applicata un’unica tariffa anziché due tariffe differenziate in relazione ai distinti parametri della superficie lorda dei fabbricati e della superficie complessiva dell’insediamento;
      b) è stata applicata la tariffa a una superficie inferiore a quella effettiva.
Nella pronuncia si precisa che non si registrano posizioni omogenee nella giurisprudenza amministrativa sulla natura giuridica dell’atto di rideterminazione degli oneri concessori.
      c) Le tesi che accolgono l’orientamento privatistico (Cons. Stato, sez. IV, 20.11.2012, n. 6033, in Giurisdiz. amm., 2012, I, 1631; Cons. Stato, sez. V, 04.05.1992, n. 360, in Riv. giur. ed., 1992, I, 624), pur muovendo dal comune rilievo secondo cui le controversie in tema di determinazione della misura dei contributi edilizi riguardano diritti soggettivi che traggono origine direttamente da fonti normative, giungono a conclusioni diversificate sulla disciplina applicabile in caso di rideterminazione in peius dell’onere; in sintesi:
         c1) secondo l’orientamento “privatistico” (Cons. giust. amm. reg. sic., 15.06.2007, n. 422; Id., 18.05.2007, n. 373; Id., 21.03.2007, n. 244, in Foro amm. – Cons. Stato, 2007, 1063; Id., 02.03.2007, n. 64, in Giurisdiz. amm., 2007, I, 412), la determinazione del contributo darebbe luogo a un rapporto paritetico, azionabile da entrambe le parti nel termine di prescrizione ordinario di dieci anni.
La definizione dell’ammontare del contributo si cristallizzerebbe, tuttavia, al momento del rilascio del titolo edilizio e, in applicazione della disciplina civilistica sul contratto in generale, sarebbe rettificabile solo in caso di errore di calcolo e non potrebbe trovare applicazione la disciplina dell’annullamento dell’atto per errore per difetto del requisito della riconoscibilità;
         c2) una diversa ricostruzione, ancora di matrice privatistica (cfr. in particolare, Cons. Stato, sez. IV, 27.09.2017, n. 4515; Cons. Stato, sez. IV, 12.06.2017, n. 2821), giunge a conclusioni opposte, ritenendo che la rettifica dell’ammontare del contributo sia sempre consentita, perché l’applicazione di una tariffa diversa da quella corretta altro non è che un errore di calcolo;
      d) secondo l’orientamento “pubblicistico” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.12.2016, n. 5402), il rapporto nascente dalla determinazione del contributo andrebbe qualificato come prestazione patrimoniale imposta di carattere non tributario, con conseguente applicabilità delle regole dell’autotutela amministrativa.
Nell’alveo della ricostruzione pubblicistica, il Collegio richiama anche Cons. Stato, Ad. plen., sentenza 07.12.2016, n. 24 (in Foro it., 2017, III, 129, e in Giornale dir. amm., 2017, 528 (m), con nota di CUTINI, oggetto della News US in data 03.01.2017, allegata, cui si rinvia anche per approfondimenti dottrinali e giurisprudenziali), che, con riferimento al tema dell’applicabilità delle sanzioni per il ritardo nel pagamento dei contributi, ha affermato che il contributo dovuto dal privato in occasione del ritiro di un permesso a costruire si colloca nell’ambito dei rapporti di diritto pubblico e deve essere qualificato come una prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario.
Il Collegio manifesta, quindi, la propria preferenza per la ricostruzione pubblicistica ritenendo che:
      e) consente di recuperare coerenza sul piano dogmatico con il sistema giuridico di riferimento;
      f) garantisce un migliore contemperamento delle esigenze pubblicistiche, sottese alla corretta determinazione del contributo dovuto e alla salvaguardia degli interessi erariali, anche in sede di correzione di precedenti errori di quantificazione, e delle esigenza di tutela della parte privata riguardo l’affidamento riposto nella originaria determinazione dell’ente;
      g) consente, a tutela dell’affidamento del privato, di applicare gli istituti posti a presidio delle garanzie partecipative previsti per l’attività amministrativa e le condizioni legali di esercizio dell’autotutela, avuto riguardo ai tempi e ai contenuti motivazionali dell’atto di secondo grado (artt. 21-quinquies, octies, novies della l. n. 241 del 1990).
   III. – Per completezza si segnala quanto segue:
      h) Cons. Stato, Ad. plen., sentenza 07.12.2016, n. 24 cit., ha precisato che “l’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale”;
      i) oltre alle sentenze richiamate nell’ordinanza di rimessione, hanno aderito alla tesi pubblicistica:
         i1) Cons. Stato, sez. IV, 28.11.2017, n. 5571, secondo cui il contributo di costruzione rappresenta una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione e, quindi, una prestazione patrimoniale imposta di indole non tributaria, da ricollegare, sul piano eziologico, al surplus di opere di urbanizzazione che l’amministrazione comunale è tenuta ad affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del richiedente il titolo edilizio;
         i2) Cons. Stato, sez. IV, 07.11.2017, n. 5133, il quale, nel confermare la natura di prestazione patrimoniale imposta di carattere non tributario del contributo di costruzione, precisa che le prestazioni da adempiere da parte dell’amministrazione comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro poste in posizione sinallagmatica, con la conseguenza che il soggetto obbligato è tenuto a corrispondere il contributo nel rispetto dei termini stabiliti e il suo mancato pagamento legittima l’amministrazione ad applicare sanzioni pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del ritardo, a prescindere dall’eventuale responsabilità del privato, e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme vigenti in materia di riscossione coattiva delle entrate;
         i3) Cons. giust. amm. reg. sic., 03.11.2017, n. 471, in Foro amm., 2017, 11, 2268, secondo cui il contributo, previsto dall’art. 3 della l. n. 10 del 1977, in caso di concessione edilizia, è una prestazione patrimoniale di natura impositiva che trova la sua ratio nell’incremento patrimoniale conseguito per l’intervento edilizio dal titolare del permesso di costruire e la causa giuridica del pagamento è la sussistenza di un titolo abilitativo valido ed efficace e la concreta fruizione da parte del concessionario;
      j) in relazione alle conseguenze della scelta sulla natura giuridica dell’atto, occorre precisare che l’adesione alla tesi pubblicistica comporta che il privato è obbligato a impugnare l’atto che determina o ridetermina il contributo nel termine decadenziale previsto per l’impugnazione degli atti amministrativi. Al contrario, in caso di adesione alla tesi privatistica, è possibile contestare l’esistenza o il contenuto dell’obbligazione entro il termine prescrizionale;
      k) secondo Cons. Stato, sez. IV, 20.11.2017, n. 5356, il rilascio della concessione edilizia è il fatto costitutivo dell’obbligo giuridico del concessionario di corrispondere il contributo per oneri di urbanizzazione. Ne discende che il contributo è dovuto per il solo rilascio della concessione, senza che rilevi l’eventuale già intervenuta realizzazione di opere di urbanizzazione. Muovendo da questa prospettiva, l’esenzione prevista dall’art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 è dovuta solo qualora concorrano due presupposti: “uno oggettivo, l’ascrivibilità del manufatto oggetto di concessione edilizia alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale, e l’altro soggettivo, l’esecuzione delle opere da parte di enti istituzionalmente competenti, vale a dire da parte di soggetti cui sia demandata in via istituzionale la realizzazione di opere di interesse generale, ovvero da parte di privati concessionari dell’ente pubblico, purché le opere siano inerenti all’esercizio del rapporto concessorio”;
      l) nel senso dell’applicabilità delle disposizioni in tema di interruzione e di sospensione della prescrizione al diritto di credito avente ad oggetto il pagamento della sanzione e degli interessi per il ritardato pagamento degli oneri concessori dovuti all’amministrazione comunale per il rilascio di permesso a costruire si veda Cons. Stato, sez. IV, 13.11.2017, n. 5202;
      m) sulla possibilità (ed i limiti) che un terzo –diverso dal titolare del permesso di costruire- adempia l’obbligo di pagamento del contributo e sulla legittimazione a contestare in giudizio l’entità dello stesso, si veda Cons. Stato, sez. IV, 29.12.2016, n. 5523 (che approfondisce la correlazione fra gli istituti civilistici dell’adempimento del terzo e della estinzione dell’obbligazione con il rapporto pubblicistico che scaturisce dal rilascio del permesso di costruire);
      n) ai sensi dell’art. 1, comma 460, della l. n. 232 del 2016, “a decorrere dal 01.01.2018, i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive, all’acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell’ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l’insediamento di attività di agricoltura nell’ambito urbano”.
Sul tema, in dottrina, si vedano, tra gli altri: AA.VV., La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al diritto delle città, a cura di DI LASCIO e GIGLIONI, Bologna, 2017 (cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti dottrinali e normativi); URBANI, Governo del territorio e delle attività produttive. Tra regole, libertà d’iniziativa economica e disciplina della proprietà, in Urb. app., 2016, 12, 1309; SCALIA, Governo del territorio e tutela dell’ambiente: urbanistica e limitazione del consumo del suolo, in Urb. app., 2016, 10, 1065;
      o) Corte cost., 03.11.2016, n. 231 (in Foro it., 2017, I, 2566, cui si rinvia per ogni approfondimento sul tema della determinazioni degli oneri di urbanizzazione), ha dichiarato “incostituzionale l’art. 6, 20º e 21º comma, primo trattino, l.reg. Liguria 07.04.2015 n. 12, nella parte in cui stabilisce l’esonero dal contributo di costruzione per gli interventi sul patrimonio edilizio esistente che determinano un aumento della superficie agibile dell’edificio o delle singole unità immobiliari, quando l’incremento della superficie agibile all’interno delle unità immobiliari sia inferiore a 25 metri quadrati e quando le variazioni di superficie derivino da mera eliminazione di muri divisori, e per gli interventi di frazionamento di unità immobiliari che determinino un numero di unità immobiliari inferiore al doppio di quelle esistenti, sia pure con aumento di superficie agibile” e “inammissibile, in quanto formulata in termini generici in ordine ai parametri costituzionali invocati, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, 20º e 21º comma, primo e secondo trattino, l.reg. Liguria 07.04.2015 n. 12, nella parte in cui disciplina l’imposizione e l’ammontare del contributo di costruzione, in riferimento agli art. 3 e 97 cost.”;
      p) Cons. Stato, sez. V, 28.03.2008, n. 1334, in Foro it., 2008, III, 556, ha precisato che “il giudizio concernente l’esclusione dell’esenzione dal contributo di costruzione ha per oggetto un interesse legittimo, quando la debenza del contributo risalga a una convenzione urbanistica e al relativo permesso di costruire; pertanto il relativo ricorso va proposto entro un termine di decadenza" (CGARS, ordinanza 27.03.2018 n. 175 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Occasionalità del trasporto - Criteri e indici sintomatici - Configurabilità del reato - Natura di illecito istantaneo - Condotta di assoluta occasionalità - Fattispecie: trasporto di materiale ferroso qualificato come rifiuto.
Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 256, comma 1, d.lgs. n.152/2006, trattandosi di illecito istantaneo, è sufficiente anche una sola condotta integrante una delle ipotesi alternative tipizzate dalla fattispecie penale, purché costituisca una "attività" e non sia assolutamente occasionale, laddove è la stessa descrizione normativa ad escludere dall'area di rilevanza penale le condotte di assoluta occasionalità.
Inoltre, il carattere non occasionale della condotta di trasporto illecito di rifiuti può essere desunto anche da indici sintomatici, quali la provenienza del rifiuto da una attività imprenditoriale esercitata da chi effettua o dispone l'abusiva gestione, la eterogeneità dei rifiuti gestiti, la loro quantità, le caratteristiche del rifiuto indicative di precedenti attività preliminari di prelievo, raggruppamento, cernita, deposito, non rilevando appunto la qualifica soggettiva del soggetto agente bensì la concreta attività posta in essere in assenza dei prescritti titoli abilitativi, che può essere svolta anche di fatto o in modo secondario, purché non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
RIFIUTI - Definizione e qualificazione di rifiuto - Finalità della normativa europea - Giurisprudenza della Corte di Giustizia - Intenzione del detentore - Ininfluenza.
In tema di rifiuti, la definizione dell'art. 183, comma primo, lett. a), del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, a termini della quale costituisce rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione ovvero l'obbligo di disfarsi, esige -in conformità alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale impone di interpretare l'azione di disfarsi alla luce della finalità della normativa europea, volta ad assicurare un elevato livello di tutela della salute umana e dell'ambiente secondo i principi di precauzione e prevenzione- che la qualificazione alla stregua di rifiuti dei materiali di cui l'agente si disfa consegua a dati obiettivi connaturanti la condotta tipica, anche in rapporto a specifici obblighi di eliminazione, con conseguente esclusione della rilevanza di valutazioni soggettivamente incentrate sulla mancanza di utilità, per il medesimo, dei predetti materiali (Cass. Sez. 3, n. 19206 del 16/03/2017, Costantino).
Per rifiuto, quindi, deve intendersi qualsiasi sostanza od oggetto di cui il produttore o il detentore si disfi, restando irrilevante se ciò avvenga attraverso lo smaltimento del prodotto ovvero tramite il suo recupero e, inoltre, prescindendosi da ogni indagine sull'intenzione del detentore che abbia escluso ogni riutilizzazione economica della sostanza o dell'oggetto da parte di altre persone.

RIFIUTI - Attività di gestione - Mancanza di autorizzazione, iscrizione o comunicazione - Irrilevanza penale della condotta in ragione della occasionalità - Presupposti e limiti - Accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto - Quaestio facti demandata al giudice di merito - Insindacabile in sede di legittimità - Artt. 193, 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 256 d.lgs. n. 152/2006.

Il reato di cui all'art. 256, comma primo, del d.lgs. n. 152/2006, che sanziona le attività di gestione compiute in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli artt. 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo d.lgs. è configurabile nei confronti di chiunque svolga tali attività anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
L'accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto, ai sensi dell'art. 183 d.lgs. 03.04.2006, n. 152 costituisce una quaestio facti, come tale demandata al giudice di merito, ed insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione esente da vizi logici o giuridici (Sez. 3, n. 7037 del 18/01/2012, Fiorenza) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.03.2018 n. 10799 - link a www.ambientediritto.it).

AGGIORNAMENTO AL 03.04.2018

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IN EVIDENZA

ESPROPRIAZIONE: Possibilità di abdicare al diritto di proprietà di un fondo occupato ma poi non espropriato.
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Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione – Omessa espropriazione – Abdicazione diritto di proprietà – Esclusione.
Il privato il cui fondo sia stato occupato per la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità e che poi non sia stato espropriato nelle forme legislativamente previste, non può unilateralmente abdicare al diritto di proprietà vantato sul fondo medesimo (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che alla base di tale conclusione ci sono due ordini di ragioni.
Va rilevato, in primo luogo, che l’art. 42-bis, d.P.R. 08.06.2001, n. 327 consente di regolarizzare le predette occupazioni illegittime mercé l’adozione del c.d. “decreto di acquisizione sanante”, e tanto con riferimento a qualsiasi fattispecie di occupazione illegittima, futura o passata, sia essa connotata, o meno, da una rinuncia abdicativa del privato; inoltre, non è prevista la possibilità che il “decreto di acquisizione sanante” abbia come destinatario un soggetto diverso dal proprietario del fondo occupato né che esso possa avere effetti diversi da quelli traslativi della proprietà.
L’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001, in definitiva, sottende che il bene immobile illegittimamente occupato per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità rimane sempre di proprietà del soggetto che risulta esserne proprietario al momento della occupazione, fino a che la proprietà venga ceduta alla amministrazione occupante (o a terzi) nei modi previsti dalla legge. Pertanto si può affermare che l’art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001 ha definitivamente certificato l’impossibilità per il privato di rinunciare unilateralmente al diritto di proprietà di un fondo illegittimamente occupato per scopi di pubblica utilità
In secondo luogo, ed a prescindere dalle considerazioni che possono trarsi dalla disciplina specifica afferente le occupazioni illegittime per causa di pubblica utilità, va rilevato che nel nostro ordinamento giuridico la rinunzia abdicativa (e non traslativa) ad un diritto reale può ritenersi consentita solo nei casi tipici previsti dal codice civile, tra i quali non è inclusa la rinunzia abdicativa al diritto di proprietà esclusiva su bene immobile: una tale rinunzia, pertanto, non può essere validamente esercitata né tramite atto unilaterale espresso, ancorché rogato da notaio, né implicitamente, mediante domanda giudiziale tendente al riconoscimento dell’equivalente monetario del bene immobile oggetto della rinunzia abdicativa.
Diversamente opinando –e cioè ammettendo che il privato possa abdicare unilateralmente alla proprietà di un bene immobile, occupato o meno per scopi di pubblica utilità- si perviene a risultati paradossali ed estremamente dannosi per la finanza pubblica.
A livello generale va rilevato che la rinunzia abdicativa alla proprietà esclusiva di beni immobili renderebbe i beni stessi privi di proprietario e, come tali, devoluti al patrimonio dello Stato ai sensi dell’art. 827 c.c.: per effetto di ciò lo Stato diventerebbe proprietario di un numero indefinito di beni immobili con riferimento ai quali dovrebbe assicurare la custodia e la manutenzione, rimanendo contestualmente privato del relativo gettito tributario: tali effetti, di tutta evidenza estremamente gravosi per le finanze dello Stato, si produrrebbero ex lege ed a prescindere dalla conoscenza effettiva che lo Stato abbia dell’acquisto della proprietà di immobili per effetto di rinunzia abdicativa.
Con riferimento specifico alla occupazione illegittima di fondi finalizzata alla realizzazione di opere di pubblica utilità, premesso e ricordato che risulta ormai completamente superato l’insegnamento pretorio secondo il quale il privato perderebbe la proprietà del bene immobile occupato per scopi di pubblica utilità quale effetto della trasformazione impressa dalla attività manipolatrice della amministrazione occupante, e rammentato altresì che in giurisprudenza –soprattutto quella amministrativa– si è progressivamente consolidato il principio secondo cui la restituzione del bene al privato deve ritenersi sempre possibile, e doverosa, perché in realtà nulla, se non fattori di natura meramente economica, impedisce il ripristino del bene allo stato originario e la restituzione di esso, si deve constatare che:
   a) non si giustifica (più) la corresponsione, al privato, del risarcimento del danno commisurato al valore venale del bene immobile, stante che tale bene non è estinto e viene restituito al legittimo proprietario, virtualmente arricchito del valore dell’opera pubblica che su di esso è stata realizzata, che il privato volendo può ritenere e sfruttare;
   b) ammettendo che il privato, il cui bene sia stato illegittimamente occupato per scopi di pubblica utilità, possa unilateralmente rinunziare, a titolo “abdicativo” (e non “traslativo”) alla proprietà del bene medesimo, condizionando tale rinunzia al risarcimento del danno commisurato al valore venale di esso, si ha che l’amministrazione “occupante” rimane gravata dell’onere di corrispondere un risarcimento privo (ormai) di valida giustificazione giuridica e pur senza divenire proprietaria del fondo sul quale ha realizzato l’opera di pubblica utilità (giacché l’unico effetto immediato della rinunzia “abdicativa” consiste nella dismissione del bene dal patrimonio del privato, la cui proprietà sarebbe semmai devoluta allo Stato ai sensi dell’art. 827 c.c.) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 28.03.2018 n. 368 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. La ricorrente era proprietaria in Comune di Cherasco di un terreno di circa 1.200 mq censito al locale Catasto terreni al Foglio 8, mapp. 93, avente destinazione agricola.
2. Il terreno in questione è adiacente alla strada “frazione Veglia”, in relazione alla quale il Comune di Cherasco, con delibera della Giunta municipale n. 118 del 28/08/2007, ha approvato un progetto esecutivo per la realizzazione di lavori di ampliamento e sistemazione, provvedendo dipoi a contattare tutti i proprietari interessati per verificare la possibilità di addivenire a cessione bonaria: tra essi anche la ricorrente, il cui fondo sopra indicato è adiacente alla strada comunale e del quale in base al progetto esecutivo il Comune doveva acquisire una porzione.
3. Nel frangente la ricorrente ha firmato una sorta di pre-accordo con il quale dimostrava la disponibilità alla cessione gratuita “per l’asservimento dell’area necessaria ad ampliare la strada fino ad ottenere una larghezza dell’asfalto a 6 metri. La proprietaria richiede che in occasione della prossima variante al PRGC venga inserita la possibilità di realizzare un piccolo fabbricato residenziale”, possibilità fino a quel momento non esistente attesa la destinazione agricola del fondo.
4. Accordi bonari sono stati stipulati dal Comune anche con gli altri proprietari, come risulta dalla delibera di Giunta Municipale impugnata, n. 13 del 24.01.2008, oggetto di gravame, nella quale vengono anche esplicitati i criteri di indennizzo e laddove, nella lista dei proprietari interessati, accanto al nome della ricorrente non è indicato alcun indennizzo.
5. L’Amministrazione, senza dover disporre l’occupazione d’urgenza degli immobili, ha quindi preso possesso delle aree necessarie, ha iniziato i lavori nel febbraio 2008 e li ha terminati nel settembre 2009.
6. Dopo di ciò, constatata l’effettiva superficie occupata a danno di ciascuno dei proprietari interessati, il Comune ha determinato le relative indennità di espropriazione: la ricorrente, tuttavia, secondo quanto il Comune ha riferito nella nota di chiarimenti acquisita in corso di causa, in realtà non è mai stata contattata a tale scopo poiché l’Amministrazione riteneva che essa avesse acconsentito alla cessione a titolo gratuito.
7. Il decreto di esproprio, con riguardo al fondo della ricorrente, non è mai stato emesso né è stato stipulato alcun atto comportante traslazione della proprietà.
8. La ricorrente nel 2009, a lavori ultimati, tramite il proprio difensore ha formulato richiesta di restituzione del fondo o, in difetto, di risarcimento del danno: ne è seguita una trattativa che non è andata a buon fine.
9. La ricorrente si è pertanto indotta ad impugnare la delibera di Giunta n. 13 del 24.01.2008, che essa asserisce di aver conosciuto solo nel 2010, lesiva nella misura in cui non riconosce ad essa alcun indennizzo: nell’atto introduttivo del giudizio essa ha pertanto chiesto al Tribunale di annullare la delibera medesima e, in via risarcitoria, di “accertare e dichiarare tenuta l’Amministrazione comunale alla reintegrazione in forma specifica del danno patito dalla ricorrente con conseguente restituzione della parte di terreno acquisita dal Comune di Cherasco senza titolo, ovvero, in subordine, condannare l’Amministrazione al risarcimento del danno per equivalente monetario in misura non inferiore ad E. 5848,00 oltre interessi dal giorno della occupazione illegittima al saldo, oltre alla rivalutazione monetaria.”
10. Nessuno si è costituito in giudizio per il Comune di Cherasco.
11. Con atto depositato il 07.04.2011 la ricorrente, premesso di aver ricevuto dalla Amministrazione comunale una comunicazione nella quale si faceva presente che l’occupazione del terreno della signora Ta. era legittima, che essa aveva manifestato la disponibilità a cederlo gratuitamente, che la richiesta formulata dalla medesima risultava eccessiva e che peraltro il Comune era disponibile ad acquistare l’appezzamento di 90 mq. di proprietà della medesima, utilizzato per l’ampliamento della strada, al prezzo di Euro 2,74 mq., tanto premesso la signora Ta. ha dichiarato di rinunciare alla domanda di annullamento dell’atto impugnato, insistendo solo per le domande risarcitorie.
12. Il ricorso è stato chiamato alla pubblica udienza del 25.01.2017, allorché il Collegio ha chiesto alla Amministrazione di depositare una nota di chiarimenti, adempimento al quale il Comune ha provveduto: dalla nota risulta quanto sopra riferito nonché il fatto che con rogito dell’11.10.2011 la ricorrente ha venduto la restante parte del fondo interessato dall’esproprio, per una superficie di 1.117 mq.. La ricorrente, peraltro, ha prodotto in giudizio copia dell’atto di vendita, dal quale risulta che il corrispettivo pattuito per la vendita è pari ad Euro 4.500,00, corrispondente ad E. 4,02 al mq.
13. Il ricorso è quindi tornato per la discussione del merito alla pubblica udienza del 07.06.2017, allorché è stato introitato a decisione.
14. Il Collegio ritiene preliminarmente di dover precisare che, limitatamente alla domanda di annullamento, esso va dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, per quanto dichiarato da parte ricorrente nell’atto depositato il 07.04.2011.
15.
Resta da decidere la domanda risarcitoria, in relazione alla quale il Collegio deve pregiudizialmente verificare la propria giurisdizione, tenuto conto del fatto che viene in considerazione una ipotesi di occupazione di terreno privato non assistita da decreto di esproprio o decreto che ha disposto la occupazione d’urgenza, finalizzata però alla realizzazione di un’opera pubblica.
   15.1. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, già con sentenza n. 2688/2007, hanno affermato il principio, in seguito sempre ribadito (si veda ancora la pronuncia di Cassazione civile, sez. un., 23/03/2015, n. 5744), secondo cui “In materia espropriativa, sussiste la giurisdizione del Giudice Amministrativo nei casi in cui l’occupazione e la irreversibile trasformazione del fondo siano avvenute anche in assenza o a seguito dell’annullamento del decreto di esproprio ma in presenza di una dichiarazione di pubblica utilità, anche se questa sia poi stata annullata in via giurisdizionale o di autotutela (c.d. occupazione usurpativa spuria), mentre spetta al Giudice Ordinario la giurisdizione nei casi in cui l’occupazione e la irreversibile trasformazione del fondo siano avvenute in assenza della dichiarazione di pubblica utilità e nelle ipotesi di sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità (fattispecie di c.d. occupazione usurpativa pura”.
Nel caso che occupa l’Amministrazione comunale ha approvato il progetto esecutivo di ampliamento e sistemazione della strada con delibera di Giunta Municipale del 28.08.2007, e tale progetto, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 327/2001, equivale a dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. Inoltre, ai sensi di quanto previsto dal combinato disposto dei comma 3 e 6 dell’art. 13 del D.P.R. 327/2001, la dichiarazione di pubblica utilità ha una efficacia di cinque anni, dal che consegue che le opere realizzate nel predetto periodo di tempo debbono ritenersi assistite da una valida dichiarazione di pubblica utilità.
   15.2. Nel caso di specie i lavori sono iniziati nel 2008 e portati a termine nel 2009: pertanto si versa certamente in una ipotesi di occupazione “appropriativa”, e non già “usurpativa”, con conseguente sussistenza della giurisdizione del Giudice Amministrativo sulla domanda risarcitoria formulata da parte ricorrente, la quale nella memoria depositata il 22.12.2016 ha precisato le conclusioni chiedendo il riconoscimento del danno:
      a) rapportato al periodo di illegittima occupazione del terreno e da quantificarsi in misura corrispondente agli interessi legali sul valore del bene;
      b) all’equivalente del valore della porzione di terreno illegittimamente occupata: sul punto parte ricorrente invoca espressamente l’insegnamento di cui alla pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 735/2015, secondo la quale la perdita della proprietà di un bene, a carico di un privato, può verificarsi anche in dipendenza della c.d. rinunzia abdicativa al diritto dominicale, rinunzia che può anche ravvisarsi mediante la richiesta di tutela risarcitoria.
16.
Prima di passare alla disamina del merito delle domande formulate dalla ricorrente, il Collegio ritiene opportuno ripercorrere, sia pure per sommi capi, la giurisprudenza venutasi a formare nel corso degli ultimi decenni con riferimento alla sorte della proprietà dei fondi privati occupati da una pubblica amministrazione per la realizzazione di opere di pubblica utilità, con riferimento ai casi in cui detta occupazione non sia stata seguita dalla emissione, nei termini di legge, del decreto di esproprio.
   16.1. Con la storica sentenza della Corte di Cassazione n. 1464/1983 si inaugurò l’orientamento giurisprudenziale che annetteva alla irreversibile e totale trasformazione di un fondo connessa alla realizzazione di un’opera di pubblica utilità la acquisizione della proprietà del sedime interessato in capo alla Pubblica Amministrazione committente tale opera. Detto istituto, di pura creazione pretoria, è stato denominato nel corso del tempo prima accessione invertita e poi occupazione acquisitiva o appropriativa o espropriativa; esso si fondava, secondo l’originario disegno di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 1464/1983, poi confermato dalla sentenza, sempre delle Sezioni Unite, n. 12546 del 1992, sulla constatazione che laddove la realizzazione di un’opera pubblica implichi una irreversibile trasformazione del fondo privato, l’originario diritto di proprietà sullo stesso viene totalmente svuotato e dunque si estingue; contestualmente la azione manipolatrice-distruttrice della Amministrazione crea un quid novi di cui la Amministrazione medesima acquista la proprietà a titolo originario, con esclusione, dunque, di una fattispecie di tipo traslativo; al proprietario privato del suo diritto per effetto della azione manipolatrice-distruttrice della Amministrazione, è dovuto un risarcimento del danno.
   16.2. Nel contesto di questo orientamento il titolo in base al quale la Amministrazione acquisiva la proprietà del bene risultante dalla sua azione manipolatrice/distruttrice del fondo privato, non è sempre stato individuato in modo univoco: dall’originario richiamo all’istituto della accessione di cui all’art. 938 c.c., effettuato nella ricordata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la Giurisprudenza è poi passata attraverso il richiamo all’istituto della usucapione, alla tesi dell’attrazione dell’opera al regime dei beni pubblici per giungere a fondare l’acquisto della proprietà del fondo e dell’opera pubblica sullo stesso realizzata in virtù del collegamento tra l’opera e la dichiarazione di pubblica utilità. Allo stesso modo non era univocamente individuata la causa della perdita del diritto di proprietà in capo al privato, che infatti già la sentenza della Corte di cassazione, Sez. II, n. 3872 del 04.04.1987 affermava permanere, nonostante l’irreversibile trasformazione ed utilizzazione del bene, sino a che il privato non avesse chiesto a titolo risarcitorio il valore integrale dell’immobile, esprimendo in tal modo la volontà di abbandonare il diritto di proprietà del suolo in favore dell’occupante.
   16.3. Si deve ricordare, peraltro, che a partire dalla metà degli anni Novanta la Cassazione (Sez. I n. 12841 del 15.12.1995; SS.UU. n. 1907 del 4.3.1997; n. 148 del 10.01.1998), anche per il fatto che l’art. 5-bis della L. 359/1992 fissava l’indennizzo per le occupazioni illegittime “per causa di pubblica utilità”, ha cominciato a distinguere i casi in cui la attività manipolatrice del fondo privato, da parte della amministrazione, risultava assistita da una precedente dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e quelli in cui una tale dichiarazione mancava ab origine o era venuta meno successivamente, stabilendo che in questa seconda fattispecie, poi denominata “occupazione usurpativa”, non sussistevano gli estremi per ritenere operante il meccanismo acquisitivo del bene realizzato dalla amministrazione, che non poteva dirsi rispondente a fini pubblici; conseguentemente e correlativamente neppure si verificava l’effetto estintivo del diritto di proprietà del privato, che poteva chiedere la restituzione del bene.
Con riferimento alle fattispecie in esame, allora, la perdita della proprietà in capo al privato si determinava non per effetto dello “svuotamento” del diritto bensì per effetto della (eventuale) domanda risarcitoria con la quale il privato chiedeva di essere risarcito del valore del terreno, stante che una simile domanda conteneva e comportava una implicita rinuncia al diritto dominicale con valenza meramente abdicativa e non traslativa del diritto, dovendosi conseguentemente escludere che effetto automatico di tale rinuncia fosse costituito dall’acquisto del fondo in capo all’ente pubblico occupante (Cass. Civ. Sez. I n. 9173 del 03.05.2005, che ha escluso -essendo la rinuncia alla proprietà atto abdicativo e non traslativo- che vi fosse contraddizione tra le statuizioni del giudice di merito di riconoscere, per un verso, al proprietario il risarcimento integrale per la perdita della proprietà e di negare, per altro verso, l'acquisizione della proprietà stessa in capo all'ente pubblico occupante; Cass. Civ. Sez. I n. 184 del 18.02.2000; n. 6515 del 16.07.1997).
Ed in tal caso il risarcimento, proprio perché non collegato alla necessità di realizzare una finalità pubblica, doveva essere liquidato secondo i criteri ordinari, e non secondo i criteri indicati dall’art. 5-bis della L. 359/1992, avuto riguardo alla circostanza che la avvenuta realizzazione dell’opera pubblica da parte della amministrazione occupante comportava una tale ed irreversibile trasformazione del fondo da far ritenere di fatto il bene originario irrecuperabile: si legge infatti nella storica sentenza della Suprema Corte n. 1907/1997 che “poiché la valenza restitutoria dell'azione del privato potrebbe trovare ostacolo o nell'eccessiva onerosità di essa per il debitore (art. 2058, comma 2, c.c.) o nel pregiudizio per l'economia nazionale (art. 2933, comma 2 c.c.) come espressamente rilevano le S.U. nella sentenza 3963/89, o essere irragionevolmente antieconomica a cagione della irreversibilità -anche soltanto materiale- della trasformazione del fondo, non si vede perché il privato non dovrebbe essere ammesso a formulare la sua pretesa in termini di risarcimento del danno per la perdita del bene”.
E’ dunque importante sottolineare e ricordare, ai fini di quanto infra si dirà, che storicamente la ragione per cui al privato è stata riconosciuta la possibilità di chiedere, in caso di occupazione non preceduta da valida dichiarazione di pubblica utilità, una tutela risarcitoria per equivalente commisurata al valore venale del bene, anziché la sola tutela restitutoria, riposa sul fatto che in allora la giurisprudenza riteneva che la manipolazione del bene connessa alla realizzazione dell’opera da parte della Amministrazione pubblica ne comportasse la inutilizzabilità, e quindi, in sostanza, la perdita.
   16.4. Il ricordato orientamento giurisprudenziale si è consolidato ed ha trovato costante applicazione per circa un ventennio, durante il quale il legislatore non è mai intervenuto riconoscendo esplicitamente ed in via generale, alla fattispecie in esame, valenza acquisitiva della proprietà del bene in favore della Amministrazione “occupante” e tanto meno valenza estintiva del diritto di proprietà del privato.
      16.4.1. Con l’art. 3 della legge n. 458/1988, il legislatore ha riconosciuto che “il proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, ha diritto al risarcimento del danno causato da provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato, con esclusione della retrocessione del bene”; l’art. 11, comma 5 e 7, della L. 413/1991 ha stabilito che il risarcimento conseguito dal privato in dipendenza di “occupazioni illegittime”, concorre alla formazione del reddito imponibile ai fini IRPEF; l’art. 10 del D.L. 444/1995 ha previsto per gli enti locali e loro consorzi la possibilità di chiedere mutui alla Cassa Depositi e Prestiti “a copertura dei maggiori oneri ricadenti sui bilanci………… in dipendenza dell'acquisizione di aree per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di altre opere pubbliche dichiarate di pubblica utilità..”; l’art. 3, comma 6, della L. 662/1996 ha introdotto nel corpo dell’art. 5-bis del D.L. 333/1992, convertito nella L. 359/1992, il comma 7-bis, che per la prima volta ha legislativamente disciplinato in via generale il risarcimento del danno dovuto al privato proprietario in dipendenza da “occupazioni illegittime”, disponendo che esso dovesse computarsi in ragione della media tra il valore venale del bene ed il coacervo del reddito dominicale degli ultimi dieci anni, maggiorato del 10%.
      16.4.2. Ebbene: nessuna delle dianzi ricordate disposizioni menziona esplicitamente l’acquisizione della proprietà del sedime in capo alla Amministrazione “occupante” e l’estinzione del diritto di proprietà del privato quali effetti della fattispecie complessa risultante dalla occupazione del fondo privato, dalla illecita trasformazione dello stesso conseguente alla realizzazione di un’opera di pubblica utilità e dalla concorrente richiesta del privato di essere risarcito del valore del bene, da quegli non più utilizzabile; né, tampoco, le dianzi citate norme collegano il diritto del privato a conseguire il “risarcimento del danno” ad una manifestazione dello stesso di “abdicare” alla proprietà vantata sul fondo illegittimamente occupato per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità.
Ancora va sottolineato che tutte le ricordate norme –le quali, se il Collegio non è in errore, esauriscono il panorama delle norme che in qualche modo alludono alle fattispecie in argomento- non danno una chiara definizione del concetto di “occupazione illegittima” e non contengono una organica disciplina dell’istituto: sul punto merita sottolineare che anche l’art. 3 della L. 458/1988, nel riconoscere il diritto del privato a conseguire il risarcimento del danno conseguente ad una procedura espropriativa illegittima, limita tale istituto alle sole espropriazioni finalizzate alla realizzazione di edilizia residenziale pubblica, ed alle ipotesi in cui sia già stato emanato un decreto di esproprio illegittimo; nelle ipotesi divisate da tale norma, dunque, l’acquisizione della proprietà del bene in capo alla amministrazione espropriante si collega ad un titolo ablativo tipico, e l’originalità della disciplina risiede piuttosto nel fatto che alla declaratoria di illegittimità del decreto di esproprio non ne consegue l’annullamento, spiegandosi così la mancata retrocessione del bene, espressamente vietata dalla norma.
La Corte di Cassazione, per il vero, con la sentenza n. 735 del 19.01.2015 -di cui si dirà infra–ha dato una diversa lettura della norma in esame, affermando che essa “presuppone evidentemente che alla trasformazione irreversibile dell'area consegua necessariamente l'acquisto della stessa da parte chi ha realizzato le opere”, ma come sopra precisato il Collegio non crede che questa possa essere l’unica lettura possibile, ritenendo invece che la mancata retrocessione –id est: restituzione– del bene nella specie consegue non già al fatto che esso è già stato, in precedenza, acquisito in proprietà in capo alla p.a., quanto piuttosto al fatto che è il legislatore a vietarlo.
         16.4.2.1. Si consideri, del resto, che la stessa Corte di Cassazione SS.UU., con la sentenza n. 12546 del 25.11.1992, ha escluso che la fattispecie disciplinata dall’art. 3 della L. 458/1988 possa riferirsi all’istituto della occupazione appropriativa, difettando alcuni requisiti fondamentali.
          16.4.2.2. Va inoltre sottolineato che sino a che è stato in vigore, l’art. 3 della L. 458/1988 ha sempre vietato la retrocessione delle aree illegittimamente espropriate per edilizia residenziale pubblica senza distinzione alcuna, e cioè sia nei casi di occupazione acquisitiva che usurpativa: si vuol dire, cioè, che ove fosse stato così chiaro il meccanismo estintivo/acquisitivo disegnato dalla ricordata giurisprudenza, il legislatore non avrebbe avuto necessità di tenere fermi gli effetti dei “provvedimenti espropriativi” indicati dalla norma, accertati illegittimi con sentenza passata in giudicato, stante che in tali casi avrebbe potuto agevolmente trovare applicazione il ricordato orientamento, implicante comunque l’acquisto della proprietà dell’opera pubblica e del sedime pertinenziale a favore della Amministrazione.
Il legislatore, tra l’altro, non ha ritenuto di dover modificare la norma neppure dopo che, a partire dal 1997, la Corte di Cassazione ha escluso l’operatività del meccanismo estintivo/acquisitivo alle occupazioni “usurpative”, non assistite da valida dichiarazione di pubblica utilità: il Collegio si domanda allora per quale ragione il legislatore, all’indomani della ricordata precisazione giurisprudenziale, non abbia pensato di modificare l’art. 3 della L. 458/1988 limitando la esclusione della retrocessione (e quindi il mantenimento in vita dei provvedimenti espropriativi illegittimi) alle sole occupazioni usurpative, giungendo alla conclusione che il legislatore stesso, per il quale l’edilizia residenziale pubblica costituiva evidentemente una assoluta priorità, ha ritenuto che gli interessi della amministrazione non potessero essere adeguatamente tutelati dall’istituto della “occupazione acquisitiva”, che di fatto non ha riconosciuto.
L’art. 3 della L. 458/1988 rappresenta dunque, ad avviso del Collegio, un indice della diffidenza e del non riconoscimento, da parte del legislatore, dell’istituto pretorio di cui si discorre: disconoscimento, dunque, sia della rilevanza della azione manipolatrice della amministrazione ai fini di determinare la estinzione del diritto di proprietà del privato, sia della eventuale volontà abdicativa del proprio diritto manifestata dal privato.
      16.4.3. Nella ricordata pronuncia n. 735/2015 la Suprema Corte analizza le ulteriori norme sopra ricordate, da taluni reputate quale indice del recepimento, da parte del legislatore, dell’istituto della occupazione appropriativa, giungendo a conclusioni simili a quelle testé enunciate: l’art. 11, comma 5 e 7, della L. 413/1991 è norma a valenza meramente fiscale; mentre l’art. 55 del D.P.R. 327/2001 -ma le medesime considerazioni valgono anche per l’art, 5-bis del D.L. 662/1996- è norma che “pur avendo storicamente presupposto una occupazione acquisitiva, non richiede necessariamente un contesto nel quale l'occupazione dia luogo all'acquisizione del terreno alla mano pubblica con esclusione (della) restituzione al proprietario. La norma, infatti, prende in considerazione il risarcimento del danno eventualmente spettante al proprietario in caso di illecita utilizzazione del suo terreno, ma non esclude affatto la possibilità di una restituzione del bene illecitamente utilizzato dall'Amministrazione. In altre parole, la disposizione in esame, sebbene vista in passato come copertura normativa dell'istituto creato dalla giurisprudenza, può e deve essere letta oggi come sganciata dall'occupazione acquisitiva e perciò come se in essa fosse presente l'inciso "ove non abbia luogo la restituzione non più, secondo la lettura data in precedenza, come se in essa fosse presente l'inciso "non essendo possibile la restituzione".
      16.4.4. Di guisa che l’impressione che si trae è quella che il legislatore, lungi dal recepire a livello di diritto positivo l’istituto di creazione pretoria in argomento, abbia semplicemente inteso prendere atto della esistenza dell’orientamento giurisprudenziale che l’ha elaborato ed abbia voluto dotare le amministrazioni pubbliche di strumenti idonei a fronteggiare i debiti derivanti dalle condanne risarcitorie già pronunciate relativamente a fattispecie di “occupazioni illegittime” nonché a contenere l’entità delle condanne future fondate sulla stessa causale, nella consapevolezza che simili provvedimenti giudiziali avrebbero potuto ancora intervenire: conferma della valenza sostanzialmente “emergenziale” delle su ricordate norme si trae, del resto, anche dalla constatazione che esse sono per lo più contenute in testi di legge di valenza finanziaria, con la sola eccezione della L. 458/1988, che però, come già precisato, ha un ambito di applicazione assolutamente limitato alla utilizzazione dei suoli per finalità di edilizia residenziale pubblica.
      16.4.5. E’ utile ancora ricordare che nella sentenza della Corte Costituzionale n. 369/1996 -che dichiarò la illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 6, del D.L. 333/1992, siccome da interpretarsi, secondo il diritto in allora vivente, nel senso che la misura della indennità di esproprio ivi contemplata (semisomma del valore di mercato e del reddito dominicale, con riduzione del 40%, evitabile solo con la cessione volontaria del bene) dovesse applicarsi sia alle espropriazioni rituali che al risarcimento del danno dovuto in conseguenza di occupazioni illegittime– è richiamata “la natura innegabilmente risarcitoria delle conseguenze patrimoniali ricollegate dall'ordinamento all'attuarsi della occupazione privativa-acquisitiva o c.d. "accessione invertita" (che, in dipendenza della irreversibile destinazione del suolo occupato all'opera pubblica, spiega all'un tempo l'effetto estintivo, dell'originario diritto di proprietà, e quello acquisitivo, dell'immobile così trasformato, alla pubblica amministrazione): qualificazione, che è, in tali termini, ormai consolidata da tempo nella giurisprudenza della Cassazione ed in quella conforme dei giudici di merito; ha superato anche il vaglio di costituzionalità con la recente sentenza n. 188 del 1995, ed ha trovato parallela ricezione, infine, sul piano normativo, negli artt. 11, commi 5 e 7, della legge 30.12.1991, n. 413, e 10, co. 3-bis, del decreto-legge 27.10.1995, n. 444 , convertito in legge 20.12.1995, n. 539.”.
E’ opinione del Collegio che con l’inciso in questione la Consulta ha inteso affermare che ciò che ha trovato esplicito riconoscimento nelle norme e precedenti giurisprudenziali citati non è l’istituto nel complesso, ossia la valenza estintiva/acquisitiva della azione manipolatrice della Amministrazione posta in essere su fondi privati non ritualmente espropriati, quanto piuttosto la sola qualificazione in termini di risarcimento delle conseguenze patrimoniali che si determinano a favore del privato, leso dalla trasformazione del fondo: ciò spiega come la Corte Costituzionale abbia potuto menzionare le norme esaminate nei paragrafi che precedono, le quali – come si è visto - nulla dicono in ordine alla valenza estintiva/acquisitiva delle occupazioni illegittime, tra quelle che avrebbero recepito la qualificazione risarcitoria delle conseguenze patrimoniali ridondanti a carico della amministrazione responsabile della occupazione illegittima e della successiva azione manipolatrice. Si vuol qui sottolineare che le norme citate se incontestabilmente alludono ad una responsabilità risarcitoria, che peraltro non avrebbe potuto essere disconosciuta dal legislatore in quanto per definizione generata da un comportamento connotato da illegittimità, a prescindere dalla estinzione del diritto di proprietà del privato, d’altro canto nulla provano in ordine al recepimento dell’istituto da parte del legislatore.
Quanto al richiamo alla sentenza n. 188/1995 della medesima Corte Costituzionale, osserva il Collegio che in quella sede la Consulta era chiamata a valutare la legittimità costituzionale dell’art. 2043 c.c. siccome interpretato dal diritto vivente, e cioè nella misura in cui accordava al privato proprietario, leso da una occupazione illegittima, un risarcimento conseguente ad un illecito istantaneo (e non permanente), soggetto pertanto ad una prescrizione quinquennale (e non decennale, non venendo in considerazione una obbligazione indennitaria), decorrente dal momento in cui si verificava la irreversibile trasformazione del fondo: la Corte Costituzionale in quella sede si è limitata a prendere atto –conformemente al proprio ruolo, che non è quello di interprete delle leggi– dell’orientamento giurisprudenziale in parola, costituente diritto vivente, dal quale ha tratto le debite conclusioni in ordine alle caratteristiche delle conseguenze di natura patrimoniale nascenti a favore del privato nonché in ordine alla conformità alla Costituzione di esse.
Va sottolineato, dunque, che anche nella sentenza n. 188/1995 la Corte Costituzionale ha esaminato solo i profili di natura patrimoniale che le occupazioni illegittime facevano sorgere a favore del privato proprietario, e che, ad ogni buon conto, Essa non ha espresso alcuna valutazione in ordine all’essere, l’indirizzo giurisprudenziale in parola, conforme, o meno, a Costituzione o ad altre norme dell’ordinamento giuridico.
      16.4.6. Il Collegio reputa conclusivamente che l’orientamento giurisprudenziale dianzi esaminato -che attribuisce alle occupazioni illegittime di fondi privati seguite dalla realizzazione dell’opera pubblica, valenza contestualmente estintiva del diritto di proprietà del privato e acquisitiva di un diverso diritto a favore della Amministrazione– ha costituito certamente diritto vivente sino alla prima metà degli anni 2000, ma non ha ricevuto alcun avallo diretto a livello normativo, essendo anzi contraddetto dall’art. 3 della L. 458/1988, come sopra interpretato.
17.
Nel contesto del ricordato orientamento giurisprudenziale si è inserito l’art. 43 del D.P.R. 327/2001, entrato in vigore il 30/06/2003, il quale sottendeva il principio per cui il diritto di proprietà, sul fondo illegittimamente occupato ed utilizzato per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità, può estinguersi, in mancanza di decreto di esproprio o di cessione spontanea, solo per effetto del decreto di acquisizione contemplato dalla norma, la quale costituiva, a livello di diritto positivo, una risposta concreta del legislatore italiano all’orientamento assunto in materia dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
   17.1. Quest’ultima, pronunciatasi su molti casi di occupazione acquisitiva, ha affermato che la perdita della proprietà al di fuori di uno schema ablatorio-espropriativo legislativamente disciplinato, pur se finalizzata a scopi di pubblica utilità deve ritenersi illegittima in quanto non consente al cittadino di prevedere il risultato e così di aver contezza della vicenda, dal momento che gli effetti che derivano dalla occupazione diventano palesi solo con la sentenza che definisce il procedimento. Il meccanismo della occupazione acquisitiva (o appropriativa), quindi, secondo la Corte Europea dei Diritti Umani integra(va) una illegittima compromissione del diritto di proprietà nonché violazione dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1: in conseguenza di ciò lo Stato è tenuto a risarcire il cittadino leso per effetto di tale comportamento consumato ai suoi danni, preferibilmente mediante restituzione del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità (sentenza Carbonara e Ventura c. Stato Italiano), ovvero a mezzo di risarcimento per equivalente tale da eliminare totalmente le conseguenze subìte in esito alla occupazione illegittima.
   17.2. La fermezza con la quale la Corte di Strasburgo ha continuato a denunciare la contrarietà della occupazione acquisitiva alla Convenzione E.D.U. ha indotto il legislatore italiano a porre rimedio alla situazione venutasi a creare, e tanto mediante l’introduzione, nel T.U. Espropriazioni, dell’art. 43 sopra ricordato, il quale, sul presupposto che la perdita della proprietà in capo al privato non può, nelle ipotesi in esame, collegarsi se non ad un atto di natura consensuale o autoritativa ( fatti salvi gli effetti della usucapione ordinaria), introduceva un meccanismo finalizzato, per così dire, a mettere ordine in tutte quelle situazioni caratterizzate dalla sostanziale perdita della disponibilità del bene in capo ad un privato, a favore di una pubblica amministrazione che lo utilizzava per scopi di pubblica utilità senza averne acquisito la proprietà nei modi ordinari.
Così, nel sistema delineato dall’art. 43, in presenza di determinate condizioni la Pubblica Amministrazione “che utilizza(va) il bene” poteva emettere il decreto di acquisizione “sanante” previsto dal comma 1, dal quale soltanto derivava il trasferimento di proprietà del bene a favore della Pubblica Amministrazione procedente. E l’eventuale richiesta di restituzione del bene, formulata dal privato in sede giudiziale, secondo quanto esplicitamente previsto dall’art. 43 avrebbe potuto essere bloccata solo da una richiesta della Amministrazione, rivolta al giudice della causa, di disporre il risarcimento del danno con esclusione della restituzione senza limiti di tempo: in particolare, secondo quanto previsto dal comma 4 dell’art. 43, in tale eventualità “l’autorità che ha disposto l’occupazione dell’area emana l’atto di acquisizione, dando atto dell’avvenuto risarcimento del danno….”.
   17.3. L’art. 43 presupponeva, dunque, la perdurante sussistenza e sopravvivenza del diritto di proprietà privata; correlativamente l’acquisizione di esso a favore della Amministrazione interessata era collegata unicamente alla emissione del decreto di acquisizione sanante, al punto che in mancanza di esso ed in conseguenza della condanna risarcitoria il giudice della causa doveva escludere la restituzione senza limiti di tempo. Dunque, anche la domanda risarcitoria formulata dal privato doveva ritenersi inidonea a determinare l’estinzione del proprio diritto, segnatamente quale effetto di un atto di natura abdicativa.
   17.4. Tali principi, già enunciati nella relazione della Adunanza Generale del Consiglio di Stato 29/03/2001, sono poi stati ribaditi dalla sentenza della Adunanzia Plenaria n. 2/2005, e dipoi richiamati anche dalla sentenza della sezione IV n. 2582 del 21/05/2007.
   17.5. Come noto, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 293 dell’08.10.2010 ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 43 del D.P.R. 327/2001. Tale pronuncia -che tra l’altro ha richiamato l’orientamento del Consiglio di Stato di cui alle pronunce della Sez. IV, 26.03.2010, n. 1762 e 08.06.2009, n. 3509, della Ad. Plen. 29.04.2005, n. 2 e della Sez. IV, 16.11.2007, n. 5830, da considerarsi “diritto vivente”, secondo il quale la norma in questione doveva ritenersi applicabile a tutte le occupazioni illegittime ed a tutte le procedure di acquisizione in sanatoria, ancorché relative ad occupazioni poste in essere prima della entrata in vigore del D.P.R. 327/2001- è pervenuta alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 citato per eccesso di delega, rilevando che nella legge delega, n. 59 del 1997, non era dato rinvenire alcuna disposizione che legittimasse il legislatore delegato ad introdurre nell’ordinamento interventi volti a sanare difetti delle procedure ablative già intraprese; che la “acquisizione sanante”, così come congegnata dalla norma censurata, in realtà non risultava affatto coerente con gli orientamenti di giurisprudenza che, elaborando gli istituti della occupazione “
acquisitiva” ed “usurpativa”, avevano cercato di porre rimedio alle gravi ed innumerevoli patologie riscontrate in un gran numero di procedimenti espropriativi; e che il legislatore delegato era dunque andato, con l’art. 43 del D.P.R. 327/2001, ben al di là del compito affidatogli e consistente nel mero “coordinamento formale relativo a disposizioni vigenti”.
Né l’istituto disegnato dalla nuova norma poteva -secondo la Corte Costituzionale- giustificarsi con la necessità di adeguare l’ordinamento ai rilievi provenienti dalla giurisprudenza della Corte EDU, giurisprudenza che non imponeva affatto la adozione della soluzione in concreto adottata e che, inoltre, aveva già lasciato intendere di ritenere illegittima qualsiasi “espropriazione indiretta” -ancorché fondata su una norma, come l’art. 43- “in quanto tale forma di espropriazione non può comunque costituire un'alternativa ad un'espropriazione adottata secondo «buona e debita forma» (Causa Sciarrotta ed altri c. Italia - Terza Sezione - sentenza 12.01.2006 - ricorso n. 14793/02).”; una simile procedura crea inoltre il rischio di un risultato arbitrario ed imprevedibile, in violazione del principio di certezza del diritto, e “tende a ratificare una situazione di fatto derivante dalle azioni illegali commesse dall’amministrazione, tende a risolverne le conseguenze a livello sia privato che amministrativo e permette all’amministrazione di trarre beneficio dal proprio comportamento illegale” (sentenza Dominici c/ Gov. Italiano n. 64111/00 del 15.11.2005).
   17.6. Con D.L. n. 98/2011 è stato introdotto, nel corpo del D.P.R. 327/2001, l’art. 42-bis, il quale prevede la possibilità per “l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità”, di “disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale…”: la norma precisa, inter alia, che “Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira.”; l’art. 42-bis prevede inoltre che le relative disposizioni “...trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo”.
   17.7. Il ricordato art. 42-bis, escludendo che l’acquisto della proprietà del sedime interessato possa verificarsi ex tunc, precisando che il ristoro economico dovuto al privato sia commisurato all’intero danno patrimoniale e non patrimoniale subìto dal privato, ed infine stabilendo che la relativa disciplina trova applicazione anche ai fatti anteriori alla entrata in vigore del D.L. 98/2011, ha inteso conformarsi alle indicazioni provenienti dalla Corte di Strasburgo, la quale, nella sentenza 06.03.2007 n. 43662/98 (Scordino c/ Italia), ha ribadito l’illegittimità della “espropriazione indiretta” ed ha indicato anche le misure idonee per conformarsi alle sue pronunce in materia e cioè:
   a) evitare occupazioni sino a che non siano stati approvati il progetto e gli atti espropriativi, verificando la copertura finanziaria per procedere ad un celere indennizzo;
   b) abolire gli ostacoli di carattere giuridico che impediscono la restituzione del bene trasformato, in assenza di decreto di esproprio;
   c) scoraggiare le pratiche non conformi, perseguendo anche i responsabili di tali procedure.
   17.8. Ciò nonostante anche l’art. 42-bis è stato fatto oggetto di rimessione alla Corte Costituzionale. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 442/2014, hanno sottolineato che il provvedimento che dispone l’acquisizione ai sensi della norma censurata ha comunque valenza “sanante”, nel senso che legittima ex post una occupazione d’urgenza che non avrebbe mai dovuto aver luogo, integrando così uno strumento che autorizza la Amministrazione a non restituire il fondo illegittimamente occupato e/o a non ridurlo nello stato originario, e ciò anche a dispetto di un giudicato che abbia ordinato alla Amministrazione la restituzione del bene al privato.
La Corte di Cassazione si è quindi interrogata sulla legittimità costituzionale di una norma che di fatto consente alla Amministrazione “di mutare, successivamente all'evento dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui e per effetto di una propria unilaterale manifestazione di volontà, il titolo e l'ambito della responsabilità, nonché il tipo di sanzione/ristoro (da risarcimento ad in indennizzo), stabiliti in via generale dal precetto del neminem laedere per qualunque soggetto dell'ordinamento”, pervenendo così alla “legalizzazione dell’illegale”, legalizzazione che “non è conclusivamente consentita dalla giurisprudenza di Strasburgo neppure ad una norma di legge, né tanto meno ad un provvedimento amministrativo di essa attuativo, quale è quello che disponga l'acquisizione sanante (Ucci, 22.06.2006; Cerro sas, 23.05.2006; De Sciscio, 20.04.2006; Dominici, 15.02.2006; Serrao, 13.01.2006; Sciarrotta, 12.01.2006; Carletta, 15.07.2005; Scordino, 17.05.2005” .
      17.8.1. Ha osservato in particolare l’ordinanza in esame che il principio di legalità non potrebbe ritenersi recuperato in forza dei bilanciamenti e delle comparazioni tra interessi pubblici e privati devoluti dalla norma all'autorità amministrativa che dispone l'acquisizione, perché un tale bilanciamento di opposti interessi deve ritenersi ammissibile, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, solo allorché effettuati nel contesto di una procedura legittima e non arbitraria, ed inoltre perché l’art. 42-bis attribuisce il compito di effettuare siffatto bilanciamento di contrapposti interessi alla Amministrazione responsabile dell’illecito, chiamata ad effettuare una scelta unilaterale e fondamentalmente imprevedibile, con il risultato che anche il nuovo regime autorizza la compromissione della proprietà privata all’esito di un procedimento non caratterizzato da un sufficiente grado di certezza e prevedibilità.
Inoltre il regime introdotto dall’art. 42-bis, essendo applicabile anche a fatti anteriori alla entrata in vigore della norma, finisce per influire sull’andamento di processi iniziati ed impostati secondo diversi presupposti normativi “sì da incorrere anche nella violazione dell'art. 6, par. 1, della Convenzione per il mutamento "delle regole in corsa": risultando sotto tale profilo in contrasto anche con l'art. 111 Cost., commi 1 e 2, nella parte in cui, disponendo l'applicabilità ai giudizi in corso delle regole sull'acquisizione coattiva sanante in seguito ad occupazione illegittima, viola i principi del giusto processo, in particolare le condizioni di parità delle parti davanti al giudice, che risultano lese dall'intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una circoscritta e determinata categoria di controversie; ed appare, quindi, anche sotto questo profilo, nuovamente in contrasto con i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost.).”.
Infine le Sezioni Unite hanno rilevato che il sistema disegnato dall’art. 42-bis determinerebbe un differente trattamento tra proprietari vittime di analoghi comportamenti illeciti posti in essere da una Amministrazione pubblica, tra i quali proprietari quelli destinatari di un decreto di acquisizione sanante non potrebbero aspirare alla tutela restitutoria congiunta al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. e sarebbero destinatari di un indennizzo di misura addirittura inferiore all’indennizzo spettante in caso di espropriazione legittima, non soggetto a rivalutazione monetaria (in quanto connesso ad una obbligazione indennitaria di valuta e non ad una obbligazione risarcitoria di valore), con impossibilità di valorizzare la perdita di valore del fondo residuo che permane in proprietà al privato.
   17.9. Con sentenza n. 71/2015, del 30.04.2015, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le varie questioni di legittimità costituzionale prospettate nei confronti dell’art. 42-bis, sottolineando: la differente disciplina di tale istituto rispetto a quello disegnato dall’art. 43; la necessità che il decreto che dispone l’acquisizione ex art. 42-bis sia motivato in modo stringente sia in ordine ai motivi imperativi di interesse generale che determinano la necessità di acquisire il bene, sia con riferimento alla impossibilità di ricorrere a soluzioni alternative; la decorrenza ex nunc della acquisizione, con conseguente impossibilità di adottare il provvedimento in esame quando la restituzione del fondo al privato sia già stata disposta con sentenza passata in giudicato.
Per quanto di interesse ai fini della presente decisione va sottolineato che l’art. 42-bis ha superato il vaglio di legittimità costituzionale anche nella parte in cui esso prevede che la norma debba trovare applicazione a tutti fatti precedenti alla sua entrata in vigore: tale previsione implica, in guisa di presupposto logico, che secondo il legislatore tutte le occupazioni illegittime consumate prima del 06.07.2011 (data di entrata in vigore della norma), ancorché tradottesi in “irreversibili trasformazioni” del fondo privato o ancorché precedute da richieste risarcitorie giudiziali formulate dal privato con chiaro intento abdicativo, non possono avere l’effetto di estinguere il diritto di proprietà del privato, e proprio per tale ragione all’occorrenza possono essere sanate mediante l’adozione di un decreto di acquisizione sanante.
   17.10. Si deve quindi riconoscere che allo stato attuale del diritto positivo la occupazione illegittima di un fondo per scopi di pubblica utilità, seguita dalla effettiva realizzazione di opere riconosciute di pubblica utilità, non solo non produce ex se, a favore della Amministrazione che ha occupato il fondo, l’acquisizione della proprietà dell’opera e del fondo sul quale l’opera insiste, ma neppure può essere all’origine della estinzione del diritto di proprietà vantato dal privato sul fondo oggetto di occupazione, ancorché nel frattempo questi abbia manifestato l’intenzione di volervi “abdicare”.
Tutta la disciplina dell’art. 42-bis D.P.R. 327/2001 sottende infatti che il decreto di acquisizione “sanante” viene sempre emesso nei confronti del privato proprietario, e tale aspetto si evince, in particolare, dal comma 4, il quale stabilisce che “Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L'atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell'articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.”: ebbene, non si comprende quale logica possa giustificare il fatto che al decreto di acquisizione sanante si attribuisca la capacità di trasferire la proprietà e che poi esso sia invariabilmente, e senza eccezione alcuna, notificato al proprietario, subordinato al pagamento al medesimo del risarcimento e dipoi trascritto nei di lui confronti, se non per la ragione che il privato proprietario non ne perde mai la proprietà.
Considerato poi che l’art. 42-bis non contiene una disciplina derogatoria o specifica con riferimento ai casi in cui il privato abbia precedentemente manifestato, in sede giudiziale o stragiudiziale, la volontà di rinunciare alla proprietà del bene, non si può che concludere che tutto l’art. 42-bis sottende che il proprietario il cui fondo sia utilizzato “per scopi di interesse pubblico” non perde la proprietà ancorché possa aver manifestato di non avervi più interesse.
18.
Nonostante tutto quanto sopra rilevato sopravvive tuttavia, in giurisprudenza, l’affermazione secondo cui la domanda del privato che chieda in giudizio il risarcimento del danno conseguente ad una occupazione illegittima, commisurando il danno medesimo al valore del fondo oggetto di tale occupazione, deve qualificarsi come manifestazione della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo: tale affermazione si ritrova, in particolare, proprio nella sentenza della Corte di Cassazione n. 735/2015, la quale, pur dopo essere giunta alla conclusione che l’espunzione della occupazione appropriativa dall’ordinamento giuridico, voluta dalla Corte Europea dei Diritti Umani, non si poneva in contrasto con il diritto positivo (difettando, per le ragioni sopra dette, indici normativi del recepimento di esso da parte del legislatore), ha affermato: “In conclusione, alla luce della costante giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, quando il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell'Amministrazione si configurano, indipendentemente dalla sussistenza o meno di una dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di diritto comune, che determina non il trasferimento della proprietà in capo all'Amministrazione, ma la responsabilità di questa per i danni. In particolare, con riguardo alle fattispecie già ricondotte alla figura dell'occupazione acquisitiva, viene meno la configurabilità dell'illecito come illecito istantaneo con effetti permanenti e, conformemente a quanto sinora ritenuto per la c.d. occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di illecito permanente, che viene a cessare solo per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell'occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente. A tale ultimo riguardo, dissipando i dubbi espressi dall'ordinanza di rimessione, si deve escludere che il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore dell'immobile rimasto nella sua titolarità. Infatti, in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l'opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato (cfr. ex plurimis, in tema di occupazione c.d. usurpativa, Cass. 28.03.2001, n. 4451 e Cass. 12.12.2001, n. 15710); tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico, l'acquisto della proprietà del fondo da parte dell'Amministrazione (Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 18.02.2000 n. 1814). La cessazione dell'illecito può aversi, infine, per effetto di un provvedimento di acquisizione reso dall'Amministrazione, ai sensi dell'art. 42-bis del t.u. di cui al D.P.R. n. 327 del 2001, con l'avvertenza che per le occupazioni anteriori al 30.06.2003 l'applicabilità dell'acquisizione sanante richiede la soluzione positiva della questione, qui non rilevante, sopra indicata al punto n. 4 della motivazione.”
19.
Il Collegio non condivide l’affermazione, che si legge nella ricordata pronuncia, secondo cui “in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l'opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato (cfr. ex plurimis, in tema di occupazione c.d. usurpativa, Cass. 28.03.2001, n. 4451 e Cass. 12.12.2001, n. 15710); tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico, l'acquisto della proprietà del fondo da parte dell'Amministrazione (Cass. 03.05.2005, n. 9173; Cass. 18.02.2000 n. 1814)”.
20. Come sopra precisato
la possibilità che un privato possa, nelle fattispecie di che trattasi, unilateralmente e legittimamente rinunciare alla proprietà del bene, acquisendo il diritto ad ottenere un risarcimento commisurato al valore venale del bene anche a prescindere dalla adozione di un decreto di acquisizione sanante, deve escludersi alla luce della disciplina positiva contenuta nell’art. 42-bis, di cui sopra si è dato conto.
   20.1. Merita ricordare, a questo punto, che proprio con riferimento alla disciplina di cui all’art. 43 D.P.R. 327/2001 ed alla circostanza che essa –come l’art. 42-bis– risultava applicabile anche alle occupazioni pregresse, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 11096 del 11/06/2004, ha argomentato l’obbligo di “disapplicare” i principi giurisprudenziali formatisi in materia di occupazione appropriativa, a favore della sopravvenuta disciplina di cui all’art. 43 (in allora non ancora dichiarato incostituzionale), affermando che “La funzione giurisdizionale è necessariamente applicativa delle disposizioni vigenti (che il giudice interpreta con incondizionata autonomia, accertando e dichiarando la volontà della legge in relazione al caso concreto), per cui, se la legge muta o se, con un'ulteriore legge, viene attribuito a precedenti disposizioni un determinato significato, il giudice non può non essere vincolato dalla volontà del legislatore, anche perché le pronunce della Suprema Corte, se anche espressione della funzione nomofilattica, non possono assurgere a fonti di diritto, onde, con riguardo all'istituto dell'occupazione appropriativa, inizialmente affermatasi nell'applicazione giurisprudenziale, e successivamente regolata dalla legge, non è concettualmente configurabile un conflitto di attribuzione, per cui si debba investire la Corte costituzionale, fra potere giudiziario e potere legislativo, né è concepibile uno straripamento di quest'ultimo, per essere intervenuto a regolare un istituto di origine giurisprudenziale.” .
   20.2. Orbene, il Collegio non vede per quale ragione questo cristallino ragionamento, che è espressione del ben noto principio secondo cui il giudice è sottoposto (solo) alla legge, che è tenuto ad applicare, non sia predicabile anche nel caso in esame, dovendosi già per questa via pervenire alla affermazione secondo la quale nelle fattispecie di occupazione appropriativa ed usurpativa l’eventuale rinuncia del privato alla proprietà del fondo è priva di qualsiasi effetto abdicativo o traslativo: a tale conclusione –si ribadisce– è d’obbligo pervenire a fronte della constatazione che il decreto ex art. 42-bis:
      a) può essere emesso a fronte di qualsiasi tipologia di “occupazione per scopi di pubblico interesse”, non prevedendosi alcun trattamento specifico per l’ipotesi in cui il privato abbia manifestato di voler rinunciare alla proprietà del fondo;
      b) non è prevista la possibilità che esso abbia come destinatario un soggetto diverso dal proprietario del fondo occupato né che esso possa avere effetti diversi da quelli traslativi della proprietà;
      c) richiede una motivazione che giustifichi la preminenza del pubblico interesse rispetto alle esigenze del privato proprietario, esigenze -queste ultime– che non avrebbe senso tenere in considerazione ove il privato avesse perso/potesse perdere la proprietà del bene con una semplice manifestazione unilaterale;
      d) può essere emesso anche con riferimento a occupazioni poste in essere in epoca anteriore alla entrata in vigore del D.P.R. 327/2001 o dello stesso art. 42-bis.
   20.3. Non stupisce, del resto, che il legislatore possa aver consapevolmente inteso precludere al proprietario di rinunciare alla proprietà del fondo. Ove una tale rinuncia “abdicativa” fosse possibile e sortisse gli effetti preconizzati dalla giurisprudenza che qui si contesta, le amministrazioni pubbliche si troverebbero esposte al rischio di dover corrispondere un risarcimento commisurato al valore venale del bene occupato anche nei casi in cui il fondo stesso e l’opera che su di esso insiste non siano più rispondenti a “scopi di pubblico interesse”, poiché l’obbligo di corrispondere un tale risarcimento verrebbe in tal caso a dipendere unicamente dalla illegittima occupazione del fondo da parte della amministrazione e dalla unilaterale reazione del privato, prescindendo totalmente da valutazioni afferenti l’utilità pubblica del bene: orbene, pare evidente al Collegio che ove l’art. 42-bis dovesse essere letto nel senso che non include anche le situazioni in cui il privato abbia manifestato l’intenzione di rinunciare alla proprietà del bene esso si presterebbe a censure di incostituzionalità per manifesta irragionevolezza, stante l’evidente sottovalutazione dei danni alla finanza pubblica che un tale “vuoto normativo” potrebbe comportare, tanto più ove si consideri che la rinuncia “abdicativa” del diritto di proprietà manifestata dal privato non farebbe automaticamente acquisire la proprietà del fondo alla amministrazione occupante –particolare questo ben specificato nella pronuncia della Suprema Corte n. 735/2015– e che dunque essa amministrazione sarebbe paradossalmente tenuta a corrispondere al privato un risarcimento commisurato all’intero valore venale del terreno senza, tuttavia, poterne acquisire contestualmente la proprietà.
   20.4. Di contro, letto l’art. 42-bis nel senso che esso si applica, come già precisato, anche alle occupazioni che abbiano ad oggetto beni rispetto ai quali il proprietario abbia già manifestato una rinuncia “abdicativa”, esso risulta al riparo da censure di incostituzionalità: non solo perché le esigenze di finanza pubblica risultano salvaguardate dalla necessità che il decreto di acquisizione dia conto degli “scopi di pubblico interesse” ai quali l’acquisizione è funzionale, ma anche per la ragione che nel caso in cui l’amministrazione si risolva nel senso di non acquisire la proprietà del bene, questo va restituito ed al privato è dovuto il risarcimento riferito all’intero periodo di occupazione senza titolo, senza contare il fatto che in base al principio superficies solo cedit il privato si ritrova ad essere proprietario anche della opera pubblica che sul fondo insiste, la quale rappresenta un valore e che molte volte può essere sfruttata economicamente anche dallo stesso privato proprietario (l’attività di un ospedale o di una scuola, ad esempio, può anche essere esercitata da un soggetto privato, come anche privato può essere un parcheggio per auto aperto al pubblico; esistono persino casi di strade private, che attraversano proprietà interamente private, che collegano viabilità pubbliche e la cui percorribilità è consentita al pubblico previo pagamento di un pedaggio): l’opzione per la rimessione in pristino, spesso chiesta dai privati insieme alla restituzione, anche se riguardata solo dal punto di vista del privato –tralasciando cioè la valutazione dell’inevitabile spreco di risorse pubbliche che essa determina- non costituisce dunque una scelta necessitata né sempre avveduta.
   20.5. Va peraltro sottolineato che la sentenza n. 735/2015 della Corte di Cassazione, di cui sopra si è dato conto e che viene espressamente invocata dalla ricorrente a fondamento della domanda risarcitoria, è stata pubblicata prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 71/2015, che ha dichiarato non fondate le censure di costituzionalità prospettate contro l’art. 42-bis, tra le quali v’era anche quella afferente la applicabilità della disciplina in esso contenuta anche alle occupazioni poste in essere in epoca anteriore alla entrata in vigore della norma nonché allo stesso D.P.R. 327/2001: tenuto conto del fatto che al punto 4 della motivazione la pronuncia citata sostiene che “l'art. 42-bis, non può essere individuato come la causa dell'espunzione dall'ordinamento dell'istituto dell'occupazione acquisitiva e si apre, invece, il diverso problema, non rilevante in questa sede, se per effetto dell'espunzione dell'istituto, determinata da una diversa causa, possa ipotizzarsi, alla stregua dei principi in tema di applicazione della legge ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed ai rapporti da tali fatti generati, un ampliamento temporale del campo di applicazione dell'art. 42-bis, che non troverebbe più il limite derivante da situazioni in cui è già avvenuta l'acquisizione alla mano pubblica, ma eventualmente il limite, da verificare, dell'irretroattività della nuova disciplina oltre la decorrenza da essa desumibile e come sopra individuata”, si deve credere che la pronuncia medesima, laddove ha affermato la possibilità che il privato può sempre rinunciare al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato con un atto a carattere abdicativo e non traslativo, si sia fondata su una interpretazione dell’art. 42-bis che ne escludeva l’applicabilità alle occupazioni anteriori alla sua entrata in vigore e che, pertanto, consentiva di salvaguardare le “rinunce abdicative” manifestate dai privati relativamente alle occupazioni pregresse.
La possibilità di adottare il decreto di acquisizione sanante con riferimento a qualsiasi fattispecie di occupazione illegittima, futura o passata, connotata da una rinuncia abdicativa del privato o meno, consente invece di affermare che l’art. 42-bis ha definitivamente certificato l’impossibilità per il privato di rinunciare unilateralmente al diritto di proprietà di un fondo illegittimamente occupato per scopi di pubblica utilità, di guisa che la contraria opzione accreditata dalla sentenza n. 735/2015 potrebbe e dovrebbe, all’attualità, ritenersi superata.
   20.6. Del resto, ove così non fosse, e cioè ammettendo che in tali casi il privato possa ancora oggi sempre, ed efficacemente, rinunziare al proprio diritto di proprietà sull’immobile oggetto di occupazione –con le conseguenze gravissime di cui si dirà nei paragrafi 24, 25 e 26– si finisce per attribuirgli un abnorme potere di determinare in via unilaterale e, soprattutto, non necessariamente prevedibile l’andamento della procedura e le sorti del bene occupato, e si tratterebbe di un potere squilibrato: perché foriero di gravi danni per la amministrazione occupante, la quale ciò nonostante nulla di concreto potrebbe opporre per bloccarlo, stanti gli effetti automatici ex lege che la rinunzia abdicativa produrrebbe.
La situazione che si verrebbe/viene a creare, ammettendo la rinunzia abdicativa del privato alla proprietà del bene illegittimamente occupato, sarebbe quindi caratterizzata, questa volta a scapito della amministrazione, da quella stessa incertezza che ha indotto la Corte di Strasburgo a bocciare l’istituto della occupazione appropriativa e proprio tale constatazione induce il Collegio ad affermare che la rinunzia abdicativa alla proprietà su un bene immobile, quantomeno se riferita ad un bene illegittimamente occupato per scopi di pubblica utilità, non può essere consentita.
21.
Ferme restando le dianzi esposte considerazioni, di per sé sufficienti a sostenere l’affermazione secondo cui gli atti di rinuncia ad una proprietà immobiliare sono privi di effetti allorquando abbiano ad oggetto fondi occupati illegittimamente per scopi di pubblica utilità, il Collegio ritiene che la domanda risarcitoria formulata dalla attrice possa essere respinta anche sulla base di ulteriori argomenti, ed in particolare per la ragione che la rinuncia abdicativa della proprietà immobiliare deve ritenersi dall’ordinamento giuridico non consentita, e come tale priva di effetti, non solo se manifestata in occasione ed in conseguenza di una occupazione illegittima posta in essere per scopi di pubblica utilità, ma anche a prescindere da una simile cornice fattuale, sempre che non ricorra una delle fattispecie specificamente previste dal Codice civile.
   21.1. In particolare ritiene il Collegio che il contestato principio affermato da Cass. Civ. n. 735/2015 -che peraltro costituisce solo il precedente più recente, ma certamente non l’unico- non sia condivisibile perché, inesattamente ad avviso del Collegio, si fonda sull’esistenza, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa del diritto di proprietà su un immobile quale istituto di carattere generale.
   21.2. La rinunzia c.d. abdicativa, é generalmente qualificata dalla dottrina come un negozio consistente nella dismissione di un diritto dal patrimonio del rinunciante: è un negozio unilaterale, perché il titolare del diritto se ne priva limitandosi a dismetterlo senza trasferirlo ad altri; è un negozio non recettizio, perché non ha un destinatario immediato e qualora produca un accrescimento del patrimonio di altro soggetto tale accrescimento non costituisce un effetto conseguente in via diretta alla manifestazione di volontà e non può essere lo scopo del rinunciante; ha efficacia immediata (salvo la presenza di condizioni) e, per questo, è normalmente irrevocabile (tranne la rinuncia all’eredità); opera ex nunc, comportando la dismissione di un diritto già acquistato.
   21.3. Tali caratteri della rinunzia abdicativa sono stati ricavati dalla dottrina dallo studio delle figure tipiche di tale istituto, disciplinate dal codice civile: la rinuncia alla eredità, la rinuncia al credito, la rinuncia ad alcuni diritti reali minori espressamente contemplata dal codice civile, che invece non fa menzione della rinuncia al diritto di proprietà immobiliare.
   21.4. Dalla rinunzia abdicativa si distingue, pertanto, la rinunzia c.d. traslativa, che comporta il trasferimento del diritto e che suppone l’esistenza di un contratto in quanto in tal caso la rinunzia costituisce il mezzo per effettuare a favore di un determinato soggetto, scelto dal rinunziante e non dalla legge, la traslazione di un diritto, traslazione che costituisce pertanto un effetto preveduto e voluto dal rinunziante.
   21.5. Numerose sono le disposizioni del codice civile che fanno riferimento alla rinunzia: se ne parla con riguardo all'eredità e al legato (art. 478, 519 ss., 649, 650 c.c.), alle cause di estinzione dei diritti reali di godimento, specificamente in tema di enfiteusi (art. 963 c.c.) e di servitù (art. 1070 c.c.); la rinuncia è espressamente considerata dal legislatore in materia di garanzie dell'obbligazione (art. 1238, 1240 c.c.), di prescrizione e decadenza (art. 2937, 2968 c.c.), in materia di ipoteca (art. 2878, 2879 c.c.), di contratto di mandato (art. 1722, 1727 c.c.), e in materia di rapporto di lavoro (art. 2113 c.c. come novellato dall'art. 6 l. 11.08.1973, n. 533); la rinunzia “liberatoria” riferita alla proprietà immobiliare è poi ammessa dal codice civile nell’art. 1104, con riferimento ai diritti del comunista sulla cosa comune, nonché all’art. 882 c.c., con riferimento ai diritti di comproprietà sul muro comune; essa è invece espressamente esclusa dall’art. 1118, comma 2, con riferimento ai diritti del condomino sulle cose comuni.
   21.6. Argomentando dalle su ricordate norme, in dottrina si è formato un orientamento, anche abbastanza sostenuto, che ammette la possibilità, per un privato, di esercitare la rinunzia abdicativa ai diritti di proprietà immobiliare non solo nelle ipotesi specificamente menzionate dal codice civile ma in qualsiasi situazione, facendo assumere all’istituto un carattere generale anche con riferimento alla proprietà immobiliare.
      21.6.1. In particolare l’argomento principe utilizzato per ammettere la rinunzia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare fa leva sull’art. 827 c.c., il quale afferma che “I beni immobili che non sono di proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato”, e che pertanto –secondo tale dottrina- implicitamente ammette che possano esistere beni immobili acefali, cioè privi di un proprietario. Questa dottrina fa anche leva sull’art. 1350 n. 5 e sull’art. 2643 n. 5.
La prima norma contempla “gli atti di rinunzia ai diritti indicati ai numeri precedenti”, tra i quali figura anche il diritto oggetto di “contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili”. L’art. 2643 n. 5 contempla invece “gli atti tra vivi di rinunzia ai diritti menzionati nei numeri precedenti”, tra i quali figura, ancor qui, il diritto oggetto dei “contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili”.
Tali norme sarebbero, secondo la dottrina in esame, ricognitive della generale possibilità riconosciuta dall’ordinamento, di rinunziare unilateralmente, con atto non traslativo e non recettizio, al diritto di proprietà su beni immobili, e tale manifestazione di volontà dovrebbe comportare che il bene immobile oggetto della rinunzia diviene acefalo per poi entrare a far parte, un istante dopo, del patrimonio dello Stato quale effetto ex lege, in virtù di quanto stabilito dall’art. 827 c.c.
      21.6.2. Altra norma sulla quale fa leva la dottrina per ammettere, in via generale, la rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare sarebbe costituita dall’art. 1118, comma 2, il quale, escludendo che il condomino possa rinunziare ai suoi diritti sulle parti comuni, implicitamente sottenderebbe la possibilità di effettuare tale rinunzia, constatazione questa che spiegherebbe per quale ragione il codice avrebbe sentito la necessità di intervenire espressamente per escludere la rinunziabilità del diritto sulle parti comuni.
22.
Non si può negare che il richiamo, effettuato dalle dianzi ricordate norme del codice civile, agli atti di rinunzia che hanno ad oggetto il diritto di proprietà su beni immobili è molto suggestivo; tuttavia a parere del Collegio esse non forniscono argomenti risolutivi che consentano di affermare l’esistenza, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa quale istituto di carattere generale, specialmente con riferimento ai beni immobili.
   22.1. L’art. 1350 è la prima norma del capitolo che tratta specificamente “Della forma del contratto”, e quindi si riferisce ai contratti, cioè ad atti che per definizione intercorrono tra due o più persone: di conseguenza vi è motivo per credere che il n. 5 di tale disposizione si riferisca comunque ad accordi che abbiano ad oggetto atti di trasferimento di beni immobili, ai quali le parti rinunziano, con la conseguenza che alla rinunzia al diritto di proprietà su un immobile manifestata da una parte va a corrispondere il riacquisto, automatico, del diritto medesimo in capo al soggetto che prima l’aveva trasferito al rinunziante. Si tratterebbe dunque, più propriamente, di una rinunzia traslativa, alla quale le parti possono ricorrere sia in esecuzione della concordata risoluzione di un precedente contratto traslativo della proprietà su beni immobili –dalla quale consegue il venir meno delle obbligazioni contrattuali per entrambe le parti-, sia in esecuzione di una pattuizione che preveda il venir meno degli effetti del contratto precedentemente concluso per una sola delle parti, in questo caso del solo rinunziante
   22.2. Considerazioni analoghe valgono per l’art. 2643 n. 5: nei numeri da 1 a 4 l’art. 2643 contempla infatti i “contratti” che abbiano ad oggetto determinati diritti reali, tra i quali anche la proprietà immobiliare; sembra quindi ragionevole supporre che il n. 5, richiamando “i diritti menzionati ai numeri precedenti” non intenda semplicemente richiamare i diritti in sé, ma i diritti nascenti da determinati contratti: tale considerazione conferma, ad avviso del Collegio che “gli atti tra vivi di rinunzia” di cui al n. 5 sono finalizzati, semplicemente, a far venir meno l’efficacia, in tutto o in parte, di precedenti contratti che hanno costituito, modificato o trasferito diritti reali immobiliari, conseguendo in particolare da tali atti di rinunzia che la proprietà su un certo immobile torna nella disponibilità del dante causa del rinunziante.
   22.3. Gli articoli 1350 n. 5 e 2643 n. 5, insomma, contemplano, ad avviso del Collegio, degli atti di rinunzia traslativa nonché, al limite, gli atti di rinunzia a diritti reali immobiliari espressamente disciplinati dal codice civile.
   22.4. Tale lettura dell’art. 2643 n. 5 consente inoltre di superare le incongruenze che sono state rilevate, relativamente alla rinunzia a diritti immobiliari, rispetto a quelli che l’art. 2644 c.c. indica essere gli effetti conseguenti, e cioè: “Gli atti indicati nell’articolo precedente non hanno effetto riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi. Seguita la trascrizione, non può avere effetto contro colui che ha trascritto alcuna trascrizione o iscrizione di diritti acquistati verso il suo autore, quantunque l’acquisto risalga a data anteriore.”
      22.4.1. E’ stato infatti osservato che, non essendo la rinunzia abdicativa un atto recettizio e comportando essa un acquisto ex lege a titolo originario, e non derivativo -a favore del soggetto di volta in volta indicato dalla legge (nudo proprietario, concedente, comproprietari pro-indiviso, lo Stato ex art. 827)-, a rigore non sarebbe stato necessario prevedere che la rinunzia ai diritti immobiliari fosse inopponibile ai terzi acquirenti in buona fede di diritti sugli immobili oggetto di rinunzia, sulla base di atti trascritti in data anteriore alla trascrizione della rinunzia stessa: venendo in considerazione un acquisto ex lege che si verifica automaticamente in conseguenza della rinunzia abdicativa, nessun eventuale atto dispositivo posteriore alla rinunzia potrebbe mai risultare opponibile all’ “acquirente ex lege”. Così, al fine di risolvere l’indicata incongruenza, autorevole dottrina ha ritenuto che la pubblicità della rinunzia ai diritti immobiliari troverebbe ragion d’essere sostanzialmente nella necessità di notiziare il terzo “acquirente ex lege” della avvenuta rinunzia e, quindi, dell’acquisto in suo favore.
      22.4.2. A parere del Collegio, tuttavia, il tenore l’art. 2644 è chiaro nel sottendere un conflitto che possa essere generato e correlato all’atto di rinunzia; non può quindi trattarsi di norma “pensata”, semplicemente o anche, per pubblicizzare atti dai quali un simile conflitto non può conseguire. Si trae da ciò una ulteriore conferma del fatto che gli atti menzionati dall’art. 2643 n. 5 possono essere, in realtà:
         a) vuoi atti di rinunzia di natura traslativa e non abdicativa, previamente concordati tra le parti, costituenti in sé atti di disposizione rispetto ai quali è possibile concepire un possibile conflitto con eventuali terzi acquirenti;
         b) vuoi atti di rinunzia abdicativa ai diritti immobiliari specificamente indicati dal codice (diritti reali minori; comproprietà pro-indiviso), i quali non lasciano mai –come infra meglio si dirà– il diritto “acefalo”, determinando automaticamente l’accrescimento del patrimonio di terzi per effetto della c.d. elasticità della proprietà: è quindi possibile che tali atti di rinunzia possano generare un conflitto tra il rinunziante, e/o i creditori di costui, ed il terzo il cui diritto si espande automaticamente per effetto della rinuncia e/o i creditori di questo ultimo.
L’art. 2643 n. 5 non fa, inoltre, alcun riferimento a specifici effetti conseguenti ad atti di rinunzia abdicativa.
      22.4.3. Tutto ciò considerato il Collegio, anche in applicazione del canone interpretativo “in claris non fit interpretatio”, non crede che l’art. 2644 c.c. possa essere letto nel senso, che invero neppure é esplicitato, per cui la pubblicità degli atti di rinunzia abdicativa avrebbe valenza meramente informativa dell’acquisto a favore dell’acquirente ex lege. E del resto una simile interpretazione dell’art. 2644 c.c. rimane inevitabilmente frustrata dalla dottrina e dalla prassi notarile, che ritengono che la rinunzia abdicativa a diritti reali debba essere presa “contro” il rinunziante –il che appare cosa ovvia– ma “a favore” di nessuno, e ciò proprio sul presupposto che la rinunzia abdicativa di per sé stessa non determina l’accrescimento dell’altrui patrimonio, che eventualmente consegue quale effetto indiretto ex lege.
Tale essendo il meccanismo della pubblicità immobiliare, segue che essa giammai potrebbe consentire ad un soggetto di verificare se il proprio patrimonio si sia accresciuto per effetto della rinunzia abdicativa ad un diritto reale da parte di un terzo soggetto (ad esempio -seguendo la prospettiva che qui si contesta- lo Stato in relazione alla proprietà immobiliare; il nudo proprietario con riferimento all’immobile gravato da usufrutto, uso, abitazione, servitù; il proprietario del fondo dominante con riguardo alla rinunzia liberatoria che abbia ad oggetto il fondo servente; il proprietario pro-quota indivisa con riguardo alla rinunzia di altro comproprietario alla rispettiva quota), il che conferma che verosimilmente il legislatore, quando ha prefigurato la trascrizione degli atti di rinunzia ai sensi dell’art. 2643 n. 5 c.c. pensava piuttosto ad atti di rinunzia traslativa o comunque ad atti di rinunzia dai quali conseguano immediati effetti ampliativi del patrimonio altrui, che dunque giustifichino una contestuale trascrizione “a favore” di un soggetto determinato e che possano ingenerare conflitti che possano trovare definizione in applicazione del principio “prior in tempore potior in jure”.
   22.5. Dirimente non è, ad avviso del Collegio, neppure la previsione di cui all’art. 1118, comma 2, cod. civ.. Il fatto che la norma preveda espressamente che al condomino è vietato di poter rinunziare al suo diritto sulle cose comuni si spiega con il fatto che in materia di proprietà comune vige, in generale, il principio opposto, questo chiaramente enunciato all’art. 1104, comma 1: “Ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune e nelle spese deliberate dalla maggioranza, salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto”, principio che si trova ribadito anche dall’art. 882, comma 2 c.c., in tema di rinuncia alla comproprietà del muro comune.
In giurisprudenza si è affermato (Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 3931 del 23/08/1978) che per effetto della c.d. “rinuncia liberatoria”, in esame, il bene immobile oggetto di rinunzia non rimarrebbe acefalo perché si determinerebbe l’automatico accrescimento del diritto dei comproprietari, sui quali, correlativamente aumenterebbe anche il carico delle spese relative alla manutenzione della cosa o del muro comune. Nel silenzio delle due norme si ritiene che tale forma di rinuncia sarebbe non recettizia e proprio per tale ragione l’accrescimento della proprietà dei comproprietari costituirebbe un effetto legale. Il Collegio nutre qualche perplessità in ordine al fatto che la rinuncia al diritto di comproprietà costituisca atto non recettizio.
E’ fuor di dubbio, comunque, che l’accrescimento del diritto degli altri comproprietari si collega alla natura stessa della proprietà comune, che è una proprietà pro indiviso, la quale si estende all’intero bene, consentendo di fatto a ciascun “comunista” il godimento del bene nella sua interezza, sia pure con i limiti che derivano dalla necessità di assicurare anche agli altri comproprietari un godimento della medesima natura. Ad avviso del Collegio, allora, l’accrescimento del diritto dei comproprietari pro-indiviso, a fronte della rinunzia al proprio diritto manifestata da uno di essi costituisce un effetto naturale che si collega alla c.d. “elasticità” del diritto di proprietà, e proprio per tale ragione si tratta di una rinunzia che non crea alcun tipo di scompenso: il bene immobile non rimane “acefalo”, continuando ad identificarsi uno o più soggetti responsabili della custodia e delle obbligazioni di vario tipo connesse alla proprietà di quel bene.
      22.5.1. Di conseguenza, il fatto che l’art. 1118 escluda, per il condomino, la possibilità di rinunciare al suo diritto sulle cose comuni nulla prova in ordine alla esistenza, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa della proprietà immobiliare anche al di fuori delle ipotesi espressamente disciplinate dal codice. Sembra chiaro, peraltro, che la disciplina di cui all’art. 1118, comma 2, si giustifica con il fatto che nel condominio di edifici i singoli proprietari neppure volendo possono sottrarsi all’uso di determinate cose comuni, tra le quali –come noto– rientrano le mura perimetrali, il tetto di copertura, il suolo sul quale sorge l’edificio, le scale ed i portoni di ingresso, e così via dicendo.
Sarebbe dunque manifestamente ingiusto, oltre che foriero di gravi problematiche, se i vari proprietari delle singole unità immobiliari potessero a piacimento sottrarsi, mediante rinunzia al proprio diritto di comproprietà, all’obbligo di pagare le spese per la manutenzione di parti comuni, delle quali essi comunque sono obbligati ad usufruire: e che la ratio della norma sia questa è confermato dal fatto che l’art. 1118 u.c. consente ai singoli proprietari di scollegarsi dai soli impianti di riscaldamento e condizionamento centralizzati, del cui utilizzo essi possono effettivamente fare a meno.
   22.6. Considerazioni simili possono svolgersi con riferimento a tutte le varie tipologie di rinunzia, che il codice civile ammette espressamente con riferimento ai diritti immobiliari, che in realtà esso non qualifica e che da molti sono ritenute di natura “abdicativa”, ma si tratta in realtà di una opzione non unanimemente condivisa.
      22.6.1. Ai sensi dell’art. 963 c.c., è possibile rinunziare alla enfiteusi, ma solo quando il fondo perisca parzialmente: in tal caso, l’enfiteuta “secondo le circostanze può chiedere una congrua riduzione del canone o rinunziare al suo diritto, restituendo il fondo al concedente, salvo il diritto al rimborso dei miglioramenti sulla parte residua”, e l’esercizio della facoltà di rinunzia non è più possibile decorso l’anno. Il legislatore ha dunque limitato in maniera assai precisa la possibilità di rinunziare al diritto di enfiteusi, e tale constatazione, unita alla considerazione che l’enfiteusi è un istituto che persegue non solo l’interesse dell’enfiteuta ma anche quello del proprietario al miglioramento del fondo, induce ad escludere che l’enfiteuta possa abdicare al proprio diritto, come sostengono coloro che, invece, valorizzano anche le previsioni di cui all’art. 1350 n. 5 e 2643 n. 5.
      22.6.2. La rinuncia all’usufrutto è specificamente menzionata dall’art. 2814 c.c., a mente del quale l’ipoteca costituita sul diritto di usufrutto perdura, nonostante la rinunzia, sino a che non si verifichi l’evento che avrebbe altrimenti prodotto l’estinzione dell’usufrutto: l’ammissibilità della rinunzia all’usufrutto, a prescindere da un atto di adesione del nudo proprietario, in questo caso poggia su una norma chiara, che sembra dare quasi per scontata tale eventualità; è dubbio tuttavia se si tratti di rinunzia abdicativa, poiché non vi è alcun indizio nel codice in tal senso; si può tuttavia rilevare che, anche se abdicativa la rinunzia, all’usufrutto non comporta per il nudo proprietario svantaggi assolutamente estranei alla di lui sfera giuridica o imprevedibili, e del resto, se per effetto della rinuncia all’usufrutto sul nudo proprietario tornano a gravare tutte le responsabilità ordinarie (per imposte, custodia, etc. etc.), tuttavia esse sono compensate dalla disponibilità dei frutti del bene. Dunque la rinunzia all’usufrutto, contrariamente alla rinunzia alla enfiteusi, non presenta particolari controindicazioni alla rinunzia, anche se abdicativa.
      22.6.3. Quanto ai diritti di uso ed abitazione, la dottrina ne ammette la rinunzia proprio sulla constatazione che il codice ammette la rinunzia al più ampio diritto di usufrutto.
      22.6.4. Discorso diverso va effettuato con riferimento alla servitù, dal momento che il –codice, mentre non menziona chiaramente la rinunzia alla servitù –se non indirettamente nei più volte citati articoli 1350 n. 5 e 2643 n. 5– stabilisce invece espressamente, all’art. 1070, che il proprietario del fondo servente si può sempre liberare dall’obbligo di pagare le spese necessarie per l’uso o per la conservazione della servitù “rinunziando alla proprietà del fondo servente a favore del proprietario del fondo dominante”. In giurisprudenza ed in dottrina si trovano sia l’orientamento che ammette la rinunzia alla sola servitù ma solo in via bilaterale, sia l’orientamento che ammette anche la rinunzia alla servitù di natura abdicativa: in entrambi i casi si perviene ad ammettere la rinunzia alla servitù facendo leva, sostanzialmente, sulla considerazione che si tratta pur sempre di un diritto disponibile.
Tuttavia a parere del Collegio, proprio il fatto che il legislatore ha disciplinato la diversa ipotesi di cui all’art. 1070 c.c. induce a dubitare della possibilità di rinunziare, quantomeno in via unilaterale, alla sola servitù: e la spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che la servitù non è posta e non esiste solo a vantaggio di un soggetto, bensì di un fondo, il quale, venendo meno la servitù, potrebbe risultare non più adeguatamente sfruttabile o rimanerne comunque svalorizzato. In questa prospettiva il fatto che il fondo servente venga “abbandonato” specificamente a favore del proprietario del fondo dominante consente di raggiungere, al medesimo tempo, sia lo scopo di sollevare il proprietario del fondo servente da un peso di duplice natura, sia quello di mantenere in buono stato manutentivo le opere attraverso le quali la servitù può essere esercitata, e, con esse, la godibilità del fondo dominante.
   22.7. Il Collegio considera, a questo punto, che tutti i casi in cui il codice civile ha espressamente ammesso la rinunzia ad un diritto reale risultano accomunati dal fatto che a fronte della rinuncia la proprietà immobiliare non rimane “acefala”, perché in tali casi la rinunzia provoca l’estinzione del diritto reale minore e la correlativa riespansione della piena proprietà; ovvero, trattandosi di diritti reali minori in comunione, provoca l’accrescimento delle quote altrui sul diritto reale minore. In nessun caso, comunque, si viene ad avere un bene immobile privo di proprietario.
Tutte queste fattispecie inoltre, in ultima analisi sono accomunate anche dal fatto che consentono una migliore gestione del bene immobile in tutti i casi in cui il titolare del diritto oggetto di rinunzia sia, per qualsiasi ragione, riottoso al pagamento delle spese necessarie per mantenere il bene immobile nelle condizioni ottimali: tanto si apprezza nella disciplina della rinuncia alla quota in comproprietà indivisa, alla rinuncia liberatoria alla proprietà del fondo servente, ed alla rinuncia alla enfiteusi, che peraltro è rigidamente disciplinata all’evidente fine di evitare che colui che si è impegnato a produrre un determinato miglioramento del fondo, possa sottrarsi a tale obbligo a piacimento. Solo la rinunzia all’usufrutto sembra derogare da questa logica; ma la realtà è che la rinuncia all’usufrutto -come del resto la rinuncia al diritto di piena proprietà su un bene– assume un senso solo ipotizzando che il titolare non voglia o non sia in grado di sopportare i pesi connessi al fondo, che la legge pone a carico dell’usufruttuario.
E’ quindi ragionevole l’ipotesi secondo cui anche la rinunzia all’usufrutto è consentita dal legislatore per favorire la corretta gestione del bene immobile ogni qualvolta l’usufruttuario non voglia o non possa continuare a farsi carico del bene oggetto di usufrutto.
      22.7.1. Perciò, in definitiva, il fatto che la rinunzia ai diritti reali sia espressamente ammessa dal codice civile solo con riferimento a taluni diritti reali ed alla quota di comproprietà indivisa, non consente di presumere che la rinunzia abdicativa ai diritti reali costituisca un istituto generale, disciplinato in talune situazioni solo per esplicitarne gli effetti, essendo molto più logica la contraria opzione, secondo la quale il legislatore avrebbe ammesso la rinunzia a diritti reali solo nei casi in cui essa risulta funzionale alla corretta gestione ed alla valorizzazione del bene immobile.
   22.8. Le dianzi esposte considerazioni appaiono del resto coerenti con la funzione sociale che l’art. 42 della Costituzione assegna alla proprietà privata, la quale è riconosciuta a garantita a tutti i cittadini non solo per soddisfare bisogni egoistici ma anche per la soddisfazione di interessi generali: il mantenimento in buono stato di un bene immobile, dunque, costituisce non solo esplicazione delle facoltà inerenti alla proprietà, ma anche un dovere, la cui violazione, quando non ingeneri situazioni di per sé foriere di responsabilità, viene scoraggiata dal legislatore in vari modi: ad esempio con la possibilità di espropriare le relative aree per assicurarne la riconversione a nuovi utilizzi; oppure, più semplicemente, consentendo che altri acquisiscano la proprietà del bene per usucapione.
   22.9. La ammissione generalizzata della possibilità di abdicare alla proprietà esclusiva, anche solo di tipo superficiario, di un bene immobile, va invece in segno diametralmente opposto, poiché non incoraggia i proprietari ad interessarsi e ad occuparsi in maniera diligente ed attiva dei beni, sul presupposto che di essi sarebbe sempre possibile disfarsi mediante una rinunzia abdicativa.
   22.10 Ad avviso del Collegio neppure l’art. 827 c.c. offre validi e risolutivi argomenti a sostegno del recepimento generalizzato, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare. Tale norma infatti, nella sua laconicità, sembra essere stata introdotta nel codice civile semplicemente quale disposizione di “chiusura”, ad evitare che possano esistere beni immobili acefali e come tali acquisibili per “occupazione” da parte di chiunque: del resto l’occupazione della res nullius è un modo di acquisto della proprietà valevole solo per i beni mobili (art. 923 c.c.) e tutta la disciplina codicistica riguardante i modi di acquisto della proprietà in realtà dimostra che il legislatore ha cercato di evitare le situazioni in cui beni immobili possano venire a trovarsi privi di un proprietario. In quest’ottica la previsione di cui all’art. 827 c.c. dovrebbe servire non già a far acquisire al patrimonio dello Stato la proprietà di una gran moltitudine di beni oggetto di rinunzia da parte dei rispettivi proprietari, bensì, unicamente a dare una proprietà a quei beni immobili rispetto ai quali non sia possibile risalire ai proprietari dai registri immobiliari e catastali ovvero a dare “copertura” a fattispecie imprevedibili ed estreme, non riconducibili ad alcuna delle ipotesi di acquisto della proprietà già previste dal codice: ad esempio il caso di emersione di una nuova isola in acque territoriali, che non è contemplata dagli articoli 922 e seguenti c.c., la cui proprietà è acquisita automaticamente al patrimonio dello Stato proprio in forza di quanto previsto dall’art. 827 c.c.
   22.11. Ma soprattutto, contro l’argomento secondo il quale lo Stato recupererebbe automaticamente la proprietà dei beni immobili la cui proprietà sia stata abdicata dal proprietario, milita la considerazione che un tale sistema mal si concilia con la nozione moderna della proprietà privata, come diritto che ab origine è attribuito a cittadini privati, ad enti o allo Stato, risultando piuttosto coerente con quella concezione del diritto di proprietà –ancor oggi vivente nei paesi di common law e che negli Stati europei caratterizzava invece il diritto feudale della proprietà– secondo cui esso fa capo unicamente allo Stato o al suo rappresentante, potendo soggetti diversi goderne, sia pure per periodi lunghissimi e con amplissime facoltà, solo in forza di una sorta di concessione.
   22.12. Del resto, salvo errore da parte del Collegio, l’unico caso in cui in giurisprudenza si è dato ingresso alla rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare è costituito proprio dalla rinunzia al bene illegittimamente occupato da una amministrazione per la realizzazione di un bene di pubblica utilità: tale orientamento, enunciato nella celebre sentenza della Corte di Cassazione n. 1907/1997, poggia sulla mera considerazione che il fatto che il privato non perda la proprietà del bene, laddove non risulti operante una valida dichiarazione di pubblica utilità, “non esclude peraltro la possibilità dell'interessato di avvalersi, come nella specie si è avvalso, di un'azione di risarcimento del danno per perdita definitiva del bene, ponendo in essere un meccanismo abdicatorio che non manca di riscontri nel nostro ordinamento positivo (artt. 1070, 1104, 550 c.c.).”, considerazione che al Collegio non pare frutto di una meditazione particolarmente approfondita.
23.
Il Collegio considera pertanto che dalle dianzi esaminate disposizioni non si trova alcun argomento “forte” che confermi, al di fuori delle ipotesi tipiche disciplinate dal codice civile, la possibilità di rinunciare al diritto di proprietà su di un bene immobile senza che contestualmente tale diritto non si trasferisca o non si consolidi in capo a terzi quale effetto voluto dal rinunziante (e non dalla legge). Al contrario si constata che né tali norme, né altre che disciplinano la forma e la pubblicità degli atti e negozi giuridici, prevedono espressamente la rinunzia unilaterale al diritto di proprietà su un bene immobile.
24. Il Collegio si chiede, allora, per quale ragione, ove la rinunzia abdicativa alla proprietà di un bene immobile, intesa come negozio unilaterale non recettizio, costituisse un istituto generalmente ammesso nel nostro ordinamento, il legislatore non ha ritenuto di ammetterla esplicitamente e di disciplinarla espressamente, tenuto conto del fatto che se ammissibile essa sarebbe, per lo Stato, causa di acquisto della proprietà di beni immobili di incidenza infinitamente maggiore rispetto ai casi disciplinati agli articoli 922 e seguenti, e considerato altresì il fatto che la proprietà di beni immobili, ed in special modo di fabbricati, comporta una responsabilità per custodia che il Collegio dubita fortemente il legislatore abbia inteso addossare allo Stato mediante la previsione di cui all’art. 827 c.c., senza ulteriori e più specifiche norme e senza che l’Amministrazione statale abbia la possibilità di esprimere il proprio consenso né di venirne a conoscenza: si pensi alla responsabilità legata alla proprietà di un terreno franoso che sia prospiciente una via pubblica o un centro abitato; o la responsabilità connessa alla proprietà di un edificio in stato fatiscente, che possa crollare sulla via pubblica o all’interno del quale chiunque possa penetrare; responsabilità che l’Amministrazione statale farebbe fatica a prevenire, avuto riguardo al fatto che -come già precisato– la trascrizione della rinunzia abdicativa sarebbe verosimilmente eseguita solo “contro” il rinunziante ma non anche “a favore” dello Stato, che pertanto non sarebbe neppure in grado di venire a conoscenza di eventuali nuovi “acquisti” verificando periodicamente le trascrizioni “a favore”. Salvo sostenere che, proprio per tale ragione, lo Stato è impossibilitato ad esercitarne la custodia in maniera diligente, con il risultato paradossale che tutto questo patrimonio immobiliare continuerebbe, lecitamente, a rimanere incustodito, improduttivo ed inutilizzato, fatiscente e fonte di pericolo per la incolumità pubblica.
25. Si consideri ancora che la rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare comporterebbe il venir meno, in capo al privato, dell’obbligo di pagare le varie imposte (fondiarie, imu, tari, etc. etc.) collegate alla proprietà del bene oggetto di rinunzia, evenienza, questa, che ugualmente si può dubitare fortemente costituisca una conseguenza preveduta ed accettata dal legislatore quale effetto dell’enunciato contenuto nell’art. 827.
26. Né si può trascurare di rilevare che gli effetti conseguenti alla dottrina di cui sopra si è dato conto risultano, se possibile, ancor più paradossali e dannosi proprio con riferimento alle occupazioni illegittime, per la già accennata ragione che, ammettendo in dette fattispecie che il privato abbia la possibilità di rinunziare alla proprietà vantata sul bene occupato divenendo contestualmente titolare del diritto ad essere risarcito del valore venale dell’immobile, si finisce per gravare l’amministrazione “occupante” di un obbligo risarcitorio al quale però non fa da contraltare l’acquisto della proprietà del bene, il quale, per effetto di questa rinunzia “atipica”, passerebbe invece a far parte del patrimonio dello Stato ex lege, ai sensi dell’art. 827 c.c..
Vale la pena precisare, sul punto, che non vi sono ragioni per pensare che tale norma alluda allo “Stato” inteso come insieme delle Amministrazioni pubbliche che ne sono espressione, derivazione o che comunque coesistono sul territorio nazionale. Infatti, anche in altri casi, e con riferimento a settori in cui non si dubita che la norma alluda allo Stato-persona, il codice civile lo indica semplicemente come “Stato” (ad es. all’art. 586) senza ulteriori specificazioni; in giurisprudenza, inoltre, la norma è stata interpretata nel senso che essa allude al patrimonio dello Stato (persona) e non di altre Amministrazioni pubbliche (cfr. Cass. Civ. n. 2862/1995).
Infine merita ricordare che con l’art. 1, comma 260, della L. 296/2006 il legislatore ha confermato la spettanza allo Stato (persona) dei beni “vacanti” e di quelli relativi alle eredità giacenti, stabilendo che con decreto interministeriale (peraltro ad oggi non ancora emanato) dovessero essere indicati i criteri utili ad individuare tali beni.
   26.1. Risulta quindi non condivisibile quanto afferma la pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4636 del 07.11.2016, secondo la quale “Con riferimento alla specifica ipotesi in cui il proprietario formuli non già domanda di restituzione ovvero di riduzione in pristino del proprio bene illecitamente occupato dall'amministrazione, bensì di risarcimento del danno patito (con effetti abdicativi del diritto di proprietà), muovendo da tali principi, occorre ancora affermare che: a) stante la natura abdicativa e non traslativa dell'atto di rinuncia, il provvedimento con il quale l'amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno -rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo che di esso rappresenta il presupposto- costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all'amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia”: non è condivisibile, a tacer d’altro, per l’intrinseca contraddizione insita nell’affermazione secondo cui la rinunzia avrebbe carattere abdicativo e tuttavia l’acquisto del bene oggetto di rinunzia dovrebbe avvenire in capo alla amministrazione che liquida il danno, e cioè alla amministrazione occupante, e non già in capo allo Stato.
      26.1.1. Infatti -si ricorda- la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha sempre qualificato la rinunzia del privato alla proprietà del bene occupato come rinunzia abdicativa, ma da essa consegue –secondo la ricostruzione che qui si avversa- che il bene occupato a seguito della rinunzia rimane per un istante senza proprietario, res nullius per poi entrare nel patrimonio dello Stato, e non già nel patrimonio di altra amministrazione; e la stessa sentenza della Corte di Cassazione n. 735/2015 afferma espressamente che l’amministrazione occupante non acquista il bene occupato per effetto della rinunzia, trattandosi di rinunzia abdicativa e non traslativa.
      26.1.2. Quanto affermato dal Consiglio di Stato nella sopra ricordata pronuncia risulta dunque non condivisibile non solo perché, in conformità con l’orientamento in questo momento prevalente, ammette la possibilità di esercitare la rinunzia abdicativa della proprietà immobiliare anche al di fuori dei casi ammessi dal codice civile, ma prima ancora perché afferma, erroneamente ad avviso del Collegio, che la proprietà del bene rinunziato viene acquisita in capo alla amministrazione occupante.
   26.2. La giurisprudenza, sia della Corte di Cassazione che quella del Consiglio di Stato, non sembra essersi interrogata circa le incongruenze che derivano dall’ammettere che il privato possa rinunziare unilateralmente al proprio diritto di proprietà facendo conseguire da tale manifestazione di volontà l’obbligo della amministrazione occupante di risarcire il privato di un valore commisurato all’intero valore del bene.
      26.2.1. Dal momento che l’amministrazione occupante non diventa proprietaria del bene non si comprende, anzitutto, per quale ragione essa debba corrispondere un danno commisurato all’intero valore venale del bene, stante che il bene stesso non viene distrutto. Sul punto mette conto sottolineare che a seguito della evoluzione di cui sopra si è dato conto e che ha portato a riconoscere che il privato non perde la proprietà del bene per effetto della trasformazione impressa dalla attività manipolatrice della amministrazione occupante, in giurisprudenza –soprattutto quella amministrativa– si è progressivamente consolidato il principio secondo cui la restituzione del bene deve ritenersi sempre possibile, e doverosa, perché in realtà nulla, se non fattori di natura meramente economica, impedisce il ripristino del bene allo stato originario e la restituzione di esso (C.d.S. Sez. IV, n. 1466/2015, punto 2.1., con la giurisprudenza ivi richiamata; C.d.S., Sez. IV - sentenza 02.09.2011 n. 4970; C.d.S. Sez. IV - sentenza 15.09.2014, n. 4696; C.d.S. Sez. IV - sentenza 29.04.2014, n. 2232).
Né si deve trascurare di considerare che il privato, rimanendo proprietario del fondo occupato diventa automaticamente proprietario anche dell’opera che su di esso è stata realizzata, opera che il più delle volte può essere sfruttata economicamente anche da privati e che pertanto costituisce per il privato una fonte di arricchimento, più che di impoverimento. Dipoi si deve considerare che, anche ammessa la possibilità per il privato di abdicare unilateralmente al proprio diritto, il bene esce dal di lui patrimonio per effetto di una manifestazione di volontà unilaterale di quest’ultimo, manifestazione che, per definizione, non è qualificata da un vizio di volontà, ed in particolare da coartazione.
Quindi non si comprende proprio per quale motivo, a fronte della manifestazione di una volontà abdicativa del proprio diritto di proprietà, al proprietario dovrebbe sempre ed invariabilmente essere riconosciuto il diritto ad ottenere un risarcimento commisurato, sostanzialmente, al valore venale di un bene che non ha mai perso, che ha diritto a vedersi restituire allo stato originario (fatte salve eventuali valutazioni in senso contrario nelle situazioni rilevanti ai sensi dell’art. 2933 c.c.) e che molte volte vede il suo valore economico accresciuto rispetto al momento della occupazione. Né pare possibile che la domanda risarcitoria possa condizionare la rinunzia abdicativa manifestata dal privato, la quale reca in sé la non onerosità e la rinuncia del privato rinunziante a pretendere qualsivoglia corrispettivo, proprio perché si tratta di rinunzia che non ha un destinatario e che non vuole conseguire altro scopo se non quello di dismettere la proprietà del bene.
      26.2.2. In secondo luogo si deve sottolineare che non esiste una norma specifica che obblighi lo Stato a ritrasferire alla amministrazione occupante, gratuitamente o anche solo ad un prezzo simbolico, il bene occupato, alla cui proprietà il privato ha rinunziato e che per tale ragione sarebbe entrato a far parte del patrimonio dello Stato: le amministrazioni occupanti, quindi, a fronte della unilaterale rinunzia manifestata dal privato si trovano onerate dall’obbligo di sborsare una somma commisurata al valore del bene, corrisposta al privato, oltre all’obbligo di sborsare una ulteriore somma danaro necessaria per riacquistare il bene dallo Stato: il Collegio non ignora che esiste una normativa che ad alcune condizioni consente, tra amministrazioni pubbliche, di effettuare trasferimenti di proprietà a prezzi significativamente inferiori a quelli di mercato, ma anche così lo Stato potrebbe pretendere il pagamento di un prezzo, che si aggiungerebbe al risarcimento già corrisposto al privato, salvo che lo Stato e l’amministrazione occupante non si accordino, su base totalmente volontaria, per attuare il trasferimento dell’immobile ad un prezzo simbolico o a titolo di donazione o comunque ad un titolo che non comporti corresponsione di prezzo alcuno.
27.
Come si vede sono numerose e gravi le conseguenze insite nell’ammettere che il privato possa sempre rinunziare unilateralmente al proprio diritto di proprietà su un bene immobile, e tali conseguenze sono ancor più gravi ove oggetto di rinunzia sia un bene occupato e trasformato per realizzarvi un’opera di pubblica utilità: si tratta in tutti i casi di conseguenze che, sia pure in modi diversi, vanno a gravare sulla finanza pubblica.
  
27.1. Che si tratti di un problema molto sentito nella prassi e, quindi, possibilmente foriero di conseguenze incalcolabili, o quasi, è testimoniato dal fatto sono sempre più numerosi i casi in cui privati proprietari manifestano l’intenzione di voler abdicare, con atto notarile, al proprio diritto di proprietà su un immobile, esattamente allo scopo di sottrarsi agli obblighi fiscali nonché agli obblighi di custodia e manutenzione che la proprietà di un bene immobile comporta, al punto che la questione è stata fatta oggetto dello studio civilistico n. 216-2014/C dell’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato, il quale nella premessa spiega che “Il presente studio nasce a seguito di molteplici quesiti pervenuti all’Ufficio studi aventi ad oggetto la possibilità da parte del Notaio di ricevere atti di rinunzia ai diritti reali, nonché la disciplina e gli effetti dei medesimi. Il tema in esame risulta essere particolarmente interessante, sia da un punto di vista prettamente teorico e dogmatico, sia da un punto di vista pratico, tanto più in un contesto socio-economico, quale quello attuale, in cui atti del genere possono risultare frequenti, stante la crisi economica e la forte pressione fiscale. Spesso infatti le fattispecie in cui può emergere la volontà rinunziativa della parte hanno ad oggetto beni e diritti dei quali non si vuole più sostenere l’onere tributario, ovvero che non sono più di interesse, in quanto di scarso valore e praticamente ingestibili (si pensi ad un piccolo fabbricato fatiscente inservibile ovvero alla quota di comproprietà su un piccolo terreno infruttuoso sito in una località molto distante da quella di residenza). Le fattispecie più rilevanti, tra quelle esaminate, sembrano essere quella della rinunzia al diritto di proprietà nonché alla quota indivisa di comproprietà, forse anche perché ritenute le più inconsuete, tanto da dubitarsi –almeno nel sentire comune– persino della loro ammissibilità. La dottrina che se ne è occupata in passato, del resto, le ha quasi sempre considerate come ipotesi di scuola, oggetto di un interesse prettamente teorico, ma che oggi possono divenire concretamente praticabili.”.
L’indicato studio conclude nel senso della ammissibilità della rinunzia abdicativa alla proprietà esclusiva di un bene immobile, e quindi è prevedibile che nella prassi tali rinunzie cominceranno ad aumentare e a diventare numerose.
28.
Tali considerazioni convincono definitivamente il Collegio che occorre grande prudenza prima di affermare che nel nostro ordinamento la rinunzia abdicativa ai diritti reali, ed in particolare alla proprietà esclusiva su un bene immobile, sia un istituto generalmente ammesso dal legislatore: la considerazione delle gravi conseguenze, per la finanza pubblica, derivanti dall’ammettere senza limiti la rinunzia abdicativa ai diritti reali immobiliari, anche fuori dai casi contemplati dal codice, avrebbe dovuto spingere il legislatore ad esprimersi con norme chiare e specifiche, ciò che non é.
29. Per le ragioni esposte nei paragrafi che precedono
il Collegio non crede che il corredo normativo esistente, di cui sopra si è dato conto, giustifichi la affermazione secondo cui la rinunzia abdicativa è ammessa in via generale dal nostro ordinamento e che, conseguentemente, può essere esercitata anche fuori dalle ipotesi disciplinate dal codice civile, segnatamente con riferimento al diritto di proprietà su beni immobili.
Essa rinunzia non può essere desunta in via interpretativa da norme che disciplinano casi specifici di rinunzia abdicativa, dalle quali semmai si dovrebbe ricavare che il legislatore ha voluto ammettere solo casi tipici. Né essa rinunzia si può evincere, in maniera chiara, senza ricorso a forzature interpretative e senza pretendere di “riempire” vuoti normativi, dalle ulteriori norme codicistiche che sopra sono state esaminate: gli articoli 1350 n. 5 e 2643 n. 5, in particolare, facendo riferimento alla rinunzia ai diritti immobiliari possono e debbono interpretarsi, prima di tutto, nel senso che si riferiscono ai casi di rinunzia a diritti reali espressamente disciplinati dal codice (ad esempio: la rinunzia a diritti reali minori; la rinunzia alla quota di proprietà pro indiviso) ovvero, comunque, a casi di rinunzia traslativa, e non abdicativa; d’altro canto l’art. 827 c.c. non contiene alcun riferimento alla rinunzia abdicativa a diritti immobiliari e segnatamente alla rinunzia al diritto di proprietà, né, peraltro, tale norma contiene riferimento alcuno agli atti e fatti giuridici che possono aver dato luogo alla esistenza di beni immobili privi di proprietario.
Valga infine la considerazione che tutti i casi di rinunzia a diritti reali contemplati dal codice civile, che la dottrina per lo più qualifica come ipotesi di rinunzia non ricettizia, facendone discendere la natura abdicativa, non rendono mai il bene oggetto del diritto rinunziato privo di proprietario, a differenza di quanto accadrebbe ammettendo che il proprietario singolo di un bene possa unilateralmente abdicare alla proprietà di esso: è quindi lecito presumere che il legislatore abbia ammesso (solo) quelle fattispecie di rinunzia abdicativa a diritti immobiliari che non determinano una “vacatio” nella titolarità del bene, il che conferma, semmai ve ne fosse ancora bisogno, che la rinunzia abdicativa a diritti reali non può considerarsi ammessa in via generale, con conseguente nullità degli atti che ne costituiscono espressione.

30.
Il Collegio ritiene, conclusivamente, di doversi discostare dal pressoché unanime e costante orientamento della giurisprudenza civile ed amministrativa che ancora oggi ammette la possibilità, per il privato, il cui bene immobile sia stato illegittimamente occupato per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità, di abdicare unilateralmente alla proprietà di esso: ciò in primo luogo perché deve ritenersi non consentita dal nostro ordinamento giuridico la rinunzia abdicativa alla proprietà esclusiva su beni immobili; in secondo luogo perché una tale rinunzia abdicativa all’attualità deve comunque ritenersi non consentita con riferimento a beni immobili illegittimamente occupati per scopi di pubblica utilità.
31.
La domanda risarcitoria formulata dalla ricorrente per vedersi indennizzare della perdita del valore dell’intero terreno deve pertanto essere respinta.
32.
La ricorrente resta però proprietaria della porzione di terreno che risulta occupata dalla strada, e di essa, conformemente alla giurisprudenza che si era ormai consolidata a partire dalla fine degli anni 2000 e che prevede che i beni non espropriati debbono essere restituiti ovvero acquisiti in proprietà nelle forme previste dall’ordinamento (compravendita; esproprio; acquisizione ex art. 42-bis), la ricorrente può chiedere ed ottenere la restituzione, ciò che non ha fatto nel presente giudizio.
Il Collegio non può quindi disporre la restituzione, a meno di incorrere nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato. La ricorrente potrà agire in separata sede per ottenere tale restituzione, fermo restando, tuttavia, che anche dopo la restituzione il Comune di Cherasco manterrà la facoltà di acquisire il bene nelle forme dianzi indicate.

33.
Relativamente al danno conseguente al periodo di occupazione, conformemente ai più recenti approdi giurisprudenziali va riconosciuto alla ricorrente il danno conseguente al non aver potuto disporre della porzione di sedime occupata: “posto che la proprietà è la facoltà di godere e disporre del bene, la privazione della facoltà di godimento lascia presumere la lesione del diritto reale, peraltro caratterizzato, a differenza dei diritti relativi, da una atipicità delle possibili forme d'uso. Il proprietario, pertanto, non deve dimostrare positivamente il danno; grava, viceversa, sull'occupante l'onere della prova circa il fatto che il dominus si sia consapevolmente disinteressato dell'immobile ed abbia omesso di esercitare su di esso ogni pur ridotta forma di utilizzazione (cfr., da ultimo, Cass., Sez. 3, 09.08.2016, n. 16670; Sez. 2, 15.10.2015, n. 20823; Sez. 2, 07.08.2012, n. 14222; Cons. Stato, Sez. IV, 27.02.2017, n. 897)”: così C.d.S. Sez. IV n. 5574 del 28/11/2017 (pronuncia dalla quale il Collegio evidentemente si discosta, invece, per le sopra esposte ragioni, in punto ammissibilità della rinunzia abdicativa della proprietà da parte del privato e della correlativa domanda risarcitoria da questi formula).
34.
Il Collegio ritiene di poter procedere equitativamente alla liquidazione del danno, dal momento che, in ragione della modesta superficie occupata, una verificazione sul punto sarebbe antieconomica. Tenuto conto del fatto che la ricorrente nel 2011 ha venduto la residua parte del terreno al prezzo di E. 4.02/mq, assumendo che tale prezzo sia frutto di una svalutazione dovuta alla occupazione, il Collegio ritiene che esso possa rappresentare il valore venale del bene nel 2008, al momento della apprensione. Alla ricorrente spetta dunque un danno “da sottrazione” del bene che va quantificato, per ogni anno di occupazione, in ragione del 5% del valore venale del bene occupato, ovvero il 5% annuo di Euro 361,80 (Euro 4,02/mq x 90 mq.) dal momento della occupazione (01.02.2008) al momento della notificazione della domanda giudiziale (16.02.2011). A detta somma devono aggiungersi la rivalutazione monetaria e gli interessi al tasso legale computati sulla somma anno per anno rivalutata sino al soddisfo.
35. La complessità dei temi trattati giustifica la compensazione delle spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, ogni diversa domanda rigettata così provvede:
   - dichiara improcedibile la domanda di annullamento del provvedimento in epigrafe indicato;
   - accoglie la domanda risarcitoria limitatamente al danno mancato godimento del sedime di terreno oggetto di illegittima occupazione, nei limiti indicati al paragrafo 33.1.;
   - per l’effetto condanna il Comune di Cherasco al pagamento, in favore della ricorrente, delle somme indicate al paragrafo 34.

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Ripetibilità delle somme versate a titolo di contributo di concessione.
Il TAR Milano richiama l’orientamento della giurisprudenza secondo il quale il contributo di costruzione è strettamente correlato all'attività di trasformazione del territorio e, conseguentemente, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare.
Da ciò l’ulteriore corollario che, allorché si dia luogo alla rinuncia al permesso di costruire o questo rimanga inutilizzato, ovvero nelle ipotesi di intervenuta decadenza del titolo edilizio, sorge in capo alla p.a., anche ai sensi dell’articolo 2033 c.c. o, comunque, dell’articolo 2041 c.c., l'obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, e il diritto del privato a pretenderne la restituzione.
Il diritto alla restituzione del contributo di costruzione sorge, poi, non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente.
Ciò posto, il TAR Milano aggiunge che:
   - deve pure tenersi presente che, se ciò vale, in linea di principio, nelle ipotesi di rilascio di un ordinario permesso di costruire, tuttavia la situazione dei rapporti di diritto-obbligo gravanti tra le parti può atteggiarsi diversamente quando il titolo edilizio sia chiesto e ottenuto in esecuzione di previsioni contenute in una convenzione urbanistica;
   - laddove i rapporti tra il privato e l’Amministrazione siano regolati da un’apposita convenzione, occorre verificare quale sia stato l’effettivo intento delle parti in ordine alla corresponsione del contributo di costruzione;
   - nel caso in cui le modalità di assolvimento dell’obbligazione del privato siano direttamente funzionalizzate all’attuazione delle trasformazioni oggetto della convenzione (come nelle ipotesi di realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo degli oneri dovuti, o di opere che il privato accetti di realizzare in aggiunta agli oneri dovuti, o ancora laddove la convenzione disciplini le opere da realizzarsi da parte dell’Amministrazione, prevedendo tuttavia l’accollo del relativo onere economico, con varie modalità, a carico del privato) le obbligazioni attinenti al contributo di costruzione (e soprattutto quelle relative agli oneri di urbanizzazione) trovano la propria giustificazione causale non solo e non tanto nel carico urbanistico specificamente riconducibile alla quantità di edificazione che forma oggetto di ciascun titolo edilizio rilasciato in esecuzione della convenzione, bensì nel disegno relativo al complessivo assetto urbanistico stabilito dalla stessa convenzione quale risultato finale derivante dalla relativa attuazione.
In questo caso, la mancata esecuzione degli interventi privati non farà venir meno la causa giustificativa delle obbligazioni attinenti alla realizzazione di opere pubbliche, essendo queste obbligazioni stabilite in funzione dell’attuazione del piano, e non del singolo e specifico intervento edificatorio assentito con il titolo edilizio;
   - al contrario, laddove la convenzione si limiti a disciplinare le modalità di corresponsione del contributo di costruzione, senza far emergere la specifica correlazione delle prestazioni del privato rispetto all’attuazione delle trasformazioni previste dal piano, l’obbligazione inerente al contributo rimane correlata soltanto al carico urbanistico ascrivibile allo specifico intervento oggetto di ciascun titolo edilizio, secondo i principi sopra richiamati; in questo caso occorre applicare gli ordinari principi e, quindi, affermare la ripetibilità delle eventuali quote di contributo commisurate (esclusivamente) alle parti di intervento non effettivamente realizzate
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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MASSIMA
1. Con ricorso portato alla notifica il 09.05.2014 e depositato il successivo 13 maggio, la società Pe.RE a r.l. ha agito per ottenere la condanna del Comune di Bernareggio al pagamento in suo favore della somma di euro 189.944,54 o della diversa somma che risultasse dovuta in corso di causa, maggiorata degli interessi legali dal 19.07.2013 al saldo effettivo; somma pretesa dalla ricorrente a titolo di parziale rimborso degli oneri di urbanizzazione secondaria corrisposti in relazione all’intervento edificatorio oggetto del permesso di costruire n. 7/2009 e successive varianti, a causa della mancata realizzazione di parte delle opere assentite.
2. Secondo quanto esposto nel ricorso e risultante dalla documentazione a esso allegata, il Comune di Bernareggio ha rilasciato alle società Pa. s.p.a. e Ro. s.r.l. il permesso di costruire n. 7/2009 del 23.06.2009, avente ad oggetto la realizzazione di due corpi di fabbrica nell’ambito di un piano per gli insediamenti produttivi (PIP), regolato da una convenzione precedentemente prorogata con deliberazione del Consiglio comunale n. 23 del 22.04.2009.
L’intervento oggetto del permesso di costruire presentava una superficie lorda di pavimento (SLP) di progetto di 16.685,76 e, a fronte di tale prevista realizzazione, il Comune aveva quantificato il contributo di costruzione in complessivi euro 647.240,25, di cui euro 558.138,34 per oneri di urbanizzazione secondaria ed euro 89.101,90 per contributo per lo smaltimento dei rifiuti. Non era, invece, dovuta la corresponsione di alcuna somma a titolo di oneri di urbanizzazione primaria.
Il permesso di costruire è stato poi volturato in favore dell’odierna ricorrente Pe.RE ed è stato, quindi, oggetto di numerose varianti, per cui l’assetto finale dell’intervento prevedeva la realizzazione non più di due corpi di fabbrica, bensì di quattro lotti, denominati A, B, C e D.
Quest’ultimo lotto, tuttavia, non è stato realizzato entro i termini di efficacia del titolo edilizio.
Con provvedimento del 09.08.2013, emesso in relazione a un’istanza di permesso di costruire in variante presentata dalla società, il Comune ha poi affermato –tra l’altro– l’impossibilità di prorogare il permesso di costruire.
Secondo quanto allegato nel ricorso, la realizzazione dell’intervento sarebbe stata poi preclusa dalla sopravvenienza del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) di Monza e della Brianza, che avrebbe reso l’area inedificabile.
Va, infine, evidenziato che, con nota inviata mediante posta elettronica certificata in data 19.07.2013, Pe.RE ha chiesto al Comune il rimborso della quota degli oneri versati, al rilascio del titolo edilizio del 2009, con riferimento alla parte di intervento non realizzata.
3. Non avendo ottenuto il rimborso richiesto, la società ha proposto il presente giudizio, con il quale ha allegato il carattere indebito delle somme versate in relazione al rilascio del permesso di costruire del 2009 e commisurate alle superfici non realizzate, e ha domandato la condanna del Comune alla restituzione dei relativi importi.
Più in dettaglio, la ricorrente ha affermato che:
   - la SLP prevista dal permesso di costruire del 2009 e in relazione alla quale sono stati corrisposti a suo tempo gli oneri di urbanizzazione secondaria e il contributo per lo smaltimento dei rifiuti era pari, come detto, a 16.685,76 mq;
   - a seguito delle varianti al titolo, la superficie in progetto si è ridotta a 13.420,41 mq, dei quali 1.853,40 mq imputabili al lotto D, non realizzato;
   - la superficie non effettivamente realizzata, rispetto a quanto previsto dal permesso di costruire originario, ammonterebbe a mq 4.896,74 (al netto di due atti di cessione di volumetria agli acquirenti degli immobili effettivamente realizzati, per complessivi mq 220,00);
   - conseguentemente, la società sarebbe creditrice del Comune per il complessivo importo di euro 189.944,54 derivante dalla somma dei maggiori oneri di urbanizzazione secondaria versati per 163.795,95 euro (4.896,74 x 33,45) e della maggior somma pagata a titolo di contributo per lo smaltimento dei rifiuti per euro 26.148,59 (4.896,74 x 5,34).
4. In data 24.12.2014 il Comune di Bernareggio si è costituito in giudizio, con mera memoria formale.
5. L’11.10.2017, in prossimità dell’udienza pubblica fissata per la trattazione della causa, Pe.Re ha depositato una memoria corredata da documentazione.
5.1 In particolare –per quanto qui rileva– la ricorrente ha depositato copia delle reversali di incasso dei pagamenti effettuati.
5.2 Ha, inoltre, precisato nella suddetta memoria l’importo del credito vantato nei confronti del Comune in euro 198.555,92. Al riguardo, la parte ha affermato che l’indicazione di una somma minore nel ricorso (come detto, euro 189.944,54) fosse stata dovuta allo scomputo delle SLP che Pe.Re aveva alienato, mediante cessione di volumetria, agli acquirenti dei fabbricati realizzati.
Tuttavia, la suddetta cessione non sarebbe stata ritenuta dall’Amministrazione quale modalità idonea ad assolvere gli oneri dovuti da parte dell’acquirente, per cui i relativi importi sarebbero stati nuovamente posti a carico della ricorrente. Da ciò la necessità di rideterminare in aumento le superfici in relazione alle quali sarebbero stati corrisposti oneri non dovuti.
5.3 Infine, la ricorrente ha sottolineato la circostanza che, nella delibera di costituzione in giudizio, il Comune aveva affermato di non ravvisare l’immediata esigenza di restituzione degli oneri, perché l’eventuale accoglimento del ricorso proposto dalla stessa Penta RE contro il PTCP avrebbe consentito di completare l’intervento edificatorio progettato.
Tuttavia, la pretesa di trattenere gli oneri versati in eccesso dalla ricorrente sarebbe stata mantenuta dall’Amministrazione anche dopo che il Comune e la società –in un momento successivo alla proposizione del ricorso– hanno acclarato la compatibilità dell’intervento con il PTCP, avviando quindi la stipulazione di un nuovo piano attuativo relativo alle sole opere non ancora eseguite.
In altri termini, la parte stigmatizza la circostanza che, a seguito della stipulazione della nuova convenzione, gli oneri relativi a tali opere verrebbero ad essere pretesi due volte dall’Amministrazione (una prima volta per effetto dei pagamenti effettuati in dipendenza del permesso di costruire del 2009 e una seconda volta a seguito della stipulazione della nuova convenzione).
6. La stessa ricorrente ha, poi, depositato una ulteriore memoria il 31.10.2017.
7. Il 14.11.2017 la difesa comunale ha depositato una memoria, con la quale:
   - ha chiesto il rinvio della causa per la trattazione congiunta con il ricorso RG 177/2014, avente ad oggetto il diniego di proroga del permesso di costruire n. 7/2009;
   - ha affermato che la ricorrente avrebbe accettato di espungere dal testo della nuova convenzione urbanistica il riferimento agli importi già versati in dipendenza del precedente titolo edilizio, con ciò prestando acquiescenza alla pretesa comunale di trattenere definitivamente gli oneri già corrisposti, senza alcun rimborso o alcuna compensazione in dipendenza del rinnovato accordo inerente alla realizzazione delle opere non eseguite;
   - ha sostenuto che, in ogni caso, gli importi originariamente versati non potrebbero essere restituiti, in quanto l’intervento non era legittimato da un titolo edilizio “semplice”, ma era oggetto di una convezione urbanistica, nella quale la parte privata aveva assunto l’obbligazione di pagare gli oneri dipendenti dall’attuazione del PIP; conseguentemente, il Comune avrebbe contato sull’incasso degli importi pattuiti ai fini della realizzazione degli ulteriori interventi resi necessari dalla realizzazione dell’insediamento produttivo.
8. Con un ulteriore scritto difensivo, depositato il 18.11.2017, la ricorrente ha eccepito l’inammissibilità della memoria comunale, in quanto esorbitante dai contenuti tipici assegnati dalla disciplina processuale alle repliche.
In subordine, in caso di ritenuta ammissibilità della produzione avversaria, la società ha chiesto di reputare ammissibile anche le proprie ulteriori difese. In questa prospettiva, Penta RE ha contestato le tesi dell’Amministrazione e le stesse circostanze da questa allegate, e ha, inoltre, prodotto ulteriore documentazione, comprendente –tra l’altro– l’originaria convenzione urbanistica del 1998, accessoria al PIP.
La ricorrente ha, infine, chiesto la condanna del Comune per lite temeraria.
...
13. Nel merito il ricorso è fondato e va accolto. E, al riguardo, deve pure aggiungersi che, in ogni caso, tale conclusione non è confutata, ma è anzi avvalorata, dalle pur tardive produzioni della difesa comunale.
Per completezza espositiva tali difese verranno quindi prese comunque in considerazione nel prosieguo della trattazione, come pure le conseguenti ulteriori produzioni della ricorrente, che vanno anch’esse esaminate, a garanzia della pienezza del contraddittorio, unitamente alle prime. Ciò ferma restando la valutazione del comportamento processuale della parte resistente ai fini della decisione sulle spese.
14. La questione oggetto del giudizio attiene all’accertamento della sussistenza del diritto alla restituzione delle maggiori somme versate a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria e di contributo per lo smaltimento dei rifiuti per la parte riferita alle opere non realizzate nell’ambito di quelle assentite con il permesso di costruire n. 7/2009, avente ad oggetto la costruzione di capannoni industriali a seguito di assegnazione di aree nell’ambito di un PIP.
15. Va preliminarmente escluso che la ricorrente abbia prestato acquiescenza alla pretesa comunale di trattenere tali maggiori importi.
L’acquiescenza è infatti configurabile, sul piano logico e giuridico, soltanto a fronte dell’esercizio di poteri autoritativi dell’Amministrazione. Laddove, invece, si faccia questione, come nel caso oggetto del presente giudizio, di rapporti di diritto-obbligo tra le parti, potrà –al più– parlarsi di rinuncia al proprio diritto o di riconoscimento del debito, ma non di accettazione degli effetti del provvedimento eventualmente illegittimo.
Peraltro, anche tali eventualità non sono riscontrabili nel caso di specie.
Il nuovo accordo si limita, infatti, a disciplinare le obbligazioni nascenti dalle previsioni del nuovo piano, senza nulla dire in ordine ai pregressi rapporti tra le parti. Le pattuizioni sono, quindi, del tutto neutre sotto tale profilo. Circostanza, questa, che è del resto comprensibile, stante la pendenza del contenzioso oggetto del presente giudizio al tempo della negoziazione della nuova convenzione e, quindi, l’esistenza di una situazione non definita tra le parti in relazione ai rapporti preesistenti.
16. Escluso, pertanto, che la ricorrente abbia comunque acconsentito alla pretesa comunale, deve ricordarsi che,
secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, il contributo di costruzione è strettamente correlato all'attività di trasformazione del territorio. Conseguentemente, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare.
Da ciò l’ulteriore corollario che, allorché si dia luogo alla rinuncia al permesso di costruire o questo rimanga inutilizzato, ovvero nelle ipotesi di intervenuta decadenza del titolo edilizio, sorge in capo alla p.a., anche ai sensi dell’articolo 2033 c.c. o, comunque, dell’articolo 2041 c.c., l'obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, e il diritto del privato a pretenderne la restituzione
(Cons. Stato, Sez. V, 23.06.2003 n. 3714; Id., 12.06.1995, n. 894; Id. 02.02.1988, n. 105; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 01.03.2017, n. 496; Id., 07.01.2016, n. 12; Id., 15.12.2015, n. 2642; Id. 22.10.2014, n. 2527; TAR Lazio, Sez. II-bis, 10.11.2015, n. 12693; TAR Umbria, 27.02.2014, n. 135).
La giurisprudenza ha, poi, avuto modo di chiarire che
il diritto alla restituzione del contributo di costruzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente (in questo senso: TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 496 del 2017, cit.; Id. n. 12 del 2016, cit.; Id., n. 2642 del 2015, cit.; Id. 24.03.2010, n. 728; TAR Lazio, n. 12693 del 2015, cit.; per il diritto al rimborso del contributo in caso di mancata costruzione di uno dei tre edifici previsti nel complessivo intervento edilizio: Cons. Stato, Sez. V, 23.06.2003, n. 3714).
17. Ciò posto, deve pure tenersi presente che,
se ciò vale, in linea di principio, nelle ipotesi di rilascio di un ordinario permesso di costruire, tuttavia la situazione dei rapporti di diritto-obbligo gravanti tra le parti può atteggiarsi diversamente quando il titolo edilizio sia chiesto e ottenuto in esecuzione di previsioni contenute in una convenzione urbanistica.
17.1
Laddove, infatti, i rapporti tra il privato e l’Amministrazione siano regolati da un’apposita convenzione, occorre verificare attentamente quale sia stato l’effettivo intento delle parti in ordine alla corresponsione del contributo di costruzione.
In particolare,
occorre chiedersi se le modalità di assolvimento dell’obbligazione del privato siano direttamente funzionalizzate all’attuazione delle trasformazioni oggetto della convenzione, ovvero non presentino tale correlazione. Esempi del primo caso sono riscontrabili tipicamente nelle ipotesi di realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo degli oneri dovuti, o di opere che il privato accetti di realizzare in aggiunta agli oneri dovuti, o ancora laddove la convenzione disciplini le opere da realizzarsi da parte dell’Amministrazione, prevedendo tuttavia l’accollo del relativo onere economico, con varie modalità, a carico del privato.
In tutte tali ipotesi, le obbligazioni attinenti al contributo di costruzione (e soprattutto quelle relative agli oneri di urbanizzazione) trovano la propria giustificazione causale non solo e non tanto nel carico urbanistico specificamente riconducibile alla quantità di edificazione che forma oggetto di ciascun titolo edilizio rilasciato in esecuzione della convenzione, bensì nel disegno relativo al complessivo assetto urbanistico stabilito dalla stessa convenzione quale risultato finale derivante dalla relativa attuazione.
Al contrario,
laddove la convenzione si limiti a disciplinare le modalità di corresponsione del contributo di costruzione, senza far emergere la specifica correlazione delle prestazioni del privato rispetto all’attuazione delle trasformazioni previste dal piano, l’obbligazione inerente al contributo rimane correlata soltanto al carico urbanistico ascrivibile allo specifico intervento oggetto di ciascun titolo edilizio, secondo i principi sopra richiamati.
17.2
Le diverse modalità di atteggiarsi della volontà delle parti nella strutturazione delle obbligazioni nascenti dalla convenzione urbanistica non possono che riflettersi sulle conseguenze dell’eventuale mancata realizzazione, in tutto o in parte, delle trasformazioni previste dai titoli edilizi rilasciati in esecuzione dell’accordo.
Ove, infatti, gli impegni assunti dal privato siano funzionali alla complessiva realizzazione dell’assetto urbanistico stabilito dal piano attuativo, la mancata esecuzione degli interventi privati non farà venir meno la causa giustificativa delle obbligazioni attinenti alla realizzazione di opere pubbliche, essendo queste obbligazioni stabilite in funzione dell’attuazione del piano, e non del singolo e specifico intervento edificatorio assentito con il titolo edilizio.
Nel caso opposto, ossia laddove (e per la parte in cui) le obbligazioni previste a carico del privato dalla convenzione urbanistica non presentino tale correlazione, dovrà concludersi per l’applicazione degli ordinari principi e, quindi, per la ripetibilità delle eventuali quote di contributo commisurate (esclusivamente) alle parti di intervento non effettivamente realizzate.

18. Nel caso oggetto del presente giudizio, emerge chiaramente dalla lettura della convenzione urbanistica che, al momento dell’assegnazione delle aree, il Comune aveva assunto su di sé la realizzazione delle necessarie opere di urbanizzazione primaria del contesto produttivo e che il prezzo dell’assegnazione includeva la quota dovuta dal privato in dipendenza della realizzazione di tali infrastrutture.
Quanto, invece, alla quota di contributo commisurata alle opere di urbanizzazione secondaria e agli oneri connessi allo smaltimento dei rifiuti, questa era dovuta al rilascio dei singoli titoli edilizi, in correlazione con le quantità di edificazione ivi previste, e non era posta in relazione con la realizzazione di alcuno specifico intervento funzionale all’insediamento industriale o ad altre finalità di interesse pubblico comunque indicate dall’Amministrazione.
19. Dalla lettura della convenzione emerge, perciò, che lo stretto nesso di correlazione di cui si è detto tra le obbligazioni del privato e le trasformazioni previste dal piano e dalla convenzione è riscontrabile soltanto con riferimento alle quote versate dall’assegnatario a titolo di contributo per l’urbanizzazione primaria.
Quanto agli oneri commisurati alle opere di urbanizzazione secondaria e allo smaltimento dei rifiuti, tale nesso non è, invece, ravvisabile. Conseguentemente, con riguardo a queste quote di contributo non possono che trovare applicazione gli ordinari principi, in base ai quali –come detto– la giustificazione causale dell’obbligazione risiede nell’attuazione dell’intervento oggetto del permesso di costruire.
Deve aggiungersi, poi, che questa conclusione non muta in considerazione della circostanza che, nel caso di specie, trattandosi di permesso di costruire per interventi da realizzare su aree oggetto di assegnazione nell’ambito di un PIP, il privato fosse obbligato a costruire i capannoni industriali progettati.
Va, infatti, tenuto concettualmente distinto il profilo attinente all’inadempimento dell’obbligazione di realizzazione dei capannoni (inadempimento le cui conseguenze trovano la propria disciplina in specifiche previsioni della convenzione, oltre che negli ordinari principi), da quello concernente l’obbligazione relativa alle quote di contributo sopra dette; obbligazione che mantiene la propria causa giustificativa nella circostanza di fatto dell’effettiva realizzazione dei manufatti industriali.
In altri termini, l’eventuale possibilità per l’Amministrazione di reagire all’incompleta realizzazione degli interventi non fa venir meno il dato di fatto della mancanza di giustificazione causale del contributo versato dal privato in relazione a opere non eseguite e, quindi, in difetto del presupposto dell’incremento del carico urbanistico.
20. Alla luce delle considerazioni sin qui esposte,
deve perciò ritenersi sussistente il diritto del privato, ai sensi dell’articolo 2033 c.c., alla restituzione delle somme a suo tempo versate per le opere non effettivamente realizzate, a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria e di contributo per lo smaltimento dei rifiuti.
L’Amministrazione va, quindi, condannata al pagamento dei relativi importi, maggiorato degli interessi legali, dovuti fino al soddisfo, e decorrenti, in conformità al disposto dell’articolo 2033 c.c., dalla domanda giudiziale
(Cass. civ., Sez. III, 07.05.2007, n. 10297; Cons. Stato, Sez. IV, 26.05.2006, n. 3189; TAR Lombardia, Sez. II, 07.01.2016, n. 12).
21. L’Amministrazione soccombente va, inoltre, condannata al pagamento delle spese oggetto del presente giudizio.
Al riguardo, il Collegio non ravvisa i presupposti per l’applicazione della disciplina sulla lite temeraria, invocata da Pe.RE.
Le spese vanno, tuttavia, liquidate tenendo conto del complessivo comportamento processuale delle parti e, specificamente, dell’aggravio difensivo determinato, a carico della ricorrente, dalle produzioni tardive del Comune. In considerazione di quanto precede, il relativo importo va, perciò, determinato in euro 3.000,00 (tremila/00), oltre IVA, c.p.a., oneri per spese generali nella misura del quindici per cento e rimborso del contributo unificato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.03.2018 n. 718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ripetibilità delle somme versate a titolo di contributo di concessione.
Il TAR Milano, dopo aver ricordato che il contributo non è dovuto in caso di rinuncia o, comunque, di mancato utilizzo del permesso di costruire, con conseguente obbligo della pubblica amministrazione, ai sensi dell'art. 2033 cod. civ., di restituire le somme eventualmente incamerate a tale titolo, aveva aggiunto che questo principio può essere applicato anche in presenza di una stipulazione di una convenzione urbanistica, stante, nel caso in esame:
   a) l’assoluta mancata realizzazione di ogni opera prevista dalla convenzione;
   b) l’impossibilità per il soggetto attuatore, a seguito dell’intervenuta scadenza dei termini previsti dalla convenzione stessa, di realizzare le opere private di suo interesse;
Secondo il TAR, la convenzione urbanistica non costituisce autonoma fonte dell’obbligo di versamento del contributo di costruzione, trovando quest’ultimo la propria fonte direttamente nella legge, la quale lo pone in stretta correlazione all’attività di trasformazione del territorio in assenza della quale esso non è comunque dovuto.
La convenzione svolge dunque il ruolo, non già di fonte dell’obbligo, ma di fonte di regolazione dello stesso per quanto concerne il quantum ed il quomodo; sicché una volta escluso che la trasformazione del territorio possa attuarsi, il pagamento del contributo di costruzione diviene privo di causa, quantunque esso sia previsto e disciplinato da una convenzione urbanistica
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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MASSIMA
12. Come noto, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale,
il contributo di costruzione è strettamente correlato alla trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e, dunque, al concreto esercizio della facoltà di costruire. Pertanto, secondo la giurisprudenza, il contributo non è dovuto in caso di rinuncia o, comunque, di mancato utilizzo del permesso di costruire, con conseguente obbligo della pubblica amministrazione, ai sensi dell'art. 2033 cod. civ., di restituire le somme eventualmente incamerate a tale titolo (cfr. fra le tante, TAR Campania Salerno, sez. I, 31.01.2017, n. 179).
13. Ritiene il Collegio che questo principio possa essere applicato al caso di specie, e ciò nonostante questo sia caratterizzato dall’intervenuta stipulazione di una convenzione urbanistica.
14. In proposito va osservato che la Sezione –con sentenze 21.05.2013, n. 1337 e 11.05.2015, n. 1137– ha negato la possibilità per il soggetto attuatore di sottrarsi dall’obbligo di corresponsione del contributo di costruzione mediante atto di rinuncia alla convenzione urbanistica.
15. In particolare, nella sentenza n. 1337 del 2013, si è rilevato che
la rinuncia alla convenzione urbanistica costituisce in realtà un vero e proprio atto di recesso dall’accordo contrattuale in violazione dell’art. 1372, primo comma, cod. civ., e dell’art. 21-sexies della legge n. 241 del 1990. E una volta negata la possibilità di recesso unilaterale, ed una volta constatata quindi la perdurante vigenza della convenzione, si è escluso che il versamento del contributo di costruzione fosse divenuto privo di causa: il pagamento trovava invero la propria giustificazione nel fatto che la convenzione era ancora vigente e che quindi, non era venuta meno la possibilità per il privato di attuare l’intervento di trasformazione del territorio che ne costituiva oggetto.
16. L’impossibilità di rinuncia della convenzione urbanistica è stata poi ribadita nella sentenza n. 1137 del 2015 la quale, peraltro, per negare la possibilità di sottrarsi all’obbligo di realizzazione delle opere a scomputo oneri, ha potuto utilizzare un’altra argomentazione decisiva: l’intervenuta realizzazione delle opere di interesse privato.
17. Ritiene il Collegio che i principi affermati in queste sentenze non possano essere utilmente invocati nel caso di specie il quale si caratterizza per due elementi che lo diversificano da quelli in precedenza considerati: a) l’assoluta mancata realizzazione di ogni opera prevista dalla convenzione; b) l’impossibilità per il soggetto attuatore, stante l’intervenuta scadenza dei termini previsti dalla convenzione stessa, di realizzare le opere private di suo interesse.
18.
Ritiene il Collegio che l’assoluta assenza di attività di trasformazione del territorio e l’impossibile attuazione futura di questa attività non possano far altro che rendere privo di causa l’incameramento del contributo di costruzione.
19. A questo proposito si osserva che, a parere del Collegio,
il contributo di costruzione non può essere considerato alla stregua di un corrispettivo sinallagmatico correlato al trasferimento al privato del diritto di costruire, corrispettivo da ritenersi comunque dovuto anche se il privato stesso ometta poi di sfruttare il diritto acquisito: come noto, la Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 5 del 1980, ha chiarito che la possibilità di edificare non è altro che una facoltà che inerisce al diritto di proprietà; e la giurisprudenza ha dal canto suo chiarito che la funzione del contributo di costruzione è quella di far compartecipare colui che ponga in essere un’attività di trasformazione del territorio determinante incremento del carico urbanistico alle spese necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione (cfr., fra le tante, Consiglio di stato, sez. V, 20.04.2008, 2359).
21.
La convenzione urbanistica, pertanto, non costituisce autonoma fonte dell’obbligo di versamento del contributo di costruzione, trovando quest’ultimo la propria fonte direttamente nella legge la quale, come detto, lo pone in stretta correlazione all’attività di trasformazione del territorio in assenza della quale esso non è comunque dovuto.
La convenzione svolge dunque il ruolo, non già di fonte dell’obbligo, ma di fonte di regolazione dello stesso per quanto concerne il quantum ed il quomodo; sicché, come anticipato, una volta escluso che la trasformazione del territorio possa attuarsi, il pagamento del contributo di costruzione diviene privo di causa, quantunque esso sia previsto e disciplinato da una convenzione urbanistica.

A questo punto preme al Collegio precisare che a conclusioni diverse non è pervenuta la sentenza della Sezione n. 2172 del 14.11.2017, atteso che nella fattispecie ivi esaminata la parte privata aveva versato solo una parte del contributo di costruzione in adempimento di un obbligo che era correlato dalla convenzione, non solo al contributo di costruzione appunto, ma anche ad una caparra confirmatoria ivi prevista: in quel caso quindi –sebbene la convenzione non fosse più attuabile– la restituzione era impedita dal fatto che il pagamento fosse avvenuto anche a titolo di caparra confirmatoria.
22. In questo quadro si deve escludere che, nella fattispecie in esame, la convenzione stipulata fra la ricorrente ed il Comune di Novate Milanese possa giustificare il pagamento del contributo di costruzione nonostante l’impossibilità di attuare gli interventi di trasformazione del territorio ivi previsti.
23.
Neppure può ritenersi che il Comune di Novate Milanese possa pretendere di trattenere le somme versate dalla ricorrente stessa in ragione dell’avvenuto impiego delle medesime nel finanziamento di attività di pubblico interesse. Invero, l’art. 2033 cod. civ. non ammette deroghe all’obbligo di restituzione del pagamento indebitamente ricevuto, e ciò neanche quando la fonte dell’obbligazione, in origine esistente, venga meno in un secondo momento; salvo, per l’accipiens in buona fede, il beneficio di non dover corrispondere gli interessi se non a decorrere dal giorno della domanda, e salva la possibilità, per lo stesso Comune di Novate Milanese, di ottenere il risarcimento dei danni qualora dimostri che la parte privata si sia comportata in maniera sleale, ledendo un suo legittimo affidamento.
24. Da tutto quanto sopra consegue che il pagamento del contributo di costruzione effettuato dalla ricorrente deve ritenersi ormai privo di causa e che, pertanto, il Comune resistente ha l’obbligo di restituire alla ricorrente stessa la somma di euro 1.222.330,91.
25. Per quanto concerne invece gli interessi, stante la buona fede dell’Amministrazione, non può accogliersi la domanda della ricorrente di ottenerne il riconoscimento a decorrere dal giorno del pagamento. Gli interessi vanno infatti riconosciuti, per le ragioni anzidette, solo a decorrere dal giorno della domanda.
26. In conclusione, assorbite le altre censure in ragione della completa soddisfazione degli interessi della ricorrente, il ricorso deve essere accolto nei limiti sopra indicati (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.02.2018 n. 596 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: All’Adunanza plenaria alcune questioni connesse alla rideterminazione degli oneri concessori.
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Edilizia – Oneri di costruzione – Rideterminazione – Espressione di potere autoritativo o facoltà conseguente al rilascio del titolo edilizio e possibile legittimo affidamento del privato – Contrasto giurisprudenziale – Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
Stante il contrasto giurisprudenziale, sono rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni:
   a) se la rideterminazione degli oneri concessori in occasione del rilascio del titolo edilizio ai sensi dell’art. 16, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 sia estrinsecazione di potere autoritativo da parte dell’amministrazione comunale, nell’ambito dell’autotutela pubblicistica soggetta ai presupposti e requisiti dell’art. 21-novies, l. 07.08.1990, n. 241, ovvero sia espressione di una sua legittima facoltà, nell’ambito del rapporto paritetico di natura creditizia, conseguente al rilascio del titolo edilizio a carattere oneroso, sottoposto nelle sue forme di esercizio al termine prescrizionale ordinario;
   b) ove dovesse prevalere la prima opzione interpretativa, se la rideterminazione dei suddetti oneri sia da ascrivere all’ambito dei rapporti di diritto pubblico quali che siano le ragioni che l’abbiano ispirata, ovvero solo nei casi in cui la stessa dipenda dalla applicazione di parametri o coefficienti determinativi diversi (originari o sopravvenuti) da quelli in precedenza applicati, con esclusione quindi dei casi di errore materiale di calcolo delle somme dovute sulla base dei medesimi parametri normativi;
   c) in alternativa ed a prescindere dall’inquadramento giuridico della fattispecie secondo le richiamate categorie, e quale che sia la natura giuridica da riconnettere al provvedimento rideterminativo degli oneri concessori, se vi sia spazio, ed in quali limiti, perché possa trovare applicazione nella fattispecie in esame il principio del legittimo affidamento del privato, da ricostruire vuoi sulla base della disciplina pubblicistica dell’autotutela, vuoi su quella privatistica della lealtà e della buona fede nell’esecuzione delle prestazioni contrattuali, ovvero sulla base dei principi desumibili dai limiti posti dall’ordinamento civile per l’annullamento del contratto per errore o per altra causa (1).

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   (1) Ha chiarito il C.g.a. che la questione involge le forme, le condizioni ed i tempi attraverso cui un’amministrazione comunale può rideterminare (in malam partem) gli oneri concessori dovuti dal soggetto beneficiario di un titolo edilizio dopo che questi abbia già ritirato il provvedimento assentivo (e magari anche iniziato e completato i lavori) ed abbia avuto contezza in quella sede o, ancor prima, degli importi determinati dall’Amministrazione quale contributo commisurato alla incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione ed abbia, in definitiva, sulla base di quei dati, fatto affidamento su un determinato preventivo di spesa del programmato intervento edilizio.
Ad avviso del Consiglio di giustizia amministrativa siciliana è necessario prendere posizione dalla questione di carattere generale, e cioè se la rideterminazione degli oneri concessori sia attività sussumibile nell’autotutela amministrativa ovvero sia inquadrabile nell’ambito di un normale rapporto paritetico di debito-credito, come tale astretta alle regole ed ai rimedi di diritto comune.
Su tale questione non si registrano posizioni omogenee nella giurisprudenza amministrativa.
Ed invero, secondo una prima tesi dello stesso C.g.a. (nn. 64, 188, 244, 373, 422, 790 tutte del 2007) la determinazione del contributo darebbe luogo ad un rapporto paritetico che, seppur azionabile da ambo le parti nel rispetto del termine prescrizionale ordinario di dieci anni, si cristallizzerebbe nel quantum al momento del rilascio del titolo edilizio, nel senso che lo stesso non sarebbe suscettibile di modifiche successive (se non nei casi di manifesto errore di calcolo) in quanto, in applicazione dei principi desumibili dalla disciplina dei contratti, non darebbe mai luogo ad un errore riconoscibile (donde l’intangibilità pressoché assoluta della originaria determinazione amministrativa).
Secondo tale approccio ermeneutico, non vi sarebbe ragione per l’applicazione dell’istituto dell’autotutela amministrativa per la eventuale rideterminazione del contributo (proprio perché il rapporto inter partes è di natura paritetica) né, come si diceva, vi sarebbe spazio per una modifica successiva per errore perché questo, in quanto maturato nella sfera riservata dell’amministrazione, sarebbe per definizione non riconoscibile e quindi irrilevante, con la conseguenza che si dovrebbe sempre salvaguardare la tutela dell’affidamento della parte privata.
Altra tesi, fatta propria in alcune sentenze della quarta sezione del Consiglio di Stato (27.09.2017, n. 4515; id. 12.06.2017, n. 2821), pur muovendo da analoga impostazione sulla natura paritetica del rapporto, giunge tuttavia a conclusioni opposte. Si è osservato, infatti, che proprio perché si tratta di un rapporto di debito-credito di natura paritetica, soggetto a prescrizione decennale, la rettifica è sempre possibile sia in bonam che in malam partem, entro il limite della prescrizione del diritto reciproco delle parti alla correzione delle esatte somme dovute, perché per un verso il procedimento è svincolato dal rispetto delle condizioni legali di esercizio dell’autotutela amministrativa (in particolare, di quelle previste all’art. 21-novies, l. n. 241 del 1990), per altro verso la rideterminazione del contributo dovuto secondo rigidi parametri regolamentari o tabellari non soltanto è possibile, ma costituisce atto dovuto, residuando altrimenti un indebito oggettivo, inammissibile nei rapporti di diritto amministrativo.
Entrambe le tesi muovono dal rilievo, ampiamente diffuso nella giurisprudenza amministrativa, secondo cui le controversie in tema di determinazione della misura dei contributi edilizi concernono l'accertamento di diritti soggettivi che traggono origine direttamente da fonti normative, per cui sono proponibili, a prescindere dall'impugnazione di provvedimenti dell'amministrazione, nel termine di prescrizione (Cons. St., sez. IV, 20.11.2012, n. 6033; id., sez. V, 04.05.1992, n. 360); ribadiscono che si tratta di rapporto creditorio paritetico, ma pervengono, come detto, a conclusioni assai diversificate sul piano della tutela da apprestare alla parte privata che abbia subito una rideterminazione in peius.
Una posizione diversa e innovativa rispetto ai riferiti orientamenti giurisprudenziali, quantomeno in ordine alla impostazione teorica delle questioni, si rinviene poi in altra sentenza della quarta sezione del Consiglio di Stato (n. 5402 del 2016). Qui il rapporto nascente dalla determinazione del contributo (nel caso esaminato, di costruzione) è attratto nell’orbita del regime di diritto pubblico, in quanto qualificato prestazione patrimoniale imposta di carattere non tributario, con conseguente applicabilità, in astratto, delle regole dell’autotutela amministrativa.
E tuttavia, sul piano della tutela dell’affidamento della parte privata rispetto ad una delibera di giunta comunale di rideterminazione del contributo di costruzione (sia pur di adeguamento alla soglia minima del 5% fissata dalla legge nazionale all’art. 16, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001), si afferma che le garanzie partecipative (in particolare, art. 10-bis, l. n. 241 del 1990) devono essere pur sempre coordinate con le previsioni dell’art. 21-octies, l. cit. e con le esigenze di finalizzazione del procedimento con l’applicazione della tariffa dovuta. Si richiama al proposito la giurisprudenza del Consiglio di Stato sul recupero di somme indebitamente corrisposte dall’amministrazione (Cons. St., sez. V, n. 5863 del 2015), fattispecie che viene assimilata a quella di causa, relativa a somme dovute dal privato e non riscosse dall’ente comunale.
Tale decisione ha segnato un cambio di passo rispetto ai precedenti arresti della medesima sezione in ordine all’inquadramento generale nei sensi anzidetti dell’istituto del contributo previsto dall’art. 16 cit.
Ricordate le diverse tesi emerse sull’argomento, il C.g.a. ha affermato che l’ascrizione all’alveo dei rapporti di diritto pubblico del contributo in questione imporrebbe quindi, in via consequenziale, l’applicazione del regime proprio dell’autotutela amministrativa all’attività di rideterminazione delle somme dovute a tal titolo dalla parte privata, quantomeno nei casi in cui non si tratti di por mano ad un semplice errore materiale di calcolo desumibile dagli atti del procedimento ovvero non si tratti di rideterminazione imposta dall’adozione di un nuovo provvedimento abilitativo edilizio, anche semplicemente per effetto della intervenuta decadenza temporale del primo (ma qui si resterebbe in ogni caso fuori dall’ambito dell’autotutela) (CGARS, ordinanza 27.03.2018 n. 175 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
8. Orbene, l’esame della questione nel merito impone uno sforzo ermeneutico ricostruttivo necessario per la corretta qualificazione giuridica della fattispecie, dovendosi stabilire se debba qui farsi applicazione di istituti di stretta matrice pubblicistica (ed in particolare dell’autotutela e delle sue modalità di esercizio) ovvero degli stessi frammisti ad istituti di diritto privato: con possibili esiti diversificati delle questioni controverse, a seconda che si ritenga applicabile l’uno o l’altro strumentario giuridico.
8.1. Più in particolare,
qui si tratta della dibattuta questione involgente le forme, le condizioni ed i tempi attraverso cui un’amministrazione comunale può rideterminare (in malam partem) gli oneri concessori dovuti dal soggetto beneficiario di un titolo edilizio dopo che questi abbia già ritirato il provvedimento assentivo (e magari anche iniziato e completato i lavori) ed abbia avuto contezza in quella sede o, ancor prima, degli importi determinati dalla amministrazione quale contributo commisurato alla incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione: ed abbia, in definitiva, sulla base di quei dati, fatto affidamento su un determinato preventivo di spesa del programmato intervento edilizio.
9. E’ bene subito precisare che
i casi qui in esame esulano dalle ipotesi del mero errore di calcolo degli oneri concessori desumibile già dall’iniziale atto determinativo degli importi dovuti.
Qui è accaduto, in entrambe le fattispecie di causa, che il Comune di Cinisi abbia dapprincipio fissato l’importo dovuto dal signor Pa. e dalla ditta Di Sa. Fa. s.n.c. a titolo di oneri di urbanizzazione, nell’ambito rispettivamente della concessione edilizia n. 3 del 22.10.2002 (e della successiva variante n. 2 del 28.03.2003) nonché della concessione edilizia n. 2 del 22.10.2002 (e della successiva variante n. 1 del 28.03.2003).
Indi, a distanza di oltre quattro anni dalla data di tali atti, ha provveduto a rideterminare (con le già richiamate note n. 9004 e 9005 del 07.05.2007) gli importi dovuti a tal titolo dalle parti qui appellate, incrementandoli in misura corrispondente a circa quattro volte gli importi originari (portandoli ad euro 167.223,47 per il Pa. ed a euro 181.590,54 per la società Di. s.r.l., già Di sa. Fa. s.n.c.).
A base di tali rideterminazioni il Comune ha addotto l’erronea determinazione originaria dei rispettivi contributi, effettuata sulla base della tariffa più bassa (quella da applicare sulla superficie dell’insediamento e non dell’intero lotto) e su una superficie minore (quella occupata dagli edifici, con esclusione degli spazi di pertinenza esterni). In sostanza, l’errore sarebbe stato duplice, perché sarebbe stata applicata un’unica tariffa (quella più bassa) ad una superficie inferiore a quella effettiva, invece che le previste due tariffe in relazione ai distinti parametri della superficie lorda dei fabbricati e della superficie complessiva dell’insediamento.
Si tratta dunque di errore di impostazione dei criteri di calcolo, e non di mero erroneo svolgimento del calcolo sulla base di criteri corretti.
10. La difesa del Comune di Cinisi assume che l’errore sarebbe stato indotto dal tecnico di fiducia delle parti private, che avrebbe fornito dati fuorvianti sulla cui base sarebbe maturato l’errore sulla originaria determinazione dei contributi. Inoltre, il Comune sostiene che la fattispecie in esame sarebbe ben distinta da quelle oggetto delle decisioni di questo CGA risalenti al 2007 (v. oltre al par. 13) di accoglimento dei ricorsi delle parti private, in ragione del fatto che:
   - nelle vicende qui in esame la originaria determinazione comunale sarebbe avvenuta con la clausola salvo conguaglio, onde non vi sarebbe un affidamento della parte privata meritevole di tutela;
   - l’errore nel calcolo del contributo sarebbe evidente e riconoscibile;
   - non vi sarebbe stato adempimento integrale dell’obbligazione di pagamento degli oneri determinati con il primo calcolo;
   - la stessa parte avrebbe richiesto il riesame della quantificazione ritenendo di essere esente, onde la situazione giuridica avrebbe dovuto ritenersi in fieri e non esaurita, sì da far ritenere legittima la rettifica operata dalla amministrazione comunale nel superiore interesse pubblico alla corretta contribuzione dei cittadini alle opere di urbanizzazione.
11. Osserva il Collegio che, al di là di tutti questi profili e degli altri che le cause pongono e che indubbiamente dovranno essere affrontati e decisi con il merito, se del caso anche per i profili quantificatori vertendo le cause in una materia affidata alla giurisdizione esclusiva del g.a. (ai sensi dell’art. 133, lett. f), c.p.a.), per la definizione degli appelli sia tuttavia ancor prima necessario prendere posizione sulla cennata questione di carattere generale, e cioè se la rideterminazione degli oneri concessori sia attività sussumibile nell’autotutela amministrativa ovvero sia inquadrabile nell’ambito di un normale rapporto paritetico di debito-credito, come tale astretta alle regole ed ai rimedi di diritto comune.
12. Ora, poiché su tale questione non si registrano posizioni omogenee nella giurisprudenza amministrativa, il Collegio ritiene di deferirla all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ricorrendo l’ipotesi prevista dall’art. 99 c.p.a., atteso che il suindicato punto di diritto ha dato luogo a contrasti giurisprudenziali che non appare utile alimentare ulteriormente, ma piuttosto dirimere, affidando la risoluzione della questione al giudice della nomofilachia.
13. In sintesi,
le interpretazioni che sono state sostenute in giurisprudenza sulla natura del contributo dovuto in occasione del rilascio del titolo edilizio ai sensi dell’art. 16 d.P.R. n. 380 del 2001 e sulla possibilità di rideterminarlo possono essere così ricordate.
13.1. Secondo una prima tesi di questo CGA (cfr. sentenze CGARS nn. 64, 188, 244, 373, 422, 790 tutte del 2007) la determinazione del contributo darebbe luogo ad un rapporto paritetico che, seppur azionabile da ambo le parti nel rispetto del termine prescrizionale ordinario di dieci anni, si cristallizzerebbe nel quantum al momento del rilascio del titolo edilizio, nel senso che lo stesso non sarebbe suscettibile di modifiche successive (se non nei casi di manifesto errore di calcolo) in quanto, in applicazione dei principi desumibili dalla disciplina dei contratti, non darebbe mai luogo ad un errore riconoscibile (donde l’intangibilità pressoché assoluta della originaria determinazione amministrativa).
Secondo tale approccio ermeneutico, non vi sarebbe ragione per l’applicazione dell’istituto dell’autotutela amministrativa per la eventuale rideterminazione del contributo (proprio perché il rapporto inter partes è di natura paritetica) né, come si diceva, vi sarebbe spazio per una modifica successiva per errore perché questo, in quanto maturato nella sfera riservata dell’amministrazione, sarebbe per definizione non riconoscibile e quindi irrilevante, con la conseguenza che si dovrebbe sempre salvaguardare la tutela dell’affidamento della parte privata.
13.2. Altra tesi fatta propria in alcune sentenze della quarta sezione del Consiglio di Stato (cfr. in particolare, Cons. St., IV, 27.09.2017 n. 4515; Cons. St., IV, 12.06.2017 n. 2821), pur muovendo da analoga impostazione sulla natura paritetica del rapporto, giunge tuttavia a conclusioni opposte.
Si è osservato, infatti, che proprio perché si tratta di un rapporto di debito-credito di natura paritetica, soggetto a prescrizione decennale, la rettifica è sempre possibile sia in bonam che in malam partem, entro il limite della prescrizione del diritto reciproco delle parti alla correzione delle esatte somme dovute, perché per un verso il procedimento è svincolato dal rispetto delle condizioni legali di esercizio dell’autotutela amministrativa (in particolare, di quelle previste all’art. 21-novies l. n. 241 del 1990), per altro verso la rideterminazione del contributo dovuto secondo rigidi parametri regolamentari o tabellari non soltanto è possibile, ma costituisce atto dovuto, residuando altrimenti un indebito oggettivo, inammissibile nei rapporti di diritto amministrativo.
Più in particolare, nella sentenza n. 2821 del 2017 si afferma che, in sostanza, l’applicazione di una tariffa diversa da quella corretta altro non è che un errore di calcolo della tariffa, sicché vi sarebbe sempre spazio per la rettifica, purché si tratti della tariffa vigente all’epoca del rilascio del titolo edilizio (con esclusione quindi di ogni forma di applicazione di regimi tariffari in via retroattiva).
13.3. Entrambe le tesi muovono dal rilievo, ampiamente diffuso nella giurisprudenza amministrativa, secondo cui le controversie in tema di determinazione della misura dei contributi edilizi concernono l'accertamento di diritti soggettivi che traggono origine direttamente da fonti normative, per cui sono proponibili, a prescindere dall'impugnazione di provvedimenti dell'amministrazione, nel termine di prescrizione (Cons. St., sez. IV, 20.11.2012 n. 6033; Id., sez. V, 04.05.1992, n. 360); ribadiscono che si tratta di rapporto creditorio paritetico, ma pervengono, come detto, a conclusioni assai diversificate sul piano della tutela da apprestare alla parte privata che, come nella specie, abbia subito una rideterminazione in peius.
13.4. Una posizione diversa e innovativa rispetto ai riferiti orientamenti giurisprudenziali, quantomeno in ordine alla impostazione teorica delle questioni, si rinviene poi in altra sentenza della quarta sezione del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., IV, n. 5402 del 2016).
Qui il rapporto nascente dalla determinazione del contributo (nel caso esaminato, di costruzione) è attratto nell’orbita del regime di diritto pubblico, in quanto qualificato prestazione patrimoniale imposta di carattere non tributario, con conseguente applicabilità, in astratto, delle regole dell’autotutela amministrativa.
E tuttavia, sul piano della tutela dell’affidamento della parte privata rispetto ad una delibera di giunta comunale di rideterminazione del contributo di costruzione (sia pur di adeguamento alla soglia minima del 5% fissata dalla legge nazionale all’art. 16, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001), si afferma che le garanzie partecipative (in particolare, art. 10-bis l. 241 del 1990) devono essere pur sempre coordinate con le previsioni dell’art. 21-octies l. cit. e con le esigenze di finalizzazione del procedimento con l’applicazione della tariffa dovuta.
Si richiama al proposito la giurisprudenza del Consiglio di Stato sul recupero di somme indebitamente corrisposte dalla amministrazione (Cons. St., V, n. 5863/2015), fattispecie che viene assimilata a quella di causa, relativa a somme dovute dal privato e non riscosse dall’ente comunale.
Al di là del contenuto negativo delle statuizioni sui singoli capi di domanda, la decisione si segnala per il cambio di passo rispetto ai precedenti arresti della medesima sezione in ordine all’inquadramento generale nei sensi anzidetti dell’istituto del contributo previsto dall’art. 16 cit.
13.5. In tale contesto, non potrebbe non farsi menzione di quanto affermato dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 24 del 2016. In tale decisione, resa sulla diversa questione della applicabilità delle sanzioni per ritardo nel pagamento dei contributi, pur in presenza di una polizza fideiussoria a garanzia del debito del contributo ammesso a dilazione, si è tra l’altro affermato –per quel che qui rileva– che il contributo dovuto dal privato in occasione del ritiro di un permesso di costruire, quale prestazione patrimoniale imposta funzionale a remunerare l’esecuzione di opere pubbliche, si colloca pacificamente nell’alveo dei rapporti di diritto pubblico.
Si è in particolare affermato che il contributo di costruzione dovuto dal soggetto che intraprenda un’iniziativa edificatoria rappresenta una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione e ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario. Per tale motivo, le prestazioni da adempiere da parte dell’Amministrazione comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica, con la conseguenza che il soggetto obbligato è tenuto a corrispondere il contributo di costruzione nel rispetto dei termini stabiliti.
Il suo mancato pagamento legittima quindi l’Amministrazione ad esercitare il suo potere-dovere in ordine all’applicazione di sanzioni pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del ritardo (ai sensi dell’art. 42 d.P.R. n. 380 del 2001) e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme vigenti in materia di riscossione coattiva delle entrate.
In effetti, le conclusioni della Plenaria meritano condivisione, quantomeno se restano ferme le conclusioni sulla natura di prestazione patrimoniale imposta del contributo di che trattasi e sul suo carattere non sinallagmatico rispetto agli interventi di urbanizzazione che mettono capo all’ente pubblico, secondo un livello di programmazione temporale e qualitativo sul quale il privato non avrebbe titolo per interferire.
13.6. L’ascrizione all’alveo dei rapporti di diritto pubblico del contributo in questione imporrebbe quindi, in via consequenziale, l’applicazione del regime proprio dell’autotutela amministrativa all’attività di rideterminazione delle somme dovute a tal titolo dalla parte privata, quantomeno nei casi in cui non si tratti di por mano ad un semplice errore materiale di calcolo desumibile dagli atti del procedimento ovvero non si tratti di rideterminazione imposta dall’adozione di un nuovo provvedimento abilitativo edilizio, anche semplicemente per effetto della intervenuta decadenza temporale del primo (ma qui si resterebbe in ogni caso fuori dall’ambito dell’autotutela).
Se il Collegio potesse esprimere una preferenza rispetto alle suindicate opzioni ermeneutiche, osserverebbe che la soluzione da ultimo proposta, oltre a recuperare coerenza sul piano dogmatico con il sistema giuridico di riferimento, si rivelerebbe più appropriata anche in ordine al miglior grado di contemperamento delle esigenze pubblicistiche sottese alla corretta determinazione del contributo dovuto (e alla salvaguardia degli interessi erariali), anche in sede di emenda di precedenti errori di quantificazione, e le esigenze di tutela della parte privata riguardo all’affidamento riposto nella originaria determinazione dell’ente.
A tale ultimo proposito, infatti, soccorrerebbero gli istituti posti a presidio delle garanzie partecipative previsti per l’attività amministrativa di secondo grado, oltre che naturalmente il rispetto delle stesse condizioni legali di legittimo esercizio dell’autotutela, avuto riguardo ai tempi, alle forme ed ai contenuti motivazionali dell’atto espressivo dello ius poenitendi (cfr., in particolare, artt. 21-quinquies, octies e novies della l. n. 241 del 1990).
14.
Stante il contrasto giurisprudenziale in atto sulle suindicate questioni si richiede, ai sensi dell'art. 99, co. 1, c.p.a, l’intervento dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, cui vanno rimessi gli atti di causa, al fine della definizione delle seguenti questioni di diritto:
   a)
se la rideterminazione degli oneri concessori sia estrinsecazione di potere autoritativo da parte della amministrazione comunale, nell’ambito dell’autotutela pubblicistica soggetta ai presupposti e requisiti dell’art. 21-novies, l. n. 241/1990, ovvero sia espressione di una sua legittima facoltà, nell’ambito del rapporto paritetico di natura creditizia, conseguente al rilascio del titolo edilizio a carattere oneroso, sottoposto nelle sue forme di esercizio al termine prescrizionale ordinario;
   b)
ove dovesse prevalere la prima opzione interpretativa, se la rideterminazione dei suddetti oneri sia da ascrivere all’ambito dei rapporti di diritto pubblico quali che siano le ragioni che l’abbiano ispirata, ovvero solo nei casi in cui la stessa dipenda dalla applicazione di parametri o coefficienti determinativi diversi (originari o sopravvenuti) da quelli in precedenza applicati, con esclusione quindi dei casi di errore materiale di calcolo delle somme dovute sulla base dei medesimi parametri normativi;
   c)
in alternativa ed a prescindere dall’inquadramento giuridico della fattispecie secondo le richiamate categorie, e quale che sia la natura giuridica da riconnettere al provvedimento rideterminativo degli oneri concessori, se vi sia spazio, ed in quali limiti, perché possa trovare applicazione nella fattispecie in esame il principio del legittimo affidamento del privato, da ricostruire vuoi sulla base della disciplina pubblicistica dell’autotutela, vuoi su quella privatistica della lealtà e della buona fede nell’esecuzione delle prestazioni contrattuali, ovvero sulla base dei principi desumibili dai limiti posti dall’ordinamento civile per l’annullamento del contratto per errore o per altra causa.
15. Tutte le altre questioni che la causa pone e le spese di lite saranno definite con la sentenza definitiva.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, non definitivamente pronunciando sui ricorsi in epigrafe, ne dispone, previa loro riunione, il deferimento all'adunanza plenaria del Consiglio di Stato limitatamente al motivo degli appelli incidentali indicato in motivazione. 

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, febbraio 2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: Guida all'applicazione del Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali. Nuovo Regolamento Ue sulla privacy. On-line l'aggiornamento 2018 della Guida applicativa.
Il Garante per la protezione dei dati personali mette a disposizione l'aggiornamento febbraio 2018 della Guida all'applicazione del Regolamento UE 2016/679 in materia di protezione dei dati personali.
Il documento -che traccia un quadro generale delle principali innovazioni introdotte dal Regolamento e fornisce indicazioni utili sulle prassi da seguire e gli adempimenti da attuare per dare corretta applicazione alla normativa- è stato in parte modificato e integrato alla luce dell'evoluzione della riflessione a livello nazionale ed europeo. Il testo potrà subire ulteriori aggiornamenti, allo scopo di offrire sempre nuovi contenuti e garantire un aggiornamento costante.

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La Guida intende offrire un panorama delle principali problematiche che imprese e soggetti pubblici dovranno tenere presenti in vista della piena applicazione del regolamento, prevista il 25.05.2018.
Attraverso raccomandazioni specifiche vengono suggerite alcune azioni che possono essere intraprese sin d’ora perché fondate su disposizioni precise del regolamento che non lasciano spazi a interventi del legislatore nazionale (come invece avviene per altre norme del regolamento, in particolare quelle che disciplinano i trattamenti per finalità di interesse pubblico ovvero in ottemperanza a obblighi di legge).
Vengono, inoltre, segnalate alcune delle principali novità introdotte dal regolamento rispetto alle quali sono suggeriti possibili approcci.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 14 del 03.04.2018:
XI^ Legislatura - Nomina dei componenti della Giunta regionale (decreto P.G.R. 29.03.2018 n. 1);
XI^ Legislatura - Nomina dei sottosegretari (
decreto P.G.R. 29.03.2018 n. 2).
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Si legga anche: Nuova Giunta, Fontana: ecco i nomi di assessori e sottosegretari (29.03.2018 - link a www.regione.lombardia.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 13 del 30.03.2018, "Modalità e criteri per la valutazione della non occasionalità dell’attività svolta in materia di acustica applicata ai fini della verifica del requisito di cui all’articolo 22, comma 2, lettera a) del decreto legislativo 17.02.2017, n. 42" (decreto D.U.O. 26.03.2018 n. 4201).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 13 del 30.03.2018, "Ricorso per il Presidente del Consiglio dei Ministri n. 13 del 12.02.2018 - Pubblicazione disposta dal Presidente della Corte costituzionale a norma dell’art. 20 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale" (Corte Costituzionale, Atto di Promovimento 12.02.2018 n. 13).
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RICORSO ex art. 127 Cost. del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, e domiciliato per legge CONTRO la Regione Lombardia, in persona del Presidente in carica, con sede a Milano, Piazza Città di Lombardia, 1 per la declaratoria della illegittimità costituzionale, giusta deliberazione del Consiglio dei Ministri assunta nella seduta del giorno 08.02.2018, degli gli artt. 2, comma 1, lett. b) e 10, comma 1, lett. d), n. 9 della legge della Regione Lombardia 12.12.2017, n. 36 pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione Lombardia n. 50 del 15.12.2017.
Nello specifico:

● Art. 2 (Modifiche all’articolo 13 della l.r. 1/2012 in tema di conferenza di servizi)
   1. All'articolo 13 della legge regionale 01.02.2012, n. 1 (Riordino normativo in materia di procedimento amministrativo, diritto di accesso ai documenti amministrativi, semplificazione amministrativa, potere sostitutivo e potestà sanzionatoria) sono apportate le seguenti modifiche:
      (omissis)
      b) dopo il comma 1 sono inseriti i seguenti:
   '
1-bis. Il rappresentante unico della Regione di cui all'articolo 14-ter, comma 3, della legge 241/1990è individuato, ai sensi del comma 5 dello stesso articolo 14-ter, tra i dirigenti delle direzioni regionali competenti per le materie interessate dall'oggetto della conferenza di servizi, ed è designato con decreto del Segretario generale della Presidenza della Giunta regionale, sulla base di criteri definiti con deliberazione della Giunta regionale, con la quale sono indicate altresì le modalità per consentire l'espressione, da parte del rappresentante unico, della posizione univoca e vincolante regionale in conferenza di servizi. Sono fatte salve le disposizioni sull'individuazione del rappresentante unico della Regione di cui all'articolo 2, comma 7-sexies, della legge regionale 02.02.2010, n. 5 (Norme in materia di valutazione di impatto ambientale), per i progetti assoggettati a valutazione di impatto ambientale di competenza regionale.
   1-ter. Nel caso in cui la partecipazione della Regione alla conferenza di servizi comporti l'espressione di un unico atto di assenso, comunque denominato, il rappresentante unico della Regione è individuato nel dirigente regionale competente per materia, senza necessità di previa designazione da parte del Segretario generale di cui al comma 1-bis.
   1-quater. Qualora la determinazione da assumere in conferenza di servizi presupponga o implichi anche l'adozione di un provvedimento di competenza di un organo di indirizzo politico, tale provvedimento è acquisito prima della convocazione della conferenza di servizi o successivamente alla determinazione motivata di conclusione della stessa conferenza. In caso di acquisizione successiva del provvedimento di cui al precedente periodo, l'efficacia della determinazione di conclusione della conferenza di servizi è sospesa nelle more della formalizzazione dello stesso provvedimento.
   1-quinquies. Gli enti del sistema regionale di cui agli allegati A1 e A2 della l.r. 30/2006, designano i propri rappresentanti unici in conferenza di servizi, secondo le rispettive modalità organizzative. Nei casi in cui gli enti del sistema regionale operino come amministrazioni riconducibili alla Regione ai sensi dell'articolo 14-ter, comma 5, della legge 241/1990, si applicano le disposizioni di cui ai commi da 1-bis a 1-quater.
   1-sexies. Spetta al rappresentante unico della Regione proporre opposizione, previa deliberazione della Giunta regionale, al Presidente del Consiglio dei Ministri ai sensi dell'articolo 14-quinquies, comma 2, della legge 241/1990.
   1-septies. In caso di conferenza di servizi riguardante un procedimento di cui al comma 1, soggetto ad autorizzazione unica ambientale, si applicano i termini e le modalità previsti dal decreto del Presidente della Repubblica 13.03.2013, n. 59 (Regolamento recante la disciplina dell'autorizzazione unica ambientale e la semplificazione di adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti sulle piccole e medie imprese e sugli impianti non soggetti ad autorizzazione integrata ambientale, a norma dell'articolo 23 del decreto-legge 09.02.2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 04.04.2012, n. 35).
   1-octies. Con deliberazione della Giunta regionale sono definite le modalità per la gestione telematica delle conferenze di servizi per i procedimenti di cui al comma 1.
';

Art. 10 (Modifiche alla l.r. 5/2010)
   1. Alla legge regionale 02.02.2010, n. 5 (Norme in materia di valutazione di impatto ambientale) sono apportate le seguenti modifiche:
      (omissis)
     
d) all'articolo 4 sono apportate le seguenti modifiche:
         (omissis)
         9) dopo il comma 6 sono aggiunti i seguenti:
   '
6-bis. Qualora in sede di conferenza di servizi emergano, in base alla normativa vigente, posizioni ritenute non superabili dovute alla sussistenza di motivi ostativi all'approvazione o anche all'autorizzazione necessaria alla realizzazione e all'esercizio del progetto, non rilevati ai sensi del comma 6, il verbale della conferenza produce gli effetti della comunicazione di cui all'articolo 10 bis della legge 241/1990.
   6-ter. Qualora per l'approvazione degli interventi in progetto o per l'espressione di atti di assenso, comunque denominati, la determinazione da assumere in conferenza di servizi presupponga o implichi anche l'adozione di un provvedimento di competenza di un organo di indirizzo politico, si applica quanto previsto all'articolo 13, comma 1-quater, della l.r. 1/2012.
';

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 13 del 29.03.2018, "Secondo aggiornamento 2018 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (deliberazione G.R. 22.03.2018 n. 4135).

PATRIMONIO: G.U. 29.03.2018 n. 74 "Applicazione della normativa antincendio agli edifici e ai locali adibiti a scuole di qualsiasi tipo, ordine e grado, nonché agli edifici e ai locali adibiti ad asili nido" (Ministero dell'Interno, decreto 21.03.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 17.03.2018 n. 64 "Individuazione degli ostacoli tecnici o degli oneri economici eccessivi e non proporzionali alle finalità dell’obbligo di presenza di più tipologie di carburanti negli impianti di distribuzione di carburanti" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 05.03.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 16.03.2018 n. 63 "Regolamento di organizzazione degli uffici amministrativi della giustizia amministrativa che sostituisce integralmente il decreto del Presidente del Consiglio di Stato in data 15.02.2005" (Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, decreto presidenziale 29.01.2018).
---------------
1. Finalità e àmbito di applicazione.
   1. Le disposizioni del presente regolamento disciplinano l’organizzazione ed il funzionamento degli uffici centrali della giustizia amministrativa e delle strutture amministrative del Consiglio di Stato, dei tribunali amministrativi regionali, delle sezioni staccate e degli altri organi di giustizia amministrativa. (...continua).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 14.03.2018 n. 61 "Regolamento a norma dell’articolo 57 del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, recante l’individuazione delle modalità di attuazione dei principi del Codice in materia di protezione dei dati personali relativamente al trattamento dei dati effettuato, per le finalità di polizia, da organi, uffici e comandi di polizia" (D.P.R. 15.01.2018 n. 15).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 14.03.2018, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 28.02.2018, in attuazione della legge 26.10.1995, n. 447 e del decreto legislativo 17.02.2017, n. 42" (comunicato regionale 09.03.2018 n. 33).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: PRIMA APPLICAZIONE DEL DM 17.01.2018, RIPORTANTE L’AGGIORNAMENTO DELLE “NORME TECNICHE PER LE COSTRUZIONI”, ALLE PROCEDURE AUTORIZZATIVE E DI QUALIFICAZIONE DEL SERVIZIO TECNICO CENTRALE (Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, Servizio Tecnico Centrale, nota 21.03.2018 n. 3187 di prot.).

APPALTI: OGGETTO: Decreto ministeriale 18.01.2008, n. 40, concernente “Modalità di attuazione dell’articolo 48-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 602, recante disposizioni in materia di pagamenti da parte delle Pubbliche Amministrazioni” – Chiarimenti aggiuntivi (MEF-RGS, circolare 21.03.2018 n. 13).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: I. Lagrotta, Il rito «super accelerato» in materia di appalti tra profili di (in)compatibilità costituzionale e conformità alla normativa comunitaria (28.03.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: Premesse – 1. I presupposti: le esigenze dichiarate – 2. I due riti in materia di appalti: accelerato e nuovo rito super accelerato – 3. Il nuovo rito per la definizione dei giudizi di (immediata) impugnazione dei provvedimenti di esclusione e di ammissione alle procedure – 4. La pubblicazione sul profilo del committente – 5. Motivi aggiunti nel rito appalti e rito applicabile in caso di cumulo di domande di annullamento ex commi 6 e 6-bis dell’art. 120 c.p.a. – 6. Rito super accelerato e ricorso incidentale: limiti – 7. Il nuovo rito c.d. super accelerato: termini processuali – 8. Rito super accelerato ed interesse al ricorso – 9. Permanenza dell’interesse alla decisione del ricorso ex art. 120, comma 2-bis c.p.a., dopo che il ricorrente si sia aggiudicato la gara – 10. Rito su per accelerato e misure cautelari – 11. Appellabilità delle pronunce rese all’esito del giudizio governato dal rito super accelerato – 12. Profili di (in)compatibilità costituzionale – 13. Profili di conformità alla normativa comunitaria – 14. Conclusioni.

ENTI LOCALI: M. F. Serra, Il ‘lavoro’ gratuito sportivo: una questione ancora aperta (28.03.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa. – 2. L’art. 41 Cost. – 3. Utilità sociale, volontarismo e gratuità. – 4. Conclusioni.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Incontro formativo del 23.03.2018, tenutosi a Varese, dal titolo: “Modalità di attuazione degli interventi di trasformazione previsti dallo strumento urbanistico: interventi edificatori privati e connesse opere di urbanizzazione. Procedure e profili di tutela”:
  
E. Boscolo, Dallo STANDARD URBANISTICO alle DOTAZIONI TERRITORIALI (23.03.2018 - tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
  
M. C. Colombo, Modalità di attuazione degli interventi di trasformazione previsti dallo strumento urbanistico: interventi edificatori privati e connesse opere di urbanizzazione (23.03.2018 - tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).

SICUREZZA LAVORO: G. Catalisano, USO FOTOCOPIATRICE, DANNO ALLA SALUTE E RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO (21.03.2018 - tratto da www.ambientediritto.it).
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Sommario: 1. Uso della fotocopiatrice e lesione del diritto alla salute – 2. La responsabilità ex art. 2087 c.c. – 3. Considerazioni conclusive.

EDILIZIA PRIVATA: L. B. Molinaro, CONDONO EDILIZIO E ACCERTAMENTO DI COMPATIBILITÀ PAESAGGISTICA: Dubbi e certezze in ordine alla primazia dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 sulla disciplina previgente e alla applicabilità, in materia, del silenzio-assenso di nuovo conio (art. 17-bis della legge n. 241 del 1990) (20.03.2018 - link a www.ambientediritto.it).
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SOMMARIO: 1. Il condono edilizio e la primazia dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 sulla disciplina previgente. 2. L’art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 e l’applicabilità del silenzio assenso al procedimento di autorizzazione paesaggistica “a regime” e al condono edilizio con “fase co-decisoria pluristrutturata”. 3. Il parere vincolante della Soprintendenza e la differenza di poteri nell’attività di cogestione. 4. L’applicabilità del silenzio-assenso di nuovo conio al procedimento di accertamento di compatibilità paesaggistica (art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004). 5. Conclusioni.

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Russo, La responsabilità per la bonifica ambientale: profili comparatistici europei (14.03.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. I principi di diritto comunitario; 2. La responsabilità (non sempre?) oggettiva del soggetto inquinatore; 3. Le incongruenze del recepimento italiano: la responsabilità oggettiva e la riparazione del danno; 4. (segue) la bonifica del proprietario incolpevole; 5. La responsabilità per la bonifica in Francia; 6. La responsabilità per la bonifica in Germania; 7. Considerazioni conclusive.

APPALTI: A. Longo ed E. Canzonieri, L’ambito di operatività del sindacato giurisdizionale sul giudizio sull’anomalia dell’offerta (14.03.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa. - 2. La valutazione tecnico-discrezionale della Pubblica Amministrazione. - 3. La verifica di anomalia dell’offerta e i limiti del sindacato giurisdizionale. - 4. Il divieto di modifica dell’offerta. - 5. Considerazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: C. Feliziani, L’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa. Dialogo a-sincrono tra Corte di giustizia e giudici nazionali (14.03.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Notazioni preliminari - 2. Dall'irresponsabilità alla responsabilità per lesione di interessi legittimi - 3. Incertezze circa la colpa della P.A. nella giurisprudenza nazionale - 4. Argomenti per una responsabilità oggettiva della P.A. nella giurisprudenza della Corte di giustizia - 5. Dialogo a -sincrono tra Corte di giustizia e giudici nazionali - 6. Considerazioni di sintesi.

ATTI AMMINISTRATIVI: M. De Donno, Nuove prospettive del principio di consensualità nell’azione amministrativa: gli accordi normativi tra pubblica amministrazione e privati (14.03.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa. Evoluzione dell’amministrazione per accordi e nuove prospettive per il principio di consensualità. – 2. Gli accordi normativi tra pubblica amministrazione e privati: alla ricerca di una definizione. – 3. Gli accordi normativi negli altri ordinamenti. Uno sguardo comparato. – 4. Sulla possibilità giuridica degli accordi normativi: il principio di consensualità come principio generale del diritto amministrativo – 5. Gli accordi normativi atipici. Ovvero sull’efficacia e sulla vincolatività degli accordi normativi in assenza di una norma-base. – 6. Gli accordi normativi tipici nella legislazione di settore. – 7. Sulla possibile disciplina degli accordi normativi. – 7.1. Forma, motivazione e causa. – 7.2. Effetti, validità ed esecuzione. L’oggetto, il rapporto e il procedimento. – 7.2.1. Mancata esecuzione delle clausole contrattuali. – 7.2.2. Clausole normative, poteri di modifica unilaterale dell’amministrazione e tutela del terzo. – 8. Alcune considerazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: Il documento digitale nel tempo (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 22-23.02.2018 n. 1-2017/DI).
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Lo studio in sintesi (Abstract): I documenti cartacei sono un mezzo per trasmettere informazioni e conservarle. I documenti elettronici le trasmettono in maniera più efficiente ma le conservano in maniera meno efficiente, occorrendo a tal fine delle infrastrutture ad hoc.
In particolare, l’affidabilità e l'autenticità di un documento informatico è legata esclusivamente alla sicurezza dei certificati di firma utilizzati per la sua sottoscrizione. Tale sicurezza, per essere mantenuta nel tempo, necessita di precisi processi tecnici di conservazione non surrogabili da procedure esterne.
In tale contesto la verifica della firma è processo centrale nella valutazione dell'affidabilità ed autenticità del documento e deve sempre essere effettuata con riferimento alla data concreta di utilizzo del documento. Effettuare tale verifica ad una specifica data anteriore (cosiddetta "verifica alla data") è processo da limitarsi rigorosamente ai soli ed esclusivi casi normativamente previsti ed in cui è possibile una etero datazione dell'intero documento e non solo dei suoi estremi con esclusione quindi di tutti i sistemi etero datazione parziale e non idonei a tale scopo.
Lo studio ripercorre la normativa vigente in materia, evidenziando le ragioni sottostanti alla previsione di cui all’art. 24, co. 4-bis, del CAD che sancisce la perdita della sottoscrizione in relazione ad un documento la cui firma digitale sia scaduta, sospesa o revocata. Vengono quindi esaminate le soluzioni che la normativa (anche di natura tecnica) ha approntato per assicurare la validità dei documenti informatici nel tempo, con particolare riferimento alla conservazione a norma ed alla marcatura temporale.
Vengono inoltre esaminati gli effetti giuridici della spedizione del documento a mezzo Posta Elettronica Certificata e della protocollazione informatica. Lo studio si sofferma infine su una analisi dei principali sistemi alternativi di datazione di un documento informatico (quali la registrazione o l’iscrizione a repertorio) evidenziandone i limiti.
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Sommario: 1. Introduzione generale: la specificità del documento informatico - 2. La firma digitale e le ragioni della sua validità limitata - 3. La marca temporale: funzione, caratteristiche ed oneri - 4. Il procedimento di conservazione a norma: cenni e funzione - 5. Altri sistemi di validazione temporale - 6. Il rapporto tra norme civilistiche e tecniche: la data certa del Pubblico Ufficiale e la data certa ai sensi dell’art. 2704 c.c. - 7. Il repertorio notarile quale sistema di etero datazione: limiti - 8. La verifica della firma digitale e funzione della “verifica alla data”, limiti di corretto utilizzo - 9. Il documento informatico con firma scaduta.

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Gerardo, L’ispezione nel diritto amministrativo (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2017).
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Sommario: 1. aspetti generali - 2. ispezione quale atto di procedimento (cd. ispezione istruttoria) - 3. Procedimento amministrativo di ispezione (cd. ispezione ordinaria) - 4. ispezione quale atto del processo amministrativo - 5. Distinzione dall’inchiesta.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Tallarida, Le notifiche di atti giudiziari alle pubbliche amministrazioni a mezzo Pec (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2017).
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Sommario: 1. orientamenti giurisprudenziali - 2. Principi generali delle comunicazioni telematiche nella P.a. - 3. il processo telematico - 4. Le successive modifiche - 5. i pubblici elenchi - 6. L’indice delle pubbliche amministrazioni (iPa) - 7. La notifica ad indirizzo iPa - 8. invalidità o irregolarità - 9. Sanatoria - 10. Preclusione - 11. Conclusioni.

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Mariniello, Trasparenza amministrativa e nuovo accesso civico dopo il d.Lgs. n. 97/2016 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2017).
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Sommario: 1. Premessa - 2. il principio di trasparenza - 3. Evoluzione normativa dell’istituto - 4. Dalla trasparenza come obbligo di pubblicazione alla trasparenza come libertà di accesso a dati e documenti. Novità del c.d. “Decreto Trasparenza” - 5. Natura giuridica del diritto di accesso - 6. Nuovo ambito soggettivo e oggettivo di applicazione dell’accesso generalizzato - 7. il procedimento di accesso - 8. Comunicazione ai controinteressati e gratuità dell’accesso - 9. responsabilità e sanzioni - 10. accesso e riservatezza - 11. Considerazioni finali.

A.N.AC.

PUBBLICO IM PIEGO: Dirigenti PA, stop agli stipendi online. Trasparenza. L’Anac sospende gli obblighi di pubblicazione dei compensi.
Bandiera bianca, e parola alla Corte costituzionale.
La battaglia ingaggiata dai 156mila dirigenti pubblici italiani contro la pubblicazione online dei loro compensi ha espugnato l’ultimo fortino: quello dell’Anac (Comunicato del Presidente del 07.03.2018), che ieri ha sospeso gli obblighi di trasparenza anche per aiutare le amministrazioni ormai intrappolate nel più classico degli intrecci burocratici all’italiana. All’atto pratico, l’ostacolo finale è caduto: e i dirigenti possono chiedere agli uffici di rimuovere dai siti dell’«amministrazione trasparente» i dati sui compensi.
Quella decisa ieri dall’Anac è l’ultima (per ora) mossa di un’altalena che appassiona da anni gli uffici pubblici. Tutto nasce dai decreti che nel 2013 hanno attuato la «legge Severino» sulla lotta alla corruzione, e hanno previsto lo stesso trattamento per politici e dirigenti: in nome della trasparenza, ministri, sindaci, assessori e vertici amministrativi avrebbero dovuto pubblicare su Internet patrimoni, redditi, rimborsi per viaggi e missioni e tutti gli altri compensi a carico della Pa.
Il dibattito fra sostenitori della «trasparenza» e detrattori del «gossip retributivo» si è infiammato subito, e ha complicato la vita alla trafila burocratica. La legge Severino è stata attuata da due decreti, e i decreti sono stati applicati con le istruzioni del Garante della Privacy. I dirigenti, esperti conoscitori del meccanismo, sono partiti dal fondo, e hanno chiesto al Tar Lazio di occuparsi degli atti del Garante. Con l’ordinanza 1030 del 2017 i giudici amministrativi hanno tirato la prima bordata, e hanno sospeso le istruzioni che spiegavano come pubblicare i dati su stipendi, patrimoni e rimborsi spese.
Ma il colpo non è stato definitivo, perché la burocrazia è una scienza esatta. La decisione del Tar ha interessato il comma 1, lettere c) e f), e il comma 1-bis dell’articolo 14 del decreto legislativo 33 del 2013, che regolano la pubblicazione distinta di patrimoni, stipendi e così via. Lo stesso articolo 14 ha però anche un comma 1-ter, che riguarda la diffusione online degli «emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza pubblica» da ogni dirigente.
La distinzione è importante per i politici, ma nel caso dei dirigenti gli «emolumenti complessivi a carico della finanza pubblica» finiscono nei fatti a corrispondere con lo stipendio, nelle sue varie componenti. Il dubbio è venuto allo stesso Garante della Privacy, che è tornato a bussare al Tar per capire se la bocciatura dei primi due commi (1 e 1-bis) si estendesse di fatto anche al terzo (1-ter).
La risposta, affermativa, è arrivata a gennaio con la sentenza 84/2018. A quel punto le amministrazioni si sono trovate strette fra i «no» del Tar e i «sì» dell’Anac, che ha continuato a evitare la sospensione con due comunicati di maggio e novembre 2017. Ora le indicazioni cambiano, anche per fermare la battaglia fra chi brandisce le sentenze amministrative Tar e chi risponde con le istruzioni dell’Authority.
Ma l’ultima parola tocca alla Consulta a cui, sempre su richiesta del Tar Lazio (ordinanza 9828/2017) tocca chiarire se il solito comma 1-ter va d’accordo con la Costituzione (articolo Il Sole 24 Ore del 16.03.2018).

APPALTIAffidamenti sotto-soglia, procedure aperte senza obbligo di rotazione.
Le procedure per affidamenti sottosoglia con massima apertura ai soggetti interessati permettono di non applicare il principio di rotazione.
L'Autorità nazionale anticorruzione ha adottato e pubblicato la nuova versione delle linee-guida n. 4, attuative dell'articolo 36 del Codice appalti (Dlgs 50/2016) dopo la revisione conseguente alle novità introdotte dal decreto correttivo (delibera 01.03.2018 n. 206 - Linee Guida n. 4, di attuazione del Decreto Legislativo 18.04.2016, n. 50, recanti “Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici”. Approvate dal Consiglio dell’Autorità con delibera n. 1097 del 26.10.2016. Aggiornate al Decreto Legislativo 19.04.2017, n. 56 con delibera del Consiglio n. 206 del 01.03.2018).
Nel nuovo testo sono state recepite anche alcune osservazioni rese dal Consiglio di Stato.
I princìpi
La novità più rilevante è la riformulazione delle modalità di applicazione del principio di rotazione, che va riferito sia all'affidatario sia ai soggetti invitati alla procedura negoziata. L'Anac conferma l'obbligo di applicazione del principio e la possibilità di reinvito del gestore uscente (e degli altri soggetti coinvolti nella mini-gara) solo con una motivazione in grado di dimostrare le particolari condizioni di mercato che giustificano la deroga, sostenute dall'esecuzione senza criticità del lavoro, servizio o fornitura gestiti in precedenza e dalla dimostrazione della competitività in termini di prezzo dell'operatore economico.
Le Linee-guida definiscono tuttavia specifiche condizioni di presupposto: il principio di rotazione si applica con riferimento all'affidamento immediatamente precedente, nei casi in cui i due affidamenti (quello precedente e quello attuale) abbiano ad oggetto una commessa dello stesso settore merceologico, nella stessa categoria di opere o ancora nello stesso settore di servizi.
Le deroghe
L'Anac, inoltre, individua una serie di ipotesi nelle quali la rotazione non deve essere applicata, ossia quando il nuovo affidamento avvenga tramite procedure ordinarie o comunque aperte al mercato, nelle quali la stazione appaltante, per regole prestabilite dal Codice dei contratti pubblici o dalla stessa Pa in caso di indagini di mercato o consultazione di elenchi, non operi alcuna limitazione in ordine al numero di operatori economici tra i quali effettuare la selezione (ad esempio invitando tutti i soggetti che hanno risposto all'avviso pubblico con manifestazioni di interesse).
La stazione appaltante, con regolamento, può anche suddividere gli affidamenti in fasce di valore economico, in modo da applicare la rotazione solo in caso di affidamenti rientranti nella stessa fascia. Inoltre, l'Anac evidenzia che negli affidamenti di importo inferiore a mille euro è consentito derogare all'applicazione del principio, motivando sinteticamente la scelta nell'atto di affidamento.
I preventivi per gli affidamenti diretti
In relazione all'affidamento diretto, l'Anac precisa che la stazione appaltante deve motivare le ragioni della scelta dell'operatore economico (anche tenendo conto dell'esplicita previsione contenuta nell’articolo 32, comma 2 Codice, che consente la formalizzazione con un unico provvedimento), facendo rilevare soprattutto il rispetto del principio di economicità, tra quelli dell'articolo 30.
In tal senso l'amministrazione può ricorrere alla comparazione dei listini di mercato, di offerte precedenti per commesse identiche o analoghe o all'analisi dei prezzi praticati ad altre amministrazioni, oppure può richiedere due o più preventivi (soluzione che l'Anac ritiene costituire la pratica migliore per garantire il principio di concorrenza).
Le Linee guida introducono anche una regolamentazione specifica per la verifica dei requisiti di ordine generale per gli acquisti di minore importo, individuando un regime super-semplificato per quelli di valore inferiore ai 5mila euro e uno comprensivo di alcune verifiche ulteriori nella fascia tra i 5mila e i 20mila euro. Oltre questo limite il controllo va effettuato su tutti i requisiti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.03.2018).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: La richiesta di parere è intesa a conoscere se sia possibile non includere l’incentivo per funzioni tecniche di cui all’ art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 nel tetto del fondo per la contrattazione collettiva decentrata -in difformità dall’indicazione della Sezione delle autonomie di cui alla deliberazione n. 7/2017- per dare soluzione al caso di un proprio dipendente che ha notificato diffida ad adempiere per il pagamento della richiamata incentivazione, avendo svolto le funzioni di R.U.P. per la formazione della documentazione tecnica e di gara e per l’aggiudicazione del servizio di gestione e manutenzione di impianti d’illuminazione e semaforici.
Il quesito è argomentato sulla considerazione che il relativo capitolato ha previsto i costi per l’espletamento della gara, inclusi quelli in esame, a carico dell’aggiudicatario del servizio e che, avendo quest’ultimo corrisposto al Comune il previsto “quantum”, la relativa spesa non graverebbe sul bilancio dell’ente.
Il Collegio ritiene il medesimo inammissibile sotto il profilo oggettivo poiché implica considerazioni che non mancherebbero di interferire con successive pronunce giurisdizionali, che non è irragionevole considerare possibili alla luce della situazione venuta a determinarsi, suscettibile di scaturire in contenzioso.
In sostanza il quesito, invece di porre come previsto una questione generale ed astratta riguardante aspetti di contabilità pubblica, ricostruisce e prospetta un caso concreto e specifico, mentre la giurisprudenza contabile ha puntualmente più volte rammentato che dalla funzione consultiva resta esclusa qualsiasi forma di cogestione o co-amministrazione con l'organo di controllo esterno.
In altri termini la funzione consultiva non può avere ad oggetto fattispecie specifiche, né può estendersi sino ad impingere, in tutto o in parte, nell'ambito della discrezionalità, nonché nelle specifiche attribuzioni e delle responsabilità, degli Enti interpellanti e dei loro organi mentre il quesito si pone in una prospettiva, non conforme a legge, di apertura ad una consulenza generale della Corte dei Conti.

...
Il Sindaco del Comune di Cadeo (PC) ha inoltrato a questa Sezione una richiesta di parere avente ad oggetto l’istituto degli incentivi per funzioni tecniche introdotto dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016- Codice degli appalti; in particolare, il quesito riguarda la possibilità di non includere l’incentivo de quo nel tetto del fondo per la contrattazione collettiva decentrata, in difformità dall’indicazione della Sezione delle autonomie di cui alla deliberazione 06.04.2017 n. 7, ed è esplicitamente motivato dalla necessità di decidere in merito alla diffida ad adempiere al completo pagamento della richiamata incentivazione (per complessivi euro 13.191,57), ricevuta da un proprio tecnico comunale (ed allegata al quesito) che, su incarico dell’amministrazione ha predisposto, in qualità di responsabile del procedimento, la documentazione tecnica e di gara per l’aggiudicazione del servizio di gestione e manutenzione di impianti d’illuminazione e semaforici.
Il quesito è argomentato sulla sola considerazione che il relativo capitolato ha previsto i costi per l’espletamento della gara, inclusi quelli in esame, a carico dell’aggiudicatario del servizio e che, avendo quest’ultimo corrisposto al Comune il previsto “quantum”, la relativa spesa non graverebbe sul bilancio dell’ente. 
...
Sulla base di quanto appena sopra per ultimo evidenziato, la richiesta di parere del Sindaco di Cadeo dev’essere considerata oggettivamente inammissibile, innanzitutto poiché va rilevato che nel caso sottoposto al parere della Sezione, l’auspicata funzione consultiva implica considerazioni che potrebbero interferire con successive pronunce giurisdizionali, che è ragionevole considerare probabili alla luce della situazione venuta a determinarsi, già in fase prodromica al contenzioso.
In sostanza il quesito, invece di porre una questione generale ed astratta riguardante aspetti di contabilità pubblica, prospetta la soluzione ad un concreto episodio di amministrazione attiva, tuttora in corso.
La giurisprudenza contabile, al riguardo, ha puntualmente più volte rammentato che dalla funzione consultiva resta esclusa qualsiasi forma di cogestione o co-amministrazione con l'organo di controllo esterno (cfr. ex multis SRC Lombardia, n. 36/2009/PAR, delibera Sezione di controllo regione Piemonte, n. 345/2013/SRCPIE/PAR).
Ne consegue che la funzione consultiva non può avere ad oggetto fattispecie specifiche, né può estendersi sino ad impingere, in tutto o in parte, nell'ambito della discrezionalità, nonché nelle specifiche attribuzioni e delle responsabilità, degli Enti interpellanti e dei loro organi (Sezione regionale di controllo per la Campania, deliberazione del 17.01.2013, n. 2/2013; deliberazione del 14.02.2013, n. 22/2013) ove nel caso di specie è palese che la finalità della richiesta di parere non è esclusivamente ottenere chiarimenti sulle normative e sui relativi atti applicativi che disciplinano, in generale, l'attività finanziaria che precede o che segue i distinti interventi di settore (cit. Sezioni Riunite in sede di controllo, deliberazione n. 54/CONTR/10 del 17.11.2010), bensì anche di ricevere indicazioni circa la soluzione gestionale prospettata per risolvere il rappresentato caso concreto, in una prospettiva, non conforme a legge, di apertura ad una consulenza generale della Corte dei conti.
Inoltre un compiuto esame del quesito, da condurre attraverso la concreta valutazione degli atti rappresentati, implicherebbe un iniziale approfondimento ed una successiva valutazione proprio del comportamento evidenziato dall’ente quale argomento dirimente per la soluzione auspicata nel quesito stesso, ovvero occorrerebbe vagliare la liceità di previsioni e procedure che pongano a carico dell’aggiudicatario la copertura degli incentivi e, più in generale, la più ampia categoria delle spese di gara. A tal riguardo, a revocare quanto meno in dubbio la prospettiva di una piena liceità di tali comportamenti vanno considerate alcune recenti e conformi pronunce dell’ANAC che ne hanno sottolineato la minore conformità.
In particolare, la citata Autorità ha ritenuto presentasse profili di illegittimità la clausola inserita in un bando di gara con cui si prevedeva di porre a carico dell’aggiudicatario le spese di progettazione sostenute dall’amministrazione in quanto “l’attività di progettazione svolta dall’ufficio tecnico del Comune è un compito istituzionale dello stesso, e come tale non è lecito chiedere per essa alcun rimborso” (ANAC, delibera 17.06.2015 n. 49; in senso conforme ANAC, Parere sulla Normativa 18/07/2013 - rif. AG 21/13  e parere ANAC n. 138221 del 22.09.2016).
E’ evidente, al riguardo, come la preliminare valutazione che occorrerebbe svolgere, esuli dagli aspetti di contabilità pubblica ed esorbiti in tal senso dalle specifiche competenze della Corte, per come richiamate nella presente deliberazione, configurandosi così  come ulteriore motivo di inammissibilità oggettiva del quesito formulato dall’ente stesso.
Infine, con riferimento al richiamo, nel testo del quesito, alla deliberazione 06.04.2017 n. 7 della Sezione Autonomie della Corte dei Conti ed al parere 12.10.2017 n. 152 di questa Sezione, vale la pena di osservare che entrambe, sul punto specifico, affermano che non si ravvisano i presupposti per escludere gli incentivi tecnici in parola dal limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del personale in quanto essi (proprio come nel caso rappresentato) non vanno a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati ed individuabili acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A. (ai sensi della
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle sezioni riunite della Corte), prescindendo invece da qualsiasi riferimento alla loro inclusione nel perimetro delle spese a carico del bilancio.
P.Q.M.
dichiara inammissibile la richiesta di parere del Comune di Cadeo (PC) (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 27.03.2018 n. 74).

INCENTIVO FUNZIONI PUBBLICHELa giurisprudenza contabile ha da tempo chiarito come ciò che rileva ai fini della corresponsione di detti incentivi sia:
   - da un lato, l’effettivo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma di riferimento. Nell’art. 113 citato, infatti, “…l’avverbio “esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il compenso incentivante limitatamente alle attività espressamente previste, ove effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi tassativa”;
   - dall’altro, che le suddette attività incentivabili siano riferibili a contratti affidati mediante procedura di “gara”, seppur in forma semplificata. L’art. 113, infatti, dispone l’accantonamento in un apposito fondo di risorse finanziarie “… in misura non superiore al 2 per cento modulate sull’importo dei lavori posti a base di gara”, con ciò, quindi, presupponendo esplicitamente lo svolgimento di una gara o, comunque, di una procedura comparativa.
Non pare, peraltro, superfluo ricordare come la disposizione recata dalla norma in esame rivesta carattere di eccezionalità, ragion per cui gli incentivi tecnici, in virtù del principio di onnicomprensività del trattamento economico, possono essere corrisposti solo al ricorrere di tutti i requisiti fissati dalla legge.

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La singola amministrazione non può procedere a riparto fintanto che non abbia provveduto all’adozione del regolamento ex art. 113, giacché è proprio tale provvedimento che recepisce e traduce in norme le modalità ed i criteri individuati in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale.

Circa l’accantonamento di somme nel quadro economico riguardante la singola opera ai fini del riparto, tale aspetto –a differenza della erogazione– trova completa disciplina già nell’articolo di legge, il quale così dispone: “
A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche…”.
L’amministrazione, dunque, procede all’accantonamento “
… non sulla base del regolamento approvato successivamente, che non è retroattivo, ma sulla base di una scelta prudenziale dell’ente, effettuata, nei limiti di legge, ex ante”.
A ben vedere, infatti,
mentre la pregressa disciplina stabiliva che fosse il regolamento a determinare la percentuale effettiva da destinare al fondo
(art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006: “La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare”), ora, invece, l’art. 113 nulla dispone in merito ed individua quale contenuto del regolamento le sole modalità ed i criteri di ripartizione del fondo, come fissati in sede di contrattazione. Ne consegue che la singola amministrazione ha facoltà di determinare la percentuale da destinare al fondo, ovviamente entro i limiti di legge del 2 per cento.
Ed infatti,
l’accantonamento in parola rappresenta una scelta discrezionale e prudenziale dell’ente, al quale soltanto compete decidere se procedervi o meno.
Del resto, tale posizione era già stata espressa –seppur incidentalmente– anche nel parere 14.12.2017 n. 186 di questa Sezione: “
l’adozione del regolamento da parte della singola amministrazione è <conditio sine qua non> per attuare il riparto tra gli aventi diritto, individuati sulla base del combinato disposto di norme primarie e regolamentari, e quindi per l’effettiva erogazione dell’incentivo. Tale impianto viene confermato nel successivo D.Lgs. n. 50/2016. Le Sezioni regionali di controllo per il Veneto, Piemonte e Lombardia, chiariscono che l’adozione del regolamento è atto preliminare e necessario per corrispondere e calcolare l’incentivo, ma che l’amministrazione potrebbe accantonare le somme previste dalla legge senza tuttavia ripartirle o erogarle”.
Conclusivamente, pertanto,
si condivide l’orientamento espresso dalla Sezione Lombardia con il parere 07.11.2017 n. 305, nei termini indicati, anche nell’ottica di prevenire possibili contenziosi che potrebbero essere instaurati dal personale avente astrattamente diritto agli incentivi e che potrebbe risultare ingiustamente penalizzato a causa dell’inerzia dell’ente nella tempestiva emanazione del prescritto regolamento.
Resta inteso che
è preclusa per l’ente la possibilità di liquidare gli incentivi non previsti nei quadri economici dei singoli appalti.
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Con nota acquisita al protocollo interno della Sezione al n. 759 in data 01.03.2018, il Sindaco del comune di Montecatini Terme (PT) ha inoltrato, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali, richiesta di parere ex art. 7, comma 8, della l. n. 131/2003, avente ad oggetto gli oneri derivanti dall’erogazione degli incentivi per funzioni tecniche.
In particolare l’Ente, dato conto della novella legislativa recata dall’art. 1, co. 526, della L. n. 205/2017 –che inserisce nell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 il comma 5-bis che dispone “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”- e richiamata la giurisprudenza delle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale e della Sezione delle Autonomie relativamente alla qualificazione degli incentivi per funzioni tecniche quali spese di funzionamento (spese di personale), “(I)in ossequio all'intervenuta novella legislativa (…)”, formula i seguenti quesiti:
   “1) In virtù del comma 5- bis dell'art. 113 del D.Lgs. 50/2016 tutti gli incentivi per le funzioni tecniche di cui al comma 2 del precitato art. 113 sono da escludersi dal tetto di spesa del fondo per il trattamento economico accessorio?
   2) Se, in caso di risposta negativa, siano da escludersi dal tetto gli incentivi relativi alle spese d'investimento e come tali finanziati sul titolo II ovvero gli incentivi volti a remunerare prestazioni professionali tipiche la cui provvista all'esterno potrebbe comportare aggravi di spesa a carico dei bilanci delle amministrazioni pubbliche (direttore dei lavori, collaudi, etc.)?
   3) Se gli incentivi per funzioni tecniche spettino anche agli appalti di forniture e servizi la cui provvista avvenga in virtù di adesioni a Convenzioni Consip o simili?
   4) Vista altresì la deliberazione della Corte dei Conti Lombardia n. 305/2017 successiva al pronunciamento di Codesta illustrissima Corte (177/2017) con cui la stessa Corte della Lombardia così si pronuncia in merito alla retroattività del regolamento ex art. 113 del Codice: "Ne deriva che non può aversi ripartizione del fondo tra gli aventi diritto se non dopo l'adozione del prescritto regolamento. Il che tuttavia non impedisce che quest'ultimo possa disporre anche la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche espletate dopo l'entrata in vigore dei nuovo codice dei contratti pubblici e prima dell'adozione del regolamento stesso, utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel quadro economico riguardante la singola opera (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 185/2017/PAR; Sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazione n. 353/2016/PAR)." si chiede se codesta illustrissima Corte ritenga di concordare con tale posizione e se, in caso affermativo, sia possibile liquidare gli incentivi (a seguito dell'adozione del relativo regolamento) anche qualora le somme non siano state previste nei quadri economici riguardanti i singoli appalti
”.
...
2. Con il primo quesito il Comune chiede se, considerata la modifica legislativa intervenuta, sia possibile escludere tutti gli incentivi ex art. 113 citato dal tetto di spesa del fondo per il trattamento economico accessorio.
3. Con il secondo quesito il Comune chiede, invece, se -in caso di risposta negativa alla questione di cui al punto che precede– “…siano da escludersi dal tetto gli incentivi relativi alle spese d'investimento e come tali finanziati sul titolo II ovvero gli incentivi volti a remunerare prestazioni professionali tipiche la cui provvista all'esterno potrebbe comportare aggravi di spesa a carico dei bilanci delle amministrazioni pubbliche (direttore dei lavori, collaudi, etc.)”.
4. Con riferimento ai primi due quesiti, che vengono trattati congiuntamente in quanto intimamente connessi, appare utile evidenziare che la Sezione regionale di controllo per la Puglia, con deliberazione 09.02.2018 n. 9 e la Sezione regionale di controllo per la Lombardia, con
deliberazione 16.02.2018 n. 40, hanno sollevato dinanzi alla Sezione competente della Corte –ai sensi degli artt. 17, co. 31, D.L. n. 78/2009 e 6, co. 4, D.L. n. 174/2012- apposita questione di massima inerente la natura giuridica degli incentivi ex art. 113 D.Lgs. 50/2016, ai fini della loro eventuale esclusione dalla spesa del personale e del trattamento accessorio, alla luce della novella legislativa recata dall’art. 1, co. 526, della L. n. 205/2017, che ha introdotto il comma 5-bis all’art. 113 del Codice dei contratti pubblici, ovvero le concrete modalità contabili da seguire in caso di sottoposizione degli incentivi anzidetti al limite complessivo del trattamento economico.
Il Collegio, tenuto conto di quanto sopra, sospende il parere relativamente ai punti indicati e rinvia, pertanto, la decisione in merito al primo ed al secondo quesito all’esito della decisione assunta dalla Sezione delle Autonomie, la cui trattazione risulta già fissata.
5. Con riferimento, invece, alle altre due questioni poste dal comune di Montecatini Terme, la Sezione ritiene di poter immediatamente deliberare.
6. Con il terzo quesito, il Comune chiede se sia possibile corrispondere gli incentivi tecnici di cui al citato art. 113, comma 2, anche nel caso in cui l’ente si sia avvalso di convenzioni Consip o simili.
Al riguardo,
la giurisprudenza contabile ha da tempo chiarito come ciò che rileva ai fini della corresponsione di detti incentivi sia:
   - da un lato, l’effettivo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma di riferimento. Nell’art. 113 citato, infatti, “…l’avverbio “esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il compenso incentivante limitatamente alle attività espressamente previste, ove effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi tassativa (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 09.06.2017 n. 185);
   - dall’altro, che le suddette attività incentivabili siano riferibili a contratti affidati mediante procedura di “gara”, seppur in forma semplificata. L’art. 113, infatti, dispone l’accantonamento in un apposito fondo di risorse finanziarie “… in misura non superiore al 2 per cento modulate sull’importo dei lavori posti a base di gara”, con ciò, quindi, presupponendo esplicitamente lo svolgimento di una gara o, comunque, di una procedura comparativa (Sezione regionale di controllo per la Toscana, parere 14.12.2017 n. 186).
Non pare, peraltro, superfluo ricordare come la disposizione recata dalla norma in esame rivesta carattere di eccezionalità, ragion per cui gli incentivi tecnici, in virtù del principio di onnicomprensività del trattamento economico, possono essere corrisposti solo al ricorrere di tutti i requisiti fissati dalla legge.
Con specifico riferimento al caso sottoposto, si osserva preliminarmente come le previsioni legislative inerenti l’acquisto di beni e servizi mediante strumenti di e-procurement (quali convenzioni Consip, MEPA ecc.) rispondano a esigenze di semplificazione e razionalizzazione del procedimento di provvista della Pubblica Amministrazione, per cui –laddove l’ente sia tenuto o decida di far ricorso a tali modalità di approvvigionamento- le attività indicate nell’art. 113, per le quali soltanto, come ricordato, spetta l’incentivo, potrebbero, in concreto, non realizzarsi, con conseguente impossibilità di procedere alla erogazione dei connessi incentivi.
Ciò posto, spetta all’ente, caso per caso, la valutazione circa la effettiva ricorrenza dei presupposti sopra indicati ai fini della erogazione degli incentivi (in senso conforme, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 09.06.2017 n. 185).
7. Con il quarto quesito, il Comune chiede se sia possibile ripartire gli incentivi per le funzioni tecniche espletate dopo l’entrata in vigore del nuovo codice e prima dell’adozione del regolamento di cui all’art. 113, comma 3, anche qualora le somme non siano state previste nei quadri economici riguardanti i singoli appalti.
A tal proposito, il Comune richiedente richiama la
parere 07.11.2017 n. 305…. con cui la … Sezione Lombardia così si pronuncia in merito alla retroattività del regolamento ex art. 113 del Codice: <Ne deriva che non può aversi ripartizione del fondo tra gli aventi diritto se non dopo l’adozione del prescritto regolamento. Il che tuttavia non impedisce che quest’ultimo possa disporre anche la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche espletate dopo l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici e prima dell’adozione del regolamento stesso, utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel quadro economico riguardante la singola opera>”.
Il quesito, così come posto, pare evocare un possibile disallineamento tra la posizione assunta da questo Collegio con il parere 26.10.2017 n. 177 e quella della Sezione lombarda nel
parere 07.11.2017 n. 305. In realtà, a ben vedere, le citate deliberazioni hanno affrontato quesiti non del tutto coincidenti: nella richiesta di parere formulata dal comune toscano, infatti, veniva semplicemente richiesto “… se a seguito dell’adozione del regolamento ex art. 113 l’ente possa corrispondere l’incentivo a favore della attività svolte dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 50/2016 e fino alla data di adozione del regolamento medesimo”.
In tale occasione nessun riferimento veniva fatto all’eventuale accantonamento di somme al fondo e la Sezione, pertanto, si è a suo tempo limitata a rispondere, in linea con il quesito posto, che la corresponsione degli incentivi era preclusa “… in assenza di apposito regolamento che disciplini l’erogazione degli incentivi in oggetto”, con ciò ribadendo il pacifico orientamento assunto dalla giurisprudenza contabile in merito, così come fatto, del resto, dalla stessa Sezione di controllo Lombardia nella pronuncia citata (“Ne deriva che non può aversi ripartizione del fondo tra gli aventi diritto se non dopo l’adozione del prescritto regolamento”).
Ciò detto,
non può che ribadirsi che la singola amministrazione non può procedere a riparto fintanto che non abbia provveduto all’adozione del regolamento ex art. 113, giacché è proprio tale provvedimento che recepisce e traduce in norme le modalità ed i criteri individuati in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale.
Passando a considerare l’accantonamento di somme nel quadro economico riguardante la singola opera ai fini del riparto, tale aspetto –a differenza della erogazione– trova completa disciplina già nell’articolo di legge, il quale così dispone: “A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche…”.
L’amministrazione, dunque, procede all’accantonamento “… non sulla base del regolamento approvato successivamente, che non è retroattivo, ma sulla base di una scelta prudenziale dell’ente, effettuata, nei limiti di legge, ex ante” (Sezione controllo Lombardia parere 09.06.2017 n. 185).
A ben vedere, infatti,
mentre la pregressa disciplina stabiliva che fosse il regolamento a determinare la percentuale effettiva da destinare al fondo (art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163/2006: “La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare”), ora, invece, l’art. 113 nulla dispone in merito ed individua quale contenuto del regolamento le sole modalità ed i criteri di ripartizione del fondo, come fissati in sede di contrattazione. Ne consegue che la singola amministrazione ha facoltà di determinare la percentuale da destinare al fondo, ovviamente entro i limiti di legge del 2 per cento.
Ed infatti,
l’accantonamento in parola rappresenta una scelta discrezionale e prudenziale dell’ente, al quale soltanto compete decidere se procedervi o meno.
Del resto, tale posizione era già stata espressa –seppur incidentalmente– anche nel parere 14.12.2017 n. 186 di questa Sezione: “l’adozione del regolamento da parte della singola amministrazione è <conditio sine qua non> per attuare il riparto tra gli aventi diritto, individuati sulla base del combinato disposto di norme primarie e regolamentari, e quindi per l’effettiva erogazione dell’incentivo. Tale impianto viene confermato nel successivo D.Lgs. n. 50/2016. Le Sezioni regionali di controllo per il Veneto, Piemonte e Lombardia, chiariscono che l’adozione del regolamento è atto preliminare e necessario per corrispondere e calcolare l’incentivo, ma che l’amministrazione potrebbe accantonare le somme previste dalla legge senza tuttavia ripartirle o erogarle”.
Conclusivamente, pertanto,
si condivide l’orientamento espresso dalla Sezione Lombardia con il parere 07.11.2017 n. 305, nei termini indicati, anche nell’ottica di prevenire possibili contenziosi che potrebbero essere instaurati dal personale avente astrattamente diritto agli incentivi e che potrebbe risultare ingiustamente penalizzato a causa dell’inerzia dell’ente nella tempestiva emanazione del prescritto regolamento.
Resta inteso –anche in ragione del chiaro dato normativo– che
è preclusa per l’ente la possibilità di liquidare gli incentivi non previsti nei quadri economici dei singoli appalti (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 27.03.2018 n. 19).

ATTI AMMINISTRATIVIDebiti fuori bilancio, niente deroghe all'obbligo di passare in consiglio.
Il parere 22.02.2018 n. 29 della Corte dei Conti, Sez. di controllo della Puglia, fa luce sull'iter amministrativo che gli enti locali devono seguire per la corretta gestione (riconoscimento, finanziamento e pagamento) dei debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive.
Il caso
In particolare, la decisione interviene in risposta alla richiesta di parere avanzata da un Comune in merito alla possibilità, nelle more dell'adozione della delibera consiliare di riconoscimento e nel caso in cui nel bilancio di previsione siano state prudenzialmente allocate risorse finanziarie per farvi fronte, di provvedere anticipatamente alla liquidazione e al pagamento del debito fuori bilancio, al fine di prevenire l'eventuale esecuzione coattiva, comportante un incremento degli oneri a carico dell'ente a titolo di interessi legali, eventuale rivalutazione monetaria e spese giudiziali.
Le disposizioni che assumono rilievo in materia sono gli articoli 193, comma 2, e 194, comma 1, lettera a), del Testo unico degli enti locali. Dal loro combinato disposto discende che Comuni e Province riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive con deliberazione consiliare, da approvare entro il 30 settembre di ogni anno, o con diversa periodicità stabilita dal regolamento di contabilità.
L'orientamento precedente
Al riguardo, il Comune ha richiamato il recente orientamento della giurisprudenza contabile, espresso nella deliberazione n. 2/2018 della sezione di controllo della Campania (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 31 gennaio), che consentirebbe all'ente debitore di procedere al pagamento prima dell'approvazione della delibera di riconoscimento del debito da sentenza esecutiva.
Dalla lettura della deliberazione n. 29/2018, si rileva che proprio la pronuncia n. 2 della sezione Campania è stata oggetto di errata (favorevole) interpretazione da parte del Comune istante. Questa pronuncia dei giudici campani, dopo aver richiamato –per confermare l'opzione di pagamento anticipato del debito– la decisione n. 2/2005 delle sezioni riunite della Sicilia, riporta ampiamente i principi della delibera n. 152/2016 emanata dalla stessa sezione Puglia ora interpellata, concludendo che «è ai suindicati principi che l'ente richiedente il parere deve attenersi».
La lettura «autentica»
Con una sorta di interpretazione autentica, i magistrati pugliesi ribadiscono le indicazioni fornite in precedenza. Più in dettaglio, come già chiarito nella deliberazione n. 152/2016, viene affermato che, in mancanza di una disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le sentenze esecutive, non è consentito discostarsi dalla stretta interpretazione dell'articolo 193, comma 2, lettera b), del Tuel in base al quale i provvedimenti per il ripiano di eventuali debiti di cui all'articolo 194 del Tuel sono assunti dall'organo consiliare contestualmente all'accertamento negativo del permanere degli equilibri di bilancio.
La valenza della delibera consiliare
Infatti, a fronte dell'imperatività del provvedimento giudiziale esecutivo, il valore della delibera del consiglio non è quello di riconoscere la legittimità del debito, che di per sé già esiste in virtù della decisione del giudice, che non lascia alcun margine di valutazione all'organo consiliare dell'ente. Nell'ipotesi in esame, invero, deve ragionevolmente ritenersi che l'atto deliberativo consiliare costituisca lo strumento attraverso cui viene ricondotto al «sistema di bilancio» un fenomeno di rilevanza finanziaria (debito da sentenza) che è maturato all'esterno di esso.
Al riguardo, conformemente anche il parere 03.02.2015 n. 80 della sezione di controllo della Sicilia ha chiarito che il preventivo riconoscimento del debito da parte dell'organo consiliare risulta comunque necessario anche nell'ipotesi di debiti derivanti da sentenza esecutiva, per loro natura caratterizzati da assenza di discrezionalità per via del provvedimento giudiziario a monte. Ciò nella considerazione che le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del consiglio comunale o provinciale non sono circoscritte alle scelte di natura discrezionale, ma si estendono anche ad attività o procedimenti di spesa di natura vincolante ed obbligatoria.
L'articolo 194, comma 1, del Tuel rappresenterebbe un'eccezione alla preventività dell'impegno formale e della copertura finanziaria; è con la delibera consiliare che viene ripristinata la fisiologia della fase della spesa e i debiti in esame vengono ricondotti a sistema attraverso l'adozione dei necessari provvedimenti di riequilibrio finanziario. In questo senso, allora, l'attivazione della procedura consiliare assume la funzione di salvaguardia degli equilibri bilancistici.
Su questi ultimi, poi, il debito da riconoscere avrà un diverso peso a seconda che esso trovi o meno copertura finanziaria in un impegno di spesa assunto precedentemente nelle previsioni della sua insorgenza. In altri termini, spetta alla diligente, tempestiva e puntuale valutazione dell'ente l'opportunità di effettuare un preventivo accantonamento per evitare un forte e destabilizzante impatto della passività sugli equilibri del bilancio.
Ma la delibera di consiglio svolge una ulteriore funzione: l'accertamento delle cause che hanno originato l'obbligo del pagamento, con le consequenziali ed eventuali responsabilità. Questa funzione di accertamento è rafforzata dalla previsione dell'invio alla Procura regionale della Corte dei conti (articolo 23, comma 5, della legge 289/2002) delle delibere di riconoscimento di debito fuori bilancio.
Dunque, la delibera consiliare svolge una duplice funzione: per un verso, tipicamente giuscontabilistica, finalizzata ad assicurare la tutela degli equilibri di bilancio; per altro, garantista, ai fini dell'accertamento dell'eventuale responsabilità amministrativo-contabile.
A parere della sezione Puglia, inoltre, la necessità del (preventivo) riconoscimento consiliare della legittimità del debito fuori bilancio parrebbe rafforzata dall'intervento del legislatore dell'armonizzazione, il quale si è premurato di estendere alle Regioni la stessa procedura disciplinata per gli enti locali, con la differenza che il riconoscimento avvenga mediante apposita legge regionale.
Il collegio pugliese ricorda, inoltre, che la previsione legislativa del riconoscimento consiliare trova ulteriore specificazione nel dettato di natura “sanzionatoria” dell'articolo 188, comma 1-quater, del Tuel, in virtù del quale agli enti locali che presentino, nell'ultimo rendiconto deliberato, debiti fuori bilancio, ancorché da riconoscere, nelle more della variazione di bilancio che dispone il riconoscimento e finanziamento del debito fuori bilancio, è fatto divieto di assumere impegni e pagare spese per servizi non espressamente previsti per legge.
Necessità del preventivo riconoscimento del debito
Alla luce di questo quadro normativo e giurisprudenziale, la corte pugliese conclude affermando che, nel caso di sentenze esecutive, non è consentito all'ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli articoli 193 e 194 del Tuel, che impongono (prima del pagamento) la preventiva e tempestiva adozione della delibera consiliare di riconoscimento e finanziamento del debito fuori bilancio e che garantiscono una maggiore efficacia ed efficienza dell'azione amministrativa per salvaguardare gli equilibri finanziari dell'ente locale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.03.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla possibilità, nelle more dell’adozione della delibera consiliare di riconoscimento del debito fuori bilancio ex art. 194, lett. a) Tuel, di provvedere -al fine di prevenire l’eventuale esecuzione coattiva- a liquidazione e pagamento del debito per il quale siano state prudenzialmente allocate risorse finanziarie per farvi fronte.
In mancanza di una disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le sentenze esecutive, non è consentito discostarsi dalla stretta interpretazione dell’art. 193, comma 2, lett. b), del TUEL ai sensi del quale “i provvedimenti per il ripiano di eventuali debiti di cui all’art. 194” sono assunti dall’organo consiliare contestualmente all’accertamento negativo del permanere degli equilibri di bilancio.
Infatti, a fronte dell’imperatività del provvedimento giudiziale esecutivo,
il valore della deliberazione consiliare non è quello di riconoscere la legittimità del debito che già è stata verificata in sede giudiziale, bensì di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato all’esterno di esso. Ulteriore funzione svolta dalla delibera consiliare è l’accertamento delle cause che hanno originato l’obbligo, con le consequenziali ed eventuali responsabilità; infatti, questa funzione di accertamento è rafforzata dalla previsione dell’invio alla Procura regionale della Corte dei conti (art. 23, comma 5, L. n. 289/2002) delle delibere di riconoscimento di debito fuori bilancio
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Ritiene, quindi, la Sezione che,
nel caso di sentenze esecutive e di pignoramenti, sussiste, l’obbligo di procedere con tempestività alla convocazione del Consiglio comunale per il riconoscimento del debito, in modo da impedire il maturare di interessi, rivalutazione monetaria ed ulteriori spese legali.
Pertanto, alla luce dell’attuale normativa, non è consentito all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli artt. 193 e 194 del Tuel che garantiscono una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa per salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale.
Inoltre,
il tempestivo riconoscimento e finanziamento del debito fuori bilancio, nonché il conseguente pagamento, non esporrebbero l’ente al rischio di azioni esecutive, considerato che il decorso di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo (previsto dall’art. 14, del D.L. 31/12/1996, n. 669 convertito in legge 28/02/1997, n. 30 come modificato dall’art. 147 della Legge 23/12/2000, n. 288), comporterebbe l’avvio delle procedure esecutive nei confronti della pubblica amministrazione.
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Il Sindaco del Comune di Bari, dopo aver richiamato la normativa prevista in materia di riconoscimento di debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive e la disciplina prevista dall’art. 14 del D.L. n. 669/1996 che impone ad amministrazioni statali, enti pubblici economici ed Agenzia delle Entrate di completare le procedure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo, rileva che, nelle ipotesi in cui pervenga la notifica di un debito ricompreso nella previsione dell’art. 194, lett. a) del Tuel, le amministrazioni sono solite far precedere il relativo pagamento dal preventivo riconoscimento di legittimità da parte del competente Consiglio.
Tuttavia, ad avviso del Sindaco, in considerazione della tempistica di convocazione del Consiglio, tale prassi potrebbe determinare un incremento degli oneri a carico dell’Ente a titolo di interessi legali ed eventuale rivalutazione monetaria cui vanno aggiunte le eventuali spese giudiziali conseguenti all’attivazione di procedure esecutive nell’eventualità che la delibera di riconoscimento del debito fosse approvata tardivamente.
Conseguentemente, il Sindaco, preso atto di recenti orientamenti della giurisprudenza contabile che consentono all’Ente debitore di procedere al pagamento preliminarmente all’approvazione della deliberazione di riconoscimento del debito derivante da sentenza esecutiva, chiede alla Sezione se, nel caso in cui nel bilancio di previsione siano state prudenzialmente allocate risorse finanziarie per farvi fronte, i competenti uffici possano, nelle more dell’adozione della delibera consiliare di riconoscimento, provvedere alla liquidazione ed al pagamento del debito, al fine di prevenire l’eventuale esecuzione coattiva.
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Ritiene il Collegio che il quesito, da ricondurre in ogni caso a generalità ed astrattezza, possa reputarsi riconducibile nell’ambito della materia della contabilità pubblica poiché inerente l’interpretazione della disciplina normativa in materia di riconoscimento di debiti fuori bilancio che, come noto, assume carattere eccezionale ed è finalizzata a ricondurre, nei casi tassativamente indicati dal legislatore, particolari tipologie di spesa nel sistema di bilancio.
L’articolo 194, comma 1, lett. a), del Tuel prevede che, con deliberazione consiliare, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive.
Osserva la Sezione che dal combinato disposto della predetta norma e dell’art. 193, comma 2, del Tuel si rileva che,
con periodicità stabilita dal regolamento di contabilità dell'ente locale e comunque almeno una volta entro il 31 luglio di ciascun anno, l'Organo consiliare deve provvedere, con delibera, a dare atto del permanere degli equilibri generali di bilancio o, in caso di accertamento negativo, ad adottare, contestualmente i provvedimenti per il ripiano degli eventuali debiti.
Conseguentemente, come già chiarito da questa Sezione nel parere 15.09.2016 n. 152 richiamato nel quesito proposto dall’Ente,
in mancanza di una disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le sentenze esecutive, non è consentito discostarsi dalla stretta interpretazione dell’art. 193, comma 2, lett. b), del TUEL ai sensi del quale “i provvedimenti per il ripiano di eventuali debiti di cui all’art. 194” sono assunti dall’organo consiliare contestualmente all’accertamento negativo del permanere degli equilibri di bilancio.
Infatti, a fronte dell’imperatività del provvedimento giudiziale esecutivo,
il valore della deliberazione consiliare non è quello di riconoscere la legittimità del debito che già è stata verificata in sede giudiziale, bensì di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato all’esterno di esso. Ulteriore funzione svolta dalla delibera consiliare è l’accertamento delle cause che hanno originato l’obbligo, con le consequenziali ed eventuali responsabilità; infatti, questa funzione di accertamento è rafforzata dalla previsione dell’invio alla Procura regionale della Corte dei conti (art. 23, comma 5, L. n. 289/2002) delle delibere di riconoscimento di debito fuori bilancio (Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 15.09.2016 n. 152).
La necessità del riconoscimento consiliare della legittimità del debito fuori bilancio da parte dell’Organo consiliare appare, peraltro, rafforzata dall’intervento del legislatore dell’armonizzazione che, all’art. 73 del D.Lgs. n. 118/2011, ha esteso alle Regioni la medesima procedura disciplinata per gli enti locali con la differenza della necessità del riconoscimento mediante apposita legge.
Il Collegio rammenta, inoltre, che la previsione legislativa del riconoscimento ad opera dell’Organo consiliare trova ulteriore specificazione nel dettato di natura “sanzionatoria” dell’art. 188, comma 1-quater, del Tuel, come modificato dal citato D.Lgs. n. 118/2011, ai sensi del quale agli enti locali che presentino, nell'ultimo rendiconto deliberato, debiti fuori bilancio, ancorché da riconoscere, nelle more della variazione di bilancio che dispone il riconoscimento e finanziamento del debito fuori bilancio, è fatto divieto di assumere impegni e pagare spese per servizi non espressamente previsti per legge.
Ritiene, quindi, la Sezione che,
nel caso di sentenze esecutive e di pignoramenti, sussiste, l’obbligo di procedere con tempestività alla convocazione del Consiglio comunale per il riconoscimento del debito, in modo da impedire il maturare di interessi, rivalutazione monetaria ed ulteriori spese legali (Sezione Regionale per la Puglia, deliberazioni n. 122/PRSP/2016, parere 15.09.2016 n. 152).
A tali conclusioni è pervenuta anche la Sezione regionale di controllo per la Campania, con deliberazione 10.01.2018 n. 1 anch’essa richiamata dal Comune di Bari ove, dopo aver riportato ampiamente il già citato parere 15.09.2016 n. 152 di questa Sezione, specifica che: “è ai suindicati principi che l'Ente richiedente il parere deve attenersi”.
La Sezione regionale di controllo per la Regione Siciliana, con parere 03.02.2015 n. 80, ha ulteriormente chiarito che
il preventivo riconoscimento del debito da parte dell’Organo consiliare risulta comunque necessario anche nell’ipotesi di debiti derivanti da sentenza esecutiva, per loro natura caratterizzati da assenza di discrezionalità per via del provvedimento giudiziario a monte, posto che le funzioni di indirizzo e la responsabilità politica del Consiglio comunale o provinciale non sono circoscritte alle scelte di natura discrezionale, ma si estendono anche ad attività o procedimenti di spesa di natura vincolante ed obbligatoria.
Pertanto, alla luce dell’attuale normativa,
non è consentito all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli artt. 193 e 194 del Tuel che garantiscono una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa per salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale.
Inoltre,
il tempestivo riconoscimento e finanziamento del debito fuori bilancio, nonché il conseguente pagamento, non esporrebbero l’ente al rischio di azioni esecutive, considerato che il decorso di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo (previsto dall’art. 14, del D.L. 31/12/1996, n. 669 convertito in legge 28/02/1997, n. 30 come modificato dall’art. 147 della Legge 23/12/2000, n. 288), comporterebbe l’avvio delle procedure esecutive nei confronti della pubblica amministrazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 22.02.2018 n. 29).

ATTI AMMINISTRATIVILa Sezione rileva la necessità di porre in essere la procedura di “riconoscimento” del debito fuori bilancio (art. 194 TUEL) anche in presenza di un accantonamento a Fondo rischi, in ragione della duplice sottostante ratio legislativa della disposizione citata: da un lato, recuperare gli equilibri rintracciando in bilancio e destinando eventuali risorse disponibili per la copertura del debito emerso; dall’altro evidenziare eventuali profili di responsabilità correlati alla dinamica della trasformazione della passività potenziale in “debito” attuale e certo.
Da un punto di vista strettamente probatorio, la Sezione ritiene che la conoscenza assuma certezza legale con la notifica o si presume comunque maturata scaduti i termini per la proposizione di impugnativa o gravame avverso il provvedimento, tenuto conto, altresì, che è lo stesso legislatore (art. 194, lett. a TUEL) a specificare che per il riconoscimento è sufficiente l’esecutività del provvedimento giurisdizionale (che rende pienamente esigibile il debito).

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Il Sindaco del Comune di Frattamaggiore (NA) ha posto alla Sezione un parere sullo stesso tema per cui la Sezione si è già espressa con SRC Campania n. 238/2017/PAR, con alcuni quesiti di appendice.
Il thema opinandi concerne sempre le modalità di gestione e utilizzazione del Fondo rischi rispetto alla manifestazione di rischi per cui è stato effettuato accantonamento, segnatamente, sentenze esecutive connesse a pregressi e monitorati contenziosi.
Più specificamente chiede:
   «1- se si sia o meno fuori dalla fattispecie dei debiti fuori bilancio qualora, accantonato il fondo spese relativo al contenzioso in relazione alla probabile futura soccombenza dell'Ente, pervenuta la sentenza esecutiva, che segna il sorgere dell'obbligazione giuridica passiva, si formalizzi, entro il termine previsto per il pagamento (art. 14, 1° comma, d.l. n. 669/1996, conv. dalla l. 30/1997, come modificato dall'art. 147 della l. n. 388/2000), l'impegno della spesa nelle scritture contabili attingendo dalle risorse accantonate;
   2.- se, in ipotesi affermativa, debba ritenersi il sorgere dell'obbligazione passiva in concomitanza con la notifica della sentenza esecutiva, per cui l'impegno della spesa va registrato nelle scritture contabili dell'ente entro i successivi 120 giorni previsti per il pagamento, ovvero coincidente con la pubblicazione della sentenza, ancorché non ancora conosciuta, prescindendosi così dall'evento della relativa notifica, tenuto conto che il principio contabile della competenza finanziaria potenziata prevede che le spese sono impegnate quando l'obbligazione giuridica nasce ed imputate all'esercizio in cui l'obbligazione è esigibile;
   3.- se, infine, ai predetti effetti in cui si articola il posto quesito, alla sentenza passata in giudicato cui fa riferimento la Commissione [ARCONET] di seguito richiamata sia equiparabile la sentenza esecutiva di soccombenza dell'ente
».
...
1. Il presente parere viene espresso ad integrazione ed in continuità di quanto già precisato dalla Sezione con la pronuncia n. 238/2017/PAR, in materia di Fondo Rischi (FR).
Con il primo quesito, l’Ente chiede se una sentenza esecutiva, per cui peraltro è già stato effettuato un accantonamento a fondo rischi, costituisca o meno debito fuori bilancio.
Lo stesso quesito esclude, quindi, che l’ente abbia già registrato la spesa contestata e oggetto del contenzioso; in tal caso, la sussistenza di un pertinente residuo passivo non rende necessario procedere ad accantonamento a FR, in virtù del principio applicato 4/2, punto 5.2, n. 3, lett. h, del D.lgs. n. 118/2011 (salvo, ovviamente, il rischio di maggiori spese da contenzioso e spese legali, per cui è necessario procedere ad accantonamento, sulla base di un coefficiente di rischio individuato dall’ente, in base alla sua discrezionalità tecnica).
La necessità di porre in essere la procedura di “riconoscimento” del debito fuori bilancio (art. 194 TUEL), anche in presenza di un accantonamento a Fondo rischi, si impone in ragione della duplice sottostante ratio legislativa della disposizione citata: da un lato, recuperare gli equilibri rintracciando in bilancio e destinando eventuali risorse disponibili per la copertura del debito emerso; dall’altro evidenziare eventuali profili di responsabilità correlati alla dinamica della trasformazione della passività potenziale in “debito” attuale e certo (cfr. SRC Campania n. 3/2017/PRSP, § 3.1.1).
1.1. Con riguardo alla prima finalità, si deve infatti ricordare che un “accantonamento” non costituisce in sé una copertura di bilancio. Pertanto, su di esso non è possibile impegnare e pagare spesa (art. 167, comma 3, TUEL), essendo previamente necessario –verificatosi il rischio cui l’accantonamento è funzionale– effettuare una variazione di bilancio per fornire la capienza finanziaria necessaria ai programmi interessati dalla spesa sopravvenuta, previo riconoscimento della stessa (art. 176, 175 e 194 TUEL).
Il riconoscimento determina la competenza finanziaria, in quanto sancisce la sopravvenuta “certezza” dell’obbligazione, che costituisce un presupposto, insieme alla esigibilità (che nel caso dei provvedimenti giurisdizionali è insita nell’esecutività della sentenza) per la registrazione in bilancio della passività; detto in altri termini, solo con la sentenza esecutiva maturano i presupposti per l’imputazione a bilancio della spesa, laddove in assenza di contenzioso, la competenza finanziaria e/o economica, sarebbe stata più risalente.
1.2. Con riguardo alla seconda finalità legislativa, si deve rammentare che la procedura di riconoscimento del debito fuori bilancio non può non comportare l’analisi della vicenda sottostante di nascita della passività potenziale e della sua trasformazione in debito certo, tanto a livello amministrativo, valorizzando la funzione di indirizzo del Consiglio in materia di bilancio, tanto sotto il profilo contabile, con il correlato obbligo di trasmissione della delibera di riconoscimento alla competente Procura della Corte dei conti (art. 23, comma 5, della Legge n. 289/2002).
2. Con il secondo quesito, l’Ente chiede, in sostanza, se tale “certezza” si determina con il deposito del provvedimento giurisdizionale o con la sua notifica. L’incertezza che ha causato lo slittamento della competenza finanziaria che astrattamente l’obbligazione avrebbe dovuto avere in assenza di contenzioso è un’incertezza soggettiva, che il provvedimento del giudice rimuove quando viene “aliunde” a conoscenza dell’ente stesso.
In ogni caso,
da un punto di vista strettamente probatorio, la conoscenza ha certezza legale con la notifica o si presume comunque maturata scaduti i termini per la proposizione di impugnativa o gravame avverso il provvedimento.
3. In ultimo, con riguardo al terzo quesito, occorre tenere presente che
è lo stesso legislatore (art. 194, lett. a TUEL) a specificare che per il riconoscimento è sufficiente l’esecutività del provvedimento giurisdizionale (che rende pienamente esigibile il debito).
In tale caso,
atteso che l’obbligo di pagamento oltre che certo è divenuto anche esecutivo, l’ente sarà tenuto ad individuare le coperture e iscrivere la posta passiva in bilancio (art. 194).
Ove l’ente tuttavia non sia in grado di trovare copertura e quindi completare la procedura di riconoscimento, innescando l’evidenza di uno squilibrio strutturale ai sensi dell’art. 244 TUEL (“esistenza di crediti liquidi ed esigibili di terzi cui non si possa fare validamente fronte con le modalità di cui all'articolo 193, nonché con le modalità di cui all'articolo 194”), occorrerà comunque dare evidenza a tale latente passività nel risultato di amministrazione, per evitare una falsa rappresentazione del saldo di bilancio e tutelare i principi di prudenza e di verità.
All’uopo,
per dare evidenza contabile dei ridetti debiti, in via surrogatoria ed analogica, potrà avvalorarsi il Fondo rischi, come componente negativa del risultato di amministrazione: in questo modo sarà possibile comprimere la spesa nell’esercizio successivo nella misura dei debiti per cui l’ente non ha potuto completare la procedura ai sensi dell’art. 194, precostituendo, indirettamente, le condizioni per il riequilibrio e per il rinvenimento, negli esercizi successivi, delle coperture per il riconoscimento (cfr. SRC Campania n. 240/2017/PRSP) (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 08.11.2017 n. 249).

ATTI AMMINISTRATIVILa giurisprudenza della Corte dei conti ha ripetutamente evidenziato la sostanziale diversità esistente tra la fattispecie di debito derivante da sentenze esecutive e le altre previste dall’art. 194 TUEL, osservando come, mentre nel caso di sentenza esecutive di condanna il Consiglio comunale non ha alcun margine di discrezionalità nel valutare l’an e il quantum del debito, poiché l’entità del pagamento rimane stabilita nella misura indicata dal provvedimento dell’autorità giudiziaria, negli altri casi descritti dall’art. 194 TUEL l’organo consiliare esercita un ampio apprezzamento discrezionale.
In mancanza di una disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le “sentenze esecutive”, tuttavia, non è consentito discostarsi dalla stretta interpretazione dell’art. 193, comma 2, lett. b), del TUEL (nella formulazione vigente), ai sensi del quale: “…i provvedimenti per il ripiano di eventuali debiti di cui all’art. 194…” sono assunti dall’organo consiliare contestualmente all’accertamento negativo del permanere degli equilibri di bilancio (cfr. art. 193, comma 2 cit.).
Infatti,
a fronte dell’imperatività del provvedimento giudiziale esecutivo, il valore della delibera del Consiglio non è quello di riconoscere la legittimità del debito che già è stata verificata in sede giudiziale, bensì di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato all’esterno di esso.
In tale prospettiva
l’art. 194, primo comma, TUEL rappresenta un’eccezione ai principi riguardanti la necessità del preventivo impegno formale e della copertura finanziaria; onde per riportare le ipotesi previste nell’ambito del principio di copertura finanziaria è, dunque, richiesta la delibera consiliare con la quale viene ripristinata la fisiologia della fase della spesa e i debiti de quibus vengono ricondotti a sistema mediante l’adozione dei necessari provvedimenti di riequilibrio finanziario.
Ulteriore funzione svolta dalla delibera consiliare è l’accertamento delle cause che hanno originato l’obbligo, con le consequenziali ed eventuali responsabilità; infatti, questa funzione di accertamento è rafforzata dalla previsione dell’invio alla Procura regionale della Corte dei conti (art. 23, comma 5, L. 289/2002) delle delibere di riconoscimento di debito fuori bilancio.
Nella delineata prospettiva interpretativa,
la delibera consiliare svolge una duplice funzione, per un verso, tipicamente giuscontabilistica, finalizzata ad assicurare la salvaguardia degli equilibri di bilancio; per l’altro, garantista, ai fini dell’accertamento dell’eventuale responsabilità amministrativo-contabile.
Sulla base delle esposte considerazioni,
nel caso di sentenze esecutive e di pignoramenti, sussiste, l’obbligo di procedere con tempestività alla convocazione del Consiglio comunale per il riconoscimento del debito, in modo da impedire il maturare di interessi, rivalutazione monetaria ed ulteriori spese legali.
Pertanto,
alla luce dell’attuale normativa, non è consentito all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli artt. 193 e 194 TUEL che garantiscono una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa per salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale.
Inoltre,
il tempestivo riconoscimento e finanziamento del debito fuori bilancio, nonché il conseguente pagamento, non esporrebbero l’ente al rischio di azioni esecutive, considerato che il decorso di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo, comporterebbe l’avvio delle procedure esecutive nei confronti della P.A..
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Con la nota indicata in epigrafe, il Sindaco del Comune di Salve (LE) ha presentato una richiesta di parere prospettando più soluzioni alternative, sulle quali chiede a questa Sezione di pronunciarsi, rispetto alla problematica attinente all’esistenza di un debito fuori bilancio derivante da sentenza di condanna di 1° grado esecutiva per legge.
Preliminarmente il Sindaco ha rappresentato che:
   - il Comune di Salve, a seguito di sentenza emessa da Tribunale di Lecce, è stato condannato al risarcimento del danno per un importo di circa 600.000,00 euro per il quale non dispone delle risorse necessarie di bilancio;
   - l’avanzo di amministrazione di cui dispone consentirebbe di coprire il debito solo in parte, ma non verrebbero rispettati i vincoli di finanza pubblica;
   - non è stato raggiunto alcun accordo transattivo.
Nello specifico, chiede un parere in merito alla possibilità di approvare in Consiglio comunale una delibera di riconoscimento del debito che non provveda al ripiano del debito, bensì all’accantonamento delle somme che si rendano disponibili nei bilancio dei tre esercizi successivi, al fine di disporre di un tempo maggiore per raggiungere un accordo col creditore e, in considerazione della mancanza di disponibilità finanziaria, per attivare le procedure ex artt. 153 e 193 del TUEL.
Altra soluzione alternativa sulla quale l’ente ha chiesto a questa Sezione di pronunciarsi è la seguente: …è possibile non procedere al riconoscimento entro il 31 luglio e dare atto del permanere degli equilibri a condizione che si proceda in termini brevi alla transazione e nel caso non si raggiunga alcunché si procedere ex artt. 153 e 193 Tuel?...”.
...
Preliminarmente, si rende necessario precisare che la giurisprudenza della Corte dei conti ha avuto già occasione di pronunciarsi in merito all’individuazione della normativa di riferimento per analoghe fattispecie, sia in sede consultiva, che in occasione dei controlli sulla gestione finanziaria degli enti locali, prevista dall’art. 1, comma 166 e ss., della legge n. 266/2005 (Finanziaria per il 2006) e dall’art. 148-bis del Tuel.
La questione sottoposta al vaglio consultivo della Sezione, investe l’istituto giuridico del riconoscimento dei debiti fuori bilancio derivanti da sentenza esecutiva previsto dall’art. 194, comma 1, lett. a), del TUEL.
La giurisprudenza della Corte dei conti (cfr. ex multis, SSRR n. 12/2007/QM) ha ripetutamente evidenziato la sostanziale diversità esistente tra la fattispecie di debito derivante da sentenze esecutive e le altre previste dall’art. 194 TUEL, osservando come, mentre nel caso di sentenza esecutive di condanna il Consiglio comunale non ha alcun margine di discrezionalità nel valutare l’an e il quantum del debito, poiché l’entità del pagamento rimane stabilita nella misura indicata dal provvedimento dell’autorità giudiziaria, negli altri casi descritti dall’art. 194 TUEL l’organo consiliare esercita un ampio apprezzamento discrezionale.
In mancanza di una disposizione che preveda una disciplina specifica e diversa per le “sentenze esecutive”, tuttavia, non è consentito discostarsi dalla stretta interpretazione dell’art. 193, comma 2, lett. b), del TUEL (nella formulazione vigente), ai sensi del quale: “…i provvedimenti per il ripiano di eventuali debiti di cui all’art. 194…” sono assunti dall’organo consiliare contestualmente all’accertamento negativo del permanere degli equilibri di bilancio (cfr. art. 193, comma 2 cit.).
Infatti,
a fronte dell’imperatività del provvedimento giudiziale esecutivo, il valore della delibera del Consiglio non è quello di riconoscere la legittimità del debito che già è stata verificata in sede giudiziale, bensì di ricondurre al sistema di bilancio un fenomeno di rilevanza finanziaria che è maturato all’esterno di esso.
In tale prospettiva
l’art. 194, primo comma, TUEL rappresenta un’eccezione ai principi riguardanti la necessità del preventivo impegno formale e della copertura finanziaria; onde per riportare le ipotesi previste nell’ambito del principio di copertura finanziaria è, dunque, richiesta la delibera consiliare con la quale viene ripristinata la fisiologia della fase della spesa e i debiti de quibus vengono ricondotti a sistema (cfr. ex multis Corte dei Conti, sez. contr. Friuli Venezia Giulia, 6/1c/2005,) mediante l’adozione dei necessari provvedimenti di riequilibrio finanziario.
Ulteriore funzione svolta dalla delibera consiliare è l’accertamento delle cause che hanno originato l’obbligo, con le consequenziali ed eventuali responsabilità; infatti, questa funzione di accertamento è rafforzata dalla previsione dell’invio alla Procura regionale della Corte dei conti (art. 23, comma 5, L. 289/2002) delle delibere di riconoscimento di debito fuori bilancio.
Nella delineata prospettiva interpretativa,
la delibera consiliare svolge una duplice funzione, per un verso, tipicamente giuscontabilistica, finalizzata ad assicurare la salvaguardia degli equilibri di bilancio; per l’altro, garantista, ai fini dell’accertamento dell’eventuale responsabilità amministrativo-contabile (cfr. ex multis: Corte dei conti, Sezione Regionale per la Puglia n. 180/PRSP/2014).
Sulla base delle esposte considerazioni,
nel caso di sentenze esecutive e di pignoramenti, sussiste, l’obbligo di procedere con tempestività alla convocazione del Consiglio comunale per il riconoscimento del debito, in modo da impedire il maturare di interessi, rivalutazione monetaria ed ulteriori spese legali (cfr. ex multis Corte dei conti, Sezione Regionale per la Puglia n. 122/PRSP/2016).
Pertanto,
alla luce dell’attuale normativa, non è consentito all’ente locale discostarsi dalle prescrizioni letterali degli artt. 193 e 194 TUEL che garantiscono una maggiore efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa per salvaguardare gli equilibri finanziari dell’ente locale.
Inoltre,
il tempestivo riconoscimento e finanziamento del debito fuori bilancio, nonché il conseguente pagamento, non esporrebbero l’ente al rischio di azioni esecutive, considerato che il decorso di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo (previsti dall’art. 14, del Decreto Legge 31.12.1996, n. 669 convertito in legge 28.02.1997, n. 30 come modificato dall’art. 147 della Legge 23.12.2000, n. 288), comporterebbe l’avvio delle procedure esecutive nei confronti della P.A. (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 15.09.2016 n. 152).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni e adozione Piano Performance (o PEG).
Domanda
Per procedere alle assunzioni di personale inserite nell’annualità 2018, approvato il DUP ed il Bilancio triennale, è necessario anche aver approvato il PEG/Piano della Performance salvo incorrere nelle sanzioni previste dall’ art. 10 del d.lgs. 150/2009?
Risposta
L’art. 10 del d.lgs. 150/2009 non è norma di diretta applicazione per gli enti locali in quanto non espressamente richiamata dall’art. 16 del medesimo decreto.
Nonostante ciò, rileviamo che, per le Sezioni regionali della Corte dei Conti, tale divieto viene generalmente inteso come vigente anche per le amministrazioni territoriali.
A tal proposito, come approfondimento, suggeriamo la lettura della Deliberazione n. 1/2018 della Corte dei conti della Sardegna che rappresenta un’ottima sintesi del pensiero attuale sulla vicenda.
In modo particolare viene affermato che l’adozione del piano, per tutti gli enti locali, è condizione necessaria per l’esercizio della facoltà assunzionale negli esercizi finanziari a venire.
Inoltre, “l’assegnazione, in via preventiva di precisi obiettivi da raggiungere e la valutazione successiva del grado di raggiungimento degli stessi rappresentano una condizione indispensabile per l’erogazione della retribuzione di risultato” (Sez. controllo Veneto, deliberazione n. 161/PAR/2013; Sez. controllo Puglia, deliberazione n. 123/PAR/2013 e 15/PAR/2016).
L’eventuale accertamento della mancata adozione del Piano della Performance (e del Peg per i Comuni superiori ai 5.000 abitanti), può comportare, inoltre, il divieto di erogazione della retribuzione di risultato ai dirigenti che ne risultino responsabili (29.03.2018 - link a www.publika.it).

APPALTIAffidamento senza requisiti.
Domanda
Dalla lettura delle linee guida ANAC n. 4, si evince un obbligo a carico delle pubbliche amministrazioni di effettuare i controlli sull’aggiudicatario in modo completo, ogni volta che l’affidamento, seppur di importo limitato, derivi da una procedura di gara, anche telematica. Attività di controllo che in precedenza veniva talvolta bypassata sulla base della presentazione di autocertificazioni.
Nella prassi operativa molti enti, in presenza di importi inferiori ad € 20.000,00 stipulano il contratto prescindendo da qualunque forma di verifica.
A parte l’eventuale conseguenza della risoluzione del contratto nel caso di riscontro postumo del mancato possesso dei requisiti, quali possono essere le conseguenze e le responsabilità in capo al funzionario che abbia adottato un provvedimento di aggiudicazione e successivamente stipulato un contratto in assenza di verifica dei requisiti morali e speciali previsti per la gara di che trattasi?
Risposta
Le implicazioni poste con il quesito sono effettivamente di rilievo ed estremamente attuali considerato anche il tentativo di “semplificare” la verifica introdotto con le nuove linee guida n. 4 –in tema di affidamento sotto la soglia comunitaria ed applicazione dell’art. 36 del codice– in relazione al caso dell’affidamento diretto.
Il controllo sull’affidatario non viene annullato e viene introdotto anche un controllo a campione (da effettuarsi sulla base di uno specifico regolamento interno della stazione appaltante). In caso di risoluzione del contratto, all’affidatario compete solo l’importo di prestazioni già eseguite (con l’incameramento della cauzione –se è stata richiesta– o in alternativa una penale del 10% sul prezzo del contratto).
Venendo alla sostanza del quesito la carenza sui requisiti determina sicuramente la risoluzione del contratto (infatti la stessa ANAC suggerisce di inserire delle specifiche clausole nel contratto) sotto il profilo della responsabilità dei funzionari dell’ente la questione evidentemente è piuttosto delicata.
In primo luogo è bene annotare che la responsabilità non è solo del funzionario stipulante (il dirigente/responsabile del servizio) ma dello stesso RUP (se i due soggetti evidentemente non coincidessero) e non solo interna (si pensi al caso del danno erariale).
L’aspetto più delicato è ovviamente quello dell’abuso d’ufficio per l’ingiusto vantaggio patrimoniale generato a favore di un soggetto sprovvisto dei requisiti.
Altre implicazioni potrebbero essere il danno all’immagine della stazione appaltante ed eventualmente il danno erariale (si pensi al ricorso del potenziale affidatario che si è visto preferito un soggetto sprovvisto di requisiti ed alle spese per l’eventuale soccombenza che dovrà sopportare la stazione appaltante).
Ulteriori delicate implicanze potrebbero sorgere in caso di controllo successivo del Segretario (nel caso in cui la stazione appaltante sia un ente locale) che può sfociare finanche in provvedimenti disciplinari.
Da notare –e non per irrilevanza– il fatto che con l’accesso civico generalizzato tale “negligenza” potrebbe emergere anche a seguito di un controllo attivato da chiunque (attraverso l’articolo 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016) senza particolare motivazione se non l’istanza per ripristinare la legalità dell’azione amministrativa (28.03.2018 - link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPubblicazioni on-line e formato aperto.
Domanda
Formato aperto: quali sono le indicazioni tecniche per il caricamento dei dati e delle informazioni nella sezione web di Amministrazione Trasparente?
Risposta
L’Autorità Nazionale Anticorruzione –quando ancora si chiamava CIVIT (Commissione per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità delle amministrazioni pubbliche)– aveva diffuso un documento tecnico che definiva puntualmente i criteri di qualità della pubblicazione dei dati nella sezione web di Amministrazione Trasparente.
In particolare, veniva richiamata la definizione data dalla Legge 190/2012: “per formati di dati aperti si devono intendere almeno i dati resi disponibili e fruibili on-line in formati non proprietari, a condizioni tali da permetterne il più ampio riutilizzo.”.
Inoltre, il formato di dati di tipo aperto viene precisamente definito alla lettera a), comma 3, dell’art. 68 del CAD (Codice dell’Amministrazione Digitale, decreto legislativo 07.03.2005, n. 82) come “un formato di dati reso pubblico, documentato esaustivamente e neutro rispetto agli strumenti tecnologici necessari per la fruizione dei dati stessi”. Tale definizione fa riferimento agli aspetti tecnologici ed evidenzia l’obiettivo di garantire un livello adeguato di interoperabilità dei dati.
Da ciò discende che i files pubblicabili in Amministrazione Trasparente, conformi –quindi– alle regole tecniche dettate dall’Autorità, devono possedere le seguenti determinate caratteristiche:
   • sono originati da una suite gestionale rilasciata con licenza libera e Open Source –come OpenOffice o LibreOffice– in un formato ODF (Open Document Format) che consente di leggere e scrivere files nei formati utilizzati dai prodotti più diffusi sul mercato, oltre a consentirne l’esportazione in formato PDF;
   • sono originati da un applicativo il cui software –anche se proprietario– è però scaricabile gratuitamente (es. Adobe Acrobat ).
In questo secondo caso specifico, si raccomanda l’impiego del software esclusivamente nelle versioni che consentano l’archiviazione a lungo termine (ad esempio, il formato PDF/A), a garanzia di una futura accessibilità.
Diversamente, i PDF in formato immagine –originati da una scansione digitale di documenti cartacei– non permettono che i dati e le informazioni contenute siano liberamente scaricabili ed elaborabili. Per questo motivo tali files non potranno essere pubblicati nella sezione web di Amministrazione Trasparente, poiché non riconosciuti dall’Autorità come “formato aperto”.
Anche i documenti originati da una suite proprietaria –come i files di word o excel– non sono riconosciuti dall’Autorità tra i formati aperti; per esserlo, dovranno essere trasformati in PDF/A (27.03.2018 - link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOSSERVATORIO VIMINALE/ L’urgenza va motivata. Per giustificare le delibere subito eseguibili. Si tratta comunque di una scelta discrezionale dell’amministrazione.
Per le deliberazioni del consiglio e della giunta che, in caso di urgenza, vengono dichiarate immediatamente eseguibili con il voto espresso dalla maggioranza dei componenti, ai sensi dell'art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, è necessaria una specifica motivazione giustificativa della formula di «immediata eseguibilità»?
In linea generale, la dichiarazione di immediata eseguibilità, come disciplinata dal citato art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, risponde all'esigenza di porre in essere le deliberazioni urgenti; quindi, limitatamente a tali casi, deve scaturire da apposita separata votazione che approvi tale dichiarazione con il voto favorevole della maggioranza dei componenti del collegio, non essendo sufficiente il voto della maggioranza semplice dei votanti o dei presenti.
La decisione di attribuire a una deliberazione la connotazione dell'immediata eseguibilità assume, infatti, autonoma valenza rispetto all'approvazione del provvedimento cui si riferisce, restandone logicamente distinta.
In merito, il Tar Liguria, sez. II, con decisione n. 2/2007, ha affermato che in virtù dell'art. 134, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, la necessità che la dichiarazione di immediata eseguibilità (per motivi di urgenza) di una delibera di consiglio o di giunta, sia oggetto di un'autonoma votazione, fa sì che tale dichiarazione, pur accedendo alla delibera, non si identifichi con essa. Lo stesso Tribunale ha puntualizzato che il legislatore non ha ritenuto la clausola di immediata eseguibilità quale attributo necessario di ogni delibera, ma ha inteso farla dipendere da una scelta discrezionale (basata sul requisito dell'urgenza) dell'amministrazione procedente.
Circa la fattispecie in esame, devono ritenersi, pertanto, condivisibili le osservazioni formulate dal Tar Piemonte che, nella sentenza n. 460 del 2014, in materia di indefettibilità di adeguata motivazione giustificativa della dichiarazione di immediata eseguibilità, ha ritenuto che «la clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale dell'amministrazione, comunque pur sempre correlata al requisito dell'urgenza, che deve ricevere adeguata motivazione nell'ambito dello stesso atto»
 (articolo ItaliaOggi del 23.03.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConseguenze mancata costituzione fondo risorse decentrate.
Domanda
Se un ente non costituisce il fondo delle risorse decentrate cosa accade? Quali somme confluiscono in avanzo di amministrazione?
Risposta
Sulla base dei principi contabili contenuti nell’allegato 4/2 del d.lgs. 118/2011 è necessario porre particolare attenzione alle fasi di costituzione del fondo delle risorse decentrate e alla relativa contrattazione integrativa.
La risposta alla questione giunge dalla recente deliberazione n. 15/2018/PAR del 28.02.2018 della Corte dei conti del Molise con la quale viene innanzitutto ricordato che la costituzione del fondo è atto da ricondurre alla dirigenza atteso che lo stesso deve essere non solo ricognitivo della presenza di sufficienti risorse in bilancio ma ben si colloca nell’ambito delle attribuzioni della stessa dirigenza in ordine alla verifica della correttezza della quantificazione delle risorse iscritte in bilancio destinate alla contrattazione decentrata e del rispetto dei vincoli di finanza pubblica che ne influenzano la modalità di determinazione.
In base a quanto previsto nell’allegato 4/2 al punto 5.2 del d.lgs. 118/2011, la giurisprudenza contabile ha evidenziato che la corretta gestione del fondo comprende tre fasi obbligatorie e sequenziali e che solamente nel caso in cui nell’esercizio di riferimento siano adempiute correttamente tutte e tre le fasi, le risorse riferite al fondo potranno essere impegnate e liquidate;
   • la prima fase consiste nell’individuazione in bilancio delle risorse;
   • la seconda fase consiste nell’adozione dell’atto di costituzione del fondo che ha la funzione di costituire il vincolo contabile alle risorse e svolge una funzione ricognitiva in quanto è diretta a quantificare l’ammontare delle risorse. Tale atto deve essere formale e di competenza del dirigente e, inoltre, deve essere sottoposto a certificazione da parte dell’organo di revisione;
   • la terza ed ultima fase consiste nella sottoscrizione del contratto decentrato annuale che, secondo i nuovi principi della competenza finanziaria potenziata, costituisce titolo idoneo al perfezionamento dell’obbligazione. Infatti, alla sottoscrizione della contrattazione integrativa si impegnano le obbligazioni relative al trattamento accessorio e premiante (registrazione), imputandole contabilmente agli esercizi del bilancio di previsione in cui tali obbligazioni scadono o diventano esigibili.
Da quanto detto, a parere del Collegio, emerge che solamente nel momento in cui si completa l’iter appena descritto l’ente può impegnare il fondo e può pagare secondo il principio della competenza potenziata (esigibilità).
Quanto, poi, alla possibilità di considerare le somme riguardanti il fondo come residui da “trascinare” nella contrattazione degli anni successivi o, in alternativa, come economie di bilancio, la Sezione ricorda il principio per cui “nel caso di mancata costituzione del fondo nell’anno di riferimento, le economie di bilancio confluiscono nel risultato di amministrazione, vincolato per la sola quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale”.
Ne consegue, pertanto, che la sola quota stabile del fondo, in quanto obbligatoriamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale, confluisce nell’avanzo vincolato e potrà essere spesa nell’anno successivo; diversamente, le risorse variabili restano definitivamente acquisite al bilancio come economie di spesa.
Da ultimo, viene evidenziato come le risorse trasportate, ancorché di parte stabile, debbono essere qualificate, nel fondo degli anni successivi, come risorse a carattere strettamente variabile, con espresso divieto, quindi, di utilizzarle per finanziare impieghi fissi e continuativi (22.03.2018 - link a www.publika.it).

APPALTINecessità commissione di gara.
Domanda
Nel caso di aggiudicazione all’offerta economicamente più vantaggiosa è obbligatorio nominare una commissione di gara (con membri esterni) indipendentemente dall’importo?
Ad esempio è obbligatorio farlo per una procedura di valore inferiore a 40.000,00 euro?
Risposta
La risposta esige una premessa sulla struttura della domanda. Per come posta, con riferimento all’affidamento di importo inferiore ai 40mila euro, sembra quasi che le acquisizioni nel sotto soglia, ed in particolare i micro affidamenti, si situino su un piano alternativo rispetto alle gare “tradizionali”.
Ovviamente non è così. La sostanziale differenza –certo non di poco conto– è che per un ambito rilevantissimo il legislatore ha deciso di incidere assicurando una maggiore tempestività con riduzione dei formalismi legati, soprattutto, alla non necessità di predisporre una autentica legge di disciplina della gara.
Ma è chiaro che le norme di fondo, soprattutto quelle finalizzare ad assicurare correttezza ed oggettività del procedimento di assegnazione, devono essere rispettate. In alcun modo possono essere superate/derogate.
Tra queste rientra sicuramente l’obbligo del RUP di proporre la nomina della commissione di gara (al proprio dirigente/responsabile del servizio) nel momento in cui avvia un procedimento di acquisto da assegnare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. A prescindere dall’importo.
In questo senso, del resto, in modo piuttosto chiaro il primo comma dell’art. 77 del Codice in cui si legge –al pari di quanto normalmente noto– che “nelle procedure di aggiudicazione di contratti di appalti o di concessioni, limitatamente ai casi di aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico ed economico è affidata ad una commissione giudicatrice, composta da esperti nello specifico settore cui afferisce l’oggetto del contratto”.
In un affidamento semplificato, sicuramente, non si potrà formalizzare sull’esperienza – nel senso che, salvo specifiche situazioni, non sarà necessario “scomodare” docenti e similia. Ma la valutazione discrezionale esige un intervento collegiale.
Eccezioni –ma con rischi– si potrebbero ravvisare nel caso in cui la valutazione non implichi effettivamente alcuna valutazione di tipo discrezionale (ad esempio sia stata prevista l’attribuzione di punteggi “aritmetici") ma in ogni caso, pur non parlando di commissione, sarà necessario costituire un seggio di gara con più soggetti. Sempre che il tutto venga chiaramente esplicitato nella determina a contrattare.
Sotto il profilo pratico, naturalmente, si suggerisce –con il multi criterio– di prevedere sempre la nomina di una commissione di gara (21.03.2018 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOApprovazione codice comportamento.
Domanda
Dopo quanti anni occorre riapprovare il Codice di comportamento di ente, previsto dall’art. 1, comma 2, del d.p.r. 62/2013?
Risposta
Dopo l’entrata in vigore del d.p.r. 62/2013 “Codice di comportamento dei dipendenti pubblici” le singole amministrazioni dovevano definire, ai sensi dell’art. 54, comma 5, del d.lgs. 165/2001, un proprio codice di comportamento integrando e specificando –ma comunque in modo più restrittivo– quello approvato dal legislatore nazionale.
Le norme vigenti non ne prevedono una scadenza e nemmeno una tempistica di revisione e aggiornamento.
Tuttavia, come si desume dalle indicazioni ANAC, potrebbe risultare opportuno ridefinirne i confini dopo cinque anni dalla sua prima approvazione.
Infatti, secondo l’aggiornamento del PNA 2015 (sezione: Vigilanza dell’ANAC: priorità ed obiettivi – pag. 52), dopo alcuni anni di attuazione, si rende opportuno procedere ad una revisione generale del Codice di comportamento di ente, sulla base di una adeguata riflessione che porti all’adozione di norme destinate a durare nel tempo.
La revisione dovrà necessariamente essere l’esito delle attività di vigilanza e monitoraggio sull’applicazione del Codice che devono essere previste tra le azioni dal Piano di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) adottato annualmente.
Si ricorda, altresì, che anche il PNA 2016 (pag. 5) prevede che sui codici di comportamento l’ANAC assuma atti di orientamento (es. Linee guida generali), riservandosi di intervenire anche ai fini di un maggior coordinamento, differenziando per tipologia di amministrazioni e enti, confermando quanto contenuto nel PNA 2015 circa i loro contenuti e valenza “gli enti sono tenuti all’adozione di codici che contengano norme e doveri di comportamento destinati a durare nel tempo, da calibrare in relazione alla peculiarità delle finalità istituzionali perseguite dalle singole amministrazioni: non quindi una generica ripetizione dei contenuti del codice di cui al d.p.r. 62/2013, ma una disciplina che, a partire da quella generale, diversifichi i doveri dei dipendenti e di coloro che vi entrino in relazione, in funzione delle specificità di ciascuna amministrazione”.
Pertanto, avendo l’ANAC già previsto di dettare specifiche Linee guida sulla revisione dei Codici, si consiglia di prevedere, tra le azioni del PTPCT, la programmazione di un lavoro di revisione del Codice di comportamento dell’ente, da concludersi entro un quinquennio dalla sua adozione (20.03.2018 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso digitale agli atti. Documenti richiedibili in formato elettronico. Se la documentazione è voluminosa, le copie online sono preferibili.
Può essere esercitato, da parte dei consiglieri comunali, il diritto di accesso agli atti dell'ente locale, richiedendo che l'ostensione della documentazione amministrativa sia effettuata su supporto digitale, o eventualmente indicando il relativo link a cui accedere nella sezione «Amministrazione trasparente», in luogo del rilascio delle copie cartacee?
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali deve essere esercitato in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali, attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente (art. 43 del Testo unico enti locali, dlgs n. 267/2000).
Inoltre non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali condizioni deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
Al fine di evitare che le continue richieste di accesso si traducessero in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha riconosciuto la possibilità, per il consigliere comunale, di avere accesso diretto al sistema informatico interno, anche contabile, del comune attraverso l'uso della password di servizio (si veda parere del 29/11/2009).
Anche il Tribunale amministrativo regionale della Sardegna, con la sentenza n. 29/2007, ha ritenuto che «la notevole mole della documentazione da consegnare può, nel caso, giustificare la distribuzione nel tempo del rilascio delle copie richieste».
Il Consiglio di stato ha, inoltre, affermato che, «qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, appare, altresì, legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee» (si veda Consiglio di stato, sentenza n. 6742/07 del 28/12/2007).
Tale modalità è, peraltro, conforme alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82 del 07.03.2005) che, all'art. 2, prevede che anche «le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione»
(articolo ItaliaOggi del 16.03.2018).

APPALTIAdempimenti nomina commissione giudicatrice.
Domanda
L’ente deve affidare un appalto di servizi mediante procedura telematica con aggiudicazione all’offerta economicamente più vantaggiosa ai sensi dell’art. 95 del codice. Quali sono gli adempimenti previsti per la nomina della Commissione giudicatrice?
Risposta
Le disposizioni principali che si ritiene debbano essere considerate con riferimento alla nomina della Commissione giudicatrice sono le seguenti:
   • Codice dei contratti: art. 29 “Principi in materia di trasparenza”; art. 77 “Commissione giudicatrice”; art. 78 “Albo dei componenti delle commissione giudicatrici”; art. 216, co. 12 “Disposizioni transitorie e di coordinamento”;
   • Linee guida n. 5, di attuazione del d.lgs. 50/2016, recanti “Criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti nell’Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici”, aggiornate al d.lgs. 56/2017 con deliberazione del Consiglio n. 4 del 10.01.2018;
   • Linee guida n. 3, di attuazione del d.lgs. 50/2016, recanti “Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l’affidamento di appalti e concessioni”, aggiornate al d.lgs. 56/2017 con deliberazione del Consiglio n. 1007 del 11.10.2017;
   • D.lgs. n. 33/2013 “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”, art. 15, co. 1;
   • Linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni contenuti nel d.lgs. 33/2016 come modificato dal d.lgs. 97/2016, par. 5.1.
Sulla base delle disposizioni che precedono, una volta individuati i commissari nel rispetto delle vigenti regole di competenza e trasparenza, occorre procedere ai seguenti adempimenti:
Adempimenti/Verifiche
  
Dichiarazione assenza cause di esclusione di cui ai punti 3.1 e seguenti delle linee guida n. 5 Soggetti interessati: Commissario esterno/Commissario interno
   Dichiarazione inesistenza cause di incompatibilità di cui all’art. 77, co. 4, del codice Soggetti interessati: Commissario esterno/Commissario interno
  
Dichiarazione inesistenza cause di incompatibilità di cui all’art. 77, co. 5, del codice
Soggetti interessati: Commissario esterno/Commissario interno
  
Dichiarazione inesistenza cause di incompatibilità di cui all’art. 77, co. 6, del codice
Soggetti interessati: Commissario esterno/Commissario interno/Segretario
  
Autorizzazione di cui all’art. 53, co. 7, del d.lgs. 165/2001 della propria amministrazione
Soggetti interessati: Commissario esterno dipendente di amministrazioni aggiudicatrici
  
Dichiarazione ai sensi dell’art. 15, co. 1, del d.lgs. 33/2013 da pubblicarsi in “Amministrazione trasparente – sotto-sezione consulenti e collaboratori
Soggetti interessati: Commissario esterno
  
Attestazione di avvenuta verifica insussistenza di situazioni, anche potenziali di conflitto di interessi, ai sensi dell’art. 53, co. 14, d.lgs. 165/2001, nel caso di nomina di Commissario esterno, da pubblicarsi in “Amministrazione trasparente – sotto-sezione consulenti e collaboratori
Soggetti interessati: Responsabile che procede alla nomina
  
Provvedimento di nomina della Commissione da pubblicarsi in “Amministrazione trasparente” ai sensi dell’art. 29 del d.lgs. 50/2016 e Servizio Contratti Pubblici del Ministero www.serviziocontrattipubblici.it (sito web del Mit)
  
Curriculm vitae da pubblicarsi in “Amministrazione trasparente” ai sensi dell’art. 29 del d.lgs. 50/2016 e Servizio Contratti Pubblici del Ministero www.serviziocontrattipubblici.it (sito web del Mit)
Soggetti interessati: Tutti i commissari
  
Curriculm vitae da pubblicarsi in “Amministrazione trasparente sotto-sezione consulenti e collaboratori” ai sensi dell’art. 15, co. 1, del d.lgs. 33/2013
Soggetti interessati: Commissario esterno
  
Atto di conferimento dell’incarico (disciplinare di incarico, contratto nella forma dello scambio di lettera commerciale)
  
Nel caso di Commissario esterno, gli estremi, con la durata e l’ammontare erogato, vanno pubblicati in “Amministrazione trasparente sotto-sezione consulenti e collaboratori” ai sensi dell’art. 15, co. 1, del d.lgs. 33/2013 (14.03.2018 - link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Rilevazione annuale OIV.
Domanda
Ci sono novità da ANAC sulla rilevazione annuale dell’OIV sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione sulla sezione di Amministrazione Trasparente?
Risposta
Tra le news sul portale web dell’Autorità (ANAC) è apparso mercoledì 07.03.2018 il comunicato riguardante la rilevazione che gli OIV (o organismi con funzioni analoghe) sono tenuti ad effettuare sul corretto assolvimento delle pubblicazioni nella sezione web istituzionale di AMMINISTRAZIONE TRASPARENTE.
La delibera di riferimento –n. 141 del 21.02.2018– è scaricabile sul portale web di ANAC.
La griglia di rilevazione, con l’attestazione e la scheda di sintesi, dovranno essere compilate a cura dell’OIV / Nucleo di Valutazione, sulla base delle pubblicazioni presenti alla data del 31.03.2018.
E’ importante tenere conto che la rilevazione dovrà necessariamente considerare le informazioni pubblicate con data antecedente il 1° aprile: ANAC è stata chiara nel sottolineare i tempi a disposizione degli OIV/Nuclei.
Le sezioni sotto esame, per le pubbliche amministrazioni, che ANAC ha indicato con precisione sono:
1. CONSULENTI E COLLABORATORI (artt. 15 e 53 del D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
2. PERSONALE > Incarichi conferiti e autorizzati ai dipendenti (art. 18 del D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
3. BANDI DI CONCORSO (art. 19 del D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
4. SOVVENZIONI, CONTRIBUTI, SUSSIDI, VANTAGGI ECONOMICI (artt. 26 e 27 del D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
5. BENI IMMOBILI E GESTIONE PATRIMONIO (art. 30 del D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
6. CONTROLLI E RILIEVI SULL’AMMINISTRAZIONE (art. 31 del D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
7. PIANIFICAZIONE E GOVERNO DEL TERRITORIO (art. 39 del D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
8. STRUTTURE SANITARIE PRIVATE ACCREDITATE (obbligo di pubblicazione riservato alle Regioni)
9. SERVIZI EROGATI > Liste di attesa: (obbligo riservato agli enti, aziende e strutture pubbliche e private che erogano prestazioni per conto del servizio sanitario) (art. 41 del D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
10. ALTRI CONTENUTI > Prevenzione della corruzione (art. 10 del D.Lgs. 33/2013 e s.m.i.)
11. ALTRI CONTENUTI > Accesso civico (Linee guide FOIA – det. 1309/2016)
Inoltre –novità di quest’anno– la delibera di riferimento ha evidenziato che l’OIV/Nucleo dovrà rilevare nel documento di attestazione anche le seguenti informazioni:
   • se l’ente ha o meno individuato misure organizzative che assicurano il regolare funzionamento dei flussi informativi riguardanti la pubblicazione dei dati
   • se l’ente ha o meno individuato nella sezione Trasparenza del PTPC i responsabili della trasmissione e della pubblicazione dei documenti.
L’attestazione, assieme alla griglia di rilevazione ed alla scheda di sintesi, compilate dall’OIV / Nucleo di Valutazione, andranno poi pubblicate entro il 30.04.2018 nella sotto–sezione >Controlli e rilievi sull’amministrazione >OIV, Nuclei di valutazione o altri organismi con funzioni analoghe (13.03.2018 - link a www.publika.it).

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Ardea, loc. Le Salzare, area archeologia di Castrum Inui - Lavori di manutenzione e recupero del patrimonio esistente - Programmazione triennale ai sensi dell'art. 1, commi 9 e 10, della legge n. 190 del 2014 — sostituzione RUP e ufficio di direzione lavori — parere (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 12.03.2018 n. 7090 di prot.).
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Con nota prot. 3725 del 05.03.2018 codesta Soprintendenza chiede un parere in merito alla possibilità di sostituire il RUP già incaricato per i lavori di manutenzione e recupero dell'area archeologica di Castrum Inui.
L'esigenza è originata dalla recente riorganizzazione degli uffici ministeriali, a seguito della quale il territorio del comune di Ardea ricade nelle competenze della Soprintendenza, mentre il RUP a suo tempo nominato (in quanto all'epoca funzionario di zona) è transitato nei ruoli della Soprintendenza per le province di Frosinone, Latina e Rieti. Il nuovo RUP, scelto tra il personale interno, provvederebbe anche alla costituzione, se del caso, del nuovo ufficio di direzione lavori.
Al riguardo, si ritiene che codesta Soprintendenza possa senz'altro dare corso alla sostituzione proposta per le ragioni rappresentate, tra le quali il miglior svolgimento delle funzioni istituzionali di tutela del sito.
Questo ufficio si è già occupato in più occasioni dell'impatto del procedimento di riorganizzazione degli uffici ministeriali sulle procedure a evidenza pubblica in corso di svolgimento ... (...continua).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri senza fascia.
In occasione di cerimonie ed eventi civili e religiosi, i consiglieri comunali possono indossare una fascia tricolore quale titolo del ruolo politico e amministrativo ricoperto?

Il decreto legislativo n. 267/2000 all'art. 50, comma 12, dispone espressamente che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune, da portarsi a tracolla». La stessa disposizione prevede, altresì, che «distintivo del presidente della provincia è una fascia di colore azzurro con lo stemma della repubblica e lo stemma della provincia da portare a tracolla».
La legge, pertanto, non prevede nulla, per quanto riguarda i simboli da indossare, nei riguardi degli altri amministratori degli enti locali.
Il sistema delle autonomie ha, peraltro, un limite connaturato alla stessa essenza dell'autonomia che è quello di dare luogo ad ordinamenti liberi di autodeterminarsi entro la cornice ben definita di un ordinamento generale che, originario e sovrano, determina i caratteri peculiari ed il modo di tutti i soggetti che in esso si trovano a coesistere e ad operare (cfr. circolare Ministero dell'interno 04.11.1998 n. 5/98 – fascia tricolore – pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 270/1998).
La finalità della previsione di un distintivo è quella di rendere immediatamente individuabili i titolari di determinate cariche pubbliche attraverso la prescrizione di una medesima tipologia formale per ciascuna categoria di ente. In assenza di specifiche previsioni normative, quindi, l'istituzione di un distintivo anche per i consiglieri comunali non può essere contemplata.
Alla luce della legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001, sussiste, tuttavia, ampia possibilità per le autonomie locali di disciplinare, con normativa regolamentare, l'utilizzo dei propri segni distintivi, anche a scopo di rappresentanza, senza così ricorrere all'impiego di un simbolo, quale la fascia tricolore, attinente nello specifico al capo dell'amministrazione e allo svolgimento delle proprie funzioni in conformità alle indicazioni di legge
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2018).

PUBBLICO IMPIEGOPausa pranzo.
Domanda
La pausa pranzo può durare meno di mezzora?
Risposta
Siamo prossimi ad avere risposta certa a questa domanda, perché il contratto la cui ipotesi è stata sottoscritta il 21 febbraio scorso, ci porta una disciplina nuova e certa sulla durata minima della pausa.
Il quadro legale di riferimento è quello contenuto nell’art. 8 del d.lgs. 66/2003, dove si disciplina la pausa obbligatoria, quella cioè che deve intervenire dopo le 6 ore continuative di lavoro.
Tale pausa riveste il carattere di diritto indisponibile e la legge rinvia alla disciplina collettiva il compito di definirne le modalità di fruizione e la durata. In mancanza di disciplina collettiva di riferimento, il d.lgs. 66/2003 prevede una pausa obbligatoria di durata non inferiore ai 10 minuti.
È bene precisare, tuttavia, che la pausa obbligatoria non va confusa o assimilata in toto alla pausa pranzo. Il pranzo, infatti, potrebbe essere consumato prima del trascorrere delle 6 ore di servizio continuativo. Più semplicemente va ricordato che le pause hanno diverse funzioni e caratteristiche: alcune rivestono il carattere di diritto indisponibile, altre quello di consentire la consumazione del pasto.
Fino all’entrata in vigore del nuovo contratto, la fonte contrattuale che “nomina” la durata della pausa pranzo è l’art. 45 del CCNL del 14.09.2000 che tuttavia disciplina la mensa e, solo di riflesso, la durata della pausa pranzo. La norma precisa che “possono usufruire della mensa i dipendenti che prestino attività lavorativa al mattino con prosecuzione nelle ore pomeridiane, con una pausa non superiore a due ore e non inferiore a trenta minuti“.
A questo va aggiunto che l’istituzione del servizio mensa non è un obbligo tassativo degli enti, semmai una possibilità che deve essere compatibile con le risorse disponibili. È chiaro che ove l’ente non abbia istituito né la mensa né il buono pasto sostituivo, il riferimento della durata della pausa pranzo viene a mancare completamente, potendo lasciare spazio a pause inferiori alla mezz’ora ma non inferiori ai 10 minuti dopo le 6 ora continuative.
Il contratto nuovo, all’art. 26, scioglie ogni riserva e dubbio, armonizzando fonte legale e contrattuale, quantificando la durata minima della pausa oltre le sei ore di lavoro in trenta minuti e contestualmente prevedendo che la stessa pausa di almeno trenta minuti è quella da tenere in considerazione per la consumazione del pasto. In questo modo la disciplina è certa e non lascia spazio a pause pranzo inferiori alla mezz’ora.
L’unica eccezione alla pausa indisponibile oltre le 6 ore di lavoro è quella legata alle attività obbligatorie per legge (08.03.2018 - link a www.publika.it).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGOGare e commissari interni.
Domanda
Al punto 1. delle linee guida ANAC N. 5 sui “Criteri di scelta dei commissari di gara dei componenti delle commissione giudicatrici“, si legge “È da considerarsi interno alla stazione appaltante il commissario di gara scelto tra i dipendenti dei diversi entri aggregatori ai sensi dell’art. 37, co. 3 e 4, del codice dei contratti pubblici, anche se gli stessi non hanno perfezionato l’iter di costituzione delle forme aggregative di cui ai citati commi".
Volendo procedere alla nomina di un commissario esterno, in una gara indetta da un Comune, facente parte di una centrale unica di committenza, che tuttavia ha bandito la gara in autonomia, non essendo obbligatorio procedere, dato l’importo, mediante la centrale di committenza, il funzionario di uno degli enti aderenti alla centrale può essere considerato come esterno?
Oppure indipendentemente da chi bandisce la gara il funzionario deve essere sempre considerato come interno?
Risposta
Nel periodo transitorio –e quindi fino alla vigenza dell’Albo dei Commissari a gestione ANAC (ai sensi dell’art. 78 del codice dei contratti)– le stazioni appaltanti procedono, in relazione alla nomina dell’organo giudicatore, secondo le disposizioni del “proprio ordinamento” ovvero come hanno proceduto ante codice dei contratti.
Le indicazioni in questo senso sono leggibili nel comma 12 dell’art. 216 del codice dei contratti (al norma transitoria) a mente del quale “Fino alla adozione della disciplina in materia di iscrizione all’Albo di cui all’articolo 78, la commissione continua ad essere nominata dall’organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto, secondo regole di competenza e trasparenza preventivamente individuate da ciascuna stazione appaltante. Fino alla piena interazione dell’Albo di cui all’articolo 78 con le banche dati istituite presso le amministrazioni detentrici delle informazioni inerenti ai requisiti dei commissari, le stazioni appaltanti verificano, anche a campione, le autodichiarazioni presentate dai commissari estratti in ordine alla sussistenza dei requisiti dei medesimi commissari. Il mancato possesso dei requisiti o la dichiarazione di incompatibilità dei candidati deve essere tempestivamente comunicata dalla stazione appaltante all’ANAC ai fini della eventuale cancellazione dell’esperto dall’Albo e la comunicazione di un nuovo esperto”.
Si impone, pertanto, alle stazioni appaltanti l’obbligo di fissare delle regole di tipo generale che, per i comuni, potrebbero assumere la “forma” di un regolamento interno o anche di una direttiva generale del funzionario anticorruzione.
Utile, in questo senso, potrebbe essere la deliberazione dell’ANAC n. 620/2016 con cui l’autorità anticorruzione si è data delle disposizioni circa la nomina delle proprie commissioni di gara.
In relazione al passaggio indicato nel quesito circa la possibilità di nominare componenti delle commissioni tra soggetti facenti parte dell’unione, a sommesso parere, una volta fissate le regole di cui in argomento –di disciplina della nomina dei componenti– i funzionari facenti parte dei comuni aderenti all’unione, a prescindere dalla circostanza che sia stata formalizzata la centrale unica, sono da considerarsi membri inferni (come se si trattasse di dipendenti interni della stazione appaltante). Ciò ha delle implicazioni pratiche evidenti in quanto –considerato che la scelta andrà, presumibilmente, a ricadere tra i responsabili di servizio– non saranno dovuti il c.d. “gettone” di presenza né straordinario (salvo che i tratti di soggetti non responsabili di servizio).
A parere di chi scrive, salvo oggettive situazioni e/o dimostrate incompatibilità, la nomina a commissario (o presidente) non può essere rifiutata (07.03.2018 - link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVIRichieste FOIA.
Domanda
È pervenuta al nostro ente una richiesta di Accesso civico generalizzato (FOIA) che riguarda le le informazioni sotto meglio riportate:
AREA INFORMATICA:
   a) Elenco dei fornitori in essere e dei relativi contratti con l’indicazione del periodo contrattaule e dell’importo complessivo per gli anni 2015-2016-2017, con eventuale distinta, evidenziata nel contratto, tra costi di assistenza e manutenzione, di servizi e di investimento;
   b) Elenco delle applicazioni con indicazione del fornitore e del produttore (qualora differenti);
AREA TURISTICO GESTIONALE
   a) Informazioni sulla spesa del comune negli ultimi tre anni (2015-2016-2017) collegabili ad azioni di promozione e marketing turistico, pubblicità e organizzazione eventi;
   b) Indicazione sulla struttura organizzativa del personale impegnato dal comune nei suddetti servizi e quantificazione economica dei costi;
   c) Dettagli sui numeri delle presenze turistiche in eventi (palio, eventi musicali, letterari, manifestazioni fieristiche, ecc) e musei.
È possibile accoglierla?
Risposta
L’accesso civico generalizzato –FOIA è l’acronimo inglese che sta per Freedom Of Information Act– è un nuovo istituto giuridico introdotto nell’ordinamento con il decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, che ha largamente modificato ed integrato il d.lgs. 14.03.2013, n. 33, recante disposizioni in materia obblighi di trasparenza e pubblicità delle pubbliche amministrazioni.
Dopo le modifiche, quindi, l’articolo 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013, prevede quanto segue: "2. Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall’articolo 5-bis.".
L’accesso civico generalizzato, dunque, può essere attivato da chiunque e può riguardare qualsiasi dato o documento detenuto da una P.A. Le esclusioni e i limiti a tale diritto sono previste nell’art. 5-bis, del d.lgs. 33/2013 e il comma 6, di tale articolo prevede che l’ANAC, d’intesa col Garante della Privacy, avrebbe dovuto emanare delle Linee guida “ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico”.
L’ANAC ha emanato le previste Linee guida, approvandole con delibera n. 1309 del 28.12.2016 e, al Paragrafo 3, si suggerisce l’adozione, anche nella forma di un regolamento interno sull’accesso, di una disciplina che fornisca un quadro organico e coordinato dei profili applicativi relativi alle tre tipologie di accesso, con il fine di dare attuazione al nuovo principio di trasparenza introdotto dal legislatore e di evitare comportamenti disomogenei tra uffici della stessa amministrazione.
L’ente, pertanto, nella valutazione dell’Accesso e nella conseguente decisione se accoglierlo o meno, dovrebbe anche fare riferimento –qualora adottata– alla disciplina interna di cui dispone.
Le Linee guida ANAC, sono completate da un Allegato contenente una “Guida operativa all’accesso generalizzato”.
Tra le varie questioni trattate, al Punto 4 della Guida, si trova il seguente quesito e relativa risposta:
(4) Che cosa si può richiedere con l’accesso generalizzato?
Con la richiesta di accesso generalizzato possono essere richiesti i documenti, dati e informazioni in possesso dell’amministrazione.
Ciò significa:
   – che l’amministrazione non è tenuta a raccogliere informazioni che non sono in suo possesso per rispondere ad una richiesta di accesso generalizzato, ma deve limitarsi a rispondere sulla base dei documenti e delle informazioni che sono già in suo possesso;
   – che l’amministrazione non è tenuta a rielaborare informazioni in suo possesso, per rispondere ad una richiesta di accesso generalizzato: deve consentire l’accesso ai documenti, ai dati ed alle informazioni così come sono già detenuti, organizzati, gestiti e fruiti.
   – che sono ammissibili, invece, le operazioni di elaborazione che consistono nell’oscuramento dei dati personali presenti nel documento o nell’informazione richiesta, e più in generale nella loro anonimizzazione, qualora ciò sia funzionale a rendere possibile l’accesso.
La richiesta di accesso generalizzato deve identificare i documenti e i dati richiesti. Ciò significa:
   – che la richiesta indica i documenti o i dati richiesti, ovvero
   – che la richiesta consente all’amministrazione di identificare agevolmente i documenti o i dati richiesti. Devono essere ritenute inammissibili le richieste formulate in modo così vago da non permettere all’amministrazione di identificare i documenti o le informazioni richieste. In questi casi, l’amministrazione destinataria della domanda dovrebbe chiedere di precisare l’oggetto della richiesta.

Da quanto sopra riportato, rispondendo al quesito, si ritiene che la domanda di accesso, così come formulata, NON SIA ACCOGLIBILE, ai sensi dell’articolo 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013, con la motivazione che l’interessato non ha indicato, in modo chiaro e comprensibile, nessun dato o documento, detenuto dall’ente, ma ha richiesto una serie di informazioni, riferite a più anni, che l’ente locale, per poter rispondere, dovrebbe:
   a) ricercare; b) trovare; c) esaminare; d) estrapolare; e) assemblare; f) equiparare; g) confrontare; h) elaborare.
In aggiunta, si sottolinea che alcune delle informazioni richieste dovrebbero essere già reperibili nel sito web del comune e più precisamente:
Per Area informatica, Punto a) le informazioni si possono trovare nella sezione Amministrazione trasparente > Bandi di gara e contratti.
Per Area Turistico gestionale, Punto b) le informazioni si possono trovare nella sezione: Amministrazione trasparente > Organizzazione > Articolazione degli uffici (06.03.2018 - link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATAOneri urbanizzazione e cassa vincolata.
Domanda
Ho letto in un vostro articolo apparso su Publika Daily n. 02/2018 che da quest’anno le entrate da oneri di urbanizzazione creano anche cassa vincolata, mentre –parlando in questi giorni con una collega di un comune limitrofo– la stessa sostiene che non sia vero.
Come stanno esattamente le cose?
Risposta
L’art. 1, comma 460, della Legge di Bilancio 2017 (come integrato dal decreto fiscale), quanto alle entrate dai cosiddetti oneri di urbanizzazione, prevede dall’01/01/2018 un vincolo esclusivo di destinazione senza limiti temporali per:
   • realizzazione e manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria
    • risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate
    • interventi di riuso e di rigenerazione
    • interventi di demolizione di costruzioni abusive
    • acquisizione e realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico
   • interventi di tutela e riqualificazione dell’ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico
   • tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico
   • interventi volti a favorire l’insediamento di attività di agricoltura nell’ambito urbano
   • spese di progettazione per opere pubbliche
In conseguenza di ciò, è evidente che le economie di spesa su capitoli finanziati da oneri di urbanizzazione (mentre prima creavano avanzo destinato agli investimenti) dal 2018 creeranno Avanzo Vincolato per il finanziamento delle suddette tipologie di spesa. La domanda che non trovava chiara risposta era invece se questi creano o meno anche cassa vincolata; infatti, come si rammenterà, a norma del combinato disposto degli art. 195 e 180 del TUEL, creano cassa vincolata le entrate con vincoli di destinazione derivanti da leggi, trasferimenti e prestiti.
In una prima fase pareva che anche le entrate in commento dovessero rientrare in questa definizione. Nei giorni scorsi ARCONET ha finalmente pubblicato la seguente FAQ:
  
L’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016 n. 232 individua, a decorrere dal 01.01.2018, le destinazioni esclusive e senza vincoli temporali dei proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
Si chiede se trattasi di una previsione di specifica o generica destinazione agli investimenti. Si chiede inoltre, nel caso trattasi di un vincolo di specifica destinazione, se è necessario adeguare la cassa vincolata al fine di conteggiare anche gli oneri versati prima del 01/01/2018.
  
L’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016 n. 232, per le entrate derivanti dai titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, individua un insieme di possibili destinazioni, la cui scelta è rimessa alla discrezionalità dell’ente.
Si ritiene pertanto che tale elenco, previsto dalla legge, non rappresenti un vincolo di destinazione specifico ma una generica destinazione ad una categoria di spese.

Pertanto è finalmente stato chiarito che la legge non crea per gli oneri un «un vincolo di destinazione specifico» bensì una mera «generica destinazione ad una categoria di spese» e –di conseguenza– non si deve considerare tale entrata nella quantificazione della cassa vincolata (05.03.2018 - link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOTermine preavviso congedo parentale.
Domanda
Alla luce dell’art. 43 del nuovo contratto in materia di congedo dei genitori, il termine di preavviso del congedo parentale ad ore è di 2 o di 5 giorni?
Risposta
Per rispondere alla domanda va detto che il termine di preavviso con il quale va presentata la domanda di congedo parentale trova regolamentazione sia nel d.lgs. 151/2001 che nel nuovo contratto; nelle due diverse fonti del diritto le discipline non possono dirsi completamente allineate.
L’art. 43 dell’ipotesi di contratto, riscrive e sostituisce all’art. 17 del CCNL del 14.09.2000 in materia di congedo dei genitori e prevede che ai fini della fruizione, anche frazionata, dei periodi di congedo parentale, ai sensi dell’art. 32 del d.lgs. 151/2001, la lavoratrice madre o il lavoratore padre debbano presentare la relativa domanda almeno cinque giorni prima della data di decorrenza del periodo di astensione.
La disposizione contrattuale prevede poi che, per particolari e comprovate situazioni personali che rendano oggettivamente impossibile il rispetto dei termini sopra descritti, la domanda può essere presentate entro le 48 ore precedenti l’inizio del periodo di astensione dal lavoro.
L’art. 32 del d.lgs. 151/2001 rimanda in primis ai contratti collettivi il compito di definire i termini di preavviso con i quali fruire del congedo parentale, prevedendo poi un diverso termine a seconda che il congedo sia a fruito a giorni: preavviso di 5 giorni, oppure sia fruito ad ore: 2 giorni di preavviso. Questo salvo casi di oggettiva impossibilità.
Fermo restando il rinvio alla contrattazione collettiva, si ritiene che il termine di preavviso da rispettare nel caso di congedo parentale fruito ad ore sia quello dei 5 giorni, derogabile a 48 ora solo nei casi in cui è oggettivamente impossibile il rispetto del termine dei 5 giorni.
Previsione contrattuale meno favorevole di quella legale dove il termine di preavviso, in difetto di disciplina collettiva, è, per il congedo ad ore di 2 giorni (01.03.2018 - link a www.publika.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIConvenzione Consip attiva e requisiti minimi essenziali.
Domanda
Il Comune deve procedere al noleggio di fotocopiatrici multifunzioni per tutti gli uffici comunali. E’ possibile fare una gara in autonomia quando è presente una convenzione CONSIP attiva? E a quali condizioni?
Risposta
Con riferimento al quesito in oggetto occorre rifarsi alle varie spending review che si sono succedute nel tempo. In particolare, all’art. 26, commi 1, 3 e 3-bis, della l. 488/1999 che, relativamente alle “Convenzioni” attive, prevede due alternative in capo alle Amministrazioni pubbliche, quella di aderire ovvero di andare in autonomia nel rispetto del benchmark.
Nonché al comma 449, della l. 296/2006, che nel caso specifico dei comuni, consente entrambe le possibilità, quindi di aderire alle convenzioni, ovvero di procedere autonomamente (con gara propria) utilizzando i parametri di qualità-prezzo delle citate convenzioni attive come limiti massimi per la stipula dei contratti.
Infine all’art. 1, comma 507, legge 208/15 che prevede "che con decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze sono definiti i valori delle caratteristiche essenziali e i relativi prezzi che costituiscono i parametri di prezzo e qualità di cui all’art. 26, comma 3, L. 489/1999”.
Pertanto, il comune, per poter affidare in autonoma il noleggio di multifunzioni dovrà migliorare quelle caratteristiche minime essenziali come definite da ultimo con decreto del MEF del 28.11.2017, pubblicato in GU n. 17 del 22.01.2018, e individuate nell’allegato 2 nei seguenti elementi: 1) velocità, 2) durata, 3) pagine incluse, 4) servizi connessi.
L’ente potrà legittimamente affermare che una convenzione ex art. 26, l. 488/1999, seppure attiva, non è idonea a soddisfare l’interesse pubblico che l’Amministrazione vuole perseguire, quando la prestazione di cui ha la necessità abbia delle caratteristiche migliori rispetto a quelle minime essenziali riconosciute con decreto ministeriale, giustificando in tal modo la mancata adesione.
Si ricorda che ai sensi dell’art. 1, comma 1, d.l. 95/2012 “i contratti stipulati in violazione dell’art. 26, comma 3, L. 488/1999 sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa. Ai fini della determinazione del danno erariale si tiene conto anche della differenza tra il prezzo, ove indicato, dei detti strumenti e quello indicato nel contratto”.
In caso di nullità, di quell’acquisto il diretto responsabile è il singolo funzionario che ha stipulato il contratto e non l’Amministrazione di appartenenza (28.02.2018 - link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIVerifica situazione patrimoniale e reddituale.
Domanda
Siamo un comune senza figure dirigenziali, con posizioni organizzative di categoria D, nominate dal sindaco. Si chiede se le P.O. debbano consegnare la loro situazione reddituale e patrimoniale all’ente e con quale frequenza?
Risposta
Negli enti senza dirigenza, l’obbligo previsto dall’art. 13, comma 3, del d.p.r. 16.04.2013, n. 62, recante il “Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165”, si applica al segretario comunale e alle posizioni organizzative, nominate ai sensi dell’art. 109, comma 2, del TUEL, dal sindaco.
L’equiparazione delle P.O. degli enti senza dirigenti, alle figure dirigenziali è prevista dal comma 1, del medesimo art. 13.
Si ricorda che gli obblighi di comunicazione riguardano i seguenti dati:
   a) le partecipazioni azionarie e gli altri interessi finanziari che possano porlo in conflitto di interessi con la funzione pubblica che svolge;
   b) la dichiarazione se ha parenti e affini entro il secondo grado, coniuge o convivente che esercitano attività politiche, professionali o economiche che li pongano in contatti frequenti con l’ufficio che dovrà dirigere o che siano coinvolti nelle decisioni o nelle attività inerenti all’ufficio;
   c) le informazioni sulla propria situazione patrimoniale e le dichiarazioni annuali dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche previste dalla legge.
Tale obbligo si esercita secondo due distinte tempistiche:
   1) prima di assumere le funzioni;
   2) con cadenza annuale, secondo i termini che saranno meglio definiti nel Codice di comportamento di ente (di norma, si stabilisce un termine dalla data ultima di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi).
I dati, di norma, vengono trasmessi al Responsabile della prevenzione della corruzione e trasparenza dell’ente e vengono conservati nel fascicolo individuale, tenuto presso il servizio personale.
I dati e le informazioni, al momento attuale, non vanno mai pubblicati nel sito web istituzionale, sezione Amministrazione trasparente, stante la sospensione imposta dall’ANAC con la delibera n. 382 del 12.04.2017, rubricata: “Sospensione dell’efficacia della delibera n. 241/2017 limitatamente alle indicazioni relative all’applicazione dell’art. 14, co. 1, lett. c) ed f), del d.lgs. 33/2013 per tutti i dirigenti pubblici, compresi quelli del SSN”.
Dal link qui di seguito è possibile scaricare un modello per la comunicazione dei dati alla propria amministrazione, da parte delle P.O.
Scarica il modello per la comunicazione dei dati patrimoniali e reddituali P.O. (27.02.2018 - link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOCongedo neo-papà.
Domanda
Ho letto che sono cambiate le regole per i congedi dei neo-papà a decorrere dall’anno 2018. Ci sono novità per i dipendenti pubblici?
Risposta
Dal 01.01.2018 i padri lavoratori dipendenti hanno diritto a 4 giorni di congedo obbligatorio, da fruire entro i 5 mesi dalla nascita del figlio o dall’ingresso in famiglia o in Italia del minore (in caso di adozione e affidamento nazionale o internazionale). I giorni possono essere goduti anche in via continuativa e vanno chiesti con un preavviso di 15 giorni.
Dal 2018, inoltre, il padre lavoratore può fruire di un ulteriore giorno di congedo facoltativo.
La previsione è contenuta nella Legge di Bilancio 2017, all’art. 1, comma 354, e la compiuta disciplina di questo istituto è contenuta nel Decreto Ministeriale del 22.12.2012, che da attuazione alla norma istitutiva della fattispecie: l’art. sia l’art. 24, comma a) della l. 92/2012.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica ha poi precisato, con nota del 20.02.2013, che la normativa in questione non è direttamente applicabile ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e che, quindi, ai padri lavoratori pubblici, non è dato godere dei congedi obbligatori e facoltativi.
Il congedo facoltativo, che per l’anno 2018 è di 1 giorno, interferisce tuttavia con il congedo della madre, ed è qui che è necessario monitorare la fruizione di questo giorno anche nel pubblico impiego.
La fruizione da parte del padre del congedo facoltativo è infatti condizionata alla scelta della madre lavoratrice di non fruire di altrettanti giorni del proprio congedo di maternità, con conseguente anticipazione del termine finale del congedo post partum della madre (22.02.2018 - link a www.publika.it).

APPALTIRUP e avviso pubblico a manifestare interesse.
Domanda
In relazione ad una procedura di aggiudicazione del servizio –attraverso l’utilizzo della procedura negoziata semplificata di cui all’art. 36, comma 2, lett. b), trattandosi di servizio sottosoglia– risulta che l’avviso a manifestare interesse è stato firmato dal RUP che non è responsabile del servizio.
Gli atti conseguenti, invece (in particolare l’impegno di spesa, gli inviti, ecc.), sono stati adottati dal responsabile del servizio.
Un appaltatore ha segnalato la discrepanza (avviso a manifestare interesse firmato dal RUP e lettere di invito firmate dal dirigente/responsabile del servizio) chiedendo l’annullamento degli atti per illegittimità dell’avviso firmato da soggetto incompetente. Si potrebbe avere un chiarimento su quale comportamento amministrativo sarebbe opportuno adottare?
Risposta
Gli atti a valenza esterna –ed è questo anche il caso dell’avviso pubblico a manifestare interesse– devono essere firmati dal soggetto che detiene la prerogativa gestionale (in quanto dirigente o responsabile del servizio – negli enti privi di dirigenti con funzioni attribuite con decreto del capo dell’amministrazione).
Nel caso in cui il RUP non coincida con il dirigente/responsabile del servizio, non può adottare, quindi, atti a valenza esterna così come già chiarisce la l. 241/1990 nell’art. 6, lett. e), per cui il responsabile del procedimento “adotta, ove ne abbia la competenza, il provvedimento finale, ovvero trasmette gli atti all’organo competente per l’adozione”.
Questo al netto delle ipotesi in cui l’ANAC ammette –ma solo nell’ambito del procedimento di gara– che il RUP anche non dirigente e non responsabile del servizio possa adottare alcuni atti limitati al procedimento quali l’ammissione alla gara e le esclusioni. Ma si tratta delle eccezioni.
L’avviso di gara non è altro che atto omologo al bando di gara pertanto deve essere firmato dal responsabile del servizio.
Per completezza è bene annotare –e ciò appare utile per il caso in esame– che la giurisprudenza ha ammesso la possibilità di ratificare l’atto adottato per incompetenza. Ratifica che, evidentemente, è in grado di sanare l’illegittimità.
Questo caso è stato affrontato, in tempi recenti, dal Tar Abruzzo, Pescara, sez. I, con la sentenza del 12.10.2017 n. 279.
È sicuramente utile il ragionamento espresso dal giudice in merito alla incompetenza del RUP ad adottare l’avviso pubblico di gara.
Per effetto della ratifica, come si diceva, risultava sanata l’illegittimità, il giudice, quindi, concentra la propria attenzione proprio sull’atto adottato dal dirigente che ha l’effetto –si puntualizza in sentenza– di sanare il vizio di incompetenza (cfr. Tar Firenze sez. III 13.01.2015 n. 25).
La volontà di eliminare il vizio di legittimità, infatti, emerge dalle espressioni utilizzate nella determinazione (l’atto di ratifica) che conteneva “il riferimento espresso all’atto ratificato e all’autorità che lo ha adottato, nonché, attraverso l’uso del termine approvazione” è apparsa “evidente la volontà di eliminare il vizio di incompetenza”.
Non solo, nell’atto di ratifica del responsabile del servizio –dotato delle prerogative gestionali– risultavano anche “menzionate […] le medesime ragioni di interesse pubblico che hanno giustificato l’adozione dell’atto ratificato nonché la volontà di produrre i medesimi effetti (cfr. Consiglio di Stato sez. V 22.12.2014 n. 6199)”.
Le ragioni di interesse pubblico, evidentemente, faranno riferimento all’esigenza di assicurare una economia di atti e di procedimento nonché all’interesse della stazione appaltante ad aggiudicare la gara visto che nessun danno concreto è stato arrecato agli appaltatori.
E’ chiaro che l’adozione di un atto da parte di un soggetto incompetente, in realtà, potrebbe creare danno soprattutto a chi lo adotta –se non venisse ratificato– e di riflesso viene lesa l’aspettativa dell’appaltatore (a chi esegue la prestazione? da chi dovrebbe essere pagato, ecc.) (21.02.2018 - link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIResponsabile protezione dati (Data Protection Officer).
Domanda
Nel nostro ente abbiamo cominciato a ragionare sul nuovo Regolamento Europeo sulla privacy, a cui occorre dare attuazione entro il 25.05.2018. Guardando le novità ci siamo imbattuti nel responsabile per la protezione dei dati.
Si possono avere ulteriori informazioni su questa nuova figura?
Risposta
Senza alcun dubbio, una delle principali novità del regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR, General Data Protection Regulation – Regolamento UE 2016/679) è l’obbligo –non previsto prima in Italia– di individuare e nominare un Responsabile per la Protezione dei Dati (RPD). La designazione del RPD è obbligatoria quando “il trattamento è effettuato da un’autorità pubblica o da un organismo pubblico, eccettuate le autorità giurisdizionali quando esercitano le loro funzioni giurisdizionali”.
Le Pubbliche amministrazioni devono, quindi, individuare e nominare una persona esperta di legislazione e pratiche relative alla protezione dei dati, che avrà il compito di assistere colui che li controlla (titolare del trattamento) o li gestisce (responsabile del trattamento), al fine di verificare l’osservanza interna al regolamento.
In particolare il RPD (o DPO – Data Protection Officer, in lingua inglese) dovrà avere le seguenti caratteristiche:
   • requisiti professionali, intesi come competenze specialistiche, su normative anche amministrative e pratiche di gestione dati, e capacità di adempiere ai propri compiti, intese come capacità di relazionarsi; informare e formare;
   • compiti, tra cui informare e consigliare i responsabili del trattamento sul rispetto del Regolamento europeo, verificare la corretta esecuzione degli adempimenti, fornire dei pareri, qualora richiesti, essere referente per gli interessati, essere referente per il Garante privacy, verificare la corretta tenuta dei registri, vigilare sugli obblighi di formazione delle varie figure coinvolte;
   • inquadramento, inteso come personale interno in possesso dei requisiti, anche nella forma della gestione associata tra più enti o contratto esterno (affidamento appalto di servizio) con soggetto privato. Si ritiene la figura possa svolgere altri incarichi e mansioni nell’ente o svolgere lo stesso incarico in più enti, purché non in situazione di conflitto d’interessi;
   • indipendenza. Allo stesso dovrà essere garantita: la non rimozione dall’incarico, salve l’ipotesi di giustificato motivo; il divieto di penalizzazione; il contatto diretto coi massimi vertici dell’ente ai quali solamente riferisce l’esito della sua attività. Inoltre, dovrà agire in posizione di autonomia, avendo a disposizione le necessarie risorse finanziare, logistiche ed umane, con accesso ai dati e ai trattamenti, e dovrà poter mantenere la competenza specialistica, con obbligo di formazione e aggiornamento permanente.
Da ultimo, si segnala la necessità di pubblicare, nel sito web, i dati di contatto del RPD (indirizzo postale; e-mail; telefono), nonché l’obbligo di comunicare i dati del RPD al Garante della privacy e a tutto il personale.
A completamento informativo, si riporta uno Schema di atto di designazione del Responsabile della Protezione dei Dati personali (RPD), ai sensi dell’art. 37 del Regolamento UE 2016/679, da adottarsi, in tutte le pubbliche amministrazioni, entro il 25.05.2018.
Scarica l’allegato Schema atto designazione RPD (20.02.2018 - link a www.publika.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il permesso di costruire può essere rilasciato non solo al proprietario dell’immobile, ma a chiunque abbia titolo per richiederlo, espressione quest’ultima che va intesa nel senso della legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione qualificata con il bene di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario.
Invero, “il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria”.
D’altra parte, il permesso di costruire non incide sulla titolarità della proprietà o di altri diritti reali relativi agli immobili realizzati per effetto del suo rilascio, né tantomeno pregiudica la titolarità o l'esercizio di diritti relativi ad immobili diversi da quelli oggetto d'intervento.
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Nel particolare caso di specie non possono trovare ingresso, pertanto, le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza di questa Sezione, secondo cui di regola è necessario il consenso di tutti i comproprietari ed in presenza della opposizione di uno di essi il Comune è tenuto a non rilasciare il titolo edilizio (anche in sanatoria, sia esso permesso di costruire ovvero d.i.a.), restando ferma l’inesigibilità di una approfondita disamina dei rapporti negoziali intercorrenti fra i vari comproprietari o condomini.
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4. L’appello della società Co. deve essere accolto, con riferimento al motivo sub lett. b2) dell’esposizione in fatto (§ 1.3.), con conseguente parziale riforma della sentenza impugnata ed assorbimento dei motivi sub lett. a) e b1) dell’esposizione in fatto.
Con tale mezzo l’appellante censura la sentenza impugnata, nella parte in cui la stessa accoglie il ricorso proposto avverso il permesso di costruire n. 13356/2005, affermando l’illegittimità del medesimo per violazione dell’art. 1102 c.c., in quanto “la prevista trasformazione della vecchia strada (sterrata) di accesso alla proprietà dei ricorrenti in una strada asfaltata e dotata di illuminazione pubblica e segnaletica per il transito dei residenti delle nuove unità abitative (ha) determinato una sostanziale modificazione della destinazione dell’area comune, variando in modo significativo l’equilibrio tra le utilizzazioni dei comproprietari e assegnando una identità nuova”.
4.1. Giova, innanzi tutto, precisare che la realizzazione di un fabbricato residenziale, assentita dal predetto permesso di costruire, non grava “fisicamente” sulla particella n. 335 del foglio 46 (oggetto di comproprietà), bensì su altre particelle, delle quali la proprietà non è contestata.
Il permesso di costruire –poiché la costruzione sarebbe stata realizzata su area non prospiciente la pubblica via, ma a questa collegata per il tramite di una strada sterrata (part. 335)– era assoggettato alla prescrizione di “asfaltatura” della strada predetta, con inserimento di segnaletica verticale ed orizzontale.
In definitiva, i richiedenti il permesso di costruire erano proprietari esclusivi dell’area dove sarebbe sorto l’immobile e comproprietari (unitamente ai ricorrenti in I grado) della strada di collegamento tra tale area e la strada pubblica (insistente sulla particella n. 335 del foglio 46).
Ne discende che gli stessi ben potevano richiedere il permesso di costruire, essendo a ciò legittimati, ai sensi dell’art. 11 DPR n. 380/2001.
4.2. Come la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. VI, 22.09.2014 n. 4776; sez. IV, 25.09.2014 n. 4818), il permesso di costruire può essere rilasciato non solo al proprietario dell’immobile, ma a chiunque abbia titolo per richiederlo, espressione quest’ultima che va intesa nel senso della legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione qualificata con il bene di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario.
Si è precisato, inoltre, che, “il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria” (Cons. Stato, sez. IV, n. 4818 del 2014 cit.; in senso conforme, sez. V, 04.04.2012 n. 1990).
D’altra parte, il permesso di costruire non incide sulla titolarità della proprietà o di altri diritti reali relativi agli immobili realizzati per effetto del suo rilascio, né tantomeno pregiudica la titolarità o l'esercizio di diritti relativi ad immobili diversi da quelli oggetto d'intervento (Cons. Stato, sez. VI, 27.04.2017 n. 1942).
Nel particolare caso di specie non possono trovare ingresso, pertanto, le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza di questa Sezione, secondo cui di regola è necessario il consenso di tutti i comproprietari ed in presenza della opposizione di uno di essi il Comune è tenuto a non rilasciare il titolo edilizio (anche in sanatoria, sia esso permesso di costruire ovvero d.i.a.), restando ferma l’inesigibilità di una approfondita disamina dei rapporti negoziali intercorrenti fra i vari comproprietari o condomini (cfr. fra le tante, Cons. Stato, sez. IV, n. 3823 del 2016; n. 2546 del 2010).
4.3. Nel caso di specie:
   - per un verso, coloro che hanno a suo tempo richiesto il permesso di costruire erano titolari del titolo per richiederlo;
   - per altro verso, l’intervento edilizio propriamente detto ricadeva su area di proprietà esclusiva, mentre la particella n. 335 in comproprietà era interessata solo dalla strada di collegamento tra la predetta area di intervento edilizio e la strada pubblica ed era già oggetto di passaggio (non già in ragione di servitù, bensì per effetto di comproprietà della medesima) da parte dei richiedenti il permesso di costruire (e quest’ultimo si è limitato ad imporre dei “miglioramenti” della strada esistente).
In definitiva, l’area di intervento edilizio propriamente detto non è oggetto di comproprietà, mentre lo è solo l’area interessata da una (preesistente) strada di collegamento.
Appare, dunque, evidente come il permesso di costruire non è illegittimo per difetto di legittimazione del soggetto richiedente, né il medesimo incide sul diritto dei comproprietari della particella n. 335, già adibita a strada, né di questa si muta la destinazione.
Ogni questione in ordine agli eventuali limiti dell’esercizio in concreto del diritto del comproprietario (ivi compreso quanto inerisce all’uso della cosa comune, ex art. 1102 c.c.) esula dalle valutazioni dell’amministrazione, nei casi in cui l’immobile considerato non sia oggetto “diretto” del titolo edificatorio, nel senso che attraverso quest’ultimo si realizza una trasformazione dell’immobile, sia attraverso la realizzazione di una volumetria su di esso insistente, sia attraverso la realizzazione di altre opere che ne trasformino in modo decisivo caratteristiche e destinazioni del bene ovvero che incidano su pattuizioni tra i comproprietari in ordine all’uso del medesimo (come le eventuali limitazioni al passaggio di veicoli, di cui a pag. 4 memoria depositata il 22.09.2017).
Ovviamente, in ordine a tali aspetti, resta ferma la tutela dei diritti reali assicurata dal giudice ordinario, ma ciò –nei limiti innanzi espressi– non può condizionare l’esercizio del potere autorizzatorio in materia edilizia della Pubblica Amministrazione, al punto da rendere illegittimo il permesso di costruire rilasciato.
E’ appena il caso di aggiungere che, diversamente opinando, si perverrebbe alla conclusione che il diniego di consenso del comproprietario della particella costituente il “collegamento” con la pubblica via frustrerebbe sia, come già detto, l’esercizio del potere amministrativo, sia il legittimo esercizio dello jus aedificandi del proprietario dell’area propriamente oggetto dell’intervento edilizio (in disparte ogni valutazione in ordine all’applicazione degli artt. 833 e 1032 ss. c.c.).
5. Per tutte le ragioni esposte, l’appello deve essere accolto, con conseguente parziale riforma della sentenza impugnata e rigetto, nei limiti precisati, del ricorso instaurativo del giudizio di I grado (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.03.2018 n. 1949 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Deve trovare qui applicazione il consolidato orientamento (da ultimo trasfuso nella previsione dell’articolo 41, comma 2, cod. proc. amm.) secondo cui il termine per impugnare i provvedimenti amministrativi decorre dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui è scaduto il termine per la pubblicazione se questa (come nel caso in esame) sia prevista dalla legge o in base alla legge.
La fine del periodo di pubblicazione opera, quindi, come dies a quo per tutti gli atti per i quali sono sia prevista la notificazione individuale.
E’ vero che, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, il termine per impugnare gli strumenti di pianificazione urbanistica decorre, a pena di decadenza, dalla data di pubblicazione della delibera di approvazione solo per i soggetti non direttamente incisi, occorrendo invece per questi ultimi la notifica individuale, ma è anche vero che i ricorrenti in primo grado non hanno adeguatamente dimostrato di essere necessariamente destinatari di forme di notifica individuale.

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1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dal Comune di porto Cesareo (LE) avverso la sentenza del TAR della Puglia – Sezione staccata di Lecce con cui è stato accolto il ricorso proposto da alcuni cittadini di quella città e, per l’effetto, sono stati annullati gli atti di variante al PRG prodromici alla realizzazione dell’impianto di depurazione comunale.
2. Il Collegio ritiene dirimente ai fini del decidere l’esame del motivo (già proposto in primo grado ma non esaminato dal TAR) con cui il Comune di Porto Cesareo ha eccepito la tardività del ricorso di primo grado in quanto proposto ben oltre il sessantesimo giorno dall’avvenuta pubblicazione degli atti di variante urbanistica impugnati in primo grado.
In particolare, è qui rilevante osservare che:
   - la delibera del Consiglio comunale di Porto Cesareo di adozione della variante al P.R.G. necessaria per la realizzazione dell’impianto per cui è causa era stata adottata in data 26.07.1988 (ed è stata ritualmente pubblicata per il termine di quindici giorni all’Albo pretorio comunale);
   - la delibera regionale di approvazione della prima risale al 26.03.1990 (e tale delibera era stata pubblicata nel Bollettino regionale del 14.06.1990);
   - la pubblicazione della delibera regionale era stata effettuata sulla base di una puntuale prescrizione (in particolare, ai sensi dell’articolo 65 dello Statuto regionale –nel testo ratione temporis vigente– il quale stabiliva che “gli atti amministrativi regionali sono pubblicati, per estratto, nel Bollettino Ufficiale della Regione. La pubblicazione non tiene luogo della notifica alle persine direttamente interessate”);
   - l’impugnativa avverso i richiamati atti è stata proposta dagli odierni appellati solo in data 14.11.1994 (data della notifica del ricorso di primo grado).
Ebbene, il Collegio ritiene che debba trovare qui applicazione il consolidato orientamento (da ultimo trasfuso nella previsione dell’articolo 41, comma 2, cod. proc. amm.) secondo cui il termine per impugnare i provvedimenti amministrativi decorre dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui è scaduto il termine per la pubblicazione se questa (come nel caso in esame) sia prevista dalla legge o in base alla legge. La fine del periodo di pubblicazione opera, quindi, come dies a quo per tutti gli atti per i quali sono sia prevista la notificazione individuale (sul punto, da ultimo: Cons. Stato, V, 02.05.2017, n. 1978).
E’ vero che, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, il termine per impugnare gli strumenti di pianificazione urbanistica decorre, a pena di decadenza, dalla data di pubblicazione della delibera di approvazione solo per i soggetti non direttamente incisi, occorrendo invece per questi ultimi la notifica individuale (ex multis: Cons. Stato, IV, 31.03.2015, n. 1657), ma è anche vero che i ricorrenti in primo grado non hanno adeguatamente dimostrato di essere necessariamente destinatari di forme di notifica individuale.
Si osserva al riguardo che (come rilevato dal Comune appellante) il solo appellato signor Ca. risulta proprietario di un immobile sito nell’immediata prossimità dell’impianto per cui è causa (circa 90 mt.); ma lo stesso risultava presente alle operazioni di immissione in possesso delle aree (operazioni svoltesi il 21.01.1991), ragione per cui si ritiene che già da tale data egli avesse acquisito conoscenza dell’opera in via di realizzazione e della relativa portata lesiva, ragione per cui avrebbe potuto tempestivamente insorgere a tutela delle proprie posizioni giuridiche.
2.1. Il motivo in esame deve dunque essere accolto e, in riforma della sentenza di primo grado, deve essere dichiarata la tardività del primo ricorso (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.03.2018 n. 1939 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' da escludere che interventi di mera demolizione di opere già esistenti (ovvero, interventi di demolizione a cui non faccia seguito alcuna ricostruzione), versanti, tra l’altro, in condizioni ormai “fatiscenti” nonché prive di un qualsiasi valore sotto ulteriori profili (quale –ad esempio– quello storico e/o artistico), possano essere annoverati tra gli interventi imponenti il previo rilascio del permesso di costruire e, ancora, tra quelli soggetti al previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica da parte dell’autorità competente.
Sulla base di un’interpretazione strettamente letterale del disposto dell’art. 3, comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380 del 2001 (laddove gli interventi di “nuova costruzione” sono indicati come “quelli di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio”, per poi riportare un’elencazione essenzialmente connotata da valenza esemplificativa), anche interventi di tale genere dovrebbero essere considerati soggetti al regime di cui all’art. 10 del menzionato D.P.R. e, dunque, sanzionabili ai sensi del successivo art. 31.
Ragioni di coerenza giuridica, desumibili, tra l’altro, dalla ratio sottesa alle prescrizioni che regolamentano la trasformazione del territorio, essenzialmente volte ad evitare che quest’ultimo subisca modificazioni incontrollate nel rispetto del “preesistente” (inteso come stato dei luoghi non alterato dall’agere umano) o, comunque, a garantire che quest’ultimo sia soggetto a cambiamenti esclusivamente in stretta aderenza e, dunque, osservanza della disciplina che regolamenta la materia, conducono, peraltro, ad escludere che interventi di mera demolizione di opere già esistenti (ovvero, interventi di demolizione a cui non faccia seguito alcuna ricostruzione), versanti, tra l’altro, in condizioni ormai “fatiscenti” nonché prive di un qualsiasi valore sotto ulteriori profili (quale –ad esempio– quello storico e/o artistico), come nell’ipotesi in trattazione, possano essere annoverati tra gli interventi imponenti il previo rilascio del permesso di costruire e, ancora, tra quelli soggetti al previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica da parte dell’autorità competente, attesa la piena idoneità di essi a garantire proprio la salvaguardia dello stato dei luoghi, così come oggetto di tutela da parte del legislatore.
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Ciò detto, il Collegio ritiene che, sulla base di un’interpretazione strettamente letterale del disposto dell’art. 3, comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 380 del 2001 (laddove gli interventi di “nuova costruzione” sono indicati come “quelli di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio”, per poi riportare un’elencazione essenzialmente connotata da valenza esemplificativa), anche interventi di tale genere dovrebbero essere considerati soggetti al regime di cui all’art. 10 del menzionato D.P.R. e, dunque, sanzionabili ai sensi del successivo art. 31.
Ragioni di coerenza giuridica, desumibili, tra l’altro, dalla ratio sottesa alle prescrizioni che regolamentano la trasformazione del territorio, essenzialmente volte ad evitare che quest’ultimo subisca modificazioni incontrollate nel rispetto del “preesistente” (inteso come stato dei luoghi non alterato dall’agere umano) o, comunque, a garantire che quest’ultimo sia soggetto a cambiamenti esclusivamente in stretta aderenza e, dunque, osservanza della disciplina che regolamenta la materia, conducono, peraltro, ad escludere che interventi di mera demolizione di opere già esistenti (ovvero, interventi di demolizione a cui non faccia seguito alcuna ricostruzione), versanti, tra l’altro, in condizioni ormai “fatiscenti” nonché prive di un qualsiasi valore sotto ulteriori profili (quale –ad esempio– quello storico e/o artistico), come nell’ipotesi in trattazione, possano essere annoverati tra gli interventi imponenti il previo rilascio del permesso di costruire e, ancora, tra quelli soggetti al previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica da parte dell’autorità competente, attesa la piena idoneità di essi a garantire proprio la salvaguardia dello stato dei luoghi, così come oggetto di tutela da parte del legislatore (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 27.03.2018 n. 3416 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In linea di principio, ricade sul proprietario (o sul responsabile dell'abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione l'onere di provare il carattere risalente del manufatto della cui demolizione si tratta, con riferimento a epoca anteriore quella in cui l'obbligo di previa licenza edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano o, per quanto concerne Roma, al territorio comunale.
Si deve, tuttavia, ammettere un temperamento della regola nel caso in cui il privato da un lato porti, a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento in epoca antecedente l’obbligo di licenza, elementi non implausibili e, dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio.

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Il ricorso è fondato.
La difesa del ricorrente, nel sostenere la realizzazione del manufatto in epoca antecedente l’obbligo di munirsi di licenza edilizia, pur non provando rigorosamente i fatti allegati, fornisce elementi indiziari univocamente concordanti nel dimostrare che il terreno su cui è stato costruito il manufatto era estraneo al territorio comunale allegando l’atto d’acquisto del terreno del 1927, la toponomastica introdotta solo nel 1937 e la circostanza che il terreno acquistato nel 1927 facesse parte di una tenuta agricola; inoltre, mediante la fotografia aerea realizzata nel 1934, tenta di dimostrare la preesistenza del fabbricato.
Come è noto, per la città di Roma, ogni costruzione da eseguirsi nel relativo territorio, anche fuori del centro abitato o dalle zone di espansione, era soggetta a preventiva autorizzazione del Sindaco, a norma dell'art. 1 del regolamento edilizio comunale del 1934, di cui alle delibere del Governatore 18.08.1934 n. 5261 e 29.09.1934 nn. 6032 e 6033, ovvero ancor prima dell'entrata in vigore della l. n. 1150 del 1942, laddove si prescriveva che le opere comportanti aumento di volumetria, realizzate nel territorio comunale, dovessero essere assoggettate all'autorizzazione del Sindaco (TAR Lazio, sez. I, 07.11.2014 n. 11196; TAR Lazio, sez. I, 15.01.2016 n. 396).
In linea di principio, ricade sul proprietario (o sul responsabile dell'abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione l'onere di provare il carattere risalente del manufatto della cui demolizione si tratta, con riferimento a epoca anteriore quella in cui l'obbligo di previa licenza edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano o, per quanto concerne Roma, al territorio comunale.
Si deve, tuttavia, ammettere un temperamento della regola nel caso in cui il privato da un lato porti, a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento in epoca antecedente l’obbligo di licenza, elementi non implausibili e, dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio (Cons. Stato, Sez. VI, 18.07.2016, n. 3177).
Nella fattispecie, comunque, prescindendo dalla legittimità della costruzione originaria, si deve ravvisare una intrinseca contraddizione nel provvedimento di demolizione impugnato, laddove l’amministrazione ordina la demolizione di una ristrutturazione abusiva realizzata sull’edificio e il ripristino dell’assetto originario dello stesso motivando la propria determinazione con la considerazione che l’edificio sarebbe stato costruito in difetto di un titolo abilitativo.
Se effettivamente fosse stata accertata la abusività dell’intero edificio, il provvedimento non avrebbe dovuto disporre la demolizione degli interventi di ristrutturazione, bensì la demolizione dell’edificio stesso.
In caso contrario, qualora l’amministrazione, riconoscendo l’estrema vetustà dell’edificio, avesse inteso sanzionare le modificazioni successivamente intervenute, avrebbe dovuto specificare la consistenza delle difformità rispetto alla costruzione legittimamente preesistente.
Non avendo provveduto in tal senso, essa ha adottato un provvedimento intrinsecamente contraddittorio, non sorretto da una adeguata istruttoria e da una congrua motivazione sulle difformità effettivamente rilevate.
Pertanto, assorbite le ulteriori censure dedotte, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, il provvedimento impugnato deve essere annullato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 27.03.2018 n. 3411 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Decorrenza del termine per impugnare, con ricorso incidentale, l’ammissione di altro concorrente in gara – Presupposti per applicare il rito super accelerato all’ammissione in gara di concorrente.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ricorrente incidentale – Impugnazione ammissione di concorrente alla gara – Dies a quo – Dalla notifica del ricorso principale ex art. 42 c.p.a.
  
Processo amministrativo - Rito appalti – Rito super accelerato – Impugnazione immediata ammissione concorrenti - Pubblicazione degli atti della procedura – Necessità.
  
Processo amministrativo - Rito appalti – Ricorso incidentale - proposto avverso ammissione di concorrente diverso dal ricorrente principale - Inammissibilità - Condizione.
  
Il dies a quo per proporre il ricorso incidentale avverso l’ammissione alla gara del ricorrente principale decorre, in applicazione del principio dettato dall’art. 42, comma 1, c.p.a., dalla notifica del ricorso principale e non dalla conoscenza del provvedimento di ammissione pubblicato sul profilo del committente, ferma restando la preclusione all’attivazione di tale rimedio processuale quale strumento per dedurre, in sede di impugnazione della successiva aggiudicazione, le censure riferite alla fase di ammissione (1).
  
L'onere di immediata impugnativa dell'altrui ammissione alla procedura di gara senza attendere l'aggiudicazione, prevista dal comma 2-bis dell'art. 120 c.p.a., è ragionevolmente subordinato alla pubblicazione degli atti della procedura, perché diversamente l'impresa sarebbe costretta a proporre un ricorso "al buio", salvi i casi in cui vi sia l'effettiva piena conoscenza in data anteriore, circostanza da accertare con massimo rigore (2).
  
E’ inammissibile il ricorso incidentale proposto avverso l’ammissione alla gara di un concorrente diverso dal ricorrente principale e che sia del tutto sganciata dall’impugnazione principale, dovendo la posizione di tale concorrente essere gravata con autonomo ricorso principale (3).
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   (1) La Sezione ha richiamato un proprio precedente in termini (Cons. St., sez. III, 10.11.2017, n. 5182) al quale si è adeguata.
Alla base delle conclusioni cui è pervenuta sono le seguenti considerazioni:
   a) la rapidità di celebrazione del contenzioso sulle ammissioni non è pregiudicata dal rimedio di cui all’art. 42, comma 1, c.p.a., che comporta un incremento dei tempi processuali non significativo (30 giorni), equivalente a quello previsto per i motivi aggiunti;
   b) l’espressa menzione nell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. del ricorso incidentale, porta a ritenere che la portata di tale rimedio processuale debba intendersi estesa anche agli atti che costituiscono l’oggetto proprio del nuovo rito super-accelerato;
   c) è preclusa l’attivazione del ricorso incidentale al delimitato fine di dedurre, in sede di impugnazione della successiva aggiudicazione, le censure relative alla fase di ammissione;
   d) l’esclusione del ricorso incidentale comporterebbe una considerevole compromissione delle facoltà di difesa della parte resistente la quale, vista la contestazione della sua ammissione alla gara, non potrebbe paralizzare in via riconvenzionale l’iniziativa avversaria;
   e) l’esigenza di concentrazione in un unico giudizio, caratterizzato dalla snellezza e celerità di cui al comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., tutte le questioni attinenti alla fase di ammissione ed esclusione dei concorrenti, nel rispetto del principio della parità della armi e della effettività del contraddittorio, salvaguarda la natura dell’impugnazione incidentale quale mezzo di tutela dell’interesse che sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale.
   (2) Ha chiarito la Sezione che in questa specifica materia, l’applicabilità del principio della piena conoscenza ai fini della decorrenza del termine di impugnazione, presuppone un particolare rigore nell’accertamento della sussistenza di tale requisito.
Occorre tener conto, infatti, sia della specialità della normativa dettata dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., sia dei presupposti in base ai quali lo stesso legislatore ha ricondotto la decorrenza del termine per l’impugnazione: in base al comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., infatti, il termine inizia a decorrere solo dopo la pubblicazione, ex art. 29 del Codice dei contratti pubblici, della determinazione sulle ammissioni/esclusioni dei concorrenti, pubblicazione che assicura la piena ed effettiva conoscenza degli atti di gara.
Da ciò consegue che, il principio della piena conoscenza acquisita aliunde, può applicarsi solo ove vi sia una concreta prova dell’effettiva conoscenza degli atti di gara, acquisita in data anteriore alla pubblicazione o comunicazione degli atti della procedura di gara.
Pertanto, non può ritenersi sufficiente a far decorrere l’onere di impugnare il provvedimento di ammissione alla gara la mera presenza di un rappresentante della ditta alla seduta in cui viene decretata l’ammissione, in mancanza della specifica prova sulla percezione immediata ed effettiva di tutte le irregolarità che, ove sussistenti, possano aver inficiato le relative determinazioni (Cons. St., sez. III, 26.01.2018, n. 565).
   (3) Ha ricordato la Sezione che il ricorso incidentale, così come delineato dall’art. 42 c.p.a., assolve alla funzione di garantire alla parte resistente la conservazione dell’assetto degli interessi realizzato dall’atto impugnato in via principale.
L’interesse a ricorrere sorge solo a seguito della proposizione del ricorso principale, il che comporta la sua accessorietà rispetto al ricorso principale.
Oggetto del ricorso incidentale può essere o lo stesso provvedimento impugnato dal ricorrente principale (per far valere altri vizi) o anche atti diversi, purché siano connessi con l’atto impugnato in via principale da un rapporto di sopraordinazione o di presupposizione, quando la caducazione di tali atti sia idonea a precludere l’accoglimento del ricorso principale.
Il ricorso incidentale, quindi, presenta natura difensiva rispetto all’impugnazione principale.
E’ dunque inammissibile il ricorso incidentale proposto avverso l’ammissione alla gara di un concorrente diverso dal ricorrente principale e che sia del tutto sganciata dall’impugnazione principale, dovendo la posizione di tale concorrente essere gravata con autonomo ricorso principale (
Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 27.03.2018 n. 1902 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio.
Anche nel caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le stesse.
Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga all’amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale.
Ed infatti il carattere reale dell’abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale può –al contrario– rilevare a fini diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile dell’abuso e il suo avente causa).
In altri termini, le vicende di natura civilistica, aventi per oggetto la titolarità di un bene, non incidono sul doveroso esercizio del potere, conseguente alla violazione delle regole urbanistiche ed edilizie.

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1.‒ Con un primo ordine di motivi, gli appellanti lamentano che il Comune, prima di ordinare la demolizione dell’opera abusiva, avrebbe dovuto verificare se, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e stante la limitata consistenza delle verande, si fosse ingenerato un affidamento nei privati, ai quale l’immobile era peraltro pervenuto soltanto dopo la realizzazione da parte dei precedenti proprietari di tale strutture (rispetto alle quali gli odierni appellanti avevano soltanto provveduto, al momento dell’acquisto, nel 1988, ad eseguire opere di manutenzione straordinaria).
1.1.‒ La censura non può essere accolta in forza delle dirimenti considerazioni da ultimo espresse dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 9 del 2017.
La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere ‘legittimo’ in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non è in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento: l’eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell’avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell’Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio.
Anche nel caso in cui l’attuale proprietario dell’immobile non sia responsabile dell’abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le stesse.
Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il responsabile dell’abuso e l’attuale proprietario imponga all’amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale.
Ed infatti il carattere reale dell’abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale può –al contrario– rilevare a fini diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile dell’abuso e il suo avente causa).
In altri termini, le vicende di natura civilistica, aventi per oggetto la titolarità di un bene, non incidono sul doveroso esercizio del potere, conseguente alla violazione delle regole urbanistiche ed edilizie (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.03.2018 n. 1893 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che, in applicazione della legge 28.02.1985, n. 47, e già prima della riforma del 1990, di cui si darà atto tra breve, sia necessario il rilascio di un idoneo titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di strutture radiotelevisive.
Le opere, implicando una trasformazione del territorio con una ‘nuova costruzione’, necessitano di essere assentite da un adeguato titolo abilitativo, che era costituito a suo tempo dalla concessione edilizia.
Si riteneva, pertanto necessario che chi avesse voluto installare un impianto di trasmissione radiotelevisiva avrebbe dovuto ottenere il rilascio sia dell'autorizzazione ministeriale, sia della concessione edilizia.
L’art. 4 della legge n. 223 del 1990 ha, poi, riaffermato la regola per la quale anche per la realizzazione degli impianti radio-televisivi occorreva il previo rilascio di una concessione edilizia.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha più volte affermato, in applicazione della citata legge, che l’installazione e l’esercizio di impianti di diffusione sonora e televisiva sono soggetti alla necessità di due autonome e distinte concessioni, quella radiotelevisiva e quella urbanistica-edilizia, configurandosi la prima come titolo di legittimazione a presentare istanza per la seconda.
Il quadro normativo è mutato a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo 01.08.2003 n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), i cui artt. 86 e 87, nel disciplinare il rilascio di autorizzazioni relativamente alle infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici, prevedono un procedimento autorizzatorio, che assorbe e sostituisce il procedimento per il rilascio del titolo abilitativo edilizio.
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1.− La questione posta all’esame della Sezione attiene alla legittimità degli atti con cui il Comune di Cinto Euganeo ha disposto la demolizione della postazione radiotelevisiva indicata nella parte in fatto.
2.− L’appello è infondato.
3.− Con il primo motivo si deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui il primo giudice non ha annullato entrambi i dinieghi di sanatoria, in quanto non sarebbe stata necessaria alcuna concessione edilizia per l’installazione delle opere, in quanto l’antenna radiotelevisiva, di per sé, non determinerebbe né volume né superficie.
Il motivo è infondato.
Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che, in applicazione della legge 28.02.1985, n. 47, e già prima della riforma del 1990, di cui si darà atto tra breve, sia necessario il rilascio di un idoneo titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di strutture radiotelevisive.
Le opere, implicando una trasformazione del territorio con una ‘nuova costruzione’, necessitano di essere assentite da un adeguato titolo abilitativo, che era costituito a suo tempo dalla concessione edilizia (Cons. Stato, sez. III, 27.03.2017, n. 1386; sez. VI, 18.05.2004, n. 3193).
Si riteneva, pertanto necessario che chi avesse voluto installare un impianto di trasmissione radiotelevisiva avrebbe dovuto ottenere il rilascio sia dell'autorizzazione ministeriale, sia della concessione edilizia (Cons. Stato, sez. V, 15.12.1986, n. 642).
L’art. 4 della legge n. 223 del 1990 ha, poi, riaffermato la regola per la quale anche per la realizzazione degli impianti radio-televisivi occorreva il previo rilascio di una concessione edilizia.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha più volte affermato, in applicazione della citata legge, che l’installazione e l’esercizio di impianti di diffusione sonora e televisiva sono soggetti alla necessità di due autonome e distinte concessioni, quella radiotelevisiva e quella urbanistica-edilizia, configurandosi la prima come titolo di legittimazione a presentare istanza per la seconda (Cons. Stato, sez. VI, 23.05.2006, n. 3077).
Il quadro normativo è mutato a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo 01.08.2003 n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), i cui artt. 86 e 87, nel disciplinare il rilascio di autorizzazioni relativamente alle infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici, prevedono un procedimento autorizzatorio, che assorbe e sostituisce il procedimento per il rilascio del titolo abilitativo edilizio (Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2010, n. 1387; id, 15.12.2009, n. 7944).
Tale disciplina –nel prevedere comunque la necessità di titoli in assenza dei quali l’impianto va rimosso- è successiva alle date di emanazione dei provvedimenti impugnati in primo grado, risalenti agli anni ottanta/novanta, e, pertanto, è inapplicabile alla fattispecie in esame ratione temporis.
Si tenga conto, inoltre, che il mutamento di normativa ha inciso anche sulle stesse modalità di rilascio dell’autorizzazione all’istallazione delle suddette infrastrutture, che presuppone, appunto, una espressa valutazione in ordine ai profili di rilevanza edilizia.
Nella specie la società ha realizzato un traliccio e un box di servizio, stabile, visibile da luoghi circostanti, in zona per di più soggetta a vincolo paesaggistico, i quali, per la loro entità e l’incidenza sul territorio, necessitano, alla luce del quadro giurisprudenziale riportato, anche del suddetto titolo abilitativo (Cons. Stato, sez. V, 06.04.1998, n. 415; sez. VI, 05.10.2001, n. 5253; sez. II, 10.12.2003, n. 2420; sez. VI, 18.05.2004, n. 3193; sez. VI, 08.10.2008, n. 4910) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.03.2018 n. 1887 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di sopravvenienza di un vincolo di protezione, l’Amministrazione, competente ad esaminare l’istanza di condono proposta ai sensi della legge n. 47 del 1985, deve acquisire il parere della Autorità preposta alla tutela del vincolo sopravvenuto, la quale deve pronunciarsi, tenendo conto del quadro normativo vigente al momento in cui esercita i propri poteri consultivi.
Per quanto sussista l’onere procedimentale di acquisire il necessario parere in ordine alla assentibilità della domanda di sanatoria –a prescindere dall’epoca d’introduzione del vincolo– l’autorità preposta deve esprimere non una valutazione di “conformità” delle opere alle predette previsioni, trattandosi di un vincolo non esistente al momento della loro realizzazione, bensì un parere di “compatibilità” paesaggistica dell’intervento edilizio abusivo.
La giurisprudenza ha, dunque, più volte affermato la rilevanza del vincolo, esistente al momento in cui la domanda di sanatoria è valutata, a prescindere dall'epoca della sua imposizione.
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5.− Con il quarto motivo si deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui il primo giudice non avrebbe accertato l’illegittimità del diniego di sanatoria ai sensi della legge 23.12.1994, n. 724, per violazione dell'art. 19 del Piano ambientale dei Colli Euganei, in quanto nel diniego sarebbe richiamato il parere espresso dall'Ente Parco il 27.01.1995, che sarebbe frutto di un'erronea interpretazione della disposizione citata, la quale consentirebbe, nelle aree appositamente individuate, la permanenza degli impianti radiotelevisivi legittimamente esistenti, tra i quali si sarebbe dovuto ricomprendere anche quello in questione.
L’appellante aggiunge che l’Ente parco si sarebbe espresso d’ufficio e non su richiesta del Comune, con conseguente impossibilità di una corretta e completa istruttoria.
Il motivo è infondato.
Nel caso di sopravvenienza di un vincolo di protezione, l’Amministrazione, competente ad esaminare l’istanza di condono proposta ai sensi della legge n. 47 del 1985, deve acquisire il parere della Autorità preposta alla tutela del vincolo sopravvenuto, la quale deve pronunciarsi, tenendo conto del quadro normativo vigente al momento in cui esercita i propri poteri consultivi (Cons. Stato, Ad. plen., 22.07.1999, n. 20).
Per quanto sussista l’onere procedimentale di acquisire il necessario parere in ordine alla assentibilità della domanda di sanatoria –a prescindere dall’epoca d’introduzione del vincolo– l’autorità preposta deve esprimere non una valutazione di “conformità” delle opere alle predette previsioni, trattandosi di un vincolo non esistente al momento della loro realizzazione, bensì un parere di “compatibilità” paesaggistica dell’intervento edilizio abusivo (Cons. Stato, sez. VI, 30.09.2015, n. 4564).
La giurisprudenza ha, dunque, più volte affermato la rilevanza del vincolo, esistente al momento in cui la domanda di sanatoria è valutata, a prescindere dall'epoca della sua imposizione (Cons. Stato, sez. VI, 25.10.2017 n. 4935; sez. VI, 22.01.2001, n. 181; sez. V, 27.03.2000, n. 1761).
Premesso ciò, deve rilevarsi che, ai sensi dell'art. 19 delle norme tecniche di attuazione del piano ambientale del Parco regionale dei Colli Euganei, norma sopravvenuta rispetto al momento di realizzazione dell'abuso, le installazioni e gli impianti di emittenza radiotelevisiva sono considerati «attività ad alto impatto ambientale» e per gli stessi è ammessa la permanenza negli attuali siti solo ove legittimamente esistenti.
Nel caso di specie, l'impianto non poteva ritenersi legittimamente esistente, poiché era stato realizzato sulla base di un'autorizzazione provvisoria, scaduta nel 1983, che prevedeva la riduzione in pristino dello stato dei luoghi.
Ne consegue che l’amministrazione procedente, preso atto dei pareri sfavorevoli delle autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico, ha doverosamente denegato il rilascio delle concessioni in sanatoria.
Per quanto attiene, infine, alla circostanza relativa alla pronuncia d’ufficio da parte dell’Ente parco, va rilevato che ciò non realizza alcuna illegittimità in mancanza della prova puntuale che ciò si sarebbe risolto nella violazione delle regole che presiedono allo svolgimento dell’istruttoria procedimentale (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.03.2018 n. 1887 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il riconoscimento del carattere di opere di pubblica utilità delle infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, e l’assimilazione alle opere di urbanizzazione primaria, non implicano che gli interventi in questione possano essere localizzati indiscriminatamente in ogni sito del territorio comunale, perché la realizzazione dell’opera di pubblica utilità può risultare incompatibile con la tutela dei beni ambientali e culturali.
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6.− Con il quinto motivo si deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui il primo giudice non avrebbe accertato la violazione della legge n. 223 del 1990, in quanto «il giudice di primo grado non ha considerato che il decreto legislativo n. 259 del 2003 assimila i manufatti di cui si controverte alle opere di urbanizzazione primaria».
Si è aggiunto che l’impianto avrebbe già ottenuto l’autorizzazione ai sensi della legge n. 223 del 1990.
Il motivo è infondato.
L’appellante, anche nell’atto di appello, richiama il d.lgs. n. 259 del 2003 che, per le ragioni già esposte, non si applica nella fattispecie in esame.
In ogni caso, il riconoscimento del carattere di opere di pubblica utilità delle infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, e l’assimilazione alle opere di urbanizzazione primaria, non implicano che gli interventi in questione possano essere localizzati indiscriminatamente in ogni sito del territorio comunale, perché la realizzazione dell’opera di pubblica utilità può risultare incompatibile con la tutela dei beni ambientali e culturali (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.03.2018 n. 1887 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha avuto modo di affermare che, «nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo».
Tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
Infatti, nel caso di commissione di un abuso edilizio l’ordinamento prevede sanzioni amministrative, oltre che penali, e non si può dolere del fatto che l’Amministrazione –emanando a distanza di tempo gli atti repressivi– abbia consentito l’utilizzazione delle opere che non dovevano essere realizzate e che debbano essere rimosse.
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9.− Con l’ottavo motivo, si afferma che sarebbe mancato il giudizio di bilanciamento degli interessi in conflitto e, in particolare, non sarebbe stato preso in considerazione l’affidamento ingenerato nel privato dal lungo tempo trascorso.
Il motivo non è fondato.
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 17.10.2017, n. 9, ha avuto modo di affermare che, «nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo».
Allo stesso modo, la citata sentenza ha aggiunto che «tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata».
Infatti, nel caso di commissione di un abuso edilizio l’ordinamento prevede sanzioni amministrative, oltre che penali, e non si può dolere del fatto che l’Amministrazione –emanando a distanza di tempo gli atti repressivi– abbia consentito l’utilizzazione delle opere che non dovevano essere realizzate e che debbano essere rimosse.
Applicando questi principi anche nella fattispecie in esame, ne discende l’irrilevanza del profilo soggettivo fatto valere con la censura in esame (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.03.2018 n. 1887 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Responsabilità precontrattuale per mancata stipula del contratto a seguito di informativa antimafia.
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Processo amministrativo – Riti – Risarcimento danni per mancata stipula contratto – conseguente a richiesta interdittiva antimafia – Artt. 119, comma 1, lett. a), e 120 c.p.a. – Inapplicabilità.
  
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica amministrazione – responsabilità precontrattuale – Mancata stipula del contratto – Per informativa antimafia – Volontariamente chiesta dall’Amministrazione – Non spetta.
  
La controversia avente ad oggetto l’azione di risarcimento danni per la mancata stipula di un contratto di appalto per lavori conseguente a richiesta di informativa antimafia, successivamente intervenuta, non riguarda la procedura di affidamento, con la conseguenza che alla stessa non si applica il rito abbreviato previsto dagli artt. 119, comma 1, lett. a), e 120 c.p.a., mancando la ratio per la quale il legislatore ha ritenuto di favorire, in deroga ai termini processuali ordinari, una più rapida tutela degli interessi pubblici in ambiti individuati (1).
  
La mancata stipula di un contratto per lavori conseguente a richiesta di informativa antimafia, successivamente intervenuta, non è produttiva di danno risarcibile stante la possibilità dell’Amministrazione di acquisire l’informativa prefettizia al fine di evitare di stipulare il contratto con un soggetto che poteva presentare controindicazioni secondo la normativa antimafia; né il mancato rispetto del termine di sessanta giorni per la stipulazione negoziale integra di per sé un’ipotesi di responsabilità precontrattuale, spettando al presunto danneggiato dimostrare che il ritardo nella stipulazione sia manifestazione di una condotta antigiuridica dell’amministrazione lesiva del proprio legittimo affidamento (2).
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   (1) Cfr. Cons. St., sez. IV 30.12.2016, n. 5551.
   (2) Ha chiarito la Sezione che trattandosi di impresa operante in un ambito territoriale ad alta incidenza da parte della criminalità organizzata, la valutazione operata dalla stazione appaltante non si appalesa illogica o irragionevole, ma anzi risulta pienamente condivisibile, atteso che –ove l’impresa fosse stata interdetta– il Comune avrebbe dovuto procedere alla revoca dell’aggiudicazione e alla risoluzione del contratto con effetti negativi sulla realizzazione dell’opera pubblica.
Ne consegue che la scelta di acquisire in via facoltativa il provvedimento prefettizio non può costituire comportamento illecito produttivo di danno.
Ovviamente l’acquisizione dell’informativa antimafia ha comportato un ritardo nella stipulazione del contratto, tenuto conto dei termini necessari per lo svolgimento della complessa istruttoria da parte del Prefetto.
Tale circostanza non integra però di per sé fonte di responsabilità risarcibile atteso che il termine di sessanta giorni, previsto dall’art. 11, comma 9, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 per la stipula del contratto non ha natura perentoria, né alla sua inosservanza può farsi risalire ex se un’ipotesi di responsabilità precontrattuale ex lege della Pubblica amministrazione, se non in costanza di tutti gli elementi necessari per la sua configurabilità. Infatti, le conseguenze che derivano in via diretta dall’inutile decorso del detto termine sono: da un lato, la facoltà dell'aggiudicatario, mediante atto notificato alla stazione appaltante, di sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto; dall’altro, il diritto al rimborso delle spese contrattuali documentate, senza alcun indennizzo (Cons. St., sez. III, 28.05.2015, n. 2671).
E’ noto, infatti, che la responsabilità precontrattuale ricorre nel caso in cui prima della stipulazione contrattuale il presunto danneggiante, violando il principio di correttezza e buona fede, leda il legittimo affidamento maturato da controparte nella conclusione del contratto. In tal caso però il mancato rispetto del termine risulta pienamente giustificato dalle esigenze antimafia, e dunque non può integrare gli estremi di una condotta illecita (
Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.03.2018 n. 1882 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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10. - L’eccezione è infondata.
La controversia in questione non riguarda la procedura di affidamento –peraltro già conclusasi con l’aggiudicazione– ma attiene esclusivamente all’azione risarcitoria proposta dalla ricorrente: ciò comporta l’inapplicabilità a questo giudizio del rito abbreviato di cui all’art. 119, comma 1, lettera a), c.p.a., mancando la ratio per la quale il legislatore ha ritenuto di favorire, in deroga ai termini processuali ordinari, una più rapida tutela degli interessi pubblici in ambiti individuati (cfr. Cons. Stato, Sez. IV 30/12/2016 n. 5551).
11. - L’appello, benché ammissibile, è comunque infondato e, dunque, la sentenza di primo grado va confermata, anche se con diversa motivazione.
Il Comune di Reggio Calabria, avendo acquisito mediante notizie di stampa dell’esistenza di vicende giudiziarie che avevano interessato la società -OMISSIS-, prudenzialmente ha ritenuto di acquisire l’informativa prefettizia al fine di evitare di stipulare il contratto con un soggetto che poteva presentare controindicazioni secondo la normativa antimafia.
Occorre considerare, infatti, dal punto di vista prettamente probabilistico, che trattandosi di impresa operante in un ambito territoriale ad alta incidenza da parte della criminalità organizzata, la valutazione operata dalla stazione appaltante non si appalesa illogica o irragionevole, ma anzi risulta pienamente condivisibile, atteso che –ove l’impresa fosse stata interdetta– il Comune avrebbe dovuto procedere alla revoca dell’aggiudicazione e alla risoluzione del contratto con effetti negativi sulla realizzazione dell’opera pubblica.
Ne consegue che la scelta di acquisire in via facoltativa il provvedimento prefettizio non può costituire comportamento illecito produttivo di danno.
Ovviamente l’acquisizione dell’informativa antimafia ha comportato un ritardo nella stipulazione del contratto, tenuto conto dei termini necessari per lo svolgimento della complessa istruttoria da parte del Prefetto.
Deve però ritenersi, conformemente a quanto ritenuto in giurisprudenza, che sebbene l’art. 11, comma 9, d.lgs. 163/2006, indichi il termine di sessanta giorni dal momento in cui diviene definitiva l’aggiudicazione per la stipula del contratto, tale termine non ha natura perentoria, né alla sua inosservanza può farsi risalire ex sé un’ipotesi di responsabilità precontrattuale ex lege della pubblica amministrazione, se non in costanza di tutti gli elementi necessari per la sua configurabilità. Infatti, le conseguenze che derivano in via diretta dall’inutile decorso del detto termine sono: da un lato, la facoltà dell'aggiudicatario, mediante atto notificato alla stazione appaltante, di sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto; dall’altro, il diritto al rimborso delle spese contrattuali documentate, senza alcun indennizzo (cfr. ex multis, Cons. St., Sez. III, 28.05.2015, n. 2671).
Pertanto, il mancato rispetto del termine di sessanta giorni per la stipulazione negoziale non integra di per sé un’ipotesi di responsabilità precontrattuale, spettando al presunto danneggiato dimostrare che il ritardo nella stipulazione sia manifestazione di una condotta antigiuridica dell’amministrazione lesiva del proprio legittimo affidamento (Cons. Stato Sez. V, 31.08.2016, n. 3742; Cons. Stato, Sez. III, 28.05.2015, n. 2671).
E’ noto, infatti, che la responsabilità precontrattuale ricorre nel caso in cui prima della stipulazione contrattuale il presunto danneggiante, violando il principio di correttezza e buona fede, leda il legittimo affidamento maturato da controparte nella conclusione del contratto.
Sebbene sia condivisibile la tesi secondo cui, la previsione di un termine per la stipulazione del contratto assolve alla funzione di tutelare anche l’aggiudicatario, il quale non può restare vincolato per un termine indeterminato alle determinazioni della stazione appaltante, nondimeno nel caso di specie il mancato rispetto del termine (sollecitatorio) di sessanta giorni risulta pienamente giustificato dalle esigenze antimafia, e dunque non può integrare gli estremi di una condotta illecita.
All’esito dell’istruttoria, infatti, la Prefettura ha adottato un provvedimento interdittivo, a dimostrazione della correttezza della valutazione prudenziale del Comune di Reggio Calabria.
Occorre poi considerare che la norma dell’art. 11, comma 9, del D.Lgs. 163/2006 non lascia l’impresa aggiudicataria “in balia” della stazione appaltante, ma le consente di recedere dal vincolo derivante dall’aggiudicazione ottenendo anche il rimborso delle spese sostenute.
E’ lo stesso legislatore a disciplinare il bilanciamento degli opposti interessi consentendo all’impresa di evitare l’immobilizzazione dell’intera organizzazione aziendale nell’attesa della stipulazione del contratto, ricorrendo al recesso in modo da poter utilizzare le proprie risorse per ulteriori commesse.
Né può ritenersi che il comportamento produttivo di danno possa derivare -dopo il decorso di 45 giorni dalla richiesta del provvedimento prefettizio- dalla mancata stipulazione del contratto con l’apposizione della condizione risolutiva prevista dall’art. 11 del D.P.R. n. 252/98: il ricorso a tale misura è, infatti, meramente facoltativo per la stazione appaltante, la quale vi ricorre in caso di urgenza, situazione che –evidentemente– nel caso di specie non sussisteva.
Nella fattispecie il Comune aveva, evidentemente, interesse prioritario a non contrattare con un soggetto che avrebbe potuto essere inaffidabile.
Né appare persuasiva la tesi dell’appellante secondo cui essa non fosse a conoscenza delle ragioni per le quali la stazione appaltante aveva ritardato la stipulazione del contratto: l’impresa non poteva non essere conscia delle vicende giudiziarie che l’avevano colpita e che avevano indotto il Comune ad adottare una particolare cautela.
Ne consegue che non si era maturato un legittimo affidamento in capo all’aggiudicataria circa la stipulazione del contratto.
12. - Pertanto, sebbene possa convenirsi con l’appellante che la motivazione addotta dal TAR per il rigetto della domanda risarcitoria non trovi fondamento negli atti di causa, nondimeno non sussiste la responsabilità precontrattuale per le ragioni in precedenza esposte, alle quali va aggiunto che il protrarsi dell’attesa è derivato dalla scelta della stessa impresa, che avrebbe potuto sciogliersi dal vincolo ben prima.
A fronte dell’aggiudicazione del 18.01.2011, il recesso è intervenuto, infatti, solo il 04.07.2011, a distanza di mesi.
Il volontario recesso operato dall’aggiudicataria esclude, infine, l’ipotizzabilità di un danno da mancata esecuzione della prestazione, tenuto conto che tale scelta è idonea di per sé a recidere il nesso causale tra la condotta della stazione appaltante e l’evento dannoso.
13. - Ne consegue che l’appello va respinto, e per l’effetto va confermata, con diversa motivazione, la sentenza di primo grado. La domanda risarcitoria va quindi respinta, mentre deve essere accolta la domanda proposta in primo grado, assorbita dal TAR, e riproposta in appello ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a., diretta ad ottenere il rimborso delle spese documentate, sostenute per la partecipazione alla gara.
Il Comune di Reggio Calabria dovrà quindi provvedere ad acquisire la documentazione probatoria attestante le spese sostenute dalla società -OMISSIS- per la partecipazione alla procedura selettiva in questione, e dovrà quindi provvedere a rimborsarle alla società stessa.

EDILIZIA PRIVATA: Non vi è dubbio che il controinteressato non abbia il potere di inibire l’ostensione dei titoli edilizi, sicché il fatto in sé della sua “ferma opposizione” non è circostanza che possa assumere autonoma ed assorbente rilevanza ai fini del diniego di accesso agli atti, essendo comunque onerata l’amministrazione dell’obbligo di valutare i contrapposti interessi, al fine di individuare quello prevalente.
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Nella specie il ricorrente era sicuramente legittimato all’accesso in qualità di proprietario confinante all’immobile interessato dall’attività edilizia assentita dall’amministrazione comunale, avendo il medesimo esplicitamente fatto riferimento all’esigenza di tutelare la propria posizione soggettiva, ciò che vale a radicare una posizione di interesse, che non può essere sindacata dal giudice amministrativo sotto il profilo della individuazione e della valutazione degli strumenti di tutela potenzialmente attivabili e della relativa tempestività: “Il diritto di accesso non è meramente strumentale alla proposizione di un'azione giudiziale, ma assume un carattere autonomo rispetto ad essa. Ciò significa che il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di accesso deve ritenersi consentito anche se l'interessato non può più agire, o non possa ancora agire, in sede giurisdizionale, in quanto l'autonomia della domanda di accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di accesso e non anche la possibilità di utilizzare gli atti richiesti in un giudizio”.
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Quanto poi al fatto che gli interventi edilizi in questione siano oggetto di una indagine penale, si osserva che detta circostanza, cui fa riferimento la difesa del comune, è estranea al fuoco motivazionale del provvedimento di diniego e comunque non impedisce l’ostensione dei documenti, dal momento che non vi è prova che il comune abbia perso la disponibilità degli atti oggetto dell’istanza di accesso: “L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso”.

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Con istanza in data 19.10.2017 il sig. Gu.Cl., in qualità di proprietario confinante, chiedeva al comune di Carlopoli che venisse consentito l’accesso alla documentazione relativa al progetto di demolizione e ricostruzione del fabbricato sito in via Roma della Frazione Castagna di Carlopoli (foglio 6, part. 737, sub 2 e 3), ed alla successiva S.C.I.A. e relativo progetto di variante in corso d’opera, al fine di tutelare i propri diritti dominicali, siccome esposti a pregiudizio a seguito degli interventi edilizi oggetto di assenso da parte dell’amministrazione comunale.
Con nota prot. n. 3472 del 28.11.2107 il comune denegava l’accesso ai documenti in ragione della opposizione formulata dalla controinteressata sig.ra Ma.Ma.Cr..
Avverso il predetto diniego ha proposto ricorso il sig. Gu., lamentando la carenza di motivazione del provvedimento, di cui pertanto ha chiesto l’annullamento con contestuale accertamento del proprio diritto all’ostensione e conseguente condanna dell’amministrazione al rilascio di copia dei documenti.
Si è costituito in giudizio il comune di Carlopoli, che ha eccepito la mancanza di un interesse differenziato all’accesso in capo al ricorrente, stante la scadenza del termine per l’impugnazione dei titoli edilizi e comunque in ragione dell’avvenuta ultimazione degli interventi in questione, nonché la non ostensibilità degli atti in quanto interessati da una indagine penale aventi ad oggetto la relativa attività edilizia.
Il ricorso è fondato.
Non vi è dubbio che il controinteressato non abbia il potere di inibire l’ostensione dei titoli edilizi, sicché il fatto in sé della sua “ferma opposizione” non è circostanza che possa assumere autonoma ed assorbente rilevanza ai fini del diniego di accesso agli atti, essendo comunque onerata l’amministrazione dell’obbligo di valutare i contrapposti interessi, al fine di individuare quello prevalente.
Nella specie il ricorrente era sicuramente legittimato all’accesso in qualità di proprietario confinante all’immobile interessato dall’attività edilizia assentita dall’amministrazione comunale, avendo il medesimo esplicitamente fatto riferimento all’esigenza di tutelare la propria posizione soggettiva, ciò che vale a radicare una posizione di interesse, che non può essere sindacata dal giudice amministrativo sotto il profilo della individuazione e della valutazione degli strumenti di tutela potenzialmente attivabili e della relativa tempestività: “Il diritto di accesso non è meramente strumentale alla proposizione di un'azione giudiziale, ma assume un carattere autonomo rispetto ad essa. Ciò significa che il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di accesso deve ritenersi consentito anche se l'interessato non può più agire, o non possa ancora agire, in sede giurisdizionale, in quanto l'autonomia della domanda di accesso comporta che il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di accesso e non anche la possibilità di utilizzare gli atti richiesti in un giudizio” (TAR Palermo, Sez. I, 15.01.2016 n. 125).
Quanto poi al fatto che gli interventi edilizi in questione siano oggetto di una indagine penale, si osserva che detta circostanza, cui fa riferimento la difesa del comune, è estranea al fuoco motivazionale del provvedimento di diniego e comunque non impedisce l’ostensione dei documenti, dal momento che non vi è prova che il comune abbia perso la disponibilità degli atti oggetto dell’istanza di accesso: “L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso” (TAR Catania, Sez. III, 01.02.2017 n. 229).
Per le suddette ragioni il ricorso merita di essere accolto (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 26.03.2018 n. 757 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il certificato di agibilità non assume una capacità sanante dei vizi che affliggono un titolo edilizio, il cui annullamento all’esito dell’impugnazione giurisdizionale si ripercuote inevitabilmente sul primo, con effetto caducante, stante la relazione di stretta consequenzialità.
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La Società ricorrente censura il provvedimento comunale 18/03/2015, di rilascio del permesso di costruire in sanatoria per la realizzazione del sopralzo di un sottotetto e di un balcone.
0. Si premette che, come ha messo in evidenza la parte ricorrente, il certificato di agibilità non assume una capacità sanante dei vizi che affliggono un titolo edilizio, il cui annullamento all’esito dell’impugnazione giurisdizionale si ripercuote inevitabilmente sul primo, con effetto caducante, stante la relazione di stretta consequenzialità (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia – 22/04/2015 n. 188, confermata da Consiglio di Stato, sez. VI – 09/08/2016 n. 3559).
Pertanto, non ha alcun rilievo l’omessa tempestiva proposizione di un ricorso avverso il certificato suddetto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In linea generale non sussiste, ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, l’obbligo di notiziare dell’attivazione del procedimento per il rilascio del titolo edilizio i soggetti viciniori dell’istante i quali, pur essendo legittimati all’impugnazione, non rivestono nemmeno la qualifica di controinteressati in senso tecnico.
Invero, è stato precisato che "ove sia stata proposta una domanda di concessione edilizia, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento".
E’ stato altresì puntualizzato che i vicini non sono annoverabili tra i soggetti destinatari della comunicazione ex art. 7 della L. 241/1990, pur quando si tratti di soggetti che si siano in precedenza opposti all’attività edilizia del proprietario confinante, giacché l’estensione ad essi della predetta informativa comporterebbe un aggravio procedimentale in contrasto con i principi di economicità e di efficienza dell’attività amministrativa.
Certamente, il principio generale appena illustrato può subire eccezioni per la specificità e peculiarità della vicenda dalla quale trae giustificazione l’affermazione dell’obbligo comunicativo, come ad esempio nel caso della natura abusiva di un manufatto oggetto di condono –accertata da un giudicato amministrativo– che il Comune avrebbe dovuto demolire.
Ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, la notizia dell’impulso dato al procedimento deve pervenire ai soggetti nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a quelli che per legge debbono intervenirvi, nonché ai soggetti individuati o facilmente individuabili –diversi dai primi– ai quali possa derivare un pregiudizio dallo stesso provvedimento.

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La Società ricorrente censura il provvedimento comunale 18/03/2015, di rilascio del permesso di costruire in sanatoria per la realizzazione del sopralzo di un sottotetto e di un balcone.
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1. Il primo motivo non è suscettibile di positivo apprezzamento.
1.1 In linea generale non sussiste, ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, l’obbligo di notiziare dell’attivazione del procedimento per il rilascio del titolo edilizio i soggetti viciniori dell’istante i quali, pur essendo legittimati all’impugnazione, non rivestono nemmeno la qualifica di controinteressati in senso tecnico (Consiglio di Stato, sez. IV – 20/07/2017 n. 3573, che richiama sez. VI – 10/04/2014 n. 1718, con la quale aveva precisato che, ove sia stata proposta una domanda di concessione edilizia, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento; si veda nello stesso senso TAR Piemonte – sez. II – 26/02/2016 n. 230).
E’ stato altresì puntualizzato che i vicini non sono annoverabili tra i soggetti destinatari della comunicazione ex art. 7 della L. 241/1990, pur quando si tratti di soggetti che si siano in precedenza opposti all’attività edilizia del proprietario confinante, giacché l’estensione ad essi della predetta informativa comporterebbe un aggravio procedimentale in contrasto con i principi di economicità e di efficienza dell’attività amministrativa (cfr. TAR Calabria Catanzaro, sez. II – 21/03/2017 n. 497; TAR Emilia Romagna-Parma – 04/04/2017 n. 127; TAR Lombardia Milano, sez. II – 14/06/2017 n. 1348; TAR Emilia Romagna-Bologna, sez. I – 02/11/2017 n. 722).
1.2 Certamente, il principio generale appena illustrato può subire eccezioni per la specificità e peculiarità della vicenda dalla quale trae giustificazione l’affermazione dell’obbligo comunicativo, come ad esempio nel caso della natura abusiva di un manufatto oggetto di condono –accertata da un giudicato amministrativo– che il Comune avrebbe dovuto demolire (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 07/08/2015 n. 3891).
1.3 Ai sensi dell’art. 7 della L. 241/1990, la notizia dell’impulso dato al procedimento deve pervenire ai soggetti nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti e a quelli che per legge debbono intervenirvi, nonché ai soggetti individuati o facilmente individuabili –diversi dai primi– ai quali possa derivare un pregiudizio dallo stesso provvedimento.
Questo Collegio non ritiene che, nel caso di specie, dalle note depositate dalla ricorrente il 29/08/2014 e il 13/02/2015 potessero evincersi chiaramente e univocamente gli effetti dannosi provocati dalle opere nei suoi confronti: in occasione delle due segnalazioni/istanze di accesso, -OMISSIS- non ha fornito sufficienti indicazioni sul punto, avendo fatto riferimento ai lavori in corso (sui quali non aveva dato la necessaria autorizzazione in quanto comproprietaria della copertura), al pericolo di caduta di materiale e alla necessità di verificare il rispetto delle NTA su distanze, altezze e sicurezza.
 Appare insufficiente la generica deduzione di una violazione afferente a interessi pur rilevanti, che non dà conto della rilevante incisione su beni giuridici di appartenenza (e l’effettività e la concretezza dei pregiudizi sono state adeguatamente rappresentate soltanto con la proposizione del ricorso) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio è propenso ad accogliere l’opinione che, per la costituzione di un condominio, si possa prescindere da un atto formale qualora sussistano più parti di un edificio in comunione pro indiviso, essendo l’istituto configurabile anche tra edifici strutturalmente autonomi, appartenenti ciascuno a singoli soggetti, tra i quali vi siano opere comuni, pur se distaccate, destinate al loro godimento e servizio.
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In tema di condominio, l’art. 1127, comma 1, del c.c. prevede che “il proprietario dell’ultimo piano dell'edificio può elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti altrimenti dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è proprietario esclusivo del lastrico solare”.
I commi 2 e 3 prevedono quanto segue: “La sopraelevazione non è ammessa se le condizioni statiche dell'edificio non la consentono. I condomini possono altresì opporsi alla sopraelevazione, se questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio ovvero diminuisce notevolmente l'aria o la luce dei piani sottostanti”.
La nozione di sopraelevazione, oggetto della disciplina appena riportata, trova applicazione nei casi in cui il proprietario dell’ultimo piano dell’edificio condominiale esegua nuovi piani o nuove fabbriche, ovvero trasformi locali preesistenti aumentandone le superfici e le volumetrie.
La ratio giustificatrice della norma va ricercata nel fatto che la sopraelevazione sfrutta lo spazio sovrastante l'edificio ed occupa la colonna d'aria su cui esso insiste, per cui l’esercizio di tale diritto non resta subordinato alla prestazione del consenso da parte degli altri condomini purché non sia compromessa la statica e l'architettura dello stabile e non siano presenti limitazioni alla luce o all'aria del sottostante appartamento.
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La giurisprudenza amministrativa si è pronunciata sul diritto del condomino, proprietario dell’ultimo piano, di sopraelevare come disciplinato dall'art. 1127 c.c., in quanto la questione non ha carattere solo civilistico, ma incide sulle condizioni per il rilascio del titolo abilitativo.
In proposito, ha puntualizzato che, se si ritiene, come precisato dalla Corte di Cassazione, che il proprietario dell'ultimo piano possa sopraelevare senza il consenso degli altri condomini, “ne deriva che anche l'autorizzazione alla costruzione dell'antenna possa prescindere dalla prova della proprietà esclusiva del tetto, essendo necessario e sufficiente che l'istante sia proprietario dell'ultimo piano, ….”.
Più in generale, la facoltà di sopraelevare spetta ex lege al proprietario dell’ultimo piano dell'edificio (o al proprietario esclusivo del lastrico solare) e il suo esercizio, che non necessita di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini, può essere precluso soltanto in forza di un'espressa pattuizione che, in sostanza, costituisca una servitù altius non tollendi a favore degli stessi.
Nel caso di specie, da un lato non sussiste tra i condomini un precedente accordo in senso contrario, e dall’altro non viene dimostrato –in positivo– un pregiudizio statico o di decoro (la Commissione per il Paesaggio ha emesso parere positivo) o di igiene dell’edificio.
Pertanto, gli odierni controinteressati erano titolari del diritto a sopraelevare.
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La Società ricorrente censura il provvedimento comunale 18/03/2015, di rilascio del permesso di costruire in sanatoria per la realizzazione del sopralzo di un sottotetto e di un balcone.
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2. Anche la seconda censura non è passibile di positivo scrutinio.
2.1 Il Collegio è propenso ad accogliere l’opinione che, per la costituzione di un condominio, si possa prescindere da un atto formale qualora sussistano più parti di un edificio in comunione pro indiviso, essendo l’istituto configurabile anche tra edifici strutturalmente autonomi, appartenenti ciascuno a singoli soggetti, tra i quali vi siano opere comuni, pur se distaccate, destinate al loro godimento e servizio (cfr. Corte di Cassazione, sez. II civile – 14/12/2017 n. 30046 che richiama Corte di Cassazione, sez. II civile – 12/11/1998 n. 11407): come hanno sottolineato i controinteressati, nel caso di specie sussistono tutti i presupposti sostanziali per definire “condominio” il complesso composto dall’edificio le cui unità immobiliari appartengono ad -OMISSIS- S.r.l. e ai Sig.ri -OMISSIS- e -OMISSIS-, nonché ad altri soggetti.
Infatti, anche se il compendio contempla gli appartamenti in blocchi separati e autonomi tra loro, nell’atto notarile 30/12/2010 (doc. 3 ricorrente - pagina 1) si dà atto della comproprietà delle corti comuni (sub. 5, 18 e 19 del mappale 58).
2.2 Sotto altro versante, appare acclarato in base alle deduzioni delle parti e agli atti di causa che l’assemblea è stata convocata e che la ricorrente non vi ha partecipato, dopo aver ricevuto l’avviso oltre il termine minimo (pari a 5 giorni) normativamente previsto. In ogni caso, è pacifico che -OMISSIS- non ha manifestato alcun consenso alla realizzazione dell’intervento.
Sul punto, a prescindere dalla perdurante impugnabilità della deliberazione assembleare, si tratta di chiarire se è necessario il consenso unanime dei condomini o comunque l’approvazione del soggetto che può ricevere un incisivo pregiudizio (come il ricorrente, immediato confinante che occupa i piani immediatamente inferiori dell’edificio oggetto di sopraelevazione).
Il Collegio ritiene di dare al quesito risposta negativa.
2.3 In tema di condominio, l’art. 1127, comma 1, del c.c. prevede che “il proprietario dell’ultimo piano dell'edificio può elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti altrimenti dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è proprietario esclusivo del lastrico solare”.
I commi 2 e 3 prevedono quanto segue: “La sopraelevazione non è ammessa se le condizioni statiche dell'edificio non la consentono. I condomini possono altresì opporsi alla sopraelevazione, se questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio ovvero diminuisce notevolmente l'aria o la luce dei piani sottostanti”.
La nozione di sopraelevazione, oggetto della disciplina appena riportata, trova applicazione nei casi in cui il proprietario dell’ultimo piano dell’edificio condominiale esegua nuovi piani o nuove fabbriche, ovvero trasformi locali preesistenti aumentandone le superfici e le volumetrie. La ratio giustificatrice della norma va ricercata nel fatto che la sopraelevazione sfrutta lo spazio sovrastante l'edificio ed occupa la colonna d'aria su cui esso insiste (Tribunale di Trento – 11/07/2017), per cui l’esercizio di tale diritto non resta subordinato alla prestazione del consenso da parte degli altri condomini purché non sia compromessa la statica e l'architettura dello stabile e non siano presenti limitazioni alla luce o all'aria del sottostante appartamento (Consiglio di Stato, sez. IV – 09/05/2017 n. 2118).
2.4 La giurisprudenza amministrativa si è pronunciata sul diritto del condomino, proprietario dell’ultimo piano, di sopraelevare come disciplinato dall'art. 1127 c.c., in quanto la questione non ha carattere solo civilistico, ma incide sulle condizioni per il rilascio del titolo abilitativo.
In proposito, TAR Calabria Catanzaro, sez. I – 19/11/2015 n. 1749 ha puntualizzato che, se si ritiene, come precisato dalla Corte di Cassazione, che il proprietario dell'ultimo piano possa sopraelevare senza il consenso degli altri condomini, “ne deriva che anche l'autorizzazione alla costruzione dell'antenna possa prescindere dalla prova della proprietà esclusiva del tetto, essendo necessario e sufficiente che l'istante sia proprietario dell'ultimo piano, ….”.
Più in generale, la facoltà di sopraelevare spetta ex lege al proprietario dell’ultimo piano dell'edificio (o al proprietario esclusivo del lastrico solare) e il suo esercizio, che non necessita di alcun riconoscimento da parte degli altri condomini, può essere precluso soltanto in forza di un'espressa pattuizione che, in sostanza, costituisca una servitù altius non tollendi a favore degli stessi (TAR Liguria, sez. I – 09/07/2015 n. 651, che richiama TAR Sardegna, sez. II – 14/03/2013 n. 224).
Nel caso di specie, da un lato non sussiste tra i condomini un precedente accordo in senso contrario, e dall’altro non viene dimostrato –in positivo– un pregiudizio statico o di decoro (la Commissione per il Paesaggio ha emesso parere positivo) o di igiene dell’edificio. Ulteriori riflessioni su tali aspetti saranno sviluppate con l’esame dell’ultimo motivo di ricorso. Pertanto, gli odierni controinteressati erano titolari del diritto a sopraelevare.
2.5 La mancata indicazione, nell’accordo del 16/02/2015 (doc. 1-L ricorrente), del diritto di proprietà esclusiva di -OMISSIS- sulla striscia contigua al muro perimetrale in lato sud-ovest interessato dal sopralzo (e della comproprietà della corte comune) integra indubbiamente una lacuna, le cui conseguenze saranno esaminate in raccordo con le successive doglianze. Per il momento, non affiora un dolo evidente nella rappresentazione dello stato dei luoghi, che possa ex se insinuare un vizio nel titolo edilizio rilasciato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La Corte di Cassazione –sulla questione relativa al rispetto delle distanze all'interno di un condominio– ha richiamato il condiviso principio di diritto secondo il quale <<Le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c. , deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione ha poi statuito che “In tema di condominio, ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1, ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini. …”.
In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali recedono quando sono in contrasto con i principi fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella di dare luce ad aria.
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L’art. 90 del DPR 380/2001 consente le sopraelevazioni nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art. 1127 del c.c. permette di sopraelevare sull'ultimo piano dell'edificio, ma non esonera certo dall'osservanza delle norme in materia di distanze tra costruzioni.
Sempre ai fini del rispetto delle distanze legali tra costruzioni, va osservato che la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione, non potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale, di quest'ultima.
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La Società ricorrente censura il provvedimento comunale 18/03/2015, di rilascio del permesso di costruire in sanatoria per la realizzazione del sopralzo di un sottotetto e di un balcone.
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3.4 Non sussiste neppure la dedotta violazione dell’altezza massima, prevista in metri 10,5 dalle NTA.
Il limite –che lo strumento urbanistico riferisce all’altezza “media” quando il solaio di copertura non sia orizzontale e quando il terreno o la strada siano in pendenza– risulta infatti rispettato dall’intervento dei controinteressati, come si evince dai disegni e dalle tavole esibite. Emerge chiaramente che l’altezza media dell’edificio – pari a 10,31 metri – rispetta la previsione di cui all’art. 5 del Piano delle Regole di -OMISSIS- (cfr. allegati n. 4 e n. 5 controinteressati).
Non è sufficiente, al riguardo, lamentare una mancata “verifica in loco” da parte dei tecnici del Comune, visto che il meccanismo di calcolo non è stato contestato dalla parte ricorrente attraverso la produzione di una perizia ovvero l’elaborazione di cifre differenti.
Infine, i vani ricavati nel sottotetto aventi altezza media ponderale non superiore a 1,80 metri sono esclusi dal computo dell’altezza, e non vi sono ragioni per ritenere inapplicabile la disposizione (ancorché siano stati effettuati interventi pregressi, non affiorando il complessivo superamento del limite).
3.5 Viceversa, i Sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno indebitamente violato, con la creazione del sopralzo, la distanza minima di 5 metri dal confine con la striscia di area di proprietà della Società ricorrente, che corre in adiacenza lungo il muro perimetrale sud ovest.
3.6 La Corte di Cassazione (sez. II civile – 27/02/2014 n. 47471) –sulla questione relativa al rispetto delle distanze all'interno di un condominio– ha richiamato il condiviso principio di diritto, affermato anche con la propria sentenza n. 6546 del 18/03/2010, secondo il quale <<Le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c. , deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale>>.
La Corte di Cassazione, sez. II civile – 11/6/2013 n. 14652, ha poi statuito che “In tema di condominio, ai sensi dell'art. 1102 c.c., comma 1, ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini. …”.
3.7 In buona sostanza, le norme in tema di distanze legali recedono quando sono in contrasto con i principi fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile comune anche senza rispettare le distanze dall’appartamento di un altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella di dare luce ad aria.
Tuttavia, nella fattispecie all’esame del Collegio, la distanza rileva rispetto a un’area pacificamente di proprietà esclusiva del confinante.
L’art. 90 del DPR 380/2001 consente le sopraelevazioni nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti, mentre l’art. 1127 del c.c. permette di sopraelevare sull'ultimo piano dell'edificio, ma non esonera certo dall'osservanza delle norme in materia di distanze tra costruzioni (Corte di cassazione, sez. II civile – 25/07/2016 n. 15295).
Sempre ai fini del rispetto delle distanze legali tra costruzioni, va osservato che la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione, non potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione caratterizzante la costruzione originaria, che si esaurisce con il completamento, strutturale e funzionale, di quest'ultima (TAR Campania Napoli, sez. VIII – 14/03/2017 n. 1465 e la giurisprudenza civile ivi menzionata).
3.8 Non è in altri termini appropriato il richiamo al principio dell'inoperatività, nel condominio, della normativa sulle distanze legali, dal momento che tale principio è valido con riferimento alle opere eseguite sulle parti comuni e non si estende invece ai rapporti fra i singoli condomini e le rispettive proprietà esclusive.
Si concorda dunque con quanto affermato dalla parte ricorrente nella memoria di replica per cui, nel caso specifico, le unità immobiliari delle parti in causa sono perfettamente autonome e ciò che risulta violata è la distanza del sopralzo –qualificabile come “nuova costruzione”– rispetto alla porzione esclusiva di area scoperta di proprietà della ricorrente (e non rispetto ad una porzione di area condominiale).
3.9 Da ultimo, la ricorrente lamenta che il balcone sarebbe stato realizzato sul muro perimetrale in lato sud-ovest in violazione dell’art. 905 del c.c., che pone il divieto di aprire vedute dirette verso il fondo del vicino a meno di 1 metro e mezzo di distanza dal medesimo fondo.
La prospettazione non convince.
Nella memoria finale, i controinteressati hanno efficacemente affermato (senza contestazione sul punto della parte avversaria) che il balcone costruito sul lato sud-ovest non crea alcun affaccio sulla striscia di proprietà di -OMISSIS- S.r.l., dal momento che i poggioli del piano secondo ne impediscono la vista. Con gli altri proprietari limitrofi, i Sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- hanno sottoscritto la scrittura privata del 16/02/2015 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’asservimento volumetrico consiste, in termini generali e come specificato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 2009, in una fattispecie negoziale atipica avente effetti obbligatori, in base ai quali un’area viene destinata a servire al computo dell'edificabilità di un altro fondo.
Invero, <<L'asservimento realizza, in definitiva, una specie particolare di relazione pertinenziale, nella quale viene posta durevolmente a servizio di un fondo la qualità edificatoria di un altro. Scopo dell’atto di asservimento è quello di incrementare la cubatura disponibile su un fondo, sfruttando quella concessa (e non utilizzata) ad altro fondo della medesima area, il quale viene, conseguentemente, assoggettato a vincolo di inedificabilità. L'atto di asservimento dei suoli comporta la cessione di cubatura tra fondi contigui ed è funzionale ad accrescere la potenzialità edilizia di un'area per mezzo dell'utilizzo della cubatura realizzabile in una particella contigua e del conseguente computo anche della superficie di quest'ultima, ai fini della verifica del rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria. La riconducibilità dell’asservimento a un vincolo di inedificabilità idoneo a permanere anche in caso di alienazione del fondo asservito, discende dalla natura oggettiva del vincolo. …>>.
Ciò importa che, permanendo il vincolo a tempo indeterminato, l’asservimento continua a seguire il fondo anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi titolo intervenuti in epoca successiva, ed è opponibile ai terzi e a chiunque ne sia il proprietario.
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L’istituto del c.d. asservimento del terreno per scopi edificatori (o cessione di cubatura) rientra nello schema del contratto atipico con effetti obbligatori che “senza oneri di forma pubblica o di trascrizione, è finalizzato al trasferimento di volumetria e che si perfeziona soltanto con il rilascio del necessario titolo abilitativo edilizio da parte del comune, in quanto l’effetto finale del trasferimento di cubatura avviene solo in conseguenza dell’emanazione del provvedimento amministrativo”.
Ne deriva che l’accordo “ha efficacia solo obbligatoria tra i suoi sottoscrittori, mentre il trasferimento di cubatura fra le parti e nei confronti dei terzi è determinato esclusivamente dal provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato che, a seguito della rinuncia all’utilizzazione della volumetria manifestata al comune dal cedente in adesione al progetto edilizio presentato dal cessionario, può essere emanato a favore di quest’ultimo dall’ente pubblico”.
<<Occorre precisare che, in casi quale quello di specie, non occorre che vi sia stato un formale “atto di asservimento” di un suolo (della sua estensione e della sua potenzialità edificatoria) ai fini della realizzazione di un manufatto da realizzarsi su un suolo diverso, essendo invece sufficiente che il primo sia stato considerato al fine di assentire la volumetria realizzanda (di cui all’istanza di concessione edilizia), e poi concretamente realizzata. Da tale considerazione discende, innanzi tutto, che non assume alcun rilievo, ai fini della impossibilità di considerazione della medesima superficie per il rilascio di altro e successivo titolo edilizio:
   - né che vi sia stata trascrizione o altra forma di pubblicità dell’atto di asservimento ….;
   - né che eventuali certificati di destinazione urbanistica indichino detto suolo come edificabile, secondo le previsioni ed i limiti dello strumento urbanistico, poiché deve tenersi del tutto distinta la formale ed astratta destinazione urbanistica di un’area dalla concreta, intervenuta utilizzazione dell’area medesima per le finalità urbanistico-edilizie ad essa impresse (e, dunque, l’eventuale, intervenuto esaurimento delle potenzialità edilizie della medesima)>>.
Il concetto di asservimento urbanistico per esaurimento della capacità edificatoria opera obiettivamente ed è opponibile anche al terzo acquirente pur in assenza di trascrizione del vincolo nei registri immobiliari; esso consegue di diritto per il solo effetto del rilascio di legittime concessioni edilizie che determina l'esaurimento della capacità edificatoria stabilita dallo strumento urbanistico. Si tratta di un asservimento giuridico oggettivo tipico del regime conformativo dei suoli, sicché la mancata indicazione di tale effetto nella concessione edilizia o della relativa trascrizione della stessa come di un atto di cessione (pur aventi la valenza giuridica di determinare e pubblicizzare l'asservimento) non possono contrastare l'asservimento urbanistico che si determina in ragione dell'esaurimento della volumetria disponibile, ignorato dalla concessione o dall'atto di cessione.
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La Società ricorrente censura il provvedimento comunale 18/03/2015, di rilascio del permesso di costruire in sanatoria per la realizzazione del sopralzo di un sottotetto e di un balcone.
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3. Passando all’esame del motivo di cui alla lettera c) dell’esposizione in fatto, la ricorrente deduce in via generale un difetto di istruttoria, ma al riguardo occorre rilevare che la pratica è stata istruita con l’acquisizione di elementi rilevanti (parere della Commissione per il paesaggio, verbale di assemblea condominiale, consenso dei confinanti, altro materiale documentale).
Il Collegio può a questo punto affrontare le censure puntuali.
3.1 Sulla cubatura, i controinteressati evocano la relazione allegata alla DIA in variante del 2013 (cfr. doc. 5.B ricorrente – pagina 3) dalla quale risulta che, per la realizzazione del corpo accessorio tra il balcone e la copertura (cd. “bussola”) – che contemplava un volume in ampliamento di mc. 30,12 –i sig.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- si sono avvalsi della capacità edificatoria del mappale di loro proprietà esclusiva “confinante ad Ovest con il lotto in questione identificato al fg. 9, mappale 314, del comune di -OMISSIS-. La superficie identificata come edificabile corrisponde a mq. 200; con una capacità edificatoria pari a 1,5 mc/mq. il lotto quindi dispone di una volumetria pari a mc 300,00 …”.
Ultimato quell’intervento, essi disponevano di un volume residuo di mc. 269,88, sufficiente a compiere l’opera controversa in questa sede.
Nello specifico, i controinteressati sostengono di aver posto in essere una “cessione di cubatura” da un fondo all’altro, allo specifico fine di accrescere la potenzialità edilizia del secondo tramite l’utilizzo della volumetria del primo (coincidente con la particella limitrofa).
Detto ordine di idee merita condivisione.
3.2 Come ha chiarito il Consiglio di Stato, sez. VI – 09/02/2016 n. 547, l’asservimento consiste, in termini generali e come specificato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 2009, in una fattispecie negoziale atipica avente effetti obbligatori, in base ai quali un’area viene destinata a servire al computo dell'edificabilità di un altro fondo.
Come statuito nella citata pronuncia n. 547/2016 dei giudici d’appello <<L'asservimento realizza, in definitiva, una specie particolare di relazione pertinenziale, nella quale viene posta durevolmente a servizio di un fondo la qualità edificatoria di un altro. Scopo dell’atto di asservimento è quello di incrementare la cubatura disponibile su un fondo, sfruttando quella concessa (e non utilizzata) ad altro fondo della medesima area, il quale viene, conseguentemente, assoggettato a vincolo di inedificabilità. L'atto di asservimento dei suoli comporta la cessione di cubatura tra fondi contigui ed è funzionale ad accrescere la potenzialità edilizia di un'area per mezzo dell'utilizzo della cubatura realizzabile in una particella contigua e del conseguente computo anche della superficie di quest'ultima, ai fini della verifica del rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria. La riconducibilità dell’asservimento a un vincolo di inedificabilità idoneo a permanere anche in caso di alienazione del fondo asservito, discende dalla natura oggettiva del vincolo. …>>.
Ciò importa che, permanendo il vincolo a tempo indeterminato, l’asservimento continua a seguire il fondo anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi titolo intervenuti in epoca successiva, ed è opponibile ai terzi e a chiunque ne sia il proprietario (Consiglio di Stato, sez. IV – 05/05/2017 n. 2064).
Ha poi puntualizzato TAR Campania Salerno, sez. I – 07/04/2016 n. 916 che l’istituto del c.d. asservimento del terreno per scopi edificatori (o cessione di cubatura) rientra nello schema del contratto atipico con effetti obbligatori che “senza oneri di forma pubblica o di trascrizione, è finalizzato al trasferimento di volumetria e che si perfeziona soltanto con il rilascio del necessario titolo abilitativo edilizio da parte del comune, in quanto l’effetto finale del trasferimento di cubatura avviene solo in conseguenza dell’emanazione del provvedimento amministrativo”.
Ne deriva che l’accordo “ha efficacia solo obbligatoria tra i suoi sottoscrittori, mentre il trasferimento di cubatura fra le parti e nei confronti dei terzi è determinato esclusivamente dal provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato che, a seguito della rinuncia all’utilizzazione della volumetria manifestata al comune dal cedente in adesione al progetto edilizio presentato dal cessionario, può essere emanato a favore di quest’ultimo dall’ente pubblico”.
Come ha statuito Consiglio di Stato, sez. IV – 29/02/2016 n. 816, <<Occorre precisare che, in casi quale quello di specie, non occorre che vi sia stato un formale “atto di asservimento” di un suolo (della sua estensione e della sua potenzialità edificatoria) ai fini della realizzazione di un manufatto da realizzarsi su un suolo diverso, essendo invece sufficiente che il primo sia stato considerato al fine di assentire la volumetria realizzanda (di cui all’istanza di concessione edilizia), e poi concretamente realizzata. Da tale considerazione discende, innanzi tutto, che non assume alcun rilievo, ai fini della impossibilità di considerazione della medesima superficie per il rilascio di altro e successivo titolo edilizio:
   - né che vi sia stata trascrizione o altra forma di pubblicità dell’atto di asservimento ….;
   - né che eventuali certificati di destinazione urbanistica indichino detto suolo come edificabile, secondo le previsioni ed i limiti dello strumento urbanistico, poiché deve tenersi del tutto distinta la formale ed astratta destinazione urbanistica di un’area dalla concreta, intervenuta utilizzazione dell’area medesima per le finalità urbanistico-edilizie ad essa impresse (e, dunque, l’eventuale, intervenuto esaurimento delle potenzialità edilizie della medesima)
>>.
Nella stessa prospettiva il Consiglio di Stato, sez. IV – 05/02/2015 n. 562 ha chiarito che “il concetto di asservimento urbanistico per esaurimento della capacità edificatoria opera obiettivamente ed è opponibile anche al terzo acquirente pur in assenza di trascrizione del vincolo nei registri immobiliari (v. Cons. di Stato, sez. V, n. 387/1998); esso consegue di diritto per il solo effetto del rilascio di legittime concessioni edilizie che determina l'esaurimento della capacità edificatoria stabilita dallo strumento urbanistico. Si tratta di un asservimento giuridico oggettivo tipico del regime conformativo dei suoli, sicché la mancata indicazione di tale effetto nella concessione edilizia o della relativa trascrizione della stessa come di un atto di cessione (pur aventi la valenza giuridica di determinare e pubblicizzare l'asservimento) non possono contrastare l'asservimento urbanistico che si determina in ragione dell'esaurimento della volumetria disponibile, ignorato dalla concessione o dall'atto di cessione”.
3.3 Alla luce dei principi illustrati non era necessaria, ai fini del trasferimento della cubatura disponibile, né una specifica previsione della normativa di piano né la trascrizione dell’atto di disposizione, e la fonte dell’effetto obbligatorio si rinviene nella relazione tecnica che assume valore di atto unilaterale d’obbligo; al contempo, la coincidenza della figura dei proprietari dei terreni coinvolti nella cessione semplifica ulteriormente la vicenda.
Da ultimo, si segnala che l’obbligo di trascrizione sancito dall’art. 2643, comma 1, n. 2-bis, del c.c. –introdotto dall’art. 5, n. 3), del D.L. 13/05/2011 n. 70 convertito, con modificazioni, nella L. 12/07/2011 n. 106– non si riflette sulla validità dell’atto ma rileva unicamente ai fini dell’opponibilità ai terzi e della soluzione del conflitto tra più aventi causa dallo stesso autore, ai sensi dell'art. 2644 del c.c. (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.03.2018 n. 341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo comproprietario interessato, ai fini della successiva acquisizione del bene al patrimonio pubblico.
Inoltre, tale omissione è censurabile esclusivamente dal soggetto nel cui interesse la comunicazione stessa è posta, dato che alcun pregiudizio può discendere in capo a chi ha ricevuto ritualmente la notificazione dell'atto per effetto della mancata notifica del provvedimento agli altri comproprietari del bene.
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Con la prima censura si sostiene la illegittimità del provvedimento di demolizione impugnato, in relazione alla mancata notifica di detto provvedimento agli altri comproprietari.
Tale censura non è suscettibile di accoglimento, in relazione al costante orientamento giurisprudenziale, per cui la mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo comproprietario interessato, ai fini della successiva acquisizione del bene al patrimonio pubblico (per tutte, Tar Campania, Napoli, 21.06.2017, n. 3377).
Inoltre, tale omissione è censurabile esclusivamente dal soggetto nel cui interesse la comunicazione stessa è posta, dato che alcun pregiudizio può discendere in capo a chi ha ricevuto ritualmente la notificazione dell'atto per effetto della mancata notifica del provvedimento agli altri comproprietari del bene (Tar Campania, Napoli, 08.03.2016, n. 1269) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 23.03.2018 n. 3299 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di “volume tecnico”, non computabile nella volumetria, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell'alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo.
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Con ulteriore censura si lamenta la illegittimità della demolizione, in quanto la sopraelevazione oggetto del provvedimento sarebbe un mero volume tecnico.
Tale ricostruzione difensiva non può trovare accoglimento.
Per costante giurisprudenza, infatti, la nozione di “volume tecnico”, non computabile nella volumetria, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere -e sempre in difetto dell'alternativa- quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo (Consiglio di Stato, 08.02.2016, n. 507; 01.12.2014, n. 5932; 31.03.2014 n. 1532).
In primo luogo, la parte ricorrente ha solo dedotto in ricorso che la sopraelevazione costituisca un volume tecnico, senza alcuna dimostrazione in fatto che tali volumi siano effettivamente destinati ad ospitare impianti tecnologici. Anzi, tale circostanza, nel caso di specie, appare incompatibile con le stesse dimensioni della sopraelevazione e la consistenza del volume realizzato, risultanti dal provvedimento di demolizione e dalla relazione di sopralluogo del 19.07.2016, con allegate fotografie, depositata in giudizio dalla difesa del Comune.
Si tratta, infatti, di una superficie complessiva di 55 metri quadri per una altezza minima di 2,20 metri e massima di 3 metri. L’ampiezza di tali dimensioni comporta inequivocabilmente la realizzazione di una nuova costruzione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 23.03.2018 n. 3299 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'individuazione dell'area di sedime da acquisire al patrimonio comunale, in caso mancata spontanea esecuzione dell'ordine di demolizione, non deve necessariamente farsi nel provvedimento che impartisce l'ordine, potendo essere effettuata anche successivamente mediante distinto provvedimento, e precisamente in quello in cui viene accertata l'inottemperanza all'ordine impartito.
Con riferimento al provvedimento di demolizione, dunque, la mancata individuazione dell’area da acquisire e della identificazione catastale della stessa, non costituisce causa di illegittimità dell'atto, con conseguente infondatezza della censura, se riferita al provvedimento di demolizione.
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Gli ulteriori motivi di ricorso sono stati proposti in relazione alla acquisizione al patrimonio comunale, disposta in mancanza di una previa valutazione di interesse pubblico e senza la individuazione specifica del bene da acquisire.
Tali censure sono inammissibili nel presente giudizio, in quanto il provvedimento di demolizione impugnato contiene solo l’avvertimento circa la successiva acquisizione, in caso di inadempimento all’ordine di demolizione, prevista ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.p.r. 380 del 2001, per cui “se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune”.
L’acquisizione non è stata dunque disposta con il provvedimento impugnato.
Per costante giurisprudenza, inoltre, l'individuazione dell'area di sedime da acquisire al patrimonio comunale, in caso mancata spontanea esecuzione dell'ordine di demolizione, non deve necessariamente farsi nel provvedimento che impartisce l'ordine, potendo essere effettuata anche successivamente mediante distinto provvedimento, e precisamente in quello in cui viene accertata l'inottemperanza all'ordine impartito (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 07.07.2014, n. 3438; TAR Lombardia-Milano 06.02.2017 n. 299; TAR Campania, Napoli, sez. II, 27.07.2015, n. 3941; TAR Toscana, sez. III, 13.01.2015, n. 31).
Con riferimento al provvedimento di demolizione, dunque, la mancata individuazione dell’area da acquisire e della identificazione catastale della stessa, non costituisce causa di illegittimità dell'atto, con conseguente infondatezza della censura, se riferita al provvedimento di demolizione.
Nel caso di specie, infatti, risulta dal provvedimento impugnato, la individuazione dell’immobile e la dimensionale consistenza delle opere realizzate in assenza di titolo edilizio, circostanze peraltro non contestate in fatto dalla difesa ricorrente.
In conclusione, il ricorso è infondato e deve essere respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 23.03.2018 n. 3299 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Facoltà per la stazione appaltante di procedere alla c.d. doppia riparametrazione dei punteggi dell’offerta tecnica.
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Contatti della Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta economicamente più vantaggiosa – Migliore offerta tecnica - Attribuzione punteggio massimo previsto dalla lex specialis mediante il criterio della c.d. doppia riparametrazione – Obbligo – Esclusione.
Per le gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta più vantaggiosa nessuna norma di carattere generale impone alle stazioni appaltanti di attribuire alla migliore offerta tecnica in gara il punteggio massimo previsto dalla lex specialis mediante il criterio della c.d. doppia riparametrazione, la quale deve essere espressamente prevista dalla legge di gara (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che il principio enunciato è quello prevalente nella giurisprudenza del giudice amministrativo (Cons. St., sez. V, 27.01.2016, n. 266; id. 30.01.2017, n. 373; id. 12.06.2017, n. 2811 e n. 2852; id., sez. III, 20.07.2017, n. 3580) e fermo nel superamento di quello seguito dalla decisione della sez. III dello stesso Consiglio di Stato (16.03.2016, n. 1048, pronunciata, peraltro, in un caso in cui la doppia parametrazione era prevista nella legge di gara.
Anche le Linee guida n. 2 di attuazione del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 recanti “Offerta economicamente più vantaggiosa”, approvate dal Consiglio ANAC con delibera n. 1005 del 21.09.2016, hanno previsto la mera facoltà per la stazione appaltante di procedere alla riparametrazione dei punteggi, a condizione che la stessa sia prevista nel bando di gara, in conformità a quanto affermato da questo Consiglio di Stato nel parere preventivo sulle linee guida (Cons. St., sez. consultiva, 02.08.2016, parere n. 1767), in dichiarata continuità con la giurisprudenza prevalente (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.03.2018 n. 1845 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’impugnazione immediata delle ammissioni alla gara è subordinata alla pubblicazione degli atti della procedura.
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Processo amministrativo - Rito appalti – Rito super accelerato – Impugnazione immediata ammissione concorrenti - Pubblicazione degli atti della procedura – Necessità.
Ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., l'onere di immediata impugnativa dell'altrui ammissione alla procedura di gara senza attendere l'aggiudicazione, previsto dalla trascritta norma, è ragionevolmente subordinato alla pubblicazione degli atti della procedura di gara (1).
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   (1) Cfr. Cons. St., sez. III, 26.01.2018, n. 565.
Ha chiarito la Sezione –richiamando precedenti in termini (Cons. St., sez. VI, 13.12.2017, n. 5870)– che è vero è che la disposizione in parola non implica l’assoluta inapplicabilità del generale principio sancito dagli artt. 41, comma 2, e 120, comma 5, ultima parte, c.p.a., per cui, in difetto della formale comunicazione dell'atto il termine decorre, comunque, dal momento dell'intervenuta piena conoscenza del provvedimento da impugnare, ma ciò a patto che l’interessato sia in grado di percepire i profili che ne rendano evidente la lesività per la propria sfera giuridica in rapporto al tipo di rimedio apprestato dall'ordinamento processuale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.03.2018 n. 1843 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Col primo motivo si denuncia l’errore commesso dal giudice di prime cure nel respingere l’eccezione con cui l’odierna appellante aveva dedotto che il ricorso, notificato in data 23/11/2016, sarebbe stato proposto oltre il termine di 30 giorni decorrente dal 7/10/2016, data in cui la Lupo Costruzioni Generali avrebbe appreso quali fossero le imprese ammesse alla gara, essendo presente, tramite un proprio rappresentante, alla seduta in cui la stazione appaltante, esaminate le offerte pervenute, ha disposto l’aggiudicazione provvisoria.
La doglianza è infondata.
Dispone l’art. 120, comma 2-bis, del c.p.a. che: “Il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi dell'articolo 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici adottato in attuazione della legge 28.01.2016, n. 11”.
L'onere di immediata impugnativa dell'altrui ammissione alla procedura di gara senza attendere l'aggiudicazione, previsto dalla trascritta norma, è ragionevolmente subordinato alla pubblicazione degli atti della procedura (Cons. Stato, Sez. III, 26/01/2018, n. 565).
Vero è che la disposizione in parola non implica l’assoluta inapplicabilità del generale principio sancito dagli artt. 41, comma 2 e 120, comma 5, ultima parte, del c.p.a., per cui,
in difetto della formale comunicazione dell'atto -o, per quanto qui interessa, in mancanza di pubblicazione dell'atto di ammissione sulla piattaforma telematica della stazione appaltante- il termine decorre, comunque, dal momento dell'intervenuta piena conoscenza del provvedimento da impugnare, ma ciò a patto che l’interessato sia in grado di percepire i profili che ne rendano evidente la lesività per la propria sfera giuridica in rapporto al tipo di rimedio apprestato dall'ordinamento processuale (Cons. Stato, Sez. VI, 13/12/2017, n. 5870).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto riguarda la tettoia la giurisprudenza amministrativa è propensa ad evidenziare che non è prevista la demolizione ove la sua conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo e protezione dell’immobile cui accedono, specie qualora si tratti di una struttura aperta su tre lati e posta a servizio del fabbricato su cui poggia.
Tuttavia, nel caso di specie, parte ricorrente ha contestato la violazione dell’art. 907 c.c.. La realizzazione di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova costruzione, richiedendo quindi il permesso di costruire, allorché difetti dei requisiti richiesti per le pertinenze e per gli interventi precari.
Di conseguenza, il rilascio del titolo edilizio necessita della conformità dell’opera non solo alle specifiche disposizioni del testo unico dell’edilizia (d.P.R. n. 380/2001), ma anche alle norme dallo stesso richiamate sulla disciplina urbanistica ed edilizia vigente.
Tra queste ultime, vanno ricomprese quelle sulle distanze contenute nel codice civile e dunque anche quelle sulle distanze per le vedute di cui al comma 1 dell’art. 907: "Quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma dell'articolo 905”.
Ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici di origine codicistica, la nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.

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Il ricorso deve trovare accoglimento.
L’eccezione di tardività della proposizione del ricorso non può trovare accoglimento, in quanto il termine per la impugnazione decorre dalla conoscenza e non dalla emissione del provvedimento.
Il ricorrente impugna un permesso di costruire (e la revoca di un provvedimento negativo nei confronti di un controinteressato) con cui è stata assentita la realizzazione di una tettoia metallica a un vicino (abitazione sottostante a quella dei ricorrenti). L’ordinanza di revoca è basata sul fatto che il controinteressato ha dichiarato di aver smantellato l’opera e di averla poi realizzata nuovamente in seguito al permesso a costruire.
Per quanto riguarda la tettoia la giurisprudenza amministrativa è propensa ad evidenziare che non è prevista la demolizione ove la sua conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo e protezione dell’immobile cui accedono (Cons. St. 1272/2014), specie qualora si tratti di una struttura aperta su tre lati e posta a servizio del fabbricato su cui poggia (così Cons. St. 5283/2017).
Tuttavia, nel caso di specie, parte ricorrente ha contestato la violazione dell’art. 907 c.c. (cfr. Cons. St. n. 72 del 21018). La realizzazione di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova costruzione, richiedendo quindi il permesso di costruire, allorché difetti dei requisiti richiesti per le pertinenze e per gli interventi precari (cfr. Cass. Pen., sez. III, 23.11.2012, n. 45819).
Di conseguenza, il rilascio del titolo edilizio necessita della conformità dell’opera non solo alle specifiche disposizioni del testo unico dell’edilizia (d.P.R. n. 380/2001), ma anche alle norme dallo stesso richiamate sulla disciplina urbanistica ed edilizia vigente.
Tra queste ultime, vanno ricomprese quelle sulle distanze contenute nel codice civile e dunque anche quelle sulle distanze per le vedute di cui al comma 1 dell’art. 907: "Quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma dell'articolo 905”.
Ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici di origine codicistica, la nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2013, n. 354).
La violazione della veduta del ricorrente appare evidente anche dell’esame delle foto allegate in giudizio, né appare idoneo a superare una tale violazione la sola allegazione di parte ricorrente in ordine alla presenza della vegetazione.
Per quanto concerne il rapporto con le norme dirette a disciplinare i rapporti di vicinato se è vero che i provvedimenti ad effetti ampliativi sono emessi con salvezza dei diritti dei terzi, tuttavia, nel caso in cui la circostanza della loro violazione sia stata espressamente contestata, l’amministrazione deve verificare in concreto se vi sia stata o meno una violazione della disposizione in questione.
Nel caso di specie, risulta violata la veduta dei ricorrenti, con la conseguenza che il ricorso deve trovare accoglimento con il conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati. La natura assorbente del vizio indicato esonera dall’esame degli ulteriori vizi allegati da parte ricorrente.
La domanda risarcitoria non può trovare accoglimento in mancanza di prova ed offerta di prova di un danno e del nesso di causalità tra fatto e danno (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 23.03.2018 n. 732 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le tettoie aperte su tutti i lati devono qualificarsi come “interventi di ristrutturazione edilizia che non creano volumetria né incidono sui prospetti”, rientranti nella disciplina della D.I.A. (secondo la denominazione utilizzata dal legislatore al momento dell’adozione del provvedimento impugnato).
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La violazione dell’art. 22 D.P.R. 06.06.2001 n. 380 comporta, ai sensi dell'art. 37 del medesimo testo normativo, l'applicazione della “sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi” (mentre la più grave sanzione della demolizione prevista dall’art. 33 del D.P.R. 380/2001 è riservata agli interventi di più rilevante impatto urbanistico non assentiti o realizzati in totale difformità, previsti dall’art. 10, co. 1, lett. c).
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1. E’ stata impugnata l’ordinanza n. 50 del 16.11.2010 con cui, previo rigetto dell’istanza di permesso in sanatoria inoltrata dal privato in data 20.01.2010, viene ordinata all’odierno ricorrente la demolizione delle opere accertate come prive di titolo abilitativo, all’esito del sopralluogo effettuato da agenti della Polizia Municipale.
2. Nello specifico si tratta di una tettoia con struttura in legno e copertura in manto di tegole, meglio descritta in atti (sono allegate al fascicolo anche fotografie dei luoghi).
...
6. La domanda di annullamenti è fondata, dovendo accogliersi la doglianza sollevata in via subordinata.
7. L’esame delle questioni sollevate con tale censura -ampiamente dedotte dal ricorrente- presuppone la previa qualificazione del manufatto abusivo tra le diverse “opere” oggetto della normativa sui titoli edilizi (sulla circostanza che le opere siano state concluse senza alcun titolo abilitativo antecedente non vi è contestazione).
Come più volte osservato anche da questo Tribunale, (TAR Catanzaro, II sez., 03.05.2016, n. 977; da ultimo, cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 31.07.2017,n. 3819) le tettoie aperte su tutti i lati devono qualificarsi come “interventi di ristrutturazione edilizia che non creano volumetria né incidono sui prospetti”, rientranti nella disciplina della D.I.A. (secondo la denominazione utilizzata dal legislatore al momento dell’adozione del provvedimento impugnato).
La violazione dell’art. 22 D.P.R. 06.06.2001 n. 380 comporta, ai sensi dell'art. 37 del medesimo testo normativo, l'applicazione della “sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi” (mentre la più grave sanzione della demolizione prevista dall’art. 33 del D.P.R. 380/2001 è riservata agli interventi di più rilevante impatto urbanistico non assentiti o realizzati in totale difformità, previsti dall’art. 10, co. 1, lett. c) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 23.03.2018 n. 729 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: E’ incostituzionale la prosecuzione dell’attività in stabilimento posto sotto sequestro.
VIA, VAS E AIA - SICUREZZA SUL LAVORO - Stabilimenti industriali di interesse strategico - Provvedimento di sequestro preventivo - Prosecuzione dell’attività di impresa - Art. 3, d.l. n. 92/2015 - Illegittimità costituzionale - Ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti - Necessità.

Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto-legge 04.07.2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) e degli artt. 1, comma 2, e 21-octies della legge 06.08.2015, n. 132 (Conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 27.06.2015, n. 83).
La disposizione di cui al d.l. n. 92/2015 prevede che «l’esercizio dell’attività di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale non è impedito dal provvedimento di sequestro […] quando lo stesso di riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori».
La continuazione dell’attività produttiva di aziende sottoposte a sequestro, è considerata lecita, a condizione che vengano osservate le regole che limitano, circoscrivono e indirizzano la prosecuzione dell’attività stessa secondo un percorso di risanamento ispirato al bilanciamento tra tutti i beni e i diritti costituzionalmente protetti, tra cui il diritto alla salute, il diritto all’ambiente salubre e il diritto al lavoro.
Non può infatti ritenersi astrattamente precluso al legislatore di intervenire per salvaguardare la continuità produttiva in settori strategici per l’economia nazionale e per garantire i correlati livelli di occupazione, prevedendo che sequestri preventivi disposti dall’autorità giudiziaria nel corso di processi penali non impediscano la prosecuzione dell’attività d’impresa; ma ciò può farsi solo attraverso un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco, che deve rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro.
Con la disposizione impugnata, invece, il legislatore non ha rispettato l’esigenza di bilanciare in modo ragionevole e proporzionato tutti gli interessi costituzionali rilevanti, incorrendo in un vizio di illegittimità costituzionale per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori, a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio della stessa vita.
Il legislatore, in altri termini, ha finito col privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.).
Il sacrificio di tali fondamentali valori tutelati dalla Costituzione porta a ritenere che la normativa impugnata non rispetti i limiti che la Costituzione impone all’attività d’impresa la quale, ai sensi dell’art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona (Corte Costituzionale, sentenza 23.03.2018 n. 58 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI SERVIZI: Requisito di capacità economico-finanziaria delle Associazioni sportive dilettantistiche.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione - Requisito di capacità economico-finanziaria - Associazioni sportive dilettantistiche – E’ il volume di affari.
  
Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione – Impugnazione – Successiva esclusione – Impugnazione nella via dei motivi aggiunti – Legittimità dell’esclusione – Conseguente improcedibilità dell’atto introduttivo – Limiti.
  
Le associazioni sportive dilettantistiche sono ammesse a partecipare alle procedure di evidenza pubblica ancorché non risultino essere titolari di partita IVA e delle posizioni contributive presso INPS e INAIL; in tal senso, qualora il bando di gara richieda, quale requisito di capacità economico-finanziaria, il raggiungimento di determinate soglie di fatturato, questo deve essere inteso non con l'accezione propria del diritto tributario, quanto invece in termini di volume d'affari e, nello specifico, come corrispettivo percepito in virtù delle prestazioni offerte; non soddisfa, pertanto, il requisito richiesto dal bando di gara l'associazione sportiva dilettantistica i cui introiti siano rappresentati esclusivamente dalle somme incassate a titolo di quote associative, poiché finalizzate alla realizzazione dei più ampi scopi associativi previsti dallo Statuto (1).
  
Nel caso in cui l'esclusione di un concorrente da una procedura di gara sopravvenga all'aggiudicazione già impugnata da detto concorrente, il quale abbia poi impugnato l'esclusione con motivi aggiunti, l'accertata legittimità dell'esclusione, con conseguente rigetto dei motivi aggiunti, comporta l'improcedibilità del ricorso principale laddove l'interesse strumentale alla ripetizione della gara non venga specificamente dedotto e in mancanza di uno specifico obbligo imposto dal diritto europeo.
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   (1) Ha chiarito il Tar che poiché alcuni operatori economici ammessi dalla legge a partecipare alle procedure ad evidenza pubblica possono ricadere nell’ambito di applicazione di regimi fiscali agevolati (è il caso, appunto, delle associazioni sportive dilettantistiche), è necessario dare una interpretazione sistematica delle clausole delle leggi speciali di gara che richiedano, quale requisito di capacità economico-finanziaria, il raggiungimento di una determinata soglia di fatturato.
La nozione di “fatturato”, in tali contesti, non coincide quella propria del diritto tributario, ma va piuttosto intesa in termini di volume d’affari; anzi, più ampiamente, di misura dei corrispettivi percepiti in corrispondenza dell’offerta di determinate prestazioni (
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 21.03.2018 n. 685 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'obbligo per l'Autorità di motivare il provvedimento amministrativo non può ritenersi violato attraverso il richiamo per relationem ad altri atti, se questi offrano comunque elementi sufficienti e univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter motivazionale posti a sostegno della determinazione assunta.
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10 - Con il terzo motivo di appello, l’appellante lamenta che, a seguito dell’annullamento ministeriale, il Comune avrebbe dovuto riesaminare gli atti e riprendere il procedimento alla luce delle rilevazioni dell’atto di annullamento, e non limitarsi a recepirlo altrettanto immotivatamente.
10.1 - Il motivo è infondato, essendo condivisibile quanto argomentato dal Giudice di prime cure. Infatti, il provvedimento comunale non si limita a recepire passivamente la determina del Sovrintendente. Come si desume chiaramente dal tenore dell’atto, in realtà, il Comune, dopo a aver rinnovato la valutazione di sua competenza, fa proprie le considerazione del Ministero. A tal fine la determina del Sovrintendente è stata opportunamente allegata al provvedimento di diniego del Comune a costituirne parte integrante.
Non è pertanto ravvisabile l’illegittimità lamentata dall’appellante, tenuto conto della nota giurisprudenza secondo la quale l'obbligo per l'Autorità di motivare il provvedimento amministrativo non può ritenersi violato attraverso il richiamo per relationem ad altri atti, se questi offrano comunque elementi sufficienti e univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter motivazionale posti a sostegno della determinazione assunta (Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21.04.2015, n. 2011).
11 – In definitiva, l’appello deve essere respinto. Vista la soccombenza, l’appellante deve essere condannato alla refusione delle spese di lite, liquidate come in dispositivo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.03.2018 n. 1799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ricorrente invoca l’annullamento della D.I.A. presentata dagli odierni controinteressati, che è invece, come noto, un atto del privato privo di valore provvedimentale ed in quanto tale non direttamente impugnabile dai terzi.
In caso di D.I.A., infatti, la tutela dei terzi che si assumano lesi si realizza attraverso la sollecitazione del potere sanzionatorio o di autotutela da parte della P.A. e, in caso di inerzia da parte di quest’ultima, attraverso l’impugnazione del silenzio-rifiuto serbato o l’accertamento dell’illegittimità del comportamento omissivo tenuto dall’Amministrazione stessa, che non si sia attivata per inibire i lavori.
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Invero, “l’art. 19, co. 6-ter, della legge 07.08.1990, n. 241, aggiunto dall’art. 6, co. 1, lett. c), del d.l. 13.08.2011, n. 138, stabilisce che “la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’ art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”.
Secondo l’orientamento della Sezione:
   a) la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche in epoca anteriore alla ricordata modifica legislativa, ha ritenuto inammissibile una domanda di annullamento di una d.i.a., atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata;
   b) tale giurisprudenza si è formata in epoca anteriore e coeva a quella dell’atto impugnato;
   c) è evidente la naturale portata retroattiva della norma sancita dal citato art. 19, co. 6-ter;
   d) pertanto essa si è sovrapposta al principio di diritto circa la conversione della domanda, enunziato dall’Adunanza Plenaria del 29.07.2011, n. 15 (che pure ha confermato la natura privatistica della d.i.a.), richiamata dalla parte appellata nella memoria del 28 luglio scorso;
   e) non può valere in contrario la circostanza che, in primo grado, la ricorrente, oltre a impugnare direttamente la d.i.a., abbia chiesto l’accertamento dell’illegittimità del comportamento tenuto dal Comune, perché la domanda non rientra comunque nello schema dell’art. 19, co. 6-ter, dal quale, in presenza dell’inerzia del Comune a rispondere a una specifica diffida del confinante, deriva solo la possibilità di attivare la procedura ex art. 117 c.p.a. in vista della nomina di un commissario che prenda in esame la diffida e provveda su di essa”.
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Ciò posto, osserva il Collegio che lo spiegato ricorso è inammissibile, atteso che la Società ricorrente invoca l’annullamento della D.I.A. presentata dagli odierni controinteressati, che è invece, come noto, un atto del privato privo di valore provvedimentale ed in quanto tale non direttamente impugnabile dai terzi; in caso di D.I.A., infatti, la tutela dei terzi che si assumano lesi si realizza attraverso la sollecitazione del potere sanzionatorio o di autotutela da parte della P.A. e, in caso di inerzia da parte di quest’ultima, attraverso l’impugnazione del silenzio-rifiuto serbato o l’accertamento dell’illegittimità del comportamento omissivo tenuto dall’Amministrazione stessa, che non si sia attivata per inibire i lavori.
Ed invero, come è stato recentemente osservato da condivisibile giurisprudenza, relativamente ad un caso perfettamente analogo a quello oggetto del presente giudizio e dalle cui conclusioni codesto TAR non ritiene di discostarsi, “l’art. 19, co. 6-ter, della legge 07.08.1990, n. 241, aggiunto dall’art. 6, co. 1, lett. c), del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, stabilisce che “la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’ art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”.
Secondo l’orientamento della Sezione (28.04.2017, n. 1967; 09.05.2017, n. 2120; 05.07.2017, n. 3281):
   a) la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche in epoca anteriore alla ricordata modifica legislativa, ha ritenuto inammissibile una domanda di annullamento di una d.i.a., atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.09.2008, n. 4513; sez. IV, 12.03.2009, n. 1474; sez. IV, 13.05.2010, n. 2919);
   b) tale giurisprudenza si è formata in epoca anteriore e coeva a quella dell’atto impugnato;
   c) è evidente la naturale portata retroattiva della norma sancita dal citato art. 19, co. 6-ter;
   d) pertanto essa si è sovrapposta al principio di diritto circa la conversione della domanda, enunziato dall’Adunanza Plenaria del 29.07.2011, n. 15 (che pure ha confermato la natura privatistica della d.i.a.), richiamata dalla parte appellata nella memoria del 28 luglio scorso;
   e) non può valere in contrario la circostanza che, in primo grado, la ricorrente, oltre a impugnare direttamente la d.i.a., abbia chiesto l’accertamento dell’illegittimità del comportamento tenuto dal Comune, perché la domanda non rientra comunque nello schema dell’art. 19, co. 6-ter, dal quale, in presenza dell’inerzia del Comune a rispondere a una specifica diffida del confinante, deriva solo la possibilità di attivare la procedura ex art. 117 c.p.a. in vista della nomina di un commissario che prenda in esame la diffida e provveda su di essa
” (cfr Consiglio di Stato, Sezione Quarta n. 4659/2017).
Conclusivamente, per le ragioni sopra sinteticamente illustrate, lo spiegato ricorso va dichiarato inammissibile.
Quanto alle spese di lite, sussistono i presupposti di legge, anche in considerazione del fatto che
solo nel 2011 è stata normativamente (esplicitamente) esclusa l’impugnativa diretta della D.I.A., per dichiararle integralmente compensate tra le parti (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 16.03.2018 n. 443 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile.
Ciò, in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare.
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Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino.
Nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere "legittimo" in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata.
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Se, in linea generale, permane l’obbligo di emanare le ordinanze di demolizione di opera edilizia abusiva nei confronti del proprietario attuale, indipendentemente dall’essere o meno responsabile delle opere abusive, detto ordine deve comunque essere rivolto anche nei confronti di chi utilizzi o abbia la disponibilità dell’opera abusiva quale soggetto in grado di porre fine alla situazione antigiuridica, indipendentemente dal coinvolgimento o meno nella realizzazione dell’abuso, in considerazione del carattere ripristinatorio della disposta demolizione.
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Con il primo motivo di ricorso, si contesta la violazione degli art. 3 e 10 della legge n. 241 del 1990 per mancata considerazione e valutazione delle documentate e rilevanti osservazioni depositate dal ricorrente a seguito della comunicazione di avvio del procedimento volto alla demolizione.
La censura non è fondata.
La giurisprudenza ha più volte ribadito che l’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile. Ciò, in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare (in tal senso -ex multis– Consiglio di Stato, sez. IV, 28.02.2017, n. 908; id. 12.10.2016, n. 4205; id. 31.08.2016, n. 3750).
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Con il terzo motivo, in via subordinata, si contesta la violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 per mancata motivazione in ordine alle ragioni di interesse pubblico sottese alla demolizione, stante il lungo lasso di tempo trascorso dalla realizzazione del chiosco e il legittimo affidamento formatosi a seguito del rilascio da parte dell’Amministrazione di molteplici autorizzazione commerciali e dovendosi, oltre tutto, tener conto che la posizione del ricorrente sarebbe del tutto incolpevole, non essendo responsabile della realizzazione delle opere.
La censura non può trovare accoglimento.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, affrontando una tematica in tutto analoga a quella qui in esame, ha recentemente affermato il seguente principio di diritto: "il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino" (Consiglio di Stato, A.P. 17.10.2017, n. 9).
In tale pronuncia è stato, altresì, precisato che “nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere "legittimo" in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata”.
Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004, in quanto il provvedimento impugnato non avrebbe dovuto essere indirizzato al ricorrente, che non è proprietario del terreno su cui sono state realizzate le opere, né responsabile dell’abuso.
La doglianza, come rilevato dal Comune resistete, è eccentrica, atteso che ove fosse fondata, non sussisterebbe interesse all’impugnazione.
In ogni caso, è infondata anche nel merito.
Come affermato ormai da costante giurisprudenza, se, in linea generale, permane l’obbligo di emanare le ordinanze di demolizione di opera edilizia abusiva nei confronti del proprietario attuale, indipendentemente dall’essere o meno responsabile delle opere abusive, detto ordine deve comunque essere rivolto anche nei confronti di chi utilizzi o abbia la disponibilità dell’opera abusiva quale soggetto in grado di porre fine alla situazione antigiuridica, indipendentemente dal coinvolgimento o meno nella realizzazione dell’abuso, in considerazione del carattere ripristinatorio della disposta demolizione (da ultimo, TAR Puglia, Lecce, sez. I, 28.07.2017, n. 2017) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 16.03.2018 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Discarica abusiva - Edificazione di manufatti finalizzati all'esercizio della discarica abusiva - DANNO AMBIENTALE - risarcimento del danno nei confronti della Città metropolitana di Milano - Artt. 212, 256 d.lgs. n.152/2006.
Deve essere ricompresa nel concetto di discarica abusiva anche la realizzazione di quei manufatti che sono funzionalmente destinati alla discarica stessa.
Va infatti rilevato che, nel concetto di discarica -come individuato dall'art. 2, comma 1, lettera g), del d.lgs. n. 36 del 2003- non devono essere ritenuti compresi solo i rifiuti depositati, ma anche il suolo, eventualmente oggetto di trasformazioni finalizzate al suo utilizzo, e le opere edilizie, permanenti o precarie, realizzate per la collocazione e la gestione dei rifiuti e del sito.
Si tratta, infatti, di elementi la cui presenza, consentendo in linea di massima una maggiore capacità di smaltimento, contribuisce in modo significativo alla compromissione dell'ambiente che la norma penale intende evitare.
Nella specie, l'imputato era stato condannato, anche al risarcimento del danno nei confronti della Città metropolitana di Milano, per:
   A) il reato di cui agli artt. 256, commi 1, lettera a), in relazione all'art. 212, del d.lgs. n 152 del 2006, perché, in qualità di proprietario di un autocarro, effettuava il trasporto di rifiuti non pericolosi, prodotti da un'attività di costruzione e demolizione, in mancanza dell'iscrizione all'albo dei gestori ambientali;
   B) il reato di cui all'art. 256, comma 3, del d.lgs. n 152 del 2006, perché, in qualità di titolare di una ditta individuale, realizzava e gestiva una discarica in mancanza di autorizzazione su un'area sottoposta a tutela paesaggistica, attraverso l'accumulo di terre da scavo miste a rifiuti da attività di demolizione, pneumatici, ulteriori rifiuti di demolizione, generando un degrado ambientale per la presenza e le modalità di accumulo dei suddetti rifiuti, destinati a permanere nel luogo con carattere di definitività;
   C) il reato di cui all'art. 181, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004, per avere realizzato la discarica di cui sopra in area sottoposta a vincolo paesaggistico in mancanza di autorizzazione  (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.03.2018 n. 11568 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La circostanza secondo cui l’ordine di rimozione del manufatto sia stato adottato a distanza di 28 anni dalla sua realizzazione non è idonea a radicarne la sua invalidità.
La questione è stata affrontata dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che «con sentenza n. 9 del 2017 con la quale ha statuito che nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere «legittimo» in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata […]. Se dunque il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata».
E’ dunque del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento (recte: «opere edilizie realizzate in assenza di titolo abilitativo»), senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.
In tal senso, peraltro, neppure la lamentata omessa mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento coglie nel segno, posto che secondo la consolidata giurisprudenza non è necessario dar luogo a siffatto adempimento in relazione all’ordine di demolizione.

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1.- Oggetto della domanda di annullamento proposta con il ricorso in epigrafe è l’ordinanza con la quale il Responsabile dello sportello unico per l’edilizia (SUE) del Comune di Vergato ingiungeva alla ricorrente società la sospensione dei lavori e la demolizione del manufatto edilizio destinato alla captazione di acqua nel sottosuolo e relativa recinzione, siti nello stesso Comune, in località Cereglio, via ... s.n.c., foglio 19, mappale 55.
2.- Le ragioni del provvedimento ripristinatorio risiedevano nella (presupposta) carenza del titolo abilitativo, nell’avvenuta realizzazione delle opere su proprietà altrui, nella sussistenza del vincolo forestale previsto dal PSC approvato in data 29.01.2016 e nella circostanza che l’area risulta assoggettata alla tutela prevista dal d.lgs. n. 42 del 2004.
...
9.- Il motivo è infondato.
...
11.- Con il secondo motivo parte ricorrente deduce vizi di ordine procedimentale che, a suo dire, avrebbero dato luogo alla difettosità della motivazione.
Il motivo non è meritevole di pregio.
Va preliminarmente osservato che la circostanza secondo cui l’ordine di rimozione del manufatto sia stato adottato a distanza di 28 anni dalla sua realizzazione non è idonea a radicarne la sua invalidità.
La questione è stata affrontata dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che «con sentenza n. 9 del 2017 con la quale ha statuito che nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere «legittimo» in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata […]. Se dunque il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata» (cfr. C.G.A., SS.RR., n. 66 del 2018).
E’ dunque del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento (recte: «opere edilizie realizzate in assenza di titolo abilitativo»), senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria (cfr. C.G.A., cit.; Cons. St., IV, 28.02.2017, n. 908).
In tal senso, peraltro, neppure la lamentata omessa mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento coglie nel segno, posto che secondo la consolidata giurisprudenza non è necessario dar luogo a siffatto adempimento in relazione all’ordine di demolizione (cfr. in tal senso, C.G.A., SS.RR., n. 24 del 2018) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 14.03.2018 n. 234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non può ritenersi sussistere l’estraneità delle opere realizzate alla disciplina che regola il conseguimento del titolo abilitativo poiché correlate alla coltivazione del giacimento: costituisce massima consolidata quella secondo cui «le opere edili realizzate all’interno di una cava in cui si svolgono attività estrattive autorizzate necessitano del permesso di costruire, ove non precarie, anche se connesse al ciclo produttivo».
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1.- Oggetto della domanda di annullamento proposta con il ricorso in epigrafe è l’ordinanza con la quale il Responsabile dello sportello unico per l’edilizia (SUE) del Comune di Vergato ingiungeva alla ricorrente società la sospensione dei lavori e la demolizione del manufatto edilizio destinato alla captazione di acqua nel sottosuolo e relativa recinzione, siti nello stesso Comune, in località Cereglio, via ... s.n.c., foglio 19, mappale 55.
2.- Le ragioni del provvedimento ripristinatorio risiedevano nella (presupposta) carenza del titolo abilitativo, nell’avvenuta realizzazione delle opere su proprietà altrui, nella sussistenza del vincolo forestale previsto dal PSC approvato in data 29.01.2016 e nella circostanza che l’area risulta assoggettata alla tutela prevista dal d.lgs. n. 42 del 2004.
...
9.- Il motivo è infondato.
...
12.- Il terzo mezzo sottoposto all’attenzione del Collegio è volto ad evidenziare l’asserita carenza di presupposti per farsi luogo all’impugnata demolizione sul rilievo che il manufatto di cui trattasi ricadrebbe su area da ritenersi di proprietà pubblica.
La doglianza non è meritevole di pregio.
Osserva il Collegio che al di là dei rapporti interni tra i soggetti privati relativi allo statuto proprietario dell’area -e qui la natura pubblica del fondo non risulta affatto provata-, in ogni caso l’art. 9 della l.r. Em. Rom. n. 15 del 2013 stabilisce che «le attività edilizie, anche su aree demaniali, sono soggette a titolo abilitativo», sicché è naturale arguirne l’applicazione delle conseguenti norme ripristinatorie, fermo restando che anche il Testo unico per l’edilizia, approvato con d. P.R. n. 380 del 2001, attribuisce rilevanza alla realizzazione da parte di privati di interventi edilizi su aree demaniali.
Né ancora può ritenersi sussistere l’estraneità delle opere realizzate alla disciplina che regola il conseguimento del titolo abilitativo poiché correlate alla coltivazione del giacimento: costituisce massima consolidata quella secondo cui «le opere edili realizzate all’interno di una cava in cui si svolgono attività estrattive autorizzate necessitano del permesso di costruire, ove non precarie, anche se connesse al ciclo produttivo» (ex aliis, Cass. pen. 18546 del 2010).
Sulla base di tali considerazioni l’ordinanza emanata dal Comune risulta, per tali aspetti, correttamente adottata (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 14.03.2018 n. 234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per individuare la natura precaria di un'opera, si deve seguire «non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale», per cui un'opera se è realizzata per soddisfare esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del regime proprio delle opere precarie anche quando le opere sono state realizzate con materiali facilmente amovibili.
Non possono essere quindi considerati manufatti precari, destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee, quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, e l'alterazione del territorio non può essere considerata né temporanea né precaria né irrilevante.
La «precarietà» dell'opera postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità che non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo.

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1.- Oggetto della domanda di annullamento proposta con il ricorso in epigrafe è l’ordinanza con la quale il Responsabile dello sportello unico per l’edilizia (SUE) del Comune di Vergato ingiungeva alla ricorrente società la sospensione dei lavori e la demolizione del manufatto edilizio destinato alla captazione di acqua nel sottosuolo e relativa recinzione, siti nello stesso Comune, in località Cereglio, via ... s.n.c., foglio 19, mappale 55.
2.- Le ragioni del provvedimento ripristinatorio risiedevano nella (presupposta) carenza del titolo abilitativo, nell’avvenuta realizzazione delle opere su proprietà altrui, nella sussistenza del vincolo forestale previsto dal PSC approvato in data 29.01.2016 e nella circostanza che l’area risulta assoggettata alla tutela prevista dal d.lgs. n. 42 del 2004.
...
9.- Il motivo è infondato.
...
13.- Con il quarto motivo la ricorrente si duole dell’illegittimità del provvedimento poiché lo stesso riguarda opere interrate, aventi carattere precario, rispetto alle quali, all’atto del rinnovo dell’autorizzazione all’attività estrattiva, il Comune aveva espresso il proprio parere favorevole sul versante urbanistico.
Il motivo è infondato.
Rileva il Collegio che nessuno degli elementi volti a configurare il manufatto quale avente carattere precario risulta venir qui in evidenza. Sul punto deve essere ribadito che per individuare la natura precaria di un'opera, si deve seguire «non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale», per cui un'opera se è realizzata per soddisfare esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del regime proprio delle opere precarie anche quando le opere sono state realizzate con materiali facilmente amovibili (fra le decisioni più recenti cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1291 del 01.04.2016).
Non possono essere quindi considerati manufatti precari, destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee, quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, e l'alterazione del territorio non può essere considerata né temporanea né precaria né irrilevante (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4116 del 04.09.2015).
La «precarietà» dell'opera postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità che non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 1291 del 01.04.2016 cit.).
Nel caso di specie va ritenuto che siffatte caratteristiche non sussistano sicché il manufatto andava assoggettato al titolo abilitativo di legge (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 14.03.2018 n. 234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISolo il visto contabile rende il credito certo ed esigibile.
La determina di liquidazione, effettuata dal responsabile del servizio su un impegno contabile, è un atto interno e non può provare la certezza del credito fatto valere dal terzo. Per avere certezza del credito e, quindi, provare il perfezionamento dell'obbligazione giuridica, assume valore il solo visto di regolarità contabile del responsabile del servizio finanziario.

Lo ha deciso la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la ordinanza 13.03.2018 n. 6026.
I fatti di causa
In mancanza del pagamento vantato nei confronti di un cliente, un creditore si è rivolto al Comune (quale terzo pignorato) per il recupero del debitore esecutato, producendo a supporto la determina di liquidazione del responsabile dell'ufficio tecnico.
Il Tribunale di primo grado ha riconosciuto nella determina di liquidazione il documento con il quale il Comune ha certificato la somma certa e liquida da pagare e, come tale, il necessario presupposto ai fini dell'azione dei successivi atti amministrativo contabili volti a consentire il pagamento del credito oggetto di liquidazione.
La Corte territoriale ha reputato, al contrario, sulla base dello stesso materiale istruttorio, che la determina del servizio tecnico comunale rappresentasse mero atto a valenza esclusivamente interna, inidonea, in assenza del visto di regolarità contabile del responsabile del servizio finanziario, a costituire valida prova del credito verso l'ente locale.
Contro la sentenza il convenuto si è rivolto alla Cassazione, evidenziando l'errore della Corte territoriale in quanto, a suo dire, non solo la determinazione rappresenta di per sé un credito liquido ed esigibile, ma che il Comune ha anche dichiarato l'avvenuto successivo pagamento provando con ciò la natura del credito certo ed esigibile sin dall'origine.
Le indicazioni della Cassazione
Per i giudici di Piazza Cavour non vi è contraddizione tra la dichiarazione da parte del Comune circa la mancanza di certezza del credito, al momento della produzione della prova della determinazione fornita in giudizio, rispetto alla successiva dichiarazione dello stesso ente locale di estinzione del credito mediante pagamento con successivo mandato, in quanto ciò non ingenera un irriducibile contrasto con l'affermazione dell'insussistenza del credito, per difetto di prova dei fatti costitutivi.
Infatti, in merito alla determinazione da parte del responsabile dell'ufficio tecnico, quale prova del credito esistente, va precisato quanto segue:
   • a differenza di quanto asserito dal convenuto che, ai fini della valida costituzione del rapporto obbligatorio con gli enti locali è necessario l'impegno di spesa con l'attestazione della copertura finanziaria in base all'articolo 191 del Tuel, la Corte ha ben evidenziato la mancanza della regolarità contabile del responsabile del servizio finanziario dell'ente, quale mezzo non solo di controllo di legittimità della spesa, ma anche del requisito di esecutività e di giuridica efficacia della determina di impegno. La determina di impegno, infatti, in mancanza del visto di regolarità contabile, ha natura di atto endoprocedimentale a valenza meramente interna, non dimostrativo della esistenza di un'obbligazione dell'ente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.03.2018).
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MASSIMA
3. Con il sesto e settimo motivo di ricorso, si lamenta violazione delle regole in tema di onere della prova.
Più specificamente, il ricorrente denuncia che «ai fini della valida costituzione del rapporto obbligatorio con gli enti locali è necessaria l'impegno di spesa con l'attestazione della copertura finanziaria ai sensi dell'articolo 191 del T.U.E.L.», mentre la Corte territoriale, considerando la necessità del visto di regolarità contabile dato rilevanza alla fase meramente esecutiva della liquidazione della spesa, ad un tempo gravando il creditore attore de la prova dell'esistenza di detto visto, dimostrazione che, invece, in forza del criterio di vicinanza della prova, doveva essere fornita dal Comune convenuto in accertamento dell'obbligo.
Le censure sono destituite di fondamento.
In linea generale, quanto alla ripartizione del carico probatorio nel giudizio di accertamento dell'obbligo del terzo,
è jus receptum nella giurisprudenza di questa Corte che il creditore è tenuto a provare il fatto costitutivo dell'obbligo del terzo, mentre a quest'ultime incombe l'onere di provare di aver estinto la sua obbligazione prima del pignoramento (cfr. Cass. 21/03/2014, n. 6760; Cass. 18/11/2010, n. 23324; Cass. 08/06/1994, n. 5547).
Pienamente conformandosi a detto canone, l'impugnata sentenza ha onerato il creditore della asseverazione dei fatti costitutivi del credito dell'ente locale e ritenuto, a tale fine, la insufficienza della mera determina del servizio tecnico comunale.
Quanto alla valida costituzione del rapporto obbligato con il Comune, la censura del ricorrente è frutto di un evidente equivoco nella lettura delle disposizioni del T.U.E.L., dacché, proprio come assume il motivo in disamina,
la sentenza impugnata ha considerato la necessità dell'impegno di spesa con attestazione di copertura finanziaria: quest'ultima, invero, si congiunge necessariamente, a mente del combinato disposto degli artt. 153 e 191 del T.U.E.L., al visto di regolarità contabile del responsabile del servizio finanziario dell'ente, mezzo di controllo di legittimità della spesa, requisito di esecutività e di giuridica efficacia della determinazione di impegno, la quale, ex se valutata, ha natura di atto endoprocedimentale a valenza meramente interna, non dimostrativo dell'esistenza di un'obbligazione dell'ente.

APPALTI: L'offerta bassa non è per forza anomala.
L'offerta non è automaticamente anomala se risulta inferiore al valore delle tabelle ministeriali; occorre che vi siano discordanze considerevoli e ingiustificate.

Lo afferma il Consiglio di Stato con la sentenza 13.03.2018 n. 1609 del della III Sez. in merito alla verifica dell'anomalia di una offerta concernente un appalto (servizi di vigilanza) con il criterio del prezzo più basso.
I giudici innanzitutto precisano che nelle gare pubbliche la verifica dell'anomalia dell'offerta è finalizzata alla verifica dell'attendibilità e della serietà della stessa ed all'accertamento dell'effettiva possibilità dell'impresa di eseguire correttamente l'appalto alle condizioni proposte.
Ciò premesso, la valutazione della stazione appaltante riveste «natura globale e sintetica e costituisce espressione di un tipico potere tecnico-discrezionale riservato alla Pubblica amministrazione che, come tale, è insindacabile in sede giurisdizionale, salvo che la manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza dell'operato, renda palese l'inattendibilità complessiva dell'offerta».
È noto infatti che il giudice amministrativo non può procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci: si tratterebbe di una sorta di invasione della sfera propria della pubblica amministrazione. Il giudici può semmai verificare il giudizio sotto i profili della logicità, della ragionevolezza e dell'adeguatezza dell'istruttoria «ferma restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello della pubblica amministrazione, può esercitare il proprio sindacato».
Venendo alla fattispecie esaminata il Consiglio di stato afferma che, per un appalto (servizi di vigilanza) in cui i riferimenti del costo del lavoro sono definiti da apposite tabelle ministeriali, un'offerta non può ritenersi anomala, ed essere esclusa, per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi: perché possa dubitarsi della sua congruità, occorre che le discordanze siano considerevoli e palesemente ingiustificate. Cosa che non era stata dimostrata in concreto
(articolo ItaliaOggi del 23.03.2018).
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MASSIMA
2.§.3. L’impianto complessivo non convince.
Come è noto,
nelle gare pubbliche la verifica dell'anomalia dell'offerta è finalizzata alla verifica dell'attendibilità e della serietà della stessa ed all'accertamento dell'effettiva possibilità dell'impresa di eseguire correttamente l'appalto alle condizioni proposte. La relativa valutazione della stazione appaltante ha natura globale e sintetica e costituisce espressione di un tipico potere tecnico-discrezionale riservato alla Pubblica amministrazione che, come tale, è insindacabile in sede giurisdizionale, salvo che la manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza dell'operato, renda palese l'inattendibilità complessiva dell'offerta (Consiglio di Stato sez. V 30.10.2017 n. 4978).
Di norma infatti
il giudice amministrativo non può procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell'offerta e delle singole voci, che rappresenterebbe un'inammissibile invasione della sfera propria della Pubblica amministrazione, ma può solo verificare il giudizio sotto i profili della logicità, della ragionevolezza e dell’adeguatezza dell'istruttoria (cfr. Consiglio di Stato sez. VI 15.09.2017 n. 4350). Solo in tali limiti, il giudice di legittimità, ferma restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello della Pubblica amministrazione, può esercitare il proprio sindacato (cfr. Consiglio di Stato sez. V 21.11.2017 n. 5387).
Nella sostanza poi,
un'offerta non può ritenersi anomala, ed essere esclusa, per il solo fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi: perché possa dubitarsi della sua congruità, occorre che le discordanze siano considerevoli e palesemente ingiustificate (cfr. Consiglio di Stato sez. III 21.07.2017 n. 3623).
Il che deve escludersi nella presente fattispecie.

APPALTI: Anomalia dell’offerta.
Nelle gare pubbliche il livello di approfondimento richiesto alla stazione appaltante in sede di valutazione della non anomalia dell'offerta, rispetto alle singole voci di costo presentate, varia in funzione delle caratteristiche dell'offerta e della plausibilità delle giustificazioni già rese rispetto alle singole voci, venendo in considerazione un giudizio discrezionale, in ordine alla complessiva affidabilità dell'offerta, su cui il giudice effettua un sindacato ab estrinseco.
Il giudizio, che conclude il sub procedimento di verifica delle offerte anomale (di per sé insindacabile, salva l'ipotesi in cui le valutazioni ad esso sottese non risultino abnormi o manifestamente illogiche o affette da errori di fatto), ha, infatti, natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme e, conseguentemente, la relativa motivazione deve essere rigorosa in caso di esito negativo.
Al contrario, la positiva valutazione di congruità della presunta offerta anomala è sufficientemente espressa anche con eventuale motivazione per relationem alle giustificazioni rese dall'impresa offerente.

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Con il secondo motivo la ricorrente ha dedotto l’eccesso di potere sotto vari profili, lamentando, in particolare, l’erroneo giudizio di congruità dell’offerta della controinteressata operato dalla stazione appaltante in ragione di una sottostima delle ore necessarie per l’espletamento del servizio, nonché del mancato possesso di tutti i veicoli di classe euro 6, come indicato nell’offerta, per i quali avrebbe ottenuto un punto in più rispetto a quella della ricorrente.
La censura non coglie nel segno.
Ed invero, riguardo al primo profilo di doglianza, il collegio aderisce al costante orientamento giurisprudenziale in base al quale “Nelle gare pubbliche il livello di approfondimento richiesto alla stazione appaltante in sede di valutazione della non anomalia dell'offerta, rispetto alle singole voci di costo presentate, varia in funzione delle caratteristiche dell'offerta e della plausibilità delle giustificazioni già rese rispetto alle singole voci, venendo in considerazione un giudizio discrezionale, in ordine alla complessiva affidabilità dell'offerta, su cui il giudice effettua un sindacato ab estrinseco; il giudizio, che conclude il sub procedimento di verifica delle offerte anomale (di per sé insindacabile, salva l'ipotesi in cui le valutazioni ad esso sottese non risultino abnormi o manifestamente illogiche o affette da errori di fatto), ha, infatti, natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme e, conseguentemente, la relativa motivazione deve essere rigorosa in caso di esito negativo; al contrario, la positiva valutazione di congruità della presunta offerta anomala è sufficientemente espressa anche con eventuale motivazione per relationem alle giustificazioni rese dall'impresa offerente” (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 27.07.2017, n. 3702) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 13.03.2018 n. 727 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Soggetto “interessato” a sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’Amministrazione nei confronti di una Scia edilizia.
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Scia – Verifica – Soggetto interessato – Individuazione – Ditta titolare distributore di carburante – Verifica Scia edilizia rilasciata ad altra ditta titolare di un distributore di carburanti – mancata impugnazione relativo titolo commerciale – Non è soggetto interessato.
Non può essere considerato “interessato” a sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’Amministrazione nei confronti di una Scia edilizia, rilasciata ad una ditta titolare di un distributore di carburanti, e, in caso di inerzia, ad esperire l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a., ai sensi dell’art. 19, comma 6-ter, l. 07.08.1990, n. 241, il terzo -titolare di altro distributore di carburanti situato a circa 1,5 km di distanza da quello della ditta controinteressata- allorquando l’eventuale accoglimento dell’azione non possa soddisfare l’interesse commerciale che muove e legittima l’intervento dello stesso (1).
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   (1) La Sezione ha affrontato la questione della legittimazione e dell’interesse in capo alla società ricorrente, titolare di un distributore di carburanti situato a circa 1,5 km di distanza da quello della ditta controinteressata, a sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’Amministrazione nei confronti di una Scia edilizia presentata da quest’ultima e, in caso di inerzia, ad esperire l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a., ai sensi dell’art. 19, comma 6-ter, l. 07.08.1990, n. 241, e ciò a fronte della mancata impugnazione del titolo commerciale su cui peraltro l’Amministrazione non ha inteso esercitare il discrezionale ed autonomo potere di autotutela (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 12.03.2018 n. 630 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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6. Il Collegio ritiene prioritario affrontare, anche nel presente giudizio, la questione relativa alla sussistenza della legittimazione ed interesse ad agire in capo alla ricorrente.
6.1. Quest’ultima agisce nella dichiarata finalità di contestare la sussistenza dei presupposti dell’attività segnalata quale terzo ai sensi dell’art. 6-ter dell’art. 19 L. n. 241/1990, sollecitando le verifiche spettanti al Comune a fronte di segnalazione di un’attività privata per esso lesiva e, attesa l’inerzia, proponendo l’azione ex art. 31 del cod. proc. amm.
Specifica che, successivamente alla presentazione del ricorso in appello, la stessa abbia rilevato una serie di vizi ulteriori a quelli denunciati con il precedente giudizio e con quello incardinato presso il Consiglio di Stato.
Osserva il Collegio che l’unica nuova S.C.I.A. (edilizia) di cui al presente ricorso -non oggetto di censure nel precedente giudizio di cui sopra- è costituita dalla S.C.I.A. n. 229 del 07.11.2016, con cui la ditta Fe. ha apportato una variante al permesso di costruire originario nei termini ivi descritti.
Orbene, per le medesime ragioni già esplicitate da questo TAR Catanzaro, sez. II, con la sentenza n. 1577/2016, sub iudice e non sospesa con appello cautelare, la mancata impugnazione del titolo commerciale induce questo Collegio a ritenere la carenza di interesse (e di legittimazione) in capo alla ditta ricorrente anche a chiedere, con la presente azione, che venga accertato e dichiarato che il Comune di Acri, con il suo silenzio a seguito delle diffide della stessa, è venuto meno agli obblighi su questo incombenti in forza dell’art. 2 e art. 19, commi 3 e 6-ter della L. n. 241/1990.
Il Collegio ritiene, insomma, che non può essere considerato “interessato” a sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione nei confronti di una S.C.I.A. edilizia e, in caso di inerzia, ad esperire l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del cod. proc. amm., ai sensi dell’art. 19, comma 6-ter della legge n.241 del 1990, il terzo -titolare di un distributore di carburanti situato a circa 1,5 km di distanza da quello della ditta controinteressata- allorquando l’eventuale accoglimento dell’azione, come nel caso, non possa soddisfare l’interesse commerciale che muove e legittima l’intervento dello stesso; ciò a fronte della mancata impugnazione del titolo commerciale (cfr. TAR Calabria n. 1577/2016) -su cui peraltro l’amministrazione, allo stato, non ha inteso esercitare il discrezionale ed autonomo potere di autotutela (pagg. 11 e 12 della memoria del Comune depositata in data 2 marzo 2018)– ed a fronte dell’intervenuto rilascio temporaneo, in data del 26.06.2017, da parte dell’Agenzia delle Dogane, della licenza di esercizio relativa all’impianto ai fini fiscali.
Né vale, in questa sede, l’argomentazione sostenuta da parte ricorrente secondo cui, nel caso, non si sarebbe formata l’autorizzazione petrolifera per silentium, in quanto ciò non costituisce oggetto del presente giudizio, volto invero ad accertare l’inerzia dell’amministrazione a fronte dei poteri sollecitatori del terzo per inibire l’attività connessa a S.C.I.A. edilizia ritenuta illegittima o per indurre interventi in autotutela dell’amministrazione sui titoli edilizi indicati.
7. Il Collegio ritiene, inoltre, al di là delle superiori ed assorbenti valutazioni, di specificare che il ricorso comunque è inammissibile anche per le seguenti ragioni:
   a) con la prima diffida (del 23/12/2016) parte ricorrente chiedeva sostanzialmente l’attivazione dei poteri inibitori sulla SCIA in variante del 7-10/11/2016 con cui il Fe. dichiarava di avere eliminato i muri di scarpa;
   a.1) a tale richiesta risulta che il Comune di Acri forniva riscontro, rispondendo ad un sollecito dei poteri inibitori (del 20/05/2017 prot. n. 8816), con comunicazione del 14/06/2017 prot. n.10297; in particolare, con tale nota si dichiarava che la ditta Ferraro aveva fatto pervenire chiarimenti in merito alla relazione geologica in precedenza prodotta; che “da tale relazione il tecnico incaricato ribadisce chiaramente che le scarpate bordanti l’area sulla quale è in fase di realizzazione l’impianto di distribuzione carburanti sono stabili. Per quanto riguarda la distanza tra l’ingresso, nella predetta area, ed il vicino incrocio misura oltre 12,00 mt, per come si evince dagli elaborati grafici presentati successivamente al rilascio del P. di C.. Pertanto, considerato che esiste un giudizio pendente tra le parti, il sottoscritto non può entrare nel merito delle questioni poste con la Vs. sopracitate e ritiene concluso favorevolmente l’iter urbanistico …”; conseguentemente, con riferimento a tale diffida, il ricorso si palesa inammissibile atteso il riscontro del Comune;
   b) con la seconda diffida (del 07/04/2017) Br. sollecitava il Comune di Acri “a voler inibire … l’inizio dell’attività commerciale in considerazione degli evidenti rischi idraulici e delle … illegittimità procedimentali; - a voler avviare un procedimento di autotutela delle autorizzazioni sin qui concesse …; con la terza diffida (del 19/05/2017) il ricorrente manifestava al Comune “le evidenti carenze procedimentali e amministrative che viziano i titoli autorizzativi della Ditta Fe. …”; con la quarta diffida (del 23/05/2017) il ricorrente confidava che il Comune non rilasciasse “alcuna tipologia di autorizzazione all’esercizio … stante la conclamata assenza del titolo commerciale e le persistenti difformità urbanistiche…”; con la quinta diffida (del 07/07/2017) il ricorrente ribadiva l’inesistenza dell’autorizzazione petrolifera, la presunta difformità di quanto realizzato rispetto a quanto presente nei titoli ed infine la mancata conformità dell’impianto con il Codice della Strada ed invitava l’amministrazione alla verifica della legittimità dell’azione amministrativa, anche invocando il potere sostitutivo sancito dall’art. 39 del d.p.r. n. 380/2001;
   b.1) con riferimento a tali diffide, giova osservare l’inammissibilità della richiesta inibitoria non specificamente correlata ad un nuovo titolo (o fondata su ritenuti vizi procedimentali sub iudice, per come sopra esposto, e comunque relativi a titoli già impugnati con il precedente giudizio), nonché la non coercibilità dell’intervento in autotutela dell’amministrazione, non sussistendo in capo a quest’ultima alcun obbligo di provvedere (Consiglio di Stato, n. 2549/2012).
8. Conclusivamente, sulla base delle superiori valutazioni e prescindendo dalle ulteriori censure in rito sollevate dalle parti e sin qui non esaminate, il presente ricorso va dichiarato inammissibile.

EDILIZIA PRIVATA: Rilevanza di un balcone aggettante ai fini del calcolo delle distanze.
Il TAR Milano, dopo aver richiamato la disciplina di cui all’art. 9 del DM n. 1444/1968 -che per la zona storica degli agglomerati urbani prevede, in caso di ristrutturazioni, che le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale- precisa che tale disposizione è stata interpretata dalla giurisprudenza nel senso che la natura di norma di ordine pubblico, quindi il computo del limite di 10 metri lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, debba tenere conto di un eventuale balcone aggettante solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò (commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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Nel merito il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto.
In prima battuta, occorre osservare che nel verbale di sopralluogo del 24.6.2016 si è testualmente riportato che “l’area di intervento risulta classificata ai sensi delle Norme di Attuazione del PGT vigente quale Tessuto storico consolidato (Art. 37)”.
Tale inquadramento, in corso di causa, è stato confutato non già dal Comune mediante, ad esempio, un certificato di destinazione urbanistica, quanto –assertivamente– dal suo difensore costituito in giudizio: un’opposizione che, pertanto, non può determinare la revisione del più puntuale contenuto del citato verbale.
Da ciò deriva, quale naturale conseguenza, l’applicazione della previsione di cui all’art. 37 delle norme attuative del piano delle regole del PGT, in cui spicca –nel contesto generale di un’impostazione conservativa del patrimonio esistente– la possibilità di effettuare una riqualificazione degli edifici e delle aree degradate, anche attraverso interventi di demolizione con o senza ricostruzione e il ridisegno degli spazi aperti.
Nella specie, si è registrata una diffusa contrarietà, da parte dei comproprietari del cortile, in merito alla realizzazione del balcone frontistante una parete cieca, posta a una distanza –in origine determinata– di circa mt. 7,36.
Tale opera, tuttavia, è ad avviso del Collegio ammissibile in ragione del
la piana applicazione della disciplina di cui all’art. 9 del DM 1444/1968, che, per la zona storica degli agglomerati urbani (comma 1, n. 1), prevede, in caso di ristrutturazioni, che “le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale.
Tale disposizione è stata interpretata dalla giurisprudenza nel senso che la natura di norma di ordine pubblico, quindi il computo del limite di 10 metri lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, debba tenere conto di un eventuale balcone aggettante solo nel caso in cui una norma di piano preveda ciò (cfr., Consiglio di Stato, sez. IV, 07.07.2008 n. 3381; TAR Lazio-Roma, 31.03.2010 n. 5319; TAR Liguria, 10.07.2009, n. 1736).
Nel caso concreto, la norma in questione è quella di cui all’art. 13 delle NTA, ma nella versione effettivamente individuata dai ricorrenti come applicabile ratione temporis alla fattispecie, ossia quella secondo cui “ai fini della misurazione delle distanze non si tiene conto degli aggetti e degli sporti di gronda la cui sporgenza, rispetto al filo di facciata, non ecceda 1,20 mt.”.
La disposizione che, invece, è stata richiamata nell’impugnato provvedimento, ossia quella in cui si è previsto che “sono esclusi dal calcolo delle distanze gli sporti di gronda, non eccedenti 1,20 m, solo se questi ultimi siano parte integrante del sistema di copertura”, approvata con deliberazione di C.C. n. 5 dell’11.02.2016, è stata, però, pubblicata sul BURL del 20.07.2017.
Dunque, ai sensi dell’art. 13, comma 11, della legge regionale 12/2005 (“gli atti di PGT acquistano efficacia con la pubblicazione dell’avviso della loro approvazione definitiva sul Bollettino ufficiale della Regione, da effettuarsi a cura del Comune”) la formulazione riformata non è opponibile ai ricorrenti, il cui titolo edilizio si è consolidato, in assenza di qualsiasi interdizione da parte dell’Amministrazione, dopo il decorso di 30 giorni dalla presentazione della DIA del 07.03.2016 e la cui legittimità è stata tardivamente contestata, senza neppure evidenziare una falsa rappresentazione della situazione dei luoghi e dei programmati lavori (quindi senza provvedere all’annullamento del titolo in autotutela), in data 13.09.2016.
Non essendo, pertanto, in discussione che l’aggetto (profondità del balcone) sia, effettivamente, contenuto entro il limite massimo di 1,20, ne deriva la sua regolarità edilizia.
Invero, la precisa volontà dell’Amministrazione di ritenere non pregiudicanti situazioni come quella in questione conferma un intendimento, a monte, sulla portata della tutela indotta dall’applicazione dell’art. 9 del DM 1444/1968, vale a dire, certamente, la difesa dell’interesse pubblico di natura igienico-sanitaria, ovvero l’esigenza di garantire l’aerazione degli spazi interni agli edifici e di evitare la formazione di intercapedini malsane tra i fabbricati (nella prospettiva illuminata di cui alla sentenza della Corte costituzionale del 16.06.2005 n. 232), ma tenendo, tuttavia, conto –questo l’aspetto innovativo– delle possibili conseguenze pratiche derivanti da un’applicazione imponderata di tale disciplina.
Con ciò si vuol dire che il Comune di Cassano D’Adda ha inteso positivizzare, mediante la citata previsione sulla graduazione della rilevanza di aggetti e sporti ai fini del computo della distanza legale, un canone di proporzionalità, fondato, cioè, su un apprezzamento che può garantire un contemperamento tra la trasformazione edilizia e le esigenze di aerazione ed illuminazione (su tale principio, cfr. TAR Lombardia–Brescia, 27.08.2010, n. 3240).
Quanto alla presunta compromissione del diritto dei comproprietari dell’area cortilizia, si tratta di profili che esulano dalla vigilanza edilizia, impingendo a profili di tutela dominicale e di regolamentazione dell’uso delle parti comuni del tutto estranei all’alveo della giurisdizione amministrativa (cfr. Corte di Cassazione, sezioni unite, 18.09.2006, n. 20076, secondo cui “qualunque controversia possa insorgere nell'ambito condominiale per ragioni afferenti al condominio, quand'anche veda contrapposto un singolo partecipante a tutti gli altri, ciascuno dei quali è singolarmente rappresentato dall'amministratore, è perciò sempre una controversia "tra condomini" la cui cognizione ratione loci spetta esclusivamente e senza alternative, in forza del citato art. 23 c.p.c., al giudice del luogo dove si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi”).
In conclusione, il ricorso va accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.03.2018 n. 684 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Danno da ritardata conclusione del procedimento amministrativo.
La possibilità di risarcire il danno da ritardata conclusione del procedimento amministrativo presuppone anzitutto che un ritardo sia riscontrabile, ossia richiede che il termine per la conclusione del procedimento sia decorso interamente, senza che l’Amministrazione abbia adottato alcuna determinazione espressa o tacita.
Nessun ritardo è perciò configurabile allorché il silenzio dell’Amministrazione abbia –in virtù di una previsione legislativa– il valore di un provvedimento, positivo o negativo, ossia in tutti i casi di c.d. silenzio-significativo.
In queste ipotesi, infatti, il decorso del tempo non lascia permanere una situazione di silenzio-inadempimento della stessa Amministrazione, ma comporta la formazione di una determinazione conclusiva del procedimento avviato ed è, perciò, esclusa in radice la risarcibilità del danno da ritardo, ai sensi dell’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
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La situazione ora descritta è riscontrabile nel caso di richiesta di rilascio di un permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Il suddetto procedimento rientra proprio tra quelli caratterizzati dalla tipizzazione legislativa dell’eventuale silenzio sull’istanza, atteso che il comma 3 dell’art. 36 stabilisce che sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.
La previsione normativa determina, pertanto, la formazione legale e automatica di un provvedimento di diniego una volta decorso il termine stabilito
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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6. Il ricorso è infondato in tutte le domande proposte e va, pertanto, respinto.
7. Osserva il Collegio che la possibilità di risarcire il danno da ritardata conclusione del procedimento amministrativo presuppone anzitutto logicamente che un ritardo sia riscontrabile, ossia richiede che il termine per la conclusione del procedimento sia decorso interamente, senza che l’Amministrazione abbia adottato alcuna determinazione espressa o tacita.
Nessun ritardo è perciò configurabile allorché il silenzio dell’Amministrazione abbia –in virtù di una previsione legislativa– il valore di un provvedimento, positivo o negativo, ossia in tutti i casi di c.d. silenzio significativo. In queste ipotesi, infatti, il decorso del tempo non lascia permanere una situazione di silenzio-inadempimento della stessa Amministrazione, ma comporta la formazione di una determinazione conclusiva del procedimento avviato. E’, perciò, esclusa in radice la risarcibilità del danno da ritardo ai sensi dell’articolo 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (Cons. Stato, Sez. IV, 29.09.2016, n. 4028).
8. La situazione ora descritta è riscontrabile nel caso oggetto del presente giudizio.
La società ricorrente ha, infatti, chiesto il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria. Si tratta del titolo disciplinato dall’articolo 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, la cui emissione costituisce l’esito di un procedimento di accertamento di conformità delle opere realizzate rispetto alla disciplina urbanistica.
Il suddetto procedimento rientra proprio tra quelli caratterizzati dalla tipizzazione legislativa dell’eventuale silenzio sull’istanza. Il comma 3 dell’articolo 36, ora richiamato, stabilisce infatti che “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”. E, al riguardo, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che la previsione normativa determina la formazione legale e automatica di un provvedimento di diniego una volta decorso il termine stabilito (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2008, n. 2681).
9. Alla luce di quanto esposto, deve rilevarsi che, nel caso oggetto del presente giudizio, sessanta giorni dopo la presentazione dell’istanza del 15.10.2013 si era già formato un provvedimento tacito di rigetto, che la ricorrente non ha impugnato.
La successiva nota comunale del 18.02.2014, recante la comunicazione di avvio del procedimento, ha quindi operato, in realtà, il riavvio dell’iter, che si era già da tempo concluso in senso sfavorevole alla richiedente. In questa occasione, peraltro, il Comune ha evidenziato la mancata produzione della documentazione di impatto paesistico, necessaria ai fini dell’esame del progetto.
Conseguentemente, il termine per la conclusione del procedimento ha ripreso a decorrere dalla data in cui la documentazione è stata prodotta, ossia dal 20.02.2014, e si è poi nuovamente interrotto alla data dell’08.04.2014, quando il Comune ha inviato alla società il preavviso di provvedimento negativo.
Dopo di ciò, la ricorrente ha presentato le proprie osservazioni il 17.04.2014, e da questa data ha ripreso a decorrere il termine di sessanta giorni per la formazione del silenzio-diniego. Tale termine è quindi nuovamente decorso il 16.06.2014, con la formazione di un ulteriore provvedimento negativo, anche questo non impugnato dalla società richiedente.
Da ultimo, il 26.06.2014 è stato rilasciato il permesso di costruire in sanatoria con prescrizioni.
10. Come si rileva dalla ricostruzione ora illustrata, in nessun momento dell’iter può ravvisarsi un ritardo nella conclusione del procedimento, proprio in considerazione della valenza attribuita direttamente dalla legge al silenzio dell’Amministrazione. Emerge, invece, come alle originarie determinazioni negative formatesi sull’istanza sia poi seguito un provvedimento positivo espresso, che ha superato i precedenti dinieghi taciti, mai censurati dalla ricorrente.
11. Discende pianamente dalle considerazioni ora esposte il rigetto della domanda di risarcimento del danno proposta ai sensi dell’articolo 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990.
E ciò a prescindere dalla circostanza, parimenti risultante dagli atti, che la domanda originariamente presentata dalla società fosse carente di documentazione essenziale, ossia della relazione di impatto paesistico, prescritta dal Piano Territoriale Regionale, e che, inoltre, la relazione tardivamente prodotta presentasse, secondo l’avviso dell’Amministrazione, una valutazione del tutto errata dell’impatto paesistico delle opere.
12. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riferimento alla domanda di indennizzo proposta ai sensi dell’articolo 2-bis, comma 1-bis della legge n. 241 del 1990.
E’, infatti, la stessa previsione normativa invocata a stabilire –per evidenti ragioni di ordine logico, prima che giuridico, secondo quanto sopra esposto– che il diritto all’indennizzo sia escluso nelle “ipotesi di silenzio qualificato”, tra le quali rientra il procedimento di cui all’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.
13. In definitiva, alla luce di tutto quanto sin qui esposto, il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.03.2018 n. 680 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso civico.
Il TAR Milano richiama la sua giurisprudenza e precisa che :
   - l’accesso civico di cui al D.Lgs. n. 33/2013, come modificato dal D.Lgs. n. 97/2016, pur costituendo uno strumento di tutela dei diritti dei cittadini e di promozione della loro partecipazione all’attività amministrativa, non può essere impiegato in maniera distorta e divenire causa di intralcio all’azione della pubblica amministrazione;
   - tale strumento non può essere quindi utilizzato in contrasto con il principio di buona fede previsto in via generale dall’art. 1175 del codice civile (da leggersi alla luce del parametro di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione);
   - un'istanza di accesso riguardante un elevato numero (50) di determinazioni eterogenee fra loro e che si inserisce in un elevatissimo numero di richieste di accesso presentate allo stesso Comune in un limitato arco temporale, appare in evidente contrasto con i richiamati principi di buona fede e finisce per costringere l’amministrazione ad uno sforzo straordinario, che ne aggrava l’ordinaria attività;
   - la stessa Autorità Anticorruzione (ANAC), nelle proprie Linee Guida approvate con determinazione n. 1309 del 28.12.2016, ha reputato non ammissibile la c.d. richiesta massiva, vale a dire quella manifestamente irragionevole, tale cioè da comportare un carico di lavoro in grado di interferire con il buon funzionamento dell’amministrazione (cfr. il punto 5 dell’Allegato alle Linee Guida).
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2. Il ricorso appare infondato, per le ragioni che seguono.
L’esponente presentava al Comune di Broni in data 14.10.2017 una domanda di accesso civico ai sensi del D.Lgs. 33/2013 (cfr. il doc. 1 del ricorrente), con la quale chiedeva la copia integrale, unitamente agli allegati, di 50 (cinquanta) determinazioni assunte dal Comune nell’anno 2016.
Tale domanda era respinta con i provvedimenti sopra indicati (cfr. i documenti 4 e 6 del ricorrente), preceduti da rituale preavviso di diniego (cfr. il doc. 2 del ricorrente), nel quale l’amministrazione ricordava che negli anni dal 2015 al 2017 il sig. Ma. aveva presentato al protocollo dell’ente 148 (centoquarantotto) istanze di varia natura, volte al controllo dell’attività amministrativa esercitata dal Comune sulle più disparate questioni.
L’istanza di accesso era di conseguenza rigettata, mediante i provvedimenti indicati in epigrafe, contenenti entrambi un’articolata motivazione, che fa riferimento, fra l’altro, alla sentenza del TAR Lombardia, sez. III, n. 1951 del 2017, pronunciata all’esito di un contenzioso analogo a quello di cui è causa, sempre promosso dall’attuale ricorrente contro il Comune di Broni e volto all’annullamento di un provvedimento di diniego di accesso civico nei confronti di determinazioni comunali dell’anno 2016.
Tale sentenza appare assolutamente condivisibile, sicché la stessa è ivi richiamata quale precedente conforme ai sensi dell’art. 74 del c.p.a.
In particolare, nella citata pronuncia è stato evidenziato che:
   - l’accesso civico di cui al D.Lgs. 33/2013, come modificato dal D.Lgs. 97/2016, pur costituendo uno strumento di tutela dei diritti dei cittadini e di promozione della loro partecipazione all’attività amministrativa, non può essere impiegato in maniera distorta e divenire causa di intralcio all’azione della pubblica amministrazione;
   - tale strumento non può essere quindi utilizzato in contrasto con il principio di buona fede previsto in via generale dall’art. 1175 del codice civile (da leggersi alla luce del parametro di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione);
   - l’attuale istanza di accesso del ricorrente, riguardante un elevato numero (50) di determinazioni eterogenee fra loro e che si inserisce in un elevatissimo numero di richieste di accesso presentate allo stesso Comune in un limitato arco temporale, appare in evidente contrasto con i richiamati principi di buona fede e finisce per costringere l’amministrazione ad uno sforzo straordinario, che ne aggrava l’ordinaria attività;
   - la stessa Autorità Anticorruzione (ANAC), nelle proprie Linee Guida approvate con determinazione n. 1309 del 28.12.2016, ha reputato non ammissibile la c.d. richiesta massiva, vale a dire quella <<manifestamente irragionevole, tale cioè da comportare un carico di lavoro in grado di interferire con il buon funzionamento dell’amministrazione>> (cfr. il punto 5 dell’Allegato alle Linee Guida).
Si conferma, in conclusione, il rigetto del presente gravame (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 09.03.2018 n. 669 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Omissioni di atti d'ufficio: come scrivere la richiesta per far scattare il reato.
I principi sanciti dalla VI Sez. penale della Corte di Cassazione.

Il codice penale all’art. 328, comma 2, punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.
Per costante giurisprudenza, la suddetta richiesta scritta rilevante ai fini della integrazione della fattispecie, deve assumere la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono.
Ciò implica che la richiesta rivolta nei confronti della pubblica amministrazione deve atteggiarsi, seppure senza la osservanza di particolari formalità circa la sua formulazione, comunque come una diffida o intimazione tale da costituire una messa in mora nei confronti della RA. e del soggetto preposto al relativo procedimento in quanto responsabile.
Sulla base di tale premesse la VI Sez. penale della Corte di Cassazione nella sentenza 08.03.2018 n. 10595 ha affermato che il reato non è configurabile quando la richiesta non è qualificabile quale diffida ad adempiere, diretta alla messa in mora del destinatario e da quest'ultimo in tali termini valutabile, per il suo tenore letterale e per il suo contenuto.
Seppure, quindi, non siano necessarie frasi che riproducano pedissequamente la formulazione della legge in termini di «diffida» e «messa in mora», il contenuto della richiesta deve essere tesa a rappresentare quantomeno la cogenza delle richiesta e la sua necessità di un adempimento direttamente ricondotto alla disciplina del procedimento amministrativo e, se nel caso, circa le conseguenze in termini di responsabilità (incluse quelle penali) di una mancata risposta nei termini.
Solo a tali condizioni può ritenersi immediatamente e chiaramente percepibile, quale diffida; atto che già a livello lessicale implica la necessità di rappresentare le conseguenze in cui si incorre in caso di inadempimento, secondo la conformazione del reato, introdotto dall'art. 16 L. 26.04.1990, n. 86, che ha inteso rafforzare la tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, con la previsione di un paradigma legale che, attraverso la attivazione del diritto potestativo della istanza, conseguisse una tutela rafforzata delle posizioni soggettive, la cui salvaguardia era in precedenza demandata ai soli strumenti procedimentali o giurisdizionali dinanzi al giudice amministrativo.
In conclusione un'interpretazione corretta dell'art. 328, comma 2, cod. pen. necessita che la richiesta, con percepibile immediatezza, sia rivolta a sollecitare il compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono; il reato si configura solo in presenza di tale presupposto, con il decorso del termine di trenta giorni senza che l'atto richiesto sia stato compiuto o senza che il mancato compimento sia stato giustificato (commento tratto da www.gazzettaamministrativa.it).
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MASSIMA
3. Per costante giurisprudenza di questa Corte,
la richiesta scritta di cui all'art. 328, comma secondo, cod. pen., rilevante ai fini della integrazione della fattispecie, deve assumere la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono (Sez. 6, n. 40008 del 27/10/2010, brio, Rv. 248531; Sez. 6, n. 10002 del 08/06/2000, Spanò B, Rv. 218339; Sez. 6, n. 8263 del 17/05/2000, Visco, Rv. 216717).
Ciò implica che la richiesta rivolta nei confronti della pubblica amministrazione deve atteggiarsi, seppure senza la osservanza di particolari formalità circa la sua formulazione, comunque come una diffida o intimazione tale da costituire una messa in mora nei confronti della RA. e del soggetto preposto al relativo procedimento in quanto responsabile.
Ne deriva che
il reato non è configurabile quando la richiesta non è qualificabile quale diffida ad adempiere, diretta alla messa in mora del destinatario e da quest'ultimo in tali termini valutabile, per il suo tenore letterale e per il suo contenuto. Seppure, quindi, non siano necessarie frasi che riproducano pedissequamente la formulazione della legge in termini di «diffida» e «messa in mora», il contenuto della richiesta deve essere tesa a rappresentare quantomeno la cogenza delle richiesta e la sua necessità di un adempimento direttamente ricondotto alla disciplina del procedimento amministrativo e, se nel caso, circa le conseguenze in termini di responsabilità (incluse quelle penali) di una mancata risposta nei termini.
Solo a tali condizioni può ritenersi immediatamente e chiaramente percepibile, quale diffida; atto che già a livello lessicale implica la necessità di rappresentare le conseguenze in cui si incorre in caso di inadempimento, secondo la conformazione del reato, introdotto dall'art. 16 L. 26.04.1990, n. 86, che ha inteso rafforzare la tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, con la previsione di un paradigma legale che, attraverso la attivazione del diritto potestativo della istanza, conseguisse una tutela rafforzata delle posizioni soggettive, la cui salvaguardia era in precedenza demandata ai soli strumenti procedimentali o giurisdizionali dinanzi al giudice amministrativo.
3.1. Risulta conforme a legge, oltre ad essere i presupposti di fatto esposti con motivazione immune da vizi logici o lacune, quanto rilevato in sentenza circa la assenza di un requisito oggettivo ai fini della astratta sussumibilità della astratta condotta (ed a prescindere dal collegamento soggettivo con gli imputati) nella fattispecie di cui all'art. 323, secondo comma, cod. pen., prevedendo una specifica diffida contenuta nella richiesta formulata dal privato nei confronti della pubblica amministrazione.
Nel caso esaminato, per contro, sono state formulate generiche richieste per mezzo di missive indirizzate all'amministrazione, con cui «si trasmette in allegato alla presente la nota a firma dell'avv. [...] affinché vengano posti in essere gli adempimenti conseguenti, di cui all'art. 28 del C.N.L. per il personale del Comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali», nonché altra nota con cui sono state reiterate le richieste contenute nella precedente nota «con allegata parcella adempimenti competenti».
3.2. Non appare pregevole l'affermazione contenuta nel ricorso secondo cui il riferimento agli «adempimenti conseguenti» era idonea a far ritenere la valenza in termini di diffida delle richieste inviate al comune, essendo la richiesta agli adempimenti formulata in termini assolutamente generici, tra l'altro senza che si possa apprezzare alcuna diffida ad adempiere, non risultando certamente sufficiente a tali fini il termine «adempimenti» contenuto nelle richieste trasmesse.
Un'interpretazione corretta dell'art. 328, comma 2, cod. pen. necessita che la richiesta, con percepibile immediatezza, sia rivolta a sollecitare il compimento dell'atto o l'esposizione delle ragioni che lo impediscono; il reato si configura solo in presenza di tale presupposto, con il decorso del termine di trenta giorni senza che l'atto richiesto sia stato compiuto o senza che il mancato compimento sia stato giustificato.
3.3. Il G.u.p., con giudizio di fatto in questa sede insindacabile, ha ritenuto che nella specie, a meno di forzature del senso letterale delle parole utilizzate, non fosse stata formulata una diffida mirata a raggiungere i risultati di cui all'art. 328, secondo comma, cod. pen., ma fosse stato effettuato un semplice invio di atti ai fini della futura istruttoria della pratica per assolvimento «degli adempienti conseguenti».

APPALTIUna branch estera può partecipare alle gare. Se ha autonoma organizzazione.
Legittima la partecipazione a una gara di appalto pubblico da parte di una branch di una società estera, nonostante l'assenza di personalità giuridica; conta l'autonoma organizzazione economica per offrire sul mercato lavori, servizi o forniture e non la forma giuridica.
Lo afferma il Consiglio di Stato (III Sez., sentenza 07.03.2018 n. 1462) in merito all'esclusione da una gara di una branch inglese di una società americana che aveva partecipato ad una gara di appalto pubblico risultando esclusa in quanto priva di personalità giuridica.
Il Consiglio di stato ha ribaltato il verdetto di primo grado ricostruendo la fattispecie a partire da quanto prevede il codice appalti che (lettera p) dell'art. 3, comma 1) che fornisce la definizione di operatore economico e include espressamente, nel novero dei soggetti che rientrano in detta nozione, l'ente senza personalità giuridica, ovviamente a condizione (comune agli altri soggetti) che offra sul mercato la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi.
A questa norma fanno riferimento i giudici perché «riveste un particolare valore ermeneutico (al pari delle altre dettate dall'art. 3) nell'interpretazione delle successive disposizioni del nuovo Codice dei contratti pubblici», come sottolineato anche dal Consiglio di stato. Per chiarire se nella nozione di operatore economico rientrino anche le branch, non dotate di personalità giuridica, il Consiglio di stato richiama il considerando 14 della direttiva appalti (24/2014) che sposa una interpretazione ampia considerando indifferente la forma giuridica scelta per operare sul mercato.
Pertanto, dice la sentenza, imprese, succursali, filiali, partenariati, società cooperative, società a responsabilità limitata, università pubbliche o private e altre forme di enti diverse dalle persone fisiche dovrebbero rientrare nella nozione di operatore economico, indipendentemente dal fatto che siano persone giuridiche o meno in ogni circostanza.
In definitiva, ciò che rileva per l'ordinamento non è che (ai fini della partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici) la branch/filiale/succursale possieda una distinta e autonoma personalità giuridica, bensì che possieda un propria distinta e autonoma organizzazione economica
(articolo ItaliaOggi del 16.03.2018).

EDILIZIA PRIVATA: E’ vero che l’obbligo previsto dall’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241, di esaminare le memorie e i documenti difensivi prodotti dalla parte non impone un’analitica confutazione di ogni argomento addotto.
Tuttavia è pur sempre necessario che dal provvedimento finale emerga un iter motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato accoglimento delle deduzione difensive del privato.

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Nel merito sono fondate e meritevoli di accoglimento le censure proposte avverso il manufatto sopraindicato come F con il primo e secondo motivo.
Infatti si tratta di un impianto tecnologico posizionato su una piattaforma di calcestruzzo di ridotte dimensioni rispetto alla quale lo stesso Comune in un primo tempo con la nota istruttoria prot. n. 48104 del 03.09.2009, ha riconosciuto la natura di volume tecnico (si era limitato a chiedere dei chiarimenti solo con riguardo alla sua collocazione nello scoperto pertinenziale, senza contestare la mancanza dei requisiti propri degli impianti tecnologici).
Solo successivamente nel preavviso di diniego ha contestato la mancanza dei requisiti per poterlo qualificare come volume tecnico e, segnatamente, la mancata dimostrazione delle esigenze che giustificano la sua collocazione all’esterno del corpo dell’edificio principale, e nel provvedimento finale si è limitato a rinviare a questo profilo del preavviso diniego.
In tal modo però l’Amministrazione dimostra di non aver in alcun modo tenuto conto delle puntuali osservazioni della parte ricorrente che in sede procedimentale aveva dedotto che l’impianto appartiene alla tipologia dei generatori di calore, la cui installazione è vietata all’interno dei locali abitativi ai sensi del Titolo IV, punto 4 dell’allegato del DM 12.04.1996 per il rischio che la formazione di gas, vapori o polveri possa causare la generazione di incendi, con conseguente applicabilità della disposizione di cui all’art. 88-bis del regolamento edilizio che ammette la realizzazione di vani tecnici consistenti in una centrale termica ad un minimo di 1,50 m dal confine qualora vi sia la necessità di adeguamento alle normative vigenti.
E’ vero che l’obbligo previsto dall’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241, di esaminare le memorie e i documenti difensivi prodotti dalla parte non impone un’analitica confutazione di ogni argomento addotto.
Tuttavia è pur sempre necessario che dal provvedimento finale emerga un iter motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato accoglimento delle deduzione difensive del privato.
Nel caso in esame il provvedimento conclusivo non contiene alcuna indicazione delle ragioni per le quali il Comune ritiene che l’impianto non possieda le tre caratteristiche che la giurisprudenza ha indicato come necessarie al riconoscimento della natura di volume tecnico, consistenti nel rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzo della costruzione principale, l’impossibilità di soluzioni progettuali diverse, nel senso dell’impossibilità di ubicazione all’interno della parte abitativa, e il rapporto di necessaria proporzionalità fra tali volumi e le esigenze effettivamente presenti, compendiate nelle disposizioni del regolamento edilizio e delle norme tecniche di attuazione, che invece la ricorrente ritiene di aver puntualmente documentato come sussistenti.
La mancata valutazione di tali deduzioni procedimentali nel caso di specie denota pertanto un difetto di motivazione ed istruttoria (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 07.03.2018 n. 261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come più volte affermato dalla giurisprudenza, salvo che il progetto edilizio non sia scindibile in parti autonome, la sua parziale difformità non può essere oggetto di una sanatoria in parte qua poiché ciò significherebbe imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul quale ha chiesto la concessione, e il permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti conforme oltre che alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda, anche a quella vigente al momento della realizzazione del manufatto.
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Le censure proposte avverso il mancato accoglimento della domanda di sanatoria relativa al manufatto B sono invece infondate.
Infatti, come è noto, l’interessato non può pretendere di ottenere una sanatoria condizionata alla previa demolizione e ricostruzione del manufatto abusivo con caratteristiche diverse che lo rendano conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia, in quanto, come più volte affermato dalla giurisprudenza, salvo che il progetto edilizio non sia scindibile in parti autonome, la sua parziale difformità non può essere oggetto di una sanatoria in parte qua poiché ciò significherebbe imporre al richiedente un'opera diversa dal progetto sul quale ha chiesto la concessione (Consiglio di Stato, Sez. V, 11.10.2005, n. 5495), e il permesso in sanatoria ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, è ottenibile solo a condizione che l'intervento risulti conforme oltre che alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda, anche a quella vigente al momento della realizzazione del manufatto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 07.03.2018 n. 261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Irregolarità nei mandati di pagamento: condannato il Segretario comunale per autoliquidazione di somme non dovute.
Secondo la Corte è corretta l'imputazione di falso ideologico e di peculato.

Un Segretario comunale in servizio presso un Comune calabrese veniva tratto a giudizio, per essersi appropriato di somme di denaro attraverso l’emissione di mandati di pagamento che presentavano causali prive di qualsiasi riscontro contabile ed amministrativo.
La vertenza ha tratto origine dall’iniziativa del revisore dei conti del Comune, il quale, ha dato notizia di irregolarità riscontrate nei mandati di pagamento emessi. Il revisore avrebbe accertato che detti mandati risultavano accreditati sul conto corrente bancario personalmente intestato all’alto burocrate, che in qualità di responsabile del servizio finanziario, oltre che di segretario comunale, aveva sottoscritto in suo favore decine di mandati, per il complessivo importo lordo di quasi duecentomila euro, riferito ad un periodo di sei mesi. Di questa somma –giustificata poi con argomentazioni da ritenersi infondate (“arretrati”, indennità varie, ecc.)– solo una minima parte risultava essere dovuta.
Sia in primo grado che in appello l’imputato veniva condannato per falso ideologico e per peculato. Da qui il ricorso per cassazione nel quale la difesa ha criticato la sentenza di secondo grado responsabile, a suo dire, vuoi dell'erronea qualificazione come falso ideologico in atto pubblico della contestata falsificazione dei mandati di pagamento (giacché, in presenza di una condotta di autoliquidazione di somme non dovute, ricorrerebbe, al più, la fattispecie di reato di cui all'art. 480 Cod. pen., vale a dire falso in certificazioni), vuoi dell’illogicità della stessa pronuncia in relazione alla mancata ricorrenza già dell'elemento oggettivo del reato di peculato relativo alla appropriazione di un bene pubblico, in quanto la contestata appropriazione era avvenuta sì per finalità diverse da quelle specificatamente previste, ma pur sempre nell'ambito delle attribuzioni del ruolo istituzionale svolto dall'agente pubblico.
La Suprema Corte, V Sez. penale, con sentenza 06.03.2018 n. 10120, ha respinto il ricorso e confermato la condanna già irrogata.
Sul primo motivo i giudici di legittimità hanno ritenuto che nessun dubbio poteva residuare, sulla correttezza giuridica della addebitabilità all’imputato del delitto di falso ideologico, così come contestato nel capo di imputazione, atteso che il falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo può investire le attestazioni, anche implicite, contenute nell'atto nonché i presupposti di fatto giuridicamente rilevanti ai fini della parte dispositiva dell'atto medesimo, che concernano fatti compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale, ovvero altri fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità.
In ordine alla seconda censura, la Corte ha ricordato che l'elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata dall'abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione va individuato con riferimento alle modalità di acquisizione del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene.
Infatti, in tema di peculato, la nozione di possesso di denaro deve intendersi non solo come comprensiva della detenzione materiale della cosa, ma anche della sua disponibilità giuridica, nel senso che il soggetto agente deve essere in grado, mediante un atto dispositivo di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell'ufficio, di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità del denaro e di conseguire quanto poi oggetto di appropriazione: ne consegue che l'inversione del titolo del possesso da parte del pubblico ufficiale che si comporti uti dominus nei confronti di danaro del quale ha il possesso in ragione del suo ufficio, e la sua conseguente appropriazione, possono realizzarsi anche nelle forme della disposizione giuridica, del tutto autonoma e libera da vincoli, del danaro stesso, indisponibile in ragione di norme giuridiche o di atti amministrativi.
In questo senso i giudici di Piazza Cavour hanno condiviso la tesi evincibile nella sentenza della Corte distrettuale, la quale ha evidenziato che, per un verso, l'agente si era appropriato delle somme corrispondenti alle indennità retributive non dovute avendone già la disponibilità per ragione del suo ufficio e, dunque, senza aver ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi delle stesse (commento tratto da www.gazzettaamministrativa.it).
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MASSIMA
2. Il ricorso è infondato.
2.1 Già il primo motivo di censura non è condivisibile.
Come già ampiamente e correttamente spiegato nella sentenza impugnata, nel mandato di pagamento oggetto della condotta delittuosa contestata vi era sì una parte dispositiva contenente l'ordine di pagamento in autoliquidazione delle somme indebitamente percepite dalla ricorrente, ma anche una parte ove si manifestava l'attività di accertamento dei presupposti fattuali e normativi per legittimare la menzionata liquidazione, di talché oggetto del contestato falso ideologico era proprio il predetto accertamento relativo alla ricorrenza dei presupposti sulla cui base veniva disposta la liquidazione delle somme così indebitamente percepite.
Sul punto la giurisprudenza di questa Corte è a dir poco granitica.
Ed invero, è stato affermato che
il falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo può investire le attestazioni, anche implicite, contenute nell'atto e i presupposti di fatto giuridicamente rilevanti ai fini della parte dispositiva dell'atto medesimo, che concernano fatti compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale, ovvero altri fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità: Sez. U, Sentenza n. 35488 del 28/06/2007 Ud. (dep. 24/09/2007) Rv. 236867; cfr. anche: Sez. 5, Sentenza n. 35006 del 17/06/2015 Ud. (dep. 20/08/2015) Rv. 265019; Sez. 5, Sentenza n. 14731 del 23/11/1999 Ud. (dep. 29/12/1999) Rv. 215197).
Nessun dubbio può dunque residuare, e ciò anche alla luce dei principi da ultimo ricordati (e qui riaffermati), sulla correttezza giuridica della addebitabilità alla ricorrente del delitto di falso ideologico, così come contestato a quest'ultima nel capo di imputazione.
2.2 Il secondo motivo di doglianza risulta anch'esso infondato.
2.2.1 Anche qui occorre ricordare i principi espressi, con voce unanime, dalla giurisprudenza di questa Corte.
Orbene,
l'elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata dall'abuso dei poteri o dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione va individuato con riferimento alle modalità di acquisizione del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene: così, Sez. 6, Sentenza n. 5087 del 23/01/2014 Cc. (dep. 31/01/2014) Rv. 258051; cfr. anche: Sez. 6, Sentenza n. 5494 del 22/10/2013 Ud. (dep. 04/02/2014) Rv. 259070; Sez. 6, Sentenza n. 18177 del 03/03/2016 Ud. (dep. 02/05/2016 ) Rv. 266985; Sez. 6, Sentenza n. 15795 del 06/02/2014 Ud. (dep. 08/04/2014) Rv. 260154).
Va peraltro precisato, per quanto qui di interesse, che,
in tema di peculato, la nozione di possesso di denaro deve intendersi come comprensiva non solo della detenzione materiale, ma anche della disponibilità giuridica, con la conseguenza che l'appropriazione di esso può avvenire anche attraverso il compimento di un atto di carattere dispositivo (cfr. Sez. 6, Sentenza n. 45908 del 16/10/2013 Cc. (dep. 14/11/2013) Rv. 257385, ove si è ritenuto configurabile il delitto di peculato nell'atto di ricognizione posto in essere dall'amministratore di una società di gestione di un pubblico servizio di un falso debito pecuniario).
Detto altrimenti,
in tema di peculato, la nozione di possesso di denaro deve intendersi non solo come comprensiva della detenzione materiale della cosa, ma anche della sua disponibilità giuridica, nel senso che il soggetto agente deve essere in grado, mediante un  atto dispositivo di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell'ufficio, di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità del denaro e di conseguire quanto poi oggetto di appropriazione (così, anche Sez. 6, Sentenza n. 7492 del 18/10/2012 Ud. (dep. 15/02/2013 ) Rv. 255529).
Ne consegue che
l'inversione del titolo del possesso da parte del pubblico ufficiale che si comporti "uti dominus" nei confronti di danaro del quale ha il possesso in ragione del suo ufficio e la sua conseguente appropriazione possono realizzarsi anche nelle forme della disposizione giuridica, del tutto autonoma e libera da vincoli, del danaro stesso, indisponibile in ragione di norme giuridiche o di atti amministrativi.
Ciò posto, va osservato come nella motivazione impugnata non siano rintracciabile, neanche sotto questo ulteriore profilo di doglianza, le criticità denunziate dalla ricorrente, atteso che la Corte distrettuale ha evidenziato che, per un verso, l'agente si era appropriata delle somme corrispondenti alle indennità retributive non dovute avendone già la disponibilità per ragione del suo ufficio e dunque senza aver ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi delle stesse e che, per altro verso, tale disponibilità era da considerarsi giuridicamente rilevante ai sensi dell'art. 314 cod. pen. anche nella forma della mera disponibilità giuridica, così rendendo una motivazione che, oltre ad essere coerente con i principi affermati in subiecta materia da questa Corte di legittimità, appare immune anche da vizi di illogicità ovvero contraddittorietà.
2.3 Il terzo motivo di doglianza è invece addirittura inammissibile, e ciò in ragione della sua genericità.
Non spiega in alcun modo la parte ricorrente quali fossero le mansione ulteriori (rispetto a quelle di segretario comunale) per le quali era legittima la corresponsione delle relative indennità e non spiega, per converso, neanche quali fossero quelle per le quali sarebbe incorsa in errore nelle interpretazione delle norme extrapenali che non consentivano la indebita autoliquidazione, così rendendo il relativo motivo di doglianza generico ed aspecifico.
Nessuna rilevanza scriminante assume invece la riferita circostanza della restituzione (peraltro, parziale) delle somme corrisposte per errore, atteso che a quel momento i fatti di reato contestato si erano già integralmente consumati.

APPALTI: Perde l'appalto per una interdittiva rivelatasi illegittima ma non gli spetta il risarcimento del danno.
I principi sanciti nella sentenza del Consiglio di Stato.

Una società, affidataria di un appalto integrato per la progettazione esecutiva e l’esecuzione delle opere di adeguamento di un impianto di potabilizzazione in un Comune sardo, subiva la revoca dell’affidamento per effetto di un’interdittiva antimafia emessa dal Prefetto di Napoli. Dopo qualche tempo quel provvedimento prefettizio veniva annullato dal TAR Campania con pronuncia poi divenuta irrevocabile.
A questo punto la società adiva il TAR Sardegna per ottenere il risarcimento dei danni subiti da una revoca ritenuta illegittima perché conseguente ad un provvedimento, sul quale esclusivamente si fondava, che era stato annullato dal giudice amministrativo.
Il TAR a giugno 2017 dichiarava inammissibile il ricorso per difetto di legittimazione attiva, in quanto medio tempore aveva ceduto l’azienda ad altra impresa, e la società allora si rivolgeva al Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato, Sez. III, con sentenza 06.03.2018 n. 1409 rigettava l’appello: la pronuncia, pur condividendo le affermazioni che il giudice di primo grado aveva svolto in ordine al profilo della carenza di legittimazione per intervenuta cessione di azienda, ha voluto egualmente –per completezza– scrutinare il tema della risarcibilità del danno conseguente ad una illegittima informativa antimafia. Aspetto che caratterizza quindi la decisione in commento.
I giudici di Palazzo Spada hanno innanzitutto premesso che il risarcimento del danno non è una conseguenza diretta e costante dell’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo in quanto richiede la positiva verifica, oltre che della lesione della situazione giuridica soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento, anche del nesso causale tra l’illecito e il danno subito, nonché della sussistenza della colpa o del dolo dell’Amministrazione. Ciò posto, si è osservato che la configurabilità degli estremi della colpa dell’Amministrazione nell’adozione delle informative antimafia dev’essere scrutinata in coerenza con la funzione, con la natura e con i contenuti delle relative misure.
Andrà, in particolare, riconosciuto il dovuto rilievo alla portata della regola di azione, alla quale devono rispondere i Prefetti nell’esercizio della potestà in questione, che –secondo la Sezione– “si rivela particolarmente sfuggente e di difficile decifrazione”.
Ad ogni modo il Collegio ha ritenuto che, nel caso concreto sottoposto al suo esame, l’informativa antimafia di cui trattasi –pur ritenuta illegittima– non trasmodava in provvedimento illecito, foriero di danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 Cod. civ. secondo i dettami della costante giurisprudenza formatasi in materia.
Infatti, nella fattispecie, l’informativa di cui si discuteva era stata annullata da una sentenza resa in un diverso giudizio (anche se avente ad oggetto il medesimo provvedimento), perché fondata sul rinvio a giudizio dell’amministratore della società per il reato di traffico illecito di rifiuti, considerato tuttavia eccessivamente risalente nel tempo.
Si tratta all’evidenza di una conclusione dalla quale, anche alla luce della natura di reato “spia” del fatto posto a fondamento dell’interdittiva e dell’ampia discrezionalità che in materia compete al Prefetto, non è parso al Supremo Consesso di potersi ricavare gli estremi della colpa in capo all’Amministrazione procedente. Colpa, poi, da escludersi pacificamente in capo alla stazione appaltante poiché la revoca dell’assegnazione provvisoria doveva, allo stato, ritenersi un atto dovuto proprio perché frutto diretto della stessa interdittiva (commento tratto da www.gazzettaamministrativa.it).
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MASSIMA
Nondimeno, ragioni di completezza rendono opportuno rilevare che, anche nel merito, l’azione risarcitoria proposta apparirebbe, comunque, infondata.
Invero, in concreto,
l’informativa antimafia di cui trattasi –pur ritenuta illegittima– non trasmoda in provvedimento illecito, foriero di danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. alla luce del costante insegnamento di questa sezione nella specifica materia.
Il tal senso è sufficiente ricordare che
il risarcimento del danno non è una conseguenza diretta e costante dell'annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo in quanto richiede la positiva verifica, oltre che della lesione della situazione giuridica soggettiva di interesse tutelata dall'ordinamento, anche del nesso causale tra l'illecito e il danno subito, nonché della sussistenza della colpa o del dolo dell'amministrazione.
E la configurabilità degli estremi della colpa dell’amministrazione nell’adozione delle informative antimafia dev’essere scrutinata in coerenza con la funzione, con la natura e con i contenuti delle relative misure.

Andrà, in particolare, riconosciuto il dovuto rilievo alla portata della regola di azione, alla quale devono rispondere i Prefetti nell’esercizio della potestà in questione, che si rivela particolarmente sfuggente e di difficile decifrazione (cfr. in tal senso Consiglio di Stato sez. III n. 5737 del 18.12.2015; sez. III, 01.09.2014, n. 4441; Sez. III, 28.07.2015, n. 3707).
Peraltro, nella fattispecie, l’informativa di cui si discute è stata annullata dalla sentenza n. 204/2013 del Consiglio di Stato resa in un diverso giudizio ma avente ad oggetto il medesimo provvedimento, perché fondata sul rinvio a giudizio dell’amministratore della società per il reato di traffico illecito di rifiuti considerato eccessivamente risalente nel tempo (2003).
Si tratta all’evidenza di una conclusione dalla quale, anche alla luce della natura di reato “spia” del fatto posto a fondamento dell’interdittiva e dell’ampia discrezionalità che in materia compete al Prefetto, non pare proprio possano ricavarsi gli estremi della colpa in capo all’amministrazione procedente. Colpa da escludersi pacificamente in capo alla stazione appaltante poiché la revoca dell’assegnazione provvisoria deve ritenersi atto dovuto.
Sicché anche sotto tale profilo l’appello proposto risulta infondato.

EDILIZIA PRIVATA: Con riferimento al promissario acquirente, un orientamento giurisprudenziale più restrittivo esclude che il contratto preliminare rappresenti un titolo idoneo al rilascio del permesso di costruire, non producendo effetti reali, ma soltanto obbligatori e facendo sorgere in capo alle parti solo l’obbligo di futura conclusione del contratto traslativo della proprietà.
Secondo un orientamento della giurisprudenza amministrativa più recente, il promissario acquirente è titolare di una posizione che lo abilita a richiedere l’approvazione di un progetto riguardante l’immobile da acquistare, dal momento che il contratto preliminare gli conferisce la possibilità, ai sensi dell’art. 2932 c.c., di agire in forma specifica nel caso di inadempimento del proprietario.
L’orientamento favorevole alla legittimazione del promissario acquirente si rafforza quando il contratto preliminare di compravendita gli attribuisca il diritto di richiedere il permesso di costruire, oppure quando il preliminare di vendita sia sottoscritto con trasferimento anticipato del possesso del bene.
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Ciò chiarito, ai sensi dell’art. 70, comma 1, della legge provinciale n. 13 del 1997: “La concessione è data dal sindaco a chi abbia il titolo per richiederla” (sul piano statale l’art. 11, comma 1, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 dispone analogamente che “Il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi ne abbia titolo per richiederlo”).
La norma richiede dunque che l’interessato dimostri di trovarsi con il bene oggetto della domanda di concessione edilizia in una relazione qualificata, che non deve necessariamente essere connessa a un diritto reale, ma può derivare anche da un rapporto giuridico obbligatorio.
Con particolare riferimento al promissario acquirente, un orientamento giurisprudenziale più restrittivo esclude che il contratto preliminare rappresenti un titolo idoneo al rilascio del permesso di costruire, non producendo effetti reali, ma soltanto obbligatori e facendo sorgere in capo alle parti solo l’obbligo di futura conclusione del contratto traslativo della proprietà (cfr. ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 23.09.1998, n. 1173 e Sez. V, 20.10.1994, n. 1200; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 30.06.2003, n. 7922 e Cassazione civile, Sez. II, 05.08.2010, n. 18251).
Secondo un orientamento della giurisprudenza amministrativa più recente, il promissario acquirente è titolare di una posizione che lo abilita a richiedere l’approvazione di un progetto riguardante l’immobile da acquistare, dal momento che il contratto preliminare gli conferisce la possibilità, ai sensi dell’art. 2932 c.c., di agire in forma specifica nel caso di inadempimento del proprietario (cfr, ex pluribus, Consiglio di Stato, Sez. VI, 03.12.2004, n. 7847 e TAR Liguria, Sez. I, 20.04.2016, n. 391).
L’orientamento favorevole alla legittimazione del promissario acquirente si rafforza quando il contratto preliminare di compravendita gli attribuisca il diritto di richiedere il permesso di costruire (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 18.01.2010, n. 144 e Sez. IV 27.04.2005, n. 1947; TAR Sardegna, Sez. II, 11.05.2017, n. 332, TAR Puglia, Bari, 18.06.2012, n. 1195 e TAR Lazio, Latina, 26.07.2005, n. 636), oppure quando il preliminare di vendita sia sottoscritto con trasferimento anticipato del possesso del bene (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 12.01.2000, n. 45).
Nel caso di specie, il contratto preliminare di compravendita, stipulato dalle ricorrenti il 15.07.2015, all’art. 4 così recita “La stipula del contratto definitivo dovrà avvenire entro sei (6) mesi dalla stipula del presente contratto e, se più tardi, in ogni caso, entro venti (20) giorni dal rilascio del parere positivo della commissione edilizia comunale riguardo alla domanda per il rilascio della concessione edilizia richiesta dalla promissaria acquirente. Per questo motivo la promissaria venditrice delega la promissaria acquirente a poter presentare presso il Comune di Bolzano domanda per il rilascio della concessione edilizia sul lotto oggetto del presente contratto preliminare, obbligandosi a firmare la domanda nonché ogni altro documento necessario e utile a tal fine”.
Il successivo art. 5 prevede poi che la consegna degli immobili oggetto del contratto preliminare avverrà “al momento della stipula del contratto definitivo”.
Osserva il Collegio che dall’art. 4 del richiamato contratto preliminare risulta in modo inequivocabile sia la volontà della proprietaria dei beni, società Me., di consentire alla società Zi. di richiedere un titolo edilizio, sia la volontà delle parti di stipulare il contratto definitivo solo nell’ipotesi in cui venga rilasciata la concessione edilizia.
Per tali ragioni, il Collegio ritiene che la società Zi. debba ritenersi legittimata a richiedere il rilascio della concessione edilizia, alla luce del più recente orientamento giurisprudenziale, che condivide
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 06.03.2018 n. 73 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 9, comma 1, n. 2), del D.M. n. 1444 del 1968 prescrive, per tutti i nuovi edifici “ricadenti in altre zone“ (diverse dalla zona A), “la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
Secondo un costante orientamento della giurisprudenza, “la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 D.M. n. 1444/1968, deve essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela”.

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La giurisprudenza ha chiarito che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 9, comma 1, n. 2), del D.M. n. 1444 del 1968, è sufficiente che una sola delle due pareti che si contrappongono sia finestrata.
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Il citato art. 9, comma 1, n. 2), del D.M. n. 1444 del 1968 prescrive una “distanza minima assoluta” di 10 metri tra gli edifici ricadenti in zone diverse dalla zona A e la relativa giurisprudenza amministrativa ha precisato che “ai fini del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione”, compresi, quindi, anche i “corpi accessori”, a prescindere dalla data della loro costruzione.
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Osserva il Collegio che anche in relazione a questo motivo di diniego appare adeguata la motivazione del provvedimento impugnato.
L’art. 9, comma 1, n. 2), del D.M. n. 1444 del 1968 prescrive, per tutti i nuovi edifici “ricadenti in altre zone“ (diverse dalla zona A), come nel caso in esame, “la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
Secondo un costante orientamento della giurisprudenza, “la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 D.M. n. 1444/1968, deve essere calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela” (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.12.2017, n. 5895; nello stesso senso Sez. IV, 22.11.2013, n. 5557).
Le ricorrenti affermano, senza peraltro fornirne la prova, che le pareti della p.ed. 2448 non sarebbero finestrate e che, di conseguenza, la norma citata non troverebbe applicazione.
In realtà, la giurisprudenza ha chiarito che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 9, comma 1, n. 2), del D.M. n. 1444 del 1968, è sufficiente che una sola delle due pareti che si contrappongono sia finestrata (cfr. TAR Puglia, Bari, Sez. III, 09.06.2016, n. 719) e dalla tavola 04 del progetto risulta che il costruendo edificio prevede dei terrazzi sulla parete interessata (cfr. doc. 5 delle ricorrenti).
Le ricorrenti affermano inoltre che la sopra citata disposizione non troverebbe applicazione perché la p.ed. 2448 non sarebbe “antistante” il costruendo edificio.
Per disattendere la doglianza va richiamato anzitutto l’art. 3, primo comma, lett. h), delle norme di attuazione del PUC, il quale definisce la distanza tra edifici come “la distanza minima radiale”, che va “misurata in proiezione orizzontale tra le pareti più sporgenti degli edifici siti sullo stesso lotto o su lotti finitimi e/o dalla superficie coperta”.
Peraltro, anche volendo prescindere dalla sopra citata disposizione urbanistica, secondo il già richiamato orientamento del Consiglio di Stato sulle modalità di calcolo della distanza di cui all’art. 9, comma 1, n. 2), del D.M. n. 1444 del 1968, la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.12.2017, n. 5895; nello stesso senso: Sez. IV, 05.12.2005, n. 6909 e Sez. IV, 02.11.2010, n. 7731).
Né giova infine alle ricorrenti appellarsi alla circostanza che la p.ed. 2448, in base alle norme vigenti all’epoca della sua costruzione (1955), era considerata un “corpo accessorio”, in quanto avente un’altezza inferiore a 3,5 metri e, quindi, non troverebbe applicazione la prescrizione sulle distanze minime tra edifici.
Invero, l’art. 3, primo comma, lett. i), delle norme di attuazione del PUC chiarisce che “per costruzione accessoria si intende un unico manufatto destinato a scopo non abitativo con dipendenza dall’edificio primario il quale non può superare i 2,30 m. di altezza e 25 mq di superficie coperta e la cui cubatura urbanistica e superficie coperta devono essere computate”, mentre l’art. 3, primo comma, lett. h), prescrive che la distanza tra i fabbricati, “ad eccezione di fabbricati accessori preesistenti”, non può essere inferiore a 10 metri.
Orbene, è pacifico che la p.ed. 2448 ha un’altezza di 3 metri, altezza che, in base alle sopra richiamate disposizioni urbanistiche vigenti al momento dell’adozione del provvedimento impugnato (che trovano applicazione alla fattispecie in base al principio del tempus regit actum), non consente di poter considerare la costruzione sub p.ed. 2448 quale “corpo accessorio”.
Inoltre, va considerato che il citato art. 9, comma 1, n. 2), del D.M. n. 1444 del 1968 prescrive una “distanza minima assoluta” di 10 metri tra gli edifici ricadenti in zone diverse dalla zona A e la relativa giurisprudenza amministrativa ha precisato che “ai fini del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione” (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.12.2017, n. 5895), compresi, quindi, anche i “corpi accessori”, a prescindere dalla data della loro costruzione.
In conclusione, assorbita ogni altra censura e nonostante la fondatezza dei primi due motivi ricorso, l’impugnato provvedimento di diniego della concessione edilizia alla società Zi. deve considerarsi legittimo e il ricorso infondato, dato che i motivi di diniego sub 3) e 4) non superano le critiche mosse dalle ricorrenti e sono di per sé sufficienti a reggere il provvedimento impugnato.
E’ noto, infatti, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, qualora un provvedimento sia fondato su una pluralità di ragioni ostative fra loro ontologicamente autonome, è sufficiente che una sola delle ragioni stesse resista alle censure prospettate dall’interessato (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 18.12.2012, n. 6475; TAR Lazio, Sez. II, 12.06.2013, n. 5902; TRGA Bolzano, 13.06.2017, n. 189, 20.04.2016, n. 138, 05.05.2015, n. 154 e 26.11.2012, n. 341)
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 06.03.2018 n. 73 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condotta di colui che edifica un manufatto in contrasto con le norme urbanistiche e paesaggistiche e colui che, realizzando un'opera di tipo precario (o così rappresentata) - Art. 44 d.P.R. n. 380/2001.
Vi è piena equivalenza, ai fini della contestazione dei reati previsti dall'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, tra la condotta di colui che edifica un manufatto in contrasto con le norme urbanistiche e paesaggistiche e colui che, realizzando un'opera di tipo precario (o così rappresentata), non la rimuove in spregio alle indicazioni dell'autorità amministrativa (per tutte, Sez. 3, n. 50620 del 18/06/2014, Urso, Rb. 261955).
Reato di esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire o con titolo illegittimo (contra legem) - Titolo abilitativo "provvisorio" - Caratteri di precarietà di un'opera.
Sussiste il reato di esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire, pur quanto gli stessi siano stati assentiti da un titolo abilitativo provvisorio, o "in precario", atteso che lo stesso risulta non soltanto extra legem, in quanto non previsto dalla normativa vigente, ma anche illegittimo (contra legem), poiché giova a tollerare una situazione di evidente abuso edilizio (Sez. 3, n. 15921 del 12/2/2009, Palombo, relativa all'installazione di una stazione radio base mobile, con traliccio di 34 metri, gruppo elettrogeno con supporto in calcestruzzo armato e relativa cisterna, autorizzata soltanto per un semestre).
Conclusione che deriva dal fatto che la legge non richiede alcun titolo abilitativo per le opere oggettivamente contraddistinte da caratteri di precarietà, dovendo la stessa essere desunta non dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma dalla intrinseca destinazione materiale della stessa ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo.
Ove tali caratteri manchino, e si sia in presenza di opere stabili (come nel caso di specie), che comportino una modificazione urbanistico-edilizia apprezzabile nel tempo e non finalizzata a soddisfare esigenze improvvise e transeunti, la legge prevede un solo tipo di provvedimento che legittima l'edificazione (il permesso di costruire).
I casi, in sostanza, sono due: o non ricorrono i presupposti che impongono il rilascio del provvedimento che abilita a costruire, e allora l'opera conforme alle prescrizioni di piano è esente dal controllo pubblico; oppure essi ricorrono, e allora il permesso di costruire tipico è indefettibilmente necessario e non surrogabile da un atipico provvedimento di carattere provvisorio (Sez. 3, n. 37578 del 16/04/2008, Rao) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2018 n. 9876 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire - Differenza tra opere stagionali e precarie - Natura, effetti e disciplina applicabile - Giurisprudenza.
Il permesso di costruire è senz'altro richiesto per l'esecuzione di opere stagionali, differenziandosi da quelle precarie che, per la loro stessa natura e destinazione, non comportano effetti permanenti e definitivi sull'originario assetto del territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo.
L'opera stagionale, diversamente da quella precaria, non è, infatti, destinata a soddisfare esigenze contingenti ma ricorrenti, sia pure soltanto in determinati periodi dell'anno e, per tale motivo, è soggetta a permesso di costruire (Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016; Sez. 3, n. 34763 del 21/06/2011; Sez. 3 n. 23645, 13/06/2011; Sez. 3, n. 22868, 13/06/2007; Sez. 3, n. 13705, 19/04/2006; Sez. 3, n. 11880, 12/03/2004).
Opera stagionale - Mancata rimozione allo spirare del termine stabilito - Configurabilità del reato urbanistico e paesaggistico - Fatti unificati nel vincolo della continuazione - Artt. 44, lett. e), d.P.R. n. 380/2001 e 181 d.lgs. n. 42/2004.
La mancata rimozione dell'opera stagionale allo spirare del termine stabilito configura il reato di cui al art 44 d.P.R. n. 380 del 2001, poiché, in tale ipotesi, la responsabilità discende dal combinato disposto del medesimo art. 44 e dell'art. 40, comma 2 cod. pen., per la mancata ottemperanza all'obbligo di rimozione insito nel provvedimento autorizzatorio temporaneo (Sez. 3, n. 21158 del 2013, cit.; Sez. 3 n. 23645/2011, Sez. 3 n. 42190, 29/11/2010; Sez. 3 n. 29871, 11/09/2006).
I suesposti principi trovano applicazione anche in relazione alla sussistenza del reato di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004, osservandosi, in particolare, che la stabile permanenza delle opere edilizie, ancorché amovibili, ne qualifica l'attitudine a incidere sul territorio e, a maggior ragione, sugli interessi paesaggistici sulla cui valutazione incide anche la stagionalità e provvisorietà dell'opera (Cass. Sez. 3, n. 925 del 06/10/2015, dep. 13/01/2016, la quale, in fattispecie analoga, ha affermato che in tema di tutela delle zone sottoposte a vincolo, il mantenimento delle strutture degli stabilimenti balneari oltre il termine di scadenza stagionale del titolo concessorio demaniale, autorizzato dall'art. 1, comma 42, della legge della Regione Campania n. 16 del 2014, richiede necessariamente il concorrente titolo paesistico, la cui mancanza integra il reato di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42/2004) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2018 n. 9872 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: AREE PROTETTE - Aree vincolate - Esecuzione di interventi (anche non edilizi) - Assenza della preventiva autorizzazione - Reato paesaggistico - Natura di reato formale e di pericolo - Bene protetto dal vincolo - Uso diverso da quello a cui è destinato.
Il reato formale e di pericolo previsto dall'art. 181 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, si perfeziona mediante l'esecuzione di interventi (anche non edilizi) potenzialmente idonei ad arrecare nocumento alle zone vincolate in assenza della preventiva autorizzazione e senza che sia necessario l'accertamento dell'intervenuta alterazione, danneggiamento o deturpamento del paesaggio, in quanto per la sua configurabilità, è sufficiente che l'agente faccia del bene protetto dal vincolo un uso diverso da quello a cui è destinato, essendo il vincolo imposto prodromico al governo del territorio stesso (Sez. 3, n. 34764 del 21/06/2011; Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013; Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2018 n. 9872 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO DEMANIALE - Indipendenza tra titoli abilitativi e concessione demaniale - Presupposti per il rilascio - Effetti diversificati del permesso di costruire, dell'autorizzazione paesaggistica e della concessione demaniale.
Deve escludersi ogni dipendenza tra i titoli abilitativi e la concessione demaniale, in quanto diversi sono i presupposti per il rilascio: il permesso di costruire legittima l'esecuzione di interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio secondo la relativa disciplina e dando concreta attuazione alle scelte operate con gli strumenti di pianificazione, l'autorizzazione paesaggistica concerne una valutazione circa l'incidenza di un intervento sull'originario assetto dei luoghi soggetti a particolare protezione, mentre la concessione demaniale consente il godimento del bene demaniale entro i limiti stabiliti dal provvedimento (Sez. 3, n. 8110 del 07/11/2002, dep. 19/02/2003; Sez. 3, n. 37250 del 11/06/2008, dep. 01/10/2008; Sez. 3, n. 21158 del 2013; Sez. 3, n. 5461 del 04/12/2013, dep. 04/02/2014) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2018 n. 9872 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Le sezioni unite, confermano la giurisdizione amministrativa in ordine alle questioni attinenti la notifica del vincolo archeologico.
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Atto amministrativo – Difetto assoluto di attribuzione – Carenza di potere in astratto – Nullità.
  
Beni culturali, paesaggistici ed ambientali – Vincolo archeologico – Notifica e trascrizione – Controversia – Giurisdizione amministrativa.
  
Con l'art. 21-septies, 1. 07.08.1990, n. 241 il legislatore, nell'introdurre in via generale la categoria normativa della nullità del provvedimento amministrativo, ha ricondotto a tale radicale patologia il solo difetto assoluto di attribuzione, che evoca la c.d. "carenza in astratto del potere", cioè l'assenza in astratto di qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo, con ciò facendo implicitamente rientrare nell'area della annullabilità i casi della c.d. "carenza del potere in concreto", ossia del potere, pur astrattamente sussistente, esercitato senza i presupposti di legge».
Per contro, quando mancano, nel caso concreto, i requisiti fissati dalle norme per l'esercizio del potere formalmente attribuito alla Pubblica Amministrazione, ricorre una violazione di legge che mette in discussione la legittimità dell'atto e il corretto esercizio del potere amministrativo (1).
  
Le controversie aventi ad oggetto la notifica del vincolo archeologico e la sua trascrizione, in quanto relative all'esercizio del potere discrezionale della PA ed alle sue modalità di esplicazione, appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo (2).
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   (1, 2) I.- Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte ha affrontato una controversia concernente l'inopponibilità del vincolo archeologico, in specie nei confronti dei soggetti coinvolti nella alienazione del bene immobile sottoposto a vincolo, che deriverebbe dalla inesistenza e radicale inefficacia della notifica e della trascrizione del vincolo archeologico ai danti causa della parte venditrice.
Con una concisa motivazione le sezioni unite hanno concluso nel senso della sussistenza della giurisdizione amministrativa.
Secondo il Supremo consesso le questioni attinenti alla notifica del vincolo archeologico ed alla sua trascrizione sono relative all'esercizio del potere discrezionale della p.a. ed alle sue modalità di esplicazione, perimetrando l'esercizio del diritto di prelazione e fissandone i requisiti e le modalità esplicative.
L'eventuale inosservanza delle stesse, ancorché si risolva nella asserita inesistenza/nullità/inefficacia degli atti della P.A., non attiene all'an bensì al quomodo della potestà pubblica, essendo un posterius rispetto all'atto amministrativo (vincolo archeologico) con cui è stato esercitato il potere attribuito al Ministero dalla legge. Tali vizi, dunque, gravitano nell'ambito della illegittimità e sono attratti alla giurisdizione del giudice amministrativo.
   II.- Di particolare rilievo appare l’inquadramento concernente la dibattuta figura della nullità per difetto assoluto di attribuzione. Al riguardo la sentenza si rifà alle tradizionali ipotesi di carenza di potere in astratto ed in concreto, condividendo la conclusione della giurisprudenza amministrativa nel senso che solo la prima dia luogo alla nullità.
Secondo la sentenza in epigrafe sussiste la giurisdizione del giudice ordinario quando, nell’esercizio di funzioni ablatorie (restrittive nel linguaggio della sentenza), il provvedimento, nullo per difetto di attribuzione, pretende di incidere su un diritto soggettivo a stampo conservativo. In questa ipotesi l'azione amministrativa non è idonea a scalfire il diritto soggettivo. È, pertanto, tale posizione giuridica che viene fatta valere direttamente dal soggetto leso, con conseguente devoluzione della controversia al giudice ordinario. Peraltro tale effetto si verifica unicamente in caso di carenza di potere in astratto.
Viene condivisa la giurisprudenza, definita come consolidata, che riconduce alla nullità ex art. 21-septies legge 241 del 1990 il solo difetto assoluto di attribuzione, che evoca la c.d. "carenza in astratto del potere", cioè l'assenza in astratto di qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo, con ciò facendo implicitamente rientrare nell'area della annullabilità i casi della c.d. "carenza del potere in concreto", ossia del potere, pur astrattamente sussistente, esercitato senza i presupposti di legge: viene definitivamente superata l’impostazione della tradizionale giurisprudenza della Corte di cassazione che, anche in tale ultima ipotesi, ravvisava i presupposti per l’affermazione della giurisdizione ordinaria.
Pertanto, allorquando mancano, nel caso concreto, i requisiti fissati dalle norme per l'esercizio del potere formalmente attribuito alla p.a., ricorre una violazione di legge che mette in discussione la legittimità dell'atto e il corretto esercizio del potere amministrativo (in questo senso anche i seguenti precedenti della Corte suprema: Cass. civ., sez. un., 03.10.2016, n. 19682; 28.07.2016, n. 15667; 23.09.2014, n. 19974; Cass. pen., sez. III, 15.11.2017, n. 52053, in Urbanistica e appalti, 2018, 127, secondo cui la carenza di potere in concreto si traduce nella violazione di legge, che costituisce requisito strutturale del reato di abuso di ufficio ex art. 323 c.p., e si distingue dal difetto assoluto di attribuzione che è causa di nullità dell’atto).
   III. Per completezza si segnala:
      a) sul criterio di riparto della giurisdizione fondato sulla distinzione fra carenza di potere in astratto e concreto, v. A. M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, XV ed., Napoli, 1989, 666 ss.; CARINGELLA – DE NICTOLIS – GAROFOLI – POLI, Il riparto di giurisdizione, II ed., Milano, 2008, 73 ss., 146 ss.; D. PONTE, La nullità dell'atto amministrativo. Procedimento e processo, Milano, 2015, 135 ss.; M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, II ed., Bologna, 2017, 205 ss.; A. PLAISANT, Dal diritto civile al diritto amministrativo, II ed., Cagliari, 2017, 603 ss.;
      b) sulla nullità dell’atto amministrativo per carenza assoluta di potere, Cass., sez. lav., 28.09.2006, n. 21036, in Foro it., 2007, I, 3106, con nota di D’AURIA, secondo cui “è nullo, per essere stato emanato in difetto assoluto di attribuzione, il bando di concorso relativo alla copertura di un posto di «medico dirigente di primo livello» (corrispondente, nel precedente ordinamento, al posto di aiuto-X livello retributivo del ruolo sanitario), indetto successivamente all’entrata in vigore del nuovo ordinamento della dirigenza medica (introdotto dal d.lgs. 502/1992), ma prima della sua concreta operatività, e dopo la «revoca di diritto», disposta dall’art. 19 d.lgs. 517/1993, delle procedure concorsuali per la copertura di posti nelle posizioni funzionali corrispondenti, nel precedente ordinamento, al decimo livello retributivo del ruolo sanitario”; Cass. civ., sez. un., 07.02.2007, n. 2688 (in Foro it., 2008, I, 224, con nota di TRAVI, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui “sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario le vertenze risarcitorie o restitutorie promosse per occupazioni effettuate dall'amministrazione in mancanza di dichiarazione di pubblica utilità, o in presenza di dichiarazione nulla (in particolare, perché priva dei termini per l'inizio e il compimento dell'espropriazione e dell'opera) o divenuta inefficace per l'inutile decorso dei termini”;
      c) sul tipo di invalidità che affetta un atto amministrativo conseguente a reato, Cons. Stato, sez. V, 17.02.2014, n. 755, in Foro it., 2014, III, 219, secondo cui “è affetto da annullabilità (e non da nullità) il provvedimento amministrativo che sia stato rilasciato in seguito alla commissione di un reato”; nel medesimo senso, ovvero che la rilevanza penale dell’atto non determini la nullità del provvedimento amministrativo, Cons. Stato, sez. VI, 31.10.2013, n. 5266; in senso contrario: Cons. Stato, sez. V, 04.03.2008, n. 890, secondo cui è nulla, per interruzione del rapporto organico, la concessione edilizia frutto di abuso d’ufficio; Cass. pen., 03.07.1986, Zanella, in Foro it., Rep. 1987, voce Abuso di poteri, n. 17.
In dottrina sul tema, cfr. D’ANGELO, Nullità dell’atto «da reato» e giurisdizione nelle controversie su atti nulli, in Urbanistica e appalti, 2009, 461; CORTESI, Interruzione del rapporto organico e nullità del provvedimento, in Urbanistica e appalti, 2008, 1301 ss.; GALLO, La nullità del provvedimento amministrativo, in Urbanistica e appalti, 2009, 189 ss.; PAOLANTONIO, Nullità dell’atto amministrativo,voce dell’Enciclopedia del diritto-Annali, Milano, 2007, I, 855 ss.;
      d) per il ripudio della tesi della carenza di potere in concreto come causa di nullità dell’atto amministrativo e conseguente giurisdizione del G.O., Cons. Stato, Ad plen., 26.03.2003, n. 4, in Foro it. 2003, III, 433, con nota di TRAVI, secondo cui “l’omissione dei termini per l’inizio e l’ultimazione dei lavori comporta l’annullabilità, e non la nullità, della dichiarazione di pubblica utilità; pertanto non determina carenza di potere rispetto ai successivi atti espropriativi”; Cons. Stato, Ad. plen., 22.10.2007, n. 12 (in Foro it., 2008, III, 1, con nota di TRAVI; Corriere giur., 2008, 253, con note di DI MAJO, PELLEGRINO; Urbanistica e appalti, 2008, 339, con nota di GALLO, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui “rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia relativa all'accertamento di intervenuta accessione invertita e alla conseguente domanda di risarcimento, in presenza di un agire dell'amministrazione causalmente riferibile a una funzione che per legge le appartiene ed è stata in concreto svolta, in quanto, nella materia espropriativa, i comportamenti che esulano dalla giurisdizione amministrativa esclusiva sono solo quelli che, tenuto conto dei riferimenti formali e fattuali di ogni fattispecie, non risultano riconducibili all'esercizio di un pubblico potere”;
      e) negli stessi termini, con riferimento al contrasto del provvedimento amministrativo col diritto europeo, Cons. Stato, sez. V, 10.01.2003, n. 35, in Foro it., 2004, III, 413 con nota di PAOLA; Cons. Stato, sez. V, 19.05.2009, n. 3072 (in Urbanistica e appalti, 2009, 1097, con nota di FRANCO, Giust. amm., 2009, fasc. 2, 223, con nota di CORNELLA, Riv. giur. Molise e Sannio, 2012, fasc. 1, 64, con nota di BACCARI), secondo cui: “Il provvedimento di una p.a. nazionale che si ponga in contrasto con la disciplina comunitaria di un determinato settore configura un'ipotesi di annullabilità dello stesso, e non di nullità, come accade, invece, nell'ipotesi che l'atto interno sia stato emesso in conformità ad una norma nazionale (attributiva del potere) che risulti, essa, incompatibile con il diritto comunitario, con il conseguente obbligo di disapplicazione; l'azione di annullamento per violazione di una norma comunitaria è esperibile davanti al giudice amministrativo entro l'ordinario termine di decadenza, mentre la p.a. è tenuta ad applicare l'atto illegittimo, salvo il potere di annullamento in via di autotutela”; Cons. Stato sez. III 08.09.2014, n. 4538, secondo cui “l'art. 21-septies, l. 07.08.1990, n. 241, introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15, ha codificato in numero chiuso le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo e tra queste non rientra la violazione del diritto comunitario per la quale l'ipotesi della nullità è configurabile nella sola ipotesi in cui il provvedimento nazionale sia stato adottato sulla base di una norma interna attributiva del potere incompatibile con il diritto comunitario”;
      f) sulla nullità dell’atto amministrativo nel regime dell’art. 21-septies, l. n. 241 del 1990, in relazione agli artt. 31, comma 4 e 133, comma 1, n. 5, c.p.a., v. Cons. Stato, Sez. IV, 19.04.2017, n. 1827 e 24.052016, n. 2202, in Foro amm., 2016, 1191, secondo cui: “anche dopo l'inserimento nel vigente sistema amministrativo dell'art. 21-septies l. 07.08.1990 n. 241, che ha codificato la nullità «strutturale» del provvedimento amministrativo (ossia per difetto dei suoi elementi essenziali), tale peculiare vizio può essere in concreto ravvisato soltanto in casi estremi e circoscritti, quale ad esempio l'inesistenza dell'oggetto; in particolare, con riferimento all'ipotetico difetto della causa, che sul piano civilistico è causa di nullità del negozio, questo nella teoria del provvedimento amministrativo, laddove lo si identifichi con l'insussistenza dell'interesse pubblico che esso dovrebbe perseguire, costituisce una ordinaria ipotesi di annullabilità del provvedimento amministrativo, ex art. 21-octies, 1º comma, della stessa l. n. 241 del 1990, sub specie di eccesso di potere; e ciò discende non solo dalla peculiarità della patologia del provvedimento amministrativo rispetto a quella del negozio giuridico, nella prima essendo del tutto prioritario e prevalente l'aspetto «funzionale» (ossia la finalizzazione del provvedimento a un interesse pubblico), ma anche dall'eccezionalità del vizio di nullità rispetto alle ordinarie forme di illegittimità conoscibili dal giudice amministrativo e rilevanti quali cause di annullabilità”; cfr. altresì Cons. Stato, sez. V, 31.12.2014, n. 6455 del 2014 (in Appalti & Contratti, 2015, fasc. 1, 83), secondo cui il regime della nullità dell’atto amministrativo è eccezionale e sono di stretta interpretazione, ai sensi dell’art. 14 delle preleggi, le norme che la prevedono, conseguentemente perché si possa configurare la nullità dell’atto amministrativo ai sensi dell’art. 21-septies, l. n. 241 del 1990, devono sussistere gli indispensabili presupposti richiesti dalla norma: mancanza degli elementi essenziali del provvedimento; difetto assoluto di attribuzione; violazione o elusione del giudicato; negli esatti termini, Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 9 (in Foro it., 2014, III, 429, con nota di SIGISMONDI; Dir. proc. amm., 2014, 544, con nota di BERTONAZZI; Urbanistica e appalti, 2014, 1075 (m), con nota di FANTINI; Giornale dir. amm., 2014, 918 (m), con note di FERRARA, BARTOLINI; Nuovo notiziario giur., 2014, 550, con nota di BARBIERI, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza);
      g) sulla disapplicazione del regolamento in contrasto con il diritto europeo, Cons. Stato, sez., VI, 02.02.2018, n. 677 (oggetto della News US 12.02.2018, ed ai cui approfondimenti si rinvia), che ha deferito all’Adunanza plenaria le questioni dell’affidamento dell’incarico di direttore di polo museale a cittadino non italiano, della disapplicazione regolamentare e del regime giuridico delle norme interne in contrasto con la CEDU;
      h) sulla imposizione del vincolo culturale, di recente, Cons. Stato, sez. VI, 21.05.2013 n. 2707, secondo cui “un provvedimento amministrativo di imposizione di un vincolo su un bene determinato (sia esso mobile o immobile) è impugnabile innanzi al Tar o con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica entro i termini stabiliti dalle legge, che decorrono -per il proprietario o il titolare del diritto reale- dalla data della relativa notifica o della acquisita conoscenza. L'inoppugnabilità del provvedimento impositivo del vincolo si verifica col decorso di tali termini. Un successivo passaggio di proprietà (inter vivos o mortis causa) non rimette in termini l'acquirente, che subentra nella medesima situazione giuridica nella quale si trova il dante causa. Pertanto, l'acquirente del bene sottoposto al vincolo non si avvale della riapertura dei termini di impugnazione: gli atti di trasferimento del bene sono vicende di diritto privato, che non pongono nel nulla la conseguita inoppugnabilità del provvedimento”; Cons. Stato, sez. VI, 14.10.2015, n. 4747, secondo cui “il giudizio che presiede all'imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un'ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l'applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari (della storia, dell'arte e dell'architettura) caratterizzati da ampi margini di opinabilità. Ne consegue che l'apprezzamento compiuto dall'Amministrazione preposta alla tutela -da esercitarsi in rapporto al principio fondamentale dell'art. 9 Cost.- è sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l'aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell'Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile. In altri termini, la valutazione in ordine all'esistenza di un interesse culturale (artistico, storico, archeologico o etnoantropologico) particolarmente importante, tale da giustificare l'imposizione del relativo vincolo ai sensi degli artt. 13, comma 1, e 10, comma 3, lett. a), d.lgs. 22.01.2004, n. 42, è prerogativa esclusiva dell'Amministrazione preposta alla gestione del vincolo e può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far emergere l'inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale compiuta” (
Corte di Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 05.03.2018 n. 5097 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Principio di continuità delle operazioni di gara
Il Consiglio di Stato precisa che il principio di continuità delle operazioni di gara ha carattere tendenziale, nel senso che non si tratta di un precetto inviolabile ma, al contrario, tollera deroghe alla sua operatività, in particolare in presenza di situazioni peculiari che impediscano obiettivamente l’esaurimento di tutte le operazioni di gara in una sola seduta, purché sia garantita nelle more l’integrità delle offerte e sia quindi assicurata l’imparzialità del giudizio.
Aggiunge il Consiglio di Stato che la lunghezza delle operazioni di gara non può tradursi, con carattere di automatismo, in effetto viziante della procedura concorsuale, in tal modo implicitamente collegando alla mancata tempestiva conclusione della procedura il pregiudizio alla imparzialità e trasparenza della gara; non è il dato in sé della lunga durata della procedura a poterne determinare l’annullamento quanto, piuttosto, l’eventuale concreta dimostrazione di circostanze effettivamente probanti in ordine alla violazione del principio di trasparenza, par condicio ed imparzialità
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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6. Anche l’ultimo motivo non è suscettibile di positiva valutazione.
Come chiarito da una giurisprudenza pressoché costante il principio di continuità delle operazioni di gara ha carattere tendenziale, nel senso che non si tratta di un precetto inviolabile ma, al contrario, tollera deroghe alla sua operatività, in particolare in presenza di situazioni peculiari che impediscano obiettivamente l’esaurimento di tutte le operazioni di gara in una sola seduta, purché sia garantita nelle more l’integrità delle offerte e sia quindi assicurata l’imparzialità del giudizio (Cons. St., sez. V, 12.06.2018, n. 2811; id., sez. III, 25.11.2016, n. 4993; id., sez. V, 22.01.2015, n. 257).
Nel caso all’esame del Collegio la complessità dell’appalto e la difficoltà di nominare il Presidente della Commissione giustifica il tempo trascorso dalla prima all’ultima seduta di gara. Aggiungasi –ed il rilievo è assorbente di ogni altra considerazione– che l’appellante non ha dimostrato che tale lungo lasso di tempo ha compromesso l’imparzialità e la trasparenza delle operazioni, ad esempio per essere stati lasciati i plichi contenenti le offerte incustoditi. Tale prova era invece necessaria a supportare il motivo dedotto.
Ed infatti, la lunghezza delle operazioni di gara non può tradursi, con carattere di automatismo, in effetto viziante della procedura concorsuale, in tal modo implicitamente collegando alla mancata, tempestiva conclusione della procedura il pregiudizio alla imparzialità e trasparenza della gara.
Pertanto, non è il dato in sé della lunga durata della procedura a poterne determinare l’annullamento quanto – piuttosto – l’eventuale concreta dimostrazione, che nella specie è mancata, di circostanze effettivamente probanti in ordine alla violazione del principio di trasparenza, par condicio ed imparzialità (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.03.2018 n. 1335 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli effetti della pronuncia della A.P. n. 13 del 2017 sul vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico non possono essere limitati al futuro.
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Paesaggio – Tutela – Vincolo – Proposto prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 – Procedimento non concluso – Cessazione degli effetti.
  
Paesaggio – Tutela – Vincolo – Proposto prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 – Procedimento non concluso – Cessazione degli effetti – Decorrenza – Individuazione.
  
Il combinato disposto –nell’ordine logico– dell’art. 157, comma 2, dell’art. 141, comma 5, dell’art. 140, comma 1 e dell’art. 139, comma 5, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, deve interpretarsi nel senso che il vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo –come modificato con il d.lgs. 24.03.2006, n. 157 e con il d.lgs. 26.03.2008, n. 63– cessa qualora il relativo procedimento non si sia concluso entro 180 giorni (1).
  
Il termine di efficacia di 180 giorni del vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 non decorre dalla pubblicazione della sentenza dell’Adunanza plenaria 22.12.2017, n. 13, avendo il principio da questa affermato natura dichiarativa e, come tale, naturalmente portata retroattiva (2).
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   (1) Cfr. Cons. St., A.P., 22.12.2017, n. 13.
   (2) Ha ricordato il Tar che l’Adunanza Plenaria 22.12.2017, n. 13, chiamata a pronunciarsi anche sugli effetti della propria pronuncia sulle numerosissime proposte di vincolo pendenti in relazione a procedimenti mai conclusi, ha affermato l’ulteriore principio di diritto secondo cui “Il termine di efficacia di 180 giorni del vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 decorre dalla pubblicazione della presente sentenza”; ciò sulla premessa per cui l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato può modulare la portata temporale delle proprie pronunce, in particolare limitandone gli effetti al futuro, al verificarsi delle seguenti condizioni: a) un’obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni da interpretare; b) l’esistenza di un orientamento prevalente contrario all’interpretazione adottata; c) la necessità di tutelare uno o più principi costituzionali o, comunque, di evitare gravi ripercussioni socio-economiche, condizioni ritenute sussistenti nel caso di specie.
Il Tar ha tuttavia ritenuto di doversi motivatamente discostare da tale principio di diritto che, ai sensi dell’art. 99, comma 3, c.p.a., vincola le sole Sezioni del Consiglio di Stato ma non anche il giudice di primo grado per il quale opera il principio del libero convincimento e soprattutto quello costituzionale di soggezione “soltanto alla legge” ex art. 101 Cost..
A tale conclusione il Tar è pervenuto proprio alla luce del principio di diritto espresso dalla successiva recentissima pronuncia della medesima Adunanza Plenaria 23.02.2018, n. 1 la quale, disattendendo una espressa richiesta della parte appellata finalizzata a limitare pro futuro il principio di diritto –laddove a sé sfavorevole- ha escluso che il principio di diritto affermato possa ritenersi applicabile soltanto a rapporti futuri e non anche a quelli in corso, avendo gli enunciati giurisprudenziali natura formalmente dichiarativa, rammentando al riguardo che la diversa opinione “finisce per attribuire alla esegesi valore ed efficacia normativa in contrasto con la logica intrinseca della interpretazione e con il principio costituzionale della separazione dei poteri venendosi a porre in sostanza come una fonte di produzione” secondo quanto affermato da Cons. St., A.P., 02.11.2015, n. 9.
La limitazione pro futuro degli effetti della sentenza interpretativa dell’Adunanza plenaria equivale infatti alla creazione di una norma transitoria, in funzione para normativa che non può vincolare il giudice di primo grado, in quanto recessiva rispetto al principio costituzionale di soggezione del giudice “soltanto alla legge”, ex art. 101 Cost., laddove la legge, come interpretata dall’Adunanza Plenaria, è, nel caso di specie, chiaramente nel senso della cessazione del vincolo preliminare -qualora il relativo procedimento non si sia concluso entro 180 giorni– anche per le proposte di vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004.
Inoltre, a partire da Cass. civ., sez. un., 11.072011 n. 15144 e numerose altre successive -tra cui 21.05.2015, n. 10453; 17.12.2014, n. 26541; 04.06.2014, n. 12521, 13 febbraio 2014, n. 3308 e, da ultimo, Cass. civ., sez. un., 1309.2017, n. 21194- si è costantemente affermato che, per configurare il c.d. prospective overruling e quindi per attribuire carattere innovativo, con decorrenza ex nunc, all’intervento nomofilattico, occorra la concomitante presenza dei seguenti tre presupposti: a) l’esegesi deve incidere su una regola del processo; b) l’esegesi deve essere imprevedibile ovvero seguire ad altra consolidata nel tempo tale da considerarsi diritto vivente e quindi da indurre un ragionevole affidamento; c) l'innovazione comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa.
Tale impostazione è stata sempre seguita anche dal giudice amministrativo: cfr. in termini (ma non presa in considerazione dalla decisione in esame), Cons. St., A.P, 02.11.2015, n. 9 (§ 4), in cui si afferma esplicitamente l’impossibilità di trasformare “…una sequenza di interventi accertativi del contenuto della norma in una operazione di creazione di un novum ius, in sequenza ad un vetus ius, con sostanziale attribuzione, ai singoli arresti, del valore di atti fonte del diritto, di provenienza dal giudice; soluzione non certo coniugabile con il precetto costituzionale dell’art. 101 Cost.”); successivamente, nello stesso senso si veda Cons. St., sez. III, ord., 07.11.2017, n. 5138.
Nel caso di specie non ricorre invero alcuna delle tre condizioni per l’operatività dell’overulling: l’esegesi non incide infatti su norma processuale ma su una sostanziale disciplina del procedimento amministrativo; l'innovazione non comporta effetti preclusivi del diritto di azione o di difesa; non si era formato un diritto vivente sul punto controverso (tanto che era stato necessario rimettere la questione alla Plenaria proprio per la presenza di un contrasto di giurisprudenza maturato in seno al Consiglio di Stato).
Ad avviso del Tar deve dunque essere ribadita la natura dichiarativa e come tale naturalmente retroattiva del principio di diritto affermato dalla Adunanza Plenaria con la sentenza 22.12.2017, n. 13, con conseguente illegittimità degli atti impugnati in quanto adottati sull’erroneo presupposto della perdurante efficacia del vincolo preliminare discendente da una proposta di vincolo risalente al 2003 (
TAR Molise, sentenza 05.03.2018 n. 117 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Il ricorso è fondato.
La problematica delle proposte di vincolo è stata approfondita dal collegio con sentenza n. 92 del 26.02.2016 pervenendo alla conclusione della perdurante efficacia degli effetti del vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore della novella al decreto legislativo n. 42/2004 (dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi, segnatamente, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63), non seguite dal decreto ministeriale di conclusione del procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico
Sull’appello proposto avverso la predetta sentenza la IV sezione del Consiglio di Stato con ordinanza 12.06.2017, n. 2838 ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria che con sentenza 22.12.2017, n. 13 è giunta a conclusioni opposte, affermando il principio di diritto secondo cui “Il combinato disposto –nell’ordine logico– dell’art. 157, comma 2, dell’art. 141, comma 5, dell’art. 140, comma 1, e dell’art. 139, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, deve interpretarsi nel senso che il vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo –come modificato con il d.lgs. 24.03.2006, n. 157 e con il d.lgs. 26.03.2008, n. 63– cessa qualora il relativo procedimento non si sia concluso entro 180 giorni”.
Poiché nel caso di specie il procedimento non è stato mai concluso e la proposta risale ad 11 anni prima rispetto al diniego impugnato, deve concludersi nel senso che alla data in cui l’autorizzazione paesaggistica è stata richiesta e negata il vincolo preliminare era ormai decaduto ed il bene immobile oggetto dell’intervento non più soggetto alla disciplina di tutela di cui all’art. 146 del d.lgs. 42 del 2004, come eccepito dalla ricorrente con specifico motivo di ricorso.
Ne discende che tutti gli atti impugnati sono illegittimi in quanto adottati sull’erroneo presupposto della perdurante vigenza del vincolo preliminare di tutela.
Sennonché l’Adunanza Plenaria, chiamata a pronunciarsi anche sugli effetti della propria pronuncia sulle numerosissime proposte di vincolo pendenti in relazione a procedimenti mai conclusi, ha affermato l’ulteriore principio di diritto secondo cui «Il termine di efficacia di 180 giorni del vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 decorre dalla pubblicazione della presente sentenza»; ciò sulla premessa per cui l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato può modulare la portata temporale delle proprie pronunce, in particolare limitandone gli effetti al futuro, al verificarsi delle seguenti condizioni: a) un’obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni da interpretare; b) l’esistenza di un orientamento prevalente contrario all’interpretazione adottata; c) la necessità di tutelare uno o più principi costituzionali o, comunque, di evitare gravi ripercussioni socio-economiche, condizioni ritenute sussistenti nel caso di specie.
La conseguenza di tale affermazione è rappresentata dal fatto che anche la proposta di vincolo relativa al Comune di Isernia, richiamata nelle premesse giustificative del diniego di autorizzazione paesaggistica, dovrebbe ritenersi assistita dalla perdurante efficacia del vincolo preliminare sino al 22.06.2018 dal che discenderebbe la sussistenza del potere di autorizzazione ai sensi dell’art. 146 d.lgs. 42/2004.
Il collegio ritiene tuttavia di doversi motivatamente discostare da tale principio di diritto che, ai sensi dell’art. 99, comma 3, c.p.a., vincola le sole sezioni del Consiglio di Stato ma non anche il giudice di primo grado per il quale opera il principio del libero convincimento e soprattutto quello costituzionale di soggezione “soltanto alla legge” ex art. 101 Cost..
A tale conclusione il collegio ritiene di dover pervenire proprio alla luce del principio di diritto espresso dalla successiva recentissima pronuncia della medesima Adunanza Plenaria n. 1 del 2018 la quale, disattendendo una espressa richiesta della parte appellata finalizzata a limitare pro futuro il principio di diritto –laddove a sé sfavorevole- ha escluso che il principio di diritto affermato possa ritenersi applicabile soltanto a rapporti futuri e non anche a quelli in corso, avendo gli enunciati giurisprudenziali natura formalmente dichiarativa, rammentando al riguardo che la diversa opinione «finisce per attribuire alla esegesi valore ed efficacia normativa in contrasto con la logica intrinseca della interpretazione e con il principio costituzionale della separazione dei poteri venendosi a porre in sostanza come una fonte di produzione» secondo quanto affermato da Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9.
La limitazione pro futuro degli effetti della sentenza interpretativa dell’Adunanza plenaria equivale infatti alla creazione di una norma transitoria, in funzione para normativa che non può vincolare il giudice di primo grado, in quanto recessiva rispetto al principio costituzionale di soggezione del giudice “soltanto alla legge”, ex art. 101 Cost., laddove la legge, come interpretata dall’Adunanza Plenaria, è, nel caso di specie, chiaramente nel senso della cessazione del vincolo preliminare -qualora il relativo procedimento non si sia concluso entro 180 giorni– anche per le proposte di vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004 qual è quella che interessa il Comune di Isernia.
Inoltre a partire da Cass. civ., sez. un., 11.07.2011 n. 15144 e numerose altre successive -tra cui 21.05.2015, n. 10453; 17.12.2014, n. 26541; 04.06.2014, n. 12521, 13.02.2014, n. 3308 e, da ultimo, Cass. civ., sez. un., 13.09.2017, n. 21194- si è costantemente affermato che, per configurare il c.d. prospective overruling e quindi per attribuire carattere innovativo, con decorrenza ex nunc, all’intervento nomofilattico, occorra la concomitante presenza dei seguenti tre presupposti: a) l’esegesi deve incidere su una regola del processo; b) l’esegesi deve essere imprevedibile ovvero seguire ad altra consolidata nel tempo tale da considerarsi diritto vivente e quindi da indurre un ragionevole affidamento; c) l'innovazione comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa.
Tale impostazione è stata sempre seguita anche dal giudice amministrativo: cfr. in termini (ma non presa in considerazione dalla decisione in esame), Cons. Stato, Ad. plen., 02.11.2015, n. 9, specie § 4, in cui si afferma esplicitamente l’impossibilità di trasformare “…una sequenza di interventi accertativi del contenuto della norma in una operazione di creazione di un novum ius, in sequenza ad un vetus ius, con sostanziale attribuzione, ai singoli arresti, del valore di atti fonte del diritto, di provenienza dal giudice; soluzione non certo coniugabile con il precetto costituzionale dell’art. 101 Cost.”); successivamente, nello stesso senso si veda Cons. Stato, sez. III, ordinanza 07.11.2017, n. 5138.
Nel caso di specie non ricorre invero alcuna delle tre condizioni per l’operatività dell’overulling: l’esegesi non incide infatti su norma processuale ma su una sostanziale disciplina del procedimento amministrativo; l'innovazione non comporta effetti preclusivi del diritto di azione o di difesa; non si era formato un diritto vivente sul punto controverso (tanto che era stato necessario rimettere la questione alla Plenaria proprio per la presenza di un contrasto di giurisprudenza maturato in seno al Consiglio di Stato).
Sulla valenza inderogabilmente retroattiva della esegesi di norme di carattere sostanziale anche in presenza di un overruling, si veda Cass. civ., Sez. V, 18.11.2015, n. 23585: “La regola secondo cui, alla luce del principio costituzionale del giusto processo, le preclusioni e le decadenze derivanti da un imprevedibile revirement giurisprudenziale non operano nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente sul precedente consolidato orientamento attiene unicamente al profilo degli effetti del mutamento di una consolidata interpretazione del giudice della nomofilachia in ordine a norme processuali. Il sopravvenuto consolidamento di un nuovo indirizzo giurisprudenziale su norme di carattere sostanziale che in astratto consentirebbero la riforma di una precedente decisione non può quindi giustificare la rimessione in termini invocata dalla parte onde superare il giudicato formale formatosi per la mancata tempestiva impugnazione di una sentenza”.
In conclusione non possono ritenersi sussistenti le condizioni per l’operatività del prospective overruling secondo i principi affermati dalla giurisprudenza civile ed amministrativa del tutto maggioritaria.
Deve dunque essere ribadita la natura dichiarativa e come tale naturalmente retroattiva del principio di diritto affermato dalla Adunanza Plenaria con la sentenza 22.12.2017, n. 13 con conseguente illegittimità degli atti impugnati in quanto adottati sull’erroneo presupposto della perdurante efficacia del vincolo preliminare discendente da una proposta di vincolo risalente al 2003.
Stante il carattere dirimente del presente motivo, le restante doglianze articolate dalla ricorrente possono essere assorbite.
Il ricorso è pertanto fondato sicché dev’essere disposto l’annullamento degli atti impugnati.

APPALTI: Ambito di applicazione del rito superaccelerato – Avvalimento di garanzia e tecnico/operativo.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Contestuale impugnazione ammissione e aggiudicazione – Rito superaccelerato – Non si applica.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento - Avvalimento di garanzia e avvalimento tecnico/operativo – Distinzione.
   ● Il rito speciale c.d. “superaccelerato” di cui all’art. 120, commi 2-bis e 6-bis, c.p.a., non si applica se oggetto di gravame è non soltanto l’ammissione della controinteressata ma anche il provvedimento di aggiudicazione, dovendo tale rito essere applicato solo nei casi in cui risulti una netta distinzione tra fase di ammissione/esclusione e fase di aggiudicazione.
  
In sede di gara pubblica, ricorre l’avvalimento c.d. di garanzia nel caso in cui l’ausiliaria metta a disposizione dell’ausiliata la propria solidità economica e finanziaria, rassicurando la stazione appaltante sulle sue capacità di far fronte agli impegni economici conseguenti al contratto d’appalto, anche in caso di inadempimento: tale è l’avvalimento che abbia ad oggetto i requisiti di carattere economico–finanziario e, in particolare, il fatturato globale o specifico; ricorre, invece, l’avvalimento c.d. tecnico od operativo nel caso in cui l’ausiliaria si impegni a mettere a disposizione dell’ausiliata le proprie risorse tecnico–organizzative indispensabili per l’esecuzione del contratto di appalto: tale è l’avvalimento che abbia ad oggetto i requisiti di capacità tecnico–professionale tra i quali, ad esempio, la dotazione di personale (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che la rilevanza della distinzione va rinvenuta in ciò, che nel primo caso (in cui l’impresa ausiliaria si limita a “mettere a disposizione” il suo valore aggiunto in termini di solidità finanziaria e di acclarata esperienza di settore), non è, in via di principio, necessario che la dichiarazione negoziale costitutiva dell’impegno contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o ad indici materiali atti ad esprimere una certa e determinata consistenza patrimoniale e, dunque, alla messa a disposizione di beni da descrivere ed individuare con precisione, ma è sufficiente che dalla ridetta dichiarazione emerga l’impegno contrattuale a prestare ed a mettere a disposizione dell’ausiliata la complessiva solidità finanziaria ed il patrimonio esperienziale, così garantendo una determinata affidabilità e un concreto supplemento di responsabilità (Cons. St., sez. V, 30.10.2017, n. 4973; id., sez. III, 11.07.2017, n. 3422; id., sez. V, 15.03.2016, n. 1032).
Ha ricordato la Sezione che l’Adunanza plenaria (04.11.2016, n. 23), ha formulato il principio di diritto secondo cui l’art. 49, d.lgs. n. 163 del 2006 e l’art. 88, d.P.R. n. 207 del 2010, in relazione all’art. 47, paragr. 2 della direttiva n. 2004/18/CE, vanno interpretati nel senso che essi ostano a un’interpretazione tale da configurare la nullità del contratto di avvalimento nei casi in cui una parte dell’oggetto del contratto stesso, pur non essendo puntualmente determinata, sia, tuttavia, agevolmente determinabile dal tenore complessivo del documento, e ciò anche in applicazione degli artt. 1346, 1363 e 1367 c.c.
In dette ipotesi, neppure sussistono i presupposti per fare applicazione della teorica del “requisito della forma/contenuto” (relativa alle fattispecie in cui la forma non rappresenta soltanto il mezzo di manifestazione della volontà contrattuale, ma reca anche l’incorporazione di un contenuto minimo di informazioni, che, attraverso il contratto, devono essere fornite): ciò, perché non viene in rilievo l’esigenza, tipica dell’enucleazione di tale figura, di assicurare una particolare tutela al contraente debole tramite l’individuazione di una specifica forma di cd. nullità di protezione.
La Plenaria ha aggiunto, ancora, che nessuna variazione al principio di diritto sopra enunciato può desumersi dalle sopravvenute disposizioni di cui al d.lgs. 19.04.2016, n. 50 (di attuazione delle direttive nn. 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE).
Pertanto, ai fini della determinazione del contenuto necessario per il contratto di avvalimento, allorché si tratti di “mettere a disposizione” (come, appunto, nell’avvalimento di garanzia) requisiti generali (di carattere economico, finanziario, tecnico-organizzativo, ad es. il fatturato globale o la certificazione di qualità), non sussiste l’esigenza di una indicazione puntuale e specifica, non trattandosi di beni in senso tecnico-giuridico (id est di “cose che possono formare oggetto di diritti” ex art. 821 c.c.), per i quali sussiste la necessità di sufficiente determinazione.
Per contro, nel caso di avvalimento c.d. tecnico od operativo (che ha ad oggetto requisiti diversi rispetto a quelli di capacità economico-finanziaria) sussiste sempre l’esigenza di una messa a disposizione in modo specifico di risorse determinate: onde è imposto alle parti di indicare con precisione i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata per eseguire l’appalto  (
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.02.2018 n. 1216 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
2.- La materia del contendere concerne il contenuto dei contratti di avvalimento aventi ad oggetto il possesso di requisiti di esperienza (inerenti la capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria), avuto segnatamente riguardo alla necessità della espressa e specifica indicazione delle risorse necessarie alla esecuzione dell’appalto oggetto di aggiudicazione.
3.- In proposito vale rammentare, in termini generali, che
la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha elaborato e maturato, avuto riguardo alle caratteristiche ed alle modalità dell’ausilio, una distinzione tipologica tra:
   a)
avvalimento c.d. di garanzia, che ricorre nel caso in cui l’ausiliaria metta a disposizione dell’ausiliata la propria solidità economica e finanziaria, rassicurando la stazione appaltante sulle sue capacità di far fronte agli impegni economici conseguenti al contratto d’appalto, anche in caso di inadempimento (Cons. Stato, III, 07.07.2015 n. 3390; 17.06.2014 n. 3057): tale è l’avvalimento che abbia ad oggetto i requisiti di carattere economico–finanziario e, in particolare, il fatturato globale o specifico;
   b)
avvalimento c.d. tecnico od operativo, che ricorre, per contro, nel caso in cui l’ausiliaria si impegni a mettere a disposizione dell’ausiliata le proprie risorse tecnico–organizzative indispensabili per l’esecuzione del contratto di appalto: tale è l’avvalimento che abbia ad oggetto i requisiti di capacità tecnico–professionale tra i quali, ad esempio, la dotazione di personale.
4.-
La rilevanza della distinzione va rinvenuta in ciò che, nel primo caso (in cui l’impresa ausiliaria si limita a “mettere a disposizione” il suo valore aggiunto in termini di solidità finanziaria e di acclarata esperienza di settore), non è, in via di principio, necessario che la dichiarazione negoziale costitutiva dell’impegno contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o ad indici materiali atti ad esprimere una certa e determinata consistenza patrimoniale e, dunque, alla messa a disposizione di beni da descrivere ed individuare con precisione, ma è sufficiente che dalla ridetta dichiarazione emerga l’impegno contrattuale a prestare ed a mettere a disposizione dell’ausiliata la complessiva solidità finanziaria ed il patrimonio esperienziale, così garantendo una determinata affidabilità e un concreto supplemento di responsabilità (cfr., ex permultis, Cons. Stato, sez. V, 30.10.2017, n. 4973; Id., sez. III, 11.07.2017, n. 3422; Id., sez. V, 15.03.2016, n. 1032).
In proposito, importa precisare che Cons. Stato, ad. plen., 04.11.2016, n. 23, ha formulato il principio di diritto secondo cui
l’art. 49 del d.lgs. n. 163/2006 e l’art. 88 del d.P.R. n. 207/2010, in relazione all’art. 47, paragr. 2 della direttiva n. 2004/18/CE, vanno interpretati nel senso che essi ostano a un’interpretazione tale da configurare la nullità del contratto di avvalimento nei casi in cui una parte dell’oggetto del contratto stesso, pur non essendo puntualmente determinata, sia, tuttavia, agevolmente determinabile dal tenore complessivo del documento, e ciò anche in applicazione degli artt. 1346, 1363 e 1367 c.c.
In dette ipotesi, neppure sussistono i presupposti per fare applicazione della teorica del “requisito della forma/contenuto” (relativa alle fattispecie in cui la forma non rappresenta soltanto il mezzo di manifestazione della volontà contrattuale, ma reca anche l’incorporazione di un contenuto minimo di informazioni, che, attraverso il contratto, devono essere fornite): ciò, perché non viene in rilievo l’esigenza, tipica dell’enucleazione di tale figura, di assicurare una particolare tutela al contraente debole tramite l’individuazione di una specifica forma di cd. nullità di protezione.
La Plenaria ha aggiunto, ancora, che
nessuna variazione al principio di diritto sopra enunciato può desumersi dalle sopravvenute disposizioni di cui al d.lgs. 19.04.2016, n. 50 (di attuazione delle direttive nn. 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE).
Pertanto,
ai fini della determinazione del contenuto necessario per il contratto di avvalimento, allorché si tratti di “mettere a disposizione” (come, appunto, nell’avvalimento di garanzia) requisiti generali (di carattere economico, finanziario, tecnico-organizzativo, ad es. il fatturato globale o la certificazione di qualità), non sussiste l’esigenza di una indicazione puntuale e specifica, non trattandosi di beni in senso tecnico-giuridico (id est di “cose che possono formare oggetto di diritti” ex art. 821 c.c.), per i quali sussiste la necessitò di sufficiente determinazione (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 22.11.2017, n. 5429, che pure –ad evitare il rischio, particolarmente rilevante in tale sottogenere di avvalimento, che il prestito dei requisiti rimanga soltanto su un piano astratto e cartolare e l’impresa ausiliaria si trasformi in una semplice cartiera produttiva di schemi contrattuali privi di sostanza– ha ritenuto che, anche in tal caso, dalla dichiarazione dell’ausiliaria debba emergere, con certezza ed in modo circostanziato, l’impegno contrattuale a prestare e mettere a disposizione dell’ausiliata la complessiva solidità finanziaria e il patrimonio esperienziale della prima, così garantendo una determinata affidabilità e un concreto supplemento di responsabilità).
5.- Per contro,
nel caso di avvalimento c.d. tecnico od operativo (che ha ad oggetto requisiti diversi rispetto a quelli di capacità economico-finanziaria) sussiste sempre l’esigenza di una messa a disposizione in modo specifico di risorse determinate: onde è imposto alle parti di indicare con precisione i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata per eseguire l’appalto (cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.12.2016, n. 5423).
6.- Ciò premesso, osserva il Collegio che nella vicenda in esame il disciplinare di gara richiedeva, al paragrafo sui requisiti di ammissione, in ordine alla capacità tecnico professionale:
   a) al punto 1), l’aver prestato con buon esito, negli ultimi dieci anni dalla data di pubblicazione del bando, servizi analoghi nel settore della distribuzione del gas naturale relativi ad impianti aventi complessivamente un numero di PDR pari ad almeno il 40% del totale dei PDR dell’ATEM Vicenza 3 (la norma specificava, inoltre, cosa dovesse intendersi per servizi analoghi, indicando alla lett. c) quelli di vigilanza e controllo sull’esecuzione del contratto di servizio);
   b) al punto 2), una comprovata esperienza nel campo della progettazione e direzione dei lavori di impianti di distribuzione del gas metano ad uso civile, per avere svolto, negli ultimi dieci anni dalla data di pubblicazione del bando, servizi di progettazione e/o direzione lavori e/o collaudo di impianti per una lunghezza totale almeno pari al 20% della lunghezza totale delle reti dell’ATEM Vicenza 3.
Quanto alla capacità economico-finanziaria, era richiesto che l’impresa avesse maturato, nell’ultimo biennio, un fatturato in servizi analoghi a quelli oggetto della gara pari ad € 200.000,00 complessivi (anche qui la norma specificava cosa intendere con la nozione di servizi analoghi, indicando alla lett. c) la vigilanza ed il controllo sull’esecuzione del contratto di servizio).
Il Consorzio appellato ha stipulato con il Co.It.Mo. S.c. a r.l. un contratto di avvalimento avente ad oggetto il requisito di capacità tecnico-professionale previsto dalla citata lett. c) del punto 1) ed il requisito di capacità economico-finanziaria di cui alla suesposta lett. c); ha, poi, stipulato un secondo contratto di avvalimento con l’ing. Ro. Lo Ca. concernente il requisito di capacità tecnico-professionale previsto dal punto 2).
7.- Ritiene la Sezione –diversamente da quanto ha orientato l’apprezzamento dei primi giudici– che i ridetti avvalimenti fossero solo in parte di mera garanzia, ma in altra (e decisiva) parte di carattere operativo: ciò deve dirsi, in particolare, per la messa a disposizione dell’esperienza professionale, nella specie, per giunta, correlata a servizi di natura intellettuale, come tali ad esecuzione necessariamente personale, quali la progettazione o la direzione dei lavori, la vigilanza e controllo sull’esecuzione del contratto di servizio (cfr., oggi, la rigorosa previsione dell’art. 89, 1° comma d.lgs. n. 50/2016, non applicabile ratione temporis, ma espressiva di un principio interpretativo generale già immanente nel sistema, alla luce della illustrata distinzione tipologica).
In relazione a questi ultimi era allora necessario, giusta le esposte premesse, che nel contratto fossero puntualmente indicati (e messi quindi, come tali, effettivamente e concretamente a disposizione dell’impresa ausiliata) i mezzi, gli strumenti e le competenze adeguati. E ciò anche al fine di consentire alla stazione appaltante la puntuale ed obiettiva verifica della effettività ed utilità dell’impegno promesso.
In realtà, nei contratti di avvalimento per cui è causa risulta omessa l’indicazione del professionista che aveva maturato l’esperienza nei settori in questione (vigilanza e controllo sull’esecuzione del contratto di servizio; progettazione e direzione dei lavori) e che avrebbe fatto parte del gruppo di professionisti incaricati di svolgere le attività concretamente oggetto di appalto.
Sotto il profilo (unico ed assorbente, stante la mancata riproposizione del ricorso incidentale escludente articolato in prime cure dall’appellata) in questione, per tal via, l’appello deve ritenersi fondato.
8.- Ne discende –con la riforma della impugnata statuizione– l’annullamento della disposta aggiudicazione.

EDILIZIA PRIVATA: Effetti del venir meno dell’ordinanza cautelare sull’ordine di demolizione.
La sentenza che rigetta il ricorso contro un’ordinanza di demolizione non fa venir meno gli effetti interinali prodotti dall’ordinanza cautelare di accoglimento dell’istanza di sospensiva e il termine di novanta giorni previsto dall’art. 31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 –considerata l’impossibilità di frazionamento di tale termine in quanto funzionale all’espletamento di una attività complessa– ricomincia a decorrere per intero (massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.it)
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8. In proposito il Collegio osserva quanto segue.
9. Come rilevato dai ricorrenti, l’ordinanza di demolizione n. 2713 del 28.03.2013 è stata da essi impugnata dinanzi a questo TAR che, con sentenza n. 2261/2014, ha respinto il ricorso. La sentenza è stata appellata dinanzi al Consiglio di Stato il quale, con ordinanza n. 5783 del 17.122014, ne ha sospeso l’esecutività in ragione dei danni che i provvedimenti impugnati avrebbero potuto arrecare ai ricorrenti.
10. Sebbene la pronuncia cautelare del giudice d’appello abbia come oggetto immediato la sentenza di primo grado, non può negarsi che essa abbia esteso i propri effetti anche nei confronti dell’ordinanza di demolizione, dovendosi altrimenti negare qualsiasi utilità della stessa. Ne consegue che, per effetto della pronuncia cautelare, l’ordine di demolizione è stato sospeso e che, quindi, i ricorrenti, dal giorno di pubblicazione dell’ordinanza del Consiglio di Stato, potevano legittimamente astenersi dal dare esecuzione al suddetto ordine in attesa della pronuncia di merito.
11. Il giudizio d’appello è stato definito con sentenza n. 1774 del 05.05.2016 che, respingendolo, ha confermato la validità ed efficacia dell’ordine di demolizione impartito dal Comune in data 28.03.2013. La sentenza ha travolto, con effetto ex tunc, gli effetti dell’ordinanza cautelare in precedenza emessa la quale è stata quindi completamente sostituita dalla prima divenuta unica fonte di regolazione del rapporto sostanziale.
12. Si deve tuttavia ritenere che la sentenza non abbia fatto venir meno gli effetti interinali prodotti dall’ordinanza cautelare. Non si può difatti trascurare il dato decisivo che –come anticipato– dal giorno di emissione di quest’ultima i ricorrenti potevano legittimamente astenersi dal dare esecuzione all’ordine di demolizione, e ciò sino all’emissione della pronuncia di merito.
13. Si deve quindi escludere che il suddetto periodo temporale possa rilevare ai fini dell’apprezzamento del rispetto dei termini per provvedere alla demolizione ordinata dal Comune di Lentate sul Seveso.
14. Ragionare a contrario porterebbe peraltro all’assurda conseguenza di azzerare quasi completamente l’utilità delle ordinanze cautelari emesse dal giudice amministrativo aventi ad oggetto le ordinanze di demolizione di opere ritenute abusive: i beneficiari della pronuncia giudiziale sarebbero comunque indotti a demolire al fine di scongiurare il rischio di perdere la proprietà dell’area di sedime in caso di esito sfavorevole del giudizio.
15. Ciò detto, deve rilevarsi che la sentenza con cui il Consiglio di Stato ha respinto il giudizio d’appello è stata pubblicata in data 05.05.2016, giorno da cui, per i motivi anzidetti, ha cominciato nuovamente a decorrere il termine di novanta giorni previsto dall’art. 31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001.
16. Si precisa peraltro che –considerata l’impossibilità di frazionamento di tale termine in quanto funzionale all’espletamento di una attività complessa– lo stesso ha ricominciato a decorrere per intero (cfr. sul punto TAR Sicilia Palermo, sez. II, 02.09.2016, n. 2094). In questo quadro si deve ritenere che, nel caso concrete, le demolizioni, avvenute prima dell’08.06.2016 (cfr. doc. 10 di parte ricorrente), non possono considerarsi tardive.
17. Ne consegue che, come anticipato, la censura in esame merita condivisione.
18. In conclusione, per le ragioni illustrate, il ricorso deve essere accolto e per l’effetto debbono essere annullati l’atto prot. n. 12929 del 13.06.2016 (nella parte in cui precisa che rimangono slavi gli effetti acquisitivi dell’area di sedime) nonché l’ordinanza n. 65 del 29.07.2016 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.02.2018 n. 573 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Calcolo della sanzione pecuniaria ex art. 34 del D.P.R. n. 380/2001.
Con riguardo al calcolo della sanzione pecuniaria ex art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, è corretta le decisione del comune di ancorarla al momento attuale, applicando le tariffe vigenti, e non a quello della realizzazione dell’abuso, in quanto si è al cospetto di un abuso di carattere permanente che non può consentire all’autore dell’illecito edilizio di ottenere un lucro legato al decorso del tempo.
La stima va effettuata in ogni caso al momento in cui il Comune irroga la sanzione pecuniaria, e non con riferimento alla data di accertamento dell’infrazione o di ultimazione dell’opera abusiva; ciò onde evitare che il responsabile dell’abuso possa ritrarre un indebito arricchimento per effetto dell’incremento del prezzo della costruzione successivo all’ultimazione dell’abuso e che la sanzione pecuniaria si concreti in un vantaggio economico rispetto all’alternativa costituita dalla sanzione demolitoria
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2. Passando all’esame del ricorso per motivi aggiunti, lo stesso non è fondato.
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3.4. Infine, con riguardo al calcolo della sanzione pecuniaria ex art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, appare corretta le decisione del Comune di ancorarla al momento attuale, applicando le tariffe vigenti, e non a quello della realizzazione dell’abuso, in quanto si è al cospetto di un abuso di carattere permanente che non può consentire all’autore dell’illecito edilizio di ottenere un lucro legato al decorso del tempo.
Secondo la giurisprudenza, infatti, “la stima va effettuata in ogni caso al momento in cui il Comune irroga la sanzione pecuniaria, e non con riferimento alla data di accertamento dell’infrazione o di ultimazione dell’opera abusiva. Ciò onde evitare che il responsabile dell’abuso possa ritrarre un indebito arricchimento per effetto dell’incremento del prezzo della costruzione successivo all’ultimazione dell’abuso e che la sanzione pecuniaria si concreti in un vantaggio economico rispetto all’alternativa costituita dalla sanzione demolitoria” (TAR Puglia, Bari, III, 15.06.2015, n. 877; altresì, Consiglio di Stato, IV, 24.11.2016, n. 4943; TAR Veneto, II, 07.12.2017, n. 1114) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.02.2018 n. 568 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Di regola, al fine di sanare un manufatto abusivo è richiesta la sussistenza del requisito della c.d. doppia conformità, ossia la garanzia del rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia sia al momento delle realizzazione dell’intervento che al momento della sanatoria, in assenza del quale l’opera conserva il suo carattere abusivo con tutte le conseguenze che ne discendono.
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2. Passando all’esame del ricorso per motivi aggiunti, lo stesso non è fondato.
3. Con le censure contenute nel citato ricorso per motivi aggiunti, da esaminare congiuntamente, si assume l’illegittimità della sanzione pecuniaria in quanto non si sostituirebbe, ma si aggiungerebbe a quella demolitoria, e comunque riguarderebbe un abuso non più attuale, visto che il nuovo strumento urbanistico comunale ha ridotto la fascia di rispetto cimiteriale; in ogni caso, la repressione dell’abuso sarebbe avvenuta a distanza di lungo tempo dalla sua commissione, ascrivibile peraltro ad un altro soggetto (il costruttore), in violazione dei principi di affidamento e buona fede dei destinatari dell’atto, come pure il calcolo della sanzione sostitutiva sarebbe stato effettuato prendendo in considerazione, illegittimamente, le tariffe attualmente in vigore, piuttosto che quelle vigenti all’epoca del commesso abuso.
3.1. Le censure sono infondate.
In primo luogo, va ribadito che la sanzione pecuniaria irrogata ai ricorrenti sostituisce quella demolitoria, come emerge con evidenza dallo stesso testo dell’ordinanza n. 259/2014 che richiama l’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001, che consente la conversione della misura ripristinatoria in quella pecuniaria laddove vi sia un pregiudizio per la parte eseguita in conformità in caso di esecuzione della demolizione; ciò è stato altresì confermato nella nota comunale, depositata in giudizio in data 03.04.2015 in esecuzione dell’ordinanza istruttoria n. 2988/2014.
3.2. Quanto all’intervenuta riduzione, attraverso l’approvazione del nuovo strumento urbanistico comunale, della fascia di rispetto cimiteriale e quindi alla sopraggiunta attuale conformità del fabbricato, va evidenziato che, di regola, al fine di sanare un manufatto abusivo è richiesta la sussistenza del requisito della c.d. doppia conformità, ossia la garanzia del rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia sia al momento delle realizzazione dell’intervento che al momento della sanatoria, in assenza del quale l’opera conserva il suo carattere abusivo con tutte le conseguenze che ne discendono (cfr. Consiglio di Stato, VI, 18.07.2016, n. 3194; TAR Lombardia, Milano, II, 28.07.2017, n. 1706).
Trattandosi di fabbricato realizzato in violazione del limite, allora vigente, della fascia di rispetto cimiteriale, lo stesso non può essere oggetto di sanatoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.02.2018 n. 568 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione, da adottare a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione e nemmeno rispetto ad un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia o alla necessità di tutelare il suo legittimo affidamento.
Inoltre, l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non certo ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva, infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione.
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3.3. Nemmeno possono essere accolti i rilievi formulati in relazione al lungo lasso di tempo trascorso tra l’abuso commesso e l’adozione dell’ordinanza di demolizione, poi convertita in sanzione pecuniaria, in violazione dei principi di affidamento e buona fede dei destinatari, che peraltro non hanno commesso direttamente l’abuso.
L’ordinanza di demolizione è stata motivata con l’avvenuta realizzazione di opere difformi rispetto a quanto autorizzato con i titoli edilizi e per la violazione della disciplina edilizia e urbanistica, determinandosi in tal modo la modifica dei parametri costruttivi, oltre che della localizzazione dell’edificio rispetto all’area di pertinenza.
Tale motivazione appare satisfattiva degli obblighi di legge, atteso che il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione, da adottare a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento, non richiede una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione e nemmeno rispetto ad un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia o alla necessità di tutelare il suo legittimo affidamento (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2018, n. 267).
Inoltre, l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non certo ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva, infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione (TAR Lombardia, Milano, II, 03.11.2016, n. 2013; TAR Sicilia, Catania, I, 20.09.2016, n. 2261; TAR Lazio, Roma, I-quater, 24.02.2016, n. 2588) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.02.2018 n. 568 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Effetti dell'approvazione del PTCP dopo la proposizione del ricorso avverso il PGT.
L’approvazione, successivamente alla proposizione del ricorso con il quale è stato impugnato un PGT, di provvedimenti che, anche a prescindere dalle previsioni di PGT, impediscono lo sfruttamento edilizio dell’area per cui è causa determina la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione sul ricorso avverso il PGT (nella fattispecie, successivamente alla proposizione del ricorso avverso la destinazione agricola impressa dal PGT all’area di proprietà del ricorrente, era intervenuto il PTCP, che aveva incluso detta area negli ambiti destinati all’attività agricola di interesse strategico di cui all’art. 15, comma 4, della l.r. n. 12 del 2005) (massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.it)
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Con il ricorso in esame viene principalmente impugnata la delibera di Consiglio comunale n. 5 del 16.03.2012 con la quale è stato approvato il piano di governo del territorio del Comune di Cerro Maggiore.
In particolare il ricorrente lamenta che con detto piano è stata attribuita ad un’area di sua proprietà –catastalmente identificata al foglio 16, mappali 84, 85 e 447– una disciplina pregiudizievole: l’area è stata ricompresa in zona agricola E2 all’interno del PLIS “il Mughetto”, con preclusione di ogni possibilità di sfruttamento edilizio (il ricorrente afferma di essere interessato allo sviluppo residenziale/industriale del sito).
...
Prima di passare all’esame del merito, occorre affrontare l’eccezione sollevata dall’Amministrazione nella memoria depositata in data 03.11.2017, nella quale si rileva che, successivamente alla proposizione del ricorso, è intervenuta l’approvazione, da parte della Provincia di Varese e della Provincia di Milano, degli atti con i quali è stato definitivamente istituito il PLIS “il Mughetto”. Inoltre, rileva ancora l’Amministrazione che –a seguito dell’approvazione del PTCP della Provincia di Milano, avvenuta successivamente alla proposizione del ricorso– l’area di proprietà del ricorrente medesimo è stata classificata come area agricola di interesse strategico.
Secondo l’Amministrazione, la mancata impugnazione di questi atti farebbe venir meno l’interesse del ricorrente ad ottenere la decisione del ricorso, posto che anche a seguito dell’annullamento del PGT impugnato, l’area di sua proprietà non potrebbe comunque essere sfrutta a fini edificatori.
Ritiene il Collegio che l’eccezione sia fondata per le ragioni di seguito esposte.
Come anticipato, con il ricorso in esame, il ricorrente impugna il PGT del Comune di Cerro Maggiore lamentando che lo strumento urbanistico ha dettato per la sua area una disciplina ritenuta pregiudizievole in quanto preclusiva dell’attuazione di interventi edilizi di natura residenziale ed industriale.
Ciò posto, si deve ora rilevare che –come evidenziato dall’Amministrazione resistente nelle proprie difese– successivamente alla proposizione del ricorso sono stati approvati provvedimenti che, comunque, anche a prescindere dalle previsioni di PGT., impediscono lo sfruttamento edilizio della suddetta area.
Non è invero contestato che il PTCP della Provincia di Milano, approvato con deliberazione di Consiglio provinciale n. 93 del 17.12.2013, ha incluso l’area di proprietà del ricorrente negli ambiti destinati all’attività agricola di interesse strategico di cui all’art. 15, comma 4, della legge regionale n. 12 del 2005.
Tale statuizione ha efficacia prescrittiva e prevalente sugli atti del PGT ai sensi dell’art. 18, comma 2, lett. c), della legge regionale n. 12 del 2005. Ciò significa che la disciplina riguardante l’area di cui è causa è dettata direttamente dal PTCP e che, quindi, l’annullamento del PGT comunale non arrecherebbe alcuna utilità al ricorrente: anche in caso di accoglimento del ricorso la sua area continuerebbe infatti a mantenere la vocazione agricola prescritta dalla strumento provinciale non impugnato e rimarrebbe dunque comunque preclusa ogni possibilità di sfruttamento edificatorio della stessa.
Né si può ritenere che l’annullamento del PGT abbia effetto caducante sul PTCP posto che trattasi di atti approvati da enti diversi, non facenti parte del medesimo iter procedimentale e non legati fra loro da un nesso di stretta consequenzialità.
In questo quadro si deve ritenere che, come sostiene correttamente l’Amministrazione, il ricorrente non possa avere alcun interesse ad ottenere una pronuncia di merito.
Va per queste ragioni dichiarata l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.02.2018 n. 562 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Raggruppamento di tipo verticale.
Le imprese concorrenti possono partecipare ad una gara pubblica utilizzando un raggruppamento di tipo verticale soltanto se, a prescindere dall’ambiguità della lex specialis di gara sul punto, sia ravvisabile nella configurazione concreta del servizio da svolgere una chiara suddivisione delle prestazioni da eseguire in principali e accessorie, pena un inammissibile indebolimento, stante la ripartizione rigida di responsabilità tra le imprese partecipanti al raggruppamento verticale in ordine alle rispettive prestazioni offerte, delle garanzie ordinamentali poste a tutela dell’amministrazione ai fini della corretta esecuzione dell’appalto.
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Nel merito, il primo motivo del ricorso principale è fondato.
Invero, dall’esame della lex specialis di gara non risulta in alcun modo evincibile una suddivisione tra prestazioni principali e prestazioni secondarie, risultando unitario l’impegno contrattuale da assumere ad esito dell’affidamento.
Ne consegue che, secondo quanto prescritto dall’art. 48, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, ultima parte (“le stazioni appaltanti indicano nel bando di gara la prestazione principale e quelle secondarie”), non essendovi stata tale indicazione, non vi erano i presupposti legali per la partecipazione alla gara tramite un raggruppamento di tipo “verticale”, al di là della mancata preclusione esplicita o implicita da parte della lex specialis di gara –anche con riferimento alle possibilità documentali offerte– della facoltà per le concorrenti di formulare concretamente la domanda indicando una qualsiasi composizione del raggruppamento scelto.
Invero, il Collegio aderisce all’orientamento giurisprudenziale –recentemente ribadito anche dalla Sezione con l’ordinanza n. 56 del 2018- secondo cui le imprese concorrenti possono partecipare ad una gara pubblica utilizzando un raggruppamento di tipo verticale soltanto se, a prescindere dall’ambiguità della lex specialis di gara sul punto, sia ravvisabile nella configurazione concreta del servizio da svolgere una chiara suddivisione delle prestazioni da eseguire in principali e accessorie, pena un inammissibile indebolimento, stante la ripartizione rigida di responsabilità tra le imprese partecipanti al raggruppamento verticale in ordine alle rispettive prestazioni offerte, delle garanzie ordinamentali poste a tutela dell’amministrazione ai fini della corretta esecuzione dell’appalto.
Nel caso di specie, come detto, il capitolato speciale d’appalto reca solamente l’elencazione di tutte le attività costituenti il servizio, per cui la ripartizione di tali attività tra mandante e mandataria risulta del tutto arbitraria.
Occorre infine specificare che non sussiste, come pare suggerire la difesa dell’amministrazione resistente, una questione di eventuale nullità della clausola che avrebbe disposto l’esclusione della concorrente che ha partecipato nell’ambito di un raggruppamento verticale di imprese, per violazione del principio di tassatività di tale tipo di clausole, in quanto, da un lato, tale clausola non è rinvenibile nella lex specialis di gara, dall’altro, l’essenzialità della corrispondenza tra suddivisione delle prestazioni da parte della stazione e possibilità di partecipazione di un raggruppamento di tipo verticale è direttamente prevista dal codice dei contratti pubblici, con disposizione che integra ex lege le regole di gara (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 27.02.2018 n. 551 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Principio di segretezza delle offerte.
La scelta di aggiudicare una gara (nella fattispecie gara per il servizio di noleggio pullman con conducente) con il criterio ordinario dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ai sensi dell’art. 95 del d.lgs. n. 50/2016, comporta l’assoggettamento della procedura concorsuale al principio di segretezza delle offerte.
Il principio che impone la segretezza delle offerte (a tutela dell'imparzialità delle operazioni di gara e della par condicio dei concorrenti) implica che —nei casi in cui la procedura di gara sia caratterizzata da una netta separazione tra la fase della valutazione dell'offerta tecnica e quella dell'offerta economica— le offerte economiche devono restare segrete fino alla conclusione della fase relativa alla valutazione di quelle tecniche, a presidio della genuinità, della trasparenza e della correttezza delle operazioni valutative, che resterebbero irrimediabilmente compromesse e inquinate da un'anticipata conoscenza del contenuto delle offerte economiche (nella fattispecie in questione il TAR Milano ha ritenuto violato il suddetto principio di segretezza delle offerte, in quanto la presentazione dell’offerta della controinteressata è avvenuta in un unico plico, senza alcuna separazione tra offerta tecnica ed economica; plico in cui era, peraltro, contenuta una lettera accompagnatoria che esplicitava lo sconto offerto)
(massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.it).
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Il ricorso è fondato.
Come risulta dalla documentazione versata in atti, la stazione appaltante, per l’affidamento del servizio di specie, si è determinata ad indire una gara a cinque inviti, adottando come criterio di aggiudicazione quello ordinario dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ai sensi dell’art. 95 del d.lgs. n. 50/2016.
La scelta di tale criterio di aggiudicazione comporta, dunque, l’assoggettamento della procedura concorsuale al principio di segretezza delle offerte.
Ed invero, come si evince dal costante orientamento della giurisprudenza amministrativa: “il principio che impone la segretezza delle offerte (a tutela dell'imparzialità delle operazioni di gara e della par condicio dei concorrenti) implica che — nei casi in cui la procedura di gara sia caratterizzata da una netta separazione tra la fase della valutazione dell'offerta tecnica e quella dell'offerta economica — le offerte economiche devono restare segrete fino alla conclusione della fase relativa alla valutazione di quelle tecniche, a presidio della genuinità, della trasparenza e della correttezza delle operazioni valutative, che resterebbero irrimediabilmente compromesse e inquinate da un'anticipata conoscenza del contenuto delle offerte economiche” (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. III, 03.04.2017, n. 1530).
Nella fattispecie in questione, la presentazione dell’offerta della controinteressata è avvenuta in un unico plico, senza alcuna separazione tra offerta tecnica ed economica, plico in cui era, peraltro, contenuta una lettera accompagnatoria che esplicitava uno sconto di € 2.300,00.
E’ stato, dunque, di certo reso conoscibile un elemento dell’offerta economica prima dell’attribuzione del punteggio tecnico, in violazione del succitato principio di segretezza delle offerte.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va accolto e, per l’effetto, va disposto l’annullamento dei provvedimenti impugnati, mentre non risulta che il contratto sia stato ancora stipulato, rendendo così inammissibile per difetto d’interesse la domanda proposta per la sua dichiarazione d’inefficacia.
La richiesta risarcitoria va parimenti respinta, trovando la ricorrente nella pronuncia d’annullamento degli atti di gara – con la conseguente sua possibile rinnovazione – pieno soddisfacimento del proprio interesse (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 26.02.2018 n. 531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIRicorsi dopo 30 giorni dall'aggiudicazione. Tar Piemonte.
Soltanto la pubblicazione del provvedimento di aggiudicazione definitiva fa decorrere i trenta giorni per l'impugnativa.
Lo ha stabilito il TAR Piemonte, Sez. II, con la sentenza 26.02.2018 n. 262 rispetto ad un bando per l'affidamento di un contratto pubblico tramite procedura negoziata (dei 20 invitati le offerte pervenite alla stazione appaltante sono state tre).
La questione è stata affrontata con riguardo all'ammissibilità del ricorso: la stazione appaltante sosteneva che il ricorso fosse tardivo nel presupposto che fossero stati superati i 30 giorni previsto dall'articolo 120, comma 2-bis, del codice del processo amministrativo.
La norma prevede che «il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni a essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi dell'articolo 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici».
Ad avviso della stazione appaltante il ricorso era tardivo perché ben avrebbe potuto l'impresa impugnare nei termini utili essendo intervenuta nella seduta di gara in cui era stata resa nota la lista dei concorrenti ammessi.
I giudici piemontesi smontano questa tesi affermando che
«secondo l'interpretazione preferibile, conforme ai principi della Costituzione e del diritto comunitario, il termine per l'impugnazione dell'ammissione di altri concorrenti non può decorrere dalla data della seduta pubblica di gara, anche qualora risulti che il legale rappresentante della società ricorrente sia stato ivi presente, poiché l'art. 120, comma 2-bis, del codice di procedura amministrativa prevede espressamente che il termine per l'impugnativa anticipata delle esclusioni e delle ammissioni decorra dalla pubblicazione sul profilo della stazione appaltante, effettuata ai sensi dell'art. 29 del dlgs n. 50 del 2016».
Pertanto, in difetto della pubblicità degli atti di cui si impone l'immediata impugnazione, la relativa decadenza processuale non può operare anche perché la natura derogatoria del rito «super accelerato non ammette interpretazioni estensive»
(articolo ItaliaOggi del 09.03.2018).
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MASSIMA
L’eccezione non può essere accolta.
L’Amministrazione non ha mai deliberato l’aggiudicazione definitiva dell’appalto. L’annullamento in autotutela della procedura di gara, infatti, è intervenuto subito dopo la mera proposta di aggiudicazione.
Il citato art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm. prevede che “Il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all’esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi dell’articolo 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici”.
Secondo l’interpretazione preferibile, conforme ai principi della Costituzione e del diritto comunitario,
il termine per l’impugnazione dell’ammissione di altri concorrenti non può decorrere dalla data della seduta pubblica di gara, anche qualora risulti che il legale rappresentante della società ricorrente sia stato ivi presente, poiché l’art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm. prevede espressamente che il dies a quo per l’impugnativa anticipata delle esclusioni e delle ammissioni decorra dalla pubblicazione sul profilo della stazione appaltante, effettuata ai sensi dell’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Il nuovo comma 2-bis dell’art. 120 è norma processuale di stretta interpretazione, derogatoria dei principi tradizionalmente affermati nel contenzioso sui pubblici appalti. Pertanto, in difetto del contestuale funzionamento del meccanismo di pubblicità degli atti di cui si impone l’immediata impugnazione, le relativa decadenza processuale non può operare, a causa della carenza del presupposto adempimento pubblicitario che garantisca la tempestiva informazione degli interessati circa l’identità delle imprese ammesse e la decorrenza del termine accelerato per l’impugnativa (così, tra molte: Cons. Stato, sez. III, 25.11.2016 n. 4994; TAR Puglia, Bari, sez. I, 07.12.2016 n. 1367; TAR Lazio, sez. III-quater, 22.08.2017 n. 9379; TAR Campania, Napoli, sez. V, 06.10.2017 n. 4689).
In presenza di dubbi esegetici sull’applicabilità del più rigoroso regime decadenziale, gli stessi devono essere risolti preferendo l’opzione meno sfavorevole per l’esercizio del diritto di difesa e, quindi, maggiormente conforme ai principi costituzionali espressi dagli artt. 24, 111 e 113 Cost., nonché al principio di effettività della tutela giurisdizionale nel settore degli appalti pubblici secondo le direttive europee (si veda, in proposito, TAR Piemonte, sez. I, 17.01.2018 n. 88, ove sono denunciati i profili di possibile incompatibilità del nuovo rito speciale con la direttiva 1989/665/CE e con l’art. 47 della Carta dei diritti UE).
Pertanto,
una volta esclusa l’applicazione del nuovo rito accelerato di cui all’art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm., non vi è che da richiamare l’orientamento giurisprudenziale consolidato che ha sempre negato valore provvedimentale autonomo all’atto di ammissione alla gara, consentendone l’impugnazione solo unitamente al provvedimento finale di aggiudicazione definitiva dell’appalto.
E ciò vale anche in presenza di quelle norme sostanziali e processuali di recente introduzione (l’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016, l’art. 120 cod. proc. amm.), che pretendono di qualificare alla stregua di “provvedimento” l’ammissione alla gara dei concorrenti, a conclusione della fase di verifica della documentazione amministrativa e dei requisiti di partecipazione.
Il legislatore, nella sua discrezionalità, può sì perseguire la maggiore celerità del procedimento di gara e prevedere più ristretti termini di impugnazione, sempre che siano rispettati i principi del giusto processo e dell’effettività della tutela. Ma il legislatore non può arbitrariamente alterare la natura delle cose. L’ammissione alla gara, come l’ammissione a qualsivoglia procedura concorsuale di evidenza pubblica, conserva il carattere di atto endoprocedimentale, che non attribuisce alcuna immediata utilità ai concorrenti ammessi e non arreca alcun pregiudizio immediato agli altri concorrenti.
L’onere di immediata impugnazione delle ammissioni altrui previsto dall’art. 120 cod. proc. amm., anche qualora il nuovo rito speciale superi il vaglio di legittimità comunitaria e costituzionale, non vale a conferire natura provvedimentale all’atto di ammissione.
Ne consegue che,
in assenza dell’adempimento pubblicitario prescritto dall’art. 29 del d.lgs. n. 50 del 2016, nessun onere di impugnazione sorge in capo ai concorrenti fino al momento dell’aggiudicazione definitiva dell’appalto, allorquando l’interesse ad estromettere (in via principale o incidentale) altri concorrenti può invece assumere consistenza reale, in vista del conseguimento dell’utilità correlata all’aggiudicazione del contratto.

APPALTI: In tema di valutazione dell’anomalia dell’offerta e del relativo procedimento di verifica, sono da considerare acquisiti i seguenti principi:
   - il procedimento di verifica dell’anomalia non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto: esso mira, in generale, a garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della sua offerta è l’effetto della valutazione (operata dall’amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere;
   - il corretto svolgimento del procedimento di verifica presuppone l’effettività del contraddittorio (tra amministrazione appaltante ed offerente), di cui costituiscono necessari corollari: l’assenza di preclusioni alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; la immodificabilità dell’offerta ed al contempo la sicura modificabilità delle giustificazioni, nonché l’ammissibilità di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l’offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell’aggiudicazione e a tale momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto;
   - il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta;
   - la valutazione di congruità deve essere, perciò, globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento che l’obiettivo dell’indagine è l’accertamento dell’affidabilità dell’offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che lo compongono: il che, beninteso, non impedisce all’amministrazione appaltante e, per essa, alla commissione di gara di limitarsi a chiedere le giustificazioni per le sole voci sospette di anomalia e non per le altre, giacché il concorrente, per illustrare la propria offerta e dimostrarne la congruità, può fornire spiegazioni e giustificazioni su qualsiasi elemento dell’offerta e quindi anche su voci non direttamente indicate dall’amministrazione come incongrue, così che se un concorrente non è in grado di dimostrare l’equilibrio complessivo della propria offerta attraverso il richiamo di voci ed elementi diversi da quelli individuati nella richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò non può essere ascritto a responsabilità della stazione appaltante per erronea o inadeguata formulazione della richiesta di giustificazioni.

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Fermi tali principi, che integrano il precipitato logico-assertivo del consolidamento giurisprudenziale in ordine alla decifrabilità dell’alveo di corretto svolgimento del (sub-) procedimento di verifica dell’anomalia, va –ulteriormente- rammentata la presenza di un omogeneamente costante insegnamento, secondo il quale il giudizio reso in esito, ha carattere ampiamente discrezionale e costituisce espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di manifesta e macroscopica erroneità e irragionevolezza.
Il giudice amministrativo può sì sindacare le valutazioni sotto i profili suindicati, ma non può in alcun caso procedere ad un’autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle sue singole voci, il che costituirebbe un’indebita invasione della sfera propria dell’amministrazione.
Tale giudizio e valutazione sull’offerta vale anche per le eventuali giustificazioni di prezzo proposte dalla concorrente, volte a fornire chiarimenti sulle offerte ritenute anomale.
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4.2 In tema di valutazione dell’anomalia dell’offerta e del relativo procedimento di verifica, sono da considerare acquisiti i seguenti principi (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. V, 23.01.2018 n. 430 e 30.10.2017, n. 4978):
   - il procedimento di verifica dell’anomalia non ha carattere sanzionatorio e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto: esso mira, in generale, a garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della sua offerta è l’effetto della valutazione (operata dall’amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere;
   - il corretto svolgimento del procedimento di verifica presuppone l’effettività del contraddittorio (tra amministrazione appaltante ed offerente), di cui costituiscono necessari corollari: l’assenza di preclusioni alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; la immodificabilità dell’offerta ed al contempo la sicura modificabilità delle giustificazioni, nonché l’ammissibilità di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l’offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell’aggiudicazione e a tale momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto;
   - il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta;
   - la valutazione di congruità deve essere, perciò, globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, dal momento che l’obiettivo dell’indagine è l’accertamento dell’affidabilità dell’offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che lo compongono: il che, beninteso, non impedisce all’amministrazione appaltante e, per essa, alla commissione di gara di limitarsi a chiedere le giustificazioni per le sole voci sospette di anomalia e non per le altre, giacché il concorrente, per illustrare la propria offerta e dimostrarne la congruità, può fornire spiegazioni e giustificazioni su qualsiasi elemento dell’offerta e quindi anche su voci non direttamente indicate dall’amministrazione come incongrue, così che se un concorrente non è in grado di dimostrare l’equilibrio complessivo della propria offerta attraverso il richiamo di voci ed elementi diversi da quelli individuati nella richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò non può essere ascritto a responsabilità della stazione appaltante per erronea o inadeguata formulazione della richiesta di giustificazioni (cfr. Cons. Stato, sez. V, 05.09.2014 n. 4516).
Fermi tali principi, che integrano il precipitato logico-assertivo del consolidamento giurisprudenziale in ordine alla decifrabilità dell’alveo di corretto svolgimento del (sub-) procedimento di verifica dell’anomalia, va –ulteriormente- rammentata la presenza di un omogeneamente costante insegnamento (ex plurimis, Cons. Stato, sez. V, 07.02.2018 n. 811), secondo il quale il giudizio reso in esito, ha carattere ampiamente discrezionale e costituisce espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di manifesta e macroscopica erroneità e irragionevolezza.
Il giudice amministrativo può sì sindacare le valutazioni sotto i profili suindicati, ma non può in alcun caso procedere ad un’autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle sue singole voci, il che costituirebbe un’indebita invasione della sfera propria dell’amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. III, 06.02.2017, n. 514).
Tale giudizio e valutazione sull’offerta vale anche per le eventuali giustificazioni di prezzo proposte dalla concorrente, volte a fornire chiarimenti sulle offerte ritenute anomale
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.02.2018 n. 234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Attività di demolizione edifici (o strade) - Definizione di processo di produzione - Qualifica di rifiuti e non di sottoprodotti - Presupposti normativi - Art. 184-bis e 256 d.lgs. n. 152/2006..
L'attività di demolizione edifici (o strade) non può essere definita un "processo di produzione" quale quello indicato nell'art. 184-bis, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006, con la conseguenza che i materiali che ne derivano vanno qualificati come rifiuti e non come sottoprodotti (Sez. 3, n. 33028 del 01/07/2015, Giulivi).
RIFIUTI - Raccolta e stoccaggio di rifiuti speciali non pericolosi - Attività di demolizione di manufatti da diversi cantieri - Regime giuridico più favorevole - Qualifica di Sottoprodotti e sussistenza dei presupposti - Necessità - Intenzioni del produttore e osservanza delle disposizioni - Deposito temporaneo - Gestione e smaltimento dei rifiuti - Fattispecie - Artt. 183, 184, 184-bis e 256 d.lgs. n. 152/2006.
I materiali stoccati su un terreno, divisi in tre cumuli a seconda della natura (residui legnosi, rottami metallici e macerie di demolizioni frammiste a residui bituminosi di asfalto) -provenienti da demolizioni di fabbricati e strade- sono da ricomprendere certamente nella corretta qualificazione in termini di rifiuto, rientrando gli stessi nella definizione di cui all'art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006 («qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi, o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi») ed essendo gli stessi qualificabili come rifiuti speciali a norma dell'art. 184, comma 3, lett. b), d.lgs. 152/2006.
Al di là, delle intenzioni del produttore, scaturisce l'obbligo di disfarsi di tali materiali con l'osservanza delle disposizioni dettate in materia di gestione e smaltimento dei rifiuti, salva la possibilità di dimostrare la sussistenza dei presupposti per l'applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al "deposito temporaneo" o al "sottoprodotto" (Cass. Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, Favazzo e a.) (nella specie, risultava pacifico che i materiali non furono prodotti nel luogo in cui erano stoccati; pertanto, provenendo da diversi altri cantieri, non ricorreva innanzitutto l'ipotesi del deposito temporaneo, che, per l'art. 183, lett. bb) -a tacer d'altro- richiede appunto che il raggruppamento avvenga nel luogo in cui gli stessi sono prodotti. In secondo luogo, non era neppure invocabile la categoria del "sottoprodotto", che per l'art. 184-bis, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006 si ha -ricorrendo anche le altre condizioni previste dalla disposizione- quando «la sostanza o l'oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto») (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2018 n. 8848 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Le attività di demolizione di manufatti possono originare sottoprodotti?
Il sottoprodotto, come definito dall’art. 184-bis del D.L.vo 152/2006, deve trarre origine, quindi provenire direttamente, da un processo di produzione, vale a dire da un'attività chiaramente finalizzata alla realizzazione di un qualcosa, che viene ottenuto attraverso la lavorazione o la trasformazione di altri materiali (sebbene una simile descrizione non possa ritenersi esaustiva, in considerazione delle molteplici possibilità offerte dalla tecnologia).
Le attività di mera demolizione di manufatti (ad esempio, di edifici o strade), non essendo sono finalizzate alla produzione di alcunché, non possono, quindi, essere definite un processo di produzione quale quello indicato dalla norma citata: di conseguenza, i materiali che ne originano non sono mai sottoprodotti, ma solo rifiuti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2018 n. 8848 - massima tratta da www.tuttoambiente.it).
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I ricorsi sono manifestamente infondati.
1. Con riguardo al primo motivo, osserva la Corte che,
risultato pacifico che i materiali stoccati nel terreno di proprietà della G. Snc -quantificati in circa 1.500 mc. e divisi in tre cumuli a seconda della natura (residui legnosi, rottami metallici e macerie di demolizioni frammiste a residui bituminosi di asfalto)- provenivano da demolizioni di fabbricati e strade altrove effettuate dalla società, risulta allora certamente corretta la loro qualificazione in termini di rifiuto effettuata dal giudice di merito, rientrando gli stessi nella definizione di cui all'art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006 («qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi, o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi») ed essendo gli stessi qualificabili come rifiuti speciali a norma dell'art. 184, comma 3, lett. b), d.lgs. 152/2006.
Al di là, difatti, delle intenzioni del produttore,
è certo che G. Snc aveva l'obbligo di disfarsi di tali materiali con l'osservanza delle disposizioni dettate in materia di gestione e smaltimento dei rifiuti, salva la possibilità di dimostrare la sussistenza dei presupposti per l'applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al "deposito temporaneo" o al "sottoprodotto" (cfr. Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, Favazzo e a., Rv. 264121).
2. Nei ricorsi in esame, peraltro, non si prende posizione sul regime giuridico -alternativo a quello dei rifiuti- che sarebbe nella fattispecie applicabile, sicché gli stessi difettano sul punto di specificità ed appaiono comunque manifestamente infondati, emergendo dal non contestato accertamento effettuato nella sentenza impugnata come difettino i presupposti per una diversa qualificazione.
Ed invero,
pacifico essendo che i materiali non furono prodotti nel luogo in cui erano stoccati, provenendo da diversi altri cantieri, non ricorre innanzitutto l'ipotesi del deposito temporaneo, che, per l'art. 183, lett. bb) -a tacer d'altro- richiede appunto che il raggruppamento avvenga nel luogo in cui gli stessi sono prodotti. In secondo luogo, non è neppure invocabile la categoria del "sottoprodotto", che per l'art. 184-bis, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006 si ha -ricorrendo anche le altre condizioni previste dalla disposizione- quando «la sostanza o l'oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto».
Orbene, il Collegio condivide il principio, che va qui ribadito, secondo cui
l'attività di demolizione edifici (o strade) non può essere definita un "processo di produzione" quale quello indicato dalla menzionata norma, con la conseguenza che i materiali che ne derivano vanno qualificati come rifiuti e non come sottoprodotti (Sez. 3, n. 33028 del 01/07/2015, Giulivi, Rv. 264203).
Per la citata disposizione, di fatti,
il sottoprodotto deve "trarre origine" -quindi provenire direttamente- da un "processo di produzione", dunque da un'attività chiaramente finalizzata alla realizzazione di un qualcosa ottenuto attraverso la lavorazione o la trasformazione di altri materiali (sebbene una simile descrizione non possa ritenersi esaustiva, in considerazione delle molteplici possibilità offerte dalla  tecnologia).
Le attività di mera demolizione di manufatti -quali effettuate dalla G. secondo l'accertamento, non contestato, contenuto a pag. 1 della motivazione della sentenza impugnata- non sono dunque finalizzate alla produzione di alcunché e non originano mai sottoprodotti, ma solo rifiuti.

URBANISTICA: Imposizione di obblighi aggiuntivi in una convenzione urbanistica.
Le amministrazioni comunali non possono imporre ai privati, che intendano dare esecuzione alle previsioni di piano, l’obbligo di corrispondere somme aggiuntive rispetto a quanto da essi dovuto a titolo di contributo di costruzione ai sensi dell'art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, ed in Regione Lombardia, dell'art. 43 L.R. n. 12/2005, ciò che contrasterebbe infatti con l'art. 23 Cost., che vieta l'imposizione di prestazioni personali o patrimoniali che non siano previste dalla legge.
Detta regola subisce tuttavia un’eccezione nell'ambito della pianificazione attuativa, allorquando privato e Comune stipulino una convenzione urbanistica che accede al piano, atteso che, in questo caso, gli obblighi aggiuntivi di cui il privato si fa carico non sono imposti unilateralmente, ma da lui assunti liberamente, nell'esercizio della propria autonomia negoziale (nella fattispecie il TAR ha ritenuto legittimo il provvedimento con cui il Comune, nell’autorizzare un progetto di riqualificazione di un condominio, ha ritenuto di costituire una servitù onerosa di veduta in favore di detto immobile, e a carico dell’area adiacente, adibita a Parco Comunale, ha approvato la bozza del relativo contratto e ne ha quantificato il corrispettivo, essendo stato adottato su istanza del privato e sulla base di presupposti dallo stesso condivisi)
 (massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.it).
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II.1) Quanto al merito, in via preliminare, osserva il Collegio che, come correttamente evidenziato dai ricorrenti, le amministrazioni comunali non possono imporre ai privati, che intendano dare esecuzione alle previsioni di piano, l’obbligo di corrispondere somme aggiuntive rispetto a quanto da essi dovuto a titolo di contributo di costruzione ai sensi dell'art. 16 del D.P.R. n. 380/2001, ed in Regione Lombardia, dell'art. 43 L.R. n. 12/2005, ciò che contrasterebbe infatti con l'art. 23 Cost., che vieta l'imposizione di prestazioni personali o patrimoniali che non siano previste dalla legge (Cass. Civ., Sez. Un., 13.06.2008, n. 15914, C.S., Sez. I, 21.03.2013, n. 5300).
Detta regola subisce tuttavia un’eccezione nell'ambito della pianificazione attuativa, allorquando, come avvenuto nella fattispecie, privato e Comune stipulino una convenzione urbanistica che accede al piano, atteso che, in questo caso, gli obblighi aggiuntivi di cui il privato si fa carico, non sono imposti unilateralmente, ma da lui assunti liberamente, nell'esercizio della propria autonomia negoziale (C.S., Sez. IV, 28.07.2005, n. 4015, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 26.04.2017, n. 946) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.02.2018 n. 519 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria e requisito della doppia conformità - Permesso di costruire in sanatoria - Limiti - Asservimento attraverso l’accorpamento di terreni adiacenti - Fattispecie: piscina interrata e opere connesse - Artt. 31, 36, 44 e 45 d.P.R. 380/2001.
In materia urbanistica, la configurabilità del necessario requisito della doppia conformità affinché il permesso di costruire in sanatoria determini l'effetto estintivo del reato, di cui all'art. 45, ultimo comma, del d.P.R. n. 380 del 2011, deve essere escluso non soltanto quando la conformità delle opere consegua a una modifica della disciplina di riferimento o degli strumenti urbanistici che regolano l'assetto del territorio, ma anche quando essa derivi da una modifica della sola situazione di fatto, come nel caso dell'asservimento di una maggiore superficie alla costruzione già realizzata, attraverso l'accorpamento di terreni adiacenti.
Sanatoria degli abusi edilizi e estinzione del reato - Doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica - Limiti alla legittimazione postuma di opere originariamente abusive - C.d. sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria" - Fattispecie: asservimento della volumetria necessaria espressa da un fondo limitrofo.
La sanatoria degli abusi edilizi idonea, ai sensi dell'art. 45 d.P.R. n. 380 del 2001, ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. d.P.R. 380/2001, non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. d.P.R. 380/2001 e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica.
Deve, dunque, escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, successivamente, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015, Bonarota, resa in ipotesi di illegittimo rilascio di un permesso di costruire in sanatoria rilasciato per intervento eseguito su particella catastale alla quale, successivamente all'abuso, era stata asservita altra particella al fine di superare il limite di cubatura stabilito dalle previsioni urbanistiche).
Tale considerazione discende dal rilievo che la sanatoria prevista dall'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, già disciplinata dall'art. 13 della L. n. 47 del 1985, è diretta a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione sia in quello presentazione dell'istanza di conformità.
Nella fattispecie, la conformità agli strumenti urbanistici, che ha determinato il rilascio del permesso di costruire, è stata ottenuta successivamente alla realizzazione delle opere, mediante l'asservimento della volumetria espressa da un fondo limitrofo al terreno su cui erano state edificate le opere in assenza di permesso di costruire e in totale difformità da quello ottenuto in precedenza, con il conseguente aumento dell'area disponibile (da 10.040,00 metri quadrati a 18.220,00 metri quadrati) e il raggiungimento dei limiti di superficie necessari per la lecita realizzazione delle opere.
Doppia conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia - Criteri di verifica - Fattispecie: asservimento di maggiori superfici a quelle originariamente disponibili.
Il riferimento dell'art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 alla conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione dell'opera non può che essere inteso con riferimento alla situazione di fatto di tale epoca, sulla base della quale dovrà, necessariamente, essere verificata detta conformità, posto che tale indagine non può non tenere conto dello stato di fatto esistente al momento della realizzazione delle opere, sulla base del quale dovrà, quindi, esserne verificata la conformità agli strumenti urbanistici dell'epoca, nonché a quelli vigenti al momento del rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
Sicché, il solo asservimento di maggiori superfici a quelle originariamente disponibili non consente, pertanto, di ritenere che le opere fossero assentibili anche al momento della loro realizzazione in assenza di permesso di costruire o in totale difformità da quello ottenuto, posto che la situazione di fatto esistente in tale momento non lo consentiva e che la sola modifica successiva di tale situazione non consente di ritenere che anche in precedenza dette opere fossero conformi agli strumenti urbanistici vigenti.
Mancanza del requisito della doppia conformità - Effetti della c.d. sanatoria impropria - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Revoca dell'ordine di demolizione - Giurisprudenza.
La cosiddetta sanatoria impropria, una volta ottenuta, pur non determinando l'estinzione del reato ascritto a causa della mancanza del requisito della doppia conformità richiesto dall'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, comporta l'attuale conformità urbanistica delle opere realizzate, con la conseguente necessità di revocare il relativo ordine di demolizione, in quanto sarebbe incongruo procedere alla demolizione di un manufatto originariamente abusivo ma poi assentito (Cass. Sez. 3, n. 14329 del 10/01/2008, Iacono Ciulla; Sez. 3, n. 24273 del 24/03/2010, Petrone; Sez. 3, n. 24410 del 09/02/2016, Pezzuto) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.02.2018 n. 8540 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Carattere della pertinenza - Presupposti per l'esclusione del permesso di costruire - Oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale - Sfornito di un autonomo valore di mercato - Volume non superiore al 20% di quello dell'edificio cui accede.
Affinché un manufatto presenti il carattere di pertinenza, tale da non richiedere per la sua realizzazione il permesso di costruire, è necessario che esso sia preordinato a un'oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale, sia sfornito di un autonomo valore di mercato, sia di volume non superiore al 20% di quello dell'edificio cui accede, di guisa da non consentire, rispetto a quest'ultimo e alle sue caratteristiche, una destinazione autonoma e diversa (Cass., Sez. 3, n. 52835 del 14/07/2016, Fahrni; conf. Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno; Sez. 3, n. 6593 del 24/11/2011, Chiri; Sez. 3, n. 39067 del 21/05/2009, Vitti; Sez. 3, n. 37257 del 11/06/2008, Alexander) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.02.2018 n. 8540 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui la sanatoria degli abusi edilizi idonea, ai sensi dell'art. 45 d.P.R. n. 380 del 2001, ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. cit., non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica.
Deve, dunque, escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, successivamente, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica.
Tale considerazione discende dal rilievo che la sanatoria prevista dall'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, già disciplinata dall'art. 13 della l. n. 47 del 1985, è diretta a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione sia in quello presentazione dell'istanza di conformità.
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La cosiddetta sanatoria impropria ottenuta dalla ricorrente, pur non determinando l'estinzione del reato ascrittole, a causa della mancanza del requisito della doppia conformità richiesto dall'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, comporta l'attuale conformità urbanistica delle opere dalla stessa realizzate, con la conseguente necessità di revocare il relativo ordine di demolizione, in quanto sarebbe incongruo procedere alla demolizione di un manufatto originariamente abusivo ma poi assentito.
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1. Il ricorso è fondato solamente in relazione al terzo motivo.
2. Il primo motivo, mediante il quale sono stati denunciati violazione degli artt. 36 e 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001 e vizio della motivazione, per l'errata considerazione della portata del permesso di costruire in sanatoria ottenuto dalla ricorrente, di cui sarebbe stato indebitamente escluso l'effetto estintivo del reato ascrittole, non è fondato.
Va al riguardo ricordato che
costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui la sanatoria degli abusi edilizi idonea, ai sensi dell'art. 45 d.P.R. n. 380 del 2001, ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. cit., non ammettendo termini o condizioni, deve riguardare l'intervento edilizio nel suo complesso e può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto, che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, solo successivamente, in applicazione della cosiddetta sanatoria "giurisprudenziale" o "impropria", siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260973; conf. Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015, Carratù Rv. 266034; Sez. 3, n. 24451 del 26/04/2007, Micolucci, Rv. 236912).
Deve, dunque, escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, successivamente, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015, Bonarota, Rv. 262422, resa in ipotesi di illegittimo rilascio di un permesso di costruire in sanatoria rilasciato per intervento eseguito su particella catastale alla quale, successivamente all'abuso, era stata asservita altra particella al fine di superare il limite di cubatura stabilito dalle previsioni urbanistiche).
Tale considerazione discende dal rilievo che
la sanatoria prevista dall'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, già disciplinata dall'art. 13 della l. n. 47 del 1985, è diretta a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione sia in quello presentazione dell'istanza di conformità (cfr. Tar Campania, Sez. VIII, Sentenza 05.12.2016 n. 5611).
Nel caso in esame la conformità agli strumenti urbanistici, che ha determinato il rilascio del permesso di costruire, è stata ottenuta successivamente alla realizzazione delle opere, mediante l'asservimento della volumetria espressa da un fondo limitrofo al terreno su cui erano state edificate le opere in assenza di permesso di costruire e in totale difformità da quello ottenuto nel 2003, con il conseguente aumento dell'area disponibile (da 10.040,00 metri quadrati a 18.220,00 metri quadrati) e il raggiungimento dei limiti di superficie necessari per la lecita realizzazione delle opere.
Ciò, tuttavia, esclude la configurabilità del necessario requisito della doppia conformità richiesto affinché il permesso di costruire in sanatoria determini l'effetto estintivo del reato di cui all'art. 45, ultimo comma, del d.P.R. n. 380 del 2011, giacché tale requisito deve essere escluso non soltanto quando la conformità delle opere consegua a una modifica della disciplina di riferimento o degli strumenti urbanistici che regolano l'assetto del territorio, ma anche quando essa derivi da una modifica della sola situazione di fatto, come nel caso dell'asservimento di una maggiore superficie alla costruzione già realizzata, attraverso l'accorpamento di terreni adiacenti.
Il riferimento dell'art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 alla conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione dell'opera non può che essere inteso con riferimento alla situazione di fatto di tale epoca, sulla base della quale dovrà, dunque, necessariamente, essere verificata detta conformità, posto che tale indagine non può non tenere conto dello stato di fatto esistente al momento della realizzazione delle opere, sulla base del quale dovrà, quindi, esserne verificata la conformità agli strumenti urbanistici dell'epoca, nonché a quelli vigenti al momento del rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
Il solo asservimento di maggiori superfici a quelle originariamente disponibili non consente, pertanto, di ritenere che le opere fossero assentibili anche al momento della loro realizzazione in assenza di permesso di costruire o in totale difformità da quello ottenuto, posto che la situazione di fatto esistente in tale momento non lo consentiva e che la sola modifica successiva di tale situazione non consente di ritenere che anche in precedenza dette opere fossero conformi agli strumenti urbanistici vigenti.
Correttamente, dunque, la Corte d'appello ha escluso l'invocata portata estintiva del reato ascritto alla ricorrente del permesso di costruire in sanatoria dalla stessa ottenuto, non sussistendo la conformità delle opere al momento della loro realizzazione, con la conseguente manifesta infondatezza delle doglianze di violazione di legge e vizio della motivazione sollevate dalla Pe. con il primo motivo di ricorso.
...
4. Il terzo motivo, mediante il quale è stata lamentata l'indebita subordinazione della sospensione condizionale della pena alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi, risulta, alla luce del rilascio del permesso di costruire in sanatoria, fondato.
La cosiddetta sanatoria impropria ottenuta dalla ricorrente, pur non determinando l'estinzione del reato ascrittole, a causa della mancanza del requisito della doppia conformità richiesto dall'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, comporta l'attuale conformità urbanistica delle opere dalla stessa realizzate, con la conseguente necessità di revocare il relativo ordine di demolizione, in quanto sarebbe incongruo procedere alla demolizione di un manufatto originariamente abusivo ma poi assentito (cfr. Sez. 3, n. 14329 del 10/01/2008, Iacono Ciulla, Rv. 239708; Sez. 3, n. 24273 del 24/03/2010, Petrone, Rv. 247791; Sez. 3, n. 24410 del 09/02/2016, Pezzuto, Rv. 267192) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.02.2018 n. 8540).

EDILIZIA PRIVATA: Una piscina non può essere considerata quale "pertinenza" vista l'idoneità ad un utilizzo autonomo della medesima, in considerazione delle sue dimensioni, come pure dei manufatti a essa accessori, trattandosi di una piscina interrata di forma rettangolare, delle dimensioni di metri 7,70x13,35, profonda circa metri 2,30, di un vano interrato delle dimensioni di metri 2,00x2,00x2,70, di due docce in muratura e di un bagno retrostante, delle dimensioni di metri 1,70x1,20, di cui, oltre a non emergere la destinazione a una oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale.
Affinché un manufatto presenti il carattere di pertinenza, tale da non richiedere per la sua realizzazione il permesso di costruire, è necessario che esso sia preordinato a un'oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale, sia sfornito di un autonomo valore di mercato, sia di volume non superiore al 20% di quello dell'edificio cui accede, di guisa da non consentire, rispetto a quest'ultimo e alle sue caratteristiche, una destinazione autonoma e diversa.
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1. Il ricorso è fondato solamente in relazione al terzo motivo.
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3. Il secondo motivo, mediante il quale sono stati prospettati ulteriori vizi delle motivazione e altre violazioni degli artt. 31 e 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, in relazione alla affermazione della configurabilità di illeciti urbanistici anche con riferimento alla realizzazione di una piscina e dei relativi manufatti di servizio, stante il loro carattere pertinenziale, per effetto del quale sarebbero realizzabili mediante semplici denunzia di inizio attività o segnalazione certificata di inizio attività, e anche con riferimento alla modesta entità delle altre difformità contestate, è anch'esso infondato.
Affinché un manufatto presenti il carattere di pertinenza, tale da non richiedere per la sua realizzazione il permesso di costruire, è necessario che esso sia preordinato a un'oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale, sia sfornito di un autonomo valore di mercato, sia di volume non superiore al 20% di quello dell'edificio cui accede, di guisa da non consentire, rispetto a quest'ultimo e alle sue caratteristiche, una destinazione autonoma e diversa (così, da ultimo, Sez. 3, n. 52835 del 14/07/2016, Fahrni, Rv. 268552; conf. Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno, Rv. 253064; Sez. 3, n. 6593 del 24/11/2011, Chiri, Rv. 252442; Sez. 3, n. 39067 del 21/05/2009, Vitti, Rv. 244903; Sez. 3, n. 37257 del 11/06/2008, Alexander, Rv. 241278).
Una tale analisi è stata del tutto omessa dalla ricorrente, che pure ne sarebbe stata onerata alla luce della sua allegazione difensiva, non avendo indicato alcunché circa il rapporto tra la piscina e il fabbricato cui essa accede, ed avendo, anzi, compiuto una valutazione parcellizzata delle opere prive di permesso di costruire o realizzate in totale difformità da quello ottenuto, volta a sminuirne l'incidenza, dovendo, invece, essere compiuta una valutazione complessiva dell'opera (cfr., Sez. 3, n. 15442 del 26/11/2014, Prevosto, Rv. 263339; Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Casciato, Rv. 263473), onde qualificarla, accertare il suo completamento, verificarne la rispondenza agli strumenti urbanistici e stabilirne anche il regime di assentibilità.
Dalla sola descrizione delle opere contenuta nella imputazione emerge, comunque, l'idoneità a un utilizzo autonomo della piscina, in considerazione delle sue dimensioni, come pure dei manufatti a essa accessori, trattandosi di una piscina interrata di forma rettangolare, delle dimensioni di metri 7,70x13,35, profonda circa metri 2,30, di un vano interrato delle dimensioni di metri 2,00x2,00x2,70, di due docce in muratura e di un bagno retrostante, delle dimensioni di metri 1,70x1,20, di cui, oltre a non emergere la destinazione a una oggettiva esigenza funzionale dell'edificio principale, riguardo alla quale la ricorrente non ha prospettato nulla di specifico (se non la generica qualificabilità di una piscina come pertinenza), si ricava senza necessità di indagini tecniche l'idoneità a un utilizzo autonomo.
L'incidenza delle altre opere realizzate in totale difformità dal permesso di costruire (costituite da una scala scoperta in posizione e di dimensioni diverse rispetto a quelle autorizzate, una maggiore profondità del porticato, un ampliamento dell'immobile e dalla modifica della sua partizione interna) è stata valutata, nel suo complesso, come determinante una variazione essenziale, e si tratta di valutazione unitaria e sintetica corretta dal punto di vista metodologico e non sindacabile sul piano del merito nel giudizio di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 40541 del 18/06/2014, Cínelli, Rv. 260652), posto che, come emerge dalla descrizione delle opere, non si tratta di mere difformità esecutive o di diverse modalità di realizzazione dell'opera, ma di opere incidenti sulla struttura e sulla conformazione dell'edificio.
Ne consegue, in definitiva, la manifesta infondatezza anche del secondo motivo dì ricorso
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.02.2018 n. 8540).

SEGRETARI COMUNALI: Rogito del Segretario comunale e delitto di falso.
Se la donazione è palesemente fasulla va esclusa la ricorribilità della teoria del falso innocuo.

Il Segretario di un Comune del territorio comasco veniva riconosciuto responsabile del delitto di falso in atto pubblico fidefacente, di cui agli artt. 479 e 476, comma 2, cod. pen., per avere, nella veste appunto di alto funzionario pubblico, stipulato un contratto di donazione di beni immobili, attestando falsamente la contestuale presenza dei testimoni e delle parti al momento della sottoscrizione dell'atto.
La Corte di Appello di Milano, nel luglio 2016, confermava infatti la sentenza del G.i.p. del Tribunale di Como, che, nel 2011, aveva riconosciuto colpevole il Segretario: il quale ha proposto ricorso per cassazione, allegando un unico –curioso– motivo di diritto: quello per il quale la radicale inesistenza dell'atto di donazione derivante dal contrasto con norme imperative (pacificamente violate nel caso in esame, posto che era rimasto accertato che le parti non erano presenti alla stipula dell'atto e che, diversamente da quanto attestato dal pubblico ufficiale, non ne avevano ricevuto lettura e non l'avevano sottoscritto al momento del rogito), avrebbe reso lo strumento di liberalità privo di giuridica rilevanza, con la conseguente necessità di qualificare le attestazioni non rispondenti al vero del pubblico ufficiale come mere falsità innocue.
La Corte di Cassazione ha smentito la tesi del ricorrente e con sentenza 20.02.2018 n. 8200 della V Sez. penale, ha confermato la condanna.
I giudici di legittimità hanno dapprima sottolineato che la fonte della competenza per i Segretari comunali a stipulare atti negoziali è da individuare nell'art 97, lett. c), del D.L.vo 18.08.2000 n. 267 (T.U.E.L.), il quale ha statuito che questi possono “rogare tutti i contratti nei quali l'ente è parte ed autenticare scritture private ed atti unilaterali nell'interesse dell'Ente”.
Sicché, alla stregua della disciplina richiamata, il segretario comunale è l'ufficiale rogante del Comune, e cioè il funzionario dell'Ente locale competente alla stipulazione dei contratti in alternativa al notaio. Il contratto stipulato con l'osservanza della “forma pubblica amministrativa” -che è quella in cui l'ufficiale rogante è proprio il Segretario comunale- è atto pubblico (art. 2699 Cod. civ.; art. 16, comma 3, R.D. 18.11.1923 n. 2440) dotato dell'efficacia propria di questo (art. 2700 Cod. civ.), trattandosi di documento ricevuto da pubblico ufficiale, diverso da notaio, autorizzato per legge ad attribuirgli pubblica fede.
Poiché non è dettata un'espressa disciplina sulle formalità dei contratti stipulati in forma pubblica amministrativa, limitandosi l'art. 96 del citato R.D. 23.05.1924 n. 827, a stabilire che detti contratti "sono ricevuti con l'osservanza delle norme prescritte dalla legge notarile per gli atti notarili, in quanto applicabili", deve inferirsi che trovi conferma la tradizionale impostazione che considera l'atto notarile quale schema paradigmatico di atto pubblico.
Da tali premesse la Corte ha fatto derivare il convincimento in forza del quale la tesi difensiva -che vuole che l’atto adottato non fosse suscettivo di falso, perché privo della possibilità di generare nocumento del bene giuridico tutelato dalla legge penale, cioè la fede pubblica, (secondo il noto bocardo non datur falsum in scriptura quae non est apta nocere)– non poteva dirsi fondata: da qui l’ineluttabile conseguenza che le attestazioni contrarie al vero contenute nell'atto pubblico di cui al caso esaminato –ricadenti sulle circostanze che tutte le parti del contratto fossero presenti; che dell'atto fosse stato data lettura e che lo stesso fosse stato sottoscritto dai donanti e dalla parte donataria al cospetto del pubblico ufficiale rogante– tradiscono la funzione autenticativa e certificativa che è propria del pubblico ufficiale equiparato al notaio e sono, in sé, capaci di ledere il bene giuridico della fede pubblica e dell'affidamento dei terzi, poiché comprovano, con il crisma probatorio della verità, l'esistenza di un fatto in realtà inesistente. E ciò è sufficiente ai fini della configurazione del contestato reato di falso ideologico.
Né a dire, ha sottolineato la Corte, che potessero ricavarsi argomenti a favore della teoria del cosiddetto “falso innocuo”, tenuto conto che, alla stregua di tale elaborazione, il falso può dirsi inutile o superfluo, quando la condotta, pur afferendo al significato letterale di un atto, non incide sul suo significato comunicativo, nel senso che l'infedele attestazione (nel falso ideologico) o l'alterazione (nel falso di falso materiale) sono del tutto irrilevanti ai fini del significato dell'atto, non esplicando effetti sulla funzione documentale, dell'atto stesso, di attestazione dei dati in esso indicati.
Dal che è agevole desumere che l'innocuità non deve essere valutata con riferimento all'uso che dell'atto falso venga fatto, ma deve emergere direttamente dall'atto stesso. Poiché, nel caso scrutinato, la non conformità al vero delle circostanze attestate dal pubblico ufficiale rogante non era evincibile dall'atto-documento stesso, ma costituiva il risultato di un'attività accertativa aliunde eseguita, l'invocata innocuità del falso non è stata ritenuta ricorrente (commento tratto da www.gazzettaamministrativa.it).
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MASSIMA
Il ricorso è manifestamente infondato
1. Giova precisare che il codice civile, dopo avere fornito, all'art. 769, la definizione di donazione quale:
«contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l'altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un'obbligazione», stabilisce, all'art.782, quale sia la forma di tale contratto, disponendo che: «La donazione deve essere fatta per atto pubblico, sotto pena di nullità».
Donde, dal richiamo degli evocati parametri normativi, è evincibile l'errore nel quale è caduta la ricorrente, la quale ha confuso il negozio giuridico con il quale l'ordinamento consente il perseguimento degli scopi di liberalità, con la forma di esso, che è quella dell'atto pubblico ad substantiam.
2. Da tale premessa deriva che, al di là della validità del negozio giuridico che le parti intendevano porre in essere,
l'atto pubblico rogato dal pubblico ufficiale, destinato a rivestire del crisma della prova privilegiata la volontà dispositiva delle parti, non può qualificarsi come inesistente, dovendosi ritenere tale solo quello che sia privo dei requisiti essenziali previsti per la sua riconoscibilità (Sez. 5, n. 11714 del 10/10/1997, Lipizer, Rv. 209271+.
Al riguardo vale sottolineare che
la fonte della competenza per i segretari comunali a stipulare atti negoziali è da individuare nell'art 97, lett. c), del d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (T.U. delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), il quale ha statuito che questi possono «rogare tutti i contratti nei quali l'ente è parte ed autenticare scritture private ed atti unilaterali nell'interesse dell'ente». Sicché, alla stregua della disciplina richiamata, il segretario comunale è l'ufficiale rogante del Comune, e cioè il funzionario dell'ente locale competente alla stipulazione dei contratti in alternativa al notaio.
Il contratto stipulato con l'osservanza della 'forma pubblica amministrativa' -che è quella in cui l'ufficiale rogante è proprio il segretario comunale- è atto pubblico (art. 2699 cod. civ.; art. 16, comma 3, R.D. 18.11.1923 n. 2440) dotato dell'efficacia propria di questo (art. 2700 cod. civ.), trattandosi di documento ricevuto da pubblico ufficiale diverso da notaio autorizzato per legge ad attribuirgli pubblica fede.
Poiché non è dettata un'espressa disciplina sulle formalità dei contratti stipulati in forma pubblica amministrativa, limitandosi l'art. 96 del R.D. 23.05.1924, n. 827 (Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato), a stabilire che detti contratti "sono ricevuti con l'osservanza delle norme prescritte dalla legge notarile per gli atti notarili, in quanto applicabili", deve inferirsi che trovi conferma la tradizionale impostazione che considera l'atto notarile quale schema paradigmatico di atto pubblico.
Da quanto sin qui riferito emerge che non può dubitarsi della riconoscibilità come atto pubblico del rogito della donazione tra le parti contraenti compiuto dal segretario comunale di Pianello del Lario, lo stesso essendo annullabile -mancando della sottoscrizione del donatario, pur dato per presente alla stipula del contratto di donazione- o al più nullo, ove ritenuto contrario a norme imperative della legge notarile -perché, ad esempio, non letto alle parti comparenti-, ma, ciò nondimeno, capace di produrre affidamento e di spiegare effetti giuridici sino a quando non venga rimosso dall'universo giuridico.
3. Posto, allora, che la tesi difensiva -che vuole che tale atto non sia suscettivo di falso, perché privo della possibilità di generare nocumento del bene giuridico tutelato dalla legge penale, cioè la fede pubblica, (secondo il noto bocardo non datur falsum in scriptura quae non est apta nocere)- non può dirsi fondata,
deve riconoscersi che le attestazioni contrarie al vero contenute nell'atto pubblico di cui al caso censito -ricadenti sulle circostanze che tutte le parti del contratto fossero presenti; che dell'atto fosse stato data lettura e che lo stesso fosse stato sottoscritto dai donanti e dalla parte donataria al cospetto del pubblico ufficiale rogante- tradiscono la funzione autenticativa e certificativa che è propria del pubblico ufficiale equiparato al notaio e sono, in sé, capaci di ledere il bene giuridico della fede pubblica e dell'affidamento dei terzi, poiché comprovano, con il crisma probatorio della verità, l'esistenza di un fatto in realtà inesistente. E ciò è sufficiente ai fini della configurazione del contestato reato di falso ideologico (Sez. 5, n. 12693 del 10/02/2006, Perna, Rv. 234706; Sez. 5, n. 45295 del 07/07/2005, Capuano, Rv. 232722).
4. A ben vedere le deduzioni della ricorrente non sono neppure in linea con la teoria del cosiddetto 'falso innocuo', tenuto conto che, alla stregua di tale elaborazione,
il falso può dirsi inutile o superfluo, quando la condotta, pur incidendo sul significato letterale di un atto, non incide sul suo significato comunicativo (Sez. 5, n. 38720 del 19/06/2008, Rocca, Rv. 241936), nel senso che l'infedele attestazione (nel falso ideologico) o l'alterazione (nel falso di falso materiale) sono del tutto irrilevanti ai fini del significato dell'atto, non esplicando effetti sulla funzione documentale dell'atto stesso di attestazione dei dati in esso indicati (Sez. 5, n. 35076 del 21/04/2010, Immordino, Rv. 248395).
Dal che è agevole desumere che l'innocuità non deve essere valutata con, riferimento all'uso che dell'atto falso venga fatto, ma deve emergere dall'atto stesso (Sez. 5, n. 2809 del 17/10/2013 - dep. 21/01/2014, Ventriglia, Rv. 258946).
Poiché, nel caso scrutinato, la non conformità al vero delle circostanze attestate dal pubblico ufficiale rogante non è evincibile dall'atto-documento stesso, ma costituisce il risultato di un'attività accertativa aliunde eseguita, l'invocata innocuità del falso non ricorre.

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Terre e rocce da scavo - Criteri per qualificare le terre e rocce da scavo come sottoprodotti - Evoluzione normativa e modifiche del regime giuridico - Procedura semplificata - Redazione del Piano di Utilizzo - Concetto di "rifiuto" - Opere sottoposte a VIA o ad AIA - Fattispecie: Lavori di sbancamento, scavo e movimento terra - D.P.R. 13/06/2017, n. 120 - Artt. 183, 184-bis, 186, 256 e 260 d.lgs. n. 152/2006.
L'art. 183, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 152 del 2006 definisce il concetto di "rifiuto" nei termini di "qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione ovvero l'obbligo di disfarsi".
Nel caso delle rocce e terre da scavo, tuttavia, il legislatore ha adottato un regime speciale, onde attribuire, anche, ai soggetti che svolgono attività edilizia una più ampia possibilità di riutilizzo del materiale di risulta delle operazioni di costruzione.
Nondimeno, nessun dubbio ricorre in ordine alla circostanza che, pur dopo la recente modifica introdotta dal D.P.R. n. 120 del 2017 sia comunque obbligatorio che si proceda:
   a) per le terre e rocce da scavo derivanti da opere sottoposte a VIA o ad AIA con produzione maggiore di 6.000 m3 secondo un regime simile a quello previsto dal D.M. n. 161/2012, attraverso la redazione del Piano di Utilizzo che deve comunque contenere l'autocertificazione dei requisiti di sottoprodotto (all. 6);
   b) per le terre e rocce da scavo da riutilizzare prodotte in misura inferiore ai 6.000 m3, in cantieri riguardanti opere sottoposte o meno a VIA o ad AIA, nonché in siti di grandi dimensioni (con produzione superiore ai 6000 m3, non sottoposti a VIA o AIA), è invece prevista una procedura semplificata attraverso una dichiarazione di autocertificazione attestante il rispetto dei requisiti di cui all'art. 4 presentata dal produttore all'Arpa territorialmente competente e al Comune del luogo di produzione (autorità competente nel caso di "cantieri di grandi dimensioni") utilizzando i modelli previsti dagli allegati 6­7­8 del D.P.R..
RIFIUTI - Nuova disciplina della gestione delle terre e rocce da scavo - Criteri e presupposti - Qualifica di sottoprodotti - Esclusione dalla disciplina dei rifiuti.
La nuova disciplina della gestione delle terre e rocce da scavo prevede:
   1) la gestione delle terre e rocce da scavo qualificate come sottoprodotti, ai sensi dell'art. 184-bis, del d.lgs. n. 152 del 2006, provenienti da cantieri di piccole dimensioni, di grandi dimensioni e di grandi dimensioni non assoggettati a VIA o a AIA, compresi quelli finalizzati alla costruzione o alla manutenzione di reti e infrastrutture;
   2) la disciplina del deposito temporaneo delle terre e rocce da scavo qualificate rifiuti;
   3) l'utilizzo nel sito di produzione delle terre e rocce da scavo escluse dalla disciplina dei rifiuti;
   4) la gestione delle terre e rocce da scavo nei siti oggetto di bonifica.
Inoltre, le terre e rocce da scavo per essere qualificate come sottoprodotti devono soddisfare i seguenti requisiti:
   a) sono generate durante la realizzazione di un'opera, di cui costituiscono parte integrante e il cui scopo primario non è la produzione di tale materiale;
   b) il loro utilizzo è conforme alle disposizioni del piano di utilizzo di cui all'articolo 9 o della dichiarazione di cui all'articolo 21, e si realizza: 1) nel corso dell'esecuzione della stessa opera nella quale è stato generato o di un'opera diversa, per la realizzazione di reinterri, riempimenti, rimodellazioni, rilevati, miglioramenti fondiari o viari, recuperi ambientali oppure altre forme di ripristini e miglioramenti ambientali; 2) in processi produttivi, in sostituzione di materiali di cava;
   c) sono idonee ad essere utilizzate direttamente, ossia senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
   d) soddisfano i requisiti di qualità ambientale espressamente previsti dal Capo Il o dal Capo III o dal Capo IV del presente regolamento, per le modalità di utilizzo specifico di cui alla lettera b) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.02.2018 n. 8026 - link a
www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La riduzione della fascia di rispetto cimiteriale eccezionalmente è ammissibile anche per edifici privati e non solo per quelli pubblici.
Riguardo all’istanza di riduzione della fascia di rispetto, va osservato che il limite ordinario della stessa resta sempre 200 metri, essendo previsto “ex lege” non solo per esigenze igienico sanitarie, ma anche per consentire futuri ampliamenti cimiteriali; ampliamenti che sarebbero invece preclusi se il centro abitato si avvicinasse eccessivamente.
L’amministrazione comunale non ha quindi il potere di stabilire, attraverso propri atti pianificatori, fasce di rispetto ordinarie inferiori tale limite; fasce che legittimerebbero così interventi edilizi indeterminati e realizzabili “de futuro” entro la distanza compresa tra i 50 e 200 metri dal cimitero.
Possono solo essere concesse deroghe “una tantum” in relazione agli specifici interventi contemplati dai commi 4 e 5 del citato art. 338 e qualora sussistano i relativi presupposti.
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Il Comune deve ancora pronunciarsi definitivamente sull’istanza di condono edilizio valutando l’eventuale possibilità di concedere la deroga “una tantum” in applicazione dell’art. 338, comma 5, del Rd n. 1265/1934, secondo cui: “Per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici”.
Al riguardo è pur vero che l’orientamento maggioritario della giurisprudenza amministrativa ritiene, in via di principio, applicabile tale deroga solo per interventi di interesse pubblico, ma potrebbero tuttavia esistere anche situazioni particolari e inidonee per interferire con le esigenze di tutela cui la fascia di rispetto è preordinata; situazioni che potrebbero quindi legittimare la deroga “una tantum” anche in favore di interventi di edilizia privata.
Nel caso specifico potrebbero infatti assumere rilevanza non solo l’insussistenza di problematiche igienico sanitarie, ma anche la particolare conformazione dei luoghi che sembra caratterizzata da forte pendenza forse incompatibile con l’eventuale ampliamento del cimitero sul lato che qui interessa.
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1. I ricorrenti allegano di essere comproprietari, in località Fiorenzuola di Focara del comune di Pesaro, di una casetta di civile abitazione ubicata a circa 60 metri dal locale cimitero.
Allegano, inoltre, che l’immobile venne costruito nel 1975. Nell’anno successivo venne realizzato un garage, con ulteriore ampliamento della casa nel 1983.
Nell’anno 2013 il comune deliberava l’ampliamento del cimitero in applicazione delle norme derogatorie di cui all’art. 338, comma 4, del Rd n. 1265/1934, trattandosi di opere da realizzare a meno di 200 metri dal centro abitato ma comunque ad una distanza superiore a 50 metri dallo stesso.
Collegandosi a tale circostanza, i ricorrenti, con istanza acquisita dal comune in data 16.01.2015, chiedevano che anche per il loro edificio fosse ridotta, da 200 a 50 metri, la fascia di rispetto cimiteriale di cui al citato art. 338; riduzione peraltro connessa con l’istanza di condono edilizio presentata in data 20.10.1986 e non ancora definita.
Con il provvedimento qui impugnato il comune riscontrava negativamente detta richiesta evidenziando che la fascia minima di 200 metri è prevista “ex lege” e non può essere ridotta attraverso provvedimenti amministrativi. Possono solo essere concesse deroghe per eventuali ampliamenti del cimitero, trattandosi di opere di pubblica utilità.
Il provvedimento concludeva, inoltre, comunicando ai ricorrenti che tali ragioni costituivano anche motivo ostativo all’accoglimento dell’istanza di condono.
Si è costituito il comune di Pesaro per resistere al gravame.
2. Con la prima censura viene dedotta violazione dell’art. 338, commi 4 e 5, del Rd n. 1265/1934, nonché eccesso di potere sotto svariati profili. In particolare viene dedotto che il comma 5 ammette la possibilità di ridurre la fascia di rispetto cimiteriale per dare esecuzione anche ad interventi urbanistici non meglio specificati (quindi comprendenti anche quelli privati), purché non vi ostino ragioni igienico sanitarie.
Di conseguenza, se il comune ha accertato che non sussistono impedimenti di tale natura per ampliare il cimitero verso il centro abitato, applicando allora un principio di reciprocità, le stesse conclusioni dovrebbero valere per l’ampliamento e la ristrutturazione di edifici privati verso il cimitero nel rispetto della fascia minima e assolutamente inderogabile di 50 metri.
Con il secondo e ultimo motivo vengono riproposte le medesime doglianze avverso il preavviso di rigetto dell’istanza di condono edilizio.
2.1 Entrambi i profili vanno disattesi.
2.2 Riguardo all’istanza di riduzione della fascia di rispetto, va osservato che il limite ordinario della stessa resta sempre 200 metri, essendo previsto “ex lege” non solo per esigenze igienico sanitarie, ma anche per consentire futuri ampliamenti cimiteriali; ampliamenti che sarebbero invece preclusi se il centro abitato si avvicinasse eccessivamente.
L’amministrazione comunale non ha quindi il potere di stabilire, attraverso propri atti pianificatori, fasce di rispetto ordinarie inferiori tale limite; fasce che legittimerebbero così interventi edilizi indeterminati e realizzabili “de futuro” entro la distanza compresa tra i 50 e 200 metri dal cimitero.
Possono solo essere concesse deroghe “una tantum” in relazione agli specifici interventi contemplati dai commi 4 e 5 del citato art. 338 e qualora sussistano i relativi presupposti.
Le ragioni di rigetto dell’istanza dei ricorrenti resistono alle censure qui dedotte.
2.3 Riguardo invece all’affermazione (pure contenuta nel provvedimento impugnato) secondo cui le medesime ragioni, assunte a fondamento del diniego di riduzione della fascia di rispetto, non avrebbero consentito l’accoglimento della domanda di condono edilizio presentata in data 20.10.1986, va osservato che tale precisazione non ha effetti provvedimentali, ma ha natura di preavviso di rigetto ex art. 10-bis della Legge n. 241/1990.
Tanto è vero che l’amministrazione comunale riferisce che il relativo procedimento non si è ancora concluso. Di conseguenza trova applicazione il divieto cognitivo di questo giudice ex art. 34, comma 2, c.p.a., trattandosi di poteri non ancora esercitati.
Il Comune dovrà quindi pronunciarsi definitivamente sull’istanza di condono considerando le argomentazioni, dedotte con l’odierno ricorso, al pari di memorie procedimentali presentate dagli interessati, valutando quindi l’eventuale possibilità di concedere la deroga “una tantum” in applicazione dell’art. 338, comma 5, del Rd n. 1265/1934, secondo cui: “Per dare esecuzione ad un'opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici”.
Al riguardo è pur vero che l’orientamento maggioritario della giurisprudenza amministrativa ritiene, in via di principio, applicabile tale deroga solo per interventi di interesse pubblico (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, 13.12.2017, n. 5873), ma potrebbero tuttavia esistere anche situazioni particolari e inidonee per interferire con le esigenze di tutela cui la fascia di rispetto è preordinata; situazioni che potrebbero quindi legittimare la deroga “una tantum” anche in favore di interventi di edilizia privata.
Nel caso specifico potrebbero infatti assumere rilevanza non solo l’insussistenza di problematiche igienico sanitarie, ma anche la particolare conformazione dei luoghi che sembra caratterizzata da forte pendenza forse incompatibile con l’eventuale ampliamento del cimitero sul lato che qui interessa.
Sotto quest’ultimo profilo i ricorrenti allegano infatti che il loro edificio è ubicato ad una quota inferiore, di circa 25 metri, alla quota altimetrica del cimitero, nonostante si trovi ad una distanza planimetrica di soli 60 metri (si tratterebbe, quindi, di una pendenza superiore al 40%).
3. Il ricorso va pertanto conclusivamente respinto (TAR Marche, sentenza 19.02.2018 n. 125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
Sicché, “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
Se dunque il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
E’ dunque del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.

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1. I coniugi Pu.An. e Or.Ma., rappresentati e difesi dall’avv. Ma.Gi., con atto del 04.02.2015, hanno proposto ricorso straordinario per l’annullamento dell’ordinanza del Comune di Misterbianco del 29.09.2014, n. 141, di demolizione delle opere abusive indicate nelle premesse della citata ordinanza nonché per l’annullamento di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale.
1.1. I ricorrenti premettono che i Vigili urbani del Comune di Misterbianco nel verbale trasmesso il 25.11.2008 accertavano che gli stessi stavano realizzando, nell’ambito di un proprio fabbricato, una struttura definita “precaria” e consistente nell’accorpamento di una porzione di terrazza a livello con preesistente vano deposito.
...
8. Nel merito, il ricorso è infondato.
...
10. La questione sollevata dai ricorrenti nel secondo motivo di ricorso riguarda l’onere motivazionale che grava in capo all’amministrazione in sede di adozione di un’ingiunzione di demolizione e se in particolare, decorso un considerevole lasso di tempo dalla realizzazione dell’abuso, gravi in capo all’amministrazione un onere motivazionale aggiuntivo, che non resti limitato al solo richiamo alla normativa urbanistica violata e alla conseguente necessità di ripristinare l’ordine giuridico compromesso.
La questione è stata affrontata dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato che con sentenza del 17/10/2017 n. 9 ha statuito che nel caso di tardiva adozione del provvedimento di demolizione, la mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata.
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato enuncia, pertanto, il seguente principio di diritto: “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
Se dunque il decorso del tempo non può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
E’ dunque del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria (in tal senso: Cons. St., IV, 28.02.2017, n. 908).
In aderenza al superiore principio di diritto l’ordinanza di demolizione non presenta i dedotti vizi di legittimità (C.G.A.R.S., SS.RR., parere 16.02.2018 n. 66 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non vi è alcuna disposizione di legge in forza della quale la presentazione di una domanda di sanatoria, ordinaria o straordinaria che sia, comporti l’inefficacia del provvedimento sanzionatorio già emesso, in particolare dell’ordine di demolizione, ma ne sospende l’esecutività, precludendo all’Amministrazione di dare ulteriore corso al procedimento, attraverso l’accertamento dell’inottemperanza e l’acquisizione del bene al patrimonio comunale.
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1. I coniugi Pu.An. e Or.Ma., rappresentati e difesi dall’avv. Ma.Gi., con atto del 04.02.2015, hanno proposto ricorso straordinario per l’annullamento dell’ordinanza del Comune di Misterbianco del 29.09.2014, n. 141, di demolizione delle opere abusive indicate nelle premesse della citata ordinanza nonché per l’annullamento di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale.
1.1. I ricorrenti premettono che i Vigili urbani del Comune di Misterbianco nel verbale trasmesso il 25.11.2008 accertavano che gli stessi stavano realizzando, nell’ambito di un proprio fabbricato, una struttura definita “precaria” e consistente nell’accorpamento di una porzione di terrazza a livello con preesistente vano deposito.
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8. Nel merito, il ricorso è infondato.
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11. In ordine al terzo motivo di ricorso, con cui i ricorrenti rilevano di avere presentato istanza ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001 anche in relazione al manufatto realizzato ex art. 20 l.r. n. 4/2003, premesso che l’asserita sanabilità delle opere non esclude la legittimità dell’ordinanza di demolizione attesa la sua natura vincolata, va ribadito quanto già affermato nel parere interlocutorio del 23.05.2017.
In tale parere il Consiglio ha statuito, riportandosi a propria giurisprudenza, che non vi è alcuna disposizione di legge in forza della quale la presentazione di una domanda di sanatoria, ordinaria o straordinaria che sia, comporti l’inefficacia del provvedimento sanzionatorio già emesso, in particolare dell’ordine di demolizione, ma ne sospende l’esecutività, precludendo all’Amministrazione di dare ulteriore corso al procedimento, attraverso l’accertamento dell’inottemperanza e l’acquisizione del bene al patrimonio comunale (C.G.A, sez. riun., 13.06.2017, n. 803/2015) (C.G.A.R.S., SS.RR., parere 16.02.2018 n. 66 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Trasporto rifiuti: a quali condizioni è possibile usare mezzi nuovi rispetto a quelli previsti nell’iscrizione all’Albo Gestori?
In materia di gestione di rifiuti, l'iscrizione all'Albo dei gestori ambientali (di cui all’art. 212 del D.L.vo 152/2006) per le imprese che effettuano trasporto di rifiuti abilita allo svolgimento dell'attività soltanto con riferimento ai mezzi di trasporto oggetto di specifica comunicazione, essendo necessario accertare che i mezzi di trasporto siano idonei per la tipologia di rifiuti oggetto dell'attività.
Secondo quanto stabilito dall’art. 18 del D.M. 140/2014, infatti, nel caso di variazione dell’iscrizione per incremento della dotazione dei veicoli, le imprese devono, ai fini dell'immediata utilizzazione dei veicoli stessi, allegare alla comunicazione di variazione una specifica dichiarazione. Solamente in tal caso è, allora, consentito l'immediato utilizzo dei nuovi veicoli prima che l'autorità preposta deliberi sulla variazione.
Diversamente, in assenza di tale dichiarazione l’utilizzo di un mezzo di trasporto diverso da quello comunicato in sede di iscrizione, o di variazione, fa sì che l’attività risulti esercitata in carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni, integrando il reato di cui all’art. 256, comma 4, del D.L.vo 152/2006.
Inoltre, lo specifico accertamento da compiersi ai fini dell'iscrizione all'Albo dei gestori ambientali, con riferimento all'idoneità dei mezzi al trasporto dei rifiuti, vale a maggior ragione per i rimorchi, le cui caratteristiche tecniche debbono essere valutate ai fini di accertare che il trasporto possa svolgersi in condizioni di sicurezza per l'ambiente
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2018 n. 6739 - massima tratta da www.tuttoambiente.it).
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1. Il primo motivo del ricorso proposto dai signori Ar. e Ri. è
infondato e l'impugnazione proposta sul punto deve pertanto essere respinta.
L'art. 12, comma 3, d.m. 28.04.1998, n. 406 (Regolamento recante norme di attuazione di direttive dell'Unione europea, avente ad oggetto la disciplina dell'Albo nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti), vigente al momento dei fatti, prevedeva che nella domanda di iscrizione all'Albo dei gestori ambientali, le imprese intenzionate a svolgere attività di trasporto di rifiuti allegassero, tra l'altro, copia autentica della carta di circolazione dei mezzi di trasporto impiegati, documentazione attestante la loro disponibilità da parte del richiedente ed una perizia giurata, redatta da un professionista iscritto all'albo (ingegnere, chimico o medico igienista), attestante l'idoneità dei mezzi stessi in relazione ai rifiuti da trasportare.
A norma del successivo art. 15, dopo l'iscrizione le imprese avevano l'obbligo di comunicare alle sezioni regionali o provinciali, entro trenta giorni, ogni variazione delle specifiche tecniche inerenti l'iscrizione stessa, tra cui certamente rientravano -per le imprese di trasporto rifiuti- quelle relative ad eventuali nuovi mezzi di trasporto utilizzati.
Sostituendo, con effetto dal 07.09.2014, il d.m. 406/1998, il nuovo regolamento approvato con d.nn. 03.06.2014, n. 120 conferma sostanzialmente le previgenti statuizioni, prevedendo, all'art. 15, comma 3, lett. a) e b), per le imprese e gli enti che intendano effettuare attività di raccolta e trasporto di rifiuti su strada, che la domanda di iscrizione sia tra l'altro corredata da un'attestazione -redatta non più da un professionista, ma dal responsabile tecnico dell'impresa o dell'ente- circa l'idoneità dei mezzi di trasporto in relazione ai tipi di rifiuti da trasportare e della copia conforme all'originale della carta di circolazione dei veicoli unitamente all'eventuale documentazione che, in caso di intestatario della carta di circolazione diverso dal richiedente l'iscrizione, attesti la piena ed esclusiva disponibilità dei veicoli in capo a quest'ultimo.
Il successivo art. 18 d.m. 140/2014 fissa alle imprese ed agli enti il termine di trenta giorni per comunicare alla sezione regionale o provinciale competente ogni atto o fatto che comporti modifica dell'iscrizione all'Albo, specificando che, nel . caso di variazione per incremento della dotazione dei veicoli, le imprese, ai fini dell'immediata utilizzazione dei veicoli stessi, alleghino alla comunicazione di variazione una dichiarazione, sostitutiva dell'atto di notorietà resa ai sensi del d.P.R. 28.12.2000, n. 445, secondo il modello approvato con deliberazione del Comitato nazionale.
Quest'ultima disposizione -non contemplata nel d.m. 406/1998- ha l'unico effetto di consentire l'immediato utilizzo dei nuovi veicoli prima che l'autorità preposta deliberi sulla variazione, precisando l'art. 18, comma 5, d.m. 140/2014 che, altrimenti, prima della delibera, le imprese continuano ad operare sulla base del provvedimento d'iscrizione in loro possesso. Questa regola era già esplicitata -senza eccezioni- nell'art. 15, comma 4, d.m. 406/1998, il quale prevedeva che «le iscrizioni restano efficaci fino alla conclusione del procedimento di rinnovo».
Dalla disciplina regolamentare -vigente al momento dei fatti e successivamente confermata- si ricava in modo chiaro, pertanto, che l'iscrizione all'Albo dei gestori ambientali per le imprese che effettuano trasporto di rifiuti abilita allo svolgimento dell'attività soltanto con i mezzi di trasporto oggetto di specifica comunicazione. La previsione, del resto, non appare connotata da mero formalismo, essendo necessario accertare che i mezzi di trasporto siano idonei per la tipologia di rifiuti oggetto dell'attività.
Nel caso di impiego di un mezzo di trasporto diverso da quello comunicato in sede di iscrizione o di variazione il responsabile effettua dunque un'attività di gestione di rifiuti in «carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni» come previsto dall'art. 256, comma 4, d.lgs. 152/2006, ipotesi di reato che correttamente è stata ritenuta dal giudice di merito derubricando l'originaria contestazione mossa ai sensi del primo comma, lett. a), della stessa disposizione. La sentenza impugnata, d'altronde, ha fatto applicazione di un principio di diritto che era stato affermato con riguardo all'analoga previsione di cui all'art. 51, comma 4, d.lgs. 05.02.1997, n. 22 (v. Sez. 3, n. 5342 del 19/12/2007, Tanzarella e a., Rv. 238799).
Nessun dubbio, poi, che, ai fini della disciplina richiamata, tra i mezzi di trasporto rientrino non soltanto le motrici, ma anche i (semi)rimorchi. Per un verso, anche questi sono classificati veicoli (v. art. 47, comma 1, lett. i, cod. str.), definizione che appunto ricomprende «tutte le macchine di qualsiasi specie, che circolano sulle strade guidate dall'uomo» (art. 46 cod. str.); per altro verso, lo specifico accertamento da compiersi ai fini dell'iscrizione all'Albo dei gestori ambientali con riferimento all'idoneità dei mezzi al trasporto dei rifiuti vale a maggior ragione per i rimorchi, le cui caratteristiche tecniche debbono essere appunto valutate ai fini di accertare che il trasporto possa svolgersi in condizioni di sicurezza per l'ambiente. Diversamente da quanto si opina in ricorso, dunque, l'inosservanza è tutt'altro che insignificante sul piano dell'offensività.
Del tutto inconferente, poi, è il richiamo fatto in ricorso all'illecito, oggi depenalizzato, di cui all'art. 46, legge 06.06.1974, n. 298 (trasporti abusivi), riferito alla violazione della disciplina relativa all'autotrasporto di cose per conto di terzi, la quale ha oggettività giuridica differente da quella che viene qui in rilievo con la conseguenza che gli eventuali illeciti certamente concorrono.

APPALTI: Introduzione di elementi valutativi di dettaglio dopo la visione delle offerte tecniche.
Va censurata l’erronea condotta della commissione di gara, la quale ha dapprima aperto i plichi contenenti le offerte tecniche, prendendone visione del contenuto e in seguito, senza neppure procedere alla chiusura dei plichi, ha introdotto una serie di ulteriori previsioni di dettaglio dei criteri di valutazione delle stesse offerte tecniche indicati nella lettera di invito.
Tale modus procedendi, al di là della corretta qualificazione dei criteri introdotti dalla commissione, si pone comunque in contrasto con il principio della segretezza delle offerte, posto che gli elementi valutativi di dettaglio sono stati introdotti dopo che la commissione aveva preso visione del contenuto integrale delle offerte tecniche, senza che neppure risulti che i plichi siano stati nuovamente sigillati in vista della prosecuzione dell’attività della commissione;
Secondo pacifico insegnamento giurisprudenziale, perché sia violato il principio della segretezza delle offerte non è necessaria la dimostrazione dell’effettiva conoscenza delle offerte da parte della commissione, ma è sufficiente l’astratta conoscibilità delle stesse, quale effetto dell’apertura delle relative buste e della potenziale diffusione del loro contenuto
(massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.it)
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2.1 In primo luogo, deve affermarsi l’esistenza dell’interesse a ricorrere (ex art. 100 c.p.c., applicabile in forza dell’art. 39 del c.p.a.), in capo alla società esponente la quale, benché terza classificata, ha mosso una serie di censure (si veda il motivo n. 1), volte ad ottenere l’annullamento dell’intera procedura di gara, ai fini della riedizione della medesima, sicché si configura senza dubbio l’interesse a ricorrere nella forma dell’interesse strumentale alla rinnovazione della procedura (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 14.11.2017, n. 5246).
D’altronde, l’esponente ha anche censurato l’attribuzione del punteggio tecnico da parte della commissione di gara, rivendicando un punteggio maggiore che, se ottenuto, le consentirebbe di essere prima in graduatoria, il che conferma la sussistenza dell’interesse a ricorrere.
2.2 Nel merito il ricorso appare meritevole di accoglimento, per la fondatezza del primo motivo, in cui si denuncia l’erronea condotta della commissione di gara, la quale ha dapprima aperto i plichi contenenti le offerte tecniche, prendendone visione del contenuto e in seguito, senza neppure procedere alla chiusura dei plichi, ha introdotto una serie di ulteriori previsioni di dettaglio dei criteri di valutazione delle stesse offerte tecniche, criteri indicati nella lettera di invito (cfr. per il testo della stessa, il doc. 12 della ricorrente).
Infatti, come risulta pacificamente per tabulas, in data 09.12.2016, la commissione ha aperto tutti i plichi delle offerte tecniche ed ha verificato, per tutti i partecipanti, il numero massimo di pagine del progetto tecnico previsto dalla lettera di invito (venti facciate totali), la suddivisione dei progetti tecnici in capitoli corrispondenti ai criteri di valutazione (sempre come richiesto dalla lex specialis, cfr. il doc. 12 della ricorrente, pag. 12), oltre alla presenza di eventuali allegati ai citati progetti tecnici (cfr. il doc. 5 della ricorrente, copia del verbale n. 2 del 09.12.2016).
Nessun dubbio, quindi, che delle offerte tecniche sia stata presa analitica visione in data 09.12.2016, mentre nel corso della successiva seduta del 16.12.2016, la commissione ha introdotto una serie di parametri di dettaglio per la valutazione delle offerte (cfr. il doc. 7 della ricorrente, copia del verbale n. 3 del 16.12.2016), parametri che a detta della ricorrente hanno in ogni modo illegittimamente modificato i criteri della legge di gara (circostanza, questa, contestata decisamente dalla parte resistente).
Tale modus procedendi, al di là della corretta qualificazione dei criteri introdotti dalla commissione, si pone comunque in palese contrasto con il principio della segretezza delle offerte, posto che gli elementi valutativi di dettaglio sono stati introdotti dopo che la commissione aveva preso visione, una settimana prima, del contenuto integrale delle offerte tecniche, senza che neppure risulti che i plichi siano stati nuovamente sigillati in vista della prosecuzione dell’attività della commissione.
Sul punto preme evidenziare che, come noto, il principio di segretezza delle offerte assume valenza centrale nella disciplina dei contratti pubblici (essendo preposto alla tutela dell’imparzialità nelle operazioni di gara e della par condicio dei partecipanti), e che, secondo pacifico insegnamento giurisprudenziale: <<Perché sia violato il principio della segretezza delle offerte non è, infatti, necessaria la dimostrazione dell’effettiva conoscenza delle offerte da parte della nuova Commissione, ma è sufficiente l’astratta conoscibilità delle stesse, quale effetto dell’apertura delle relative buste e della potenziale diffusione del loro contenuto>> (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 24.11.2016, n. 4934 e TAR Puglia, Lecce, sez. II, n. 1191/2017).
Nel caso di specie, dopo l’apertura dei plichi delle offerte tecniche e l’integrale presa visione di queste ultime, la commissione ha introdotto elementi valutativi di dettaglio, fra l’altro non in un'unica occasione, ma in due distinte sedute, dapprima in data 16.12.2016 e poi in data 21.12.2016, fra l’altro assegnando parte del punteggio tecnico prima della seduta del 21.12.2016, quindi prima di avere esplicitato tutti i parametri di dettaglio (cfr. i documenti 7 e 9 della ricorrente), il che conferma l’illegittimità dell’operato della commissione, considerato che taluni parametri sono stati fissati non solo dopo la presa visione delle offerte ma addirittura dopo la parziale assegnazione del punteggio tecnico.
Ciò premesso, appare priva di pregio la tesi difensiva secondo cui nella citata seduta del 09.12.2016 la commissione si sarebbe limitata a prendere visione del contenuto dei plichi senza effettuare alcuna valutazione, giacché la semplice lettura del progetto tecnico –ai fini del controllo del numero di pagine e della corretta suddivisione in capitoli– già irrimediabilmente compromette il principio di segretezza, viziando così l’intera procedura di gara.
Il gravame in epigrafe deve quindi essere accolto, con assorbimento di ogni altra doglianza e con conseguente annullamento del provvedimento di aggiudicazione definitiva e della relativa graduatoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.02.2018 n. 399 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGODa risarcire il danno per il ritiro dell'incarico dirigenziale.
Nel pubblico impiego privatizzato, l'atto di ritiro, equivalendo a revoca del provvedimento di nomina, genera un inadempimento contrattuale suscettibile, dinanzi al giudice ordinario, di produrre danno risarcibile.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 02.02.2018 n. 2603.
La vicenda
Il ministero dei Beni culturali e paesaggistici aveva conferito l'incarico di direttore generale con sottoscrizione del contratto individuale per la durata di tre anni, ma a seguito del rifiuto della registrazione e del visto da parte della Corte dei conti, ha proceduto al “ritiro” dell'atto di conferimento in quanto non divenuto efficace.
Il ministero, tuttavia, a pochi giorni di distanza dal contratto sciolto, ha indetto la selezione per la copertura del posto dirigenziale vacante. Il Tribunale -e successivamente la Corte di Appello- hanno considerato l'atto inefficace e come tale, hanno giudicato legittimo il suo ritiro in coerenza con le indicazioni dei giudici amministrativi.
Il dirigente ha impugnato la sentenza in Cassazione e ha evidenziato come la sottoscrizione del contratto era di per se sola sufficiente a radicare il rapporto di lavoro tanto che la Pa ha illegittimamente sciolto il contratto mediante scelta unilaterale, non consentita dall'ordinamento in assenza della dovuta partecipazione o consenso dell'interessato.
Le motivazioni della riforma della sentenza
Secondo la Cassazione, la Corte territoriale ha errato nel considerare il provvedimento di nomina del dirigente inefficace, per mancanza del visto della Corte dei conti e, come tale, scioglibile in via unilaterale dalla Pa. A differenza, infatti, dell'ambito pubblicistico, il rapporto di lavoro concluso con la Pa soggiace alle regole del diritto privato: si tratta di atti negoziali cui sono collegate le sole norme di diritto privato.
In questo contesto, appare evidente che questi atti risultano esclusi da procedimenti e atti amministrativi, con la conseguenza che agli stessi non possono trovare applicazione ì principi e le regole proprie degli atti pubblicistici della Pa e, in particolare, le disposizioni dettate dalla legge 07.08.1990 n. 241.
Anche agli atti di conferimento di incarichi dirigenziali, pertanto, devono trovare applicazione i principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all'articolo 97 della Costituzione, dove la Pa è tenuta, fra l'altro, ad adottare adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e a esternare le ragioni che giustifichino le proprie scelte, sicché laddove questa regola non è stata rispettata, è configurabile un inadempimento contrattuale della Pa, suscettibile, dinanzi al giudice ordinario, di produrre danno risarcibile.
Nel caso di specie, pertanto, l'atto di conferimento dell'incarico dirigenziale è stato assunto dalla Pa con i poteri del privato datore di lavoro con la conseguenza che:
   a) la Pa ha illegittimamente proceduto a dare esecuzione al contratto prima della registrazione della Corte dei conti, assumendosi quindi ogni responsabilità inerente e conseguente alla eventuale mancata registrazione;
   b) con la sottoscrizione del contratto di lavoro la Pa ha creato una situazione idonea a ingenerare nel dirigente nominato il connesso legittimo affidamento sulla prosecuzione del rapporto, essendo a esclusivo carico della Pa l'onere di non mettere in esecuzione i provvedimenti soggetti al controllo preventivo della Corte dei conti fino alla conclusione del procedimento di controllo;
   c) la Pa ha interrotto il rapporto di lavoro con il dirigente senza l'obbligatoria partecipazione dello stesso alle decisioni prese in via unilaterale, con ciò violando le regole dei principi di imparzialità e di buon andamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.03.2018).
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MASSIMA
2. I tre motivi di ricorso -da esaminare insieme data la loro intima connessione- sono da accogliere, per le ragioni e nei limiti di seguito esposti, precisandosi, con riferimento al terzo motivo, che nella specie, ratione temporis, è applicabile l'art. 360, n. 5, cod. proc. civ., nel testo antecedente la sostituzione ad opera dell'art. 54 del decreto-legge 22.06.2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 134.
3. Deve essere, in primo luogo, precisato che:
   a)
in ambito pubblicistico, è suscettibile di "mero ritiro" un atto amministrativo che, per sua natura, sia destinato ad essere superato dall'emanazione dell'atto conclusivo del procedimento, a differenza della revoca di un atto amministrativo, la quale ha effetti durevoli ed essendo idonea ad ingenerare il connesso legittimo affidamento, presuppone, per legge, l'instaurazione del contraddittorio procedimentale e la motivazione del provvedimento stesso, ai sensi dell'art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990 (vedi, per tutte: Cons. Stato, Sez. III, sent. 07.07.2017, n. 3359; TAR Lazio Roma, Sez. H-ter, sent. 21.06.2017, n. 7206);
   b) d'altra parte,
è pacifico che "il visto della Corte dei Conti non è un elemento costitutivo del provvedimento amministrativo, ma è un atto autonomo che produce l'effetto di rendere efficace il provvedimento il quale, fino alla conclusione del procedimento di controllo, non può essere posto in esecuzione", sicché che "l'eventuale esecuzione di un atto prima della registrazione comporta l'assunzione di ogni responsabilità inerente e conseguente alla eventuale mancata registrazione" (ex plurimis: Cass. SU 24.10.1990, n. 10323; Cass. SU 18.07.1980, n. 4690; Cass. 08.07.2005, n. 14362; Corte dei conti, delibera n. 10/2009/P del 19.06.2009, pronunciata nell'Adunanza del 21.05.2009).
4.-
È jus receptum che, nel pubblico impiego contrattualizzato:
   a)
gli atti e procedimenti posti in essere dall'Amministrazione ai fini della gestione dei rapporti di lavoro subordinati dei dipendenti devono essere valutati secondo gli stessi parametri che si utilizzano per i privati datori di lavoro, in base ad una precisa scelta legislativa (nel senso dell'adozione di moduli privatistici dell'azione amministrativa) che la Corte costituzionale ha ritenuto conforme al principio di buon andamento dell'Amministrazione di cui all'art. 97 Cost. (sentenze n. 275 del 2001 e n. 11 del 2002), sicché, esclusa la presenza di procedimenti e atti amministrativi, non possono trovare applicazione ì principi e le regole proprie di questi e, in particolare, le disposizioni dettate dalla legge 07.08.1990, n. 241 (vedi, per tutte: Cass. SU 14.10.2009, n. 21744; Cass. 18.02.2005, n. 3360; Cass. 24.10.2008, n. 25761);
   b)
pure gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali -come quello di cui qui si discute- rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte dall'Amministrazione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro;
   c)
in tale ambito le norme contenute nell'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, obbligano l'Amministrazione datrice di lavoro al rispetto dei criteri di massima in esse indicati, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost., restando la scelta rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro (sia pure con il vincolo del rispetto di determinati elementi sui quali la selezione deve fondarsi), al quale non può sostituirsi il giudice, salvo che non si tratti di attività vincolata e non discrezionale (Cass. 23.09.2013, n. 21700 e Cass. 30.09.2009, n. 20979);
   d) ne deriva che,
in base agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all'art. 97 Cost., la PA è tenuta -fra l'altro- ad adottare adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle proprie scelte, sicché laddove tale regola non è rispettata, è configurabile un inadempimento contrattuale della PA, suscettibile, dinanzi al giudice ordinario, di produrre danno risarcibile (Cass. SU 23.09.2013, n. 21671; Cass. 14.04.2008, n. 9814; Cass. 12.10.2010, n. 21088);
   e)
poiché gli atti inerenti al conferimento degli incarichi dirigenziali sono da ascrivere alla categoria degli atti negoziali (e non a quella degli atti amministrativi in senso proprio), ad essi si applicano le norme del codice civile in tema di esercizio dei poteri del privato datore di lavoro, con la conseguenza che le situazioni soggettive del dipendente interessato possono definirsi in termini di "interessi legittimi", ma di diritto privato, come tali, pur sempre rientranti nella categoria dei diritti di cui all'art. 2907 cod. civ. e quindi suscettibili di tutela anche in  forma risarcitoria, non potendo, di regola, aversi un intervento sostitutivo del giudice ordinario, salvo i casi di attività vincolata e non discrezionale (vedi, fra le altre: Cass. 24.09.2015, n. 18972; Cass. 14.04.2015, n. 7495; Cass. 22.06.2007, n. 14624; Cass. 22.12.2004, n. 23760; Cass. SU 19.10.1998, n. 10370).
5. Nella presente fattispecie il MIBAC, dopo aver dato esecuzione al contratto concluso con lo Za., consentendone la presa di possesso ancor prima di aver ottenuto il visto della Corte dei conti, ha, con nota del 10.07.2008, rimosso l'interessato dall'incarico stesso, limitandosi a richiamare la Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 142/59222 del 25.01.2008, contenente i criteri da applicare da parte delle Pubbliche Amministrazioni per l'attribuzione di incarichi nel periodo di crisi, ma senza offrire alcuna spiegazione in merito alla scelta di revocare l'incarico così bruscamente senza neppure effettuare gli approfondimenti richiesti dalla Corte dei conti, offrendo così giustificazioni rispetto ai profili di illegittimità prospettati in sede di controllo preventivo di contabilità (Cass. SU 13.01.1994, n. 9386; Cons. Stato, 27.10.2005, n. 6031).
6. Ne consegue che -qualunque sia, nell'ambito del diritto amministrativo, la formale qualificazione attribuibile alla suindicata nota di anticipata rimozione dall'incarico-
quel che è certo è che:
   a)
la PA non solo ha illegittimamente proceduto a dare esecuzione al suddetto contratto prima della registrazione della Corte dei conti, assumendosi quindi ogni responsabilità inerente e conseguente alla eventuale mancata registrazione, come si è detto;
   b)
in tal modo la PA ha creato una situazione idonea ad ingenerare nello Zampino il connesso legittimo affidamento sulla prosecuzione del rapporto, essendo ad esclusivo carico della PA l'onere di non mettere in esecuzione i provvedimenti soggetti al controllo preventivo della Corte dei conti fino alla conclusione del procedimento di controllo;
   c)
senza che ne ricorressero le ragioni ai sensi della relativa disciplina (art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 e normativa collegata) il MIBAC ha poi bruscamente interrotto tale esecuzione con un atto ad effetti durevoli, che non poteva che essere adottato con adeguate forme di partecipazione al relativo processo decisionale e con l'esternazione delle ragioni giustificatrici nei suindicati termini, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all'art. 97 Cost.
7. Da tali osservazioni si desume che, diversamente da quanto si afferma nella sentenza impugnata, l'avvenuto inizio dell'esecuzione del contratto de quo prima della conclusione del procedimento di controllo, unitamente alla mancanza di una -necessaria- chiara ed esplicita esternazione delle ragioni giustificatrici poste a base della nota del 10 luglio 2008, costituiscono violazioni dei criteri di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., applicabili nei rapporti di pubblico impiego contrattualizzato alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all'art. 97 Cost., e sono pertanto suscettibili, dinanzi al giudice ordinario, di produrre danno risarcibile per inadempimento contrattuale della PA.
8. A ciò va aggiunto, sempre nell'ottica privatistica propria del presente giudizio, che non vi è alcuno spazio per ipotizzare una motivazione "per relationem" della nota anzidetta -secondo quanto, invece, si afferma nella parte finale della sentenza qui impugnata- per tutte la anzidette ragioni.
D'altra parte, va anche rilevato che la Corte territoriale, pur considerando la nota suddetta (implicitamente) giustificata dal rispetto delle misure assunzionali anti-crisi disposte dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, tuttavia si limita a riferire -senza alcun approfondimento al riguardo- che solo quattro giorni dopo la suddetta nota, con circolare del 14.07.2008, n. 745, venne disposto dal MIBAC che, a decorrere dall'01.09.2008, l'incarico dirigenziale in oggetto sarebbe stato messo a concorso, previa nomina ad interim di altro funzionario.
Non risultano, pertanto, chiarite da parte della Corte territoriale, le ragioni per le quali in così poco tempo la PA abbia considerato sussistenti (con riferimento ad un persona diversa dallo Za.) le condizioni per rispettare le misure anti-crisi in oggetto, quando poco prima lo stesso MIBAC aveva ritenuto di non dare alcuna risposta sul punto alla Corte dei conti (con riguardo allo Za.).
Per come si è svolta la presente vicenda, sarebbe stato senz'altro significativo avere chiarimenti a tale ultimo riguardo al fine di una migliore ricostruzione del complessivo comportamento del MIBAC alla luce dei canoni costituzionali di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.) e quindi degli artt. 1175 e 1375 cod. civ.
IV - Conclusioni
8. In sintesi, il ricorso deve essere accolto, per le ragioni e nei limiti dianzi indicati e con assorbimento di ogni altro profilo di censura.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Salerno, in diversa composizione, la quale si atterrà, nell'ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche al seguente: "
nell'ambito dell'impiego pubblico contrattualizzato, per gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali -che rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte dall'Amministrazione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro- in base agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all'art. 97 Cost., la PA è tenuta -fra l'altro- ad adottare adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle proprie scelte, sicché laddove tale regola non venga rispettata, è configurabile un inadempimento contrattuale della PA, suscettibile, dinanzi al giudice ordinario, di produrre danno risarcibile.
Ne consegue che se, illegittimamente, una Pubblica Amministrazione da esecuzione al contratto individuale di lavoro di un dirigente prima della registrazione del decreto di conferimento dell'incarico stesso da parte della Corte dei conti, si assume ogni responsabilità inerente e conseguente alla eventuale mancata registrazione.
Pertanto, secondo le suddette disposizioni, qualora la PA decida di procedere alla brusca revoca del suddetto incarico dirigenziale, anziché controdedurre ai rilievi formulati dalla Corte dei conti in sede di controllo preventivo, deve farlo mettendo l'interessato in condizione di intervenire nel relativo procedimento decisionale e di conoscere adeguatamente le ragioni poste a base della scelta operata.
Tale scelta, infatti, con effetti durevoli, risulta violativa del legittimo affidamento del destinatario dell'atto revocato sulla prosecuzione del rapporto, ingenerato dalla stessa PA, essendo ad esclusivo carico della PA l'onere di non mettere in esecuzione i provvedimenti soggetti al controllo preventivo della Corte dei conti fino alla conclusione del procedimento di controllo
".

APPALTI: Impugnativa dell’esito della gara da parte di concorrente legittimamente escluso.
E' inammissibile, per difetto di legittimazione, l’impugnativa dell’impresa che sia stata legittimamente esclusa dalla gara, dato che tale soggetto, per effetto dell’esclusione, rimane privo non soltanto del titolo a partecipare alla gara, ma anche a contestare gli esiti e la legittimità della scansioni procedimentali, dovendo il suo interesse protetto essere qualificato quale interesse di “mero fatto”, non dissimile da quello di qualsiasi operatore del settore che, non avendo partecipato alla gara, non ha titolo ad impugnarne gli atti (massima tratta da https://camerainsubria.blogspot.it)
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2. Ne consegue che anche le ulteriori censure non possono trovare accoglimento, per le ragioni che di seguito si espongono.
2.1. Innanzitutto, la prospettazione di parte appellante presuppone un inammissibile rovesciamento dell’ordine di trattazione dei motivi di censura come dedotti in primo grado, in forza del quale si pretende di anteporre alle altre censure, la doglianza preordinata all’annullamento dell’intera procedura di gara (e riferita in particolare alla composizione della Commissione), che nel ricorso di primo grado era invece posposta e subordinata rispetto alle censure riferite al provvedimento di esclusione.
2.2. Tale intendimento si pone in contrasto con il principio che fa obbligo al Giudice di rispettare l’ordine di graduazione dei motivi di gravame individuato dalla stessa parte ricorrente (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 5/2015).
2.3. Attenendosi a tale canone procedurale, del tutto correttamente il Giudice di prime cure ha esaminato e delibato, in via prioritaria, il primo motivo di censura prospettato dalla Ho.Se. S.r.l. (come integrato con la proposizione dei motivi aggiunti), riguardante l’asserita illegittima esclusione della predetta società dalla gara per mancato raggiungimento della soglia di sbarramento, posponendo ad esso le censure formulate contro l’ammissione dell’aggiudicataria e della seconda graduata, nonché quelle volte a comportare l’intera caducazione della procedura di gara.
2.4. D’altra parte, ponendosi l’esclusione come causa della perdita della legittimazione ad agire in giudizio, una ragione di ordine logico impone come prioritaria la contestazione dell’atto di esclusione, solo da essa potendo il ricorrente conseguire quel titolo giuridico di legittimazione all’azione (derivante da una valida partecipazione alla gara), in difetto del quale ogni altra doglianza non potrebbe essere avanzata.
2.5. La giurisprudenza è infatti ferma nel ritenere che, nel caso in cui l'amministrazione abbia escluso dalla gara il concorrente, questi non abbia la legittimazione ad impugnare gli atti di gara, a meno che non ottenga una pronuncia di accertamento della illegittimità dell'esclusione (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 4/2011).
2.6. Similmente, anche l'interesse strumentale alla caducazione e riedizione della gara può assumere rilievo solo dopo il positivo riscontro della legittimazione al ricorso (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 4/2011).
3. Va peraltro respinta la tesi secondo la quale, essendo la Ho.Se. S.r.l., al momento della nomina della Commissione di gara, un legittimo concorrente all’incanto, per ciò stesso essa può vantare la titolarità della legittimazione e dell’interesse, anche strumentale, ad agire in giudizio.
3.1. In dissenso da tale argomentazione e in aggiunta a quanto già esposto, occorre innanzitutto osservare che la legittimazione al ricorso va valutata all’atto della proposizione dell’azione, e a quell’epoca l’esclusione della ricorrente dalla gara era già intervenuta.
3.2. In secondo luogo, deve ribadirsi che nelle controversie riguardanti l’affidamento dei contratti pubblici, è carente di legittimazione ad agire il soggetto che non abbia mai partecipato alla gara, o che vi abbia partecipato ma che ne sia stato correttamente escluso (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 9/2014).
3.3. Ciò posto, per poter delibare la carenza di legittimazione, rileva ogni forma di estromissione dalla gara, anche se disposta in fasi successive all’atto iniziale di ammissione, ma comunque deputate (anche solo in senso logico) all'accertamento della regolare partecipazione del concorrente, anche sotto il profilo dei requisiti oggettivi dell’offerta (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 9/2014).
3.4. Sulla base di tale impostazione è stata esclusa la legittimazione ad agire di imprese escluse per inidoneità della offerta tecnica (Cons. Stato, sez. IV, n. 57/1986, richiamata da Cons. Stato, Ad. Plen. n. 4/2011), ipotesi alla quale può essere equiparata quella dell’impresa esclusa per mancato superamento della soglia di punteggio minimo attribuibile all’offerta tecnica medesima (cfr., in termini, Cons. Stato, 2852/2017).
3.5. Non vi è dunque margine, sotto questo aspetto, per differenziare tra le cause di esclusione, e in particolare tra quelle derivanti da carenze delle condizioni soggettive e quelle originate da altre cause -quali le carenze oggettive dell'offerta- poiché anche nel caso in cui l'atto di ammissione alla gara sia viziato per ragioni oggettive, riguardanti l'offerta in sé considerata, resta fermo il difetto di legittimazione del ricorrente principale (Cons. Stato, Ad. Plen. n. 4/2011).
3.6. Solo a valle della verifica sui titoli di partecipazione alla gara -così complessivamente intesi- si collocano quelle ulteriori valutazioni (finalizzate alla attribuzione di punteggi piuttosto che alla verifica dell’anomalia) che non incidono sulla legittimazione ad agire, in quanto presuppongono il superamento di ogni questione inerente la regolare presenza dell'impresa (o della sua offerta) nella gara (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 9/2014).
3.7. Tornando ai rilievi svolti dalla parte appellante, occorre dunque ribadire che la sua mera partecipazione “di fatto” alla gara -derivante da una iniziale ammissione poi superata da un provvedimento di esclusione- non è sufficiente ad attribuirle la legittimazione al ricorso, atteso che detta situazione legittimante deriva da una qualificazione di carattere normativo che postula il positivo esito del sindacato della ritualità dell’ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva.
3.8. Ne consegue che è inammissibile, per difetto di legittimazione, l’impugnativa dell’impresa, quale è l’appellante, che sia stata legittimamente esclusa dalla gara, dato che tale soggetto, per effetto dell’esclusione, rimane privo non soltanto del titolo a partecipare alla gara, ma anche a contestare gli esiti e la legittimità della scansioni procedimentali, dovendo il suo interesse protetto essere qualificato quale interesse di “mero fatto”, non dissimile da quello di qualsiasi operatore del settore che, non avendo partecipato alla gara, non ha titolo ad impugnarne gli atti (cfr., in particolare, Cons. Stato, sez. IV, n. 4180/2016; n. 3688/2016 e n. 1560/2016).
4. Per quanto esposto, deve ritenersi che la sentenza appellata meriti conferma e che debbano essere respinti, per le ragioni illustrate, tutti i motivi di impugnazione dedotti in appello (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.01.2018 n. 570 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Avendo il ricorrente prestato acquiescenza al provvedimento presupposto, secondo quanto si desume dalla circostanza che è stata abbandonata la coltivazione del ricorso giurisdizionale presupposto, avverso il diniego di condono, il ricorso straordinario nei confronti del provvedimento consequenziale, si palesa inammissibile.
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Con il ricorso straordinario sopra indicato, il sig. Ro.Gu. ha chiesto l’annullamento, previa sospensione, dell’ordinanza di cui in epigrafe, di ingiunzione a demolire un corpo di fabbrica ad elevazione f.t. in struttura metallica e copertura in eternit, della superficie di mq. 280, destinato a magazzino, sito alla via ... n. 38/A di quel Comune, in quanto costruito dopo il 09.05.1987, come risulta dai rilievi aero-fotografici agli atti.
Il ricorrente premette in fatto di aver avanzato richiesta di condono edilizio rispetto a due delle strutture del corpo di fabbrica, rispettivamente di mq. 190 circa e mq. 280 circa.
Con ordinanza sindacale del 09.03.1994 n. 92, avverso la quale ha proposto ricorso al Tar di Palermo, veniva disposto il diniego parziale di sanatoria per il solo vano di piano terra, in struttura metallica, destinato a magazzino.
...
Il ricorso in esame è da considerarsi ricevibile.
Essendo stata impugnata in sede giurisdizionale -avanti il TAR Palermo, con ricorso del 05.05.1994, notificato il 06.05.1994- l’ordinanza sindacale di diniego parziale della sanatoria, che costituisce l’atto presupposto del provvedimento impugnato oggi in sede straordinaria, questo Consesso ha ritenuto opportuno sospendere l’emissione del richiesto parere, in attesa di notizie in ordine al ricorso proposto davanti al Tar Palermo (parere n. 1093/1998 reso nell’adunanza del 10.04.2000).
L’Ufficio legislativo e legale della Presidenza regionale ha riferito che il ricorso giurisdizionale presupposto è stato dichiarato perento con decreto n. 5164/2010.
Per l’effetto nessun interesse residua, in capo al ricorrente, in ordine al presente gravame.
Invero, avendo sostanzialmente, il ricorrente, prestato acquiescenza al provvedimento presupposto, secondo quanto si desume dalla circostanza che è stata abbandonata la coltivazione del ricorso giurisdizionale presupposto, avverso il diniego di condono, il ricorso straordinario nei confronti del provvedimento consequenziale, si palesa inammissibile.
L’unico motivo autonomo di censura che residua, e cioè la mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento repressivo, non coglie nel segno, posto che secondo la consolidata giurisprudenza non è necessario dare l’avviso di avvio del procedimento che sfocia nell’adozione dell’ordine di demolizione.
Peraltro, la conoscenza del diniego di sanatoria, ha comunque consentito al ricorrente di acquisire conoscenza della volontà sanzionatoria dell’Ente resistente (C.G.A.R.S., SS.RR., parere 25.01.2018 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Violazione dei limiti: è necessaria la misurazione del rumore di fondo?
In materia di inquinamento acustico ed in applicazione del criterio differenziale tra rumore ambientale e rumore residuo, in assenza di una misurazione del rumore di fondo, effettuata nella fascia oraria nella quale si lamenta la violazione dei limiti differenziali (di cui ai DM 01.03.2001 e 14.11.1997), la prova dell’evento dannoso non può considerarsi raggiunta, e non possono, quindi, dirsi violati né i limiti legali assoluti, né quelli differenziali (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.01.2018 n. 1025 - massima tratta da www.tuttoambiente.it).
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Il ricorso, pur ammissibile, dovendosi rigettare la generica eccezione di inammissibilità, va rigettato.
Come dedotto, la sentenza ha rigettato le domande accogliendo la censura sull'impossibilità di misurare contemporaneamente rumore ambientale e rumore di fondo ed, in assenza di una misurazione del rumore di fondo, la prova dell'evento dannoso non poteva dirsi raggiunta.
La sentenza, invero, riporta la motivazione del primo giudice che, sulla base dell'esperita consulenza di ufficio, ha sancito un effettivo superamento del limite di cui al D.M. 01.03.1991, posto che, applicando il criterio differenziale tra rumore ambientale e rumore residuo, l'attività svolta dalla convenuta, era risultata incompatibile con i limiti di cui alla predetta normativa.
Riferisce del gravame sulla contestazione della ctu, considerate tardive dagli appellati, ma ritiene di accogliere la censura sulla scorta di valutazioni tecniche.
Va precisato che
è consentito al giudice, peritus peritorum, dissentire motivatamente dalle conclusioni del ctu, e nella specie si è argomentato che non sia possibile prendere, a base della misurazione relativa all'eventuale superamento dei limiti differenziali, un valore del rumore misurato 32 minuti prima dell'inizio e 92 minuti prima della fine del periodo considerato.
Se durante altri periodi della giornata può supporsi che il rumore di fondo rimanga relativamente costante, ciò contrasta anche con la comune esperienza per quello che riguarda l'orario tra le 5 e le 7 a.m., fascia durante la quale riprende la maggior parte delle attività umane dopo la pausa notturna né il valore assoluto delle immissioni sonore sarebbe così elevato da rendere palese il superamento del limite differenziale, posto che nei nove minuti intercorsi tra la misurazione delle 4.52 e quella delle 5.01, il valore di Leq del rumore ambientale aumenta di ben 7,60 punti e non appare implausibile che nella successiva mezz'ora sia aumentato di quegli ulteriori 4 punti che renderebbero del tutto lecite le immissioni sonore della BL Color e si è concluso che,
in assenza di una misurazione del rumore di fondo effettuata nella fascia oraria nella quale si lamentava la violazione dei limiti differenziali, la prova dell'evento dannoso non poteva dirsi raggiunta e che non fossero stati violati i limiti legali assoluti né quelli differenziali.
Trattasi di valutazione di fatto insindacabile, essendosi spiegato perché le conclusioni del ctu non apparivano attendibili e l'inutilità di disporre la rinnovazione della ctu a causa del mutamento dei luoghi (pagina otto) per cui era da escludere, in virtù dei poteri discrezionali riconosciuti al giudice, un supplemento di indagine.
Le censure, pertanto, non sono risolutive, essendosi motivatamente dissentito dalle conclusioni del ctu.

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Rifiuti provenienti da lavori di ristrutturazione costituiti da asfalto e roccia da scavo - Illecita gestione e concorso nel reato - Responsabilità anche chi ha messo a disposizione il luogo in cui i rifiuti sono scaricati - Unitarietà del fatto collettivo - Contributo causale imprescindibile - Art. 256, cc. 1 e 2 d.lgs. n. 152/2006.
Anche in materia di rifiuti, affinché si configuri il concorso nel reato è sufficiente rilevare l'unitarietà del fatto collettivo realizzato (nella specie, in violazione del precetto di cui all'art. 256 d.lgs. 152/2006 in concorso con gli altri coimputati, concretizzatasi in un contributo causale imprescindibile alla realizzazione del fatto delittuoso finale, tale essendosi rivelata nell'economia dell'intera operazione la messa a disposizione del luogo in cui i rifiuti sono stati scaricati, legittimamente iscrivibile nello schema di cui agli artt. 110 ss c.p.) (fattispecie: trasporto ed abbandono abusivo all'interno di una cava dismessa di rifiuti provenienti da lavori di ristrutturazione costituiti da asfalto e roccia da scavo in concorso, quale figlio della proprietaria della cava ed esecutore dei lavori di messa in sicurezza delle scarpate, con il conducente dell'autocarro adibito al trasporto ed il proprietario di quest'ultimo, nonché titolare dell'omonima ditta) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2018 n. 1570 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Appaltatore o committente: chi è il produttore dei rifiuti?
Nel caso di un’attività di gestione di rifiuti prodotti nell’ambito di un contratto di appalto, è sempre l’appaltatore il titolare degli gli obblighi connessi al corretto smaltimento degli stessi, sicché sarà lui a rispondere dell’eventuale gestione non autorizzata di tali rifiuti, di cui all’art. 256 del D.L.vo 152/2006.
Questo in quanto è l’appaltatore, che provvede al compimento dell’opera o alla prestazione del servizio, al quale è vincolato, organizzando i mezzi necessari e gestendo l’intera attività a proprio rischio, il produttore dei rifiuti derivanti dallo svolgimento della sua prestazione contrattuale.
Tuttavia, nel caso in cui vi sia ingerenza, o controllo diretto dei lavori, da parte del committente, i relativi obblighi connessi alla gestione di tali rifiuti si estendono anche a suo carico (nel caso di specie, l’assenza di un tale diretto coinvolgimento da parte del committente nella esecuzione delle opere appaltate ha condotto all’esclusione della sua responsabilità)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.01.2018 n. 223 - massima tratta da www.tuttoambiente.it).
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Tanto premesso osserva il Collegio, quanto alla posizione della Si., che il Tribunale di Locri ha argomentato la responsabilità della medesima sulla sola base della qualità di committente dei lavori edili in corso di esecuzione dal parte del Ti. ed all'esito dei quali sono stati prodotti i rifiuti che lo stesso stava trasportando al momento in cui è stato sorpreso dagli agenti del Corpo forestale dello Stato; posizione soggettiva, quella di committente dei lavori e, pertanto, appaltante degli stessi, da cui il Tribunale ha fatto discendere in termini di immediato automatismo, la attribuzione della qualifica di soggetto produttore dei rifiuti.
Siffatta ricostruzione è, però, palesemente in contrasto con i consolidati orientamenti giurisprudenziali della Corte; come è stato, infatti, in più circostanze da questa Corte affermato e ribadito,
in ipotesi di esecuzione di lavori attraverso un contratto di appalto, è l'appaltatore che -per la natura del rapporto contrattuale da lui stipulato ed attraverso il quale egli è vincolato al compimento di un'opera o alla prestazione di un servizio, con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio dell'intera attività- riveste generalmente la qualità di produttore del rifiuto; da ciò ne deriva che gravano su di lui, ed in linea di principio esclusivamente su dì lui, gli obblighi connessi al corretto smaltimento dei rifiuti rivenienti dallo svolgimento della sua prestazione contrattuale, salvo il caso in cui, per ingerenza o controllo diretto del committente sullo svolgimento dei lavori, i relativi obblighi si estendano anche a carico di tale soggetto (Corte di cassazione, Sezione III penale, 16.03.2015, n. 11029).

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